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G.C.S.I. Giornale Critico di Storia delle Idee Direzione editoriale: Andrea Tagliapietra e Sebastiano Ghisu Rivista internazionale di filosofia Semestrale, Anno 4, numero 8, 2012 - aut. del Tribunale di Sassari n.455 del 14/7/2008 ISSN 2240-7995 ISBN: 978-88-96732-84-7 Direttore responsabile: Francesco Pala Redazione: Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell'Università degli studi di Sassari, Piazza Conte di Moriana 8, 07100 Sassari Che cos’è la storia critica delle idee? Vedi, allora, quel platano altissimo? Là c’è ombra e un venticello giusto, e anche erba per metterci a sedere o, se vogliamo, persino per star distesi. (Platone, Fedro, 229 A-B)

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G.C.S.I. Giornale Critico di Storia delle Idee

Direzione editoriale: Andrea Tagliapietra e Sebastiano Ghisu

Rivista internazionale di filosofia Semestrale, Anno 4, numero 8, 2012 - aut. del Tribunale di Sassari n.455 del 14/7/2008 ISSN 2240-7995

ISBN: 978-88-96732-84-7 Direttore responsabile: Francesco Pala

Redazione: Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell'Università degli studi di Sassari, Piazza Conte di Moriana 8, 07100 Sassari

Che cos’è la storia critica delle idee?

Vedi, allora, quel platano altissimo? Là c’è ombra e un venticello giusto, e anche erba per metterci a sedere o, se vogliamo, persino per star distesi. (Platone, Fedro, 229 A-B)

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E-mail: [email protected]

Redazione Sassari Composizione: Mario M. Bosincu, Giovanni Campus, Gian Paolo Cherchi, Andrea Dezi, Andrea Oppo, Francesco Pala (direttore responsabile), Alessandra Pigliaru (caporedattrice), Guido Seddone. Indirizzo: Giornale Critico di Storia delle Idee, c/o Dipartimento di Storia, Scienze dell’uomo e della formazione, Università degli Studi di Sassari, Piazza Conte di Moriana, 8 - 07100 Sassari

Redazione Milano Composizione: Raffaele Ariano, Enrico Cerasi, Diego Fusaro (caporedattore), Romano Gasparotti, Alfredo Gatto, Antonio Moretti, Paolo Salandini Indirizzo: Giornale Critico di Storia delle Idee, c/o Centro di Ricerca Interdisciplinare di Storia delle Idee (CRISI), Università Vita-Salute San Raffaele - Milano, DIBIT 1 - Via Olgettina, 58 - 20132 MILANO

Comitato scientifico Simonetta Bassi (Università di Pisa), Gavina Cherchi (Università di Sassari), Pierpaolo Ciccarelli (Università di Cagliari), Francesca Crasta (Università di Cagliari), Stefano Cristante (Università di Lecce), Massimo Donà (Università Vita e Salute san Raffaele Milano), Giulio d’Onofrio (Università di Salerno), Gianfranco Ferrari (Università di Trento), Sebastiano Ghisu (Università di Sassari), Paola Giacomoni (Università di Trento), Giuseppe Girgenti (Università Vita e Salute san Raffaele Milano), Michela Marzano (Université Paris V), Carmelo Meazza (Università di Sassari), Salvatore Natoli (Università di Milano Bicocca), Nicola Pasqualicchio (Università di Verona), Hans Bernard Schmid (Universität Basel), Emidio Spinelli (Università La Sapienza di Roma), Pirmin Stekeler-Weithofer (Universität Leipzig), Andrea Tagliapietra (Università Vita e Salute san Raffaele Milano), Mauro Visentin (Università di Sassari), Günter Zöller (Ludwig-Maximilians-Universität München). Procedura di verifica e revisione I membri del Comitato scientifico fungono da revisori. Ogni saggio pervenuto al Giornale Critico di Storia delle Idee, dopo una lettura preliminare da parte della redazione, è infatti sottoposto alla valutazione dei membri del comitato scientifico (due per ogni scritto). Questi possono ritenerlo: 1. adeguato alla pubblicazione, senza richiesta di modifiche; 2. adeguato, ma solo dopo alcune revisioni minime; 3. adeguato, ma solo dopo alcune revisioni importanti; 4. inadeguato. Si prega di inviare eventuali proposte di pubblicazione al seguente indirizzo: [email protected]

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Copyright © 2012 IPOC di Pietro Condemi Italy Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, distribuita o trasmessa in qualsivoglia forma, incluse la fotocopia, la registrazione o altri metodi elettronici o meccanici, senza l’autorizzazione scritta dell’Editore, a eccezione di brevi citazioni incorporate in recensioni o altri usi non commerciali permessi dalla legge sul copyright. Per richieste di permessi, contattare in forma scritta l’Editore al seguente indirizzo: IPOC Viale Martesana, 159 I – 20090 Vimodrone MI Tel.: 0236550461 Fax.: 0236550461 [email protected] www.ipocpress.com Stampato in Gran Bretagna e Stati Uniti su carta esente da acidi ISBN: 978-88-96732-84-7 ISSN: 2240-7995R.O.C. 18427

Tutti i numeri sono disponibili:

in formato paperback;

come singolo saggio in formato elettronico PDF/X-1a: 2001;

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Indice

Laboratorio…………………………………………………………………….. pag. 7

Dire la verità. L'insistenza della critica di Andrea Tagliapietra……………………………………………………………. pag. 9 Per una storia critica delle idee di Sebastiano Ghisu………………………………………………………………. pag. 19 Foucault e la storia critica del pensiero di Raffaele Ariano……………………………………………………………….... pag. 27 La noologia come critica delle immagini del pensiero: un contributo deleuziano alla Storia Critica delle Idee.

di Antonio Moretti………………………………………………………………... pag. 51 Un pensiero critico dentro le pratiche di Mario Galzigna………………………………………………………………… pag. 61 Il tempo dei concetti. La riflessione filosofica di Reinhart Koselleck di Diego Fusaro…………………………………………………………………... pag. 65 Storia delle idee e intellectual history. Un brevissimo confronto di Luca Gasparri………………………………………………………………….. pag. 85 Teleologia della ragione: Edmund Husserl e la storia della filosofia di Michele Giugni………………………………………………………………… pag. 95

Contributi……………………………………………………………………….. pag.107

Francesco Albertini interprete di Enrico di Gand. L’esse essentiae e l’autonomia ontologica dei possibili.

di Alfredo Gatto………………………………………………………………….. pag. 109 Il presente di un’idea antica: il clown. Riflessioni e ricerche sul clowning nei contesti formativi

di Daniele Zucca………………………………………………………………….. pag. 123

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Laboratorio

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Dire la verità. L’insistenza della critica

di Andrea Tagliapietra L’essenza della filosofia è sempre un’attività per cui, in linea di principio, non esistono proposizioni filosofiche, ma soltanto atti ed eventi filosofici. Il fare del filosofo, che acquista un significato esemplare a partire dal modello socratico e fa la sua ricomparsa in alcuni momenti topici della storia del pensiero occidentale, è quel parlar chiaro che dice la verità e, dicendola, lo fa con coraggio, dal momento che questo atto - il «gioco parresiastico» come lo chiama Foucault1 riferendosi alla pratica della parresía greca - comporta per il parlante la libera assunzione di un rischio o un pericolo che, nella sua forma estrema, può essere di vita o di morte. Nella dichiarazione rilasciata cinque giorni prima di morire per i postumi degli interrogatori della polizia del regime comunista, il filosofo ceco Jan Patocka affermava: «ciò che bisogna è dire la verità. È possibile che in certi casi individuali la repressione si intensifichi. Le persone si rendono nuovamente conto che ci sono delle cose per cui vale la pena soffrire e che, senza queste cose, l’arte, la letteratura, la cultura e tutto il resto sono solo dei mestieri cui ci si dedica per guadagnare il proprio pane quotidiano»2. Tuttavia, non tutte le forme del parlar chiaro che dice la verità con coraggio sono riconducibili alla parresía filosofica. Bisogna, infatti, che questa pratica sia rivolta verso un altro all'interno di una dimensione critica, ovvero quando il parlante è in condizione di inferiorità rispetto all'interlocutore (il sovrano, parresía monarchica) o al numero degli interlocutori (la maggioranza, parresía democratica) e il suo dire non ha per oggetto se stesso, ma l’altro o gli altri. Così chi, per esempio in tribunale, decidendo di dire la verità, ottiene il risultato di danneggiare la sua posizione processuale, non fa certo, di per sé, un gesto diparresía filosofica. Inoltre, il parlar chiaro, coraggioso e veridico, che critica dal basso il potere, deve esser avvertito come un dovere. Il filosofo parresiasta è, cioè, colui che di fronte alle varie possibilità di tacere, di dissimulare, di persuadere o di adulare, sente la libera scelta per questa pratica del dire la verità con coraggio al potente, come un obbligo morale vincolante nei confronti di se stesso e nei confronti degli altri. La vocazione del filosofo, il suo essere il “dono del dio alla città” (dósis toû theoû) di cui ci parla Socrate nell’Apologia (Apologia 30d 7 - e 8; 31a 8), è il dire la verità alla città. Il filosofo, cioè, non è soltanto, né principalmente, colui che cerca la verità per studiarla - un analitico della verità, diremmo, come il sapiente presocratico o lo scienziato moderno -, ma è colui che trasforma questa ricerca e i suoi risultati in un’azione, in un’incalzante opera di verità offerta e donata agli altri, in una provocazione degli altri, al limite, in un autentico esser contro. In filosofia, suggeriva Odo Marquard, «si tratta, più di ogni altra cosa, di mostrarsi di testa dura al momento giusto»3. Sul significato comune della particella “contro” non sembrano esservi dubbi. “Contro” esprime opposizione, reazione, avversione, ostilità, contrasto. Esser contro è, quindi, il modo di pensare e di vivere di chi dissente, di chi protesta, di chi rifiuta. Insomma, di chi sa “dir di no”.

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Nelle società tradizionali, basate sul conformismo e sull’adesione passiva ad una configurazione di valori prestabiliti, la posizione di chi non acconsente non è mai stata comoda. A volte è stata resa persino impossibile. I miti e le saghe delle principali civiltà antiche, da Prometeo ad Adamo, da Ulisse a Saul, da Enkidu a Loki, raccontano la ribellione di chi “dice di no” in termini di condanna, di sconfitta e di maledizione. Lo stesso nome del Maligno nella tradizione ebraica, ossia ha satan, significa, alla lettera, “colui che si oppone”, “colui che è d’ostacolo”, “colui che sta contro”.Anti-christos, cioè “contro-Cristo”, è il nome greco dell’avversario escatologico che guiderà le schiere del Male nello scenario degli ultimi tempi, prima della fine della storia. «Sono lo spirito che sempre dice no (Ich bin der Geist, der stets verneint)»(Faust I, 1338): con queste parole Mefistofele si presenta a Faust, nell’omonimo capolavoro di Goethe. Nella descrizione della corte celeste con cui si apre il libro di Giobbe, Satan è l’accusatore - il pubblico ministero - il cui compito è quello di mettere alla prova il giusto (Giobbe 1,6-12). È questa, forse, l’origine più antica di quell’espressione che, nella banalità del linguaggio comune, si impiega per descrivere chi “parla contro”, chi si assume il ruolo del “bastian contrario”, ossia chi fa l’“avvocato del diavolo”. Ma la tradizione biblica ci descrive anche un altro esempio di vite orientate all’esser contro, questa volta, tuttavia, connotate positivamente. Si tratta di quelle figure eroiche e grandiose che in ebraico si chiamano nebiim, ovvero i “profeti”. Tutte le civiltà hanno i “sapienti”, i “consiglieri del principe”, che mangiano dalle mani dei potenti, godono della loro protezione e riproducono e rafforzano le strutture del sapere tradizionale e dell’ordine costituito. Solo la civiltà ebraica ha i “profeti”, ossia degli uomini che “parlano contro”, che esortano, che denunciano, che accusano le forme del potere stesso. «Su, va a Ninive, la grande città, e grida contro di essa»(Giona 1,2) è il comando di Dio a Giona. La figura del profeta scuote il popolo dal torpore dell’inautentico, dalle cattive abitudini, dalla falsità e dalle menzogne. La sua azione è un “portar fuori”, un “esodo” dalla permanenza nella non verità e, insieme, un “mutare direzione”, un “convertire” rispetto alla deriva, al procedere per inerzia dell’errore. Nel tipo del “profeta” la civiltà occidentale sperimenta per la prima volta il modello di un’esistenza orientata sul “potere” esclusivo della parola. Un potere inteso come contro potere rispetto all’economia e all’organizzazione materiale dello status quo della forza, una parola che, fondandosi solo su se stessa, dà voce agli umili, ai poveri e ai servi contro le consuetudini e il sapere dei padroni. Il “contro” è, come suggerisce l’immagine del deserto, il luogo utopico dei profeti, il “vuoto” radicale rispetto al “pieno” della città verso cui il messaggio del nabi’ invece è rivolto. Quella del profeta, ha scritto Klaus Heinrich, autore di un bel libro Sulla difficoltà di dire di no4, è un’autentica protesta ontologica che si condensa nell’esercizio ostinato della potenza del no, del negativo, della negazione. Negare, del resto, richiede un grande dispendio di energia rispetto a tutte quelle prestazioni dell’essere vivente che assecondano e si adattano alla realtà in qualche modo riflettendola e corrispondendole. La negazione, nel suo significato più generale, è una sospensione del mondo, un contrapporsi ad esso, un affiorare di quel “mondo” che, innanzi al “no”, appare per la prima volta in quanto tale, ossia nel suo aspetto di mancanza, di vuoto, di smarrimento, di assenza di senso, di meccanica connessione di stimoli e risposte.

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Anticamente il verbo latino protestari indicava la professione di fede rilasciata innanzi ad autorevoli testimoni, in primis a quel testimone per antonomasia, dal momento che ha le qualità dell’onniscienza e dell’ubiquità, che è Dio stesso. La protesta ontologica del “no” ha, quindi, una portata ben più vasta della singola accusa o della ricusazione particolare, dal momento che essa manifesta la presa di posizione in favore della verità come continuità del senso che non può essere sottoposta al limite della determinazione di un mondo che appare nella forma dell’isolamento e dell’esaurimento. Essa è, dunque, quel primo “dir di no”, quella cellula generatrice da cui sgorga ogni altra parola, e ogni linguaggio. È una negazione che si esercita non sull’essere, che in qualche modo la sua stessa posizione dischiude5, ma su quelle negazioni determinate che gli stanno contro e che, a loro volta, minacciano, con il loro non essere, la pienezza e l’autenticità della vita. Il ruolo del profeta, come ha ben visto Leo Strauss6, possiede nella figura di Socrate, il protofilosofo, il suo corrispondente greco. Non c’è filosofo degno di questo nome il quale, per quanto lontano dalle tesi che, storicamente, la tradizione ha attribuito al maestro ateniese, non senta con Socrate una sorta di aria di famiglia e, all’occorrenza, non sia in grado di identificarsi con lui. Lo stesso Nietzsche - filosoficamente uno dei suoi più acerrimi nemici - affida ad un breve frammento dei suoi taccuini la confessione che «Socrate mi è talmente vicino, che devo quasi sempre combattere contro di lui»(FP 1875-1876, 6 [3])7. E nella terza delle “Considerazioni inattuali”, quella dedicata a Schopenhauer come educatore, là dove si nega a chi sia un semplice professore di filosofia e un «funzionario statale», come Kant, il nome di filosofo, non è difficile scorgere, invece, nella descrizione dei requisiti essenziali di quest’ultimo, nella capacità di dare un esempio con la vita e non con i libri, i tratti inconfondibili del profilo socratico: «se però dovesse presentarsi un uomo che realmente facesse capire di voler affrontare tutto, anche lo Stato, con il coltello della verità (mit dem Messer der Wahrheit), lo Stato, dato che innanzitutto afferma la propria esistenza, avrebbe ragione di escludere da se stesso tale uomo e di trattarlo come suo nemico»(§ 8)8. A somiglianza del profeta, anche Socrate sta dalla parte della negazione. Il suo sapere, come lui stesso ci ricorda nell'Apologia, è un “sapere di non sapere”, è un “contro sapere”, è quella “dotta ignoranza” a partire dalla quale egli può interrogare i cittadini di Atene su ciò che essi credono di conoscere, smantellando le false convinzioni, i valori e i presunti assolutismi su cui poggia l’intera vita della città (Apologia 20d 6-23d 2). Isaia e Socrate, il profeta e il filosofo, sono i due tipi ideali da cui discende, attraverso il fiume della storia, ciò che nella società moderna si è soliti chiamare l’“intellettuale”. L’intellettuale, sostiene Edward W. Said9, è colui che mette continuamente in discussione la realtà e si fa autore ed attore di un linguaggio che porta, in sé, la vocazione di dire la verità al potere. Questo “dire la verità”, questa parresía, questa coraggiosa e appassionata franchezza si riscontra nella ricerca della pubblicità che l’intellettuale organico, insediato nel “centro” del sapere ufficiale, teme e controlla (il sapere, per lui, è ancora affare di “segretezza”, di “gergo tecnico” e di “ordine professionale”), mentre l’intellettuale indipendente, dai margini della periferia - «il pensiero critico», scriveva Enrique Dussel, «sorge dalla periferia (ci sarebbe da aggiungere la periferia sociale, le classi oppresse, i Lumpen) e finisce sempre per rivolgersi verso il centro»10 –, spesso dalla concreta esperienza dell’esilio, la persegue, a volte ne ha bisogno quale garanzia stessa della sua sopravvivenza. Il vero

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intellettuale è, come accadde a Voltaire, un outsider, un contestatore, un esiliato, un “dilettante” sia nel senso etimologico che in quello comune. La figura dell’intellettuale si sviluppa e assume consistenza, quindi, con l’apertura di quello spazio d’autonomia di pensiero e di vita rispetto alle istituzioni del potere e del sapere che ha preso il nome di illuminismo11. L’illuminismo, diceva Kant, «implica molto meno di quanto non immaginino coloro che ritengono che l’illuminismo consista di conoscenze: è piuttosto un principio negativo dell’uso della facoltà di conoscere»12, ossia un vaglio dei suoi limiti. L’illuminismo è il «tempo della critica (Zeitalter der Kritik), a cui tutto deve sottostare»13. La parola “critica” ci riporta, attraverso l’etimologia, all’immagine del tribunale, all’esame dei “pro” e dei “contro”, ad una concezione drammatica e dibattimentale della verità, ossia come risultato di un processo confutatorio e polivoco, che era apparsa per la prima volta in Grecia, al tempo dei sofisti e dei poeti tragici, là dove la nascita della filosofia e quella del teatro scoprono la loro comune radice. Eppure la critica non consiste nel cercare di giustificare le cose come stanno, ma nel sentire altrimenti e diversamente, nel contrapporre alla realtà un nuovo modo di vedere e un’altra sensibilità. La critica, notava Michel Foucault, non è altro che «l’arte di non essere eccessivamente governati»14, e un modo per non essere governati di più è quello di mettere il potere in contraddizione con se stesso, costringere il potere a dividersi e, quindi, a depotenziarsi, perdendo la pretesa del suo assolutismo. Il principio di non contraddizione che sorregge l’analitica della verità dell’impresa filosofica e scientifica implica quel dire contro che, nei luoghi originari della filosofia15, trasforma la verità in verità critica. La critica, a sua volta, ha per scopo finale la divisione dei poteri – dove «l’effetto di libertà politica caratteristico della divisione politica dei poteri è soltanto un caso particolare dell’effetto di libertà proprio dell’universale policromia della realtà»16 –, ovvero la creazione di spazi interstiziali di autonomia sempre più ampi e differenziati, che dispiegano le possibilità della nostra esperienza. La critica filosofica conserva una natura asimmetrica e manifesta un legame fondamentale tra rapporti di forza e relazioni di verità. Per produrre la pratica di verità su se stesso e sugli altri il filosofo ha bisogno di contrapporsi alla non verità del potere che gli si oppone con la forza. La situazione critica necessita, quindi, della non indifferenza del potere nei confronti della verità (di qui le difficoltà della critica di fronte ad un potere della maggioranza indifferente al valore strategico della verità, come accade, talvolta, nelle democrazie contemporanee, dove si può dire tutto - e quindi anche la verità -, ma quasi nessuno, ormai, vi presta più attenzione). La verità parresiastica, anche se aspira alla neutralità mediante il disinteresse sovrano che il filosofo professa con la messa in gioco della sua stessa vita, incrina quel rapporto fra verità e méson, ovvero fra verità e posizione mediana del neutro – oggi diremmo fra verità e conformismo - che nelle società tradizionali, come quella greca ai tempi di Socrate e Platone, appare caratterizzare la configurazione aconflittuale e neutrale della verità. Allora, la verità abbandona la sua posizione di pace ed entra giocoforza in una dimensione di tensione e di conflitto: «si dirà tanto più la verità quanto più si è situati all’interno di un certo campo. È l’appartenenza a un campo - la posizione decentrata - a permettere di decifrare la verità e di denunciare le illusioni e gli errori attraverso cui vien fatto credere - gli avversari fanno credere - che ci si trova in un mondo ordinato e pacificato. “Più mi decentro, più vedo la verità; più

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accentuo il rapporto di forza, più mi batto, e più la verità si dispiegherà effettivamente dinanzi a me, e all’interno di questa prospettiva della lotta, della sopravvivenza e della vittoria”»17. Il filosofo che dice la verità si decentra rispetto al presunto centro della verità pacificata. Non cerca il conflitto, ma è, in qualche modo, il conflitto perché si pone deliberatamente fuori dal centro del potere pensato come unica realtà possibile. Il differimento della verità, la dilazione di quell’urgenza della verità che si esprime nei termini della coazione, della necessità e dell’automatismo, consente di porre la domanda critica sul “perché ci urge la verità?”, smascherando l’effettiva funzione autoritaria e repressiva del suo uso. Non c’è critica e, dunque, non c’è vera autonomia dell’individuo, senza un esser contro, senza un opporsi, senza una protesta. Il Novecento, che si era aperto fra i bagliori di ribellione, ancora vividi, delcontro potere degli intellettuali, chiamati a raccolta dal “J’accuse” di Zola per l’“affaire Dreyfus”18, si è chiuso con il declino dell’intellettuale, con il suo assorbimento nelle strutture organiche del consenso alla Megamacchina globale, come la chiama Latouche19, nell’ossequio dei luoghi comuni del pensare gregario, ma sempre trendy, aggiornato, “alla moda”, in quel “conformismo dell’anticonformismo” che viene contrabbandato dai media come la massima espressione della libertà d’opinione. Così l’esser contro diventa un giro di valzer e gli intellettuali dei “ballerini” che, come ironizzava Kundera in un suo romanzo20, piroettano, compiaciuti e incoerenti, da un contrario all’altro, dando l’impressione di sfidare il mondo, ma, in realtà, senza rischiare sul serio più nulla. Perché esser contro significa avere il coraggio di stare fino in fondo dalla parte del torto, dell’insuccesso, vuoi anche della sconfitta o, infine, come ha saputo fare Socrate, della morte stessa. L’esser contro è, allora, ciò che Adorno, discutendo sul concetto di filosofia in una delle sue lezioni, descriveva con il termine insistenza. «L’insistenza», egli sostiene, «la fermezza nel non lasciarsi fuorviare, è un gesto, anzi il gesto spirituale della filosofia. Esso è diverso da quello della scienza generale. Ciò che mette in contatto un uomo con la filosofia è questo gesto. È molto difficile condurre alla filosofia chi non ha un debole per esso, e qui», conclude Adorno, «sta il piccolo granello di verità dell’esoterismo»21, ovvero, detto in altri termini, l’elemento singolare, volontario e non deducibile razionalmente, unico e irripetibilmente ripetibile, della filosofia. Socrate esibisce la struttura testimoniale della verità critica non quando argomenta secondo ragione innanzi ai suoi interlocutori, ma quando rifiuta di sottrarsi alla sentenza di morte del tribunale di Atene in sintonia con il contenuto di quelle stesse argomentazioni. È, insomma, sul diverso atteggiamento nei confronti del nesso fra le teorie e la vita, fra la sete di conoscenze e l’atto di verità, fra lo “sguardo da nessun luogo”22 e la posizione personale, fra la verità astratta che non ha mai fatto male a nessuno e il gioco delle forze reali che costituiscono il pensiero, che si può distinguere, come ha fatto Bertolt Brecht, le condotta di Giordano Bruno, che muore sul rogo senza ritrattare le proprie idee, da quella del fisico pisano che, dopo aver abiurato, all’allievo Andrea Sarti confessa: «io ti ho insegnato la scienza e poi ho rinnegato la verità»(Vita di Galilei, sc. XIV)23. Ma quale verità rinnega Galilei? Non certo la verità particolare delle sue scoperte scientifiche, che rimane tale anche dopo la sua ritrattazione. Egli rinnega il valore della verità come libertà di poterla cercare, ovvero il significato emancipatorio di quell’atto di verità che abbiamo chiamato verità

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critica. Quando lo scienziato sostiene che i tre angoli di un triangolo sono uguali a due angoli retti nessuno si sogna di chiedergli se crede o no a quello che dice. Né gli si domanda se per affermare questa proposizione è disposto a morire. Per questo, nella storia della scienza moderna non si registrano atti eroici. Del resto, anche prendendo in esame l’ipotesi sostenuta da Thomas Hobbes (Leviathan I,XI)24, che suppone che un giorno a qualcuno di molto potente interessi negare che i tre angoli di un triangolo sono uguali a due angoli retti, bruciando tutti i libri di geometria – è un’ipotesi che allude direttamente alle resistenze ideologiche che la scienza moderna ha dovuto affrontare nel secolo di Galilei -, ci sembra che il rischio che una verità di questo genere possa essere messa a tacere per sempre o anche per qualche tempo sia molto basso, in quanto riteniamo, come suggeriva Hannah Arendt, che il risultato di una verità scientifica sia frutto di una facoltà mentale umana impersonale e, eventualmente, ripetibile e riproducibile altrimenti. Ma non solo. Alla verità scientifica, anche quando questa riguarda la sfera più astratta del sapere, si associa, ormai, almeno sin dai tempi di Francesco Bacone, la prospettiva di un aumento di potenza e di efficacia nei confronti della realtà, l’«incremento indefinito della capacità di realizzare scopi»25 – il fenomeno della tecnica -, che manifesta la logica stessa del potere e del voler avere di più, dell’economia utilitaristica e dell’accumulazione, ovvero la sua assolutizzazione disciplinare. Di conseguenza è assai più probabile che lo scienziato metta la propria curiosità e il proprio desiderio di sapere al servizio del potere e dell’avidità del potere, come Leonardo da Vinci, che disegnava magnifiche e terribili macchine belliche per i prìncipi della sua epoca. Invece, rispetto al rapporto con la verità dello scienziato, il filosofo appare nelle umili vesti del testimone che, a proprie spese, rende testimonianza di qualcosa che, in ultima istanza, non può essere verificato in nessun altro modo. L’argomentazione razionale non è sufficiente a fare il filosofo – forse basta appena a fare quello che già Kant chiamava un «tecnico della ragione (Vernunftkünstler)»26 –, cioè se alla sua base non c’è l’impegno personale, l’investimento per la verità. Per Kant il tecnico della ragione dispone di una scorta sufficiente di conoscenze razionali e di una connessione sistematica di queste secondo l’idea di un tutto, ma rinunciando alla domanda critica sui limiti dell’organo di queste conoscenze, che implica necessariamente la domanda sulla loro finalità, rende, di fatto, quell’organo stesso, ovvero la ragione, impotente e inutile di per se stessa, ossia come centro di forza autonoma, perché in relazione di dipendenza diretta da una forza esterna. Invece, la filosofia come scienza dei fini ultimi della ragione umana non è un’abilità, ma una dottrina della saggezza, Weltweisheit, in cui il filosofo non è un tecnico della ragione, ma il suo legislatore. Di conseguenza, solo questo pensatore in proprio (Selbstdenker), maestro della saggezza tramite l’insegnamento e l’esempio, è l’autentico filosofo. La verità filosofica ha, come la verità dell’opera d’arte, un tratto che la lega alla dimensione più fragile della verità, quella dell’unicità testimoniale e della singolarità delle verità di fatto. L’«insegnamento attraverso l’esempio», prosegue la Arendt, «è, in effetti, l’unica forma di “persuasione” di cui la verità filosofica è capace senza perversione o distorsione; per la stessa ragione, la verità filosofica può diventare “pratica” e ispirare l’azione senza violare le regole dell’ambito politico, soltanto quando riesce a diventare manifesta sotto forma di esempio. Questa è l’unica possibilità per un principio etico di essere verificato e convalidato»27.

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Ma ciò non si limita al circuito critico fra principio etico e spazio politico descritto dalla Arendt. In senso più generale si potrebbe affermare che il disinteresse è il riflesso immediato della filosofia nel mondo della vita. Anzi, quest’inutilità – questa negazione di quanto è considerato, di volta in volta, l’utile movente dell’agire umano individuale e collettivo - è ciò che, nella filosofia come canone di opere e di sistemi di pensiero, è e rimane costante, apparentemente senza storia. È il punto di resistenza e di insistenza, ovvero ciò che più assomiglia all’astoricità strategica che, all’interno del discorso filosofico, si vorrebbe assegnare al concetto di verità. Nel corso della vita, ogni uomo ingaggia una dura lotta con la verità. Ne ha bisogno, ma la teme. Talvolta la cerca disperatamente e, tuttavia, molto spesso si dà da fare per metterla a tacere e poi nasconderla. Eppure, assai raramente, in questo aspro confronto, egli si chiede cosa significhi la verità in sé. Per l'uomo, in generale, sarà più importante ascoltare una parola, acquisire un sapere, possedere un oggetto, conoscere i precisi dettagli di un fatto - tutte cose alle quali, di volta in volta, si dà il nome di verità -, piuttosto che interrogarsi sulla verità medesima. Gli uomini che dicono di volere la verità, in fondo, sono solo alla ricerca di spiegazioni, di cause e di colpe, di un sistema di esoneri e di consolazioni in grado di rendere più sopportabile il peso della vita all’interno di un programma di verità che è, per essi, trasparente e inavvertito come la boccia di vetro in cui nuotano i pesci rossi. Ecco allora che di fronte alla generalità del comportamento degli uomini, il filosofo è quell’uomo che non si accontenta della rassegna delle spiegazioni particolari, ma chiede e pretende di più, che aspira ad un gesto tanto inutile, nella prospettiva del sistema di esoneri e spiegazioni di cui si diceva, quanto sovrano. Socrate "dice la verità" non perché abbia raggiunto l'esattezza del vero a proposito di qualcosa o per formulare una teoria della verità razionale universalmente valida - e se ciò appare è difficile scacciare il sospetto di un riverbero retroattivo di ciò che pensa Platone -, ma per indurre il proprio antagonista «a render conto (didónai lógon) di sé e del modo con cui ha trascorso la sua vita»(Lachete 187e 10). La verità, quindi, non è ciò che c’è già, un’esistenza oggettiva di cui si ricupera la continuità e l’autorità normativa risalendo oltre l’oscurità della memoria e dell’anima individuale, la nebbia dei sensi o il conflitto delle passioni, in una pretesa di legittimità che conserva il tratto arcaico dell’eredità, bensì è ciò che sta davanti come vita mia o altrui, nella problematicità per cui queste vite si liberano e non appaiono più condizionate da nulla. Così la verità, per il filosofo, non può essere possesso, ma diventa iniziativa e, in quanto tale, ha storia, diventando forma cangiante delle relazioni di sapere e di potere che innervano le pratiche e le teorie che accompagnano l’avventura dell’umanità. Il dire la verità è, cioè, qualcosa di diverso e ulteriore rispetto alla verità come fatto o come teoria di cui danno prova le scienze. Il dire la verità implica una questione più ampia e di vasta portata, intrinsecamente connessa con il concetto di verità, ma, in qualche modo, distinta. Ecco allora che, riprendendo la differenziazione, ancora una volta, da Foucault, si potrebbe parlare di storicità della verità almeno in due sensi, ovvero della storia di una verità interna ai discorsi epistemologici e alle continuità disciplinari – quella che un filosofo come Bernard Williams chiamerebbe la «storia delle teorie filosofiche della verità»28 –, ma, soprattutto, per quanto concerne l’insistenza della critica, della storia di una verità esterna, ossia di quell’incessante modificazione delle relazioni tra l’uomo e

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ciò che, di volta in volta, viene istituito come verità, che definisce «le regole del gioco a partire dalle quali si vedono nascere certe forme di soggettività, certi ambiti di oggetto, certi tipi di sapere»29. Ecco che il dire la verità della critica è anche e soprattutto uno smascherare la funzione disciplinare dei programmi di verità che plasmano le soggettività e i saperi, favorendone la moltiplicazione nella prospettiva di un mondo più libero e più vario. Note 1 Cfr. M. Foucault, Discourse and Truth. The Problematization of Parresia, Northwestern University Press, Evanston Ill. 1985; tr. it., Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996. Si tratta di un corso di lezioni, tenute fra ottobre e novembre del 1983, a Berkeley in California. 2 J. Patocka, Dichiarazione dell’8 marzo 1977, il testo si trova all’interno di un articolo in memoria di Patocka pubblicato da Roman Jakobson su “The New Republic” 176, n. 19, del 7 maggio 1977, pp. 26-28; tr. it., Curriculum vitae di un filosofo ceco, in J. Patočka, Kacirské eseje o filosofii dejin (1973-1976); tr. it., Saggi eretici sulla filosofia della storia, a c. di M. Carbone, pref. di P. Ricoeur, con uno scritto di R. Jakobson, Einaudi, Torino 2008, p. 177. 3 O. Marquard, Aesthetica und Anaesthetica: philosophische Überlegungen, Schöningh, Paderborn 1989; tr. it., Estetica e anestetica, il Mulino, Bologna 1994, p. 43. 4 K. Heinrich, Versuch über die Schwierigkeit nein zu sagen, Stroemfeld/Roter Stern, Basel-Frankfurt a. M. 1985. A proposito del confronto della figura del profeta biblico con quella del sapiente presocratico a cui si fa risalire la scoperta dell’”essere”, cfr. Id., Parmenides und Jona (1964), Strömfeld/Roter Stern, Frankfurt a. M. 1982; tr. it., Parmenide e Giona, Guida, Napoli 1988. 5 In questa direzione si può forse interpretare la lettura teoretica della negazione condotta da M. Donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004. 6 L. Strauss, Jerusalem and Athens. Some Introductory Reflections, in “Commentary”, XLIII (1967), pp. 45-57; tr. it., Gerusalemme e Atene. Riflessioni preliminari, in Id., Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Einaudi, Torino 1998, in particolare pp. 29-36 (Socrate e i profeti). 7 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1875-1876, in Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana condotta sul testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964-ss, vol. IV, tomo 1, p. 159. 8 F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen. Drittes Stück: Schopenhauer als Erzieher (1874) in Id., Werke, Kritische Gesamtausgabe, herausgegeben von G. Colli und M. Montinari, De Gruyter & Co., Berlin 1964-ss, Abt. III, Bd. 1; tr. it., Schopenhauer come educatore, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., vol. III, tomo 1, edizione in volume singolo, Adelphi, Milano 1985, p. 88. 9 E. W. Said, Representations of the intellectual, Pantheon Books, New York 1994; tr. it., Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995. 10 E. Dussel, Filosofía de la liberación, Editorial Edicol, México D. F. 1977; tr. it., Filosofia della liberazione, Queriniana, Brescia 1992, p. 51. 11 Rinvio in proposito a A. Tagliapietra (a c. di), Che cos’è l’illuminismo? I testi e la genealogia del concetto, Bruno Mondadori, Milano 1997. 12 I. Kant, Was heisst: Sich im Denken orientieren?, in "Berlinische Monatsschrift" VIII, (1786), pp. 304-330; ora in Kant's Gesammelte Schriften, edizione dalla Königlich Preussischen [poi Deutschen] Akademie der Wissenschaften, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1900-ss. (voll. I-IX: Werke; voll. X-XIII: Briefwechsel; voll. XIV-XXIII: Handschriftlicher Nachlass; voll. XXIII-ss.:Vorlesungen [a cura della Akademie der Wissenschaften zu Göttingen]), vol. VIII, pp. 131-147, p. 147 nota *; tr. it., Cosa significa orientarsi nel pensare, in Id., Scritti sul criticismo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 13-29, p. 29, nota *. 13 I. Kant, Kritik der rainen Vernunft, Königsberg 1781, ora in Kant's Gesammelte Schriften, cit., vol. IV (ed. 1781 [A]), vol. III (ed. 1787 [B]), p. XII [A]; tr. it., condotta sull'edizione B, Critica della ragion pura, in 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1983, vol. I, p. 7, nota 1.

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14 M. Foucault, Qu'est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung), (conferenza, Sorbona, maggio 1978), ora in "Bullettin de la Société Française de Philosophie" avril-juin 1990, 2, pp. 35-63; tr. it., Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p. 38. 15 Si veda, a proposito della matrice agonistica della sapienza greca da cui, secondo l’autore, discende il pensiero filosofico, il saggio di G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975. 16 O. Marquard, Apologie der Zufälligen, Reclam, Stuttgart 1987; tr. it., Apologia del caso, il Mulino, Bologna 1991, p. 156. 17 M. Foucault, "Il faut défendre la société". Collège de France, Cour 1975-1976, Hautes Études Seuil-Gallimard, Paris 1997; tr. it., "Bisogna difendere la società", a c. di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998, p. 51. 18 Il celebre articolo di Émile Zola, in forma di lettera aperta al presidente della Repubblica francese Félix Faure, fu pubblicato su “L’Aurore” il 13 gennaio 1898. 19 S. Latouche, La Megamachine. Raison technoscientifique, raison economique et mythe du progres. Essais a la memoire de Jacques Ellul, Éditions La Découverte, Paris 1995; tr. it., La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso. Saggi in memoria di Jacques Ellul, Bollati Boringhieri, Torino 1995. 20 M. Kundera, La lenteur, Gallimard, Paris 1995; tr. it., La lentezza, Adelphi, Milano 1995, pp. 25-29. 21 T. W. Adorno, Der Begriff der Philosophie, Edition Text-Kritik, München 1993, lezione del 18 dicembre 1951; tr. it., Il concetto di filosofia, Manifestolibri, Roma 2005, p. 63. 22 T. Nagel, The view from nowhere, Oxford University Press, Oxford-New York 1986; tr. it., Uno sguardo da nessun luogo, il Saggiatore, Milano 1988. 23 B. Brecht, Leben des Galilei (1938-1939; 1945-1946; 1953-1955), Suhrkamp, Berlin 1955; tr. it., Vita di Galileo, in id., I capolavori, in 2 voll., Einaudi, Torino 1998, vol. 2, p. 112. 24 T. Hobbes, Leviathan, Or The Matter, Forme, & Power Of A Common-Wealth Ecclesiasticall And Civill, Crooke, London 1651; tr. it., Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 83. 25 E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998, p. 11. 26 I. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, in Kant's Gesammelte Schriften, cit., vol. IX, pp. 24-27; tr. it., Logica, cit., pp. 18-21. 27 H. Arendt, Truth and Politics, in "The New Yorker", 25 febbraio 1967, pp. 49-88, ora in Id., Between Past and Future. Eight Exercices in Political Thought, The Viking Press, New York 1968; tr. it., Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 29-76, p. 56. 28 B. Williams, Truth and Truthfulness. An Essay in Genealogy, Princeton University Press, Princeton 2002; tr. it., Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, tr. di G. Pellegrino, Fazi Editore, Roma 2005, pp. 61-62. 29M. Foucault, A verdade e as formas juridicas, in “Cadernos da P.U.C.”, n. 16, giugno 1974, pp. 5-133 (Conferenze tenute alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro, dal 21 al 25 maggio 1973), poi in Id., Dits et Écrits, in 4 voll., a c. di F. Ewald e D. Defert, Éditions Gallimard 1994, vol. 2; tr. it., La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 2. 1971-1977, Poteri, saperi, strategie, a c. di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 83-165, p. 86.

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Per una storia critica delle idee

di Sebastiano Ghisu 1. Idee, ideologia; 2. Materialità delle idee; 3. Idee, concetti, filosofia.

1. Idee, ideologia

Se dovessimo fornire una descrizione dell’idea – dell’idea come oggetto della storia delle idee – non potremmo a nostro avviso non rifarci alla definizione che di ideologia ci consegna, rifacendosi a Karl Marx, Louis Althusser. Leggiamo in uno dei sui scritti più incisivi e importanti, Marxisme et Humanisme del 1963:

nell’ideologia gli uomini esprimono, in effetti, non i loro rapporti con le loro condizioni di esistenza, ma il modo in cui essi vivono il loro rapporto con le loro condizioni di esistenza: ciò che suppone ad un tempo un rapporto reale e un rapporto “vissuto”, “immaginario”. L’ideologia è, allora, l’espressione del rapporto degli uomini al loro “mondo”, vale a dire l’unità (sovradeterminata) del loro rapporto reale e del loro rapporto immaginario alle loro condizioni di esistenza reali1.

Le idee sono per l’appunto gli elementi che compongono le ideologie: i loro costituenti, se si vuole. Sono ciò attraverso cui gli uomini si pensano, pensano di conoscersi o pensano di conoscere il mondo in cui vengono a trovarsi. Non vi è un rapporto con il mondo che non sia attraversato dalle idee. Non vi è un fare degli uomini che non sia nutrito di idee e, viceversa, non vi è un’idea, per quanto astratta ed eterea, che non sia legata, per vie dritte o traverse, al fare concreto degli uomini. La stessa percezione del reale è carica di idee, così come il linguaggio con cui si descrive il mondo e se stessi: le idee abitano il vissuto e il pensato. In tal senso, esse esercitano, che se ne sia consapevoli o meno, sia una funzione normativa che una funzione cognitiva. Costituiscono in altri termini la morale e la conoscenza tacita dell’agire umano. Lo stesso Althusser scrive (precisando, per così dire, Marx):

l’ideologia è ben un sistema di rappresentazioni: ma queste rappresentazioni non hanno per la gran parte del tempo niente a che vedere con la “coscienza”: esse sono per la gran parte del tempo delle immagini, talvolta dei concetti, ma sono innanzitutto come strutture che esse s’impongono all’immensa maggioranza degli uomini, senza passare attraverso la loro “coscienza”. Sono oggetti culturali percepiti-accettati-subiti che agiscono funzionalmente sugli uomini attraverso un processo che sfugge loro2.

L’ideologia, si aggiunge, è «profondamente inconscia»3. In effetti, essa viene vissuta nella piena immediatezza dell’ovvio e dello scontato. Coincide con il mondo nel senso che istituisce pienamente il rapporto che noi abbiamo con il mondo (sia sul piano sociale, è bene precisare, che su quello esistenziale-individuale). D’altra parte, come vedremo meglio più avanti, le riflessioni

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teoriche complesse, se non sono critiche, non demoliscono l’immediatezza, ma la potenziano a verità (di contro, eventualmente, alle opinioni). O piuttosto, la demoliscono solo in apparenza, potenziandola a verità.

2. Materialità delle idee

Ora, se le idee sono depositate nel vissuto sia sociale che esistenziale (quindi in tutte le sfere del nostro agire) esse sono strutturalmente materiali. In che cosa consiste, più esattamente, questa loro materialità? Principalmente in due dimensioni (interagenti). La prima l’abbiamo già rilevata. È il loro legame con il corpo. In un certo senso, sono le idee, depositate nelle lingue, nelle culture, nelle dinamiche sociali che istituiscono il corpo in soggetto (o fanno del corpo una soggettività). Il corpo è il loro supporto reale: lo esprimono oltre che condizionarlo. Vale a dire: lo esprimono condizionandolo. Ne esprimono i bisogni non meno di quanto li inducano. L’altra dimensione è la dimensione sociale: le idee sono strutturate in dispositivi, in apparati – non aleggiano nell’aria come fantasmi. Sarebbe tuttavia inesatto e fuorviante immaginare tra idee e dispositivi l’astratta separatezza che intercorre tra contenuto e forma (o tra contenuto e contenitore). Le idee, piuttosto, sono nutrite dai dispositivi e nutrono a loro volta tali dispositivi. Questi, del resto, non esistono senza le idee che li attraversano, mentre le idee, sempre intrecciate tra loro e costituenti una rete a fitte maglie, si muovono inevitabilmente all’interno di dispositivi o apparati organizzativi. È attraverso dei dispositivi che le idee si distribuiscono, si conservano (o si trasformano). La storia delle idee è anche la storia di tali apparati e dei rapporti di forza che li attraversano. Allo stesso modo le idee partecipano ai conflitti che con forza e violenza più o meno intensa si dispiegano nella società, così come partecipano alle tensioni che percorrono le esistenze individuali, i loro corpi e le loro menti. Vi partecipano non solo in quanto, in qualche modo, li riflettono, significando ad un tempo opposizioni e contrasti spesso inconciliabili. Vi partecipano, soprattutto, nel senso che esse “parteggiano”: nei conflitti le idee prendono posizione (o, se si vuole, costituiscono una presa di posizione nei conflitti). Prendendo posizione, poi, producono senz’altro, nel campo (conflittuale) in cui agiscono, degli effetti. Certo, che le idee abbiano degli effetti nei o sui conflitti – e che possano dunque essere spiegate attraverso tali effetti – non significa che questi ne possano esporre integralmente la genesi o la trasformazione. Non solo nel senso che le idee – o, per dirla con Foucault, i sistemi di pensiero – posseggono una relativa autonomia (che è l’autonomia dei dispositivi che le veicolano). Ma anche perché gli stessi dispositivi sono attraversati al loro interno da tensioni e conflitti. La storia delle idee – ed in particolare la storia critica delle idee – deve evitare di isolare l’idea dalla rete di articolazioni teoriche e pratiche in cui è inserita, il che certamente non esclude che si possa momentaneamente o provvisoriamente – in vista di una ricerca più completa – esporre la storia di un’idea nel suo astratto divenire teorico (assumendola come concetto). Ma tale divenire teorico astratto non è quello reale in cui l’idea ha vissuto. Non è il luogo in cui si è realmente prodotta, riprodotta, trasformata.

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È proprio questa la sua storia. Un’idea ha storia non nel senso che, sempre uguale, sempre identica, ha attraversato incolume – o con qualche lieve ferita – mille peripezie e innumerevoli avventure. Ha storia non nel senso che ha vissuto, protetta da ogni intemperie, le esclusive stanze del pensiero (che solo il pensiero ha immaginato). La storia di un’idea non è la sua lunga età, la sua presenza costante nel lungo scorrere temporale che sfiora l’eterno. Un’idea non ha storia perché continua ad essere ciò che è: se mai continuasse ad essere ciò che è, non avrebbe storia. Essa ha storia perché è dentro una rete di conflitti e articolazioni, di dispositivi, di apparati. Ha storia perché ha un luogo in cui viene prodotta e da cui viene rappresentata, sussurrata o urlata. E se, come può accadere, continua ad essere ciò che è, è perché le tensioni che la alimentano sono in equilibrio tra loro. La storia di un’idea, del resto, non è solo il suo passato o, meglio, non è il suo passato come tale. Non basta, per non assumerla nel suo solo presente, ricordarne il passato. Lo sguardo storico – lo sguardo critico – è quello che, nel presente come nel passato (in una strutturale inattualità) coglie l’idea nel campo di forze che l’attraversa e la veicola. Assumerla come se non avesse storia, o assumerla senza la sua storia, equivale dunque ad assumerla come se fosse reificata, una cosa data, un dato scontato (certo, scontato per il pensiero raffinato e complesso della filosofia, ma pur sempre scontato). La storia di un’idea è, insomma, il suo riprodursi in un mondo che è conflittuale fin nei suoi minimi dettagli. Va anche ricordato che il conflitto non è esterno al significato dell’idea, ma è in esso contenuto. L’idea appare di conseguenza ambigua o, come avrebbe detto Adorno, dialettica4. Del resto, la stessa rete semantica di cui l’idea stessa è un nodo esclude spesso l’unilateralità del significato. In tal senso, emendare i termini, le parole, le idee (dette e pensate comunque come parole) della loro ambiguità semantica, come spesso s’immagine di fare la filosofia analitica, significa privarsi della possibilità di cogliere la realtà che quelle parole comunque veicolano, tacere (in una sorta di repressione teorica) i conflitti reali che esse segnalano e cancellare la storia che esse racchiudono. Significa, in altri termini, reificare i concetti (che poi in questa presunta razionalizzazione si celi una precisa immagine di realtà – un progetto – è un tema che qui si può soltanto evocare). Una tale operazione mira a sottrarre le idee alla loro trasformazione, alla rete di conflitti e articolazioni che li attraversa. Mira a imporre loro un significato ultimo, stabile e definitivo. Un significato univoco, inequivocabilmente legato all’oggetto di riferimento. Le idee, di contro, significano più di quanto non dicano (o dicono più di quanto non significhino). Un tale di più è proprio la rete di articolazioni che le annoda. È il loro presente, la loro storia e, chissà, il loro futuro. Quel di più è il loro legame con il vissuto, con il corpo e la carne viva della società. Scrive Adorno nella sua Terminologia filosofica:

la filosofia non consiste semplicemente nella corrispondenza fra il pensiero e il linguaggio da un lato e l’oggetto dall’altro, ma in verità possiede o coglie il suo oggetto sempre e soltanto in quanto lo sorpassa, è qualcosa di più del puro oggetto. Di conseguenza l’immagine o l’allegoria, è un elemento pressoché irrinunciabile della stessa filosofia; se questo contestato elemento fosse veramente estirpato e in filosofia non si usasse più nessuna parola che dicesse di più di quello che deve dire qui e ora, in questo punto particolare, sarebbe allora del tutto impossibile formulare il pensiero filosofico5.

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Certo, Adorno si rivolge qui alle parole della filosofia. Ma noi potremmo estendere ciò che egli afferma intorno alla filosofia al modo in cui la filosofia – il pensiero critico in quanto storia delle idee – deve trattare le parole del pensiero di tutti, vedendo in esse, nel loro esser dette, delle idee o, più precisamente – in un senso genuinamente benjaminiano prima ancora che adorniano – delle allegorie. Nell’allegoria, infatti, le cose vengono raffigurate nella loro piena e drammatica caducità. Nell’allegoria, scrive Benjamin, «si propone agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come un pietrificato paesaggio primevo»6. La natura si presenta nel suo trascorrere verso la morte:

Sul volto della natura sta scritto “storia” nei caratteri della caducità. La fisionomia allegorica della storia-natura, che viene collocata sul palcoscenico dal dramma, è realmente presente come rovina. Con essa la storia si è tangibilmente trasferita sul palcoscenico. Più esattamente essa, così conformata, si costituisce non come il processo di un’eterna vita, ma come il procedere verso un inarrestabile decadimento. L’allegoria si riconosce quindi come al di là della bellezza. Le allegorie sono nel regno dei pensieri ciò che le rovine sono nel regno delle cose7.

