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G. Cerino Badone, 7 Settembre 1706. La Battaglia di Torino, in "Le Aquile e i Gigli", a cura di G. Cerino Badone, Torino 2007, pp. 259-323

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The battle of Turin, 7 september 1706. A new account of a struggle too often over dramatized by italian military historians, focusing their attention to the little role in the fight of the duke of Savoy Victor Amadeus II.

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Giovanni Cerino Badone (a cura di) LE AQUILE E I GIGLI Una storia mai scritta L’idea iniziale di questo libro era di scrivere una storia sul vissuto dei combattenti e dei civili

nel Piemonte del 1706. Si voleva raccontare le loro sensazioni, esperienze, aneddoti di quell’anno di

guerra. Man mano che i quattro autori, Giovanni Cerino Badone, Gian Carlo Boeri, Francesca

Campagnolo ed Eugenio Garoglio, proseguivano le loro ricerche, si sono resi conto che la

documentazione originale dell’epoca, sia manoscritta che a stampa, contrasta fortemente con

l’immagine e la narrazione che solitamente si ha dell’assedio e della battaglia. La storiografia

ottocentesca ha creato un magnifico affresco che di reale ha ben poco. Molti dei luoghi comuni e

dei fatti dati ormai per certi o storicamente provati si sono rivelati, nella migliore delle ipotesi,

inesatti. Utilizzando fonti storiche provenienti dagli archivi di Torino, Roma, Parigi e Londra, molte

delle quali inedite e per la prima volta pubblicate in Italia, ed un notevole apparato cartografico ed

iconografico, si è cercato di ricostruire gli avvenimenti il più fedelmente possibile tenendo conto

anche del pensiero strategico del periodo, dei sistemi d’arma e, soprattutto, di chi fosse il soldato

del XVIII secolo e quale il suo addestramento e il suo morale.

Le Aquile e i Gigli permette di camminare con i soldati, evocare i loro pensieri, ascoltare i

rumori della marcia, dei bivacchi e della battaglia. Consente di entrare direttamente a contatto con i

grandi personaggi che combatterono in Piemonte nel 1706, il Principe Eugenio, Vittorio Amedeo II,

il duca di Orléans, il La Feuillade, dialogare direttamente con loro e comprendere sin nel profondo

il perché delle loro scelte e come gli eventi si svolsero, non da una posizione privilegiata e

distaccata ma direttamente sul campo. Le nove grandi carte allegate al testo sono in assoluto le

migliori che siano state edite sull’assedio e la loro consultazione può permettere di avere una

visuale chiara e precisa delle operazioni svoltesi sotto le mura di Torino. Le prime cinque cartine

sono tratte dal testo del SOLARO DE LA MARGARITA Journal Historique du Siége de la Ville et

de la Cittadelle de Turin en 1706, avec le rapport officiel des opérations de l’artillerie, Turin 1838.

Altre tre provengono invece dall’opera di G. MENGIN Relation du Siége de Turin en 1706, Paris

1832. La cartina della battaglia è invece frutto delle ricerche degli autori di questo volume. Per la

prima volta vengono collocati i reparti alleati e, soprattutto, francesi, indicando il nome del

reggimento e il numero del battaglione e dello squadrone impegnati.

Le Aquile e i Gigli è un libro destinato a suscitare dibattito e curiosità. Molto di quanto si

pensava di sapere sull’argomento ne uscirà stravolto, di sicuro arricchito. La campagna del 1706

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non fu solo l’eroica difesa della Cittadella, anche se la maggior parte delle perdite sabaude avvenne

per diserzione, o l’aulica avanzata del Principe Eugenio verso Torino con i suoi alemanni sempre

sorridenti, nonostante questi morissero poi addirittura di sete. Non si può riassumere neanche nella

travolgente carica di Vittorio Amedeo II sulle basse di Stura, semplicemente perché questa azione

non è mai avvenuta. Fu una campagna di guerra dove, prima ancora che sotto le mura di Torino, la

partita decisiva si era giocata nelle campagne, dove una ferocissima guerriglia partigiana aveva reso

di fatto impossibile la permanenza dell’esercito delle Due Corone sul territorio piemontese. Fu una

campagna nella quale, più che le sciabole e i fucili, contarono i convogli di muli e i barconi carichi

di sacchi di polvere e cibo. Lo capirono molto bene i soldati francesi del Reggimento La Marine

quando, loro malgrado, si trovarono senza più cartucce davanti alla fanteria prussiana nel momento

culminante della battaglia del 7 settembre.