L’idea va assunta, per così dire, come una rovina, come ciò che in qualche modo sconfigge, drammaticamente, la stabilità e l’eterno (senza nascondere del tutto la tensione verso di esso). Non si tratta certo di riversare artificialmente sulle idee dei significati che le loro parole (o immagini e suoni) non hanno. Si tratta piuttosto di scoprire in quelle parole significati che esse non hanno solo quando le si assume come esclusivamente riferentisi all’oggetto che designano (e quando li si isola dal discorso che li sostiene).

3. Idee, concetti, filosofia

Entra qui in gioco la differenza tra la filosofia e il pensiero di tutti o, più precisamente, tra il concetto filosofico e l’idea (nel modo in cui l’abbiamo intesa). Entra qui in gioco, in altri termini, il problema dell’autonomia della filosofia dal pensiero di tutti. Abbiamo già sottolineato che non vi è una assoluta autonomia della prima dal secondo e non vi è una assoluta autonomia di tale complesso “teorico-pratico” dall’insieme delle articolazioni sociali e dal vissuto (perché, comunque, è pur sempre attraverso il soggetto che si pensa, si parla… si fa). La filosofia ha indubbiamente la sua specificità. E per quanto i suoi pensieri, i suoi scritti, i suoi eventi costituiscano in ogni caso una presa di posizione nel tutto, essa vive comunque una qualche indipendenza dal tutto. Tale separatezza – o autonomia – le è data dal dispositivo teorico e pratico che la sostiene e la veicola. Dispositivo pratico: non vi è filosofia senza una minimo apparato, sia pure la comunità, la polis (che attribuisce al filosofo una determinata funzione), il rapporto di cittadinanza, l’Accademia, il Liceo, la Chiesa, L’università, l’editoria, i sistemi di comunicazione. Dispositivo teorico: la terminologia, la logica argomentativa, il rigore concettuale, tecniche linguistiche, un complesso apparato logico che è sostanzialmente rimasto quasi invariato nel tempo8. Ma la filosofia – per quanto riguarda la sua autonomia (che siamo ben lungi dal voler cancellare) – non è tutta qui. Ci viene incontro a questo punto, ancora una volta, Adorno. In una delle sue

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lezioni sulla terminologia filosofica (la settima, per l’esattezza) egli individua due momenti costitutivi della filosofia: il momento «espressivo» e quello «obiettivo». Il primo, come spesso è accaduto nella storia della filosofia quando un filosofo espone la sua idea di filosofia, viene introdotto da Adorno con un lieve accenno biografico:

penso di poter supporre che una persona che accede per così dire incorrotta alla filosofia, e cioè che non ha già dei concetti prefabbricati della filosofia, abbia, come l’ebbi io, la sensazione che essa gli insegni a esprimere ciò che ha veramente intuito o le vere esperienze che ha fatto intorno al mondo, più che non creda di entrare di entrare in possesso della sostanza assoluta, vera delle cose, o di che altro si voglia di simile, mediante un sistema, una formula o qualcos’altro. In questo senso la filosofia è legata assai profondamente al momento dell’espressione (…). Se la filosofia cerca una verità, questa non consiste primariamente nell’adeguazione di proposizioni o giudizi o pensieri a stati di fatto dati e precostituiti, ma si tratta assai di più di un momento espressivo9.

Adorno lega questo momento espressivo ad un «bisogno di dire»10. In altri termini, e qui subentra il secondo momento – il momento «obiettivo» – la filosofia non è «uno specchio rivolto all’esterno e che rifletta una qualche realtà, ma, assai più, il tentativo di dare un valore oggettivo, stringente all’esperienza o a questa volontà di dire»11. Tale esperienza sembra precedere la superficie delle cose e delle pratiche organizzate:

il movimento della filosofia consiste nel fatto che essa vuole esprimere quegli aspetti dell’esperienza della realtà che non sono assorbiti dalla prassi organizzata, e ciò che veramente si vede. Il problema o la legge di movimento della filosofia è come questo tentativo di espressione, che attraverso il suo mezzo, e cioè i concetti, avanza pur sempre la pretesa di una validità obiettiva, come questo tentativo di espressione possa andare al di là della mera accidentalità della notificazione di ciò da cui uno è mosso12.

Sarebbe tuttavia fuorviante leggere in questa proposta un qualche forma di soggettivismo. È lo stesso Adorno a precisarlo. Innanzitutto va detto che «nella stessa esperienza a cui la filosofia vorrebbe dare espressione è contenuto un momento obiettivo. Non c’è esperienza in cui non si sperimenti qualcosa»13 – ogni esperienza è mediata, oltre che dal soggetto, dal suo oggetto. In secondo luogo, queste «cosiddette esperienze originarie»14 sono mediate anche nel senso che, proprio per esprimersi, subiscono, per così dire, un processo di concettualizzazione, con tutto il rigore che tale processo reca con sé. La filosofia, quindi, concettualizza (oggettivizza) le esperienze che precedono la concettualizzazione. In altri termini, potremmo dire che esprime, attraverso i suoi dispositivi pratici e teorici, ciò che a tali dispositivi si sottrae, ma che può emergere solo attraverso di essi:

la filosofia rappresenta il non-concettuale sempre e soltanto mediante il concetto, ovvero rappresenta ciò che non può essere pensato mediante il pensiero. Nel confronto continuo e logorante con questo paradosso, nel tentativo di sviluppare quella che pare una insolubile contraddizione in modo che diventi nondimeno qualcosa di possibile, la filosofia ha propriamente la sua vita; la via che essa percorre se pretende il nome di filosofia, la via dall’esperienza originaria alla sua oggettivazione, e cioè alla teoria filosofica dispiegata, si identifica sempre con lo sforzo del concetto di rappresentare ed esprimere il momento non concettuale.15

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Trovo sia lecito domandarsi se vi è realmente un non-concettuale e correggere eventualmente Adorno (che risente senz’altro dell’impostazione fenomenologica16). Il «non-concettuale» è, a nostro avviso, l’insieme delle pratiche quotidiane (sociali ed esistenziali) in cui operano le idee; è il fare intriso di pensiero tacito e scontato, l’agire condizionato dal modo di intenderlo, l’esistere e il pensiero in esso implicito. Non si ha (necessariamente) un concetto di ciò che si fa quando lo si fa. Potremmo qui confrontare la ricostruzione adorniana della filosofia con la definizione althusseriana di ideologia. Ne emerge che l’esperienza originaria, di cui parla Adorno, potrebbe essere intesa come il modo in cui gli uomini vivono il loro rapporto con le loro condizioni di esistenza. Una tale «esperienza originaria» è «non-concettuale» nel solo senso che le idee che la abitano – e che abitano il vivere stesso di tutti, il corpo stesso dell’esistenza – sono tacite, implicite, invisibili. È semmai il pensiero astratto (in un senso ovviamente non banale) che intravvede e comunica di quel fare e di quel vivere, il concetto. È il pensiero astratto che isola, per così dire, le idee in concetti: la filosofia esplicita l’implicito. In questo processo di esplicitazione le idee vengono trasferite in un altro dispositivo teorico e pratico (la filosofia) senza perciò abbandonare quello originario (del resto non viene certamente meno l’interazione tra il dispositivo filosofico e i dispositivi che governano l’esistenza e il pensiero di tutti). Nel dispositivo filosofico le idee vengono rielaborate, concettualizzate, inserite in contesti teorici, logici, argomentativi regolati. Esse vengono insomma sottoposte ad una revisione concettuale organizzata – tanto da divenire quasi irriconoscibili. Si potrebbe quasi dire che le idee costituiscono la materia prima della produzione filosofica. In altri termini, il processo di esplicitazione compiuto dalla filosofia estrapola le idee implicite, tacite o appena dette (o dette senza venir pensate sino in fondo). Le isola e le inserisce in una rete di coerenza sintattica e semantica, in una grammatica e un “dizionario” specifici. Le idee divengono per l’appunto, come si è detto, concetti17. I concetti, tuttavia, non sono la verità delle idee (semmai il contrario). Non lo sono nel senso che nel processo di esplicitazione non emerge necessariamente la connessione tra le idee (divenute concetti) e i vari apparati o pratiche in cui esse operano e su esse cui agiscono. Neppure emerge la connessione tra i concetti e le idee: i concetti possono venir immaginati come indipendenti dalle idee, assolutamente autonomi. È ad esempio quel che accade quando si fa storia dei concetti (dove non solo i concetti vengono separati dall’insieme di articolazioni e apparati in cui vivono, ma anche dalle idee o ideologie che le producono) 18. In altri termini, il processo di esplicitazione non è necessariamente “cosciente” o “consapevole” come tale: non si sa e non si rappresenta come processo di esplicitazione. In tal senso, continua ad essere “ideologico”: assume i concetti filosofici come scontati, dati, già presenti nel pensiero o nell’essere in quanto tale (e assume come scontato lo stesso concetto di essere). In questo passaggio, tuttavia, l’esplicitazione delle idee in concetti non è mai integrale. Proprio come la parola della filosofia dice più dell’oggetto cui essa si riferisce, l’oggetto cui la parola si riferisce non è detto del tutto. Il concetto filosofico, pur nel suo rigore – ed anzi proprio nel suo rigore – mantiene e potenzia il disequilibrio e l’instabilità tra la parola e la cosa. Conserva dell’idea il suo non detto: la sua storia. Proprio in ciò risiede la forza della filosofia e soprattutto della

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filosofia critica. Potremmo, anche qui, ricordare Adorno (pur tenendo conto che il non-concettuale – o l’esperienza originaria – è per noi l’insieme delle pratiche sociali ed esistenziali in cui operano le idee). Riferendosi allo «sforzo del concetto di rappresentare ed esprimere il momento non concettuale»19, egli scrive:

in questo senso la filosofia è sempre una sorta di processo razionale di revisione e correzione della razionalità, ed è perciò che concetti come quelli di razionalismo e irrazionalismo e tutta la polemica sul razionalismo danno un’idea in un certo senso così errata di quello che è veramente la filosofia. (…) se la filosofia non vuole fermarsi a questo paradosso, di dire ciò che è a rigore indicibile, essa contiene il momento del movimento dello sviluppo, del dispiegamento, della contraddizione; e questa contraddizione è insita nel suo impulso, in quello che essa stessa vuole – cogliere mediante il concetto il non-concettuale, con il linguaggio ciò che non può esser detto col linguaggio. Nell’impostazione stessa della filosofia, in ciò che essa vuole in quanto movimento, è quindi insito fin dall’inizio e necessariamente ciò che l’espressione dialettica propriamente significa20.

Non si può dire che tutta la filosofia nel corso della sua storia, e soprattutto della sua storia più recente, abbia seguito questa procedura. Non si può dire che essa conservi sempre, nel concetto che produce, l’instabilità dell’idea. O perlomeno, essa è stata talvolta caratterizzata dall’esigenza di cancellare quella instabilità, per quanto l’instabilità resista, malgrado tutto, alle procedure logiche e teoriche tendenti a cancellarla. Il dispositivo filosofico mantiene comunque la sua autonomia: esplicita le idee e nel farlo le pensa, le riflette. In ogni caso, seppur ad un livello minimo, pone nell’immediato (o nell’apparentemente immediato), la mediazione. E se anche intende ricondurre le idee, divenute concetti, all’immediato (in una sorta di filosofia del senso comune) lo fa comunque confrontandosi con le mediazioni concettuali. È un momento del conflitto: anche chi vuole sottacerlo deve comunque evocarlo e, dunque, in qualche modo, dirlo. La storia critica delle idee, di contro, non nasconde il conflitto né semplicemente lo evoca. Piuttosto, ricostruendo le complesse articolazione delle idee, lo afferma esplicitamente e vi partecipa. Essa non è “critica” nel senso che confronta le idee (o i concetti) con la verità che esse, eventualmente, disconoscono. Non è questo il suo problema (o il suo obiettivo). Essa, piuttosto, è “critica” perché fa emergere l’interconnessione tra concetti, idee, pratiche sociali, linguaggi, culture, situazioni esistenziali. Ricostruisce i concetti come prodotto dei processi di esplicitazione delle idee integrate in quelle pratiche e in quelle situazioni. Del resto, non sottrae se stessa a quest’operazione. Non sottrae a tale operazione i suoi stessi concetti e le sue stesse idee. Come potrebbe? Cesserebbe all’istante di essere ciò che è: storia critica delle idee. Note 1 Louis Althusser, Marxisme et Humanisme (1963), in: Louis Althusser, Pour Marx (1965). Edition La Découvert, Paris, 1986, p. 240. 2 Ibid., p. 239sg. La dimensione tacita delle idee è sottolineata, in un contesto ben differente, anche da Arthur O. Lovejoy nel suo classico (e senz’altro importante) The Great Chain of Being: Nel primo capitolo introduttivo – di taglio metodologico – egli parla di unità-idee e ne elenca diversi tipi. Il primo di essi riguarda i «presupposti impliciti o non completamente impliciti, o abiti mentali più o meno inconsci, che operano nel pensiero di un individuo o di una generazione. Si tratta di credenze talmente scontate da essere tacitamente presupposte più che formalmente espresse e

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sostenute» (The Great Chain of Being. A Study of the History of an Idea, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1936, p. 7. Trad. it. La grande catena dell’essere, Feltrinelli, Milano 1966, p. 14). In Althusser agiscono, come è noto, le influenze della psicanalisi, in particolare della psicanalisi lacaniana (a tal proposito mi permetto di rimandare al mio Ewigkeit des Unbewußten - Ewigkeit der Ideologie, Argument Verlag, Hamburg 1995). L’inconscio althusseriano ha una portata ben diversa dagli « unconscious mental habits» di cui parla Lovejoy. 3 Louis Althusser, Marxisme et Humanisme, cit., p. 240. 4 Ha dentro di sé il movimento, il non-identico. La dialettica, scrive Adorno in Dialettica negativa, «rispetta come pensiero ciò che viene pensato, l’oggetto, anche là dove esso non asseconda le regole del pensiero», vale a dire laddove non è pensabile (Th. W. Adorno, Negative Dialektik (1966), Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1975, p. 144. Trad. it.: Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 128). 5 Adorno, Philosophische Terminologie (1962), Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1979, vol. I, p. 68. Trad. it. Terminologia filosofica, Einaudi, Torino 2007, p. 63. Nel testo originale non abbiamo «allegoria», ma l’aggettivo «tropisch» riferito alla natura (Wesen) della filosofia: «…dieses bildliche oder tropische Wesen der Philosophie…» («…questa natura d’immagine o tropica della filosofia…»). Ovviamente «tropisch» si riferisce alla figura retorica del tropo. Non è per pedanteria che facciamo questa precisazione. Infatti l’allegoria (termine presente nella traduzione italiana) ha, in campo adorniano e benjamniano, un particolare significato. Benjamin la utilizza per indicare una caratteristica importante del dramma barocco. Ma ne fornisce un significato – e una funzione – che va oltre tale specificità e che viene ripresa da Adorno in una sua importante conferenza del 1932 (Die Idee der Naturgeschichte). Nell’allegoria, per Benjamin, ritroviamo una sorta di sintesi dialettica tra il perenne (della natura) e la caducità (delle rovine). L’effetto è la messa in risalto della caducità (Vergänglichkeit) di ciò che appare dato eternamente, di ciò che, nel mondo umano, viene assunto come un dato originale, definitivo, perenne, quasi naturale o essenziale (si veda: Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels (1928), in: Gesammelte Schriften, Bd. I., Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1980, p. 353-354). Adorno riprenderà il passaggio di Benjamin per evidenziare esattamente la caducità effettiva di ciò che viene assunto come essenziale, naturale, presumibilmente legato alla natura stessa dell’essere (cfr. Th. W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte (1932), in: Gesammelte Schriften, Bd. I, Philosophische Frühschriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2003, p. 357 sgg.). 6 Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 343. 7 Ibidem, p. 353-354. 8 Ci riferiamo naturalmente alla logica in senso lato, intesa come l’insieme minimo ed elementare di regole di consistenza e coerenza. 9 Th. W. Adorno, Philosophische Terminologie, cit., p. 83. trad. it., cit., p. 78. 10 Ibidem. 11 Ibidem. Trad. it., p. 78sg. 12 Ibidem, p. 84. Trad. it., p. 79. 13 Ibidem, p. 84sg. Trad. it., p. 79sg. 14 Ibidem, p. 86. Trad. it., p. 81. 15 Ibidem, p. 87. Trad. it., p. 82. 16 È un’illusione della fenomenologia immaginare nel soggetto una dimensione preconcettuale (in senso forte). È una sua illusione immaginare un soggetto come elemento non ulteriormente riducibile, fatto originario. 17 Ovviamente la filosofia non è l’unico dispositivo a tradurre le idee in concetti. Negli stessi discorsi quotidiani questo può accadere, in un certa misura. Ma la filosofia compie questa operazione in maniera evidentemente sistematica e rigorosa. 18 È la filosofia critica come storia critica delle idee che fa emergere le connessioni tra concetti e idee e tra le idee e le varie pratiche sociali o esistenziali in cui esse operano. 19 Ibidem. Nell’originale abbiamo solo vertreten (rappresentare) e non «esprimere». La traduzione è tuttavia precisa in quanto vertreten significa rappresentare non nel senso della rappresentazione, ma della rappresentanza. 20 Ibidem, p. 88. trad. it., p. 82.

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Foucault e la storia critica del pensiero

di Raffaele Ariano

l’uomo, per bisogno o per noia, vuole esistere socialmente come in un gregge, egli è spinto a concludere la pace, e tende a far scomparire dal

suo mondo almeno il bellum omnium contra omnes […] A questo punto viene fissato ciò che in seguito dovrà essere la « verità »;

in altre parole, viene scoperta una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio

fornisce altresì le prime leggi della verità

F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale

1. Introduzione; 2. Una storia di verità piccole e non appariscenti, trovate con metodo severo; 3. Esperienza, ordine, episteme: una prima caratterizzazione del metodo foucaultiano; 4. Archeologia e genealogia: problemi di terminologia e periodizzazione; 5. L’indagine archeologica: enunciati, formazioni discorsive, regole di formazione; 6. Il movimento genealogico: discontinuità, molteplicità, contingenza; 7. Realismo, razionalità della scienza, naturalismo: confutazione o sospensione del giudizio?; 8. Conclusioni: critica trascendentale e critica storica.

1. Introduzione

In questo articolo cercherò di esporre la concezione foucaultiana della storia delle idee, evidenziandone al contempo gli aspetti metodologici e le finalità filosofiche più generali. Dato il carattere intrinsecamente asistematico ed in progress dell’opera di Foucault, mi sembra a tal fine necessaria una duplice opera di sintesi: da un lato, una considerazione simultanea di ciò che Foucault afferma di fare nei suoi scritti metodologici e di ciò che egli effettivamente fa nelle sue ricerche storiche – le due cose, infatti, non coincidono con esattezza –; dall’altro, una lettura trasversale delle varie fasi della sua produzione che sappia far emergere, al di sotto dei ripensamenti e dell’occasionalità delle diverse formulazioni, la continuità d’intenti che la muove. Tra le numerose

“etichette” utilizzate da Foucault per definire il suo lavoro, quella di «storia critica del pensiero»1

mi sembra la più adeguata. Il suo carattere generico permette di intendere “archeologia” e “genealogia” come i due momenti teorici dell’indagine foucaultiana, senza che l’una o l’altra possa aspirare, da sola, a ricoprirne per intero il campo; il riferimento alla “critica” esplicita sin da subito la filiazione kantiana del progetto di Foucault, e anticipa il compito, cui cercheremo di assolvere nelle conclusioni, di chiarire in quale misura esso riprenda il criticismo kantiano e in quale misura, invece, ne compia un radicale rovesciamento.

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2. Una storia di verità piccole e non appariscenti, trovate con metodo severo

Aprendo un qualsiasi testo di Foucault balza subito all’occhio il ruolo defilato ricoperto nelle sue ricostruzioni storiche dalle grandi individualità. Nella Storia della follia nell’età classica a Cartesio non vengono consacrate che poche paginette, a margine delle centinaia e centinaia dedicate alla scrupolosa analisi di oscuri trattati medicina, regolamenti di istituti correzionali, editti regi sulla gestione della mendicità. Ne Le parole e le cose la storia naturale di Buffon, le politiche economiche di Colbert o le teorie logiche di Arnauld ricevono uno spazio più ampio del pensiero di Kant, che pure costituisce il plesso teoretico fondamentale del libro. Non si tratta, peraltro, soltanto di una attenzione ai “minori”, ai documenti dell’opinione comune, alle parole incerte della vita quotidiana. La storia materiale vi gioca un ruolo altrettanto importante. Impossibile spiegare, in Sorvegliare e punire, i mutamenti nel discorso sull’illegalità e sulla punizione senza far riferimento ai cambiamenti economici, demografici e sociali connessi ai processi di urbanizzazione ed industrializzazione tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo; o ancora, ne La volontà di sapere, comprendere l’espansione del discorso psichiatrico sulla sessualità senza tener conto delle emergenze sociali relative a prostituzione e sifilide. Lo storico della cultura, insomma, deve accettare di sporcarsi le mani,

appuntando il proprio sguardo su materiali poco nobili, su fenomeni banali e quasi invisibili2. Deve

rifuggire, per usare l’espressione di Foucault, una storia di vertici3. La sua attività è grigia,

«meticolosa, pazientemente documentaria. Lavora su pergamene ingarbugliate, raschiate, più volte

riscritte»4. Di qui, un primo motivo di vicinanza – altri ne vedremo in seguito – tra la storia del

pensiero di Foucault e la storia della civiltà materiale praticata dalla Scuola delle Annales. Questa concretezza e questa acribia sono indice innanzitutto dell’ethos empirista e scettico con cui

Foucault interpreta la professione di storico5: scarso rispetto per i venerandi maestri del passato,

poca fiducia nella letteratura secondaria, messa tra parentesi delle partizioni disciplinari comandate; in compenso molta ingratitudine, molta attenzione ai documenti e una spiccata multidisciplinarietà. Multidisciplinarietà non tanto negli strumenti teorici utilizzati per la spiegazione storica – Foucault ne costruisce di originali e cerca di attenervisi scrupolosamente – quanto nel materiale empirico preso in considerazione. Egli non è, infatti, soltanto uno storico della scienza. Non si occupa di “scienze”, bensì di formazioni discorsive, oggetti che hanno insieme maggior ampiezza e confini più sfrangiati. Il discorso sulla follia, per fare un esempio, viene analizzato nel già citato testo del 1961 a cavaliere tra diritto, scienza naturale, medicina, filosofia, letteratura, teatro ed arte figurativa. Ruolo marginale delle grandi individualità, attenzione per la storia materiale, approccio multidisciplinare: conseguenze di un ethos, certo, ma anche, come avremo modo di vedere, scelte di metodo che sono sorrette da precise motivazioni teoriche e filosofiche.

3. Esperienza, ordine, episteme: una prima caratterizzazione del metodo foucaultiano

È bene, a questo punto, fare un passo indietro e chiedersi: qual è l’oggetto specifico della storia critica del pensiero? Ovvero, che cos’è questo “pensiero” cui si fa riferimento dicendo di volerne fare una storia critica? Foucault insiste nel differenziare la propria indagine da quella degli storici

della scienza, delle idee, della mentalità e dello spirito6. Afferma di non volersi limitare alla

ricostruzione superficiale del susseguirsi delle opinioni che questa o quell’epoca, questa o quella

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classe sociale, questa o quella testa pensante hanno professato per un certo tempo in un

determinato ambito del sapere; di non limitarsi, cioè, a ciò che definisce dossologia7. Sostiene di non

studiare semplicemente né i mutevoli comportamenti degli uomini né le rappresentazioni che

questi se ne fanno8. Che cosa allora?

Un primo concetto che può aiutarci a caratterizzare la peculiarità del suo ambito di studi è quello di esperienza. Nella Storia della follia l’intenzione di Foucault è di evidenziare, attraverso una ricostruzione dei mutamenti nella percezione culturale e nel trattamento sociale dei folli tra XVII e XVIII secolo, l’emergere di una sorta di esperienza fondamentale che di questi mutamenti avrebbe

costituito il criterio interno di senso9; ovvero, nel caso specifico, l’emergere dell’esperienza di ciò

che chiama sragione10

. Da un certo momento, sostiene Foucault, tutto un insieme di saperi e di pratiche sembra coordinarsi ad una esperienza culturale grezza, urgente ed efficace, nella quale una

data cultura «mette in gioco i valori che le sono propri»11

. Qualche anno dopo, in Le parole e le cose,

Foucault scrive di voler analizzare quell’“esperienza nuda dell’ordine e dei suoi modi d’essere»12

che, per ogni cultura, costituisce il «basamento positivo delle conoscenze», «ciò a partire da cui

conoscenze e teorie sono state possibili»13

. Tale esperienza dell’ordine determinerebbe lo «spazio

d’identità, di similitudini, d’analogie»14

che organizza il mondo per gli appartenenti ad una data

comunità di parlanti, ovvero quei «codici fondamentali»15

che, all’interno di una cultura, definiscono i campi empirici con cui ogni individuo ha a che fare. Non storia delle idee, delle istituzioni o delle pratiche, quindi, ma storia dell’esperienza; di una esperienza, cioè, che da un lato muta col mutare delle epoche, e quindi è storicamente determinata, ma che, dall’altro, ha la facoltà di determinare i saperi, i poteri e i comportamenti che caratterizzano un certo ambito socio-culturale. Quest’uso disinvolto e un po’ enigmatico del concetto di esperienza è stato, in seguito, rigettato esplicitamente dallo stesso Foucault, nella convinzione che esso si ponga ancora troppo vicino ad una storiografia essenzialistica, che ammette nella storia l’esistenza di qualcosa come un soggetto

anonimo e generale16

. Non significa, però, che il progetto di una storia dell’esperienza venga rigettato definitivamente. Nell’Introduzione a L’uso dei piaceri, e quindi nell’ultima riflessione metodologica che Foucault ci abbia consegnato, si afferma infatti di voler studiare la sessualità proprio in quanto esperienza, e cioè – per usare le parole del filosofo francese – come

«correlazione, in una cultura, fra campi del sapere, tipi di normatività e forme di soggettività»17

. Non siamo più, come si vede, di fronte ad una concezione dell’esperienza come dato grezzo ed originario, ma come prodotto di «giochi di verità» e pratiche sociali attraverso cui, leggiamo, «l’essere si costruisce storicamente come esperienza, vale a dire come essere che può e deve essere

pensato»18

. È ancora possibile quindi, in questo secondo senso, concepire l’indagine di Foucault come una storia critica dell’esperienza, e cioè come una indagine storica sulle condizioni di possibilità ed i limiti dell’esperienza umana. Se si afferma, però, che l’esperienza è ciò che può e deve essere pensato a partire da determinate condizionanti storiche, vuol dire che non le si attribuisce più un valore costituente, ma che, al contrario, la si considera – in modo coerente con il criticismo kantiano – come costituita. Col che rimane quindi aperta la domanda su che cosa costituisca

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l’esperienza. Qual è, dobbiamo chiederci ancora una volta, l’ultima istanza cui fa appello la storia del pensiero? I giochi di verità, come si diceva poc’anzi. Ma che cosa sono i giochi di verità? A farla da padrone ne Le parole e le cose è, come noto, il concetto di episteme. Raccogliendo nel modo più esplicito l’eredità teorica dello strutturalismo, Foucault designa con tale parola quelle griglie semiologiche che, in modo inconscio ed anonimo, e cioè indipendentemente da un soggetto che sia in grado di coglierle ed attualizzarle consapevolmente, determinano le modalità storiche in cui

vengono connesse le parole e le cose. Tali griglie semiologiche danno luogo all’ordine delle cose19

che caratterizza un certo spazio socioculturale; costituiscono, cioè, quel criterio d’ordine fondamentale di cui si è parlato sopra. Nel testo del 1966 Foucault descrive tre epistemi successive e tra loro discontinue: quella rinascimentale, basata sulla somiglianza, quella classica, basata sulla rappresentazione e quella moderna, basata sull’organizzazione. Leggiamo in proposito: «In una cultura e a un momento preciso, non esiste che una sola episteme, la quale definisca le condizioni di possibilità di ogni sapere: sia quello

che si manifesta in una teoria, sia quello che è silenziosamente investito in una pratica»20

. Il passo in questione riguarda la relazione tra le teorie economiche dell’età classica e le politiche monetarie perseguite dai governi nello stesso periodo, e potrebbe, perciò, far semplicemente riferimento all’esistenza di una sola ed unica episteme per quanto riguarda il campo specifico del sapere economico classico. Al contempo, è difficile trascurare che, nella maggioranza dei casi in cui il concetto di episteme ricorre ne Le parole e le cose, esso fa riferimento alla griglia trans-disciplinare che regge, simultaneamente, tutti i saperi presi in esame da Foucault, ovvero l’analisi delle ricchezze, la grammatica generale e la storia naturale. È probabile quindi, per quanto Foucault non sia del tutto esplicito in proposito, che il passo sopra citato vada inteso in questo modo: esiste una ed una sola episteme nel Rinascimento, una ed una sola nell’Età classica, una ed una sola nell’Età moderna. Se non era questa l’intenzione di Foucault, è in tal senso, ad ogni modo, che è andata l’interpretazione dei suoi detrattori. Facendo autocritica nell’Introduzione dell’Archeologia del sapere, Foucault lamenta infatti che in Le parole e le cose «la mancanza di una base metodologica ha potuto

far credere ad analisi in termini di totalità culturale»21

. Il concetto di episteme è stato, cioè, assimilato

a quello di Weltanschauung22

; una confusione che, capiremo in seguito per quale motivo, sarebbe risultata esiziale per il conseguimento dei compiti che Foucault si propone con la sua indagine. Per far fronte alle critiche giunte all’indomani della pubblicazione di Le parole e le cose, Foucault s’impegna quindi a definire le epistemi facendone apparire con la maggior chiarezza possibile il

carattere derivato e secondo23

. Correttamente inteso, spiega, il concetto di episteme non fa riferimento ad altro che ad alcune circoscritte relazioni di isomorfismo e coesistenza che possono essere riscontrate, in sede d’indagine empirica, tra due o più saperi appartenenti ad una medesima epoca; la qual cosa significa che, a seconda del piano d’indagine che si sceglie e dei saperi che si pongono a confronto, l’analisi storica potrà rivelare molteplici epistemi tra loro incompatibili all’interno di uno stesso periodo storico. «L’episteme – scrive Foucault nell’Archeologia del sapere – non è una forma di conoscenza o un tipo di razionalità che, passando attraverso le scienze più diverse, manifesti la sovrana unità di un soggetto, di una mente o di un’epoca; è l’insieme delle relazioni

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che per una data epoca si possono scoprire tra le scienze quando si analizzano al livello delle

regolarità discorsive»24

. Neanche le epistemi, così come l’esperienza, rappresentano quindi l’ultima istanza che cercavamo, ovvero una buona caratterizzazione di quei giochi di verità cui si è fatto riferimento. Nella sua formulazione più articolata, e cioè quella esposta negli interventi metodologici su L’archeologia del sapere e L’ordine del discorso, la storia critica del pensiero concerne pratiche discorsive, ovvero enunciati, formazioni discorsive e regole di formazione. La loro descrizione è ciò che Foucault chiama archeologia del sapere. Prima di capire di che cosa si tratti è, però, necessaria una digressione terminologica.

4. Archeologia e genealogia: problemi di terminologia e periodizzazione

Foucault ha fornito definizioni discordanti di alcuni dei suoi più rilevanti termini tecnici; in particolar modo dei concetti di archeologia e genealogia, che caratterizzano, come noto, nel modo più ampio la sua storia critica del pensiero. Il filosofo di Poitiers ha ammesso che dagli interventi degli anni ’70 in poi si è verificata, nella sua riflessione, una certa soluzione di continuità, coincisa con una più corretta tematizzazione del problema del potere e delle sue relazioni col sapere. Nello stesso periodo, Foucault rivendica in modo sempre più esplicito ed insistito il suo debito filosofico nei confronti di Nietzsche; non più però, come avveniva negli anni ’60, sul filo dei temi dell’essere del linguaggio e della morte dell’uomo, bensì di quelli del potere e della genealogia. Il concetto nietzscheano di genealogia viene in questa fase utilizzato, apparentemente in sostituzione di quello di archeologia, per caratterizzare nel modo più generale l’approccio foucaultiano alla storia, al punto da affermare, in un’intervista del 1975, che a voler essere pretenziosi si potrebbe dare al suo

lavoro nientemeno che il titolo di genealogia della morale25

. Nella stessa intervista, Foucault afferma che Nietzsche gli appare soprattutto colui che ha saputo dare come «bersaglio» al pensiero filosofico i rapporti di potere senza, però, rinchiudersi nelle angustie di una teoria politica

incentrata sul problema della sovranità26

.

Filosofia della forza ed ontologia della contingenza27

sono strettamente collegate in Nietzsche, così come in Foucault la riflessione sul potere e il compito di pensare la storia in senso genealogico, e cioè, come vedremo, attraverso le categorie filosofiche della singolarità e della contingenza. Ciononostante, non credo sia corretto inferire, come hanno fatto talvolta gli interpreti, che la caratteristica peculiare della genealogia sarebbe essenzialmente il suo riferimento al problema del potere. Sottoscrivendo questa generalizzazione, alla quale indirizzano peraltro alcune affermazioni

dello stesso Foucault28

, si è portati ad interpretare nei seguenti termini la frattura teorica tra anni ’60 ed anni ’70: nella prima fase, Foucault si sarebbe concentrato esclusivamente sul problema del sapere, rimanendo confinato nell’ambito angusto di una archeologia delle formazioni discorsive; nella seconda fase, invece, la scoperta del più complesso campo di relazioni tra sapere e potere avrebbe dischiuso il livello d’indagine proprio della genealogia del potere. Stando a questa interpretazione, archeologia del sapere e genealogia del potere si distinguerebbero quanto alla natura del loro oggetto e caratterizzerebbero, di conseguenza, due distinte fasi della produzione foucaultiana.

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Mi sembra che una simile generalizzazione non quadri con il concreto andamento del lavoro di Foucault. Se è vero, infatti, che il testo archeologico per eccellenza, Le parole e le cose, esclude programmaticamente dalla propria considerazione tutto quanto attiene all’ambito delle pratiche sociali e delle istituzioni – ciò che, appunto, negli anni ’70 verrà definito come «potere» –, dedicandosi unicamente alla ricerca delle regolarità discorsive, altrettanto non può dirsi per gli altri due grandi studi del primo periodo, La storia della follia nell’età classica e La nascita della clinica. In essi non troviamo ancora, è vero, una riflessione esplicita ed articolata sul rapporto sapere/potere, ma è ciononostante chiaro che è proprio di questo che si sta parlando effettivamente: come spiegare altrimenti il tentativo ivi condotto di leggere la nascita della psichiatria in relazione a quella del manicomio, o quella della medicina clinica in relazione al sorgere dell’istituzione ospedaliera moderna? Inoltre, come vedremo meglio in seguito, nel testo metodologico del 1969, L’archeologia del sapere, le pratiche discorsive sono esplicitamente concepite come il prodotto di relazioni che «si stabiliscono tra istituzioni, processi economici e sociali, forme di comportamento, sistemi di norme, tecniche, tipi di classificazione, modi di caratterizzazione», le quali «determinano il fascio di rapporti che il discorso deve effettuare per poter parlare di questi e di quegli oggetti, per poterli

trattare, nominare, analizzare, classificare, spiegare»29

. Come ha rilevato giustamente Deleuze, è evidente che già in questo testo sull’archeologia Foucault abbozzi la concezione di una «filosofia

politica», ovvero, onde evitare equivoci, di una analitica dei rapporti tra sapere e potere30

. Per questi motivi, sono convinto che il modo più corretto di concepire i rapporti tra archeologia e genealogia sia quello di coglierle, coerentemente con quanto ha sostenuto lo stesso Foucault, come

«dimensioni necessariamente simultanee della stessa analisi»31

, che non si distinguono quanto all’oggetto della loro indagine bensì, piuttosto, quanto alle sue modalità. In questa prospettiva, sembra più esatto considerare l’archeologia come quel metodo che permette alla storia del pensiero di costituirsi in quanto indagine sulle pratiche discorsive – e cioè su quella particolare dimensione della prassi umana in cui il sapere ed il potere si scambiano vicendevolmente e si producono l’uno con l’altro –, e la genealogia come quel gesto filosofico attraverso il quale i materiali prodotti dall’archeologia vengono indirizzati alla valorizzazione della singolarità, della contingenza e della

discontinuità nel discorso storico32

. In altre parole, archeologia del sapere/potere e genealogia

debbono essere considerate come i due momenti permanenti in cui la pratica storico-filosofica33

di Foucault si è articolata ininterrottamente, dalle opere dei primi anni ’60 fino a quelle degli anni ’80; due momenti che, vorrei ipotizzare, possono esser fatti corrispondere a due livelli successivi di elaborazione teorica: la descrizione archeologica ad una riflessione di metodologia della storia della cultura, il movimento genealogico ad una di filosofia della storia della cultura. Poco importa che la

parola «genealogia» emerga soltanto nel 197034

, o che da quel momento in poi i riferimenti all’«archeologia» si facciano più radi; il concetto di genealogia ben descrive alcuni aspetti delle ricerche condotte negli anni ’60 e riassume persino alcune delle riflessioni teoriche – in particolare sui concetti di rarità, esteriorità, cumulo e discontinuità – contenute nel testo metodologico del

196935

; il concetto di archeologia, a sua volta, continua a descrivere accuratamente la metodologia

foucaultiana ben oltre la soglia del 197036

.

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5. L’indagine archeologica: enunciati, formazioni discorsive, regole di formazione

L’intera ricerca storica di Foucault può, quindi, essere concepita come indagine archeologica, ovvero, sin dall’inizio, come analitica delle relazioni tra sapere e potere. Enunciati, formazioni discorsive e regole di formazione sono il suo oggetto permanente, dalla Storia della follia del 1961 al terzo volume della Storia della sessualità, pubblicato nel 1984. È ora di capire in concreto che cosa ciò significhi. La produzione del discorso è, secondo Foucault, sottoposta in ogni società a delle procedure di

controllo, selezione, organizzazione e distribuzione37

. Esse non si limitano, come si potrebbe immaginare frettolosamente, ai meccanismi di censura e di «interdetto», che pure esistono e

vengono da Foucault tenuti in considerazione38

. Non si tratta di strategie di controllo che siano messe in atto consapevolmente da qualche soggetto, individuale o collettivo – una comunità di studiosi, una istituzione, una classe –, nonostante in esse si giochi con chiarezza una «lotta

politica»39

. Non sono descrivibili attraverso i classici concetti di repressione ed ideologia40

. Il punto è che tali procedure non investono il discorso dall’esterno, una volta ch’esso si sia formato in modo

autonomo, bensì dall’interno, organizzando sin dall’inizio le modalità stesse della sua produzione41

. La produzione del discorso è, cioè, in se stessa regolare: avviene in ottemperanza a determinate regole di formazione degli enunciati, le quali danno luogo a regolarità discorsive. Gli enunciati dell’economia politica, della storia naturale, della psichiatria o dell’etica tardo-antica sono tali in quanto manifestano delle regolarità discorsive e, quindi, il rispetto di alcune regole di formazione comuni. Con l’agilità del filosofo di professione, Foucault si muove nella costitutiva ambiguità semantica del concetto di regola, intendendolo talvolta come «andamento più o meno ordinato e costante di un complesso di eventi» e talaltra come «precetto, norma indicativa di ciò che si deve fare in certe

circostanze»42

. Nel primo caso, siamo di fronte a regolarità che, al pari di quelle della natura, possono essere scoperte ed eventualmente spiegate dallo studioso in sede di ricerca empirica, ma che non hanno bisogno, per questo, di qualcuno che ne sia stato l’artefice. Nel secondo caso, invece, il riferimento sembra essere appunto a dei precetti, che, in quanto tali, dovrebbero derivare da qualcuno che ne abbia data una formulazione esplicita. Questa ambiguità è sciolta da Foucault con il tentativo, in un certo senso paradossale, di pensare dei «precetti» che siano inconsci ed anonimi, ovvero regole che, come le epistemi di cui si è parlato in precedenza, non abbiano bisogno di venir formulate consapevolmente nell’intelletto di chi le segue. Regole che sono efficaci, e ciononostante non fanno parte del contenuto intenzionale dell’agire degli individui. Regole, per fare un esempio, che inconsapevolmente lo psichiatra segue nell’enunciare il discorso terapeutico ai suoi pazienti, ma sulle quali egli non saprebbe dire una volta interrogato esplicitamente e che, quindi, non coincidono esattamente né con quanto sta scritto nei manuali di psicoterapia né con ciò che è prescritto dai regolamenti degli ospedali psichiatrici. L’unico modo coerente per pensare l’anonimato post-soggettivo di queste regole di formazione è concepirle come la procedura ordinata che caratterizza alcune pratiche, ovvero quelle che ne L’archeologia del sapere vengono chiamate pratiche discorsive. Per questo motivo, Foucault assimila il concetto di regola di formazione e quello di pratica discorsiva, definendo quest’ultimo come «un insieme di regole anonime, storiche, sempre determinate nel tempo e nello spazio che hanno definito in una data epoca, e per una data

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area sociale, economica, geografica o linguistica, le condizioni di esercizio della funzione

enunciativa»43

. Rimane problematico, ad ogni modo, lo statuto ontologico di simili entità. Sono esse, come talvolta Foucault sembra far intendere, nient’altro che un modo che lo storico della cultura ha per designare, a posteriori ed ipoteticamente, le regolarità che l’indagine empirica ha rivelato? Oppure hanno una consistenza ed un’efficacia assolutamente reali ed autonome? Si tratta, come si vede, di una versione della disputa tra interpretazione realistica ed interpretazione metodologica del concetto di struttura; una disputa alla quale Foucault non sembra prendere parte con una posizione perfettamente definita. La natura di questo «inconscio», peraltro, non va fraintesa. Le regole di formazione degli enunciati sono inconsce non nel senso che risiedono nel fondo nascosto della coscienza degli psichiatri; tantomeno esse sono il contenuto rimosso di una qualche coscienza collettiva, quella dell’istituzione psichiatrica, del «medicalismo» o, magari, della società borghese. Le regole di formazione sono inconsce proprio nella misura in cui sono anonime, ovvero prive di un autore e di un soggetto. Non si esercitano dal fondo di una qualche interiorità, individuale o collettiva, ma

nell’esteriorità dispiegata di una proliferazione senza soggetto44

. Se la descrizione archeologica, come si è detto sopra, non vuole limitarsi alla superficialità della dossologia, non per questo guarda alle profondità che interessano le discipline dell’interpretazione. Il suo procedere si distingue nettamente da quelli dell’esegesi e dell’ermeneutica: non cerca nel Testo la presenza sovrana delle intenzioni del suo autore, né quella dell’impensato essenziale che ne avrebbe determinato silenziosamente il pensiero consapevole. Non vuol «dire per la prima volta quel che tuttavia era già

stato detto e ripetere instancabilmente ciò che, nondimeno, non era mai stato detto»45

; vuole descrivere gli enunciati nella loro regolarità ed inferire, da essa, le regole che hanno reso possibile la loro formazione. In tal modo, Foucault ritiene di porsi all’interno di un generale processo di ridefinizione dei compiti della ricerca storica, che caratterizzerebbe tanto storia delle idee e delle scienze a lui contemporanea, in particolare nella figura di autori come Bachelard, Canguilhem, Serres e Guéroult, quanto la storia tout cour, e in particolare quella della École des Annales, cui appartenevano, per citarne alcuni, autori come Bloch, Febvre, Braudel e Le Goff. Tale ridefinizione concerne la posizione che lo studioso assume nei confronti del documento storico e comporta, secondo l’autore dell’Archeologia del sapere, l’abbandono della concezione prevalente della pratica storiografica

come di una sorta di versione estesa della facoltà umana della memoria46

. La storia non deve più proporsi di interpretare il documento storico, ricostruendo ex-negativo, a partire dalla traccia costituita dalla sua materialità inerte, ciò che hanno fatto, detto e pensato gli uomini del passato; essa

dev’essere invece «l’impiego e la messa in opera di una materialità documentaria»47

. Il suo compito è di lavorare dall’interno ed elaborare il documento storico: «lo organizza, lo seziona, lo distribuisce, lo ordina, lo suddivide in livelli, stabilisce delle serie, distingue ciò che è pertinente da

ciò che non lo è, individua degli elementi, definisce delle unità, descrive delle relazioni»48

. Si concentra, appunto, su regolarità e strutture. Deriva da qui l’espressione «archeologia del sapere»: «C’era un tempo – scrive Foucault – in cui l’archeologia, come disciplina dei monumenti muti, delle tracce inerti, degli oggetti senza contesto e delle cose abbandonate dal passato, tendeva alla

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storia e acquistava significato soltanto mediante la restituzione di un discorso storico; si potrebbe dire, giocando un poco con le parole, che attualmente la storia tenda all’archeologia, alla

descrizione intrinseca del monumento»49

. Discorsi, regole di formazione e pratiche discorsive eccedono quindi gli individui, li attraversano, li sovrastano nel tempo e nello spazio. Per questo motivo l’indagine archeologica decide di sospendere, o quantomeno di porre in secondo piano, i riferimenti ad entità come quelle di autore, opera e libro, le quali, nel discorso storico sulla cultura, agiscono secondo Foucault come rimando costante alla coscienza umana quale soggetto sovrano dei discorsi, quale loro origine e quale causa del loro modificarsi. L’archeologia sceglie di non riferirsi ad esse come se potessero fungere da unità empiriche «elementari» della storia della cultura; mancano loro i requisiti di stabilità ed oggettività che sarebbero richiesti a tale scopo. La designazione d’autore, per cominciare, non è l’equivalente né di una descrizione definita né di un nome proprio; è piuttosto una funzione culturale complessa, epistemologicamente onerosa e storicamente mutevole, che andrebbe

problematizzata ed analizzata in quanto tale50

. Altrettanto si può dire per la designazione d’opera: la scelta di cosa includere nell’opus di un autore è carica di una moltitudine di decisioni ermeneutiche preliminari che, quand’anche rimangano del tutto inconsapevoli, sono non per

questo meno determinanti51

. Persino il libro, a dispetto della sua apparente compattezza, è

secondo Foucault molto più «il nodo di un reticolo»52

che quello scrigno chiuso, dotato saldamente di un inizio e di una fine, che ci è suggerito dalla sua presenza materiale. Anche un singolo libro, infatti, sussiste unicamente in virtù di una trama complessa di inferenze ad altri libri, documenti, discorsi di senso comune, pratiche sociali, etc. Per essere più chiari: Foucault non vuole sostenere che il testo delle Meditazioni metafisiche, l’opus cartesiano o l’individuo Renato Cartesio non siano di nessuna importanza per la storia del pensiero; vuole mostrare, piuttosto, che è possibile una storia della cultura che metta coerentemente in secondo piano la loro descrizione. Una simile decisione metodologica consente di sfuggire alla soggezione nei confronti delle grandi individualità del pensiero, per approdare ad uno studio dei contesti enunciativi che determinano la regolarità dei discorsi geniali ed innovativi dei grandi autori non meno di quella dei discorsi grigi ed ordinari che circolano nelle istituzioni carcerarie, nella legislazione degli Stati, nei manuali di botanica o di medicina. Non l’originale è ciò che conta per la storia critica del pensiero, ma,

appunto, il regolare53

. Deriva da qui la natura a patchwork dei libri di Foucault, il cui andamento è caratterizzato da un accumulo ordinato di citazioni e frammenti di teorie che, se analizzati nel loro locus testuale ed autoriale originario, risulterebbero in molti casi tra loro contraddittori, ma che, una volta decontestualizzati, contribuiscono coerentemente a disegnare la figura di una formazione

discorsiva54

. Di qui, inoltre, il carattere erudito della sua ricerca, che può essere efficace solo se prende in considerazione una moltitudine vertiginosa di documenti dalle provenienze più disparate, anziché soltanto quegli autori “canonici” che siano stati già familiarizzati dalla ricerca storica. È importante spiegare, a questo punto, che cosa venga prescritto dalle regole di formazione, ovvero, il che è lo stesso, quali siano le caratteristiche comuni che gli enunciati di una medesima formazione discorsiva devono condividere per essere considerati tali. Foucault avanza numerose

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proposte a questo riguardo, eppure non elabora mai una teoria del tutto esaustiva e definita. Nella necessità di operare una sintesi, che tenga conto al contempo di ciò che Foucault proclama negli scritti metodologici e di ciò che fa effettivamente nelle sue ricerche empiriche, mi pare che il miglior modo sia affermare che le regole di formazione prescrivono 1) le modalità di produzione degli oggetti del discorso e 2) le modalità di qualificazione dei soggetti parlanti. Le regole di formazione, per dirla altrimenti, prescrivono le pratiche di soggettivazione ed oggettivazione che, all’interno di una certa

veridizione (o anche, gioco di verità), delimitano i soggetti e gli oggetti possibili per il discorso vero55

. Muoverò ancora una volta dall’esempio della psichiatria. Essa disegna secondo Foucault un’unica formazione discorsiva, che è rimasta sostanzialmente invariata dalla sua nascita nell’Ottocento fino ad oggi. Al suo interno si sono succeduti concetti, teorie, regimi terapeutici anche molto differenti, ed, anzi, talvolta apertamente in contrasto tra loro; non si è modificato, però, quanto risulta essenziale per il livello archeologico della descrizione. Ad essere rimaste invariate sono, innanzitutto, le pratiche sociali di produzione degli oggetti del suo sapere. Dall’Ottocento ad oggi, le differenze individuali che fanno scattare la designazione di «malattia mentale» si evidenziano a partire da un insieme costante di superfici d’emergenza e delimitazione. Si è malati mentali perché designati come tali nella famiglia, nel gruppo sociale vicino, nell’ambiente di lavoro, nella comunità religiosa, ovvero in istituzioni certamente antiche, ma che nel mondo contemporaneo assumono caratteristiche peculiari sotto la spinta di specifici processi economici, demografici, politici, etc. Una volta avvenuta questa designazione iniziale, la parola passa all’istituzione medica e a quella giudiziaria, dalla interazione delle quali l’oggetto “folle” riceve una ulteriore specificazione dei suoi caratteri: appare, in tal modo, come un individuo la cui devianza sta posta a metà strada tra la patologia medica ed il comportamento criminale. A sua volta e di conseguenza, la criminalità, come del resto le forme della sessualità “perversa”, vengono così ad esser concepite non più come semplici infrazioni ad un codice del lecito e dell’illecito, come avveniva nelle età precedenti, ma come forme patologiche dell’identità, che caratterizzano l’individuo dal fondo della sua biografia, dell’ambiente sociale in cui è vissuto, delle relazioni familiari, eventualmente del suo codice genetico. Questo complesso psichiatrico-giudiziario si caratterizza inoltre per le specifiche modalità in cui le informazioni su questi soggetti patologici vengono raccolte, conservate, catalogate e divulgate; modalità che costituiscono una prima embrionale griglia di classificazione del fenomeno patologico. Per proseguire l’analisi in questa direzione è necessario, ad ogni modo, prendere in considerazione in modo sistematico non solo le superfici sociali da cui emerge la follia, ma anche lo statuto dei soggetti che sono autorizzati a tenere su di essa un discorso. I due aspetti, infatti, sono complementari. È necessario porsi, perciò, le seguenti domande: «chi parla? […] Qual è lo statuto degli individui che hanno – e sono i soli ad averlo – il diritto regolamentare o tradizionale,

giuridicamente definito o spontaneamente accettato, di profferire un simile discorso?»56

. E ancora: quali sono «le posizioni istituzionali da cui il medico tiene il suo discorso, e dove quest’ultimo

trova la sua legittima origine e il suo punto di applicazione?»57

. Lo psichiatra è un soggetto che si è formato in base a specifici criteri di scientificità, in istituzioni universitarie caratterizzate da peculiari regolamenti, norme pedagogiche, procedure di promozione del merito, meccanismi di accumulo e trasmissione del sapere; un soggetto che opera in una istituzione ospedaliera che è

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dotata di alcune gerarchie non sovvertibili, che intrattiene specifiche relazioni col potere politico, con l’erario dello stato, con la ricerca privata, con l’apparato giudiziario, i laboratori, le biblioteche; una istituzione che si fa carico, dinnanzi al resto della società, di specifici compiti di studio sistematico e gestione della popolazione. Si tratta solo di un esempio, ma sufficiente, mi auguro, ad esplicitare la convinzione di Foucault che esista tutto un complesso di relazioni – tra istituzioni, processi economici e sociali, forme di comportamento, tecniche, tipi di classificazione, sistemi di norme – che determina contemporaneamente i criteri di visibilità dei campi empirici, ovvero «il fascio di rapporti che il discorso deve effettuare per poter parlare di questi e di quegli oggetti, per poterli trattare,

nominare, analizzare, classificare, spiegare»58

, e i criteri d’esercizio dello sguardo, ovvero le modalità enunciative che si legano ad una «qualificazione e una assegnazione di ruoli per i soggetti

parlanti»59

. L’indagine archeologica sceglie deliberatamente di concepire soggetto ed oggetto dei discorsi nient’altro che come le variabili funzioni di alcune pratiche discorsive, e cioè come i posti vuoti che, per regolamento, devono essere occupati di volta in volta da coloro che vogliano partecipare ai giochi di verità che chiamiamo psichiatria, medicina, economia politica, biologia, etc. Se, come scrive Foucault, «non si può in qualunque epoca parlare di qualunque cosa», se «non basta aprire gli occhi, fare attenzione, o prendere coscienza, perché immediatamente nuovi oggetti

si illuminino»60

, non è perché le cose resisterebbero, a causa di chissà quale impedimento, in un oblio, in una invisibilità dalla quale emergeranno solo quando l’efficacia di una «scoperta» o di una conversione dello sguardo permetteranno loro di imporsi in tutta la loro neutrale oggettività; dal punto di vista dell’indagine archeologica, gli oggetti non preesistono al sapere, ma, al contrario, si formano nel sapere; vengono prodotti da determinate pratiche sociali, che ne costituiscono la condizione d’esistenza. Al contempo, quando l’archeologia fa riferimento a dei «soggetti d’enunciazione» non sta in tal modo riconducendo il discorso a qualcosa come una coscienza

costituente, una «pura istanza fondatrice di razionalità»61

, ma alle condizioni di produzione degli enunciati che una certa pratica prescrive a coloro che la intraprendono. «Le pratiche – scrive Foucault nel 1984 – intese come modo di agire e di pensare, offrono la chiave d’intelligibilità per la

costituzione correlativa del soggetto e dell’oggetto»62

. È evidente, inoltre, che in questa riflessione sulle pratiche discorsive è all’opera una tematizzazione dei rapporti circolari e produttivi tra sapere e potere: non solo il sapere viene applicato e riprodotto nelle relazioni di potere che sono tipiche di una società, ma trova in esse le proprie condizioni di possibilità, pur non potendo in alcun modo essere considerato quale loro mera sovrastruttura ideologica. Una pratica discorsiva costituisce, in definitiva, il basamento epistemologico a partire da cui potranno essere prodotti concetti, enunciati, teorie e applicazioni estremamente variabili e, persino, incompatibili tra loro; costituisce cioè, per utilizzare una fondamentale espressione foucaultiana sulla quale dovremo tornare più diffusamente, l’a priori storico dei discorsi che permette di costruire.

6. Il movimento genealogico: discontinuità, molteplicità, contingenza

Una volta spiegato in cosa consista il metodo «archeologico» della storia del pensiero, è necessario chiedersi quali siano, nel senso più ampio, le sue finalità. Si tratta di capire, cioè, in che cosa

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consista il movimento genealogico che Foucault vuole imprimere alla sua indagine. A titolo di caratterizzazione preliminare, si può affermare che il concetto di genealogia designa il tentativo di rovesciare i rapporti abituali tra contingenza e necessità nell’indagine storica. Lo studioso di storia muove dai fatti: documenti, testi, avvenimenti, decisioni, fenomeni. Nel momento in cui li accoglie per la prima volta, essi non sono altro che una molteplicità caotica e dispersa, nella quale sembra non disegnarsi ordine qualsivoglia. Secondo la concezione tradizionale della ricerca storica, il suo compito sarà, appunto, quello di identificare quest’ordine, mostrando l’inevitabilità di ciò che, solo per un difetto di conoscenza, era potuto inizialmente apparire come accidentale. Varie strategie vengono percorse a questo fine. La spiegazione causale: l’evento viene ricondotto ad una catena di cause che si prolunga indefinitamente nel tempo; il “dopo” trova fondamento nel “prima”, la contingenza non figura altro che come il punto zero del conoscere. La narrazione teleologico-continuistica: con l’ausilio di categorie come quelle di tradizione, influenza, sviluppo, evoluzione, progresso il materiale storico, ed in particolare quello culturale, viene ricomposto nella figura di grandi narrazioni continuistiche, nelle quali ogni frattura ed ogni novità risultano isolate su di uno sfondo rassicurante di

persistenza; ogni frammento di tempo prende senso inserendosi in un disegno più grande63

. La totalizzazione: categorie come quelle di Weltanschauung, mentalità, civiltà, spirito e ideologia consentono di rintracciare tra i fenomeni simultanei o successivi di una certa epoca una identità di senso, una trama di rispecchiamenti simbolici che coordinano ogni evento accidentale ad un complesso unitario di significati nascosti; la sovranità di una coscienza collettiva viene utilizzata

come principio di unità e di spiegazione64

. Il riferimento all’origine concepita come essenza: il percorso storico accidentato e contraddittorio di una istituzione, di un concetto o di una disciplina viene compreso facendo riferimento al momento, definito da Foucault «metafisico», della sua nascita; l’origine viene concepita come quell’attimo in cui le cose si rivelano nel loro splendore e, insieme,

nella loro verità essenziale ed è, perciò, considerata contenere in nuce tutti gli sviluppi successivi65

. Concepita in tal modo, e cioè come lavoro di rimozione della contingenza degli eventi, la storia contribuisce, secondo Foucault, a rinserrarci nel nostro presente: legittima ciò che siamo e ciò che pensiamo; afferma che non avremmo potuto essere altrimenti da quello che siamo diventati e che, in fondo, è un bene che sia così, perché se qualcosa muta nella storia non è che in meglio, in

direzione di un uomo disalienato, conciliato, finalmente riappropriatosi di sé66

. A tutto ciò Foucault oppone il tentativo di «reperire la singolarità degli avvenimenti al di fuori di

ogni finalità monotona»67

. Innanzitutto insistendo sulla discontinuità. A volte, in pochi anni «una

cultura cessa di pensare come aveva fatto fino allora e si mette a pensare altro e in altro modo»68

. Questo è secondo Foucault un fatto, un’evidenza empirica che lo storico della cultura ha il compito di accogliere come tale. Fratture, soglie, mutazioni, tagli semplicemente esistono. Posto questo dato di partenza, sono possibili due strategie opposte. La storia delle idee tradizionale sceglie di lavorare in vista di una riduzione e ricomposizione della discontinuità, dimostrando come il nuovo non faccia che riprendere, dall’alto di una maggiore evidenza empirica, di un metodo più accurato o di una ragione più cosciente di se stessa, ciò che già prima era stato pensato. La storia genealogica sceglie, al contrario, di sottolineare deliberatamente l’esistenza della discontinuità. Va a cercarla

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anche in quei discorsi che sembrano all’apparenza dire il medesimo; si sforza di mostrare che, insieme al nuovo, ad irrompere nel pensiero è l’altro, ciò che prima sarebbe stato semplicemente impensabile, insensato, irragionevole. Al mutare delle condizioni epistemologiche dei discorsi, sono i campi empirici stessi con cui gli uomini hanno a che fare a mutare profondamente: la follia studiata degli psichiatri dell’Ottocento è tutt’altra cosa da quella dei medici del XVII secolo, la produzione di cui parla l’economia politica di Ricardo tutt’altra cosa rispetto a quella indagata nell’«analisi delle ricchezze» classica, la «vita» della biologia darwiniana tutt’altra cosa rispetto alle «specie viventi» della storia naturale. La genealogia cerca, insomma, di reperire tagli e fratture

«dove meno li si aspetta e in ciò che passa per non aver storia»69

; essa «reintroduce nel divenire

tutto ciò che si era creduto immortale nell’uomo»70

. Al fianco della discontinuità e per gli stessi motivi, una storia del pensiero genealogicamente concepita deve valorizzare la molteplicità dei discorsi e dei loro criteri d’enunciazione. Questo tema attraversa, mi pare, molti dei problemi metodologici affrontati da Foucault: la revisione del concetto di episteme, condotta, come si è già spiegato, a cavallo tra Le parole e le cose e L’archeologia del sapere; il rigetto delle categorie di civiltà, spirito, Weltanschauung e mentalità quali strumenti adeguati

per il discorso sulla cultura71

; la critica alla concezione del potere che Foucault definisce «giuridico-

discorsiva»72

o, anche, «giuridico-negativa»73

, e in particolare alla convinzione che il potere si eserciti secondo un meccanismo intrinsecamente piramidale, irradiando da una fonte unica – lo Stato, i rapporti di produzione, la sovranità giuridica – e trasmettendosi in modo omogeneo fino

alle periferie del corpo sociale74

. Per Foucault, al contrario, la cultura implica in ogni epoca la coesistenza di giochi di verità differenti e tra loro incompatibili, di discorsi molteplici e differenziali che non sorgono da un grande soggetto collettivo che ne costituisca la necessità salda ed unitaria, bensì da una moltitudine «microfisica» di superfici istituzionali, pratiche, rapporti di forza che agiscono nelle pieghe minute del corpo sociale. Di quei saperi che sembrano discendere all’unisono dalla purezza essenziale di una intuizione comune, la genealogia cerca di mostrare, quindi, che essi «sono senza essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le

erano estranee»75

. Insistendo su discontinuità e molteplicità, la storia del pensiero vuole stabilire, quindi, «che noi siamo differenza, che la nostra ragione è la differenza dei discorsi, la nostra storia

la differenza dei tempi, il nostro io la differenza delle maschere»76

. Infine, di contro alla ricerca di un’origine essenziale e veneranda che ci dica chi siamo e che cosa dobbiamo essere, Foucault oppone quello che definisce un uso parodistico e buffonesco della

storia77

, che sappia mostrare come ogni cosa abbia origine, in verità, dal suo opposto: «l’inizio

storico è basso […], derisorio, ironico, atto a distruggere tutte le infatuazioni»78

. Ricordare che i supplizi, che ancora nel XVIII secolo imperversavano per la cristianissima Europa, sono stati abbandonati non a causa di un miglioramento dei nostri sentimenti morali, ma per il bisogno di un potere di punire più efficace e capillare, che solo la prigione e il moderno apparato di polizia hanno

saputo garantire79

; mostrare che l’atto di fondazione della ragione moderna, ovvero l’affermazione cartesiana dell’indubitabilità del cogito, ha avuto bisogno, quale suo presupposto non dichiarato, della rimozione dell’esperienza dei folli e, addirittura, del loro internamento nelle case di

correzione80

; suggerire, in generale, che al di sotto delle grandi impalcature empiriche e

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metodologiche delle nostre scienze, non sta tanto la potenza seminale di un “eureka”, o il genio di qualche pioniere della conoscenza, bensì la formazione regolare dei discorsi che viene resa possibile dalla grigia efficacia di istituzioni, pratiche sociali e norme pedagogiche. L’approccio genealogico, come ha sostenuto Foucault nell’unico testo che abbia mai esplicitamente dedicato al pensiero di Nietzsche, implica, in definitiva, il rovesciamento delle tre forme di storiografia che vengono prese in considerazione nella Inattuale Sull’utilità e il danno della storia per la vita: alla venerazione dei monumenti del passato (storia monumentale) oppone la loro parodistica riduzione in ridicolo; al rispetto delle antiche continuità che definirebbero ciò che siamo (storia antiquaria) oppone una dissociazione sistematica della nostra identità; alla critica delle ingiustizie del passato condotta in nome delle verità che l’uomo possiede nel presente (storia critica) oppone

la decostruzione del soggetto della conoscenza attraverso l’analisi dei giochi di verità81

. In tal modo, la genealogia può riconsegnare il materiale storico al registro genuino della contingenza, permettendo di «scoprire che alla radice di quel che conosciamo e di quel che siamo – non c’è la

verità e l’essere, ma l’esteriorità dell’accidente»82

. La storia critica del pensiero vuole descriverne l’accadere contingente, l’errare arbitrario. La

domanda cui vuole rispondere è: «qual è il cammino aleatorio della verità?»83

. Il fine della sua pratica è il poter pensare altrimenti, qui ed ora, «liberare il pensiero da ciò che esso pensa

silenziosamente e permettergli di pensare in modo diverso»84

. Scrive Foucault: «Ma che cosa è dunque la filosofia, oggi – voglio dire l’attività filosofica – se non è lavoro critico del pensiero su se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si sa già, nel cominciare a sapere come e fino

a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso?»85

.

7. Realismo, razionalità della scienza, naturalismo: confutazione o sospensione del giudizio?

Possiamo a questo punto situare la concezione foucaultiana delle formazioni discorsive all’interno del dibattito dell’epistemologia e della filosofia della scienza novecentesche. L’indagine archeologica, come abbiamo visto, sceglie di mettere deliberatamente tra parentesi il problema del referente; essa chiede di sostituire «al tesoro enigmatico delle “cose” di prima del discorso, la

formazione regolare degli oggetti che si disegnano soltanto in esso»86

. Foucault sembra assumere, così, una posizione epistemologica di tipo contestualista e costruttivista: per indagare il rapporto tra le parole e le cose non basta fare riferimento all’esistenza di un mondo “là fuori”, inteso come correlato neutrale e inerte della nostra coscienza; conoscere non equivale semplicemente a nominare adeguatamente una realtà che è indipendente dal soggetto e dal linguaggio, bensì a sottostare a tutto un insieme di condizioni che sono insieme più restrittive e più onerose. Ponendosi in questa prospettiva, la verità non è quindi concepita come relazione tra enunciati e stati di cose nel mondo, ma come relazione, interna ad un regime di pratiche discorsive, tra enunciati e condizioni storiche d’esercizio della funzione enunciativa. È come se Foucault stesse affermando che tra noi ed il mondo “là fuori” sussiste sempre la mediazione di un “mondo” che è il costrutto sociale storicamente determinato di certe pratiche discorsive, ovvero di un sistema complesso di relazioni tra saperi, istituzioni, processi economici, relazioni sociali, forme di comportamento, sistemi di norme, tecniche, procedure di classificazione, etc.

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Foucault non è interessato ad affermare che il “mondo-là-fuori” non esiste, o che esso, in quanto tale, è inconoscibile. Si limita ad affermare, invece, che è possibile e coerente un’indagine – appunto l’indagine archeologica – che si incentri esclusivamente sul “mondo-costrutto”, tralasciando completamente la considerazione del “mondo-là-fuori”. Per quanto Foucault sembri talvolta inclinare verso una sorta di “idealismo discorsivo”, possiamo altrettanto trovare nei suoi scritti esplicite prese di posizione di segno opposto, come quando afferma, ad esempio, che il fatto che le modalità di produzione degli oggetti del discorso mutino nel tempo «non significa che di

fronte non c’è nulla e che è tutto frutto della mente di qualcuno»87

. In molti momenti Foucault sembra avallare il motto nietzscheano secondo cui non ci sono fatti, ma soltanto interpretazioni; ciononostante, se accolta nella sua formulazione esplicita, la metodologia foucaultiana risulta, in ultima istanza, indifferente al problema metafisico del realismo e dell’idealismo, e può essere perciò utilizzata fruttuosamente tanto all’interno di una cornice epistemologica realista quanto all’interno

di una idealista88

; l’interesse di Foucault per tali problemi rimane, in definitiva, limitato alla volontà di garantire uno spazio di possibilità ed autonomia al livello archeologico di indagine, non mirando mai alla costruzione di una teoria gnoseologica conchiusa. Al costruttivismo sui generis di Foucault sono collegate le sue posizioni in merito alla razionalità della scienza e al naturalismo. Per quanto attiene al primo problema, Foucault sembra avvicinarsi decisamente alle posizioni di Kuhn e Feyerabend. Come il primo, riconduce i criteri di verificazione degli enunciati scientifici alle mutevoli condizioni storiche che caratterizzano i differenti “paradigmi”, negando così l’esistenza di forme trans-paradigmatiche di razionalità scientifica ed affermando, di conseguenza, che le fratture “rivoluzionarie” non possono in alcun modo essere descritte come momenti di progresso delle conoscenze; esse comportano, piuttosto, una ristrutturazione dei criteri di razionalità tanto profonda da rendere le conoscenze valide all’interno di un paradigma incommensurabili rispetto a quelle valide nel paradigma successivo. Come Feyerabend, ritiene che la filosofia debba proporsi un compito esattamente contrario rispetto alla ricerca di un criterio normativo di demarcazione tra scienza e pseudo-scienza. L’esistenza di simili criteri è in realtà un fatto, che può e deve essere studiato attraverso gli strumenti della sociologia della scienza e della storia della cultura; ma passando dal fatto della demarcazione all’esigenza normativa di una demarcazione si insegue l’opposto di quello che, tanto per Foucault quanto per Feyerabend, è il compito precipuo di una riflessione filosofica sulla scienza, ovvero una critica delle forme attuali della nostra razionalità che ci permetta di pensare altrimenti, di liberare il nostro pensiero dalle costrizioni cui è attualmente sottoposto. La negazione dell’intrinseca razionalità della scienza e la messa tra parentesi, per non dire la confutazione, del tema del suo progresso storico possono essere considerati, quindi, tra i motivi di fondo della metodologia di Foucault, come lui stesso non ha mancato di sottolineare

esplicitamente89

. Ciononostante, è possibile rimarcare anche in questo caso l’intrinseca “apertura” della cassetta degli attrezzi foucaultiana: persino il più convinto assertore del progresso delle conoscenze potrà fruttuosamente far propria la metodologia storiografica proposta da Foucault, al solo patto di non far intervenire il tema del progresso come criterio esplicativo prima facie del cambiamento culturale, preferendo ad esso l’indagine sistematica delle relazioni tra pratiche, saperi e poteri.

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Se col termine “naturalismo” intendiamo la posizione ontologica secondo cui esiste qualcosa come una “natura umana” e quella epistemologica secondo cui tale natura è accessibile alle scienze dell’uomo, ovvero la convinzione, sviluppata in particolar modo in filosofia della mente, che «gli eventi e i processi mentali sono parte della nostra storia naturale non meno della digestione, della

mitosi, della meiosi o della secrezione di enzimi»90

, non si può dubitare che Foucault inclini verso una forma di anti-naturalismo. L’anti-naturalismo foucaultiano ha, però, la peculiarità di non implicare alcuna assunzione di tipo antropologico o biologico sull’uomo, sulla plasticità del suo apprendimento e del suo linguaggio, sulla reale proporzione tra quanto egli apprende dai suoi simili e quanto riceve, invece, dal suo patrimonio genetico. Non discende, per dirla altrimenti, da una presa di posizione positiva circa i rapporti tra natura e cultura nella costituzione dell’umano ma,

appunto, dal suo costruttivismo epistemologico91

. Non solo, in generale, il discorso scientifico viene da lui considerato come prodotto di un determinato sistema di saperi e di poteri che ne costituiscono la condizione di enunciabilità; più in particolare, il discorso delle scienze umane ha, secondo Foucault, la peculiarità di essere stato investito in modo massiccio e diffuso in quello che chiama bio-potere, ovvero in una rete complessa di istituzioni e pratiche che sono in grado di plasmare la realtà sociale tanto a livello della popolazione, compiendo una bio-politica, quanto a

livello degli individui, compiendo una anatomo-politica del corpo umano92

. Aspetti determinanti di quella “natura umana” che le scienze sociali si propongono di “scoprire” risultano, perciò, influenzati da quelle stesse istituzioni e pratiche all’interno delle quali le scienze umane si esercitano e si applicano; è questo il caso, per citare il più lampante tra gli esempi che troviamo nell’opera di Foucault, della devianza sessuale, che secondo il francese è stata non solo scoperta e studiata dalla moderna scientia sexualis ma, piuttosto, suscitata, eccitata, installata nel corpo sociale attraverso il gioco continuamente rilanciato della cura, della sorveglianza e della correzione che

genitori, pedagoghi e psichiatri sono chiamati ad esercitare a tutto campo93

. Foucault non propone, come si vede, una negazione aprioristica del naturalismo. Mostra piuttosto, attraverso specifiche e circoscritte archeologie, che le pretese naturalistiche di saperi quali la psichiatria e la criminologia risultano quantomeno affrettate ed ingenue dinnanzi all’indagine archeologica, non tenendo conto del carattere “politico” della volontà di sapere che le muove; ma soprattutto, propone come opzione metodologica preliminare, e non necessariamente quindi come approdo definitivo, una generale sospensione della convinzione naturalista, che serva da presupposto e condizione di possibilità ad una storia critica delle scienze umane. Per concludere, nonostante Foucault sembri talvolta propendere verso posizioni anti-realiste, irrazionaliste ed anti-naturaliste, la sua metodologia è altrettanto compatibile con le posizioni contrarie. A questo proposito, l’unico vero e proprio punto fermo della sua proposta è la necessità di sospendere, nella ricostruzione storica del pensiero scientifico, i riferimenti al “mondo-la-fuori”, al progresso della conoscenza e alla universale e trans-storica natura dell’uomo. Chi vorrà mantenere simili presupposti non potrà che assumere nei confronti del sapere scientifico un atteggiamento di legittimazione che non sarebbe improprio definire ideologico; chi accetterà l’epoché scettica proposta da Foucault, al contrario, potrà eventualmente riguadagnare naturalismo, fede nella razionalità della scienza e realismo dalla posizione privilegiata di chi ha sottoposto le proprie convinzioni al vaglio di una autentica critica.

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8. Conclusioni: critica trascendentale e critica storica

Una mole crescente di letteratura secondaria vede nel rapporto con l’eredità filosofica di Kant il nucleo teoretico fondamentale a partire da cui è possibile avanzare un’interpretazione complessiva

del pensiero di Foucault94

. Approcciando il problema dal punto di vista della biografia intellettuale, non si può non segnalare che ad una ridiscussione critica del pensiero kantiano sono dedicati alcuni brevi ma fondamentali interventi che segnano, per così dire, l’inizio e la conclusione della parabola filosofica di Foucault. Risale al 1960 l’Introduzione all’«Antropologia» di Kant, presentata come tesi complementare di dottorato, nella quale il giovane Foucault interpreta la configurazione kantiana dei rapporti tra filosofia critica e antropologia come una anticipazione di quel «sonno

antropologico»95

nel quale, a suo avviso, sarebbe rimasto intrappolato tutto il pensiero

successivo96

. Al periodo compreso tra 1978 e 1984 risalgono, invece, gli interventi sull’illuminismo, che scorgono ancora una volta in Kant il punto d’origine dei filoni dominanti del pensiero contemporaneo – in particolare in relazione alla concezione della filosofia come critica – proponendo, al contempo, di ripercorrere in direzione contraria il movimento con cui Kant ha

tradotto in critica trascendentale la critica tout court97

. A più riprese Foucault prende le distanze dall’approccio trascendentalista: ne Le parole e le cose, ad esempio, quando denuncia la contraddittorietà costitutiva del tentativo, condotto dalla

fenomenologia husserliana, di conferire valore trascendentale ai contenuti empirici98

; o ne L’archeologia del sapere, quando sostiene che ciò che è essenziale per la sua metodologia è affrancare

la storia del pensiero da quella che definisce «soggezione» o, anche, «narcisismo» trascendentale99

, affermando, in seguito, di voler contribuire alla crisi di «quella riflessione trascendentale con cui

dopo Kant si è identificata la filosofia»100

. Ciononostante, Foucault non manca, altrove, di affermare esplicitamente che se la sua opera «si inscrive nella tradizione filosofica, lo fa nella

tradizione critica di Kant»101

. Mi sembra vi sia un solo modo per tenere insieme queste affermazioni in apparenza contraddittorie, e cioè affermare che Foucault è un kantiano nella misura in cui riprende dal filosofo di Königsberg il progetto della critica, ovvero l’indagine sui limiti e sulle condizioni di possibilità del conoscere, ma un kantiano anomalo, che rifiuta recisamente la declinazione trascendentale che Kant prima, e dopo di lui Husserl e Heidegger, hanno voluto conferire a tale ricerca. La distanza tra i due approcci risulta segnata nella differente concezione dell’oggetto dell’indagine critica, ovvero nella caratterizzazione dei limiti e delle condizioni di possibilità del conoscere: per Kant e per la tradizione prevalente nel pensiero contemporaneo, le condizioni della conoscenza sono trascendentali, e cioè universali per estensione e necessarie per modalità; Foucault, al contrario, indaga le condizioni storiche del conoscere, e cioè condizioni che sono relative a

particolari e contingenti ambiti socio-culturali e alle pratiche discorsive che li caratterizzano102

. Foucault propone, così, il passaggio da una critica trascendentale a quella che potremmo definire critica storica, ovvero ad una storia critica del pensiero. Il concetto di a priori storico segnala con l’incisività della formula tale passaggio: Foucault indaga gli a priori storici dei saperi, ovvero le regole di formazione e le pratiche discorsive che ne costituiscono la condizione storica di possibilità ed i limiti. Assieme alla necessità e all’universalità delle condizioni di possibilità, è necessario

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abbandonare anche un altro perno della configurazione kantiana del problema critico: il suo riferimento ad una soggettività costituente. L’a priori di Foucault non risiede nella trascendenza di un soggetto costituente, bensì nell’immanenza di un regime di pratiche storiche. Leggiamo: «il punto in cui [la mia indagine] si separa da tutte le filosofie della conoscenza consiste nel non riferire questo fatto [dell’esistenza dei discorsi] all’istanza di una donazione originaria che fondi il fatto e il

diritto in un soggetto trascendentale, ma ai processi di una pratica storica»103

. Si passa così da un a priori soggettivo a quello che, con riferimento all’uso kantiano del termine, mi pare di poter definire a priori pragmatico, in cui le condizioni del conoscere risultano radicate nel concreto esercizio di alcune pratiche e sono perciò sia costituenti, e quindi a priori, che costituite, e cioè storiche. Sono convinto, peraltro, che non sempre Foucault colga nel segno con i suoi distinguo dall’approccio kantiano. Se ha, infatti, fondate ragioni per porre la propria indagine critica in un contesto post-soggettivista e post-trascendentalista, non credo ne abbia altrettante quando, in un passo dell’Archeologia del sapere, rifiuta al suo a priori storico il carattere della formalità. Leggiamo: «Di fronte agli a priori formali la cui giurisdizione si estende senza contingenza, esso è una figura puramente empirica […] Niente sarebbe dunque più piacevole, ma più inesatto, che concepire questo a priori storico come un a priori formale che sia, per di più, dotato di una storia. […] L’a

priori formale e l’a priori storico non sono né dello stesso livello né della stessa natura»104

. Per quanto forzo si profonda nel concepire le pratiche discorsive come condizioni immanenti dei saperi, una qualche distinzione tra ciò che è condizione e ciò che è condizionato deve pur essere ammessa. Con buona pace di Foucault, mi sembra che l’unico modo coerente per concepire tale distinzione sia precisamente quello seguito da Kant nel differenziare “forma” e “contenuto” dell’esperienza. La differenza tra l’approccio di Kant e quello di Foucault, quindi, non mi pare essere segnata tra il formalismo del primo e l’anti-formalismo del secondo, ma tra l’universalità e necessità delle forme kantiane e la contingenza e storicità di quelle di Foucault; una differenza che, nel passo in questione, Foucault confonde appunto con quella tra carattere formale e carattere empirico della conoscenza, quando afferma che il suo a priori storico si differenzia da quello formale perché la sua giurisdizione non «si estende senza contingenza». Mi sembra sia stato proprio Foucault a dimostrare, applicando gli strumenti dell’analisi strutturale alla ricerca storica, che tra formalismo e contingenza non sussiste necessariamente contraddizione. Pur con tutta l’enfasi che pone sulle differenze che li separano, mi pare che Foucault non intenda “confutare” l’approccio trascendentale della critica di Kant. Vuole mostrare che è possibile impostare una indagine che sia critica in senso kantiano e che faccia, ciononostante, a meno di

qualsiasi riferimento al trascendentale105

. Non si può escludere, come ha scritto Foucault, che persino una simile indagine, che tenta di storicizzare tutto lo storicizzabile, si trovi un giorno di fronte ad un residuo irriducibile, che potrebbe a quel punto essere definito, anche nella sua prospettiva, come il trascendentale. Critica trascendentale e critica storica disegnano, in definitiva, campi di ricerca distinti, ma non necessariamente escludentisi. Ciò detto, esiste almeno un punto di vista da cui il loro orientamento non può che apparire come opposto. Le condizioni di possibilità dell’esperienza di Kant sono universali e necessarie. Valgono per tutti allo stesso modo, a qualsiasi latitudine ed in qualsiasi epoca. Ignorare i limiti che esse impongono equivale, perciò, a fare un uso

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illegittimo delle nostre facoltà conoscitive. La critica kantiana, di conseguenza, e cioè precisamente dal momento che è critica trascendentale, può costituirsi come teoria della conoscenza retta, ovvero come una indagine che fa corrispondere al riconoscimento dei limiti delle nostre facoltà conoscitive il ritrovamento, al di qua di questi limiti, dei loro usi fondati e legittimi. Le condizioni di possibilità di cui parla Foucault, al contrario, non sono né necessarie né innate. Esse mutano col mutare dei luoghi e delle epoche e non possono valere, perciò, in quanto criterio normativo. L’indagine foucaultiana, quindi, non ha come fine la critica delle forme illegittime del conoscere, bensì quella delle sue forme attuali. La storia critica del pensiero vuole fornire strumenti che permettano di liberarci dal nostro a priori storico, o meglio, poiché il plurale è più corretto, dai nostri a priori storici. Rispetto agli a priori contingenti che essa descrive, è sempre possibile mettere in atto delle pratiche di dislocazione del nostro punto di vista, produrre quelle che Foucault chiama eterotopie: luoghi non-luoghi, luoghi assolutamente altri che, con la loro presenza illusoria, rivelano l’illusorietà dello spazio in cui viviamo, lasciando alla promessa del tempo e dell’azione la

possibilità che, un giorno, l’attuale divenga l’altro106

. La storia critica di Foucault è una ontologia inattuale dell’attualità.

Note

1 M. Foucault, voce Foucault in D. Huisman (a cura di), Dictionnaire des philosophes, P.U.F., Paris 1984; trad. it. Foucault in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 248. 2 “Far vedere quel che non si vedeva, può voler dire spostarsi di livello, rivolgersi ad un livello che sino ad allora non era storicamente pertinente, non aveva nessuna valorizzazione, né morale, né estetica, né politica, né storica. Che il modo in cui si trattano i pazzi faccia parte della storia della ragione è oggi una cosa evidente. Ma non lo era cinquant’anni fa, quando la storia della ragione era Platone, Cartesio, Kant o ancora Archimede, Galileo e Newton”. M. Foucault, Conversazione sulla prigione: il libro e il suo metodo, in M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, p. 132. 3 Ivi, p. 119. 4 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, op. cit., p. 29. 5 Ad insistere meritevolmente sullo scetticismo di Foucault è la monografia P. Veyne, Foucault, Éditions Albin Michel, Paris 2008; trad. it. Foucault. Il pensiero e l’uomo, a cura di L. Xella, Garzanti, Milano 2010. 6 Tesi sostenuta a vario titolo lungo l’intero svolgimento di L’archeologia del sapere. 7 M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966; trad. it. Le parole e le cose, a cura di E. Panaitescu, BUR, Milano 2006, p. 221. 8 M. Foucault, L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984; trad. it. L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, a cura di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 2008, p. 10. 9 Cfr. M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique suivi de Mon corps, ce papier, ce feu et La folie, l’absence d’œuvre (1961), Gallimard, Paris 1972; trad. it. Storia della follia nell’età classica, a cura di Franco Ferrucci, BUR, Milano 2008, p. 177. Questa stessa espressione, “esperienza fondamentale”, torna anche nella Nascita della clinica. Cfr. M. Foucault, Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical (1963), Presses Universitaires de France, Paris 1972; trad. it. Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, a cura di A. Fontana, Einaudi 2007, p. 4. 10 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, op. cit., p. 176. 11 Ivi. 12 M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p. 11.

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13 Ivi, p. 11. 14 Ivi, p. 9. 15 Ivi, p. 10. 16 Con particolare riferimento all’uso che di questo concetto veniva fatto nella Storia della follia, cfr. M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. L’archeologia del sapere, a cura di G. Bogliolo, BUR, Milano 2006, p. 23.. 17 M. Foucault, L’uso dei piaceri, op. cit., p. 10. 18 Ivi, p. 12 19 Per l’opera che conosciamo come Le parole e le cose, Foucault aveva scelto in origine il titolo “L’Ordre des choses”, che gli fu, però, sconsigliato dall’editore Pierre Nora in quanto già in uso in più di libro afferente al filone strutturalista. Foucault decise così di optare per “Les Mots et les choses”, mantenendo, in seguito, il titolo originale per l’edizione inglese dell’opera (The Order of Things). Cfr. Cronologia, in M. Foucault, Archivio Foucault 1. 1961-1970. Follia, scrittura, discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 1996, p. 39. 20 M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p. 185. 21 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., p. 23. 22 Sembra sia stato in particolare Raymond Aron, durante un seminario tenuto alla Sorbona il 17 marzo 1967, a far notare a Foucault la spiccata somiglianza tra i due concetti. Cfr. M. Foucault, Archivio Foucault 1. 1961-1970. Follia, scrittura, discorso, op. cit., p. 41. 23 Cfr. M. Foucault, Sur les façons d’écrire l’histoire, intervista con R. Bellour, in Les Lettres Françaises, n. 1187, 15-21 giugno 1967; trad. it. Sui modi di scrivere la storia, in Archivio Foucault 1, op. cit., pp. 153-169, nonché M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., p. 209. 24 M. Foucault, L’archeologia del sapere, p. 251. 25 M. Foucault, Conversazione sulla prigione. Il libro e il suo metodo, op. cit., p. 135. 26 Ivi. 27 Cfr. V. Sorrentino, Il pensiero politico di Foucault, Meltemi editore, Roma 2008, pp. 232-242. 28 Nella già citata introduzione a L’uso dei piaceri Foucault distingue archeologia e genealogia in base al loro oggetto d’indagine, affermando che la dimensione archeologica è quella che analizza le forme di problematizzazione che caratterizzano una cultura mentre la dimensione genealogica è quella che analizza la loro formazione a partire dalle “pratiche”. M. Foucault, L’uso dei piaceri, op. cit., p. 16. 29 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., pp. 61-63. 30 G. Deleuze, Foucault, Les Editìons de Minuit, Paris 1986; trad. it. Foucault, a cura di P. A. Rovatti e F. Sossi, Edizioni Cronopio, Napoli 2002, p. 38. 31 M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung); trad. it. Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, p. 60. Si veda anche quanto Foucault sostiene in L’ordine del discorso: “Tra l’impresa critica e quella genealogica la differenza non è tanto di oggetto o di ambito, quanto di punto d’attacco, di prospettiva e di delimitazione”. M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L’ordine del discorso e altri interventi, a cura di A. Fontana, M. Bertani, V. Zini, Einaudi, Torino 1972, p. 34. 32 In Illuminismo e critica, ad esempio, Foucault definisce il livello archeologico come quella “procedura che, sottraendosi al criterio della legittimazione e, di conseguenza, al punto di vista fondamentale della legge, percorre il ciclo della positività, muovendo dal dato dell’accettazione [dei discorsi] al sistema dell’accettabilità analizzato alla luce del gioco sapere-potere”. Della genealogia Foucault afferma, invece, che essa si oppone “a una genesi che si orienta verso l’unità di una causa principale gravida di una discendenza multipla”, costituendosi quindi come un “tentativo di restituire le condizione dell’emergere di una singolarità a partire da fattori multipli di determinazione”. M. Foucault, Illuminismo e critica, op. cit., p. 56-59. 33 Ivi, p. 49. 34 Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso, op. cit., p. 31. 35 Cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., pp. 159-168.

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36 Mi sembra di proporre, così, una interpretazione che coincide, per quanto solo parzialmente, con la lettura “assiale” della produzione foucaultiana proposta in T. R. Flynn, Sartre, Foucault, and Historical Reason, Volume One: Toward an Existentialist Theory of History, University of Chicago Press, Chicago 1997 e T. R. Flynn, Sartre, Foucault, and Historical Reason, Volume Two: A Poststructuralist Mapping of History, University of Chicago Press, Chicago 2005. 37 M. Foucault, L’ordine del discorso, op. cit., p. 5. 38 Ibidem. 39 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., p. 162. 40 M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, in M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, op. cit., pp. 11-13. 41 Riprendo questa distinzione tra procedure di controllo “dall’interno” e “dall’esterno” da M. Foucault, L’ordine del discorso, op. cit., p. 11. 42 Riprendo queste due definizioni dalla voce “Regola” di N. Zingarelli, Lo Zingarelli. Vocabolario della Lingua Italiana, Zanichelli, Milano 2007, p. 1548. 43 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., pp. 157-158. 44 Non potendo approfondire il problema, mi limito a segnalare che le formazioni discorsive sono caratterizzate dalla stessa forma di proliferazione nell’esteriorità, senza autore e senza referente, che caratterizza, secondo l’interpretazione foucaultiana, la “parola” della letteratura moderna. Cfr. M. Foucault, La pensée du dehors, da Critique, giugno 1966, in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994; trad. it. Il pensiero del di fuori, a cura di C. Milanese, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 111-134. 45 M. Foucault, L’ordine del discorso, op. cit., p. 13 46 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., p. 10. 47 Ibidem. 48 Ibidem. 49 Ivi, p. 11. 50 Cfr. M. Foucault, Qu’est-ce-qu’un auteur, in Dits et écrits, op. cit.; trad. it. Che cos’è un autore, in M. Foucault, Scritti letterari, op. cit., pp. 1-21. 51 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., pp. 33-34. 52 Ivi, p. 32. 53 Ivi, pp. 186-196. 54 Si veda ad esempio l’uso sintetico che Foucault fa delle dottrine fissiste di Cuvier e di quelle evoluzioniste di Darwin, considerate tradizionalmente all’opposto le une delle altre, al fine di delineare i caratteri complessivi della biologia moderna in M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., pp. 285-302. 55 Di queste due formulazioni che propongo, la prima è più aderente a L’archeologia del sapere e L’ordine del discorso, la seconda alla sintesi fornita nella voce Foucault (Cfr. M. Foucault, Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, op. cit., pp. 248-252), scritta dal nostro sotto pseudonimo nel periodo degli studi della cosiddetta “svolta etica”, ovvero dei volumi secondo e terzo della Storia della sessualità, del seminario su Discorso e verità nella Grecia antica e dei corsi tenuti al Collège de France tra 1980 e 1984. 56 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., pp. 68-69. 57 Ivi, p. 69 58 Ivi, pp. 61-63. 59 M. Foucault, L’ordine del discorso, op. cit., p. 23. 60 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., p. 61. 61 Ivi, p. 73. 62 M. Foucault, Foucault, in Archivio Foucault 3. 1978-1986. Estetica dell’esistenza, etica, politica, op. cit., p. 252. 63 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., pp. 29-30. 64 Ibidem. 65 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, op. cit., p. 31.

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66 È qui in azione la critica al moderno “umanesimo”, che costituisce uno dei plessi teorici fondamentali del Foucault degli anni ’60 ma, altresì – seppur in modo più nascosto – dell’intera sua riflessione. 67 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, op. cit., p. 29. 68 M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p. 65 69 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, op. cit., p. 29. 70 Ivi, p. 42. 71 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., p. 30. 72 M. Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, a cura di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 2008, p. 73. 73 M. Foucault, Microfisica del potere, op. cit., p. 15. 74 A proposito della sessualità, Foucault scrive ad esempio: “dallo Stato alla famiglia, dal principe al padre, dal tribunale alla moneta spicciola delle punizioni quotidiane, dalle istanze di dominio sociale alle strutture costitutive del soggetto troveremmo un’unica forma del potere, soltanto su scale diverse”. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, op. cit., p. 76. 75 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, op. cit., p. 32. 76 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., pp. 175-176. 77 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, op. cit., p. 49. 78 Ivi, p. 32. 79 Cfr. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, a cura di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 2008. 80 Cfr. Michel Foucault, Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco, in Storia della follia nell’età classica, op. cit., pp. 485-509. 81 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, op. cit., pp. 49-54. 82 Ivi, p. 35. 83 M. Foucault, Questions à Michel Foucault sur la géographie, in Hérodote, n. 1, I trimestre 1976, pp. 71-85; trad. it. Domande a Michel Foucault sulla geografia in M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, op. cit., p. 150. 84 M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, op. cit., p. 14. 85 Ibidem. 86 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., pp. 64, 65. 87 M. Foucault, L’étique du souci de soi comme pratique de la liberté in Concordia. Revista internacional de filosofia, n. 6, luglio-dicembre 1984; trad. it. L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, op. cit., p. 290. 88 È questa la tesi sostenuta in C. G. Prado, Searle and Foucault on Truth, Cambridge University Press, Cambridge 2006. 89 Cfr. ad esempio la già citata Introduzione al secondo volume della Storia della sessualità: “Un certo spostamento teorico mi era parso necessario per analizzare ciò che spesso veniva designato come il progresso delle conoscenze: esso mi aveva portato a interrogarmi circa le forme di pratiche discorsive in cui si articolava il sapere.” M. Foucault, L’uso dei piaceri, op. cit., p. 11. 90 J. Searle, The Rediscovery of the Mind, MIT Press, Boston 1992; trad. it. La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 17. 91 Mi pare che la mancata comprensione di questa differenza abbia finito per mandare fuori bersaglio alcune delle critiche mosse in proposito a Foucault. Diego Marconi, ad esempio, nel capitolo Il ritorno della natura umana del suo Filosofia e scienza cognitiva (D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva [2001], Laterza, Bari 2008, pp. 124-139), si concentra soprattutto sull’appartenenza di Foucault ad una generica temperie culturalista del pensiero del secondo Novecento, nella quale vengono fatti rientrare indistintamente la psicanalisi, l’esistenzialismo, l’ermeneutica, l’etnoantropologia e la critica letteraria, mancando di cogliere la specificità della sua posizione ed avendo, perciò, buon gioco nel ritenere l’antinaturalismo di Foucault semplicemente “confutato” dall’avvento della linguistica chomskiana e delle scienze cognitive. 92 M. Foucault, La volontà di sapere, op. cit., p. 123.

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93 Ivi, pp. 36-48. 94 Cfr. M. Djaballah, Kant, Foucault, and Forms of Experience, Routledge, London 2008; B. Han, L’ontologie manquée de Michel Foucault. Entre l’historique et le transcendental, Jérôme Millon, Grenoble 1998; C. Koopman, Historical Critique or Transcendental Critique in Foucault: Two Kantian Lineages, in Foucault Studies, n. 8, February 2010, pp. 100-121; R. Nigro, Foucault e Kant: la critica della questione antropologica, in Foucault oggi, a cura di Mario Galzigna, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 278-287; K. Thompson, Historicity and Transcendentality: Foucault, Cavaillès, and the Phenomenology of the Concept, in History and Theory, n. 47, February 2008, pp. 1-18. 95 M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., pp. 66-68. 96 Cfr. M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico. Introduzione e note di Michel Foucault, a cura di M. Bertani e G. Garelli, Einaudi, Torino 2010, pp. 9-94. 97 Cfr. oltre al già citato Illuminismo e critica, M. Foucault, What is Enligthenment, in P. Rabinow, The Foucault Reader, Pantheon Books, New York 1984, pp. 32-50; trad. it. Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, op. cit., pp. 217-232; M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières, in Magazine littéraire, n. 207, maggio 1984, pp. 35-39 (estratto della lezione del 5 gennaio 1983 al Collège de France); trad. it. Che cos’è l’Illuminismo, in Archivio Foucault 3, op. cit., pp. 253-261; M. Foucault, La vie: l’expérience et la science, in Revue de métaphysique et de morale, gennaio-marzo 1985, a. 90, n.1, pp. 3-14; trad. it. La vita: l’esperienza e la scienza, in Archivio Foucault 3, op. cit., pp. 317-329. 98 M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p. 268. 99 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., pp. 264-256. 100 Ivi, p. 266. 101 M. Foucault, Foucault, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, op. cit., p. 248. 102 Riprendo la formulazione del problema qui proposta da C. Kroopman, Historical Critique or Trascendental Critique in Foucault: Two Kantian Lineages, op. cit., 109. 103 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., p. 252. 104 M. Foucault, L’archeologia del sapere, op. cit., pp. 171-172. 105 M. Foucault, I problemi della cultura. Un dibattito Foucault-Preti, in Il bimestre, n. 22-23, settembre-dicembre 1972. 106 Cfr. M. Foucault, Les hétérotopies Les corps utopique, Institut National de l’audiovisuel, Paris 2004; trad. it. Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Edizioni Cronopio, Napoli 2008.

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La noologia come critica delle immagini del pensiero:

un contributo deleuziano alla Storia Critica delle Idee.

di Antonio Moretti 1. La noologia come prassi del pensiero; 2. L’immagine dogmatica del pensiero; 3. Genealogia e Teoria delle forze; 4. La noologia come critica; 5. Sospensione della credulità.

1. La noologia come prassi del pensiero

Considerare il pensiero di Gilles Deleuze eminentemente legato alle sorti dei movimenti sociali, culturali e politici cui è stato associato, limitarlo a ciò e valutarlo di conseguenza è un modo malcelato di liquidarne il peso, la vastità e la capacità di affrontare a viso aperto la complessità delle istanze storiche e filosofiche da cui prende avvio. Al contrario, questo essenziale legame che l’opera di Deleuze intrattiene col proprio tempo, legame che finora «ha reso difficile una considerazione oggettiva della sua opera»1, è il sintomo di una concezione attiva, creatrice e al contempo caustica e critica della filosofia, che va più propriamente individuata come pratica o attività filosofica. Occorre quindi subito porre l’accento, in accordo al suo pensiero della sperimentazione e dell’immanenza, su come ogni aspetto dell’esistenza sia direttamente politico «non perché la politica s’infiltri in ogni ambito, ma perché l’esplicarsi della vita, nella totalità delle sue manifestazioni, ha sempre a che fare con processi che sono o di assoggettamento o di liberazione»2. Ed è proprio in tal senso, secondo un’istanza originariamente e primariamente pratica, che va riconsiderata la tematica de l’image de la pensée, l’immagine del pensiero. Essa nasce come una tematica al contempo gnoseologica e genealogica, che non rappresenta la classica ricerca filosofica del «metodo, ma qualcosa di più profondo, sempre presupposto, un sistema di coordinate, di dinamismi, di orientamenti: appunto pensare e «orientarsi nel pensiero»»3, ma che al contempo è «come il presupposto della filosofia, la precede. E questa volta non si tratta di una comprensione non filosofica, ma di una comprensione pre-filosofica»4 cui fanno capo tutte le istanze affettive e i presupposti impliciti che determinano il modo in cui ciascun pensatore risponde alla domanda «che cosa significa pensare?»; pertanto, «solo mettendo in luce queste immagini è possibile determinare le condizioni della filosofia»5 come condizioni effettive, genealogiche, non trascendentali. Lo studio delle immagini del pensiero attraversa trasversalmente l’opera deleuziana, per quanto in maniera sottaciuta, mai apertamente dichiarata nei testi. Soltanto in un’intervista, Deleuze ammetterà:

è l’oggetto vero di Differenza e ripetizione, la natura dei postulati dell’immagine del pensiero. Questo tema mi ha ossessionato in Logica del senso, dove l’altezza, la profondità e la superficie sono le coordinate del pensiero; l’ho

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ripreso in Proust e i segni, poiché Proust oppone tutta la potenza dei segni all’immagine greca; lo ritroviamo poi con Félix in Mille piani, perché il rizoma è l’immagine del pensiero che si estende sotto quella degli alberi6.