Con Le Aquile e i Gigli il lettore scoprirà con sorpresa che il 1706 è proprio una Storia mai scritta.

ISBN 978 88 7241 512-2 Anno di pubblicazione 2007 Grande volume di 384 pagine, ampiamente illustrato in b/n e colore, completo di cartellina

contenente n° 9 posters originali, rilegato in brossura cartonata. Prezzo di copertina € 38,00

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Capitolo VIII. 7 settembre 1706. La Battaglia di Torino.

Je pris mon sabre en main Je mis mon sac en terre

Je mis mon sac à bas Le fusil à mon bras

Et je me suis battu là Comme un vaillant soldat.

Soldat par Chagrin 1

Il 6 settembre l’intera Armata alleata varcò la Dora ad Alpignano e pose il campo tra Dora e Stura, con il

Quartier Generale a Venaria Reale. Il settore prescelto per l’attacco era largo appena 3,5 chilometri, a fitta copertura boscosa, comprendendo a sud il bosco di Collegno, e intersecato da profondi fossi. Il fronte si restringeva verso ovest in un imbuto largo poco più di 2.400 metri, dove i francesi stavano realizzando una linea fortificata. I gigliati sino ad allora avevano subito passivamente l’iniziativa nemica, immobilizzati dalle loro stesse trincee.

Nelle prime ore del 7 settembre il comando fu assunto direttamente dal duca di Orléans e dal Marsin. Assegnarono l’ala destra e l’ala sinistra rispettivamente ai generali d’Estaing e Saint Frémont. Inizialmente la linea dei trinceramenti a redan, che si estendeva con un fronte concavo tra Stura e Dora Riparia, era tenuta da 17 battaglioni di fanteria e 7 squadroni di cavalleria (circa 7.650 fanti e 700 cavalieri), provenienti tutti dall’Armata della Lombardia e alle dirette dipendenze dell’Orléans. Le opere di fortificazione, difese da 39 pezzi d’artiglieria, erano state iniziate alle 5 della sera del 6 settembre e, pur prolungandosi per 2.350 metri, erano ancora da completare. Altri 5 battaglioni di fanteria e 16 squadroni di cavalleria presidiavano le linee di controvallazione. Complessivamente 2.250 fanti e 1.600 cavalieri stavano alle spalle della prima linea francese. I ponti di Lucento, controllati dai cannoni del castello e da 5 battaglioni di fanteria, collegavano il settore Dora-Stura con quello, più esteso, di Dora-Po, tenuto dal La Feuillade con 53 battaglioni e 79 squadroni di cavalleria (24.000 fanti e 7.900 cavalieri), che, pur astenendosi da qualsiasi iniziativa, distaccò in rinforzo al settore minacciato 3 battaglioni e 43 squadroni (1.350 fanti e 4.300 cavalieri)2. Del resto non poteva fare altrimenti. Le forze dell’Armata di Piemonte erano troppo provate per non poter far altro che attendere passivamente l’attacco nemico. A nord-est tre ponti e due guadi sul Po collegavano il settore Dora-Stura con quello tenuto dall’Albergotti, 17 battaglioni e 14 squadroni (7.600 fanti, 1.400 cavalieri). Nell’incertezza del momento, neanche l’Albergotti si mosse, privato di 12 squadroni di cavalleria inviati a Chivasso per la scorta di un convoglio, bloccato dalla guerriglia partigiana e dalla minacciosa presenza di 9.000 miliziani sabaudi stanziati a Chieri, restando impotente testimone degli eventi.