A tutto ciò, Deleuze assegna il nome di noologia, aggiungendo che «dovrebbe costituire i prolegomeni alla filosofia»7, a dimostrazione della particolare rilevanza che tale argomento ricopre nel percorso del suo pensiero, costituendo per esso una domanda sempre inevasa – e che proprio in virtù di ciò si smarca dalla possibilità di essere intesa in maniera prettamente metodologica o introduttiva: la noologia verrebbe terribilmente banalizzata e il suo valore quanto mai sminuito se non si considerasse che essa è preambolo di una filosofia della differenza e della ripetizione, che fa della sperimentazione in vivo della teoria e della creazione di concetti per ogni regione del pensiero la sua chiave di volta. Per questo motivo, la noologia costituirà dei prolegomeni paradossali, da ripetere ogni qual volta ci si impegni a pensare. Su questo aspetto della noologia come prassi inesausta del pensiero vuole indirizzarsi il presente contributo, verso la formazione di un pensiero propriamente critico, che al sapere come «tranquillo possesso di una regola di soluzione»8 – la cui immagine è precisamente quella del metodo come hodòs, sentiero già battuto da percorrere – oppone il movimento dell’apprendere, inappagato dal semplice conseguimento del risultato, che fa del «passaggio vivente tra non-sapere e sapere»9 un percorso indefinito di ricerca insistente della genesi del pensiero nelle sue condizioni materiali, un «compito infinito, che appare nondimeno ricondotto alle circostanze e all’acquisizione, estromesso dall’essenza che si suppone semplice del sapere in quanto inneità, elemento a priori o anche Idea regolatrice»10. Ecco che la noologia si presenta come ripetizione, nella pratica dell’insistenza critica, e come differenza, nell’affermazione di un’altra sensibilità, di un altro sentire, di un altro pensare: questo è quanto intendiamo mostrare.

2. L’immagine dogmatica del pensiero

Per comprendere appieno il portato critico della noologia e, assieme, fare in modo che essa ne eserciti tutto il potenziale, occorre anzitutto chiarificare i termini. Si tratta, quindi, di comprendere più a fondo cosa si intenda per immagine del pensiero e capire in quale maniera essa operi nei confronti del pensiero stesso. Solo allora potremo chiederci in quale misura la noologia possa costituirsi come prassi critica e verso cosa. In Differenza e ripetizione, Deleuze mostra come la tematica dell’immagine del pensiero sia collegata al problema del cominciamento in filosofia, del principio del pensare11. La filosofia moderna si è largamente scontrata con questo problema, cercando sempre di porre il cominciamento come un’eliminazione di tutti i presupposti del pensiero, come un’emendazione dell’intelletto – basti solo pensare all’individuazione degli idola nell’Instauratio magna baconiana o al rifiuto cartesiano di accettare la definizione di uomo come animale ragionevole, «perché una tale definizione presupporrebbe esplicitamente noti i concetti di ragionevole e di animale»12. Questa procedura è analoga a quanto avviene con la fondazione della metodologia o dell’oggetto nelle scienze cosiddette esatte: si identificano degli assiomi in grado di circoscrivere un ambito in cui il pensiero possa operare esente dagli errori causati da presupposti oggettivi: «sono detti presupposti oggettivi i concetti esplicitamente supposti da un concetto dato»13. Ma, contrariamente a quanto può

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avvenire nelle scienze, per le quali l’assiomatica rigorosa è – parzialmente o ideologicamente – in grado di arginare l’incombenza dell’errore, in filosofia ci si trova tanto dinanzi a presupposti oggettivi, quanto a presupposti di natura differente, che Deleuze nomina presupposti soggettivi. Questo secondo tipo di presupposti si trova inviluppato nell’irriflesso, nel sentimento e, pertanto, è ammesso o postulato in maniera implicita da un concetto. Riprendiamo l’esempio di Descartes. Come si è visto, egli rifiuta la definizione di uomo come animale ragionevole in nome della denuncia di un presupposto oggettivo o esplicito nella stessa: non possiamo definire con certezza il concetto di uomo fintantoché ammettiamo o postuliamo come già noti i concetti di animale e ragionevole. Egli necessita di un modo ulteriore di risolvere il problema – e lo trova nella fondazione del Cogito. Tuttavia, Deleuze attacca fortemente il modo in cui Descartes aggira l’impasse:

presentando il Cogito come una definizione, presume di neutralizzare tutti i presupposti oggettivi che gravano sui procedimenti operanti per genere e differenza. È evidente tuttavia che egli non sfugge a presupposti di altra specie, soggettivi o impliciti, […] per cui si suppone che ognuno sappia senza concetto ciò che significa io, pensare, essere14.

Nelle parole di Deleuze, emerge una differenza ulteriore tra i due tipi di presupposti, che aggrava in maggior misura l’accusa nei confronti del Cogito. Tale differenza non si esprime più soltanto nell’aspetto conoscitivo (dimensione concettuale-esplicita ovvero sentimentale-implicita del presupposto), ma ha a che fare con la possibilità stessa del riconoscimento del presupposto. Difatti, ciò che rende difficile la sua individuazione è la particolare forma in cui si presenta e attraverso cui opera: tale pregiudizio è detto implicito appunto per la sua totale aderenza al senso comune, per la sua scomparsa dietro la formula del “tutti sanno”, “ognuno sa”. Esso viene a designare quanto è comunemente ritenuto naturale, ciò che è riconosciuto da tutti: «Tutti sanno, nessuno può negare, è la forma della rappresentazione e il discorso del rappresentante»15. Ciò che Deleuze biasima del discorso cartesiano è dunque il suo presentarsi sotto una parvenza di purezza – in nome di una pedissequa e sistematica emendazione dai presupposti oggettivi – sebbene non risulti in grado di rendere conto dell’immagine del pensiero che lo informa. Essa immagine è appunto la concezione pre-filosofica di cosa significhi pensare rivelata nelle pieghe del discorso di Descartes, conforme ad un modello preconcetto e mai messo in discussione di ortodossia del pensiero. A tale modello indiscusso, inconfutato, incontestato e in primo luogo irriflesso di rappresentazione dell’attività del pensare, Deleuze dà il nome di immagine dogmatica o morale del pensiero. L’immagine dogmatica del pensiero esprime quella modalità di impiego in cui il pensiero stesso non fa che «impegnarsi nell’inattività completamente e con tutte le sue forze»16. Di questa peculiare rappresentazione dell’attività del pensare, di cui già in Nietzsche e la filosofia17 Deleuze offre una prima esplicitazione, dovremo allora individuare le articolazioni e le modalità di riproduzione. Ad esprimerne in maniera essenziale i lineamenti sono innanzitutto ipostatizzazioni sedimentate, automatismi – più o meno disinteressati – del pensiero, i quali assumono la forma di postulati, sebbene di carattere peculiare: essi, infatti, non sono esplicitati al fine della costituzione di un’assiomatica, poiché « non hanno bisogno di essere detti: agiscono tanto più efficacemente in silenzio, nel presupposto dell’essenza come nella scelta degli esempi»18. Primo fra tutti è il

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presupposto che funge da vero e proprio narcotico del pensiero: l’idea secondo la quale esso agisce sempre come esercizio naturale di una specifica facoltà dell’uomo, un vero e proprio pensiero naturale frutto «di una buona volontà del pensatore e di una natura retta del pensiero»19 – da ciò si può comprendere come l’immagine dogmatica veda nel pensiero niente di più che la riconferma del senso comune e in esso il cominciamento della filosofia. Ed è proprio questa naturalezza, intesa come spontaneità ed immediatezza, a garantire che il pensiero, in quanto senso comune, sia «la cosa meglio ripartita al mondo»; non c’è dubbio, dice l’immagine del pensiero, esso è inopinabilmente «affine al vero, possiede formalmente il vero e vuole materialmente il vero»20. Inoltre, non si potrà certo trattare di un vero distante dal buon senso, che cioè si distanzi da esso e dal retto utilizzo delle facoltà; non può darsi che il pensiero si diriga naturalmente verso una verità paradossale; sarà, al contrario, una verità del riconoscimento, verso la quale la buona volontà del pensatore orienta il pensiero e in esso la concordia facultatum, concertazione delle facoltà nel superiore sensus communis, riproduce una verità ortodossa: «l’immagine del pensiero non è se non la figura in cui si universalizza la doxa innalzandola al livello razionale»21. Fintanto che la filosofia presuppone il suo cominciamento nell’immagine dogmatica del pensiero, essa si troverà drammaticamente separata dal progetto di rompere con la doxa, non perché la filosofia si lasci sedurre da questa o quella opinione particolare, ma perché presume di poter procedere non mettendo in dubbio la forma del pensiero in cui pensa la doxa: ad una verità ritenuta da riconoscere corrisponde un pensiero non problematico, che ricalca le sue domande su problemi ritenuti come già dati. In ultima analisi, l’immagine dogmatica del pensiero lavora alacremente ai fianchi di un pensiero della prassi, lo rende impotente e al servizio di una verità «bonacciona e amante degli agi, che non si stanca di dare a tutti i poteri costituiti l’assicurazione che non causerà mai a nessuno il minimo disturbo, poiché essa non è dopotutto che la scienza pura»22, frutto di un riconoscimento in cui il riconosciuto «è tanto l’oggetto, quanto i valori proiettati su di esso»23. Ecco allora individuato l’oggetto verso cui la noologia deve operare la sua attività critica: l’immagine dogmatica del pensiero, quel «segno dei mostruosi sponsali in cui il pensiero “ritrova” lo Stato, “la Chiesa”, ritrova tutti i valori del tempo che ha fatto passare sottilmente sotto la forma pura di un eterno oggetto qualsiasi, santificato per l’eternità»24.

3. Genealogia e Teoria delle forze

A questo punto, appare doverosa una precisazione. A formare l’immagine dogmatica del pensiero sono sì quelli che Deleuze definisce presupposti soggettivi, ma sembra emergere un senso ulteriore da attribuire loro. Difatti, essi rappresentano senza dubbio la risposta di ciascun pensatore alla domanda “che cosa significa pensare?”, ma non si limitano a designare errori sistematici cui un singolo – appunto, un soggetto – sembra costretto a soggiacere. Se così fosse, ricadremmo ancora una volta nel perimetro tracciato dalla stessa immagine dogmatica, la quale vede nell’errore l’unico effetto che forze esterne al pensiero possono esercitare su di esso per distorcerlo. Ma la noologia non vuole sostituirsi all’emendazione dell’intelletto; il suo compito non è affatto espungere da un pensiero procedurale quelli che possono essere i limiti di un funzionamento efficiente del marchingegno – nella fattispecie, i presupposti oggettivi. La noologia deve, invece, strutturarsi come una peculiare teoria delle forze in quanto filosofia del senso e del valore: deve cioè assumere i

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tratti di una genealogia25. Ciò significa, in primo luogo, evitare «la tendenza a sostituire i reali rapporti di forze con un rapporto astratto, una sorta di “misura” ritenuta in grado di esprimerli»26 che la filosofia esibisce ogni qual volta soggiace all’immagine dogmatica. Difatti, qualora non vengano valutate le effettive forze in gioco del pensiero e di ciò che gli si oppone, ci si limita a trattare i presupposti soggettivi come rapporti astratti e ad attribuire ad essi il ruolo di errori, ossia di misura della minore o maggiore distanza che intercorre tra il pensiero e la verità. In secondo luogo, la genealogia deve mostrare quale rapporto vi sia tra forza, senso e valore. Deleuze è categorico nel sostenere che «non troveremo mai il senso di una cosa […] se non sappiamo quale sia la forza che se ne appropria, che la governa, che se ne impadronisce o che in essa si esprime», poiché ogni fenomeno non è altro che «un segno, un sintomo il cui senso è dato da una forza attuale»27, vincitrice all’interno del campo di forze in cui il fenomeno si dà. Ogni forza si esprime nell’appropriazione, nel dominio e nel governo di una data quantità di realtà e il senso di un medesimo oggetto o fenomeno varia a seconda della forza che se ne appropria. Ciò significa che di ogni fenomeno sarà possibile impostare la storia seguendo la «successione delle forze che lottano per impadronirsene»28. La noologia dovrà allora comportarsi come la genealogia dell’immagine del pensiero e strutturarsi come storia delle forze che lottano per impadronirsi del pensiero e, secondo le parole di Nietzsche, percorrere a ritroso e comprendere «il susseguirsi di processi d’assoggettamento […] più o meno spinti in profondità, più o meno indipendenti l’uno dall’altro»29. Da quanto detto, emergono due conseguenze. In primo luogo, i presupposti soggettivi assumono un rilievo del tutto inaspettato: le forze che vogliono impadronirsi di quella «vaga idea di ciò che significa pensare, dei mezzi e degli scopi»30 e che vengono a costituirli non sono soltanto quelle del corpo, delle passioni o della varia metaforica dell’errore, poiché non sono le uniche forze a comporre la relazione. Sarebbe vero solo per un soggetto disincarnato, emarginato dal consorzio sociale e affetto da una forma cronica di solipsismo radicale. A costituire i presupposti soggettivi sono anche quei pregiudizi espressi dalle forze di un’epoca, di una società, di un’istituzione, di assetti storico-culturali che vanno ad agire sulle differenti soggettività. E, viceversa, possiamo anche ritenere che le soggettività in questione non siano solamente i pensatori di cui finora si è parlato, ma queste stesse società, epoche, istituzioni che portano una loro propria immagine del pensiero. Pertanto, se di presupposti soggettivi si può parlare, è solo badando bene alla complessità effettiva da attribuire alle soggettività in questione. In secondo luogo, emerge come la noologia, nella misura nella quale è genealogia, non possa separarsi da un’analisi storica – ma anche sociologica, economica, ecc. – delle condizioni della genesi del pensiero, poiché ad essa fa capo una nozione complessa del senso, che esprime il gioco di tutte le forze che lottano per appropriarsi di una determinata realtà. Per tutto ciò, cioè nella misura nella quale la noologia ha a che fare con il senso, essa sarà una disciplina interpretativa. Inoltre, il suo compito non si limita a ciò: se «il senso di una cosa è il rapporto tra la cosa e la forza che se ne impadronisce, il valore di una cosa è la gerarchia delle forze che si esprimono nella cosa in quanto fenomeno complesso»31; la noologia deve allora procedere dal senso al valore, dall’interpretazione alla valutazione e ricusare energicamente il dogma dell’avalutatività. In questa maniera, la noologia si costituirà come disciplina storica dell’analisi, dell’interpretazione e della

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valutazione delle forze. In una parola, sarà la disciplina dello smascheramento: «arte del guardare sotto le maschere, di scoprire chi si maschera e perché, a che scopo una maschera viene riplasmata e conservata»32.

4. La noologia come critica

Si mostra con sempre maggiore chiarezza l’importanza di una critica dell’immagine dogmatica del pensiero, ora che si è esposto come essa immagine sia la risultante di un coacervo di forze affatto disinteressate ad informare quella vaga idea di cosa significhi pensare posseduta da ognuno. A questo proposito, ci sembra di poter parlare a ragion veduta al plurale, di critica delle immagini dogmatiche del pensiero, di tutte quelle forme di sudditanza e narcolessia del pensiero cui è possibile imputare una volontaria o involontaria tendenza alla passivizzazione della stessa prassi del pensare o la coercizione alla permanenza nello stato di minorità. Il primo compito di questa noologia critica sarà una rieducazione alla domanda. Non sarà più possibile tollerare una pratica della riflessione che eserciti il proprio anodino processo ricalcando i problemi e le domande su proposizioni corrispondenti, già date eternamente, che attendono solo di essere rappresentate. È questo il modello lasciato in eredità dai Topici, in cui Aristotele è chiarissimo nel sostenere che

Se si dice, ad esempio, Animale-pedestre-bipede è la definizione dell’uomo, o Animale è il genere dell’uomo, si ottiene una proposizione; se ci si chiede invece se Animale-pedestre-bipede sia o no la definizione dell’uomo, si ha un problema. E lo stesso vale per le altre nozioni. Ne risulta ovviamente che i problemi e le proposizioni sono in numero uguale, poiché di ogni proposizione si può fare un problema, mutando semplicemente la forma della frase33.

Questa concezione proposizionale del problema limita fortemente la capacità delle domande di essere coerenti alla concezione polemica del senso, di un senso come effetto prodotto dalla lotta delle forze: «se non si scorge che il senso o il problema è extra-proposizionale, che differisce essenzialmente da ogni proposizione, ci si lascia sfuggire l’essenziale, la genesi dell’atto del pensare»34. Soltanto lasciando che la domanda apra nuove vie potremo costituire nuovi problemi mediante investimenti simbolici in campi specifici, potremo auscultare il gioco delle forze e dare vita alla storia critica dei sensi in quanto storia delle variazioni e delle discontinuità delle forze che si appropriano di un fenomeno e in esso si esprimono. Resta da chiarire in quale senso declinare il concetto di critica, in quale senso cioè intendere il portato critico della noologia: ciò significa seguire Deleuze nel suo confronto con Kant. Al filosofo di Königsberg Deleuze attribuisce l’enorme merito di «aver concepito, nella Critica della ragion pura, una critica immanente alla ragione che non si basasse né sul sentimento, né sull’esperienza o qualsivoglia istanza esterna»35, come anche «l’idea di una filosofia legislatrice in quanto filosofia» a compimento «di una critica interna in quanto critica: due idee che costituiscono il principale contributo del kantismo, il suo contenuto liberatorio»36. Tuttavia, aggiunge Deleuze, se già Nietzsche annoverava Kant tra gli «operai della filosofia»37, cioè tra coloro i quali si accontentano di fare l’inventario dei valori comuni, è proprio perché già intravvedeva il limite interno alla

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concezione kantiana della critica: per Kant criticare si risolve, in ultima analisi, nell’uso corretto di una facoltà, nel «criticare le “false applicazioni”, e dunque si critica la falsa morale, le false conoscenze, le false religioni, ecc.»38; Kant, ispiratore del progetto critico in filosofia, finisce per rappresentare «l’incarnazione perfetta della falsa critica»39; limitandosi a criticare le false applicazioni di facoltà o principi ritenuti in sé legittimi, «l’ideale della conoscenza, la vera morale, la fede, ne escono intatti»40. Non solo: a fare le spese della mancata coerenza del pensiero kantiano sono gli stessi contenuti liberatori che esso ispira; la critica come corretto utilizzo e autolimitazione delle facoltà rappresenta un paradossale capovolgimento:

L’intelletto e la ragione […] sono le istanze che ci costringono all’obbedienza anche quando non vogliamo più obbedire a nessuno. Quando smettiamo di obbedire a Dio, allo Stato, ai nostri genitori sopraggiunge la ragione per persuaderci ad essere ancora docili, dicendoci: sei tu che comandi. La ragione ci presenta le nostre schiavitù e i nostri soggiogamenti come fossero altrettante forme di superiorità che fanno di noi degli esseri ragionevoli41.

In questo senso, Deleuze non fa che esprimere altrimenti la distinzione – o la discrasia – tra critique e Aufklärung che in seguito chiarirà magistralmente Foucault42, tra l’istanza dell’autolimitazione che «dirà al sapere: sai bene fin dove sei in grado di sapere? Ragiona finché vuoi, ma sai bene fin dove puoi ragionare senza pericolo?»43 e l’atteggiamento della disobbedienza volontaria, del sistematico disassoggettamento nella forma dell’indocilità ragionata. Va dunque posto sotto gli occhi che il compito, la missione di un pensiero radicalmente critico, emancipatore e liberatorio, è la critica «delle forme vere e non dei falsi contenuti»44, poiché è proprio nel sistematico, abituale e irriflesso consenso alle forme vere che avviene l’introiezione implicita dei valori comuni, delle immagini dogmatiche.

5. Sospensione della credulità

Lo studio delle immagini del pensiero ha assunto progressivamente complessità e spessore tanto che ad esso sembrano spettare incarichi diversi e difficilmente conciliabili: arte dell’interpretazione delle forze e della valutazione delle maschere, genealogia, storia critica della variazione dei sensi, rieducazione alla domanda e, infine, atteggiamento di indefessa e partecipata sospensione della credulità. Tuttavia, a riassumere queste differenti sfaccettature della noologia vi sono numerose convergenze. In primo luogo, la ferma convinzione che pensare significhi impegnarsi in una prassi ben determinata che nulla ha a che vedere con gli automatismi di una facoltà naturale, che comporta fatica e reiterazione, analisi e cura, perché criticare è un prendersi cura e «non esiste una buona distruzione senza amore»45. In secondo luogo, l’espunzione dell’errore e di ogni concezione della fallacia esterna al pensiero poiché immagine complementare alla filosofia come ortodossia razionale. Vi è, invece, un “negativo” maggiore che la inviluppa, rappresentato da ogni forma di bassezza del pensiero: la stupidità, la pigrizia, il pressappochismo e tutte quelle impotenze proprie del pensiero, irriducibili ad interruzioni della sua procedura, che dovremo riconoscere essere strutture del

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Antonio Moretti, La noologia come critica delle immagini del pensiero - GCSI 8/2012

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pensiero come tale46 e contro le quali sarà necessaria costante attenzione. In terzo luogo, la distruzione delle immagini dogmatiche e morali, la demoralizzazione del pensiero:

La filosofia serve a rattristare: una filosofia che non rattristi, che non riesca a contrariare nessuno, che non sia in grado di arrecare alcun danno alla stupidità e di smascherare lo scandalo, non è filosofia. Posto che sembra non esserci alcuna disciplina al di fuori della filosofia che si prefigga lo scopo di opporsi criticamente a tutte le mistificazioni, qualsiasi origine e finalità esse abbiano, l'unico modo in cui la filosofia potrà essere usata consisterà nel denunciare la bassezza del pensiero in tutte le sue forme […]. Essa dovrà inoltre […] formare uomini liberi, che non confondano cioè i fini della cultura con gli interessi dello Stato, della morale o della religione, combattere il risentimento e la cattiva coscienza che hanno usurpato in noi il pensiero, sconfiggere il negativo e il suo falso prestigio. Tutto questo può interessare soltanto alla filosofia che, in quanto critica, rivela il suo compito più alto: la demistificazione47.

Infine, l’affermazione di un pensiero intempestivo, che riconosce e sottolinea i limiti di una filosofia eterna, come anche di una filosofia strettamente storicistica. Il pensiero intempestivo è un pensiero delle discontinuità, che si pone in rapporto diretto con il proprio tempo, ma nel modo della contrapposizione, della distanziazione dalle forme della bassezza del pensiero che nell’attuale si incarnano e agiscono. Ecco ciò che unisce i tratti così differenziati della noologia; ma, a ben vedere, questi punti sembrano caratterizzare l’intera opera di Gilles Deleuze, in tutta la sua vastità. Essa si struttura sistematicamente come forma di sfida al pensiero tout court, come sospensione della credulità, come composita e disorganica messa in discussione di ciò che è scontato, come scardinamento dell’ovvietà. Essa è una pratica immanente, una visione politica del pensiero nella convinzione che non esista «filosofia eterna né filosofia storica: il carattere di eternità o di storicità della filosofia si riferisce al suo essere sempre – e in ogni epoca – intempestiva»48. Ci sembra che Deleuze possa a buon diritto essere annoverato tra i fautori di una storia critica delle idee. Note 1 P. Godani, Deleuze, Carocci, Milano 2009, p. 9. 2 Ibidem. 3 G. Deleuze, Libération (22 settembre 1988), intervista con R. Maggiori, in Pourparlers (1972-1990), Édition de Minuit, Paris 1990; tr. it. Sulla filosofia, in Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000, p. 196. 4 Ivi, p. 197. 5 Ibidem. 6 Ivi, p. 198. 7 Ibidem. 8 G. Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaires de France, Paris 1968; tr. it. Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, p. 214. 9 Ivi, p. 215. 10 Ibidem. 11 Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., cap. 3: “L’immagine del pensiero”. 12 Ivi, p. 169. 13 Ibidem.

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14 Ibidem. 15 Ivi, p. 170. 16 G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris 1962; tr. it. Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, p. 161. 17 Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., cap. 3, § 15: Nuova immagine del pensiero. 18 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 217 19 Ivi, p. 171. 20 Ivi, p. 172. 21 Ivi, p. 176. 22 F. W. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen, Drittes Stück: Schopenhauer als Erzieher, Fritzsch, Leipzig 1874; tr. it. Schopenhauer come educatore, Adelphi, Milano 1985, § 3. 23 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 177. 24 Ibidem. 25 Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., cap. 1, § 1: Il concetto di genealogia. 26 Ivi, p. 110. 27 Ivi, p. 6. 28 Ibidem. 29 F. W. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, Naumann, Leipzig 1887; tr. it. Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 1984, p. 67. 30 G. Deleuze, Entretien avec Gilbert Deleuze [sic]. Intervista di Jean-Noël Vuarnet, in «Les Lettres françaises», n. 1223, 28 febbraio – 5 marzo 1968, tr. it. Nietzsche e l’immagine del pensiero, in L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007, p. 173. 31 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 13. 32 Ivi, p. 9. 33 Aristotele, Topici, I, 4, 101b, 30-35. 34 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 204. 35 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 135. 36 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 137. 37 F. W. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft, Naumann, Leipzig 1886; tr. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, Adelphi, Milano 1977, n. 211. 38 G. Deleuze, Nietzsche e l’immagine del pensiero, op. cit., p. 171. 39 Ivi, p. 172. 40 Ivi, p. 171. 41 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 138. 42Michel Foucault, Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung), Bullettin de la Société Française de Philosophie, avril-juin 1990, 2, pp. 35-63 ; tr. it., Illuminismo e critica, a c. di Paolo Napoli, Donzelli, Roma 1997. 43 Ivi, p. 42. 44 G. Deleuze, Nietzsche e l’immagine del pensiero, op. cit., p. 171. 45 Ivi, p. 172. 46 Sull’errore e la stupidità Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., in particolare pp. 191-9. 47 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., pp. 157-8. 48 Ivi, p. 160.

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Un pensiero critico dentro le pratiche

di Mario Galzigna

«La parola ātman […]. La nozione cioè di quell’esperienza umana in cui il soggetto sente di comprendere in sé il tutto

[…]. L’esperienza dell’Io-Universo si traduce in un nuovo mito: il mito dell’Uomo-Universo […]. La prima strofa dell’«Inno dell’Uomo»

[…] annuncia il mistero dell’immanenza psichica dell’Universo […]. L’uomo: […] l’unica figura del nuovo mito psicologico: il Macrantropo»

( Maryla Falk, Il mito psicologico nell’India antica (1939), 1986 )

Poiché intendo collocarmi entro la prospettiva di un pensiero critico applicato, propongo, qui, qualche rapsodica considerazione sul rapporto tra filosofia e psichiatria clinica, cercando subito di liberare il campo da alcuni equivoci. Comincio allora con qualche osservazione stimolata da una recente pubblicazione dedicata alla relazione tra filosofia e psichiatria. Si tratta di un textbook inglese del 2006 (Bill Fulford, Tim Thornton, George Graham, eds., Oxford Textbooks of Philosophy and Psychiatry, Oxford University Press, New York, pp. 872): un’impresa ragguardevole, certo, dove però il ruolo effettivo del filosofo e dell’epistemologo nel contesto istituzionale della psichiatria clinica rimane tutto sommato abbastanza vago e indefinito. Ho già affrontato queste problematiche in un saggio e in un articolo, dai quali prendo le mosse per riproporre e per sviluppare sinteticamente il mio punto di vista (M. Galzigna, Il mondo nella mente. Per un’epistemologia della cura, Marsilio, Venezia 2007; M. Galzigna, Un approccio epistemologico alla psichiatria, in «Epidemiologia e Psichiatria Sociale», dir. M. Tansella, 15, 2, 2006). Alcuni psichiatri italiani della SIP (Società Italiana di Psichiatria) hanno manifestato di recente un certo interesse per queste problematiche, anche se il loro riferimento al gruppo di Fulford è forse troppo acritico. A proposito del textbook (molto anglocentrico) del 2006, due sole osservazioni: non viene discusso, e viene citato solo di sfuggita, un libro esemplare sulle personalità multiple, in cui l’interazione tra filosofia, storia e psichiatria ha prodotto una riflessione critica matura e clinicamente utile. Il libro è stato scritto da Ian Hacking: un filosofo che ha lavorato con tenacia e profondità sulle possibili sinergie tra “analitici” e “continentali”, cooperando a lungo con psichiatri e psicologi e misurandosi costantemente con la ricerca di Michel Foucault (si veda, di I. Hacking, Rewriting the Soul: Multiple Personality and the Sciences of the Memory, Princeton University Press, Princeton 1995; non posso che rammaricarmii del fatto che la prima ed unica traduzione italiana, uscita nel ’96 presso Feltrinelli – con il titolo La riscoperta dell’anima – sia ora esaurita). Seconda osservazione: nel textbook del 2006 non viene citato nemmeno il lavoro pionieristico davvero significativo di Tanya Lhurmann: antropologa che ha lavorato in contesti psichiatrici, organizzando anche, presso l’Università di Chicago, un percorso didattico e formativo di “etnografia clinica” delle malattie mentali (rinvio, per questo, al suo bel libro Of Two Minds. An Antropologist Looks at American Psychiatry, Alfred A. Knopf, New York 2000).

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Mario Galzigna, Un pensiero critico dentro le pratiche - GCSI 8/2012

Si tratta solo di due esempi indicativi, attorno ai quali sarebbe importante discutere. Sia Ian Hacking che Tanya Lhurmann, anche se con modalità differenti, riportano alcune istanze del pensiero critico all’interno del contesto clinico: il primo attraverso un’analisi dettagliata delle categorie nosografiche, delle sindromi – rapportate al loro contesto culturale e sociale –, la seconda attraverso un’opzione epistemologica antiriduzionista che implica una critica, dall’interno, dei due tipi di riduzionismo (delle due culture, delle due menti, “two minds”, per l’appunto) che dominano la clinica psichiatrica contemporanea nel contesto statunitense: da un lato il riduzionismo psicoterapico, incapace di sussumere, entro una visione integrata, il radicamento biologico della malattia mentale, dall’altro lato il riduzionismo biologico e farmacologico, incapace di esplorare la complessità identitaria del paziente, e quindi i suoi aspetti psichici, sociologici e antropologici. Si tratta di far passare, entro la pratica clinica della psichiatria, una prospettiva antiriduzionista: questa la posta in gioco esplicitata nel mio già citato saggio (Il mondo nella mente. Per un’epistemologia della cura), in relazione ad interventi di consulenza epistemologica realizzati in alcuni Dipartimenti di Salute Mentale del Nord Italia e in alcuni contesti clinici francesi. L’efficacia del “trattamento” del disagio psichico – questa l’ipotesi principale – dipende strettamente dalla capacità, da parte del gruppo dei curanti, oltre che da parte del singolo terapeuta, di prendere in carico il paziente e la sua alterità come dimensione complessa, composita, stratificata. Fuori, dunque, da ogni scorciatoia riduzionista. “Curare” – al di là di ogni ipostasi ontologica e antistorica, di stampo heideggeriano – significa muoversi entro l’orizzonte della presenza, dell’Esserci: muoversi verso un’alterità incarnata, empiricamente definibile, situata; significa passare dalla conoscenza dell’alterità che vive in noi alla comprensione dell’altro che sta fuori di noi: nell’èra del lavoro immateriale, dei mondi virtuali, del decentramento dell’io, della multiculturalità e delle ibridazioni identitarie, produrre questa dialettica tra l’alterità interna e l’altro – visto come figura esterna o come portatore di una cultura altra, “straniera” – significa anche utilizzare positivamente l’orizzonte della globalizzazione: utilizzarlo positivamente e creativamente, contrastando in maniera attiva, entro il reticolato istituzionale della salute mentale, i processi di omogeneizzazione, di dominio e di appiattimento che trasformano il paziente in entità naturale astratta e ipostatizzata. Nell’ambito delle scienze psichiche, il rinnovamento dell’orizzonte terapeutico passa soprattutto attraverso la capacità del curante di riportare questa dialettica tra l’alterità interna e l’altro dentro la quotidianità della clinica. Metto a fuoco, come terapeuta, la mia differenza rispetto al paziente, rispetto all’altro. Al tempo stesso, sullo sfondo del riconoscimento di questa differenza, cerco di individuare i terreni di una possibile e parziale identificazione con alcuni aspetti dell’altro: tali aspetti, nel soggetto preso in carico, sono scissi tra loro e veicolano molto spesso smarrimento, sofferenza, disgregazione; nel soggetto che esercita la presa in carico questi stessi aspetti debbono invece vivere non come parti scisse ma come dimensioni integrate anche se parziali. Questa, dunque, la scommessa olistica di un pensiero critico che si misura concretamente, dall’interno, con le contraddizioni della psichiatria istituzionale. Una scommessa epistemologica e al tempo stesso un’istanza di carattere etico, che può affermarsi solo contrastando attivamente ed efficacemente ogni forma di naturalismo riduzionista, che trasforma il paziente – per dirla con il

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Foucault nella Préface del 1961 alla Storia della Follia – in “cosa medica”, in destinatario passivo dei poteri e dei saperi che attraversano lo spazio clinico.

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Il tempo dei concetti. La riflessione filosofica di Reinhart Koselleck

di Diego Fusaro 1. La necessità di interpretare Koselleck in chiave filosofica; 2. “Esperienza” e “aspettativa”: una fondazione metastorica della storicità; 3. Mutamento della struttura temporale dei concetti; 4. Elementi di critica della teoria e del metodo di Koselleck.

1. La necessità di interpretare Koselleck in chiave filosofica.

Pochi altri pensatori hanno saputo, con lo stesso coraggio teorico e con la stessa competenza pluridisciplinare di Reinhart Koselleck (1923-2006), porre in dialogo tra loro gli ambiti disciplinari più diversi – dalla storia alla sociologia, dalla politologia alla scienza economica, dalla semantica alla filosofia – nel tentativo di elaborare un sapere che fosse finalmente all’altezza della realtà. Tutta la sua riflessione, dal primo saggio – Kritik und Krise1 (1959) – fino agli ultimi articoli confluiti nel volume postumo Begriffsgeschichten2 (2006), è animata dall’esigenza di un confronto “alla pari” tra i campi del sapere più disparati, infrangendo l’inveterata consuetudine che vede ciascuno di essi custode esclusivo della propria sovranità metodologica e contenutistica. Non è un caso che oggi la riflessione koselleckiana sia ugualmente frequentata, con pari intensità, da storici, politologi, sociologi, economisti e filosofi e che, in definitiva, resti tutt’altro che risolto il problema dell’effettiva collocazione disciplinare di Koselleck. Il fatto che questi venga di norma etichettato come Begriffshistoriker e che la disciplina da lui praticata riceva la definizione di Begriffsgeschichte non risolve certo il problema della classificazione: si limita, tutt’al più, a “spostarlo”, se non ad amplificarlo, facendo sorgere, a sua volta, il problema di una classificazione disciplinare della “storia dei concetti” qua talis; la quale, sia detto per inciso, non può essere intesa come una “disciplina autonoma” e irriducibile alle altre per il fatto stesso che si regge su una costitutiva apertura a trecentosessanta gradi sugli altri campi del sapere, di cui costituisce un imprescindibile nesso. Del resto, Koselleck stesso ha sempre respinto ogni tentativo di “incasellamento” del proprio pensiero, rivelando un’autentica idiosincrasia per ogni specialismo disciplinare e preferendo mantenere uno sguardo aperto e “totale” sulla storia3. Ritengo tuttavia che questa impossibilità di “incasellare” la riflessione di Koselleck in un preciso settore del sapere a scapito degli altri non debba impedire un tentativo di definizione della sua indagine, a patto, naturalmente, che tale tentativo tenga conto della pluridisciplinarità koselleckiana e si tenga a debita distanza da ogni “definizione rigida”. In termini generali, in ogni tappa del suo Denkweg, l’indagine di Koselleck non si rivolge mai a un settore particolare della storia o a una sua specifica fase: piuttosto, assume la forma di un’indagine generale, di marca eminentemente filosofica, sulle condizioni generali di possibilità e di pensabilità della storia, sulle categorie metastoriche trascendentali che rendono possibile la “storicizzazione” e la genesi stessa di ciò che, dal XVIII secolo in avanti, l’Occidente ha chiamato “storia”, identificando la genesi di tale concetto con il

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sorgere della modernità in quanto tale. La filosofia costituisce pertanto la base dell’elaborazione teorica koselleckiana, il fondamento ultimo su cui si regge la Begriffsgeschichte nella sua congenita pluridisciplinarità. In prima approssimazione, si potrebbe allora sostenere che l’analisi begriffsgeschichtlich koselleckiana si configura come un tentativo di indagare la «concettualità» (Begrifflichkeit) propria di ogni epoca, studiata attraverso gli apporti teorici delle discipline più diverse e sulla base di una precisa teoria delle strutture del tempo storico che non può prescindere dall’indagine filosofica. La teoria delle Zeitstrukturen prospettata da Koselleck non può essere qualificata se non come filosofica, derivata in forma diretta – come proverò a chiarire nelle pagine che seguono – dalla riflessione “ontocronica” dello Heidegger di Sein und Zeit. D’altra parte, scriveva Koselleck nel 1972: «la “storia dei concetti”, come noi proviamo a praticarla, non può fare a meno di una teoria dei tempi storici (eine Theorie der historischen Zeiten)»4 che fornisca un fondamento teorico di ampio respiro al generale e paradigmatico mutamento concettuale avvenuto nella «soglia epocale» (Sattelzeit) compresa tra il 1750 e il 1850, assunta da Koselleck come “fucina” del mondo moderno: da questa prospettiva, credo che debba essere ridimensionata l’autonomia teorica che lo stesso Koselleck, nella Einleitung (1967) ai nove volumi dell’Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, aveva rivendicato per la Begriffsgeschichte, sostenendo che essa «si fonda su una sua propria teoria»5 (gründet sie auf ihrer eigenen Theorie). In realtà, quand’anche si volesse ammettere la relativa autonomia della Begriffsgeschichte come metodologia di ricerca storica, le basi teoriche su cui essa si regge – soprattutto la teoria delle Zeitstrukturen – rivelano il macroscopico debito contratto nei confronti della riflessione filosofica, soprattutto heideggeriana. Di qui la duplice necessità di studiare Koselleck anche a parte philosophiae e, insieme, di individuare in una teoria filosofica dei tempi storici la cifra della sua riflessione. Nelle pagine che seguono, tenterò di delineare per sommi capi i motivi di questa duplice esigenza, soffermandomi su quelli che possono essere considerati i due principali nuclei filosofici dell’elaborazione koselleckiana: la fondazione metastorica della storicità e la riflessione sullo statuto intrinsecamente temporale dei concetti. Nell’ultima parte, infine, accennerò brevemente a quelli che ritengo essere i “punti deboli” della proposta teorica koselleckiana.

2. “Esperienza” e “aspettativa”: una fondazione metastorica della storicità.

Soprattutto nel saggio «Erfahrungsraum» und «Erwartungshorizont» – zwei historische Kategorien (1975), raccolto in Vergangene Zukunft: zur Semantik geschichtlicher Zeiten (1979), Koselleck ha tentato di elaborare una fondazione ontologica dell’esperienza della Geschichtlichkeit, richiamandosi esplicitamente alla Daseinsanalyse di Sein und Zeit. In vista di questo obiettivo, egli ha assunto lo «spazio dell’esperienza» (Erfahrungsraum) e l’«orizzonte dell’aspettativa» (Erwartungshorizont) come categorie “metastoriche” e antropologicamente fondate, come condizioni fondamentali di ogni possibile storia, e, più precisamente, come «categorie gnoseologiche che aiutano a fondare la possibilità di una storia. In altri termini: non esiste storia che non sia stata costituita da esperienze e aspettative degli uomini in quanto agiscono e subiscono»6. In ogni epoca, gli uomini hanno sempre agito mossi dalle aspettative, ossia dall’anticipazione riflessiva del futuro, e dalle esperienze, cioè dalla rammemorazione del passato, senza che una delle due dimensioni prendesse del tutto il sopravvento sull’altra: di conseguenza, la storia si è sempre svolta in virtù dell’intrecciarsi in modo

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sempre nuovo e diverso di queste due diverse condizioni esistenziali proprie dell’uomo, che ne hanno orientato di volta in volta l’agire. Sono il futuro e il passato – questo il corollario –, incontrandosi e fondendosi sotto forma di aspettative e di esperienze, a determinare l’agire umano nel presente: il quale, per via della sua natura “puntiforme” di istante in cui il futuro scivola nel passato, sussiste sempre e soltanto come “attimo” sospeso tra la dimensione del “già-stato” e del “non-ancora”, della memoria e dell’aspettativa. Da questo punto di vista, Erfahrungsraum ed Erwartungshorizont devono essere intese come metahistorische Kategorien che «rimandano a una struttura antropologica presupposta, senza la quale la storia non è possibile e neanche pensabile»7: esse sono fondative delle condizioni del fare e del conoscere la storia. In questo aspetto risiede quella che Koselleck qualifica come «determinazione trascendentale della storia»8. Si tratta di due categorie per molti versi reciprocamente “oppositive”, nella misura in cui l’influsso dell’una diminuisce al crescere di quello dell’altra; esse, però, risultano anche “complementari”, in quanto vanno a costituire una coppia “completa” che, «chiusa in se stessa, non pone alternative»9: «anzi, ognuno dei suoi termini non è affatto possibile senza l’altro. Non c’è aspettativa senza esperienza, né esperienza senza aspettativa»10. Ora, proprio perché le trame dell’esistenza umana sono intessute dai due stati d’animo del precorrimento dell’avvenire e della rievocazione anamnestica del passato, nonché dalla combinazione a geometrie variabili che di volta in volta si instaura tra loro, tanto l’esistenza dell’individuo quanto lo svolgersi della storia – che è il frutto dell’agire di individui – devono per Koselleck essere concepiti come la derivante dell’intreccio storico di quelle categorie metastoriche, formanti la trama metaempirica di ogni esperienza possibile. Esse non si limitano a delineare i contorni dell’esistenza del singolo individuo, ma sono anche «atte a tematizzare il tempo storico, in quanto intrecciano tra loro il passato e il futuro»11. Il loro carattere trascendentale risiede appunto, kantianamente, nell’essere metaempiriche e, al tempo stesso, nel non essere applicabili al di là della dimensione empirica12: prive di ogni realtà determinata, esse racchiudono però la possibilità di ogni storia e di ogni conoscenza storica, in analogia con le kantiane «categorie dell’intelletto»; mentre queste ultime presentano un contenuto che coincide con la natura, concepita appunto nella sua necessaria conformità alle categorie dell’intelletto, le koselleckiane categorie dell’esperienza e dell’aspettativa presentano un contenuto che coincide con la storia. Esse permettono pertanto di elaborare, nella loro formalità metaempirica, un’idea di “storicità meta-storica” o, con una terminologia desunta da Kant, un’idea di storicità formaliter spectata. Da ciò consegue, appunto, l’esito trascendentale, ossia che le possibilità della conoscenza storica sono le stesse che rendono possibile l’accadere storico. Su questo punto la prefazione di Vergangene Zukunft non lascia adito ad alcun dubbio: l’obiettivo primario dello storico risiede nell’indagare quale sia storicamente stato, in un dato “presente” storico, l’intreccio tra passato e futuro, tra esperienze passate e aspettative, il «modo in cui, in un certo presente, le dimensioni temporali del passato e del futuro siano state rapportate l’una all’altra»13: e questo in base alla convinzione che «nella determinazione della differenza tra il passato e il futuro (o, sul piano antropologico, tra esperienza e aspettativa), si possa cogliere qualcosa che è lecito chiamare “tempo storico” (historische Zeit)»14, il tempo in cui di volta in volta gli uomini fanno la loro storia rievocando eventi trascorsi e sperando in eventi a venire. I due poli dell’esperienza e dell’aspettativa costituiscono così una sorta di “griglia” formale e permanente su

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cui viene istituito, di epoca in epoca, lo spazio storico e dal quale deriva il senso dell’agire e delle idee umane quali vanno condensandosi nei concetti storici fondamentali: dalla dialettica storicamente variabile tra le due categorie antropologiche dell’Erfahrungsraum e dell’Erwartungshorizont scaturisce di epoca in epoca il tempo storico, ossia la diversa correlazione che si viene a instaurare tra le due dimensioni del passato e dell’avvenire. Proprio in questa relazione tensionale tra le due dimensioni eterogenee e, ciò non di meno, intrecciate di aspettativa e di esperienza, di futuro e di passato, viene sviluppandosi la storia: dalla loro «tensione (Spannung) si può ricavare quello che bisogna chiamare tempo storico»15. Più precisamente, «è la tensione fra esperienza e aspettativa a produrre soluzioni nuove in modi sempre diversi, e a generare così il tempo storico»16, il cui avanzamento è sempre sospeso tra le due dimensioni del futuro e del passato all’interno del presente di cui si è di volta in volta “abitatori”. Ora, alla luce di questa duplicità irriducibile del piano metastorico e di quello storico, nella loro costante interferenza reciproca, Koselleck sviluppa il tema della dialettica tra Erfahrungsraum ed Erwartungshorizont lungo due assi: da un lato, su una «dimensione metastorica»17, domandandosi «in che misura l’esperienza e l’aspettativa siano condizione di possibilità delle storie, in quanto costituiscono un dato antropologico preliminare»18; domanda che lo costringe a rideclinare il problema della historische Zeit nel più generale quadro del tempo in quanto tale, filosoficamente inteso, in dialogo con la tradizione (soprattutto con Heidegger) che si era interrogata su questo tema a un alto livello di astrazione. Dall’altro, egli si propone, da una prospettiva più specificamente storica, di mostrare come «il coordinamento tra esperienza e aspettativa si sia spostato e trasformato nel corso della storia»19, finché non si è giunti, nel mondo moderno, alla pressoché assoluta autonomizzazione dell’Erwartungshorizont, sull’onda del trionfo totalizzante dei concetti di progresso e di storia, fusi in un’unica e inedita figura concettuale – il “progresso della storia”. L’esigenza koselleckiana di una “fondazione metastorica” si regge sulla volontà di evitare i flussi dello “storicismo assoluto”, che dissolve ogni cosa nel divenire della storia. Si può comprendere il mutamento storico solo attraverso categorie che non siano interamente soggette ad esso, poiché «senza una determinazione metastorica che miri a mettere in luce la temporalità della storia, l’applicazione delle nostre espressioni alla ricerca empirica finirebbe per risucchiarci subito nel vortice infinito della loro storicizzazione»20. Koselleck sta qui sollevando un problema tutt’altro che secondario: è la stessa Theoriebedürftigkeit a imporre una fondazione exstrastorica e propriamente “filosofica”, che possa “categorizzare” la storia e i suoi eventi da una prospettiva, in qualche misura, universale. È su queste colonne teoriche che Koselleck costruisce la propria fondazione filosofica della storia su basi antropologico-esistenziali, richiamandosi direttamente alle categorie di Sein und Zeit: è infatti nell’opera del ’27 che, a suo dire, «si mostra come la struttura temporale dell’esistenza umana sia condizione di possibilità della storia»21; o, secondo quanto ribadito in Zeitschichten. Studien zur Historik (2000), «l’influsso di Heidegger è inconfondibile»22, nella misura in cui ha chiarito che «la storicità è una categoria dell’esistenza umana»23, radicata nella struttura “ontocronica” del Dasein. Come anche emerge dal dibattito con Gadamer sul rapporto tra «ermeneutica» e «istorica» – Historik und Hermeneutik24 (1985) –, per Koselleck è stato Heidegger a fornire le basi per una

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fondazione antropologico-esistenziale dell’agire storico, soprattutto con l’idea della Geschichtlichkeit del Dasein e – come recita Sein und Zeit – con l’assunzione del «tempo come orizzonte trascendentale del problema dell’essere»25. Al cuore del progetto incompiuto di Sein und Zeit, finalizzato a una esplicazione originaria del tempo come orizzonte della comprensione dell’essere, si pone la necessità di ricondurre le «strutture ontologiche dell’Esserci […] al loro senso temporale»26, “dilatando” il presente esistenziale nelle due dimensioni del passato e del futuro. Ora, anche per Koselleck, come per Heidegger, la Zeitlichkeit è componente costitutiva del Dasein: ciascuno di noi vive sempre nell’istantaneità di un presente in cui però riemergono «strati del tempo» (Zeitschichten) passato e si affacciano possibilità future, attivando in questo modo il ricordo e l’aspettativa. Sotto questo profilo, la questione – già aristotelica e agostiniana – della Zeitfrage viene risolta tramite il duplice assunto per cui l’esperienza è un «passato presente»27, rivivificato nella memoria, e l’aspettativa è un «futuro presentificato»28, anticipato sotto forma di precorrimento. Si dà sempre un nesso che unisce e, al tempo stesso, separa l’Erwartung e l’Erfahrung: «la differenza suggerita dalle due categorie attira la nostra attenzione su una caratteristica strutturale della storia»29, che avanza tramite un movimento “spiraliforme”, in cui i nuovi eventi si innestano sulla ripetitività di certe strutture “stabili”, lasciando convivere «strati del tempo» nuovi con altri già sedimentati. Ciò significa che l’aspettativa non si lascia mai completamente ridurre all’esperienza: «il futuro storico non è mai del tutto la conseguenza del passato storico»30, ma è sempre attiva, tra le due dimensioni, una relazione tensionale. Una volta fondate sulle categorie esistenziali di Sein und Zeit la possibilità e la pensabilità della storia, Koselleck mostra come i confini che separano l’Erwartungshorizont dall’Erfahrungsraum siano storicamente “mobili” e fluidi e come, nel corso della storia, il rapporto dialettico tra le due categorie sia andato incontro a profondi mutamenti31: la storia scorre tra le due dimensioni del ricordo del passato e dell’attesa del futuro, secondo un rapporto che varia di epoca in epoca, a seconda che prevalga l’Erwartungshorizont o l’Erfahrungsraum. «Lo spazio di esperienza e l’orizzonte di aspettativa – spiega Koselleck – non hanno dunque tra loro un rapporto statico»32, ma può di volta in volta verificarsi, a seconda dell’epoca considerata, un’“asimmetria”, uno sbilanciamento a favore dell’esperienza o, viceversa, a favore dell’aspettativa, con il conseguente privilegiamento della dimensione del passato o di quella del futuro. Da questo punto di vista, l’Erwartungshorizont e l’Erfahrungsraum si configurano come categorie antropologicamente fondate, ma la cui relazione varia storicamente. Ed è su questa considerazione che si innesta la riflessione koselleckiana sulla futuristische Verkehrung come cifra della modernità: in termini generalissimi, per Koselleck la modernità è l’epoca in cui il “futuro-centrismo” dell’“aspettativa” si espande fino a cancellare del tutto la dimensione rammemorativa dell’“esperienza”, determinando una inedita tensione verso il futuro, a sua volta concepito come luogo della novità assoluta e, insieme, del perfezionamento illimitato. Il “futuro-centrismo” è inscritto nel codice genetico della modernità, nel suo carattere di “neue Zeit”, di “epoca nuova”, diversa da tutte quelle venute prima, e di “epoca del nuovo”, in cui la novità del futuro è assiologicamente connotata in positivo. Secondo la ricostruzione di Koselleck, il mondo antico e “premoderno” in senso lato (dai Greci fino al XVII secolo d.C.), era stato caratterizzato da un certo equilibrio tra le due categorie dell’Erwartungshorizont e dell’Erfahrungsraum, ancorché, in generale, fosse sempre prevalsa

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l’esperienza, nell’idea – comune al mondo antico, a quello medievale e a quello immediatamente precedente rispetto alla «soglia epocale» 1750-1850 – che il futuro non si potesse mai distinguere, in maniera radicale, dalle esperienze passate e dalle loro strutture di fondo. Ad avvalorare quest’idea sono soprattutto, per Koselleck, due fenomeni che percorrono diagonalmente l’intero arco di tempo considerato: da un lato, la validità dell’inossidabile topos del “ciclo delle costituzioni”, che si ritrova in forma pressoché invariata in Aristotele, Polibio, Machiavelli e, in parte, anche in Hobbes; dall’altro, la prassi della “prognosi razionale”, grazie alla quale, ancora per tutto il XVII secolo, si pronostica il futuro sulla base della conoscenza del passato e del presente, nella convinzione che il predominio della dimensione dell’“esperienza” determini la “futuribilità” del passato, rendendo possibile l’attribuzione della valenza di magistra vitae alla historia33. Prescindendo dalle novità e dalle differenze significative che intervengono nel corso di questo periodo di lunghissima durata, questa situazione si mantiene invariata, secondo Koselleck, fino alle soglie della Sattelzeit: infatti, ancora agli inizi del XVIII secolo il mondo contadino – spiega Koselleck – aveva vissuto «in sintonia con il ciclo naturale»34, “sincronizzando” la propria esistenza e regolando il proprio rapporto con il tempo sulla base dei ritmi ciclici e ricorsivi della natura (i raccolti, le stagioni, le intemperie, ecc.). Il tempo storico non era ancora stato “denaturalizzato” perché la storia stessa, in fondo, sembrava scorrere lentamente e in maniera tutt’altro che lineare, in una piena coincidenza con i ritmi della natura: i mutamenti sociali si succedevano ancora con estrema lentezza e le innovazioni tecniche, che pure non erano assenti, «si affermavano così lentamente da non trasformare l’esistenza in termini radicali»35. Gli uomini di allora conducevano la loro esistenza nella convinzione che il futuro, ancorché non interamente riconducibile alle esperienze pregresse, non potesse mai essere del tutto diverso dal passato: era nettamente prevalente la dimensione antropologica dell’Erfahrungsraum. Questa situazione di costante intreccio tra passato e futuro si spezzò nel mondo moderno propriamente detto (a partire dal 1750 circa), «quando si aprì un nuovo orizzonte di aspettativa, grazie alla comparsa di ciò che in seguito venne definito progresso»36. La grande svolta che segna la transizione epocale dal mondo premoderno a quello moderno – il cui inizio Koselleck individua nella seconda metà del XVIII secolo – è, infatti, costituita dal rapido susseguirsi di eventi che esplode nella modernità, a partire dalla Rivoluzione industriale, nel momento in cui le nuove esperienze «dello sviluppo scientifico e tecnico non sono più sufficienti per ricavarne aspettative future»37. In forza di questa improvvisa accelerazione dei ritmi della storia, comincia a divaricarsi la “forbice” tra esperienze passate e aspettative negli eventi futuri, in una sempre più pronunciata dissociazione tra passato e avvenire: il progresso scientifico e tecnico che crea sempre novità e miglioramenti finisce per generare «un principio empirico di ordine generale, il principio cioè dell’aspettativa di nuovi progressi, non calcolabili in anticipo»38 e non prevedibili sulla base delle esperienze pregresse. Lo stato d’animo dell’aspettativa si separa sempre più dal “serbatoio” delle esperienze passate e convoglia i progressi nel concetto trascendentale e riflessivo di progresso “al singolare”, in cui tutte le aspettative si condensano e si unificano nell’idea di un miglioramento generale della storia: «da allora – spiega Koselleck – l’orizzonte di aspettativa ha assunto un coefficiente di cambiamento che progredisce col tempo»39, disancorandosi sempre più – e sempre più in fretta – dal passato. Per questa via, nell’immaginario collettivo «i confini dello

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spazio di esperienza e dell’orizzonte di aspettativa cominciano a divergere»40, l’esperienza non ha più nulla da dire circa il futuro e trionfa incontrastata la “religione” dei moderni, il cui principale articolo di fede può essere compendiato nel “credo” secondo cui «il futuro sarà diverso dal passato, e migliore»41. L’aspettativa si dilata incontenibilmente, trasformandosi in dimensione antropologica egemonica del mondo moderno: e quanto maggiore è l’aspettativa, tanto minore è l’esperienza, che arretra sullo sfondo, fino a sparire. Alla luce di queste considerazioni è dunque legittimo sostenere che, nel mondo moderno, a prendere il sopravvento è la categoria dell’Erwartungshorizont, che non si limita a diventare egemonica, ma va sempre più autonomizzandosi dall’Erfahrungsraum, affievolendone a tal punto lo “spazio” da renderlo pressoché inconsistente: la consapevolezza di essere dipendenti dal passato – l’«être-affecté par le passé»42 di cui dice Ricoeur – si fa sempre più fioca, assottigliandosi fino a sparire. Questo, naturalmente, avviene sull’onda della “linearizzazione” della storia che si verifica in quegli anni, in cui le strutture stabili che avevano fino ad allora caratterizzato il corso storico arretrano sullo sfondo e la storia sembra inaspettatamente assumere la configurazione di una serie di eventi in successione progressiva e accelerata. Proprio in questa accelerazione lineare della storia, con la conseguente crescita illimitata delle aspettative in un futuro nuovo e migliore, diventa possibile scorgere, in filigrana, l’essenza della Neuzeit, la sua cesura con il passato: «nell’età moderna la differenza fra esperienza e aspettativa aumenta progressivamente»43, a tal punto che «l’età moderna può essere concepita come un tempo nuovo (neue Zeit) solo da quando le aspettative si sono progressivamente allontanate da tutte le esperienze fatte finora»44. Questa corsa vertiginosa verso le regioni dell’avvenire, che si riverbera su ogni ambito della società moderna (dalla concezione della storia alla politica, dalla scienza all’economia), manda in frantumi il rapporto tensionale fino ad allora esistente tra Erwartungshorizont ed Erfahrungsraum: l’orizzonte dell’aspettativa diventa completamente autonomo, non è più avvertita l’esigenza di un riferimento alle esperienze passate, ormai sprofondate in un “non-più” a cui non è dato riemergere. Il futuro diventa la dimensione privilegiata dell’esistenza moderna.