Per contro il Principe Eugenio aveva le idee ben precise; intendeva sfondare l’ala destra dello schieramento avversario. Il fronte, relativamente ristretto, consentì uno schieramento in profondità, con la fanteria su due linee di fuoco e la cavalleria in riserva. Alla testa marciava un gruppo speciale d’assalto (6 battaglioni granatieri, 4 squadroni ussari e tutti i 15 pezzi campali dell’Armata), seguito da 8 brigate affiancate, con i pezzi reggimentali intervallati fra i battaglioni, e dalla cavalleria. Giunti a meno di 500 metri dal trinceramento francese gli alleati impiegarono due ore per schierarsi a battaglia formando una linea quasi continua con 29 battaglioni. Circa 400 metri indietro si schierarono altri 23 battaglioni, mentre altre due linee parallele di cavalleria vennero a formarsi, composte ciascuna di 54 e 45 squadroni. Il governatore Daun era in osservazione al bastione della Consolata, pronto ad entrare in azione con le truppe di sortita poste nel Borgo del Pallone; 400 granatieri, 1.200 fucilieri, 500 cavalli e 6 cannoni.

Alle 8.30 i 15 pezzi imperiali aprirono il fuoco contro l’ala destra nemica. Alle 11 il tiro fu sospeso e il Principe Eugenio ordinò l’attacco dei granatieri. Questa fu la prima delle cinque fasi con le quali convenzionalmente la battaglia viene descritta. Giunti a una quindicina di metri dalle trincee francesi la fucileria li costrinse a ripiegare, e fallirono anche gli altri due attacchi delle brigate di prima linea della destra, arginati e respinti dal duca di Orléans. Il principe di Anhalt Dessau guidò allora un terzo attacco sulla sinistra, e la mischia si riaccese.

La seconda fase dello scontro vide lo sfondamento dell’ala destra francese. I prussiani dell’Anhalt, grazie alla propria potenza di fuoco e alla mancanza di munizione da parte del nemico, riuscirono a perforare il dispositivo difensivo gigliato. Benché sempre più demoralizzati, i francesi ripiegarono con ordine, mutando il loro schieramento da concavo a convesso, appoggiandosi a caseggiati, argini, fossi. Mentre l’ala sinistra alleata superava il tratto di trincea sgombrato dai francesi, con i genieri intenti a colmare il fosso e livellare i parapetti per facilitare il passo alla cavalleria, il duca di Savoia fece avanzare subito la cavalleria contro la nuova linea francese.

1 Ho preso il mio sabro in mano / ho messo la mia borsa per terra / il fucile al mio braccio / e mi sono battuto là come un soldato coraggioso. Il soldato nell’angoscia, canto francese del XVII secolo. 2 Parte di queste forze era stata trasferita sulla collina, probabilmente 15 battaglioni di fanteria, in rinforzo all’Albergotti, che disponeva così il 7 settembre di una forza complessiva di 30 battaglioni di fanteria.

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Qui ebbe inizio la terza fase, culminata con la crisi delle forze alleate a causa di un riuscito contrattacco gigliato, stroncato da una felice mossa tattica del Principe Eugenio. Per convergere contro Madonna di Campagna la brigata di destra (Zumjungen) piegò in obliquo eccessivamente a destra, rompendo il fronte che teneva con la brigata Hagen, la quale aggravò a sua volta la falla avanzando verso la strada Torino-Leinì. Furono caricate immediatamente dalla cavalleria borbonica che attaccò i loro fianchi scoperti. Eugenio salvò la situazione tappando la falla con la brigata Bonneval appena giunta in tempo per prendere sul fianco i cavalieri nemici e assalirli alla baionetta. Accanto a Eugenio caddero uccisi un paggio e un domestico, e il suo stesso cavallo fu abbattuto sotto di lui, ma il Principe si rialzò tra i Victoria! dei soldati. Gli alleati continuarono ad attaccare anche l’ala sinistra francese, e nella mischia che si accese il maresciallo Marsin fu ferito mortalmente mentre l’Orléans fu colpito da una pallottola che, sebbene non lo ferisse gravemente, lo mise per il momento fuori combattimento.

Nella quarta fase appoggiandosi alla linea di controvallazione i francesi, rinforzati da 26 squadroni di dragoni appiedati giunti d’oltre Dora, e due battaglioni di fanteria provenienti dai presidi sul Po, tentarono di contendere il campo, anche se gli ordini per la ritirata erano già stati dati dal dolorante Orléans al momento di abbandonare lo scontro. Alle 12 la guarnigione di Torino era entrata in azione, aveva iniziato l’occupazione della Vanchiglia e partecipava alle fasi conclusive degli scontri di Lucento.

Nella quinta fase dello scontro i francesi dell’ala destra si sbandarono definitivamente, inseguiti dalla cavalleria, cercando scampo verso i ponti di Po, dove furono attaccati dalle forze alleate in agguato al Regio Parco. Ormai solo l’ala sinistra gigliata continuava a resistere. Vista inutile la prosecuzione di ogni resistenza, il presidio di Lucento bruciò i magazzini, abbandonò il castello, e passò la Dora distruggendo il ponte. A questo punto le truppe del La Feuillade, intatte, furono contagiate dal panico e cominciarono a fuggire. Alle 14 la battaglia era finita. Un’ora dopo Eugenio e Vittorio Amedeo entravano insieme nella città liberata, accolti dal suono delle campane e dal rombo del cannone, e tra la folla festante raggiunsero il Duomo per celebrare il solenne Te Deum.

Così solitamente è narrata la Battaglia di Torino, combattuta il martedì 7 settembre 1706. Inutile sottolineare come

le “cinque fasi” della battaglia non furono viste come tali da nessuno dei combattenti presenti, neppure dal Principe Eugenio, da Vittorio Amedeo o dall’Orléans, nonostante essi godessero del vantaggio e della capacità di intervenire direttamente sugli eventi. In altre parole le “cinque fasi” sono una convenzione espositiva. Chi partecipò allo scontro non ebbe minimamente la possibilità di farsi un’idea precisa di ciò che stava avvenendo. Il luogotenente generale Saint-Frémont, che pure era uno dei “privilegiati” nell’osservare la lotta, scrisse il 10 settembre 1706, tre giorni dopo gli eventi; Tutto andava bene sul nostro lato, quando vennero ad avvertirci che la nostra destra, dove c’erano il signori Estaing, de Villiers e Sennetère, era stata forzata. S.A.R. [...] come il Signor maresciallo di Marcin, mi ordinarono, partendo, di raccogliere ciò che potevo di truppe e fare da retroguardia.

Saint-Frémont, pur combattendo a meno di 1.000 metri d’aria dal luogo dove sta avvenendo lo sfondamento, non si rese conto di nulla, quando fu raggiunto dalla notizia della rottura della linea del fronte. Lo stesso dicasi per i resoconti forniti da parte alleata. Nelle stesse pagine dell’Histoire du Prince Eugène, riportata dal Pelet, il condottiero imperiale ha degli eventi una visione decisamente parziale, limitata al settore dove si trova di volta in volta. La sua attenzione era concentrata, come è ovvio supporre, sulle sorti dell’attacco all’ala destra francese. Da parte sabauda nessuno dei maggiori storici contemporanei agli eventi, il Tarizzo e il Solaro della Margarita, erano fisicamente presente sul campo di battaglia e trassero i loro resoconti da testimoni oculari e racconti di seconda mano, con tutte le limitazioni che queste appunto comportano.

Eppure, quasi subito dopo lo scontro, si decise che questa battaglia dovesse essere raccontata secondo uno schema ben preciso; variano talvolta i numeri delle forze in campo, i nomi dei reparti impegnati, spesso la narrazione é più o meno volutamente prolissa, mancante oppure decorata di tali particolari da confondere più che spiegare, al punto che gli eventi del 7 settembre appaiono “schiacciati” in tanti bassorilievi monumentali imbastiti secondo un disegno che, di volta in volta, cambia, abbellendo questo o quell’altro aspetto o personaggio, in un quadro generale piuttosto scarno di informazioni atte a spiegare nel dettaglio i meccanismi della battaglia.