3. Mutamento della struttura temporale dei concetti.

Nella riflessione koselleckiana sussiste un nesso simbiotico tra l’analisi filosofica sulle Zeitstrukturen, sulla struttura ontocronica dell’esistenza umana e sulla variabilità storica del nesso tra Erwartungshorizont ed Erfahrungsraum, da una parte, e l’analisi più propriamente storiografica, condotta in stile begriffsgeschichtlich, degli slittamenti semantici a cui sono storicamente andati incontro i concetti, dall’altra. La stessa pratica della Begriffsgeschichte koselleckiana, del resto, si fonda su basi solidamente filosofiche e avvalora la convinzione della necessità di leggere filosoficamente la riflessione di Koselleck e di individuarne la cifra nella problematica filosofica: da un lato, infatti, Koselleck, in dialogo con la tradizione filosofica, propone un’originale soluzione per il rapporto tra “concetti” e “storia”, tra “linguaggio” e “realtà”, e, dall’altro, assume la temporalità come elemento determinante della struttura interna dei concetti, rivelando ancora una volta le tracce dell’influenza heideggeriana. Koselleck teorizza la duplice funzione dei geschichtliche Grundbegriffe: ciascun concetto storico, per un verso, si configura come un «indicatore» (Indikator) che registra e riflette sul piano delle idee il

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mutamento storico a cui va incontro la realtà; per un altro verso, si presenta come «fattore» (Faktor) del mutamento storico, ossia come potenza attiva e, almeno in parte, autonoma in grado di orientare l’agire degli uomini, sospingendone le azioni in vista di determinati fini. In questo senso, occorre distinguere tra le due funzioni reciprocamente irriducibili e rilevare come «i concetti comprendano bensì contenuti sociali e politici, ma come la loro funzione semantica, la loro

efficacia, non possa essere derivata solo da dati sociali e politici cui si riferiscono»45

: ciò significa, appunto, che «un concetto non è solo un indicatore dei complessi di relazioni che comprende: è anche un loro fattore. Con ogni concetto vengono posti determinati orizzonti, ma anche i limiti di

un’esperienza possibile e di una teoria pensabile»46

. Il linguaggio non deve essere inteso come un semplice “stenografo” del reale: al contrario, a una più attenta analisi, esso presenta anche una funzione produttiva e autonoma, in grado di agire sulla realtà storica promuovendone la concreta trasformazione e “costringendola” a uniformarsi alla dimensione concettuale. È solo in questa luce che diventa possibile comprendere, in tutta la sua portata, un concetto come quello di “progresso”: come “indicatore”, esso rispecchia una realtà storica effettiva, e in particolare quel processo di rapido miglioramento nell’ambito tecnico, industriale, scientifico e, per molti versi, socio-politico che ha permeato, a ritmi accelerati, il mondo occidentale soprattutto a partire dal XVIII secolo; ma al tempo stesso, in quanto “fattore”, il concetto di progresso, con la sua irresistibile spinta ideologica “in avanti”, orientata al trascendimento dei confini del presente e in vista di un futuro diverso e migliore, ha attivamente contribuito a rendere possibile il concreto progresso storico quale effettivamente si è dispiegato. Come emerge da questo esempio, tra i due statuti – di “indicatori” e di “fattori” del mutamento – caratterizzanti i concetti, non sussiste sempre una tensione, ma, talvolta, anche una vera e propria “sinergia”. La convergenza tra “concetto” e “storia” – e, più in generale, tra “linguaggio” e “realtà” – deve per

Koselleck essere interpretata come una «tensione»47

(Spannung) in atto, e non certo come «identità

di concetto e storia»48

, nel senso di una conciliazione già avvenuta. In altri termini, tra i due poli del linguaggio e della storia sussiste sempre una tensione irrisolta: tra i “concetti” e la “storia” non c’è mai piena corrispondenza, né nel senso “marxista”, secondo cui i concetti sono storia che si fa pensiero, né in quello “gadameriano”, con la sua tendenziale riduzione dell’essere al linguaggio

(«Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache»49

). Ad avviso di Koselleck, è questa tensione irrisolta e irrisolvibile tra linguaggio e realtà storica a rendere impossibile una visione del totum storico, una comprensione definitiva della storia nella sua interezza. Da questo punto di vista, nell’ottica di Koselleck, l’opera dello storico si configura come una “fatica di Sisifo”: ogni epoca, ogni storico, ogni generazione dovranno sempre di nuovo tornare sul proprio passato, riequilibrando il nesso tra linguaggio e realtà storica e, dunque, reinterpretando la storia stessa, in ciò favoriti dalla diversa prospettiva storica in cui di volta in volta si troveranno proiettati, oltre che dal sorgere di nuovi interrogativi, di nuove esigenze e di nuovi punti di vista. In una simile concezione della Geschichtsschreibung è attiva, come ha sottolineato lo stesso Gadamer, l’idea dell’infinito gioco delle interpretazioni propria dell’ermeneutica, secondo cui «il testo della storia non si conclude mai né è

mai stato scritto in modo definitivo»50

, ma esige una costante riscrittura e una ininterrotta opera di reinterpretazione. Tale “proliferazione” ermeneutica si regge sull’idea che di volta in volta, a

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seconda del contesto e del momento storico, si schiudano nuovi orizzonti e diverse prospettive,

attivando un gioco di interpretazioni e di rimandi potenzialmente illimitato51

, senza che la verità storica possa mai essere definitivamente “esaurita”, secondo una concezione che sembra per molti versi rievocare su un piano storiografico la critica del paragrafo 44 di Sein und Zeit alla teoria

“corrispondentista” della verità come adaequatio rei et intellectus52

. Veniamo ora al secondo punto: la temporalità strutturale dei concetti. Scrive Koselleck: «tutti i concetti racchiudono una struttura interna di tipo temporale (zeitliche Binnenstruktur)»53; essi possono configurarsi, a seconda dello “strato” temporale a cui ci si riferisca, come «concetti retrospettivi» (rückblickende Begriffe), che sono volti al passato e alle esperienze già compiute, o come «concetti lungimiranti»54 (vorausschauende Begriffe), che anticipano prospetticamente il futuro e, in questo modo, si trasformano in fattori del mutamento storico, inducendo gli attori socio-politici ad adoperarsi per conformare la realtà al futuro dischiuso dal lessico concettuale. In altri termini, i concetti presentano «valenze temporali differenziabili»55 (unterscheidbare zeitliche Wertigkeiten): questo aspetto risulta lampante dal fatto che il concetto di “democrazia” può riferirsi tanto, retrospettivamente, al passato e, nella fattispecie, all’esperienza della polis ateniese, quanto al futuro, anticipandolo in forma progettuale, secondo l’uso che del concetto di “democrazia” veniva fatto nel XVIII secolo dai principali attori della Rivoluzione francese e che sarà successivamente ripreso dall’esperienza socio-politica del XIX secolo. L’indagine del patrimonio concettuale socio-politico condotta lungo i due assi della sincronia e della diacronia nei volumi dei Geschichtliche Grundbegriffe rivela che il vero mutamento dei concetti, la loro vera storia, riguarda soprattutto la loro “struttura interna”. È lì, più che nei diversi significati che una parola va assumendo di epoca in epoca, che si gioca la partita della Begriffsgeschichte koselleckiana: il suo compito non è lo sviluppo fine a se stesso della storia delle parole, ma la tematizzazione storico-filosofica, tramite la storia dei concetti, del mutamento delle strutture del tempo, il diverso rapporto che ogni epoca instaura con le strutture temporali e che si cristallizza, immancabilmente, nella dimensione concettuale propria dell’epoca. La via privilegiata per tematizzare e per portare a piena coscienza teorica tale mutamento consiste nello studio dei concetti tanto nei loro “strati” temporali interni quanto negli slittamenti semantici e nei riorientamenti strutturali a cui essi vanno storicamente incontro. Si scopre così che la struttura temporale dei concetti quale si era tradizionalmente conservata, nella sua essenza e a prescindere dai mutamenti – tutt’altro che irrilevanti – intervenuti, dall’antichità greca fino al XVII secolo, quando cioè la struttura dei concetti era tale che ciascuno di essi si riferiva a una struttura temporale stabile e ripetitiva, implode improvvisamente con la modernità dischiusasi con la Sattelzeit. Accade così, in quell’arco di tempo durato appena cent’anni, che la struttura interna dei concetti vada incontro a una radicale “torsione” che li stravolge nella loro essenza, provocandone un riorientamento fondamentale: in una risemantizzazione epocale dell’area tedesca e, per estensione, delle principali realtà europee, tutti i principali concetti del lessico socio-politico vengono “futurizzati”, sradicati dal loro contesto di ripetitività, privati del loro contenuto esperienziale e inseriti nel vortice della futurizzazione moderna. È qui che l’analisi begriffsgeschichtlich di Koselleck viene a intrecciarsi alla sua indagine sulle strutture ontocroniche dell’esistenza e, in particolare, sulla moderna autonomizzazione della dimensione dell’aspettativa. Infatti, tale autonomizzazione subentrata nel XVIII secolo permette di scorgere la fisionomia della modernità

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sotto due differenti profili: da un lato, essa consente di comprendere la genesi della costellazione dei concetti «singolari-collettivi» (Kollektivsingularen) di “progresso” (Fortschritt), di “storia” (Geschichte), di “formazione” (Bildung), che condensano e, al tempo stesso, promuovono la tensione “futuro-centrica” della Neuzeit, incanalandola nel movimento lineare-accelerato della storia; dall’altro, l’autonomizzazione dell’aspettativa aiuta a fare luce sul processo di risemantizzazione del mondo che ha coinvolto l’area tedesca nella sua “soglia epocale” (1750-1850). Nel campo dei concetti, infatti, la Begriffsgeschichte registra lo slittamento semantico “infuturante” di tutti i principali «concetti storici fondamentali» (geschichtliche Grundbegriffe) che si verifica in quel torno di anni: è l’autonomizzarsi dell’aspettativa a determinare quel riorientamento futurologico, facendo sì che i concetti storici si carichino essi stessi di tensione verso l’avvenire, trasformandosi in Erwartungsbegriffe e Bewegungsbegriffe. In altri termini, la tensione futuristica dell’aspettativa emerge in modo particolarmente nitido dalla moderna risemantizzazione del lessico socio-politico: gli antichi concetti si “futurizzano” e, insieme, ne vengono coniati di nuovi, che per lo più vanno a nutrire quella galassia di “-ismi” (“comunismo”, “socialismo”, “cesarismo”, ecc.) di cui è costellato il mondo moderno. Concetti come “democrazia”, “libertà” ed “emancipazione” cessano improvvisamente di indicare esperienze passate e cominciano a riferirsi alla fondazione di esperienze “a venire”, esse stesse collocate lungo la “linea” del tempo e, pertanto, avulse da ogni riferimento alle esperienze pregresse: «non si tratta più – precisa Koselleck – di concetti che registrano esperienze, ma piuttosto di concetti che creano esperienza»56 e che la proiettano nell’avvenire, anticipando teoricamente il futuro e influenzandolo praticamente (sul piano politico). «L’esperienza su cui poggiano è quella dello svanire dell’esperienza»57, ossia dell’autonomizzarsi dell’aspettativa. Ad esempio, il concetto di “dittatura”58 cessa di indicare un intervallo giuridico funzionale al ripristino dell’antico ordine e comincia a designare (nel caso della dittatura di Napoleone non meno che in quello della «dittatura rivoluzionaria del proletariato» marx-engelsiana) un processo di trasformazione storica che si affaccia sul futuro. Tutti i concetti storici fondamentali, da semplici “concetti-indice”, volti a registrare nell’ambito del pensiero e del linguaggio il progresso storico in corso, vengono dunque trasformati dall’aspettativa in “concetti-fattore” di accelerazione e di futurizzazione, con un alto tasso di politicizzazione e di ideologicizzazione; ne scaturiscono concetti in cui il fattore di “promozione” del mutamento tende a predominare su quello di “registrazione” delle trasformazioni. Scrive Koselleck:

Un’ipotesi per il nostro lessico dei concetti storici fondamentali è che il linguaggio politico-sociale (die politisch-soziale Sprache), a partire dal XVIII secolo, si sia trasformato, nonostante l’uso comune delle stesse parole, e che da allora sia stata articolata una “nuova epoca” (neue Zeit). Coefficienti di mutamento e di accelerazione trasformano vecchi campi di significato e, con ciò stesso, l’esperienza politica e sociale59.

In altri termini, la Begriffsgeschichte attesta sul piano semantico-concettuale il movimento “infuturante” e la “linearizzazione” della storia che si verifica nella Sattelzeit: da questo punto di vista, la «storia concettuale», mostrando che «tutto il campo del linguaggio politico-sociale viene influenzato dalla tensione sempre più forte tra esperienza e aspettativa»60, registra la transizione alla

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modernità tramite la svolta di paradigma nei concetti. Dallo studio della coppia concettuale metastorica e in relazione storicamente variabile dell’“aspettativa” e dell’“esperienza” è dunque emersa sia – sul piano metodologico – la modalità secondo cui, ad avviso di Koselleck, gli uomini di ogni epoca fanno e pensano la loro storia, sia – a livello di contenuto storico – l’essenza più intima della modernità: l’autonomizzazione della dimensione dell’aspettativa. L’analisi storico-filosofica koselleckiana, e in particolare la sua diagnosi della modernità come epoca della futuristiche Verkehrung determinata dall’autonomizzarsi dell’aspettativa, risulta corroborata dallo studio dei concetti, dal loro “riorientamento” interno in direzione dell’avvenire. Insistiamo ulteriormente su questa risemantizzazione epochemachend intervenuta nella seconda metà del XVIII secolo: dall’epoca aurorale dei Greci fino alle soglie del XVIII secolo ciascun concetto storico fondamentale si era configurato essenzialmente come un concetto retrospettivo, nella misura in cui indicava esperienze pregresse e potenzialmente ripetibili, con una netta prevalenza degli strati del passato, che con il loro “spessore” finivano, per così dire, per sporgere anche nell’avvenire; ora, con la Sattelzeit, accade repentinamente, nel volgere di pochi anni, che «il rapporto tra concetto e ciò che viene compreso si inverte, si sposta a favore di anticipazioni linguistiche che devono avere come proprio effetto quello di informare di sé il futuro»61. A emergere in primo piano è, improvvisamente, la tensione verso un futuro nuovo e inaccostabile, nella sua novità dirompente, alle esperienze passate. Se dall’antichità alla prima metà del XVIII secolo «i concetti erano caratterizzati dalla capacità di ricapitolare in una sola espressione le esperienze accumulate fino a quel momento»62, nella convinzione che esse potessero anticipare un futuro che, per quanto diverso, non si sarebbe mai potuto allontanare completamente dalle esperienze passate, con la svolta epocale del 1750 si verifica un capovolgimento: «il rapporto del concetto con ciò che è concepito si inverte»63, nella misura in cui i geschichtliche Grundbegriffe cessano di riferirsi a situazioni pregresse e alludono prospetticamente a progetti, a esperienze politiche nuove e non rintracciabili nel passato né interpretabili alla luce di esso. Scrive Koselleck in riferimento alla «soglia epocale»:

L’intero spazio linguistico politico e sociale si è spostato – pur con l’identità di molte parole – da una tradizione quasi statica, che conosceva solo cambiamenti a lungo termine, a una concettualità (Begrifflichkeit), il cui senso si lascia scoprire a partire da un futuro nuovo64.

Si verifica così, a partire dal 1750 circa, quella risemantizzazione del mondo che può essere assunta, ad avviso di Koselleck, come chiave di accesso per interpretare la modernità e la sua genesi. Il codice genetico della Neuzeit sta tutto scritto in questa tacita ammissione secondo cui la verità non sta nel passato, ma nel futuro. Da “passato-centrici” i concetti diventano improvvisamente “futuro-centrici”, dipingendo essi stessi i contorni della modernità e del suo tratto più peculiare: l’autonomizzarsi dell’Erwartungshorizont, che, sospinto dall’accelerazione vorticosa degli eventi prodotta dalla Rivoluzione industriale e dalla Rivoluzione francese, prende il sopravvento sull’Erfahrungsraum, fino a sopprimerlo del tutto. In quest’ottica, lo studio del mutamento paradigmatico nell’ambito dei concetti segnala la transizione all’epoca moderna e, insieme, testimonia del suo carattere “futuro-centrico”.

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4. Elementi di critica della teoria e del metodo di Koselleck.

L’impianto teorico di Koselleck costituisce un indispensabile strumento di lavoro non soltanto per lo storico in senso stretto o per il Begriffshistoriker, ma anche per chi, con intenti più specificamente filosofici, miri a elaborare una diagnosi generale della modernità in quanto tale, riconducendola ad alcuni princìpi fondamentali, con i quali rendere ragione delle singole determinazioni empiriche che hanno costellato il moderno. Tuttavia, l’assunzione del metodo e della diagnosi koselleckiana non possono presentare un carattere dogmatico, né devono impedire di segnalare quelli che possono per varie ragioni essere intesi come “punti deboli” dell’elaborazione teorica koselleckiana. Nella fattispecie, sono essenzialmente tre le critiche generali che possono essere indirizzate alla posizione koselleckiana, esaminata tanto nella sua metodologia di «teoria delle strutture del tempo», quanto nella sua concreta diagnosi della modernità. Tali critiche possono essere compendiate nel modo che segue e che ora mi limito a enunciare: 1) sul piano metodologico, la soluzione koselleckiana si regge su un equilibrio altamente instabile e costantemente precario, nella misura in cui lascia aperta una “tensione” tra i concetti e la realtà, senza chiarire fino in fondo se in essi sia prevalente il ruolo di indicatori della trasformazione storica o di promotori della medesima. 2) A livello contenutistico, la teoria di Koselleck si rivela troppo poco attenta alle discontinuità storiche, poiché finisce, in ultima analisi, per dividere semplicisticamente l’intera vicenda storica dell’Occidente in modo dualistico, distinguendo tra una plurimillenaria “premodernità” (dalla Preistoria al XVII secolo d.C.) e una recentissima “modernità”, subentrata grazie alla svolta paradigmatica operata dall’Illuminismo e dal suo movimento di temporalizzazione globalizzante. 3) Sempre a livello contenutistico, nell’elaborazione koselleckiana non vi è traccia dell’esaurirsi dell’esperienza della Neuzeit: Koselleck non ha tematizzato la fine della modernità e della sua concezione progressistico-lineare della Geschichte, rimanendo prigioniero della sua stessa periodizzazione “dualistica”, centrata sulla rigida distinzione tra “moderno” e “premoderno”. Prendiamo le mosse dal primo punto. Come si è detto, Koselleck sceglie di mantenere irrisolta, nella sua biunivocità, la relazione tra storia e concetti, riconoscendo che, in questi ultimi, la valenza di registrazione del mutamento convive con quella opposta di forze del mutamento stesso. In questo senso, la storia determina la sfera concettuale e, insieme, i concetti determinano la trama storica, in un nesso aperto tra le due dimensioni che spetta allo storico indagare di volta in volta, senza mai far valere la pretesa riduzionistica di annullare o anche solo di marginalizzare una delle due valenze a favore dell’altra. Sarebbe eccessivo liquidare il problema nei termini di una «indecisione teorica di fondo»65: Koselleck opta consapevolmente per quella soluzione. Ciò non toglie, naturalmente, che la soluzione koselleckiana risulti problematica e, per certi versi, compromissoria: essa si configura, a ben vedere, come una non-soluzione, in quanto riapertura – consapevole e accettata in quanto tale – dell’indeterminatezza della relazione tra concetti e realtà storica. Da questa “non-soluzione” affiorano non pochi problemi teorici, che si riverberano sul metodo koselleckiano; tra questi, uno dei più insidiosi può essere formulato nella seguente maniera: Koselleck non distingue adeguatamente tra il valore che un concetto presenta per i suoi contemporanei e quello che assume per chi – soprattutto il Begriffshitoriker – lo studia retrospettivamente. In altri termini, la distinzione koselleckiana tra la valenza di indicatori e quella di

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forze del mutamento storico risulta semplicistica e finisce per non tenere in debita considerazione la differenza temporale che separa lo storico dall’attore che agisce di volta in volta in determinati contesti storici: ora, se per il primo (lo storico) i concetti sono sempre indici, per il secondo (l’attore) i concetti sono sempre forze; la Spannung, che Koselleck pone al centro dell’esperienza storica di ogni epoca, viene così a sciogliersi tramite la distinzione tra attore e storico. Il primo, impiega i concetti come forze con cui mutare il contesto storico in cui è proiettato: anche nella loro valenza di indici che registrano e condensano la storia sotto forma di concettualità, essi assumono immancabilmente lo statuto di forze attive che permettono di agire nella e sulla realtà storica concreta. Il secondo – lo storico – utilizza i concetti come indici, mai come forze: se ne avvale per ricostruire retrospettivamente il contesto storico di una data epoca, a partire dai contenuti concettuali che essa ha prodotto. Se egli impiegasse i concetti come forze, allora dismetterebbe i panni dello storico e indosserebbe quelli dell’attore. Si potrebbe obiettare che, per l’attore storico, i concetti mantengono effettivamente una ambivalenza, nel senso che in essi la dimensione “promotrice” non cancella mai del tutto quella “indicatrice”: eppure, se anche il valore di indice di un concetto fosse effettivamente tale per i suoi contemporanei, la sua capacità di registrare concettualmente l’esperienza storica si tramuterebbe per ciò stesso in forza in grado di trasformare la realtà storica in questione. È bene insistere ulteriormente su questo nodo fondamentale. Compendiando una molteplicità di relazioni teoriche e pratiche, e indicando l’unità di una direzione, il concetto sembrerebbe, anche per l’attore, un mero indicatore di mutamenti storici avvenuti: ma, in questo suo indicare il mutamento, esso sarebbe già un fattore di promozione dell’istanza trasformativa. Al contrario, per lo storico l’ampia gamma dei concetti storici fondamentali assume sempre e solo lo statuto di indicatrice del contesto storico proprio delle singole epoche, nella misura in cui essi compendiano le esperienze passate e rivelano gli slittamenti semantici epocali. Nella distinzione tra storici e attori che ho appena proposto è possibile, per inciso, segnalare un’ulteriore ambiguità dell’impostazione koselleckiana: Koselleck ammette genericamente la valenza di indici e di fattori dei concetti, ma non chiarisce mai rispetto a chi essi siano di volta in volta tali (rispetto agli storici? O rispetto agli attori?). L’aporeticità che ne risulta è tanto più evidente se si considera che il concetto di “indice” viene impiegato da Koselleck indistintamente per gli attori e per lo storico, come se il singolo concetto in questione (“democrazia”, “rivoluzione”, ecc.) indicasse gli stessi contenuti a chi agisce nel presente e a chi studia retrospettivamente il contesto in cui altri agivano. La conseguenza che ne scaturisce è, paradossalmente, un enigmatico annullamento di ogni distanza storica, in netta contraddizione con le intenzioni originarie della Begriffsgeschichte: nello stesso concetto verrebbero così a convivere, aporeticamente, due contesti differenti, che non possono in alcun caso essere identificati o sovrapposti, pena il confondere la visione del passato propria dello storico con il passato stesso nella sua fattualità. I due contesti, reciprocamente irriducibili, sono quello esperito dai

contemporanei e quello che si rivela allo storico tramite lo studio della Begrifflichkeit passata. È superfluo sottolineare che, se tale differenza venisse soppressa, verrebbe per ciò stesso dichiarata vana l’opera dello storico: la coscienza che un’epoca ha di se stessa basterebbe, infatti, a esaurirne la storia; aspetto che, inoltre, metterebbe sotto scacco l’interpretazione ermeneutica della storicità propugnata da Koselleck, sulle orme di Gadamer, e centrata sull’emersione temporalmente

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determinata di sempre nuove verità che nascono dalle nuove domande, oltre che dalle nuove risposte, che maturano di epoca in epoca. Veniamo ora al secondo dei punti prima enunciati: la teoria di Koselleck si rivela troppo poco attenta alle discontinuità storiche. In particolare, la posizione koselleckiana risulta legata, forse anche più del previsto, a un’impostazione marcatamente geschichtsphilosophisch, che sacrifica il particolare storico all’universale filosofico nel tentativo di elaborare una visione olistica del corso della storia, anche a costo di sacrificare le specificità che renderebbero di per sé inaccostabili tra loro certe epoche e certi momenti storici. In ciò è lecito rinvenire un argomento a favore dell’esigenza di una lettura “filosofica” dell’opera di Koselleck. In definitiva, la periodizzazione koselleckiana finisce per ridurre l’intera storia dell’umanità a due sole epoche fondamentali (il “premoderno” e il “moderno”), riconducendo a questo schema interpretativo di tipo dualistico anche vicende, o addirittura epoche (il Medioevo, inteso come semplice continuazione dell’antichità), che, se lette in trasparenza, presentano una loro specificità irriducibile. L’unico grande spartiacque epocale nella storia dell’umanità andrebbe pertanto ravvisato nella Sattelzeit: l’intera vicenda pre-Sattelzeit verrebbe così a configurarsi come un’unica, indistinta fase premoderna, caratterizzata dal predominio storico della categoria meta-storica dello «spazio dell’esperienza», mentre la totalità delle vicende post-Sattelzeit, dall’Illuminismo a oggi, andrebbe collocata in un’altrettanto indistinta e unitaria «modernità», a sua volta caratterizzata dall’egemonia dell’«orizzonte dell’aspettativa» e dalla scoperta del tempo storico. Sotto questo profilo, pertanto, la prospettiva di Koselleck risulta riduttiva: le specificità storiche, anche le più importanti, finiscono per essere riassorbite nelle maglie delle due “macro-epoche” del premoderno e del moderno, del pre-Sattelzeit e del post-Sattelzeit, del predominio dell’esperienza (fino al XVIII secolo) e del predominio dell’aspettativa (dalla seconda metà del XVIII secolo in poi). Oltre che per il suo riduttivismo radicale, la periodizzazione con cui Koselleck divide in modo duale la storia dell’Occidente europeo può essere sottoposta al fuoco della critica per aver tacitamente posto in relazione due poli a tal punto eterogenei da diventare, di fatto, incomunicanti: più precisamente, la storia quale viene profilandosi nel mondo post-Sattelzeit si presenta come una storia singolarizzata, futurizzante, linearizzata e progressiva ed è, pertanto, non soltanto diversa, ma strutturalmente opposta a quella del mondo pre-Sattelzeit, pluralizzata, “passato-centrica” e non lineare. In forza di questa eterogeneità, nessuna delle due storie può ricomprendere al proprio interno l’altra: con l’ovvia conseguenza che, per i moderni, interi settori dell’esperienza del passato – basata su una storicità di tipo opposto a quella moderna – sono destinati a rimanere sconosciuti o, in ogni caso, a essere fraintesi. In altri termini, semplificando la questione, si può sostenere con diritto che, nella misura in cui a distinguere i due mondi storici è la diversa concezione della storia e della temporalità, tra le due epoche vige una incomunicabilità totale, proprio perché i due regimi di temporalità – quello premoderno e quello moderno – si presentano come antitetici. Alla luce di queste considerazioni, si potrebbe essere indotti a domandare a Koselleck su quali basi egli – che appartiene consapevolmente alla modernità – possa pretendere di interpretare, con la sua teoria delle Zeitstrukturen, anche il mondo pre-Sattelzeit66. Ci resta da affrontare, ora, il terzo dei punti prima enunciati: non vi è traccia, nell’elaborazione koselleckiana, dell’esaurirsi dell’esperienza della Neuzeit e del suo dispositivo futurologico. In

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particolare, è del tutto assente nell’elaborazione teorica koselleckiana la svolta storica “postmoderna”, con il suo tramonto dei “grandi racconti” moderni, tra cui quello di una storia linearizzata e sporgente su un avvenire diverso e migliore. La scansione dicotomica della storia dell’umanità in due sole grandi tappe sortisce sulla diagnosi koselleckiana l’effetto di un riduzionismo estremo in relazione tanto al mondo anteriore al 1750, quanto a quello posteriore a tale data. Come il primo, infatti, viene inteso uniformemente, senza le adeguate distinzioni, come una sola grande epoca, caratterizzata dall’egemonia dell’esperienza passata sulla dimensione dell’avvenire, allo stesso modo il secondo viene compattamente concepito, in modo unidimensionale, come età della futurizzazione progressiva-accelerata, come epoca del progresso lanciato verso la perfezione; è per via di questa spinta riduttivistica che non viene compresa, chiarita e tematizzata da Koselleck la transizione dall’epoca del «futuro passato» (il moderno) a quella che si potrebbe qualificare come epoca dell’«eterno presente» (il postmoderno), contraddistinta dalla desertificazione di ogni avvenire e, secondo l’elaborazione teorica di François Hartog, dal dominio del «presente onnipresente»67. Il nostro tempo – questa la conseguenza – può ancora essere interpretato, nell’ottica koselleckiana, secondo le categorie proprie della modernità, poiché ad avviso di Koselleck non si è verificata alcuna cesura di rilievo: l’esperienza del tempo continuerebbe dunque a essere quella originatasi nella «soglia epocale». In verità, Koselleck sembra aver intravisto l’esaurirsi del paradigma teorico moderno, nella misura in cui ha tematizzato, in riferimento ai monumenti dell’Olocausto68, una svolta ermeneutica decisiva, caratterizzata dal passaggio da monumenti che veicolano la pienezza di senso del moderno a monumenti di altro tipo, la cui funzione si risolve nell’indicare all’osservatore che ogni senso si è consumato, fino a sparire del tutto, dietro i reticoli di Auschwitz. Eppure Koselleck non sviluppa adeguatamente questa intuizione, poiché non la declina sotto forma di transizione a una nuova fase della storia, centrata su un diverso “regime di temporalità”: in particolare, egli non la declina sul piano della Begriffsgeschichte e finisce così per convincersi che, dopo tutto, il paradigma moderno continui a sussistere immutato e sia, di conseguenza, interpretabile con il tradizionale apparato categoriale. Sotto questo profilo, si può sostenere con diritto che Koselleck è rimasto con inflessibile tenacia un pensatore del «secolo breve», incapace di vedere e di tematizzare la svolta postmoderna. Note 1 R. Koselleck, Kritik und Krise. Pathogenese der Bürgerlichen Welt, 1959; tr. it. a cura di P. Schiera, Critica illuministica e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna 1972. Si tratta della tesi con cui Koselleck – influenzato in modo decisivo da Carl Schmitt e da Otto Brunner – conseguì la laurea nel 1954: il sottotitolo della tesi era Eine Untersuchung der politischen Funktion des dualistischen Weltbildes im 18. Jahrhundert. 2 Id., Begriffsgeschichten. Studien zur Semantik der politischen und sozialen Sprache, a cura di U. Spree – W. Steinmetz, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2006. 3 Su questo punto, cfr. K. Palonen, Die Entzauberung der Begriffe: das Umschreiben der politischen Begriffe bei Quentin Skinner und Reinhart Kosselleck, LIT, Berlin 2004, pp. 206 ss. 4 R. Koselleck, Über die Theoriebedürftigkeit der Geschichtswissenschaft (1972), in Id., Zeitschichten. Studien zur Historik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2000, p. 302. In più occasioni, del resto, Koselleck ha ribadito l’esigenza di «fondare in

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qualche modo teoreticamente la scienza storica» (Geschichtswissenschaft in einer Weise theoretisch zu begründen, Id., Einführung, in Id. – W. J. Mommsen – J. Rüsen, Objektivität und Parteilichkeit, DTV, München 1977, p. 12). La storia, sostiene Koselleck, può essere una scienza solo quando «sviluppa una teoria dei tempi storici» (eine Theorie der geschichtlichen Zeiten entwickelt, Id., Über die Theoriebedürftigkeit der Geschichtswissenschaft, cit., p. 302), vale a dire quando – se esplicitiamo il suo discorso – si dota di un supplemento filosofico con il quale interpretare complessivamente le strutture del tempo. La storia deve dunque essere supportata da una Theorie der geschichtlichen Zeiten, ed è appunto su di essa che si regge la Begriffsgeschichte koselleckiana: con l’idea che l’uomo sia un ente storico (e linguistico), che le condizioni di possibilità della storia siano fornite da categorie meta-storiche, che il mondo premoderno sia contrassegnato da un predominio del passato esperienziale sul futuro (in opposizione al mondo moderno, in cui invece il mutamento rapidissimo degli eventi – soprattutto con la Rivoluzione industriale e con quella francese – crea un’asimmetria tra esperienze e aspettative a favore di queste ultime). In questo senso, spiega Koselleck, «la storia concettuale, secondo il nostro tentativo, non può fare a meno di una teoria dei tempi storici» (ibidem). 5 R. Koselleck, Einleitung (1967), in Id. – O. Brunner – W. Conze, Geschichtliche Grundbegriffe: Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Klett-Cotta, Stuttgart 2004, 9 voll., 1972-1997, I, p. XXIV. 6 Id., «Erfahrungsraum» und «Erwartungshorizont» – zwei historische Kategorien (1975); tr. it. «Spazio di esperienza» e «orizzonte di aspettativa»: due categorie storiche, in Id., Vergangene Zukunft: zur Semantik geschichtlicher Zeiten, 1979; tr. it. a cura di A. M. Solmi, Futuro passato: per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986, p. 301. Esiste anche una recente riedizione del testo per i tipi della Clueb, Bologna 2007. 7 Ivi, p. 303. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 303. 12 Su questo punto, cfr. N. Auciello, Vortici e forze (storiografia e riflessione), in Id. – R. Racinaro (a cura di), Storia dei concetti e semantica storica, Edizioni Scientifiche Italiane, Roma 1990, pp. 47 ss. 13 R. Koselleck, Prefazione, in Id., Futuro passato, cit., p. 5. 14 Ibidem. 15 Id., «Spazio di esperienza» e «orizzonte di aspettativa»: due categorie storiche, cit., p. 307. 16 Ivi, p. 308. 17 Ivi, p. 304. 18 Ibidem. 19 Ibidem. 20 Ibidem. 21 Ivi, p. 305. 22 Id., Über die Theoriebedürftigkeit der Geschichtswissenschaft, cit., p. 299. 23 Ibidem. 24 Id., Historik und Hermeneutik (1985), in Id., Zeitschichten, cit., pp. 97-118; tr. it. a cura di P. Biale, Ermeneutica e istorica, Il Melangolo, Genova 1990, p. 28. Si tratta della conferenza tenuta da Koselleck presso l’Accademia delle Scienze di Heidelberg in occasione dell’ottantacinquesimo compleanno di Gadamer. Sia nell’originale (Zeitschichten), sia nella traduzione viene riportata anche la risposta di Gadamer: Eine Antwort von Hans-Georg Gadamer, pp. 119-127; tr. it. Istorica e linguaggio. Una risposta, pp. 41-49. Il punto di convergenza tra la prospettiva di Koselleck e quella del maestro Gadamer deve essere rintracciata nel comune approccio ermeneutico: l’ermeneutica gadameriana assume con Koselleck la nuova funzione di interpretazione della storia, nel tentativo di far convergere la dimensione linguistica e quella storica in un sempre rinnovato, perché inesauribile, gioco interpretativo. 25 M. Heidegger, Sein und Zeit, 1927; tr. it. a cura di P. Chiodi, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 200216, pp. 63 ss. 26 Ivi, p. 287. Già in precedenza Heidegger aveva indicato nella temporalità la condizione della comprensibilità dell’essere, mostrando come quella fosse la principale (benché provvisoria) acquisizione teorica di Sein und Zeit: «il suo

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traguardo provvisorio è l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale» (ivi, p. 14). La Zeitlichkeit del Dasein consiste per Heidegger in una presentificazione infuturante che incessantemente sprofonda nel passato. In particolare, l’«essere-futuro» permette all’esistenza di «ripetere il passato nel “come” (wie) del suo essere-stato-vissuto» (Id., Die Grundprobleme der Phänomenologie, Klostermann, Frankfurt am Main 1975, p. 329). Ciò significa, se letto in trasparenza, che l’esserci riesce a sottrarsi al flusso degli “istanti-ora” che scivolano nel “non-più” perché è in grado di anticipare il futuro, precorrendo l’Ereignis tramite un’«anticipazione» (Id., Essere e Tempo, cit., p. 405) che si regge sull’assimilazione del “non-ancora” al “già-stato” e che, per questa via, neutralizza l’imprevisto e il perturbante dell’avvenire tramite la sua riconduzione “addomesticante” al “già-noto”. Come già si precisava nella conferenza del 1924, Der Begriff der Zeit, il precorrere «non è altro che il futuro unico e autentico del proprio esserci. Nel precorrere l’esserci è il suo futuro, e precisamente in modo da ritornare, in questo essere futuro, sul suo passato e sul suo presente» (Id., Der Begriff der Zeit, 1924; tr. it. a cura di F. Volpi, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 20068, p. 40). Lo stesso Sein und Zeit, sotto questo profilo, dissipa ogni dubbio: «l’anticipazione rende l’Esserci autenticamente ad-veniente, sicché l’anticipazione stessa è possibile soltanto perché l’Esserci, in quanto esistente, è, in generale, già sempre pervenuto a se stesso, cioè in quanto, nel suo essere è, in generale, ad-veniente» (Id., Essere e Tempo, cit., p. 391). 27 R. Koselleck, «Spazio di esperienza» e «orizzonte di aspettativa»: due categorie storiche, cit., p. 304. 28 Ibidem. 29 Ivi, p. 307. 30 Ibidem. 31 Una critica all’uso delle due categorie metastoriche koselleckiane è stata mossa da Anders Schinkel, in Imagination as a Category of History: and Essay Concerning Koselleck’s Concepts «Erfarungsraum» and «Erwartungshorisont», in «History and Theory», n. 44 (febbraio 2005), pp. 42-54. In questo articolo, Schinkel sottopone a dura critica l’impianto argomentativo koselleckiano, cercando di mostrare come nella modernità non si verifichi alcuna trasformazione nel rapporto tra aspettativa ed esperienza. Egli ritiene invece che sia l’«immaginazione» – una categoria mediana tra l’aspettativa e l’esperienza – a determinare la “rottura” tra mondo premoderno e mondo moderno: in quest’ultimo, l’immaginazione assume un ruolo sempre più decisivo, che rende più “creativa” l’aspettativa. In questo modo, tuttavia, l’impianto generale dell’argomento koselleckiano non viene destrutturato, nella misura in cui continua a essere riconosciuta la presenza di una Trennung situata nella «soglia epocale» compresa tra il 1750 e il 1850. Scrive Schinkel: «non occorre negare che vi sia stata una rottura tra il periodo premoderno e quello moderno. Si potrebbe descrivere tale rottura nei termini di una differenza tra una coscienza retrospettiva e una coscienza lungimirante» (ivi, p. 50). Ora, Schinkel resta inconsapevolmente prigioniero, suo malgrado, dello schema interpretativo koselleckiano. Il suo saggio, in questo senso, dovrebbe essere inteso come una integrazione della prospettiva koselleckiana più che come una sua critica. L’aspetto, forse, più interessante del lavoro di Schinkel deve essere ricercato nella Begriffsgeschichte del concetto di «immaginazione», di cui egli mette in luce il carattere moderno di «facoltà creativa» (cfr. ibidem), connessa con le figure del genio, dell’originalità e della creatività. 32 R. Koselleck, «Spazio di esperienza» e «orizzonte di aspettativa»: due categorie storiche, cit., p. 308. 33 Id., «Historia Magistra Vitae». Über die Auflösung des Topos im Horizont neuzeitlich bewegter Geschichte, 1967; tr. it. «Historia magistra vitae». Sulla dissoluzione del topos nell’orizzonte di mobilità della storia moderna, in Id., Futuro passato, cit., pp. 30-54. Il presupposto della formula historia magistra vitae e della sua validità millenaria risiede secondo Koselleck nella convinzione, radicata in Cicerone non meno che in Machiavelli, secondo cui la funzione educativa e pedagogica della narrazione storica sarebbe garantita dalla sostanziale identità, nei tratti essenziali, delle tre dimensioni storiche del passato, del presente e del futuro. Da questo punto di vista, il topos della historia magistra vitae riposava esattamente sul presupposto che il futuro, se anche non si ripeteva esattamente come il passato, per lo meno non lo eccedeva mai: di conseguenza, assumendo l’esperienza trascorsa come base per pronosticare il futuro, guardare al passato significava, entro certi limiti, prepararsi per l’avvenire, traendo ammaestramenti dagli esempi e dai modelli rintracciabili nella narrazione storica. 34 Id., «Spazio di esperienza» e «orizzonte di aspettativa»: due categorie storiche, cit., p. 309.