Ma la prospettiva cambia improvvisamente se queste scene così apparentemente statiche vengono osservate non più con gli occhi di un osservatore privilegiato, ma attraverso quelli del soldato del periodo. Il militare del 1706 era una parte di un meccanismo che si muoveva secondo determinati parametri. Cercare di stabilire quale fosse il punto di vista di chi combatteva e in che misura questi differisse nei singoli casi - quello soldato di Francia che stava in attesa dietro un trinceramento rispetto al granatiere prussiano che stava marciando contro lo stesso, quello dell’artigliere rispetto a quello del corazziere, quello del fuggiasco rispetto all’inseguitore, quello del ferito rispetto a chi rimase illeso - è la via forse più fruttuosa per comprendere il carattere della Battaglia di Torino nel suo complesso.

1. Piani e preparazioni. Tra le quattro e le cinque del mattino del 7 settembre comandanti alleati condussero le loro ricognizioni finali prima

ancora che facesse giorno, in una atmosfera di grande tensione. Molti soldati in quel momento poterono vedere i loro comandanti, e ben sapevano che la loro sopravvivenza sul campo era determinata da ciò che stavano in quel momento decidendo.

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Una cosa è sedersi alla scrivania, e investigare a freddo su ciò che accadde e su ciò che sarebbe accaduto. È differente pianificare lo schema della battaglia su un vero campo, realizzarlo, migliorarlo e correggerlo mentre tutte le tensioni del momento stanno montando, e, se ciò può essere considerato vero, la natura umana è al suo giudizio 3.

La ricognizione definitiva servì a stabilire la tattica per lo scontro. La superiorità della cavalleria leggera imperiale, forte di 4 squadroni di ussari4, fu determinante sotto questo punto di vista. Le vie di penetrazione e di marcia erano state accuratamente scelte e perlustrate, così come il futuro campo di battaglia, dove furono riconosciuti e studiati i lavori di fortificazione campale del nemico. Nella notte tra il 6 ed il 7 settembre fu diramato il seguente ordine del giorno5;

Domani a Dio piacendo si marcerà contro le linee nemiche nei modi prescritti e nell’ordine seguente: un’ora

prima del giorno la cavalleria sellerà i cavalli senza il segnale del buttasella; la fanteria senza battere i tamburi, si disporrà altresì per la marcia, sicché allo spuntar del giorno tutta l’armata sarà pronta a marciare.

La fanteria avrà l’avanguardia e tutti i granatieri saranno distaccati dai loro reggimenti, ed un’ora prima del levar del sole si porteranno a sinistra davanti a i Prussiani per esser quivi agli ordini del principe d’Anhalt. Saranno divisi in sei distinte schiere. Quelli della 1a linea saranno comandati da un colonnello, e quelli della 2a da un luogotenente colonnello.

La fanteria marcerà su otto colonne, di cui quattro saranno formate dalle brigate della 1a linea. Queste otto colonne marceranno l’una a fianco dell’altra, in modo che l’artiglieria, che sarà ripartita in diverse brigate, possa marciar fra di esse.

La Brigata di Hagen sulla sinistra si appoggerà alla Stura: a destra di detta Brigata ci sarà quella del generale Stillen, del Generale Maresciallo Luogotenente il Barone d’Asselbach, del Generale Zumingen, del Brigadiere Offexn, del Generale Maresciallo Luogotenente Rehbinder, del Generale Maresciallo Kricpeaum, e quella del Principe di Saxe Gotha, l’una a fianco dell’altra.

Tutti i Granatieri marceranno davanti alla brigata Stillen; i pezzi da campagna saranno fra i Battaglioni secondo la ripartizione che se ne è fatta : nel caso si incontrino dei fossi, rimarranno lungo la strada principale da Venaria a Torino sino a quando non saranno nella piana; non appena si sarà nel piano si farà una breve sosta, alla portata del cannone della linea dei nemici, e le quattro Brigate della prima linea si porteranno verso la sinistra e i Prussiani si appoggeranno alla destra.

I Cannoni saranno posti tra i Battaglioni e lo spazio da un Battaglione all’altro sarà di 20 o 30 passi (tra i 6 e i 9 metri).

La seconda linea appoggerà ugualmente la sinistra alla Stura, stendendosi sulla destra sin che potrà, con la differenza che lascerà degli intervalli più grandi affinché in caso di confusione i battaglioni della prima linea si possano riformare dietro

Il Comando della seconda linea avrà l’attenzione di marciare a tre o quattrocento passi (tra i 90 e i 120 metri) dalla prima, e nel caso che la marcia della prima sia più veloce, la seconda continuerà a marciare lentamente e in buon ordine.

I Granatieri marceranno tutti davanti alla Brigata Stillen: quelli della prima linea faranno l’avanguardia di tutti, e saranno seguiti da quelli della seconda linea nel medesimo ordine: e ci si servirà di loro nel modo in cui lo si giudicherà opportuno.

I Signori Generali sia della prima che della seconda Linea faranno attenzione che le truppe marcino in buon ordine, e che ciascuno tanto degli ufficiali che dei soldati sia informato di ciò che dovrà fare.

Si marcerà il più avanti possibile con le armi sulle spalle, e gli uomini non tireranno alcun colpo senza un ordine positivo da parte degli ufficiali

Dopo che la linea dei nemici sarà stata presa, i Granatieri e la prima linea vi si metteranno in formazione, fino a nuovo ordine, facendo dei varchi per far passare la Cavalleria.

Gli equipaggi e i malati resteranno indietro e si riuniranno davanti all’ala destra, dove obbediranno al Maggiore della Vecchia Guardia seguendo gli ordini della Generalità.

Il Gran Prevosto si troverà ai detti equipaggi e osserverà gli ordini del Maggiore. Tutto quelli che saranno in condizioni di combattere si troveranno alla loro Bandiera, o Stendardo, e lasceranno

menomamente ciò che potranno agli equipaggi. Fine dell’ordine per la fanteria. Ordine per la Cavalleria Un’ora prima del giorno si sellerà senza suonare il buttasella, e all’alba sarà tutto pronto per la marcia. La Cavalleria marcerà vicino alla fanteria, e la prima linea avrà l’avanguardia, sia della destra che della sinistra;

marcerà in sei colonne.

3 G.F. TEMPELHOFF, Geschichte des Siebenjährigen Kriegs in Duetschland, Vol. I, Berlin 1783, p. 130. 4 Erano questi 2 sqr. Reggimento Ussari Ebergényi e 2 sqr. Reggimento Ussari Viszlay. 5 Dell’ordine diramato dal Principe Eugenio per la Battaglia di Torino del 1706 ne esistono almeno tre versioni. Le due più conosciute sono quelle dell’Archivio di Guerra di Vienna (Italia, 1706, IX, 12) e il Manoscritto 287 della Biblioteca Reale di Torino. Il manoscritto torinese, qui tradotto dal francese, come già notava Domenico Guerrini nel 1905, è assai più organico e completo. BRT, Manoscritto 287; D. GUERRINI, La Brigata dei Granatieri di Sardegna, Torino 1905, pp. 743-746.

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Quella del Generale di Battaglia Falkenstin si appoggerà alla Stura: alla sua destra marcerà quella del Conte di Monasterolo, quella del Generale Gravendorf con i suoi due Reggimenti di Saxe Gotta, quella del Generale Martini, quella del Conte Schellard, quella del Generale Rocauglion, e queste marceranno l’una a fianco dell’altra.

La seconda Linea terrà il medesimo ordine formando delle colonne di Brigate: lascerà una distanza da 32 a 40 passi (dai 10 ai 12 metri) dalla prima linea che sarà fissata dalla fanteria [che ha davanti, cioè la 2a linea].