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35 Ibidem. 36 Ivi, p. 311. 37 Ivi, p. 313. 38 Ivi, p. 316. 39 Ivi, p. 312. 40 Ivi, p. 313. 41 Ibidem. 42 P. Ricoeur, Temps et récit, 1983-1985; tr. it. a cura di G. Grampa, Tempo e racconto, III, Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1988, p. 374. 43 R. Koselleck, «Spazio di esperienza» e «orizzonte di aspettativa»: due categorie storiche, cit., p. 309. 44 Ibidem. 45 Id., Begriffsgeschichte und Sozialgeschichte, 1972; tr. it. Storia dei concetti e storia sociale, in Id., Futuro passato, cit., p. 102. 46 Ibidem. 47 Id., Einleitung (1967), in Id. – O. Brunner – W. Conze, Geschichtliche Grundbegriffe: Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, cit., I, p. XXIII. 48 Ibidem. 49 H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, 1960; tr. it. a cura di G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano 20018, p. 542. Per un’interpretazione del problema del nesso linguaggio-essere in Gadamer, cfr. R. Rorty, La filosofia di Gadamer. «L’essere che può venir compreso è il linguaggio», in «Iride», n. 2 (2000), pp. 313-322; D. Di Cesare (a cura di), L’essere, che può essere compreso, è linguaggio. Omaggio a Hans-Georg Gadamer, Il Melangolo, Genova 2001; G. Martini, La sfida dell’irrappresentabile, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 77 ss. 50 H.-G. Gadamer, Istorica e linguaggio. Una risposta, cit., p. 48. 51 Sul nesso tra la Begriffsgeschichte koselleckiana e l’ermeneutica gadameriana, cfr. C. Dipper, I Geschichtliche Grundbegriffe dalla storia dei concetti alla teoria delle epoche storiche, in «Società e storia», n. 19 (1996), pp. 385-402. 52 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., pp. 263-282. La correlazione conoscitiva tra soggetto e oggetto avrebbe dato luogo a una concezione della verità come conformità o adeguazione tra linguaggio, pensiero ed ente, adaequatio rei et intellectus. Opponendosi a questa concezione corrispondentista, Heidegger sostiene che l’essere mette in luce gli enti, ne è lo sfondo. In questo senso, l’essere è verità, ma non come adaequatio rei et intellectus, bensì come aletheia, come movimento di disvelamento e di apertura, tale per cui la verità si disvela, e disvelandosi si apre nel tempo. In questo movimento di disvelamento che è l’accadere della verità, vi è sempre una parte che resta nascosta , non-svelata. Sul problema della verità in Heidegger (soprattutto in Sein und Zeit), cfr. M. Bonola, Verità e interpretazione nello Heidegger di «Essere e Tempo», Filosofia, Torino 1983; G. Vattimo, Arte e verità nel pensiero di Martin Heidegger, Giappichelli, Torino 1966; F. Chiereghin, Il problema della verità in Martin Heidegger: le lezioni marburghesi del 1925-1926 (Logik, die Frage nach der Wahrheit) e Sein und Zeit, Nuova Vita, Padova 1982. 53 R. Koselleck, Stichwort: Begriffsgeschichte (2002), in Id., Begriffsgeschichten, cit., p. 100. 54 Ibidem. 55 Ibidem. 56 Id., «Spazio di esperienza» e «orizzonte di aspettativa»: due categorie storiche, cit., p. 319. Corsivi miei. 57 Id., Neuzeit. Zur Semantik moderner Bewegungsbegriffe, 1977; tr. it. «Età moderna» (Neuzeit). Sulla semantica dei moderni concetti di movimento, in Id., Futuro passato, cit., p. 297. 58 Cfr. E. Nolte, Diktatur, in R. Koselleck. – O. Brunner – W. Conze, Geschichtliche Grundbegriffe: Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, cit., I, pp. 900-924. 59 R. Koselleck, Über die Theoriebedürftigkeit der Geschichtswissenschaft, cit., p. 302. Nelle pagine che seguono, mi limiterò a considerare il riorientamento dei concetti a partire dal XVIII secolo solo sul versante della futurizzazione, senza soffermarmi su tutti e quattro gli ambiti in cui esso avviene ad avviso di Koselleck: ambiti che corrispondono pienamente, sul piano storico, al movimento generale della modernità qua talis, al suo profilo generale. Con l’avvento della «soglia epocale» racchiusa tra il 1750 e il 1850, i geschichtliche Grundbegriffe – spiega Koselleck nella Einleitung al

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Lexikon – vanno infatti incontro a quattro processi, strettamente interconnessi e tali da poter essere esaminati singolarmente solo per astrazione: 1) una «democratizzazione» (Demokratisierung), 2) una «temporalizzazione» (Verzeitlichung), 3) una «ideologicizzazione» (Ideologisierbarkeit), 4) una «politicizzazione» (Politisierung). In forza di questo quadruplice mutamento strutturale, tutti i concetti fondamentali si democraticizzano, si politicizzano, si ideologicizzano e si temporalizzano. Cfr. R. Koselleck, Einleitung (1967), in Id. – O. Brunner – W. Conze, Geschichtliche Grundbegriffe: Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, cit., I, pp. XVI-XVIII. 60 Id., «Spazio di esperienza» e «orizzonte di aspettativa»: due categorie storiche, cit., p. 321. 61 Id., Einleitung (1967), in Id. – O. Brunner – W. Conze, Geschichtliche Grundbegriffe: Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, cit., I, p. XVIII. 62 Id., «Età moderna» (Neuzeit). Sulla semantica dei moderni concetti di movimento, in Id., Futuro passato, cit., p. 297. 63 Ibidem. 64 Id., «Spazio di esperienza» e «orizzonte dell’aspettativa»: due categorie storiche, cit., p. 304. 65 N. Auciello, Vortici e forze (storiografia e riflessione), cit., p. 34. 66 Cfr. O. Marquard, «Die Geschichtsphilosophie und ihre Folgelasten», in R. Koselleck – W.-D. Stempel (a cura di), Geschichte – Ereignis und Erzählung, Fink, München 1973, pp. 463-469, qui p. 466: «gerade dadurch, daß ihm [Koselleck] diese Datierung und Motivierung gelang, hat er sich ein folgeschweres Problem beschert: die Bedrohung der Einheit des Forschungsfeldes jener Historie, die doch dem Begriff der einen Geschichte selbst sich verdankt; wieso vermag sie es – sozusagen diesseits des Sattels – über den Sattel der Sattelzeit verstehend hinwegzublicken? So erzwingt die radikale Verneuzeitlichung der Geschischtsphilosophie als Folgeproblem das Desiderat einer Theorie der Konstanz temporaler Strukturen und historischer Verlaufsregeln». 67 Cfr. F. Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, 2003; tr. it. a cura di A. Buttitta, Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo, Sellerio, Palermo 2007. 68 Cfr. R. Koselleck, Daumier und der Tod, in G. Boehm – K. Stierle – G. Winter (a cura di), Modernität und Tradition. Festschrift für Max Imdahl, Fink, München 1985, pp. 163-178; Id., Les monuments aux morts. Contribution à l’étude d’une marque visuelle des temps modernes, in M. Vovelle (a cura di), Iconographie et histoire des mentalités, Éditions du Centre national de la recherche scientifique, Paris 1979, pp. 113-123; Id., Kriegerdenkmäler als Identitätsstiftungen der Überlebenden, in O. Marquard – K. Stierle (a cura di), Identität, Poetik und Hermeneutik, Fink, München 1979, VIII, pp. 255-276; esiste anche una traduzione italiana, a cura di L. Monti e frutto di un collage di alcuni dei testi appena citati: Id., I monumenti: materia per una memoria collettiva?, in «Discipline filosofiche», n. 2 (2003), pp. 9-33. Nella sua periodizzazione dell’opera koselleckiana, Kari Palonen (Die Entzauberung der Begriffe. Das Umschreiben der politischen Begriffe bei Quentin Skinner und Reinhart Koselleck, cit., pp. 180 ss.) ha individuato un settimo nucleo tematico del suo Denkweg nell’«iconografia politica» (politische Ikonographie), nello studio degli slittamenti semantici dei monumenti. In realtà, lo studio koselleckiano dei monumenti percorre trasversalmente tutta la sua opera, a partire dagli anni Settanta.

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Storia delle idee e intellectual history. Un brevissimo confronto

di Luca Gasparri Così come l’etichetta e la serie di implicite assunzione metodologiche che la isolano da altre forme di ricerca sui paradigmi culturali, la storia delle idee è un evento relativamente recente nel complesso scenario della filosofia e della storiografia filosofica. L’espressione “history of ideas” venne introdotta all’inizio degli anni Venti del Novecento ad opera di A. O. Lovejoy e di una serie di personalità secondarie legate alla Johns Hopkins University, tra le quali G. Chinard e A. Boas, che nel 1922 fondarono lo History of Ideas Club1. Di “storia delle idee”, tuttavia, si può certo parlare anche in riferimento al lavoro di autori più lontani nel tempo. Se l’etichetta “storia delle idee” è interpretata estensivamente e usata per denotare in generale la ricerca sull’evoluzione delle forme di pensiero o lo studio della relazione tra dottrine filosofiche, politiche, economiche e religiose di diverse epoche storiche, una disciplina simile non soltanto esisteva già, ma era stata coltivata con grande interesse da un folto gruppo di studiosi europei e nord americani sin dalla fine del diciannovesimo secolo. In questa prospettiva, anche F. Heer, M. Weber, W. Dilthey, E. Troeltsch, J.H. Robinson, R. Tawney e J. Bury possono essere considerati “storici delle idee.” Nella tradizione filosofica tedesca, per di più, la considerazione di materie collegate a quelle al centro della pratica della storia delle idee nella sua connotazione attuale ha radici che affondano addirittura più profondamente nel passato. Per esempio, già nel Tentamen introductionis in historiam doctrinae logicae de ideis di Jakob Brucker (Leipzig, 1716) troviamo un sofisticato tentativo di articolare una GeschichtederIdeenlehre nella quale l’allora professore di storia della filosofia presso l’Università di Jena proponeva di analizzare il contenuto e le condizioni di formazione di diverse “idee” riducendo l’humus intellettuale delle epoche in cui esse erano fiorite a tendenze di più ampia portata radicate nelle vicissitudini della storia materiale. Ma è solo dal terzo decennio del ventesimo secolo che la storia delle idee inizia ad assumere una connotazione metodologica più specifica e una più precisa definizione disciplinare, in parte riallacciandosi ai trascorsi storici di cui si è detto, in parte proponendosi di contrastare forme di ricerca storica come la Geistesgeschichte tedesca, che gli esponenti di questo nuovo trend storiografico vedevano insistere in modo troppo selettivo e pregiudiziale solo sui momenti di immediata omogeneità interculturale e diacronica delle forme di espressione del pensiero umano, senza prestare adeguata attenzione allo sviluppo e alla trasmissione delle unità concettuali come fenomeni dipendenti dal contesto, e piuttosto legittimando l’individuazione di costanti prototipiche nelle trasformazioni culturali in funzione di uno storicismo idealista tutto sommato anacronistico e poco difendibile. La storia delle idee si occupa anzitutto della ricostruzione del modo in cui singoli concetti inclusivi o serie di concetti di larga scala vengono prodotti, trasmessi e trasformati attraverso la storia. Di conseguenza, essa tende a strutturare la propria narrazione dei fatti storici sulla base della creazione e delle metamorfosi di una singola idea nel corso del tempo e attraverso diversi contesti culturali, facendo appello a procedure interpretative che assomigliano a quelle adottate da un musicologo

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interessato a tracciare l’insistenza e le variazioni di un tema guida in diverse parti di una sinfonia. Il primo e il più classico esempio di storia delle idee nella sua accezione contemporanea è senza dubbio il saggio The Great Chain of Being, pubblicato nel 1936 da Lovejoy sulla base delle William James Lecturestenute ad Harvard nel 19332. Basato sull’intento di ricostruire le vicissitudini storiche dell’idea secondo cui il mondo sarebbe una piramide ordinata di entità tendenti a un sempre crescente grado di completezza, pienezza e perfezione, il libro fu il primo ad offrire il modello teorico e una dettagliata esemplificazione criteriologica del nuovo campo di studi e, assieme agli Essays in the History of Ideas3, può essere considerato una summa dei suoi principi metodologici. Nella concezione di Lovejoy, la storia delle idee deve essere praticata e rappresentata come «qualcosa di al tempo stesso più specifico e meno ristretto della storia della filosofia»4. Deve essere più specifica perché è pensata per concentrarsi su singole idee e non sui sistemi concettuali che esse contribuiscono a costituire; deve essere meno ristretta perché aspira a liberarsi della settorialità tipica della classica storiografia filosofica e a modellare le sue narrazioni dello sviluppo storico dei concetti sull’enfasi del loro contributo non solo alle opere filosofiche, ma anche all’eredità letteraria e scientifica, alla storia delle religioni e delle arti, alla cultura politica e alle tradizioni popolari. Sfortunatamente, i primi scritti di Lovejoy ci lasciano soltanto pochi chiarimenti rapsodici riguardo a cosa dovremmo intendere per “idea” nel senso raccomandato dal suo apparato metodologico. Si limita semplicemente a descriverle come «unità dinamiche primarie, persistenti o ricorrenti»5 e specifica che il suo uso del termine «idea» può essere inteso a titolo egualmente legittimo come riferito a: (a) abiti mentali e presupposti parzialmente espliciti che determinano in modo non chiaramente visibile l’immagine del mondo abbracciata da individui e gruppi di individui; (b) motivi dialettici (come la tendenza a ridurre nozioni generali ai loro elementi empiricamente salienti); (c) atteggiamenti descrittivi ascrivibili a tipi di lirismo metafisico (come il pathos panteistico); (d) singole proposizioni o principi espressi da un pensatore e sistematicamente richiamati dagli studiosi a lui successivi. Passato poco più di un decennio, Lovejoy riconsidera il problema di presentare una spiegazione chiara e inequivoca di quanto volesse intendere per «idee» e le definisce «tipi di categorie, pensieri concernenti aspetti particolari dell’esperienza comune, specifici teoremi filosofici, o le più ampie ipotesi, generalizzazioni e assunzioni metodologiche di varie scienze»6. Leggendo queste definizioni, è difficile non sviluppare l’impressione che la regimentazione filosofica della nozione di “idea” offerta da Lovejoy sia nebulosa e insoddisfacente. Certo, si potrebbe osservare come il problema dell’adeguatezza storiografica del sistema di trattamento dei concetti elaborato dall’apparato metodologico di Lovejoy sia separabile, almeno in principio, dall’esigenza di avere una buona teoria di cosa siano le “idee” in generale; ma dal momento che l’identificazione dei confini concettuali delle idee è indispensabile per la ricostruzione della loro storia e gli scritti di Lovejoy non offrono alcun insieme di procedure prive di ambiguità per eseguire questa demarcazione preparatoria, è naturale che sorgano alcuni profondi problemi epistemologici. Lovejoy, in ogni caso, non sembra essere particolarmente consapevole di questa limitazione e anziché cercare di migliorare la propria teoria delle idee, preferisce insistere sul loro ruolo funzionale all’interno dei sistemi concettuali. I due aspetti metodologici analizzati con maggiore enfasi da Lovejoy e da alcuni tra gli altri primi teorici della storia delle idee, nello specifico, sono la dottrina delle unit-ideas e il requisito di

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interdisciplinarità. Secondo Lovejoy, le unit-ideas sono i costituenti atomici dei costrutti concettuali e assomigliano a delle specie di mattoni prototipici invarianti che possono essere coinvolti nella produzione di architetture di significato il cui aspetto complessivo non deve essere assunto come una costante. In tal senso, le procedure che lo storico delle idee deve seguire nell’analizzare il movimento e l’evoluzione delle unit-ideas lungo la storia e attraverso diversi sistemi culturali sono in qualche modo «analoghe a quelle della chimica analitica:»7 lo storico deve (i) smembrare il monolitismo del sistema culturale in questione e risolverlo nei suoi costituenti concettuali, (ii) scomporre questi concetti nelle unit-ideas da essi contenute, (iii) concentrare la propria attenzione su una soltanto tra queste idee fondamentali, infine (iv) tracciare la sua trasmissione e la sua evoluzione nel corso della storia del pensiero. Secondo Lovejoy, la molteplicità e la diversità delle configurazioni culturali, dei sistemi e delle dottrine accessibili alla ricerca storica non deriva dalla ricchezza numerica e dall’assortimento qualitativo dei loro ingredienti base, bensì dalla varietà dei modi in cui questi elementi possono essere combinati tra loro. Una volta identificata una specifica unit-idea, lo storico deve seguirla attraverso i diversi campi del sapere e ricostruire il suo percorso spesso tortuoso e frammentato attraverso tutte le sfere disciplinari in cui la sua presenza è quantitativamente significativa. Per esempio, la diffusione degli orologi nel Settecento, segno e fattore della transizione epistemologica da una concezione naturalistica e continua a una concezione discreta, funzionalizzata e antropocentrica del tempo8, non riguarda solo la storia del costume e della tecnica, ma anche quella della filosofia, delle scienze e della letteratura; ricostruirne la rilevanza in uno solo di questi campi significherebbe trascurare alcune delle caratteristiche essenziali dei fenomeni e della mentalità che designava. Gli storici delle idee devono dunque procedere nella loro analisi del percorso storico delle idee a prescindere dai confini delle letterature e delle culture nazionali, poiché la circolazione delle rappresentazioni e delle forme di pensiero non segue il percorso tracciato da pratiche prestabilite di auto-riconoscimento e comunicazione e, al fine di essere ricostruita in modo dovuto, può richiedere di concentrare l’attenzione su frontiere concettuali eterogenee. Per Lovejoy, inoltre, è di fondamentale importanza estendere la sfera di attenzione della ricerca storiografica oltre i margini restrittivi delle opere delle élites intellettuali, e rintracciare l’espressione delle unit-ideas sia nell’attività di figure della cultura tradizionalmente considerate secondarie, sia nell’eredità documentaria delle mentalità popolari9. Prevedibilmente, il programma epistemologico offerto da Lovejoy è stato al centro di un intenso dibattito ed è stato spesso aspramente criticato10. Oggi, per esempio, molti studiosi guardano al teorema dell’invarianza delle unit-ideas con grande scetticismo e ritengono che sia problematico accettarlo anche come semplice principio pratico a prescindere dalla sua incapacità di fornire una definizione adeguata della nozione di “idea”. Prima di tutto, la legittimità metodologica del postulato di atomicità funzionale sembra costituire un argomento epistemologico le cui condizioni di validità sono indipendenti da quelle della rappresentazione delle idee come costituenti statici. Da una parte, sarebbe necessario un argomento aggiuntivo e specifico per provare che la legittimità sostantiva della dottrina delle idee come costituenti statici può essere inferita dall’efficacia pratica del requisito di atomicità funzionale; dall’altra, l’insistenza sulla natura statica delle unit-ideas, così come sul loro ruolo di costituenti minimi, è soggetta al rischio di indurre lo storico a non tenere in considerazione o a rappresentare in modo scorretto la natura isotropica dei prodotti intellettuali,

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così come a tralasciare sia le continue trasformazioni a cui i nuclei semantici dei concetti vanno incontro nel corso del tempo, sia le alterazioni che si determinano nel loro contenuto nel momento in cui essi diventano termini di una specifica Weltanschauung11. Con la sua sistematica enfasi sulla stabilità costitutiva delle unit-ideas, l’immagine della storia delle idee difesa da Lovejoy sembra inoltre adottare un modello del cambiamento storico gratuitamente continuista e difficilmente in grado di associare un adeguato trattamento analitico ai momenti di discontinuità e di frattura che spesso si verificano nella storia della cultura12. Un ulteriore indizio del bisogno di affinare la metodologia della storia delle idee oltre la relativa naïveté delle sue prime formulazioni può essere inoltre attestato dal fatto che, nonostante lo scarso interesse di Lovejoy per temi di analisi linguistica, in molti casi la tradizione di un’idea è vincolata da un nesso cruciale alla storia della parola o del gruppo di parole designate ad esprimerla, e che le dinamiche relative alla trasmissione di un concetto spesso possono essere ricomposte soltanto intrecciando la ricostruzione dell’evoluzione del suo contenuto con una storia dell’evoluzione dei suoi veicoli linguistici. Infine, è stato osservato come il teorema secondo cui il contenuto delle idee sarebbe invariabile nel tempo sembri implicare un’implausibile concezione essezialista degli oggetti concettuali, che sarebbero così separati dal mondo materiale e inscritti in una sorta di Empireo semantico privo di connessioni con il substrato storico e sociale in cui, di fatto, le idee contribuiscono all’avanzamento della storia culturale. Questo tipo di esercizio storiografico ha certamente alcune qualità positive. Per esempio, permette allo storico di individuare con semplicità le analogie e le continuità concettuali a dispetto delle variazioni di contesto. Le controindicazioni, tuttavia, sono altrettanto evidenti: insistendo con così tanta enfasi (e con così poca problematizzazione filosofica) sulla tesi secondo cui diverse istanze di una singola idea dovrebbero essere concepite come termini dell’estensione temporale di un unico complesso concettuale, la storia delle idee lovejoyiana incoraggia apertamente una sorta di atteggiamento platonista che tratta le unit-ideas come se il contesto culturale e storico in cui occorrono avesse la possibilità di determinare soltanto le loro proprietà relazionali, ma non di alterare i loro attributi sostanziali e la loro identità semantica13. Su un versante più marcatamente terminologico, d’altra parte, come può Lovejoy presentare il suo programma metodologico come un tipo di “storia delle idee” e, al tempo stesso, difendere una teoria filosofica secondo cui le sole proprietà delle unit-ideas che possono concretamente variare nel corso del tempo sono quelle che definiscono la loro relazione con altre idee e, di conseguenza, secondo cui il contenuto semantico delle idee è completamente astorico?14 Prima di tutto, l’impostazione analitica degli stessi scritti storici di Lovejoy è più sfumata e flessibile di quanto si potrebbe essere indotti ad aspettare una volta registrare le procedure e l’ontologia dei concetti che fanno da sottofondo alla sua visione della storia delle idee. Nello studio dedicato alla grande catena dell’essere, per esempio, è in qualche modo sorprendente che Lovejoy, apparentemente dimentico delle ragioni che lo avevano portato a chiamare in causa l’analogia con la chimica analitica, si concentri diffusamente sul tentativo di mostrare come le trasformazioni dell’idea che stava analizzando fossero state provocate dalle stesse contraddizioni che alla fine ne avrebbero causato la “disgregazione” (e non semplicemente la “scomparsa” dalla scena della storia). In molti casi, Lovejoy sembra semplicemente interessato a tracciare la cronistoria di aree concettuali la cui articolazione

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temporale possa essere ridotta allo sviluppo di un singolo concetto caratterizzato (b) da un’estensione appropriatamente ampia e (b) dalla disposizione positiva ad essere trattato come se il dispiegamento storico delle sue implicazioni interne fosse significativamente resistente alla pressione contestuale e, anziché da contingenze situazionali, mostrasse di dipendere prevalentemente dalla sua composizione logica. In effetti, anche quando Lovejoy elabora la propria “dottrina delle forze” e sostiene che i principi che regolano il cambiamento concettuale possono essere divisi in due categorie principali, una occupata dalla “pressione logica” delle idee, l’altra da una serie eterogenea di attrattori come le propensità individuali di sentimento, gusto e temperamento,egli prende certo in considerazione le pressioni contestuali e rifiuta l’idea di ridurrein toto le vicissitudini storiche dei concetti al dispiegamento della loro essenza semantica, ma continua implicitamente a supportare la tesi secondo cui il contenuto semantico delle unit-ideas non può essere soggetto a cambiamento storico. La conseguenza è che se vogliamo parlare di unit-ideas in un senso compatibile con il modo in cui Lovejoy le caratterizza, dobbiamo postulare che l’intervento della pressione contestuale sul cambiamento culturale non precluda la possibilità di riferirsi alle proprietà relazionali di una singola idea a tempi diversi come relazioni insistenti su un nucleo semantico il cui contenuto a tempi diversi non è logicamente discontinuo rispetto alle sue occorrenze ad ogni altro tempo15. Almeno in questo senso, appare difficile concedere che lo schema lovejoyiano resista alla tentazione essenzialista di postulare che le “idee” possano essere definite a prescindere dal modo e dalla storia del loro incarnarsi nel mondo16. A fronte di difficoltà di questo tipo, l’intellectual history17 parte da una posizione di significativo vantaggio, almeno se si crede (e penso vi siano ottime ragioni per farlo) che uno storico in possesso di una concezione filosofica della propria attività più bilanciata e teoricamente difendibile sia statisticamente meno esposto al rischio di forzare l’analisi dei dati che è chiamato a spiegare nella speranza di confermare qualche dubbio preconcetto sulla natura del pensiero umano. Adottando un numero di misure propedeutiche significativamente inferiore e ispirandosi a un ecumenismo metodologico più liberale, gli studiosi di intellectual history difendono un’immagine delle unità concettuali decisamente più elastica di quella proposta da Lovejoy. Normalmente, il loro interesse è diretto verso i processi attraverso cui l’assemblaggio e l’aggiornamento della struttura semantica dei concetti emerge dalla rete di condizionamenti contestuali in cui tali concetti sono inscritti, siano essi dovuti al consolidamento di un nuovo paradigma in qualunque campo della conoscenza umana, a eventi relativi alla competizione tra classi sociali, a cambiamenti dell’assetto istituzionale della vita politica di una comunità, o all’implicito apparato di consenso determinato dalle predisposizioni linguistiche e valutative di un gruppo di attori storici (oggi spesso designati con il termine «discorsi»)18. In qualche caso il paesaggio concettuale esaminato dallo studioso di intellectual history è determinato per isotropia dal gruppo delle idee con cui un dato concetto è in relazione, idee che a loro volta sono condizionate dal comportamento generale della rete di relazioni semantiche che informano. In altri casi, la relazione di vicinanza semantica tra costrutti culturali può essere insensibile a canoni di continuità spaziale e temporale, e rispondere a criteri più generali di rilevanza, come il costituire la risposta ad un problema formulato in un contesto storico, politico e culturale molto distante19. Per quanto possa sembrare che non ci sia nulla di intrinsecamente problematico nell’idea di concedere che i prodotti culturali possano essere studiati

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in riferimento a uno scenario contestuale non esclusivamente concettuale, per alcuni critici questa concessione è controversa e problematica. Alcuni studiosi di intellectual history, per esempio, adottano un approccio puramente internalista, ossia analizzano la storia di particolari agglomerati di prodotti culturali, documenti e concetti mettendoli in relazioni con altri prodotti culturali, documenti e concetti, senza avvertire il bisogno di prendere in considerazione alcuna proprietà non semantica dell’ambiente storico e sociale che circonda questa rete di riferimenti. Concedono dunque che il sistema di fatti materiali e istituzionali all’interno di cui le idee vengono elaborate e trasmesse possa fungere da base di emergenza dei concetti o esercitare una pressione normativa sull’evoluzione delle forme di espressione della cultura, ma al tempo stesso sostengono che uno scrutinio puramente internalista delle variabili del cambiamento concettuale sia sufficiente per produrre il tipo di comprensione storica dei fenomeni culturali in cui l’intellectual history dovrebbe essere interessata. Quando l’intento predominante dello storico, per esempio, è enfatizzare le connessioni esistenti tra campi diversi della produzione della cultura in una data epoca storica, i vantaggi dell’approccio internalista bilanciano ampiamente le sue limitazioni. Il rischio, tuttavia, è di nuovo quello di riprodurre, dopo aver abbandonato la nozione di «unit-idea» con lo scopo specifico di evitarle, le stesse insobrietà essenzialiste a cui era stata esposta la storia delle ideeclassica. Per quanto in diversi scritti metodologici sull’argomento il contestualismo sia sempre più di frequente rappresentato come uno strumento indispensabile all’interno dell’arsenale degli strumenti analitici dello storico20, molti studiosi di intellectual history basano oggi la propria ricerca su un procedimento internalista. Questa preferenza non impedisce loro di mostrare qualche simpatia per l’esternalismo o l’internalismo impuro, ma è innegabile che larga parte della storiografia intellettuale recente sia prevalentemente interessata semplicemente alla comparazione diretta tra sistemi di significato e di senso. È tuttavia altrettanto vero che l’internalismo come paradigma generale di ricerca orientata allo studio della cultura ha cessato di essere circondato dalla stessa atmosfera di approvazione incondizionata che era stata concessa al suo nocciolo prescrittivo da paradigmi storiografici meno recenti, e che esercizi storici impostati su una base puramente internalista danno l’impressione di essere troppo rigidi, quietisti, elitisti e poco esplicativi, specialmente se misurati alla luce delle domande a cui gli storici si sono interessati in modo predominante da qualche tempo a questa parte. Se abbracciamo l’assunzione secondo cui la preferenza per alcune variabili metodologiche in un sistema flessibile implica la costruzione di una divisione disciplinare sostantiva, ci sono molti “tipi” di intellectual history. Questa è certamente una delle differenze principali esistenti tra il modo in cui il dibattito sulla metodologia della storia delle idee e quello sulla metodologia dell’intellectual history sono stati sviluppati e promossi nel corso degli ultimi decenni. Le discussioni di carattere criteriologico sono state tradizionalmente ben recepite dagli storici delle idee, che hanno guardato a lungo con grande simpatia all’idea di costruire un modello metodologico monolitico e universalmente valido. Gli studiosi di intellectual history, al contrario, hanno sempre favorito un approccio più liberale e pluralista alle questioni metodologiche, e hanno spesso considerato il dibattito criteriologico sulla natura e l’identità della loro disciplina poco capace di dire qualcosa di autenticamente rilevante e discriminante per una specialità come la loro. Si potrebbe guardare al problema nella prospettiva opposta, e ipotizzare che nonostante molti studiosi di intellectual history

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credano che l’essenziale pluralismo metodologico della loro disciplina sia il fondamento della loro ostilità verso le preoccupazioni di carattere metodologico, la verità è che l’assenza di un canone metodologico definito e l’implicita assunzione del pluralismo metodologico che caratterizzano la pratica attuale dell’intellectual history sono effetti storici della loro riluttanza a spendersi in un’intensiva chiarificazione concettuale dello status e delle tecniche interpretative della loro disciplina. In ogni caso, mentre l’enfasi su questioni di carattere metodologico è stata generalmente accolta con calore da molti teorici di una versione para- o post-lovejoyiana della storia delle idee, l’idea di esprimere l’identità procedurale dell’intellectual history attraverso una sorta di apparato metodologico parametrizzato (il che significa, al tempo stesso, sufficientemente elastico e flessibile, ma costruito sul consenso su un numero fondamentale di assunzioni teoriche sulla base delle quali sperare di poter identificare, in un senso minimale e tuttavia accurato, le proprietà più significative dell’attività del cultore di intellectual history) è stata ed è tuttora circondata da una specie di malcelata avversione, se non da un’attitudine apertamente ostracista21. In tutta onestà, l’impressione è che questa reticenza non sia soltanto una contingenza storica, bensì che essa colga qualcosa di essenziale della natura di questa disciplina. Forse quella di specificare una metodologia per gli studi di intellectual history è un’impresa destinata a fallire per il semplice fatto che non è possibile catturare in una definizione unitaria tutte le domande a cui è possibile che essa voglia rispondere nell’approcciarsi all’analisi di un prodotto intellettuale e, per ovvia conseguenza, la varietà multiforme e policroma dei modi in cui essa può guardare all’evoluzione della cultura. Questo non significa negare che si possa discutere analiticamente su alcune questioni procedurali più dettagliate e che associare una buona trattazione filosofica ai problemi ad esse relativi non sia importante o discriminante. Ma dato che lo spettro dei temi rilevanti per la pratica dell’intellectual history non è incapsulabile in alcuna standardizzazione del numero e del tipo dei suoi interessi legittimi, risulta arduo pensare di strutturare un modello metodologico monista senza sacrificare (assieme all’intuizione secondo cui il perseguimento di fini esplicativi diversi implica l’applicazione di tecniche interpretative diverse) il desiderio di mantenere in vita la possibilità che la storiografia intellettuale, soprattutto in un periodo storico dove la ricerca accademica è sempre più razionalizzata, regimentata e specialistica, non debba veder gravata da alcun tipo di limitazione preconcetta la sua possibilità di guardare alla società e alla cultura in modo libero e costruttivamente insensibile ai tradizionali confini tra discipline. Note 1Oltre che per il retroterra metodologico, questo nuovo stile storiografico si differenziò dalla storiografia concettuale di impostazione tradizionale anche per la scelta dei mezzi di diffusione del dibattito accademico legato all’elaborazione della sua metodologia. I primi seguaci della “history of ideas” lovejoyiana, infatti, ampliarono lo spettro e il bacino di utenza delle soluzioni editoriali tradizionali con iniziative fondate su ideali marcatamente cooperativi e internazionalisti, e furono particolarmente attivi nella creazione di riviste e società ispirate all’ambizione di coinvolgere nel dibattito accademico che circondava la neonata disciplina studiosi da ogni parte del mondo. Tra i molti esempi, nel 1940 venne pubblicata la prima uscita del Journal of the History of Ideas; nel 1960 venne fondata presso il Peterhouse Collegedi Cambridge la International Society for the History of Ideas; tra il 1968 e il 1974, infine, un folto ed eterogeno gruppo

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di studiosi compilò il Dictionary of the History of Ideas (la cui edizione originale può essere tuttora consultata gratuitamente online attraverso il portale web della University of Virginia Library, all’indirizzo: http://xtf.lib.virginia.edu/xtf/view?docId=DicHist/uvaBook/tei/DicHist1.xml). 2 A. O. Lovejoy, The Great Chain of Being: A Study of the History of an Idea (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1936). 3 A. O. Lovejoy, Essays in the History of Ideas (Baltimore, MD: Johns Hopkins University Press, 1948). 4Lovejoy, The Great Chain of Being, 3 (trad. mia). 5Ibid., 7 (trad. mia). 6 Lovejoy, “The Historiography of Ideas,” in Essays in the History of Ideas, 9 (trad. mia). 7 Lovejoy, The Great Chain of Being, 3 (trad. mia). 8Cf. D. S. Landes, Revolution in Time: Clocks and the Making of the Modern World (Cambridge, MA: Harvard University Press, 2000). 9 Per un riassunto, sivedano R. Macksey, “The History of Ideas at 80,” MLN 117(5) (2002): 1083–97; A. Grafton, “The History of Ideas: Precept and Practice, 1950-2000 and Beyond,” Journal of the History of Ideas 67(1) (2006): 1–32. 10 Si vedano per esempio J. Hintikka, “Gaps in the Great Chain of Being: An Exercise in the Methodology of the History of Ideas,” Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association 49 (1975/1976): 22–38; M. S. Gram, R. M. Martin, “The Perils of Plenitude: Hintikka Contra Lovejoy,” Journal of the History of Ideas 41(3) (1980): 497–511; D. J. Wilson, “Lovejoy’s History of Ideas after Fifty Years,” Journal of the History of Ideas 48(2) (1987): 187–206. 11 Su questopunto, vd. P. Wiener, A. Noland (eds.), Ideas in Cultural Perspective (New Brunswick: Rutgers University Press, 1969), 24–92. 12 Cf. M. Richter, “Begriffsgeschichte and the History of Ideas,” Journal of the History of Ideas 48 (1987): 247–63. 13Vd. J. Dunn, “The Identity of the History of Ideas,” Philosophy 43(164) (1968): 85–104. 14Cf. L. O. Mink, “Change and Causality in the History of Ideas,” Eighteenth-Century Studies 2(1) (1968): 7–25. 15Per unadiscussione di questaimplicazione, siveda D. J. Wilson, “Lovejoy’s The Great Chain of Being after Fifty Years,” Journal of the History of Ideas 48 (1987): 187–206. 16Tutte queste obiezioni hanno avuto lungo corso in Italia, dove a lungo la storia delle idee è stata, e in parte lo è ancora oggi, guardata con molta diffidenza e sufficienza, perché poco assimilabile ai presupposti storiografici del neo-idealismo e del marxismo, oppure confusa con gli studi di letteratura comparata. La fortuna di cui la storia delle idee ha potuto godere nel Bel Paese, d’altra parte, non è né di molto superiore né nettamente inferiore al plauso che ha potuto raccogliere negli ambienti culturali esteri, dove, nonostante le numerose critiche, la disciplina ha potuto beneficiare dell’apertura dei circoli del professionismo accademico e apportare grandi benefici allo sviluppo di gran parte delle discipline storiografiche orientate allo studio della cultura. In Italia la rivista Intersezioni, attiva dal 1980, si presenta proprio come Rivista di storia delle idee, mentre il Lessico intellettuale europeo del C.N.R. stampa regolarmente il periodico Lexikon Philosophicum con il sottotitolo Quaderni di terminologia filosofica e di storia delle idee, e non sono affatto rari i volumi e gli studi ispirati all’orientamento storiografico inaugurato da Lovejoy. 17 Trattandosi di un tecnicismo anglofono e in considerazione del fatto che l’equivalente italiano (“storia intellettuale”) gode di poca popolarità, scelgo di mantenere la dicitura inglese. 18Per un approcciogeneraleall’intellectual history, siveda M. Mandelbaum, “The History of Ideas, Intellectual History, and the History of Philosophy,” History and Theory 5(5) (1965): 33-66. Per maggiori delucidazioni sulla nozione di “discorso,”vd. M. Wetherell, S. Taylor (eds.), Discourse Theory and Practice: A Reader (London: Sage, 2001) e M. Jørgensen, L. J. Phillips, Discourse Analysis as Theory and Method (London: Sage, 2002). Per un panorama critico e analiticamente dettagliato, infine, rimando a T. Van Dijk, Society and Discourse. How Social Contexts Influence Text and Talk (Cambridge: Cambridge University Press, 2009). 19Cfr. Q. Skinner, Visions of Politics, Vol. 1: Regarding Method (Cambridge: Cambridge University Press, 2002). 20Per una panoramica di fresca data sul contestualismo, vd. P. Gordon, “Contextualism and Criticism in the History of Ideas,” in Rethinking Modern European Intellectual History for the Twenty-First Century, ed. D. M. McMahon e S. Moyn (New York: Oxford University Press, forthcoming) (ringrazio Peter Gordon per avermi permesso di leggere e citare il suo

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saggio). Cfr. anche J. P. Diggins, “The Oyster and the Pearl: The Problem of Contextualism in Intellectual History,” History and Theory 23(2) (1984): 151–69. 21Tra i molti esempi possibili, si pensi alla scia di recensioni apparse a seguito della pubblicazione di The Logic of the History of Ideas di Mark Bevir (Cambridge: Cambridge University Press, 1999). In particolare, vd. F. Ankersmit, “Comments on Bevir’sThe Logic of the History of Ideas,” Rethinking History 4(3) (2000): 321–31; A. Megill, “Imagining the History of Ideas,” Rethinking History 4(3) (2000): 333–40; A. Munslow, “Editorial,” Rethinking History 4(3) (2000): 239–41; K. Palonen, “Logic or Rhetoric in the History of Political Thought? Comments on Mark Bevir,” Rethinking History 4(3) (2000): 301–10; S. Stuurman, “On Intellectual Innovation and the Methodology of the History of Ideas,” Rethinking History 4(3) (2000): 311–9. Cf. anche M. Bevir, “Philosophy, Rhetoric and Power,” Rethinking History 4(3) (2000): 341–50.

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Teleologia della ragione: Edmund Husserl e la storia della filosofia

di Michele Giugni Questo articolo intende indagare la posizione di Edmund Husserl a proposito della storia della filosofia, nei modi attraverso i quali questa viene portata avanti e nei risultati a cui approda. Motivo dell’interesse per questo tema è la rilevanza fondamentale del rapporto di ogni filosofia con la speculazione ad essa precedente e il problema della possibilità della fenomenologia di rendere ragione del suo essere una filosofia sorta nel solco tracciato da ciò che l’ha preceduta, in relazione alla pretesa di essere filosofia autentica, priva di presupposti non chiariti razionalmente, ovvero radicalmente fondata. Il tema in questione, nei testi husserliani, è trattato decisamente poco, benché la sua fondamentale importanza emerga nell’ultimo periodo della produzione del filosofo di Proßnitz, in particolare nelle due parti della Krisis1 pubblicate dall’autore prima della morte (vale a dire le parti I e II)2. Certo fin dalle Logische Untersuchungen3, come nelle opere pubblicate successivamente, non mancano riferimenti alla tradizione filosofica precedente, come avviene nella critica allo psicologismo e alle teorie dell’astrazione degli empiristi inglesi ad esso legate4, eppure il tema della storia della filosofia e il rapporto della fenomenologia con la tradizione filosofica non saranno oggetto di una considerazione diretta fino ai testi degli anni ‘30. Ciò è determinato da motivi diversi, quali la formazione prima di tipo matematico, sotto la guida di Weierstrass, e poi di tipo psicologico, al fianco di Franz Brentano, e lo sviluppo, conseguente, della filosofia di Husserl, nata, almeno nella volontà dell’autore, come dottrina della scienza, come logica pura dei significati e delle loro relazioni e quindi disciplina formale a priori atta a determinare che forma debba avere un sapere per dirsi rigorosamente scientifico e sviluppatasi solo successivamente come filosofia in senso più ampio (è un carattere essenziale della fenomenologia quello a cui si lega il fatto citato della comparsa tardiva del tema della storia della filosofia, come di altri temi quali ad esempio quello dell’intersoggettività o quello del tempo, e lo è proprio in relazione all’istanza iniziale di determinare che forma debba avere una conoscenza per essere tale, vale a dire conoscenza vera, possesso fondato di un certo sapere all’interno di un’architettura di senso. Solo una volta determinato ciò si poteva passare all’indagine sulle cose determinate, sugli enti dal punto di vista del loro contenuto di significato, e quindi anche alla storia della filosofia). Entrando nello specifico del tema, va notato prima di tutto che la storia della filosofia è, in quanto tale, una storia, una complessa sequenza diacronica di eventi, per cui, al fine di comprendere la posizione di Husserl rispetto ad essa, bisognerà cominciare affrontando quel che egli sostiene a proposito della storia in generale. Il primo testo - e unico tra quelli pubblicati dall’autore, fino alla Krisis - in cui il filosofo tedesco prende in considerazione il problema della storia in quanto scienza è il famoso articolo Philosophie

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als strenge Wissenschaft5, apparso sulla rivista Logos nel 1911, poco prima della pubblicazione del primo libro (l’unico pubblicato) delle Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie6 e successivo alle lezioni sull’idea di fenomenologia7 che stava prendendo forma negli anni ‘10, ovvero quella che verrà chiamata la «svolta trascendentale» della filosofia husserliana presentata, appunto, in Ideen I. In realtà l’articolo in questione era stato scritto da Husserl per chiarire pubblicamente il senso che la filosofia fenomenologica aveva assunto nel suo sviluppo, e la conseguente posizione in relazione alle filosofie e alla cultura ad essa contemporanee, dopo i dieci anni di silenzio dalla pubblicazione delle Logische Untersuchungen. È infatti in questo senso che, nel testo, vengono affrontate polemicamente le due posizioni dominanti nella cultura tedesca del tempo: il naturalismo, come posizione che afferma l’esistenza e l’indagabilità della natura intesa in senso spazio-temporale in quanto unico ambito possibile di conoscenza scientifica, e lo storicismo, ovvero la posizione per cui l’unico criterio scientifico valido per l’indagine delle cosiddette “scienze dello spirito” sarebbe quello determinato dallo studio della storia8. È quindi, come già accennato, in senso polemico che vengono affrontati i temi della storia e della storia della filosofia e non come oggetto di esame specifico (già il titolo dell’articolo è chiaro segno di quello che è l’obiettivo principale dello scritto). Nonostante ciò quello che viene detto in questo testo risulta fondamentale per comprendere molti degli aspetti più generali della fenomenologia husserliana e, conseguentemente, la posizione che il filosofo tedesco assumerà negli ultimissimi anni della sua produzione, in relazione al problema oggetto di questo articolo, ovvero la storia della filosofia. Nelle ultime pagine dell’introduzione alle due parti costituenti il grosso dell’articolo ed aventi ad oggetto, rispettivamente, il naturalismo e lo storicismo, Husserl afferma che

le considerazioni che seguono poggiano sulla convinzione che i più elevati interessi della cultura umana richiedano la formazione di una filosofia rigorosamente scientifica; che, di conseguenza, se una svolta filosofica deve avere legittimità nel nostro tempo, è necessario che essa sia in ogni caso animata dall’intenzione di una rifondazione della filosofia nel senso di una scienza rigorosa9.

E ciò perché, come afferma fin dall’inizio dell’articolo, è la stessa filosofia che fin dalle sue origini - che egli fa risalire ai quei pensatori che la tradizione chiama «filosofi presocratici», anche se vede solamente in Platone il fondatore del senso puramente teoretico, vale a dire come indagine conoscitiva razionale, della filosofia10 – si è posta come pretesa di essere scienza rigorosa in quanto «aspirazione imperitura dell’umanità alla conoscenza pura e assoluta»11. Ora, la definizione di scienza, il filosofo tedesco l’aveva già fornita nelle Logische Untersuchungen come sistema ordinato di conoscenze legate da un nesso teoretico, o nesso di fondazione, che, appunto, dia un ordine alla serie di conoscenze particolari che costituiscono il corpus della stessa12. È in relazione a ciò che Husserl, nella Philosophie als strenge Wissenschaft, determina il senso di scienza rigorosa come “sistema”, e lo fa proprio perché il rigore, a cui egli fa riferimento, è il rigore dell’ordine perfettamente determinato e ultimativamente fondato, chiaro e giustificabile in ogni suo passaggio, ovvero ciò in cui, secondo l’autore, dovrebbe consistere la filosofia fin dalla sua fondazione greca. Ed in particolare intende quello che dovrebbe essere il sistema filosofico, ovvero la scienza rigorosa in quanto tale, come qualcosa che dopo un lungo lavoro preparatorio, compiuto

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da generazioni, si erga come una costruzione poggiante su basi indubitabili e si sviluppi passo dopo passo nel senso di una fondazione apodittica13, dove è chiaro che un ruolo indispensabile a tal fine è quello del metodo (come forma di indagine ed insieme come possibilità di ritornare immer wieder ai fondamenti indubitabili sui quali si fonda ogni connessione dell’edificio della scienza), in quanto unica forma che possa permettere questo lavoro scientifico che Husserl immagina portato avanti da generazioni. È chiaro che qui il riferimento, il modello, è quello della matematica, quello delle cosiddette “scienze esatte”, anche se l’esigenza vera è propria che determina questa posizione è nel senso stesso in cui egli intende la filosofia. Perché questa possa essere scienza rigorosa, ovvero universalmente valida, non può limitarsi all’esserlo per un singolo filosofo, pena la perdita dell’universalità stessa della sua validità. È quindi in relazione al concetto di scienza rigorosa, in quanto senso autentico della conoscenza, che Husserl esamina lo storicismo e, in particolare, la posizione di Wilhelm Dilthey in quanto principale esponente di questo genere di filosofia14. E la valutazione di Husserl è subito negativa: la parte di articolo dedicata allo storicismo si apre con la valutazione per la quale quest’ultimo, ponendo come assoluta la vita empirica dello spirito, finirebbe per risultare una forma di relativismo particolarmente vicina a quello che egli chiama «psicologismo naturalistico»15, vale a dire la concezione per cui tutti i significati e le leggi logiche sarebbero espressione di eventi e funzioni psichiche e per cui, di conseguenza, logica e teoria della conoscenza dovrebbero fondarsi sulla psicologia. Nello specifico questa posizione era stata criticata nella prima parte delle Logische Untersuchungen dove Husserl mostra come, essendo la psicologia una scienza empirica le cui leggi sono vaghe generalizzazioni dell’esperienza, questa non ha modo di giustificare le leggi logiche e matematiche nel loro valore di esattezza (che, appunto, è tutto il contrario di una vaga generalizzazione). Tant’è che

se le leggi logiche avessero la loro fonte nelle fattualità psicologiche, se fossero, ad esempio (...) formulazioni normative di fatti psicologici, dovrebbero allora possedere esse stesse uno statuto psicologico, e questo in un senso duplice: dovrebbero essere leggi della sfera psichica e allo stesso tempo presupporre o implicare la sua esistenza. Si può dimostrare che ciò è falso. Nessuna legge logica implica un matter of fact e neppure l’esistenza di rappresentazioni, di giudizi o di qualsiasi altro fenomeno conoscitivo. Nessuna legge logica è - secondo il suo senso autentico - una legge delle fattualità della vita psichica (cioè, i vissuti del rappresentare), i giudizi (cioè, i vissuti del giudicare), o esperienze psichiche di altro genere16.

Nonostante lo storicismo si voglia porre come scienza esatta, dice Husserl, della vita dello spirito, di fianco alle scienze esatte della natura – come dalla distinzione diltheyana tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften17 – , questo finisce per essere una forma di scetticismo relativistico e quindi non conoscenza vera, bensì negazione della stessa possibilità della conoscenza. Lo storicismo, infatti, riportando ogni concezione culturale e scientifica alla “visione del mondo” (Weltanschauung) che l’ha determinata tramite l’opera dell’autore, riconduce tutto il valore di quei contenuti alla fatticità storica negando, di conseguenza, la possibilità di un valore assoluto, extra-temporale, di qualsiasi idea. Ma, così come lo psicologismo portava a valore di principio delle valutazioni empiriche, altrettanto fa lo storicismo nell’accordare alla storia il ruolo di forma di conoscenza fondamentale della vita spirituale. Ma la valutazione che il solo valore attribuibile ad una filosofia sia quello

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storico, il suo essere inserito in una sequenza diacronica dove appare che nessuna formazione spirituale dell’umanità sia riuscita a porsi in maniera da valere assolutamente, è una considerazione meta-storica. Il fatto che nella storia non sia stata realizzata l’idea della scienza rigorosa, spiega Husserl, non significa che questa sia di principio irrealizzabile. Inoltre l’affermazione per cui l’unico valore di una teoria è il suo valore storico non è un’affermazione storica. Il problema dello storicismo in quanto filosofia, ovvero in quanto teoria e realizzazione della conoscenza, è dunque, per il filosofo tedesco, duplice: da una parte afferma la relatività storica di ogni teoria filosofica, dall’altra si basa su un principio che nega questa prima affermazione finendo per rivelarsi uno scetticismo, negando se stesso in quanto filosofia. Quel che risulta, dunque, della posizione di Husserl a proposito della storia, attraverso la critica alla filosofia dello storicismo, e che servirà a comprendere ciò che egli afferma in relazione alla storia della filosofia, è ben riassunto da queste parole:

i fatti storici concernenti lo sviluppo, compresi i fatti più generali che riguardano il tipo di sviluppo dei sistemi in genere, possono essere delle ragioni, delle buone ragioni. Ma da ragioni storiche possono essere tratte solo conseguenze storiche. Voler giustificare o confutare idee tramite fatti è un’assurdità - ex pumice aquam, secondo la citazione di Kant. Pertanto la storia non può dire nulla di rilevante tanto contro la possibilità di una validità assoluta in generale, quanto in particolare contro la possibilità di una metafisica assoluta, vale a dire scientifica, o di un’altra forma di filosofia18.

Ciò che emerge, anche qui attraverso la critica allo storicismo, è che essendo la storia scienza di fatti, non può essere scienza rigorosa, non potendo portare avanti la propria indagine nel senso dell’assolutezza. Sembra, quindi, che per lo Husserl dei primi anni del secolo scorso, essendo oggetto della storia fatti e non idee, quest’ultima non possa essere né scienza rigorosa, né oggetto di ricerca della scienza rigorosa. Eppure Husserl negli ultimi anni della sua produzione - in particolare nelle due parti pubblicate in vita della Crisi delle scienze europee - della storia ne parla, sia in relazione alla storia della cultura scientifica europea, che della storicità in quanto uno dei caratteri essenziali di quello che è il grande tema dell’ultima produzione del filosofo di Proßnitz, vale a dire la Lebenswelt. E di massimo interesse è notare come della storia Husserl ne parli - certo in un modo peculiare - senza negare le istanze fondamentali espresse nel programmatico Philosophie als strenge Wissenschaft, ed, anzi, in un approfondimento ed in una rigorizzazione della fenomenologia che troverà il suo sviluppo finale proprio nelle pagine della Krisis. È proprio in relazione a questa prospettiva che si lega un testo composto da Husserl tra l’agosto del 1936 e il luglio del 1937 (risalente dunque al medesimo periodo dei testi della Crisi), che ha per titolo Teleologie in der Philosophiegeschichte19, ed è perfetto corollario per l’abbozzo di storia della filosofia compiuto nella Crisi delle scienze europee, in quanto chiarifica il senso più generale sotteso allo sviluppo mostrato nelle pagine dell’ultima grande opera. Il tema è appunto quello anticipato nell’introduzione di questo articolo, ovvero che senso ha e in che modo si può indagare la storia della filosofia all’interno della prospettiva husserliana.

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Come accennato in precedenza, lo scritto in questione sviluppa l’indagine sul senso della storia della filosofia in base e sulla scorta delle istanze della filosofia rigorosa - come del resto tutta la produzione di Husserl posteriore alle Logische Untersuchungen -, e lo fa, nello specifico, in relazione ai due lati fondamentali della filosofia autentica: l’essere indagine razionale e ultimativa della totalità dell’essente e l’esigenza, a tal fine, del vero metodo o, detto altrimenti, del sistema. Il testo si apre in diretto riferimento al titolo, con l’affermazione secondo la quale la teleologia, il tendere ad un fine, ad una forma finale, sarebbe la proprietà essenziale della storia della filosofia20 e ciò nel senso per il quale la filosofia consisterebbe

nell’idea unitaria di un compito, il quale si tramanda intersoggetivamente nel corso della storia e che ha fatto irruzione nella storia europea, mediante una “fondazione originaria” di quei “filosofi”, che per primi hanno concepito l’intento completamente nuovo della “filosofia” e della cui realizzazione hanno fatto la propria missione21.

Qui Husserl presenta la comparsa della filosofia come la nascita di un nuovo genere di mestiere, quello del ricercatore22, nel senso per il quale ad ogni mestiere inerisce questa tendenza verso un fine - dove, al contrario del mestiere del filosofo, il fine è la produzione di qualcosa di utile per un qualche aspetto pratico della vita umana - e questo è ciò che mette in comune chi svolge un certo mestiere piuttosto che un altro. Questa teleologia sarebbe quindi la tendenza alla produzione dell’oggetto proprio di un certo mestiere, in uno sviluppo temporale dove il fine resta sempre quello di creare un buon prodotto (dove buono indica l’avere i caratteri propri che fanno sì che quel prodotto non sia solo un certo prodotto di quel tipo, ma lo sia compiutamente - che sia ben fatto). Ciò, inoltre, nel senso dello sviluppo di una tradizione in cui le tecniche di produzione si tramandano e vengono migliorate sempre alla luce del fine specifico di quel certo mestiere (Husserl porta l’esempio del calzolaio e dei relativi stivali). Per cui, come avvenuto per i panettieri o i muratori - ovviamente in relazione al loro telos peculiare -,

l’identità dell’obiettivo, assunto come possibile e realizzabile in maniera del tutto ovvia, era e restò una sorta di vincolo spirituale che collegava internamente l’uno all’altro tutti i filosofi si ogni tempo e, correlativamente, le loro filosofie precisamente nell’unità di una dimensione sociale decisamente peculiare, che si perpetuava attraverso i tempi e l’avvicendarsi delle generazioni, mediante singoli individui e scuole di ciascuna di queste epoche (nelle loro corrispettive attualità); vale a dire, appunto, di quella socialità che si pone al di là dello spazio e del tempo, propria degli “scienziati”, ossia dei filosofi23.

Di questo mestiere particolare del filosofo e della sua occupazione, la filosofia, Husserl ne indica la nascita nello sbocciare, nei primi filosofi greci, dell’interesse teoretico - l’interesse per la vera conoscenza - di contro all’interesse pratico per le “verità” pratico-induttive della vita di tutti i giorni (quella che l’autore, qui e altrove, chiama «vita pre-scientifica»), ed in particolare nel venire a tema dell’opposizione tra doxa ed episteme. Vale a dire tra il mero sapere pratico, la doxa, e il puro interesse conoscitivo slegato da qualsiasi prassi produttiva, l’episteme. Questa sarebbe la fondazione originaria di un compito, quello, appunto, della vera conoscenza, che si tramanderà per generazioni dando vita a quella comunità tra filosofi che va al di là dello spazio e del tempo24.

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Lo sviluppo di questa nuova disciplina ha per Husserl un senso dialettico, nel quale si manifesta quella caratteristica essenziale della storia della filosofia che è il carattere teleologico. (Carattere da intendersi sia a livello della vita dei singoli filosofi impegnati a raggiungere il telos della filosofia autentica, sia a livello della storia della filosofia tout court come tendenza generale insita nel problema stesso della filosofia.) In particolare questa dialettica consiste nella tensione tra l’esistenza di quelle che il filosofo tedesco chiama «filosofie» al plurale e l’assenza, nella concretezza del mondo storico, di quell’unica filosofia consistente nell’obiettivo, mai raggiunto - altrimenti non si spiegherebbe il proliferare delle differenti filosofie - dell’unica filosofia, del sapere realizzato. Di quella filosofia che, nelle parole dell’autore, «esclude necessariamente ogni plurale»25. Questa dialettica, nello svolgimento degli eventi storici, è data dal susseguirsi nel tempo di filosofi e scuole, tutti intenti a superare le posizioni dei predecessori, ma incapaci di dar vita a quella philosophia perennis, assolutamente fondata ed indagata con vero metodo, e quindi tramandabile e sviluppabile in quel sistema che potesse darle forma di scienza rigorosa. Questa dialettica, poi, benché Husserl nel testo in esame non lo espliciti, è una forma particolare della dialettica più ampia che caratterizza la filosofia fin dalla sua prima fondazione, vale a dire quella tra la filosofia come conoscenza vera, come scienza autentica, e la sua negazione, ovvero lo scetticismo come negazione della possibilità stessa di una filosofia. Dialettica che, tra l’altro, caratterizza la stessa fenomenologia husserliana e il suo sviluppo fin dalle Ricerche logiche26. Il modo in cui Husserl intende questo senso teleologico è esplicitato all’inizio del primo paragrafo della terza parte de Teleologie in der Philosophiegeschichte (intitolata L’idea finale della filosofia e la sua giustificazione), che porta, molto significativamente, come titolo Il telos nascosto della filosofia: la “scienza dell’universo dell’essente”27 in contrapposizione all’obiettivo della filosofia dei singoli filosofi. Riferendosi alla storia della filosofia, intesa in senso fattuale, l’autore si esprime in modo decisamente chiaro, ed è bene prendere in considerazione il passo nella sua interezza:

Ora vogliamo mostrare che la storia intesa in questo primo senso (e, in effetti, per noi necessariamente primo) “cioè come storia dei fatti”, può portare con sé un’altra storia più profonda e più significativa (anzi, in fondo, l’unica davvero effettivamente significativa), la quale, in ogni caso, è sempre in questione, laddove si è cercato di parlare di “idee” nella storia, in un senso particolare e, precisamente, come potenze storiche. Ciò che abbiamo in mente riguarda soltanto la storia della filosofia. E forse soltanto il fatto che la sua esposizione, che appare del tutto speciale (dato che si è così abituati a reputare la filosofia come una forma di cultura speciale accanto e tra le altre forme culturali), otterrà, tuttavia travalicandosi al contempo, un significato universale e, precisamente, quello relativo alla conoscenza della possibilità e della realtà effettiva (pronunciamo la parola adesso, con cognizione di causa) di una teleologia che guida “internamente” la storia dei fatti28.

È evidente come in questo passo venga espresso, seppur a livello generale, ovvero senza l’esplicitazione di cosa determini concretamente questa dialettica e cosa assicuri la verità di questa risultato, il significato della teleologia in quanto caratteristica essenziale della storia della filosofia29. E, di fianco a ciò, è di fondamentale importanza la precisazione di Husserl per cui tutto ciò riguardi esclusivamente la storia della filosofia. A prova dell’effettività di questa teleologia che, non solo animerebbe il lavoro e gli intenti dei filosofi nel loro succedersi, ma addirittura gli eventi filosofici, starebbe il progressivo prendere

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coscienza da parte della filosofia di questa sua essenza teleologica, di questo tendere verso un unico obiettivo, dove il punto di volta di questa storia sarebbe la riproposizione dell’originario compito della filosofia come scienza della totalità dell’essente da parte di Cartesio nelle Meditationes de prima philosophia30. Svolta che avrebbe portato la filosofia ad una progressiva presa di coscienza di sé in quanto essenza teleologica. Nel testo in questione l’indagine storico-critica è accennata solo a livello molto generale, ma è chiaro, anche grazie ad alcuni rimandi espliciti, che quel che manca in questa esposizione lo si trova nelle pagine della Krisis, le quali chiariscono in quale quadro teorico vanno iscritte le affermazioni di questo testo, dove, appunto, il tema della teleologia in quanto essenza della filosofia intesa nella sua concretezza storica viene sì posto, ma non giustificato. E questo quadro teorico è la forma della fenomenologia trascendentale maturata dal filosofo negli ultimi anni della sua produzione. Da ciò che precede emerge come, in un primo momento, ovvero negli anni vicini alla pubblicazione di Ideen I, Husserl neghi la possibilità di affermazioni scientifiche, vale a dire fondate, a proposito della storia, e poi, negli ultimi anni della sua produzione, arrivi ad affermare una causazione storica reale, benché solo per la storia della filosofia. Ciò sembrerebbe indicare un cambiamento di prospettiva, se non una rottura - anche perché è proprio nelle prime pagine del succitato Ideen I che si afferma la distinzione insuperabile tra scienze empiriche e scienze eidetiche e la dipendenza delle prime dalle seconde31. Eppure, in Teleologie in der Philosophiegeschichte, Husserl si richiama esplicitamente alle Idee e indica questo testo come in linea rispetto allo sviluppo del suo discorso iniziato in maniera pubblica con il testo del 191332. Come si spiega tutto ciò? Per comprenderlo bisogna prendere in considerazione il senso in cui Edmund Husserl sviluppa la sua filosofia a partire dalle istanze - mai abbandonate - contenute ne La filosofia come scienza rigorosa, vale a dire le istanze della “vera scienza” e del “vero metodo” ad essa legato. Vero metodo che, come già spiegato, determina l’esigenza “sistematica” della scienza autentica. In relazione a queste istanze fondamentali che determinano il senso della fenomenologia husserliana, al fine di comprendere le affermazioni contenute in Teleologie in der Philosophiegeschichte, bisogna riferirsi a quelli che, con buona probabilità, sono i due temi più importanti della fenomenologia degli anni ‘20 e ‘30: l’indagine sulla possibilità e la fondazione di una filosofia prima, in quanto scienza assoluta, affrontato nelle Cartesianische Meditationen33, anche se alcune puntualizzazioni fondamentali si trovano nella Crisi delle scienze europee, ed il tema, in quest’ultima contenuto, della “Lebenswelt”. Questo perché è proprio attraverso il legame tra questi due temi che si può comprendere il tentativo di superare la mathesis moderna, tentativo dichiarato e contenuto nell’ultima grande opera del filosofo, e che rischiara retrospettivamente tutto il percorso di Husserl. Il preteso superamento, infatti, si sostanzia nel tentativo di dare vita ad una scienza in grado di comprendere in sé fondatamente, e quindi superare, la frattura con cui, secondo le parole di Husserl, verrebbe a nascere il problema filosofico, ovvero il problema della conoscenza vera, vale a dire la divisione tra doxa ed episteme. È a questi due titoli, d’altronde, che si riconducono i due temi succitati della

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filosofia prima e della Lebenswelt. Quest’ultima, corrispondente all’intero mondo spazio-temporale, storicamente diveniente, che precede ogni operazione conoscitiva e alla quale, da ultimo, ogni operazione conoscitiva si riferisce, è infatti il contenuto della doxa, dell’opinione soggettivo-relativa, prescientifica, mentre all’episteme corrisponde esattamente quella che Husserl chiama a più riprese, con espressione tradizionale, “filosofia prima” in quanto scienza assolutamente fondata, caratterizzata da un metodo altrettanto fondato. Relativamente a questa, la quale, visto il senso appena esplicitato della scienza autentica, ha come terreno di indagine ultimo proprio il “mondo della vita”, due sono i caratteri necessari a spiegare la possibilità e il senso delle affermazioni di Husserl sulla storia della filosofia, ovverosia la riduzione alla soggettività trascendentale in quanto fonte di ogni determinazione di senso e la definizione della fenomenologia in quanto “idealismo trascendentale”. E questo perché questi due punti soddisfano, almeno nelle intenzioni di Husserl, i due caratteri necessari perché una scienza possa dirsi autentica: una fondazione assoluta - che è il risultato della riduzione all’Ego trascendentale, e il carattere della stabilità del significato - che viene individuato da Husserl nell’essenza extra-temporale degli eide, in opposizione alla contingente mutabilità degli oggetti spazio-temporali. Approfondendo l’indagine sulla soggettività trascendentale in quanto relazione intenzionale, nella Krisis Husserl arriva ad affermare come risultato dell’epoché fenomenologica non sia semplicemente l’io ridotto, ma la struttura bipolare di io e mondo della vita, intesi in senso trascendentale, vale a dire come strutture di senso. A partire da ciò, essendo contenuto dell’esperienza della Lebenswelt quella che fin dalle Ideen I viene chiamata «doxa originaria» (Urdoxa)34, vale a dire la certezza non problematica dell’esistenza di quel che si sta esperendo di volta in volta, Husserl individua il carattere «razionale» di ogni esperienza. Carattere razionale che significa semplicemente che anche al livello dell’interesse puramente pratico della vita pre-filosofica vengono posti i problemi dell’effettiva esistenza o meno di ciò con cui si ha a che fare, benché ciò non venga tematizzato come problema conoscitivo, ma solo in relazione ai singoli fini pratici, per cui, stando così le cose, la ragione sarebbe un carattere essenziale (intenzionale) dell’esperienza in quanto tale. Conseguenza di ciò sarebbe, quindi, che la storia della filosofia, in quanto storia dei problemi fondamentali della ragione, sarebbe la storia dell’autorivelamento della ragione stessa35. Una storia che tende ad una forma finale proprio in quanto la “forma” stessa (la ragione) è qualcosa di presente fin dall’origine. Da qualsiasi origine possibile. Di conseguenza, se il problema della ragione è il problema della conoscenza, e per Husserl lo è, la storia della ragione, evidentemente, è la storia della filosofia. Ma la storia della filosofia, come visto, è la storia di un’idea teleologica, l’idea della scienza autentica, di quell’unica filosofia di contro alle diverse filosofie al plurale. Un’idea che tende ad una forma finale, ad una realizzazione che, in virtù del suo carattere originariamente razionale, si dà come possibile36. Come possibile, anche se in una realizzazione infinita che è determinata dal carattere finito dell’esperienza, la quale si costituisce essenzialmente secondo uno svolgimento temporale37. È da tutto ciò che emerge come e perché nel discorso fenomenologico l’unica forma di scienza storica possibile (nel senso dell’autenticità della scienza) sia la storia dell’idea della filosofia. Ma non dell’idea di filosofia nel senso delle sue diverse realizzazioni storiche considerate l’una di fianco all’altra come un accumulo, nel senso delle “filosofie al plurale”, bensì nel senso dell’idea (kantiana

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nel senso di Husserl) dell’ “unica filosofia”, quella che esclude costitutivamente il plurale. È, infatti, dall’indagine fenomenologica, ovvero da un’indagine d’essenza, che emerge il carattere teleologico dell’idea della vera filosofia - ovvero da un’indagine non storica, quindi non empirica. Ed è quindi in questo senso che Husserl può parlare di causazione ideale a livello del mondo dei fatti, ed ecco, quindi, il perché di quel valere solo per la storia della filosofia delle affermazioni contenute in Teleologie in der Philosophiegeschichte. Vale a dire nel senso per il quale si può fare scienza solo di idee e non di fatti, per cui l’unica storia che può essere autenticamente (fondatamente) conosciuta è la storia di quell’idea che, a partire da una fondazione originaria, può trovare una forma finale - benché non un contenuto, almeno in senso esaustivo, vista l’infinità costitutiva del compito38. Tra la pretesa epistemica della fenomenologia e la sua contestualizzazione storica emerge, però, un contrasto. Un contrasto che rende problematiche tanto la fenomenologia nella sua pretesa di essere scienza autentica della totalità dell’essente quanto la sua indagine sulla storia della filosofia. Tra le caratteristiche necessarie perché una filosofia possa dirsi autentica nelle Meditazioni cartesiane Husserl indica, tra le altre, quella di essere scienza con cominciamento assoluto, apodittico. Quest’ultimo viene individuato dall’autore nell’epochè trascendentale (che poi nella Crisi delle scienze europee verrà determinata anche come «mondiale – universale»39) - l’atto che ogni filosofo, per essere tale, deve compiere concretamente, quindi in maniera assolutamente privata. Ora, perché il cominciamento sia assoluto, come precisato da Roman Ingarden nelle sue osservazioni alle Meditazioni cartesiane, questo non può presupporre nulla40. Detto altrimenti non può avere alla sua base alcuna motivazione reale. Tradotto in altri termini ancora ciò significa che nessun elemento dell’esistenza pre-filosofica può essere motivo per l’inizio della filosofia (quella filosofia, unica autenticamente scientifica, ottenibile solo attraverso una meditazione personale e quindi privata nel senso della sua posizione), per cui nemmeno la tradizione filosofica. Ma se le cose stanno in questi termini il superamento della frattura originaria tra doxa ed episteme appare insanabile. Se la fenomenologia è effettivamente filosofia in senso autentico, allora non si spiegano i riferimenti alla tradizione filosofica, né l’uso di un linguaggio ad essa precedente, né, tantomeno, l’usare lo stesso nome, da parte dell’autore, per la sua filosofia nel corso degli anni, insieme all’assenza del problema stesso di un cominciamento assoluto fino alle suddette Meditazioni cartesiane. Detto altrimenti, se la Lebenswelt in quanto terreno originario di ogni operazione precede sempre l’operare del filosofo, il quale necessariamente a questo si riferisce, e la scienza autentica, nella sua pretesa assolutezza, non ammette nulla di fianco a sé, né, tantomeno, una causa altra da sé, allora la filosofia (fenomenologia) si trova nella situazione paradossale per cui il suo oggetto d’indagine - il mondo soggettivo-relativo, contenuto della doxa - sarà sempre, alfine, irraggiungibile, ed essa non potrà dirsi vera filosofia. Note 1 E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentalen Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Husserliana VI, a cura di Walter Biemel, Haag, Martinus Nijhoff, 1954; trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di Enzo Paci, il Saggiatore, Milano 1961.

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2 I cui titoli sono, rispettivamente, La crisi delle scienze quale espressione della crisi radicale di vita dell’umanità europea e L’origine del contrasto moderno tra obiettivismo fisicalistico e soggettivismo trascendentale. 3 E.Husserl, Logische Untersuchungen, Niemeyer, Halle 1900-1901; trad. it. Ricerche logiche, a cura di Giovanni Piana, il Saggiatore, Milano 1968. 4 Ivi, pp. 69-219 e pp. 377-494. 5 E.Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, in Logos, I, 1911; trad. it. La filosofia come scienza rigorosa, a cura di Giuseppe Semerari, Laterza, Roma/Bari 1994. 6 E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie: Buch I, Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung Max Niemeyer, Halle 1913; trad. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro I, a cura di Vincenzo Costa, Einaudi, Torino 2002. 7 E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen, in Husserliana II, a cura di Walter Biemel, Martinus Nijhoff, Haag 1973; trad. it., L’idea della fenomenologia. Cinque lezioni, a cura di Carlo Sini, Palumbo, Palermo 1966. 8 Per quanto riguarda i rapporti tra Husserl e Dilthey rimando alle disamine di Ludwig Landgrebe (Phänomenologie und Geschichte, Gütersloh 1968; trad. it. Fenomenologia e storia capp. I e II, a c. di Guglielmo Forni, il Mulino, Bologna 1972), Renato Cristin (Fenomeno storia. Fenomenologia e storicità in Husserl e Dilthey, Guida, Napoli 1999) e Angela Ales Bello (Edmund Husserl e la storia, cap. II, Nuovi Quaderni, Parma 1972). 9 E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, op. cit., pp.10-11. 10 cfr E. Husserl, Erste Philosophie (1923/4). Erste Teil: Kritische Ideengeschichte, in Husserliana VII, a cura di Rudolph Boehm, Martinus Nijhoff, Haag 1956; trad. it. Storia critica delle idee, a cura di Giovanni Piana, Guerini e Associati, Milano 1989, pp. 29-30; Formale and transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernunft, in Husserliana XVII, a cura di Paul Janssen, Martinus Nijhoff, Haag 1974; trad. it. Logica formale e trascendentale, a cura di Enzo Paci, Laterza, Bari 1966, pp. 3-5. 11 E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, op. cit., p.4. 12 E. Husserl, Ricerche logiche, op. cit., p.34. 13 E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, op. cit., p.8. 14 Il testo a cui Husserl si riferisce nell’articolo è contenuto nel volume collettaneo Weltanschauung. Philosophie und Religion in Darstellungen von W. Dilthey, Bernard Gro, ethuysen, Georg Misch u.a., Reichl & Co., Berlin 1911. 15 E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, op. cit., p.71. 16 E. Husserl, Ricerche logiche, op. cit., pp. 86-87. 17 Introdotta da Dilthey nel testo del 1883 Einleitung in die Geisteswissenschaften, in Gesammelte Schriften I, a cura di Karlfried Gründer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2006. 18 E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, op. cit., pp. 77-78. 19 E. Husserl, Teleologie in der Philosophiegeschichte, in Husserliana XXIX, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Ergänzungsband. Texte aus dem Nachlass 1934-1937, a cura di Reinhold N. Smid, Luwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1993; trad. it. La storia della filosofia e la sua finalità, a cura di Nicoletta Ghigi, Città Nuova Editrice, Roma 2004. 20 Ivi, p.59. 21 Ivi, p.60. 22 Ivi, p.78. 23 Ivi, p.101. 24 Nelle pagine dell’opera citata in nota Logica formale e trascendentale Husserl colloca più precisamente la fondazione della filosofia come interesse per il vero conoscere nella fondazione platonica della logica dialettica in quanto incarna, insieme, il puro interesse teoretico e insieme l’istanza del vero metodo (nel caso specifico quello diairetico). 25 E.Husserl, La storia della filosofia e la sua finalità, op. cit., p.69. 26 Nonostante si parli spesso della “svolta cartesiana” di Husserl, ad un’analisi più attenta si vede bene che già fin dalla prima edizione delle Logische Untersuchungen il terreno per il futuro cartesianesimo della fenomenologia era già ben dissodato. Prova ne sono la formazione psicologica e matematica maturata negli anni, l’indagine preliminare sullo

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scetticismo al fine di fondare una dottrina della scienza nel Prolegomena, lo studio e la critica degli empiristi inglesi e la considerazione della conoscenza come “adaequatio rei ac intellectus”. 27 A pagina 113 de La storia della filosofia e la sua finalità Husserl definisce quella che per lui è la forma generale della filosofia fin dalla sua origine in questo modo: «scienza dell’universo dell’essente, come scienza per ogni “essere razionale” che pensa all’interno di quell’episteme pura e che conduce alle espressioni di una conoscenza definitiva del mondo». 28 E.Husserl, La storia della filosofia e la sua finalità, op. cit., p.111 (corsivo mio). 29 Accenno all’introduzione di Ghigi dove vengono sottolineati i due sensi della teleologia in Husserl. 30 R. Descartes, Meditationes de prima philosophia (1641), in Œuvres de Descartes (XI Voll.), a cura di C. Adam e P. Tannery, Vrin-Cnrs, Paris 1964-1976. 31 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro I, op. cit., pp. 3-40 . 32 E.Husserl, La storia della filosofia e la sua finalità, op. cit., p.105. 33 E. Husserl, Cartesianische Meditationen, in Husserliana I, a cura di Stephan Strasser, Martinus Nijhoff, Haag 1950; trad. it. Meditazioni cartesiane, a cura di Filippo Costa, Bompiani, Milano 1960. 34 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro I, op. cit., pp. 261-265. 35 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, op. cit., p. 287. Inoltre, in riferimento a ciò, rimando alle diverse analisi contenute nel già citato Fenomenologia e storia di Landgrebe, a Razionalità storica e fenomenologia husserliana (Milella, Lecce 1984), di Antonio Ponsetto e Tempo e verità nella fenomenologia husserliana (Bompiani, Milano 1961) di Enzo Paci. 36 E.Husserl, La storia della filosofia e la sua finalità, op. cit., p.115. 37 Bisogna tenere ben presente - poichè ciò è fondamentale per tutta la fenomenologia - che un’idea, per Husserl, nella sua realizzazione concreta, ovvero nella sua indagine intenzionale portata avanti sulla cosa stessa, sull’oggetto in carne e ossa, ha il senso di un’idea regolativa kantiana, che egli interpreta nel senso di un indice che regoli, appunto, secondo una progressiva serie di conferme apodittiche, l’indagine della costituzione intenzionale dell’idea in questione. Ciò vale, quindi, per la stessa idea di filosofia, la quale, una volta iniziata a partire da una fondazione apodittica e costruita con metodo apodittico, può essere costruita, benché in una progressiva determinazione infinita, in maniera sistematica (in quanto costruibile di generazione in generazione). cfr. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro I, op. cit., pp. 354-355. 38 Particolarmente significativo, rispetto allo sviluppo della filosofia di Husserl nei suoi ultimi sviluppi - e particolarmente in relazione al nostro tema - è, poi, il noto corso tenuto a Friburgo nel semestre invernale 1923-24, che ha per titolo Erste Philosophie, la cui prima parte si intitola .Storia critica delle Idee ed anticipa buona parte dell’indagine contenuta nella Krisis. Qui, infatti, Husserl precisa come il resoconto della storia della filosofia lì sviluppato non voglia essere un resoconto in senso storico preciso, bensì funzionale al discorso più generale sul senso e sull’esigenza di una filosofia prima e in particolare in senso critico - ovvero l’unico che possa avere una qualche valenza scientifica per la fenomenologia. Altrettanto significativo è, inoltre, come dall’indagine di Blumenberg contenuta in Tempo del mondo e tempo della vita (Lebenszeit und Weltzeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986; trad. it. a cura di Gianni Carchia, il Mulino, Bologna 1996)emerga che sia proprio in questo periodo (egli si riferisce ad un testo del 1924 scritto per la celebrazione dei 200 anni dalla nascita di Immanuel Kant) che Husserl cominci ad indagare il tema della Lebenswelt. 39 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, op. cit., p. 271. 40 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, op. cit., pp. 190-192.

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Contributi

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Francesco Albertini interprete di Enrico di Gand.

L’esse essentiae e l’autonomia ontologica dei possibili.

di Alfredo Gatto L’idea che la teoria cartesiana sulla libera creazione delle verità eterne possa essere interpretata come una reazione agli esiti della riflessione precedente rappresenta ormai una conquista della più recente storiografia. Jean-Luc Marion ha dimostrato in modo magistrale come Descartes, nelle lettere del 1630 indirizzate a Mersenne, abbia presentato i tratti salienti della sua celebre dottrina riferendosi criticamente all’opera di Francisco Suárez1. Se il referente più immediato delle critiche cartesiane è proprio il Doctor Eximius, il milieu culturale che ha informato i suoi studi nel collegio gesuita di La Flèche è tuttavia più ampio e variegato. Descartes, del resto, rivendicando per le verità eterne uno statuto principiato e contingente, non abbandona solo i presupposti all’opera nel pensiero di Suárez, poiché ad essere in questione, e fin nelle fondamenta, è l’intero edificio epistemico eretto dalla tradizione. Sebbene la lettera del testo cartesiano chiami in causa soltanto dei passaggi tratti dalle Disputationes Metaphysicae2, la sua critica può comunque essere estesa ad un contesto ben più ampio, nella fattispecie a tutti quegli autori che hanno rivendicato per le verità eterne un’oggettività intrinseca e positiva, affatto indipendente dall’omnipotentia Dei. A questo proposito, vorremmo dedicarci ad una breve analisi dell’opera di Francesco Albertini3, con l’intento di presentare, nelle sue linee generali, la posizione da lui assunta sull’indipendenza e autonomia delle verità eterne. Con ciò, non vogliamo naturalmente suggerire una relazione di diretta influenza esercitata da Albertini sulla formazione del pensiero cartesiano, bensì aggiungere un piccolo tassello a quel vasto mosaico disegnato dalla Compagnia di Gesù nel XVI e XVII secolo. Francesco Albertini è un autore privilegiato per farsi largo nella temperie culturale del periodo: la sua indagine rappresenta infatti una diretta testimonianza del progressivo rifiuto e abbandono della posizione tomista all’interno dell’ambiente gesuita4, unita ad un interessante recupero, alle soglie della modernità, dell’opera di Enrico di Gand. Nato a Catanzaro nel novembre del 1552, Albertini svolge gran parte della sua attività didattica e di ricerca a Napoli, nel Collegio Massimo della Compagnia di Gesù, durante il dominio dei Vice-Re spagnoli5. Oltre ad essere un attento e rigoroso commentatore dell’opera logica aristotelica6, egli era conosciuto, fra i suoi contemporanei, per un lavoro in due tomi di importanza non secondaria nel contesto culturale del tempo, ossia i Corollaria teologici dedicati al Cardinale Bellarmino e stampati, rispettivamente, il 1606 a Napoli e il 1616 a Lione7. Il nostro obiettivo, in questo articolo, è quello di far emergere l’originalità della solutio presentata da Albertini sullo statuto ontologico da assegnare ai possibili, così da poter poi giudicare la supposta fedeltà interpretativa del gesuita calabrese alla riflessione del magister di Gand. Ci soffermeremo

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perciò soltanto sulle prime tre quaestiones della Disputatio prima de ente essentiae presenti nel secondo volume. Nella prima quaestio8, Albertini si domanda se l’esse essentiale sia figlio dell’intrinseca potenza che inerisce all’essere attuale delle creature, o se dipenda invece dalla potentiam extrinsecam Creatoris9. Prima di esporre la propria personale convinzione, il gesuita presenta due differenti opinioni, entrambe contrarie alla soluzione che verrà fornita nel prosieguo della quaestio. I sostenitori della prima sententia sono convinti che «le essenze delle cose, prima di essere prodotte da Dio, non abbiano alcun essere reale, né dell’essenza, né dell’esistenza», non essendo in possesso di un esse actuale che le appartenga ab aeterno10. Fra i difensori della tesi, Albertini cita Harvaeus Natalis, Paulus Soncinas, Giovanni Capreolo e Francisco Suárez. Accanto a questi autori, il gesuita calabrese fa inoltre riferimento a Duns Scoto, precisando le ragioni a sostegno di tale scelta: il Doctor Subtilis, pur ritenendo che le creature fossero eternamente in possesso di un essere attuale prodotto da Dio «secundum esse intelligibile et diminutum», era ad ogni modo convinto che il loro esse non avesse alcuna attualità al di fuori della relazione di dipendenza con l’intelletto divino11. È quindi lo stesso Scoto a fornire uno dei vari argomenti per corroborare la prima sententia: è necessario rifiutare la legittimità di un supposto «esse reale essentiae ab aeterno» perché tale positum renderebbe impossibile la creazione nel tempo12, privando Dio della possibilità di annichilire la propria stessa creatura13. Accanto al classico richiamo al pericolo di incorrere negli errori di un eresiarca come Wycleff, e rendere così la creatura indipendente dall’essenza divina14, è presente anche un riferimento ad un luogo classico delle Disputationes suáreziane, utile per confermare il quadro d’insieme15. Una volta esposti gli argomenti in accordo con la prima opinione, il gesuita descrive una seconda sententia, attribuita questa volta alla tradizione scotista nel suo insieme. La tesi, nella sostanza, afferma che non si possa conferire alle essenze delle creature un «esse actuale reale» determinato ex se, visto che le condizioni del loro essere intelligibile devono essere ricondotte all’intelletto divino16. Ciò che conferisce alle essenze la loro possibilità, vale a dire l’esse quidditativum rei, non possiede dunque alcuna positività che non trovi in mente Dei la sua origine e fondazione; è allora solo in virtù di questa dipendenza formale che esse possono rivendicare un proprio autonomo statuto ontologico. Una volta esplicitati i plessi a sostegno di tale sententia, Albertini si domanda, prendendo le distanze dall’interpretazione offerta da Suárez, se quella esposta corrisponda all’opinione di Scoto, o se sia invece figlia di una riformulazione sviluppata da alcuni scotisti successivi. Decidendosi per la prima delle due alternative, il gesuita ritorna sulla teoria degli istanti di natura formulata dal Dottor Sottile17 con l’intento di emendarla ed esplicitarla ulteriormente18. Senza entrare nel dettaglio dell’esegesi offerta da Albertini, si può essere tentati di collocare la riflessione del gesuita all’interno dell’ampia schiera degli scotisti del tempo. Tuttavia, è sufficiente un rapido sguardo alla prima conclusio contra primam sententiam per accorgersi di quanto sia profonda la distanza che lo divide dalle convinzioni di Duns Scoto: «Le essenze delle creature non sono assolutamente nulla prima dell’esistenza, e non hanno neppure un essere potenziale nella loro causa, bensì sono in possesso di un essere quidditativo o un’essenza intrinseca attuale e assoluta da tutta l’eternità»19.

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Con una scelta ermeneutica a dir poco ardita, Albertini pone, con dei sottili e abili distinguo, la sua prima conclusione in continuità con le riflessioni di Enrico di Gand, Egidio Romano e Tommaso d’Aquino. Ciò che ci interessa qui porre in luce è l’ambiguità che attraversa sovente l’analisi di Albertini circa il rapporto di filiazione e dipendenza da lui stabilito con Enrico di Gand. Questo aspetto è di particolare interesse poiché consente di mettere storicamente alla prova l’immagine che i contemporanei del gesuita si andavano formando della sua opera, quasi fosse quella di un Henricus Gandavensis redivivus20 intenzionato a recuperare positivamente i tratti fondanti della riflessione enrichiana. Nel Cursus philosophicus di Jean Lalemandet, un testo destinato ad offrire al pubblico un vasto confronto sulle opzioni metafisiche vigenti al tempo, Albertini viene presentato come un autore determinato a rinnovare il pensiero di Enrico [Albertinus renovans opinionem Henrici], convinto che «le essenze delle creature avessero dall’eternità un essere dell’essenza intrinseco, attuale, assoluto, quidditativo»21. Lo stretto rapporto che univa il gesuita calabrese ad Enrico sarà nuovamente sottolineato da Juan Caramuel y Lobkowitz nel suo Leptotatos. Il vescovo cistercense, chiedendosi se le creature siano in possesso di un esse quidditativum dall’eternità, dedica infatti un intero articolo alla posizione di Albertini, analizzandone nel dettaglio le convinzioni22. È interessante notare come l’immagine che gli autori coevi ad Albertini si erano formati della sua relazione col magister di Gand fosse più lineare di quella che effettivamente emerge nei Corollaria. Quando analizza alcune delle opinioni a sostegno della sua prima conclusio, Albertini assume talvolta un atteggiamento ambivalente nei confronti di Enrico: se le considerazioni gandiane sul rapporto che le creature e le chimere intrattengono col nulla23, sulla proportio eterna che sussiste fra l’essere della pietra e l’intelletto divino24 o sulla convertibilità fra l’ente e il possibile sono soggette ad un’analisi critica, è vero tuttavia che la sua indagine si chiude – non prima di aver intrapreso un serrato confronto con Scoto sulle condizioni di possibilità dell’ente – proprio rivendicando, in contrapposizione a Suárez, un legame privilegiato con il Doctor Solemnis. Seguendo l’insegnamento di Enrico, Albertini ritiene che una proposizione come «Homo est animal rationale» possieda una verità eterna: l’uomo può perciò considerarsi un animale razionale «secundum esse actuale essentiae ab aeterno», e non certo in virtù di un esse potentiale in attesa di essere attualizzato da una potenza estrinseca25. Tale enunciato è quindi «una proposizione di verità eterna, poiché l’essenza dell’uomo possiede dall’eternità un essere attuale intrinseco quidditativo assoluto»26. La frase con cui si conclude la prima conclusio non sembra rispettare appieno le linee guida del pensiero di Enrico. Sebbene Albertini termini la prima della sua quaestiones instaurando un solido legame di continuità fra le proprie considerazioni e quelle attribuite al magister di Gand, uno scarto separa, tuttavia, le due formulazioni. D’altra parte, l’idea che l’essenza delle creature, possedendo un esse quidditativum intrinseco, sia assolutamente indipendente dall’essentia Dei, è una persuasione irriducibile alla speculazione gandiana. In effetti, prima che gli esponenti più radicali della Seconda Scolastica27 escludessero ogni vincolo di subordinazione fra l’intelletto divino e gli exemplata del nostro mondo, Enrico di Gand aveva comunque considerato la natura di tali modelli eterni in rapporto alla causalità formale di Dio28. Il Doctor Solemnis affrontò questo argomento analizzando la relazione che la scienza divina intrattiene con i propri oggetti29. Ora, se il suo oggetto primario «non est nisi ipsa divina essentia»30, l’oggetto secondario, che concerne le modalità mimetiche con cui l’essentia Dei si consegna alle creature, può essere

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ulteriormente suddiviso31: mentre nel primo momento l’essenza della creatura non è altro che la stessa sostanza divina, nel secondo è invece considerata in un suo specifico modo d’essere, l’esse essentiae. Il problema principale riguarda qui lo statuto ontologico da attribuire all’essere dell’essenza: l’esse essentiae è ciò che è indipendentemente dal positivo riferimento ad una causa esterna, o rinvia a Dio come condizione della propria possibilità? Nonostante una certa ambiguità che attraversa sovente la riflessione di Enrico, e che ha generato, come ha messo bene in luce Jacob Schmutz32, alcuni equivoci sull’interpretazione da attribuire ad alcuni passaggi del suo corpus, è possibile rispondere al seguente interrogativo prendendo partito per la seconda delle alternative disponibili. Sebbene l’essenza sia ciò che è secundum se, ossia in virtù della sua natura33, non si sarebbe però venuta determinando absolute come essenza, quindi come soggetto e termine della creazione34, se non alla luce della dipendenza formale che la lega a Dio. L’esse essentiae nomina allora quella possibilità che, non essendosi ancora consegnata all’effettività del mondo creato, non è tuttavia un puro nihil, dotata com’è di un esse definito e immutabile, direttamente connesso all’eterna esemplarità dell’intelletto divino. L’esse dell’essentia è dunque ciò che è in virtù del rapporto di eterna partecipazione che intrattiene con Dio35. Del resto, è solo grazie alla causalità formale che Dio esercita nei confronti del proprio oggetto secondario che il mondo si costituisce nella sua concreta possibilità, dischiudendo all’intelligenza delle creature gli strumenti epistemici per ripercorrere a ritroso le rationes ideali che hanno guidato il Creator mundi. La creatio divina, però, non si esaurisce nel rapporto di subordinazione che lega l’esse essentiae all’intellectus divino: se Dio si rapporta all’essere dell’essenza come causa formale, è solamente in qualità di causa efficiente che decide quali delle essenze ratificate verranno condotte all’esistenza36. L’esse existentiae è così figlio di una voluntas che, nella sua sovrana libertà, impone al mondo una relazione inedita fra il Creatore e le Sue creature. Questo nuovo rapporto rivela la duplice dipendenza che l’essenza creaturale si trova a patire dinanzi a Dio: mentre l’esse essentia ha nella partecipazione all’intelletto divino la propria causa formale, l’esse existentiae si riscopre al contrario temporalmente determinata, sempre sospesa alla causalità efficiente di Dio37. Fra la contingenza dell’esse existentiae e l’eterna stabilità che caratterizza l’esse essentiae esiste uno divario epistemico irriducibile38, giustamente sottolineato da Pasquale Porro:

Se riguardo all’esistenza fisica tutte le essenze sono ugualmente indifferenti rispetto alla potenza del Creatore (tanto che Dio può porre in atto una res prima di un’altra a suo completo piacimento senza mediazione alcuna), nel loro essere proprio le essenze sono disposte secondo un ordine strettamente gerarchico su cui Dio stesso non può intervenire39.

Alla fragilità creaturale di un mondo mai universalmente assicurato, si affianca così una regione ideale che non è soggetta ad alcuna modifica, essendo già stabilita nella sua intrinseca possibilità. La sproporzione esistente tra i due differenti domini, necessaria per salvaguardare la sovranità della potentia divina, non incrina, ad ogni modo, il quadro d’insieme tracciato a più riprese dallo stesso Enrico: l’eternità e l’apparente autonomia ontologica delle essenze, infatti, non sono mai astrattamente separate dall’intelletto di Dio, inteso quale fons possibilitatis del loro stesso essere. L’esse quidditativum dei possibili, quindi, non partecipa dell’eternità divina alla luce di una

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denominazione estrinseca, ma in virtù di un legame indissolubile e necessario. Il dominio delle essenze è perciò fondato su una originaria relazione di partecipazione e dipendenza «ad formam divini exemplaris»40. La posizione di Enrico riconduce le ragioni ideali che hanno accompagnato la creatio mondana ad un nesso di eterna dipendenza che ha luogo nell’intellectus dell’Onnipotente. Ora, se sono queste le linee guide della riflessione del magister di Gand, la posizione di Albertini non può certamente essere considerata, vista la sua maggiore radicalità, una semplice ripetizione dei testi enrichiani. Per confermare questa interpretazione, possiamo soffermarci sulla secunda conclusio contra secundam sententiam, in cui il gesuita calabrese conferma le indicazioni espresse al termine dell’indagine precedente. Il contenuto di questa seconda conclusione, pensata in contrapposizione ai presupposti della disamina scotista, afferma che l’essere dell’essenza, ossia quell’essere quidditativo, assoluto e intrinseco che appartiene alla creatura prima dell’esistenza, sia ciò che è «a parte rei extra intellectum divinum»41. A differenza di Scoto e degli scotisti, convinti che l’esse quidditativum, pur appartenendo all’essenza della creatura prima della sua esistenza, fosse ad ogni modo riconducibile, nella sua intrinseca positività, all’intelletto divino, Albertini ritiene invece che le essenze creaturali non siano subordinate a Dio. Per il gesuita, infatti, esse possiedono già da sempre, e in virtù della loro stessa natura, un essere absolutum sganciato dall’apprensione intellettuale di Dio. D’altra parte, se quest’essere essenziale non appartenesse alle creature ab aeterno e absolute, come si potrebbe distinguere un oggetto producibile, ad esempio una pietra, dalla chimera che, essendo definita da predicati contraddittori, non può certo essere prodotta «secundum esse quidditativum intelligibile a divino intellectu»? Poiché l’impossibilità in questione non può essere ricondotta ad un difetto della causa, che si suppone qui infinita, è necessario riconoscere che la pietra possiede un «esse quidditativum positivum intrinsecum» che esiste dall’eternità in modo indipendente dall’intelletto divino42. La pietra è possibile in virtù di una rationem intrinsecam che le appartiene essenzialmente: Albertini è perciò convinto che la possibilità non appartenga alle creature alla luce di un criterio meramente negativo fondato sulla semplice non contraddizione, come avveniva nella tradizione scotista43, e non sia neppure figlio di una dipendenza fondata sull’esemplarità divina, al pari della solutio tomista; al contrario, per il gesuita i possibili possiedono un loro proprio spessore ontologico ex se, in virtù di una positività affatto estranea ad ogni dipendenza, sia essa efficiente o formale. La radix possibilitatis della creatura non è allora figlia dell’efficienza di una potenza attiva, bensì di una ratio formalis che le appartiene intrinsecamente; allo stesso modo, la ragione dell’impossibilitatis della chimera non dipende da un’impotenza presente nella natura divina, ma dal semplice fatto che essa «non habet capacitatem in se»44. Albertini pone così le condizioni per descrivere i margini di un’essenza che, lungi dal presupporre un esse quidditativum legato all’azione dell’intelletto di Dio, sia superiore alla semplice possibilità logica giustificata dalla non contraddittorietà. In tal modo, il gesuita elimina alla radice qualunque rapporto causativo fra la potentia Dei e il contenuto quidditativo dell’esse essentiae: ad essere qui rifiutata, dunque, non è soltanto la causalità efficiente di Dio, bensì la Sua stessa funzione esemplare45. Le essenze possiedono ora da se stesse, ossia indipendentemente da qualsivoglia subordinazione, la condizione ultima della loro possibilità. Il contenuto della prima quaestio appena esposta è lontana dal restituire fedelmente i presupposti della teoresi enrichiana. Il Doctor Solemnis, infatti, non era mai giunto alla radicalità delle posizioni

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difese da Albertini. Per confermare tale giudizio, è sufficiente soffermarsi sull’interpretazione dell’opera di Enrico fornita da Gabriel Vázquez46. Il gesuita spagnolo riassume il fulcro della riflessione enrichiana utilizzando il pensiero del maestro di Gand in contrapposizione a Duns Scoto. Richiamandosi ad un plesso argomentativo già sviluppato nella disputatio CIV della prima parte del suo commento a Tommaso47, Vázquez sostiene che «le essenze delle cose non sono eterne perché in atto, bensì poiché non implicano contraddizione da tutta l’eternità48». Il gesuita ritiene inoltre che tale possibilità o assenza di contraddizione sia necessaria indipendentemente dal concorso dell’intelletto e della volontà di Dio. Le essenze delle cose non sono quindi possibili perché conosciute ab aeterno dall’intellectus divino, ma possono essere conosciute, e magari divenire l’oggetto di una volontà determinata, proprio perché già determinate ex se nella loro effettiva possibilità. Una volta fornito il quadro generale della propria posizione, Vázquez ricorda la polemica fra Scoto ed Enrico, precisando le ragioni che hanno spinto il Doctor Subtilis ad ingaggiare una polemica con il magister di Gand:

Duns Scoto non ha criticato Enrico, come pensano alcuni, perché questi ha detto che le essenze sono da tutta l’eternità qualche cosa di esteriore prima dell’atto della volontà e dell’intelletto divini – un’ipotesi che mai Enrico ha osato immaginare – , ma perché Enrico ha sostenuto che l’essere possibile delle creature, che egli chiama passivo assolutamente, e non relativamente, è anteriore a qualunque atto dell’intelletto e della volontà di Dio49.

La precisazione del gesuita spagnolo è di particolare interesse, perché pone sotto la dovuta luce la distanza che separa Enrico dalla successive interpretazioni cui è andato incontro il suo stesso pensiero. Se restiamo dunque fedeli all’esegesi offerta da Gabriel Vázquez, possiamo trovare confermati i nostri rilievi sull’accelerazione ermeneutica compiuta da Albertini nei confronti del suo più celebre predecessore. La fedeltà del gesuita calabrese, almeno nella prima quaestio analizzata, è quindi meno lineare di quanto le dichiarazioni presenti nei Corollaria vorrebbero suggerire. L’analisi di Albertini sullo statuto ontologico dei possibili, tuttavia, non può considerarsi conclusa. In una quaestio subito successiva50, l’autore torna ad occuparsene, chiedendosi questa volta se l’essere quidditativo della creatura dipenda da Dio quale causa esemplare51. La prima sententia della prima conclusio sembra rispettare appieno i presupposti adottati in precedenza. All’apparenza, non sembra esservi alcun rapporto di subordinazione fra l’esse reale dell’essenza e la causalità divina: del resto, per quale ragione Dio, inteso come exemplar, dovrebbe essere imitabile da una pietra e non da una chimera? Se tale stato di cose non può certo derivare da un difetto della causa esemplare, che si suppone «infinite imitabilis», dipenderà allora dall’impossibilità intrinseca che attiene alla chimera. Ciò che vale per la chimera, varrà quindi all’inverso anche per la pietra: poiché la chimera non può partecipare all’essenza divina per delle ragioni che dipendono solo dalla sua natura, la pietra sarà dotata invece di una simile opportunità non a causa di un qualche legame formale con l’intellectus di Dio, ma in virtù di una ratio intrinseca e positiva che le appartiene ex se, indipendentemente da qualunque nesso di partecipazione all’esemplare divino52. L’esse essentiae della

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creatura, pertanto, non dipende in alcun modo da Dio, considerato sia come causa formale che come causa efficiente53. A dispetto di questa seconda sententia, esiste ad ogni modo una differente modalità di affrontare la medesima questione che sembra più aderente al vero. È possibile infatti, di contro all’analisi appena svolta, considerare la causa esemplare come la stessa essenza divina pensata «ut imitabilis a creaturis»54. Forte di questa premessa, per il gesuita diviene in questo caso legittimo interpretare l’esemplarità divina come la causa formale dell’essenza delle creature55. Con questa prima conclusio, Albertini viene però meno alle considerazioni svolte nella prima quaestio. D’altra parte, se l’esse essentiae delle creature dipende ora, almeno formalmente, dalla relazione con una causa ad esso esterna, l’indipendenza assoluta delle essenze, difesa ed argomentata in precedenza, è destinata ad essere radicalmente ridimensionata. La funzione esemplare della causalità divina costituisce così una premessa passibile di stravolgere i presupposti dispiegati nella prima quaestio: l’esse quidditativum delle essenze non può più essere considerato assoluto ed intrinseco, eterno e positivo, se non alla luce di una relazione necessaria che trova nell’esemplarità divina la condizione ultima della sua possibilità. È proprio riformulando le premesse precedenti che Albertini ritrova allora una completa consonanza e fedeltà alla riflessione di Enrico di Gand. Un simile risultato, però, è possibile solo rimediando alla radicalità sottesa alle sue prime formulazioni. Il contenuto della seconda conclusio rispetta appieno questa inversione di rotta: le essenze delle cose, precisa subito il gesuita calabrese, oltre ad essere già da sempre in relazione a Dio considerato nella Sua finalità esemplare, «dependent aliquo modo a Deo tanquam a causa efficienti», poiché se Dio non fosse valutato anche per ciò che riguarda la Sua funzione efficiente, l’esistenza delle creature si troverebbe priva di giustificazione56. In questo particolare frangente, Albertini riporta fedelmente le linee guida del pensiero enrichiano. Il magister di Gand aveva già distinto, senza dare adito a dubbi di sorta, lo spessore ontologico che divideva l’essere dell’essenza dall’essere dell’esistenza: se l’esse del primo presuppone dall’eternità un legame di dipendenza formale con l’intellezione divina, il secondo è invece consegnato, nella sua assoluta contingenza, alla volontà e alla potenza di Dio. Il quadro d’insieme non muta neppure nella quaestio successiva. Albertini, infatti, rispondendo ad una possibile obiezione, si limita a ribadire la dipendenza formale che le essenze delle creature devono patire dinanzi a Dio. Il nucleo portante della terza questione è la natura della potentia obiectiva. Contro chi ritiene che l’esse essentiae sia affatto nulla prima della creazione, finendo così per attribuire alla potenza oggettiva una mera denominazione estrinseca, il gesuita, inscrivendosi ancora nel solco tracciato da Enrico di Gand, sostiene invece che l’essere «in potentia obiectiva dicere ab aeterno obiectum possibile per denominationem intrinsecam ab ipsa potentia positiva et reali, quae est ab aeterno in creatura et fundatur in esse actuali et reali creaturae ab aeterno»57. La positività che spetta a tale potentia, ad ogni modo, non è indipendente da Dio, e non sarebbe certo alcunché di positivo, come suggerisce Albertini rimandando all’analisi svolta nella quaestio precedente, se non fosse già pensata in relazione alla Sua eterna essentia. Le creature, del resto, dipendono da Dio assolutamente, sia per ciò che concerne il loro esse essenziale, sia per ciò che riguarda l’effettività della loro esistenza concreta: nel primo caso, Dio sarà considerato come causa esemplare, mentre nel secondo, più semplicemente, come ratio efficiente58. La terza quaestio conferma dunque ciò che era già emerso nella seconda questione: l’essere quidditativo dei possibili resta fondato, in ultima istanza, su una

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relazione di dipendenza esemplare all’essentia Dei. L’intrinseca positività dell’esse essentiae può allora rivendicare l’oggettività che le spetta grazie al legame stabilito ab aeterno con l’intellezione divina. Le considerazioni appena svolte sembrano suggerire, se non una contraddizione presente nelle quaestiones dei Corollaria appena esaminate, perlomeno una dinamica che abita dall’interno la riflessione di Albertini. Nonostante il rapporto con Enrico di Gand rappresenti l’elemento costante della sua analisi, l’utilizzo che il gesuita calabrese compie dell’opera del Doctor Solemnis è comunque più complesso di quanto non possa apparire ad un primo sguardo. La sua riflessione, infatti, spazia dalla ripetizione precisa e ordinata delle tesi del teologo fiammingo fino ad un’opera di interpretazione che travalica la sua indagine, radicalizzandola ulteriormente. Non sappiamo se sia stata la fedeltà dimostrata a più riprese alla lettera di Enrico a spingere Albertini a rimediare alle considerazioni inizialmente espresse sull’autonomia delle essenze, o se sia stata invece la preoccupazione per l’eccessiva radicalità di una dottrina da lui stesso considerata, expressis verbis, come meramente probabile59, a spingerlo a ricollocare l’esse delle creature in un rapporto di diretta dipendenza con l’esemplarismo delle idee divine. Un dato rimane, tuttavia, acquisito: l’attenzione e l’importanza che Albertini ha conquistato presso i contemporanei sono la conseguenza diretta delle opinioni che ha nutrito sull’assoluta autonomia e indipendenza dell’ordo possibilitatis; sono state proprio quest’ultime, del resto, ad essere considerate il frutto più genuino, e forse più pericoloso, del suo pensiero. Note 1 Cfr. J.-L. Marion, Sur la théologie blanche de Descartes, Puf, Paris 1981. Cfr. inoltre T. J. Cronin, Objective Being in Descartes and Suárez, Gregorian University Press, Roma 1966 e L. Alanen, Descartes, Duns Scotus and Ockham on Omnipotence and Possibility, Franciscan Studies, 45 (1985), pp. 157-188. 2 Cfr. Descartes a Mersenne, 6 mai 1630, in R. Descartes, Œuvres de Descartes (XI Voll.), par C. Adam e P. Tannery, Vrin-Cnrs, Paris 1964-1976, Vol. I, pp. 149-150. 3 Sull’opera di Albertini, cfr. J. Schmutz, La querelle des possibles. Recherches philosophiques et textuelles sur la métaphysique jésuite espagnole, 1540-1767 (III Voll.), Thèse de Doctorat en régime de cotutelle, Paris-Bruxelles 2003, in part. Vol. I (L’histoire d’une problème), pp. 261-287 e Vol. II (Les auteurs et les textes), pp. 589-620. Cfr. inoltre P. Di Vona, Studi sulla Scolastica della Controriforma. L’esistenza e la sua distinzione metafisica dall’essenza, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 93-109 e I. Agostini, L’infinità di Dio. Il dibattito da Suárez a Caterus (1597-1641), Editori Riuniti, Roma 2008, passim. 4 Questa considerazione è valida almeno per quanto concerne la dipendenza formale ed esemplare che le verità eterne pativano dinanzi all’intellezione divina nella riflessione del Doctor Angelicus. A questo proposito, cfr. ad esempio S. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 10, a. 3, Editio Leonina, cura et studio fratrum praedicatorum, Roma 1888, pp. 97-98; Sum. Theol., I, q. 16, a. 7, cit., pp. 214-215; Summa contra Gentiles, I, 51-52, Editio Leonina 1918, p. 148. 5 Per un’introduzione al contesto storico del periodo, cfr. G. Galasso, Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVIII), Einaudi, Torino 1994. Sul Collegio Massimo dei Gesuiti, cfr. invece M. Errichetti, L’antico Collegio Massimo dei Gesuiti a Napoli (1552-1806), Campania Sacra, 7 (1976), pp. 170-264. 6 Cfr. Francesco Albertini, Explicatio I et II Posteriorum analyticorum, Venezia 1606. Per maggiori informazioni sull’itinerario biografico e bibliografico del gesuita calabrese, cfr. R. Gatto, Tra scienza e immaginazione. Le matematiche presso il collegio gesuitico napoletano (1552-1670 ca.), La Nuova Italia, Firenze 1994, in part. pp. 280-284. 7 Francesco Albertini, Corollarium seu quaestionum theologicarum tomus primus continens corollaria deducta ex principiis philosophicis complexis praecipue in primam et tertiam partem Sancti Thomae, Napoli 1606; Id., Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, etc., ex principiis philosophicis incomplexis, seu praedicamentis substantiae, quantitatis, ubi et ad

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aliquid, iuxta irrefragabilem doctrinam philosophicam et theologicam S. Thomas de Aquino Doctoris Angelici, Tomus Secundus, Lione 1616. I nostri riferimenti testuali a queste opere saranno tratti dall’edizione lionese del 1629. 8 «Utrum essentia creaturae ab aeterno, ante existentiam sit secundum esse essentiae aliquod positivum reale actuale», in Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, cit., disp. I, q. 1, pp. 1-10 e. 9 «Punctus difficultatis est an hoc esse reale habeant creaturae per potentiam extrinsecam Creatoris, quatenus sunt in ipso tanquam in causa; an per potentiam intrinsecam in ipsis creaturis, ita ut esse essentiale creaturarum ab aeterno non tantum sit potentiale in causa, sed etiam actuale in se, in quo fundetur respectus passibilitatis sive ad potentiam activam Creatoris, si res est creabilis, sive etiam ad potentiam naturalem, si res est generabilis», Ibid., n. 1, p. 2 a. 10 «Essentias rerum antequam producantur a Deo nullum habere esse reale actuale nec essentiae, nec existentiae, sed esse omnino nihil quantum ad esse actuale in se ipsis. Concedunt tamen habere esse potentiale in causa», Ibid., n. 3, p. 2 c. 11 «Est ex parte etiam Scoti in I, distinct. 35 et 36, quaest. unica, qui quamvis teneat creaturam habere ab aeterno esse actuale productum a Deo secundum esse intelligibile et diminutum, ut videbimus in secunda opinione, tenet tamen locis citatis cum hac prima opinione creaturam nihil esse reale actuale a parte rei extra intellectum divinum», Ibid., n. 3, p. 2 c – d. 12 «Contra ista arguitur: Primo, quia creatio est productio de nihilo, sed si lapis ab aeterno praehabuit verum esse reale, ergo quando producitur ab efliciente, non producitur de nihilo simpliciter», Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 36, q. un., n. 13, in Opera Omnia (Vol. VI), Ordinatio. Liber Primus. Distinctiones 26-48, a c. di P. Augustini Sépinski, Civitas Vaticana, Typis polyglottis vaticanis, Roma 1963, p. 276. 13 «Quinto (secundum idem medium, de creatione), quia productio rei secundum istud esse essentiae verissime et creatio (ipsa enim est mere de nihilo ut termino a quo, et ad verum ens ut ad terminum ad quem); et productio ista secundum eos est aeterna; ergo creatio est aeterna, – cuius oppositum nititur ostendere et dicit se habere demonstrationes. Sexto (secundum eandem viam, per oppositum de annihilatione), sequitur quod non possit aliquid annihilari: sicut enim producitur de ente secundum essentiam, ita videtur redire in ens secundum essentiam, – non in nihil», Ibid., n. 17-18, pp. 277-278. Questi argomenti erano presentati in polemica con l’eccessivo essenzialismo che Scoto attribuiva ai presupposti della riflessione gandiana; per un raffronto più ampio fra i due autori, cfr. S. P. Marrone, Henry of Ghent and Duns Scotus on the Knowledge of Being, Speculum, Vol. 63, n. 1 (1988), pp. 22-57. 14 «Sexto, Vuldensis l. I doctr. fid. Antiq. cap. 8 ponit inter errores Vuiclef, dicere creaturas ab aeterno habere aliquod esse reale distinctum ab esse Dei. Et confirmatur, quia vel hoc esse habet a Deo, vel non: si non, ergo est independenset consequenter Deus; si sic, ergo datur creatio ab aeterno», Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, cit., disp. I, q. 1, n. 3, p. 2 b. 15 «Nec potuit in mentem alicuius doctoris catholici venire, quod essentia creaturae ex se, et absque efficientia libera Dei, sit aliqua vera res, aliquod verum esse reale habens distinctum ab esse Dei, quod tandem fatetur expresse Capreolus (...) Et ratione probatur ex principiis fidei, quia solus Deus est ens ex se necessarium, et sine illo factum est nihil, et sine effectione eius nihil est, aut aliquod esse reale in se habet (...) Est autem de fide certum, Deum non fecisse essentias creatas ab aeterno, quia neque ex necessitate (ut argumentabamur contra opinionem Scoto attributam), cum de fide sit, Deum nihil agere necessario simpliciter; neque ex libera voluntate; sic enim de fide est in tempore coepisse operari. Et praeterea est evidens, si essent factae a Deo essentiae rerum ab aeterno, etiam ex tunc fuisse existentes, quia omnis effectio ad existentiam terminatur, ut infra ostendam. Et confirmatur, quia alias non posset Deus rem aliquam in nihilum redigere, quia semper maneret aliquid rei, scilicet, essentia. Et similiter non creasset Deus omnia ex nihilo, sed ex uno esse transmutasset illa ad aliud esse.», Franciscus Suárez, Disputationes Metaphysicae, disp. XXXI, s. 2, n. 3, in Opera Omnia, Editio nova, XXVIII Voll., par C. Berton, Ludovico Vivès, Parigi 1856-1878, Vol. XXVI (1861), p. 230. 16 «Secunda sententia est Scotistarum, Lycheti et Tatareti, et aliorum qui in I distinct. 35, 36 et 43, quaestione unica, consentiunt cum prima opinione, non dari a parte rei essentias rerum secundum esse actuale reale, sed addunt creaturas produci per actum intellectus divini secundum quoddam esse intelligibile absolutum intrinsecum ipsis

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creaturis», Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, cit., disp. I, q. 1, n. 4, p. 2 e. 17 «Deus in primo istanti intelligit essentiam suam sub ratione mere absoluta;in secundo istanti producit lapidem in esse intelligibili et intelligit lapidem, ita quod ibi est relatio in lapide intellecto ad intellectionem divinam, sed nulla adhuc in intellectione divina ad lapidem, sed intellectio divina terminat relationem ‘lapidis ut intellecti’ ad ipsam; in tertio instanti, forte, intellectus divinus potest comparare suam intellectionem ad quodcumque intelligibile ad quod nos possumus comparare, et tunc comparando se ad lapidemintellectum, potest causare in se relationem rationis; et in quarto instanti potest quasi reflecti super istm relationem causatam in tertio instanti, et tunc illa relatio rationis erit cognita. Sic ergo non est relatio rationis necessaria ad intelligendm lapidem – tamquam prior lapide – ut obiectum, immo ipsa ‘ut causata’ est posterior (in tertio instanti), et adhuc posterior erit ipsa ‘ut cognita’, quia in quarto instanti», Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 35, q. un., n. 32, cit., p. 258 18 Cfr. Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, cit., disp. I, q. 1, n. 8, p. 3 a – d. 19 «Essentiae creaturarum non sunt omnino nihil ante existentiam, neque habent esse solum potentiale in causa, sed ab aeterno habent esse intrinsecum actuale absolutum quidditativum seu essentiae», Ibid., n. 12, p. 4 e – a. 20 L’espressione è di J. Schmutz, La querelle des possibles. Recherches philosophiques et textuelles sur la métaphysique jésuite espagnole, 1540-1767, (Vol. I), cit., p. 265. 21 «Albertinus renovans opinionem Henrici in summa art. 2 quaest. 25: tenet essentias creaturarum habere esse intrinsecum, actuale, absolutum, quidditativum, seu essentiae ab aeterno», Ioannis Lalemandet, Cursus philosophicus. Complectens, lateque discutiens controversias omnes a Logicis, Physicis, Metaphysicique agitari solitas, praesertim quae Thomisticae, Scoticae, et Nominalium Scholis sudorem cient, disp. VII, pars. I [De essentia rerum], Lione 1656, p. 703. 22 Ioannis Caramuel, Leptotatos latine subtilissimus, dissert. II, c. 1, a. 5, Vigevano 1681, pp. 148-152. 23 «Prima ratio Henrici: si creatura, inquit, est nihil, tunc unum nihil esset magis nihil quam aliud nihil; sed hoc est absurdum, ergo creatura non est nihil, sed habet suum esse actuale essentiae. Probat sequelam Maioris, quia creaturae non repugnat existere, at Chimaerae repugnat existere. Sed haec ratio non convincit, quia potest dici, quod creatura non est purum nihil, sicut est Chimaera, quia creatura secundum Adversarios, quamvis non habeat esse reale potentiale in causa, quod non habet Chimaera, et ideo nihil creaturae non est comparandum cum nihilo Chimaerae. Cum autem sit comparatio inter duo pure nihila, seu inter duas Chimaeras, tunc verum est, quod unum nihil non est magis nihil, quam aliud», Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, cit., disp. I, q. 1, n. 14, p. 5 a – b. 24 «Tertia ratio eiusdem Henrici: obiecti, inquit, ad potentiam, est proportio aliqua, sed lapis ab aeterno fuit obiectum intellectus divini, ergo ab aeterno habuit proportionem ad intellectum divinum, ergo ab aeterno habuit esse actuale. Patet, quia proportio est passio entis, non ens enim non potest proportionari. Sed neque haec ratio convincit. Posset enim responderi ab Adversariis, sufficere ad huiusmodi proportionem, si obiectum cognoscatur ut est, et ita ens rationis habet proportionem in intellectu, si cognoscatur ut est obiectivum in intellectu, creatura igitur potest habere proportionem in intellectu, si cognoscatur secundum esse quod habet a parte rei, scilicet esse potentiale in causa», Ibid., n. 16, p. 5 c – d. 25 «Super hac autem ratione fundamentali quae est a priori, fundatur alia sexta ratio a posteriori, quae colligitur ex Henrico, loco cit. Haec propositio, inquit (homo est animal rationale), est propositio aeternae veritatis, ergo homo non secundum esse potentiale, sed secundum esse actuale essentiae ab aeterno est animal rationale, non enim in propositione dicitur (homo potest esse animal), sed (est animal)», Ibid., n. 22, p. 6 e. 26 «Homo est animal rationale est propositio aeternae veritatis, quia essentia hominis habet ab aeterno esse actuale intrinsecum quidditativum absolutum», Ibid., n. 27, p. 7 c. 27 Utilizziamo questa espressione, consapevoli delle difficoltà e ambiguità che può talora generare, nel senso attribuitole da Carlo Giacon. Cfr. C. Giacon, La seconda scolastica (III Voll.): I grandi commentatori di san Tommaso: il Gaetano, il Ferrarese, il Vitoria (Vol. I), Fratelli Bocca Editore, Milano 1944; Precedenze teoretiche ai problemi etico-giuridici.

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Toledo, Pereira, Fonseca, Molina, Suárez (Vol. II), Fratelli Bocca Editore, Milano 1947; I problemi giuridico-politici. Suárez, Bellarmino, Mariana (Vol. III), Fratelli Bocca Editore, Milano 1950. 28 Cfr. P. Porro, Possibilità ed esse essentiae in Enrico di Gand, in W. Vanhamel (ed.), Henry of Ghent, Leuven University Press, Leuven 1996, pp. 211-253; Id., Ponere statum. Idee divine, perfezioni creaturali e ordine del mondo in Enrico di Gand, in Mediaevalia, 3 (1993), pp. 109-159; Id., Possibile ex se, necessarium ab alio: Tommaso d'Aquino e Enrico di Gand, Medioevo, 18 (1992), pp. 231-273. Per uno sguardo generale sull’analisi dell’esse essentiae svolto da Enrico, in particolare alla luce del suo contesto storico, cfr. inoltre L. M. de Rijk, Un tournant important dans l’usage du mot Idea chez Henri de Gand, in Idea. VI Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo: Roma, 5-7 gennaio 1989 (a c. di N. Fattori e L. Bianchi), Edizioni dell’Ateneo, Roma 1991, pp. 89-98; Id., Quaestio de Ideis. Some Notes on an Important Chapter of Platonism, in Kephalaion. Studies in Greek Philosophy and its Continuation (ed. J. Mansfeld and L. M. de Rijk), Assen 1975, pp. 204-213. 29 Cfr. Henricus de Gandavo, Quodlibet IX, q. 2, in Opera Omnia (Vol. XIII), ed. R. Macken, Leuven University Press – E. J. Brill, Leiden 1983, pp. 30 «Obiectum primarium non est nisi obiectum informans ad actum intelligendi, et non est nisi ipsa divina essentia, quae per se intelligitur a Deo, et nihil aliud ab ipso», Ibid., p. 27 (37-43). 31 «Sed aliud a se, ut biectum secundarium suae cognitionis, potest cognoscere dupliciter: uno modo cognoscendo de creatura id quod ipsa est in Deo, alio modo cognoscendo de ipsa id quod ipsa habet esse in se ipsa, aliud a Deo, quamvis non habeat esse extra eius notitiam», Ibid., p. 27 (45-48). 32 Cfr. J. Schmutz, Les paradoxes metaphysiques d’Henri de Gand durant la seconde scolastique, Medioevo, 24 (1998), pp. 89-149. 33 «Est autem id quod est essentia in unaquaque re communiter loquendo id quod ei convenit ratione naturae suae secundum se (…) Est autem ista participatio divini esse in essentia, esse essentiae, in quantum essentia illa exemplatum est divini esse secundum rationem causae formalis, quia per ipsum esse essentiae ut per actum sibi proprium essentialem habet id quod res est ex ratione sui generis, quod sit ens et natura et essentia proprie dicta, non solum figmentum», Henricus de Gandavo, Quodlibet X, q. 8, in Opera Omnia (Vol. XIV), ed. R. Macken, Leuven University Press – E. J. Brill, Leiden 1981, pp. 201-202. 34 «Et ideo, sicut idem re est subiectum creationis et terminus, sic idem re est ipsum subiectum creationis et acquisiotum per ipsam, ut esse existentiae, qualemcumque differentiam habeant ambo ad creationem passivam», Henricus de Gandavo, Quodlibet X, q. 7, in Opera Omnia (Vol. XIV), cit., p. 193 (29-32). 35 «Primum esse habet essentia creaturae essentialiter, sed tamen participative, in quantum habet formale exemplar in Deo (...) Potest dici de essentia creaturae quod ipsa est suum esse participatum formaliter, licet non effective, sicut de Deo dicitur quod est ipsum esse simpliciter et absolute, non participatum neque formaliter neque effective», Henricus de Gandavo, Quodlibet I, q. 9, in Opera Omnia (Vol. V), ed. R. Macken, Leuven University Press – E. J. Brill, Leiden 1979, pp. 53-55. Cfr. Henricus de Gandavo, Quodlibet VIII, q. 9, in Quodlibeta magistri Henrici Goethals a Gandavo doctoris solemnis, vaenumdantur ab iodoco Badio Ascensio, sub gratia et privilegio ad finem explicandi, II Voll., Parigi 1518 (rist. anast. Bibliothéque S. J., Louvain 1961), foll. 319 vk – 320 rk. 36 «In quantum enim ipsa se ipsa absque omni absoluto addito est similitudo divinae essentiae secundum rationem causae formalis, convenit ei esse essentiae, in quantum autem ipsa in se ipsa absque omni absoluto addito est effectus divinae essentiae, vel immediate, vel mediante agente naturali secundum rationem causae efficientis, convenit ei esse existentiae», Henricus de Gandavo, Quodlibet X, q. 7, in Opera Omnia (Vol. XIV), cit., p. 151 (51-56). 37 Cfr. Henricus de Gandavo, Quodlibet I, q. 9, in Opera Omnia (Vol. V), cit., p. 54 (76-78). 38 Francesco Albertini era ben consapevole della distinzione fra esse essentiae ed esse existentiae, fondamentale per preservare la causalità efficiente di Dio nei confronti del mondo creaturale. Anche per lui, infatti, al pari di Enrico, la creazione concerne soltanto l’essere dell’esistenza. Rispondendo agli argomenti contrari alla sua prima sententia, il gesuita ripercorre dunque in modo fedele i tratti fondanti della riflessione enrichiana, richiamandosi direttamente all’autorità del magister di Gand: «Ad primum respondere cum Henrico, sufficere ad creationem, ut creatura sit facta ex puro nihilo in genere existentialium, non autem in genere essentialium, id est, secundum existentiam, non secundum

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essentiam, nec essentia proprie dicenda est potentia subiectiva seu receptiva existentiae, cum non praesupponatur existens, sed potius habet rationem obiecti realis, quod exit in actum existendi per ipsam existentiam. Ad secundum respondetur eodem modo, ad annihilationem, scilicet, sufficere si corrumpatur totum esse existentiae. Ad tertium respondetur concedendo essentiam esse ens formaliter necessarium, sed differre a necessario Dei, tumquia illud est necessario existens, tumquia omnino independens. Creatura vero secundum esse existentiae ab aeterno nihil est, et est contingens. Secundum vero esse essentiae est dependens saltem in genere causae exemplaris a Deo, ut dicemus in sequenti quaestione. Ad quartum respondetur, quod si antecedens intelligatur de esse essentiae, verum est quod ibi dicitur, essentiam, scilicet, secundum esse essentiae non esse a Deo efficienter, et negatur consequentia, nec talis essentia est Deus, quia dependet secundum esse existentiae a Deo tanquam ab efficienti, et secundum esse essentiae dependet a Deo tanquam a causa exemplari, nec est nihil, quia secundum esse essentiae est ens actuale ab aeterno, ut probatum est. Ad quintum respondetur negando, quod posset creatura gloriari quasi haberet esse a se, quia, ut dictum est, adhuc dependet a Deo secundum esse essentiae in genere causae exemplaris, et secundum esse existentiae dependet in genere causae efficientis», Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, cit., disp. I, q. 1, n. 39-41, p. 9 e – b. 39 P. Porro, Possibilità ed esse essentiae in Enrico di Gand, cit., p. 248. 40 «Et superm illam rationem rei prima ratio quae fundatur, est ratio entis sive esse quidditativi, quae convenit ei ex respectu ad formam divini exemplaris, a quo accipitur ratio rei dictae a ratitudine, quae eodem est cum ratione entis quidditativi. Ex eo enim est ratum quid, quo est quidditativum quid, et converso», Henricus de Gandavo, Summa, a. 34, q. 2, in Summa. Quaesiones ordinariae: art. XXXI-XXXIV, in Opera Omnia (Vol. XXVII), ed. R. Macken, Leuven University Press – E. J. Brill, Leiden 1991, p. 174. 41 «Hoc esse essentiae, seu quidditativum absolutum intrinsecum, quod, ut probatum est, habet creatura ante existentiam, est a parte rei extra intellectum divinum, contra Scotum et Scotistas relatos in secunda sententia, qui quidem, ut vidimus supra, admittunt hoc esse quidditativum absolutum et intrinsecum in creatura ante existentiam, negant tamen hoc esse essentiae dari a parte rei extra intellectum divinum, sed dicunt esse in ipso intellectu divino, quatenus intellectus divinus cognoscens essentiam divinam tanquam exemplar creaturarum, producat illas in esse quidditativo absoluto et intelligibili, in quo fundatur ratio producibilitatis ad extra secundum existentiam», Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, cit., disp. I, q. 1, n. 28, p. 7 d – e. 42 «Argumentor itaque septimo contra Scotum eo modo, quo ipse argumentabatur (ut vidimus in prima conclusione) contra Henricum, qui dicebat creaturas ab aeterno ante existentiam actualem esse omnino nihil: quaero enim a Scoto, cur chimaerae repugnat produci secundum esse quidditativum, et intelligibile a divino intellectu cognoscente se ut exemplar, et non repugnat lapidi? Non potest dici hoc provenire ex defectu causae, quia supponitur infinita, ergo dicendum est, quod aliquid esse quidditativum positivum intrinsecum est in lapide, propter quod non repugnat produci, quod non est in Chimaera. Hoc igitur intrinsecum absolutum necessario est ab aeterno extra intellectum divinum, cum non producatur ab intellectu divino in esse quidditativo et intelligibili, ut probatum est», Ibid., n. 36, p. 8 a – b. 43 Cfr., ad esempio, il seguente passo dell’Ordinatio di Scoto: «Homini in aeternitate inest “non esse aliquid” et chimaerae “non esse aliquid”; sed homini non repugnat affirmatio quae est “esse aliquid”, sed tantum inest negatio propter negationem causae non ponentis, – chimaerae autem repugnat, quia nulla causa posset in ea causare “esse aliquid”. Et quare homini non repugnat et chimaerae repugnat, est, quia hoc est hoc et illud illud, et hoc quocumque intellectu concipiente, quia – sicut dictum est – quidquid repugnat alicui formaliter ex se, repugnat ei, et quod non repugnat formaliter ex se, non repugnat», Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 36, q. un., n. 60, cit., p. 296. 44 «Bene igitur per regulam posterioristicam assignatam infertur, quod prima ratio, et radix possibilitatis in creatura, non est potentia activa efficientis, sed ratio formalis intrinseca ipsius creaturae, sicut, ut dictum est, ratio impossibilitatis in Chimaera, non oritur ex impotentia Dei, sed quia Chimaera non habet capacitatem in se», Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, cit., disp. I, q. 1, n. 20, p. 6 c – d.

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45 «Dices, saltem prima ratio possibilitatis in creatura, etsi reduci non possit ad Deum tanquam causam efficientem, reducetur tamen ad ipsum tanquam causam exemplarem, quia cum haec causa exemplaris sit causa formalis extrinseca, est prior omni effectu possibili. Sed contra quia adhuc potest militare idem argumentum factum, nam quaero quare lapis est exemplabilis et non Chimaera? Non potest dici oriri ex defectu causae exemplaris, quia est infinita simpliciter, ergo prima radix impossibilitatis oritur ex Chimaera, etc. Quomodo autem creaturae pendeant in genere causae exemplaris, videbimus in sequenti dubitatione», Ibid., p. 6 d. 46 A questo proposito, cfr. J. Schmutz, Le miroir de l'univers. Gabriel Vázquez et les commentateurs jésuites, in J.-C. Bardout – O. Boulnois (éd.), Sur la science divine, Puf, Paris 2002, pp. 382-411; cfr. inoltre N. J. Wells, John Poinsot on Created Eternal Truths vs. Vasquez, Suárez and Descartes, American Catholic Philosophical Quarterly, Vol. 68, n. 3 (1994), pp. 425-446. 47 «Res non sunt possibiles, quia cognoscuntur, sed ideo cognoscuntur, quia sunt possibiles: hoc est, ideo cognoscuntur posse esset, et nullam implicare contradictionem, quia re vera possunt esse. Quemadmodum etiam 1.2. questione 71, articulo 6 dicemus, aliqua peccata non ideo esse mala, quia cognoscuntur esse mala, aut quia prohibita sunt etiam a Deo, sed potius contra: intellectus enim speculativus non facit, sed supponit ens, et obiectum, quod cognoscit. Quare si alias Deus esset, etiam si non cognosceret, per locum tamen (ut aiunt) intrinsecum, creaturae essent possibiles, hoc est, ex se ipsis non implicaret contradictionem, talis, aut talis naturae esse, possent que in tempore produci, si alio modo, quam cognitione, et voluntate Deus esset omnipotens. Prius igitur est, nostro modo intelligendi, rem esset possibilem, hoc est, ex se non implicare contradictionem, quam intelligi ab intellectu divino». Gabriel Vázquez, Commentarium ac disputationum in primam partem S. Thomae, Tomus Primus, Alcalà 1598, disp. CIV, c. 3, n. 9-10, p. 1025. 48 «Dicuntur essentiae rerum aeternum, non quia actu sint, sed quia ab aeterno non implicant contradictionem», Gabriel Vázquez, Commentarium ac disputationum in tertiam partem S. Thomae, Tomus Primus, Ingolstadt 1610, disp. LXXII, c. 2, n. 8, p. 732. 49 «Neque vero Scotus impugnat Enricum, ut Recensiores quidam autumant, quod dixerit , essentias esse aliquid extra Deum ab aeterno ante actum divinae voluntatis, et intellectus, i denim numquam Henricus somniavit, sed quia dixerit esse possibile creaturarum, quod ipse vocat passivum absolute, non relate, esse antem omnem actum intellectus, et voluntatis divinae», Ibid., n. 9, p. 732. 50 «Utrum creatura dependeat a DEo quoad esse quidditativum tanquam a causa exemplari», in Francesco Albertini, Corollaria, seu quaestiones theologicae de Trinitate, Incarnatione Verbi et de Eucharistia, cit., disp. I, q. 2, pp. 10 e – 12 a. 51 «Vidimus in superiori quaestione creaturam habere esse essentiae ut essentiae actuale reale ab aeterno independenter a Deo, tanquam a causa efficienti; nunc videndum est, an creatura quoad esse essentiae dependeat saltem a Deo tanquam a causa exemplari», Ibid., n. 1, p. 10 e – 11 a. 52 «Et videtur quod non. Militat enim eadem ratio in causa exemplari, et efficienti; nam quaero, quare Deus, ut exemplar, est imitabilis, seu participabilis a lapide, et non a Chimaera. Non potest dici hoc provenire ex defectu causae exemplaris divinae, quia supponitur infinite imitabilis. Oritur igitur impossibilitas intrinsece ex Chimaera, ergo possibilitas in lapide etiam orietur ex ratione positiva intrinseca ipsi lapidi, quam vocamus rationem realem actualem essentiae. Probatur paritas de Chimaera, et lapide, quia sicut negatio in Chimaera, quae negatio est impossibilitas intrinseca, est causa negationis, id est, repugnantiae, ita affirmatio in lapide, erit causa affirmationis», Ibid., n. 1, p. 11 a – b. 53 «Et iuxta hanc primam sententiam tenentur authores huius sententiae dicere, quod si creatura secundum esse essentiae non dependet a Deo in genere causae efficientis, nec dependeret a Deo in genere causae exemplaris», Ibid., n. 3, p. 11 b – c. 54 «Secunda et verior sententia est, quod in Deo causa exemplaris est ipsamet essentia divina, ut imitabilis a creaturis, conceptus vero obiectivus rei faciendae potius se habet ut idea, quam ut causa exemplaris, sicut in artifice creato, conceptus obiectivus imaginis faciendae est idea. Caesar vero, ad cuius imitationem sit imago, est ratio prototypa, et exemplaris. In Deo igitur, causa exemplaris est sua essentia, ut analogice, et inadaequate imitabilis a creatura», Ibid., n. 4, p. 11 c.

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55 «Posita igitur hac secunda sententia tanquam veriori, sit prima conclusio: Creatura quoad esse essentiae dependet a Deo tanquam a causa exemplari in genere causae formalis extrinsecae. Est Capreoli loco citato, et idem videtur dicere S. Thom. I. p. q. 55, ar. 3, dum dicit, essentiam divinam magis imitari, seu participari ab angelo superiori, quam ab inferiori. Probatur: sicut imago Caesaris dependet a Caesare in genere causae formalis, et prototypae seu exemplaris, ita ut, si non posset esse Caesar, non posset esse imago, quae repraesentat ipsum, non autem e converso, ita philosophandum est in creaturis, quod secundum suum esse essentiale sunt imagines ipsius Dei», Ibid., n. 6, p. 11 e – a. 56 «Secunda conclusio: Essentiae rerum secundum esse quidditativum dependent aliquo modo a Deo, tanquam a causa efficienti, quia si Deus non esset causa efficiens, repugnaret existentia creaturae, ergo repugnaret etiam in essentia ordo essentialis ad ipsam existentiam, et consequenter repugnaret realitas ipsius essentiae. Est tamen advertendum quod adhuc est differentia inter dependentiam essentiae creaturae a Deo ut causa exemplari, et inter dependentiam ab eodem, ut causa efficienti: nam quamvis si non esset Deus, ut causa efficiens, repugnaret esse essentiae creaturae, haec tamen repugnantia non esset formalis intrinseca, ita ut immediate repugnaret ex principiis intrinsecis, seu ex incompossibilitate terminorum, sicut repugnat Chimaera; at vero si repugnaret esse rationem prototypam, seu exemplarem Caesaris, repugnaret ipsum esse imaginis Caesaris ex principiis intrinsecis, et ex incompossibilitate terminorum, esse enim taliter repraesentativum, esset tunc quid chimaericum; ita etiam dicendum de essentiis rerum, si Deus non esset causa exemplaris», Ibid., n. 7, p. 11 b – c. 57 Ibid., disp. I, q. 3, n. 2, p. 12 b – c. 58 «Obiiciunt igitur primo. Vel haec potentia est producta, vel improducta; non secundum, quia tantum competit creatori; non primum, quia vel ab aeterno, et ex necessitate, et hoc repugnat articulis de aeternitate et libertate ; vel libere, et in tempore, ergo antequam produceretur non erat haec potentia obiectiva, non ergo fuit ab aeterno secundum esse reale positivum, et intrinsecum. Respondetur, haec potentia neque est producta, neque improducta; sed abstrahit, ut notavit Franc. de Mayr. ab esse producto et improducto, quae abstractio intelligenda est non per indifferentiam, sed per negationem utriusque extremi; esse enim productum vel improductum dicit esse existentiae. Quod si adhuc instes, erit igitur haec potentia ab aeterno omnino independens, sicut Deus. Respondetur negando consequentiam, quia essentia creaturae dependet a Deo in genere causae formalis exemplaris, ut probatum est in secunda quaestione, et praeterea Deus est independens etiam quoad existentiam. Creatura autem dependet a Deo quoad existentiam, tanquam ab efficiente», Ibid., n. 4, p. d – a. 59 È importante infatti sottolineare come questa puntualizzazione, posta fra parentesi, sia immediatamente successiva alla prima conclusio: «[Nota quod tam in hac conclusione, quam in sequenti solum intendimus cum Capreolo mox infra citando, has conclusiones esse probabiles, non tamen negamus opinionem oppositam, quae tenet essentias rerum nullum habere esse actuale ab aeterno, sed tantum potentiale in causa, non esse satis probabilem]», Francesco Albertini, Ibid., disp. I, q. 1, n. 12, p. 4 a.

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Il presente di un’idea antica: il clown. Riflessioni e ricerche sul

clowning nei contesti formativi

di Daniele Zucca 1. Origine dei clown e benefici della risata; 2. Aspetti psicologici e differenze nel clown; 3. Il clowning nei contesti educativi; 4. Conclusioni.

1. Origine dei clown e benefici della risata

Definire la nascita del clown, da un punto di vista storico, rappresenta un operazione complessa vista la poliedricità e il mistero che circonda questo particolare personaggio nel quale convergono e si mescolano forme artistiche e significati psicologici differenti. La maggior parte degli autori ritiene che le origini del clown vadano ricercate primariamente nel circo. Tale prospettiva ci porta indietro nel tempo alle corti faraoniche dell’antico Egitto dove ritroviamo le prime figure di giocolieri e trapezisti1. La loro presenza è confermata in Grecia dove, durante le Dionisie, diversi artisti si sfidavano in competizioni che attraverso la satira miravano a far ridere i partecipanti2. Durante l’impero romano il circo antico raggiunse il suo apice, confermato dalla presenza di arene, circhi e anfiteatri, nei quali artisti di ogni genere si esibivano durante i Ludi e intrattenevano gli spettatori attraverso le più svariate attività3. Questi antichi precursori degli attuali clown, oltre a stupire gli spettatori attraverso le loro performance fisiche di alto livello, descrivevano in maniera satirica le storie di eroi e dei che erano rappresentati di volta in volta da trapezisti, funamboli, mangiafuoco, ed altre figure già presenti nel circo antico4. Tra i diversi periodi storici, il medioevo, con la presenza dei buffoni di corte e dei giullari nelle piazze, rappresenta il primo richiamo alla figura del clown moderno. Questi personaggi, considerati spesso come i “disagiati” di quel periodo, venivano chiamati dai signori dell’epoca al fine di allietare banchetti e serate mondane, e attraverso la satira esercitavano la possibilità di ridere e far ridere gli invitati dei loro signori. Pur ritenuto uno stupido, il giullare di corte è colui che sfruttando questa sua condizione riesce a farsi portavoce di idee rivoluzionarie attraverso gesti irriverenti, tranquillizzando il pubblico ed esprimendo nel contempo la sua forza e aggressività5. Ma il vero momento in cui il giullare assume il ruolo riconosciuto di personaggio divertente si ha solo nel Cinquecento grazie alle commedie popolari e nel Seicento con la nascita della commedia dell’arte. Proprio con la commedia nascono le maschere di Arlecchino, Balanzone, Pantalone, Colombina, che rappresentano tratti e caratteristiche psicologiche nel quale il popolo si può rispecchiare in un modo divertente, teso a esorcizzare paure e preoccupazioni6. Tuttavia la versione moderna del circo nasce solo nel XVIII secolo, a Londra, ad opera dell’ex sottufficiale di cavalleria Philip Astley. All’inizio il suo circo era caratterizzato da numeri equestri ad alto rischio; successivamente, con l’adesione di artisti di vario genere, decise di introdurre tra un

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numero e l’altro personaggi particolari che, con vestiti colorati, facce dipinte e strane camminate, facessero ridere il pubblico: nasce così la figura del clown moderno. Per molti la figura del clown è associata al ridere e alla comicità. Attraverso le loro gags i clowns amplificano la realtà quotidiana trascinando gli spettatori che li osservano in un mondo creativo che li distoglie temporaneamente dalle loro preoccupazioni, alimentano in loro il buon umore ed eliminano, per il tempo dello spettacolo, emozioni negative e stress che tutti viviamo nella quotidianità7. Se è vero che la funzione del ridere è tipicamente umana (Berger 1999), il comico e la risata sono stati temi di osservazione e riflessione da parte di varie discipline che ne hanno evidenziato aspetti e caratteristiche diverse. Agli inizi del ‘900 Bergson8 nella sua opera, Le rire. Essai sur la signification du comique, tra le diverse caratteristiche che attribuisce alla comicità, evidenzia la funzione sociale del ridere descrivendo come questa avvenga nei diversi gruppi e in diversi luoghi, e rappresenti uno strumento per rinforzare e rinsaldare le relazioni sociali. Le diverse considerazioni fatte da Bergson, indicano come ridere, rappresenti uno strumento utile ad allentare tutte quelle forme di rigidità mentale che le regole e la vita sociale ci impongono di vivere. Dunque l’atto di ridere rappresenta la possibilità di riuscire a migliorare e sottolineare, in modo indiretto, tutte le forme ossessive che l’uomo vive nel contesto quotidiano. Nell’ambito delle ricerche psicologiche, i primi studi che approfondiscono il tema della risata in termini di benessere psico-fisico partono dall’esperienza del ricercatore Norman Counsin9, che attraverso una sua personale cura, basata sull’assunzione quotidiana di 25 grammi di vitamina C al giorno e la visione di vecchie candid camera e di film comici, riuscì a sconfiggere la spondilite anchilosante, per la quale i medici gli avevano dato pochi mesi di vita. Attualmente la scienza che si occupa di studiare gli effetti benefici della risata e delle emozioni positive come agenti del benessere psico-fisico è la gelotologia. Questa si basa sugli studi e le ricerche condotte nell’ambito di una nuova branca della scienza medica chiamata Psiconeuroimmunologia10, indicata con la sigla PNEI, nella quale convergono i contributi di diverse discipline quali: psicologia, psichiatria, endocrinologia, biologia ecc. Alcune delle prime ricerche condotte in quest’ambito11 dimostrano come la presenza di agenti stressanti quotidiani producono l’abbassamento dell’immunoglobina A, utile nella prevenzione delle infezioni delle vie respiratorie, e come questa cala in percentuale più bassa nei soggetti che presentano un alto senso dello humor. Sempre in questo ambito i dati di un altra ricerca12, mostrano come i soggetti che hanno riso dopo la visione di film comici mostrano livelli più alti di immunoglobina A. Un’altra ricerca13 ha dimostrato come lo humor abbassa i livelli di cortisolo generando alcune specifiche cellule immunitarie (chiamate natural killer), che proteggono l’organismo attaccando cellule e virus cancerogeni. Secondo Fry14 ridere produce la stimolazione ed il rilassamento di diversi apparati del nostro corpo e agisce come fattore preventivo rispetto al rischio di infarto. Da queste ed altre ricerche è emerso come ridere rappresenta un’attività tipica degli esseri umani, che migliora lo stato psico-fisico aiutandolo a prevenire alcune malattie e mitigando lo stress15. Un’altra caratteristica interessante legata alla risata è che essa non ha un limite di età ma coinvolge tutti; infatti come sostiene Farnè: «Saper ridere è salutare: è una forma di prevenzione che evita di mantenere

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l’organismo in un prolungato e nocivo stato d’ansia in quanto ridere è veramente importante per tutti ed in qualsiasi momento della vita»16.

2. Aspetti psicologici e differenze nel clown

Per quanto sembrano spesso tutti uguali i clown si dividono in due tipi: il clown bianco ed il clown rosso, detto anche Augusto o Tony. Il bianco è quello più intelligente e furbo, indossa abiti eleganti ed un cappello, utilizza un trucco bianco, palesa grandi abilità tecniche, di solito suona uno strumento, spesso è arrogante e per alcuni versi potremmo dire che è il clown superiore. Il rosso (detto anche Augusto o Tony) è quello più goffo, timido e talvolta impacciato, veste abiti multicolorati, non sembra dotato di abilità e capacità particolari, ma è quello che, utilizzando il suo intuito ed esprimendo con semplicità le sue emozioni, riesce a trovare sempre una soluzione comica che produce ilarità nel pubblico: «attraverso il loro naso rosso - simbolo di regressione verso il mondo creativo - e tramite oggetti che diventano parte integrante del loro personaggio, vivono modalità di approccio e vita molto differenti. Entrambi sono l’uno il continuo dell’altro»17. Questi due personaggi manifestano realtà emotive, relazionali, comunicative e corporee diverse e complementari. In termini psicologici, è possibile sostenere che riportano stili cognitivi differenti che conferiscono ad entrambi un modo personale ed opposto di vedere e rappresentarsi il mondo che li circonda. Proprio per queste loro caratteristiche, il rosso e il bianco offrono l’opportunità a coloro che li guardano attentamente di rivedere parti di sé che rappresentano la totalità degli aspetti psicologici ed i vissuti esistenziali presenti in ogni individuo18. La loro stupidità nell’inscenare aspetti e scene della vita reale «diventa terapeutica nel momento in cui permette delle identificazioni e proiezioni allo spettatore» 19. Dunque la figura del clown permette di indagare in profondità molteplici dimensioni psicologiche presenti in ogni individuo che affiorano nello scontro, continuo ed esasperato, tra il bianco ed il rosso facendo emergere20 «atteggiamenti diversi e modalità relazionali ed emotive che tutti viviamo e che spesso ci rendono, per la paura di affrontarle e riconoscerle come parte di noi, schiavi dei nostri sé più nascosti». Da un punto di vista psicologico il clown ci permette di analizzare, secondo diverse prospettive teoriche e con chiavi di lettura differenti, i molteplici aspetti dell’individuo. Tra i vari autori che si sono occupati di questo argomento Freud21 (1905), nella sua opera Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten, è stato il primo “scienziato della psiche” ad interessarsi al fenomeno del comico collegato al piacere e alla sua teoria del moto di spirito. Per l’autore il riso ha una funzione importante in quanto permette di scaricare l’energia in eccesso e la nostra aggressività repressa. Inoltre possiamo rilevare nel modello da lui proposto che in ogni uomo esiste all’interno della sua mente un piano di scontro tra il principio del piacere e il principio di realtà. Proprio il principio di piacere si esplicita attraverso tutte quelle azioni che rompono gli schemi e le regole. In questa prospettiva, dunque, il principio di piacere evoca e porta alla luce la nostra parte infantile, che nel modello clown è rappresentato dal rosso mentre il bianco incarna il principio di realtà tipico della persona adulta. Partendo da una prospettiva evolutiva è facile vedere come il rosso rappresenta, nelle modalità relazionali e nella sua forma di pensiero egocentrico, il bambino o l’adolescente che nella ricerca e

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costruzione della sua identità si scontra con l’adulto (il bianco). Per spiegare meglio i diversi significati interni alla figura del clown possiamo ipotizzare, secondo la visione dell’analisi transazionale proposta da Berne22, come l’Augusto rappresenta la parte “B”, quella del bambino, mentre il bianco la parte “G” ossia quella dell’adulto23. Tali parti, presenti insieme in ogni individuo, emergono in modo diverso a seconda dei processi personali e fanno sì che ci poniamo in contatto con l’altro più con una parte di bambino che non di genitore e viceversa. Guardando i clown sotto un’ottica che utilizza il modello Gestalt di Pearls24 possiamo vedere come il clown bianco potrebbe rappresentare la figura, intesa come quella parte di noi razionale che riesce a comprendere e portare a consapevolezza un aspetto della realtà, mentre il rosso rappresenta lo sfondo, ossia quell’insieme di emozioni e vissuti con i quali facciamo difficoltà ad entrare in contatto perché imbarazzanti e difficili da accettare25. Come possiamo osservare le implicazioni psicologiche del clown sono tante e diverse se guardate alla luce dei diversi approcci teorici ai quali si può accostare. Il “potere” benefico esercitato dai clown tramite il comico e la risata mostra come questo possa interagire ed essere utilizzato oggi in molti altri contesti e con differenti obiettivi.

3. Il clowning nei contesti educativi: un nuova “idea” per lo sviluppo psicologico nel ciclo di vita

In questi ultimi anni il clown è riapparso nella scena sociale è viene utilizzato attraverso quella che molti conoscono con il nome di “clownterapia” o “terapia del sorriso”26 (Fioravanti, Spina 1999; Catarsi, 2008). Gli studi svolti negli ultimi dieci anni in quest’ambito si sono concentrati sullo studio degli effetti positivi sull’organismo prodotti da interventi promossi dai clowns all’interno dei reparti ospedalieri27. Oltre allo studio del clown nell’ambito sanitario, un recente filone di ricerca rivolge la propria attenzione alle implicazioni psicologiche e agli effetti positivi che il clowning può sviluppare nei contesti educativi e formativi28. In particolare alcune ricerche preliminari hanno evidenziato come l’utilizzo del clown sembra essere un approccio utile per sviluppare nei partecipanti alcune dimensioni psicologiche fondamentali legate all’immagine di sé, incrementando lo sviluppo della creatività e la capacità di comprendere meglio lo stato emotivo degli altri29. Un’altra indagine esplorativa, svolta recentemente con insegnanti della scuola dell’infanzia, ha messo in luce gli effetti positivi che il clowning sembra produrre nella sfera emotiva e relazionale. Pur utilizzando un campione poco rappresentativo, costituito da appena 8 soggetti nel gruppo sperimentale e di controllo, i risultati della ricerca30 mettono in luce come dopo il training formativo diminuiscono significativamente nei partecipanti i punteggi delle scale relative sia a Timidezza-Imbarazzo (p= .027) sia a Vergogna per disconferma dell’aspettativa di approvazione e ammirazione (p= .039). Questa esperienza mostra come il clowning abbia migliorato nei partecipanti la possibilità di superare la vergogna e di farsi influenzare dal giudizio degli altri sviluppando maggiore autostima e capacità di regolare le proprie emozioni. In questa prospettiva si va delineando sempre di più un’ “idea” nuova di clowning psico-educativo31 che permette di incrementare in studenti e docenti, attraverso differenti percorsi che utilizzano varie tecniche del clowning, diverse abilità e competenze.

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Nell’ambito di questa nuova prospettiva alcune recenti ricerche hanno voluto indagare come, partendo dall’utilizzo del metodo EDEL32, il clowning aiuti lo sviluppo di alcune dimensioni psicologiche utili per il benessere degli individui. I risultati evidenziano come i docenti, partecipanti al training, oltre che cambiare la loro idea rispetto all’utilizzo e alla validità del clown nella scuola, riconoscano come il percorso svolto sia uno strumento utile per promuovere la conoscenza delle emozioni e lo sviluppo relazionale. Un ulteriore studio sperimentale condotto con studenti universitari33, svolto con il metodo EDEL, mostra come l’esperienza del clowning abbia aumentato in loro l’autoefficacia nella gestione delle emozioni negative e le loro credenze di efficacia nella possibilità di essere più empatici.

4. Conclusioni

Gli studi e le riflessioni sull’utilizzo di training formativi per verificare l’efficacia del clowning nei contesti scolastici e formativi sono relativamente recenti e mostrano come quest’ambito di ricerca sia nuovo e ancora da esplorare. In questo senso è importante specificare come la ricerca di un metodo e un modello rappresenta uno degli obiettivi da ricercare e da approfondire. In generale è possibile dire che il clown rappresenta la possibilità di confrontarsi con le proprie paure e ambiguità, proponendo un’immagine positiva e un’accettazione di sé, e stimolando allo stesso tempo un lavoro di gruppo rivolto alla scoperta delle proprie caratteristiche e competenze, teso a migliorare nei partecipanti dimensioni legate alla sfera emotivo-relazionale e alla propria immagine corporea. La possibilità di portare nell’ambito scolastico ed educativo il clown come figura “creatrice” di conoscenza e competenze esprime un contrasto critico con una visione scolastica che riflette oggi una prospettiva legata principalmente al contenuto rispetto al processo di conoscenza. In questa visione il clown esprime, oggi come nel passato, un luogo di riflessione verso l’importanza della diversità in termini di arricchimento personale ed in termini di apprendimento una fonte per lo sviluppo psicologico di dimensioni come l’autostima, l’autoefficacia, le competenze emotive, le abilità comunicative, fondamentali nel processo di sviluppo di ogni individuo. Note 1 A. Serena, K.H. Ziethen, Luci della giocoleria: il virtuosismo tra circo, varietà, strada e teatro contemporaneo. Stampa Alternativa, Viterbo, 2002. 2 N. Pafundi, I clown. Papfo, Milano 1999. 3 B. Madaudo, V. Padiglione. Gente del circo. Armando, Roma 1986. 4 P.S. Inglott, Circus Aesthetics. In M. Camilleri and T. Vella (eds), Celebratio Amicitiae. Fondazzjoni Patrimonju Malti, Malta 2006. 5 M. Grotjahn, Saper ridere. Psicologia dell’umorismo. Longanesi, Milano 1981. 6 N. Pafundi, op.cit. 7 D. Zucca, Clowning in the classroom. A new approach to healthy psychological development. University Press of Malta, Malta 2011. 8 Henri Bergson, Le rire. Essai sur la signification du comique, Éditions Alcan, Paris 1900; tr. it.: Il riso. Saggio sul significato del comico, a cura di F. Stella, Rizzoli, Milano 1961.

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Giornale Critico di Storia delle Idee – 8/2012

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