Non appena la fanteria inizierà a dispiegarsi, la cavalleria farà lo stesso. Gli squadroni della prima linea avranno uno spazio da 15 a 20 passi (0,96 e 1,28 metri) l’uno dall’altro e quelli della seconda linea avranno uno spazio di 40 passi (2,56 metri).

La Brigata di Roccavione avrà il bosco di Collegno alla sua destra, e invierà delle pattuglie, affinché il nemico non inizi a disturbare i nostri fianchi: l’ultima Brigata dell’ala Destra della Seconda Linea osserverà la medesima cosa, e nel caso apparisse il nemico, invierà le truppe necessarie per attaccarlo.

La Brigata della Sinistra della Seconda Linea invierà pattuglie per scoprire lungo il corso della Stura se si può discendere e prendere il nemico alle spalle.

I Signori Generali terranno tutto in buon ordine per evitare confusione, e informeranno ufficiali e soldati di tutto ciò che avranno da fare.

Se contro tutte le speranze la Fanteria sarà sbandata, sarà sostenuta dalla Cavalleria, per dargli la possibilità di riordinarsi.

Dopo che la Fanteria avrà preso posto nelle linee del nemico, la Cavalleria passerà per le aperture che la Fanteria avrà fatto e avanzerà per approfittare del disordine del nemico: e nel caso si riordini, lo caricherà subito e lo inseguirà con la fanteria per impedirgli il tempo e la possibilità di rimettersi.

Gli Ussari marceranno davanti all’ala sinistra lungo la grande strada e riceveranno gli ordini di ciò che dovranno fare.

La Cavalleria osserverà gli ordini che sono stati dati alla Fanteria riguardo gli equipaggi e i malati. L’obbiettivo del Principe Eugenio era semplice; liberare Torino dall’assedio sconfiggendo duramente l’esercito

delle Due Corone. Mi ricordo che in pieno consiglio [di guerra] domandai dove fosse il convoglio che aveva preparato per soccorrere Torino e cosa si sarebbe fatto se il nemico ci avesse lasciato passaggio libero per entrare. Il convoglio, replicò il Principe Eugenio, è nel campo dei francesi, è là che occorre cercarlo 6. Per fare ciò intendeva sfondare l’ala destra nemica con un gruppo d’assalto formato da sei battaglioni di formazione, creati con l’aggregazione di tutte le compagnie granatieri dell’armata. In loro appoggio stavano le due brigate prussiane, Stillen e Hagen, di, rispettivamente, 5 e 4 battaglioni. Questi reparti venivano pertanto gettati contro un tratto di circa 600 metri di linea trincerata, tenuti da sei battaglioni francesi7. Mentre avveniva l’attacco principale, i reggimenti di ussari avrebbero esplorato la strada che scendeva all’area golenale della Stura per individuare un passaggio alle spalle del trinceramento. In caso di necessità si sarebbe tentato un aggiramento a nord dell’estremità del trinceramento. La distruzione della destra nemica doveva avvenire tramite la potenza di fuoco dei battaglioni di fanteria, i quali avrebbero dovuto aprire il fuoco con una scarica di fucileria a soli 20 metri dal trinceramento nemico, e quindi attaccare alla baionetta. Tali reparti avrebbero goduto dell’appoggio dell’artiglieria reggimentale. La campagna del 1704 a fianco dei reparti anglo-olandesi aveva lasciato il segno nella tattica degli alleati, e la potenza di fuoco espressa sul campo di battaglia fu a Torino la chiave di volta della vittoria.

Dopo aver distrutto l’ala destra francese, facendo perno sul centro dei trinceramenti nemici, la seconda linea di fanteria, che si sperava di non far intervenire sino a quel momento, e le brigate della cavalleria avrebbe tagliato al nemico ogni via di fuga verso il Po e verso la Stura per schiacciarlo su Lucento, dove il fuoco della fanteria della sua ala destra avrebbe fissato i battaglioni nemici, impedendo che si muovessero in soccorso del fianco attaccato. Col concorso della sortita di Daun dalla città il Principe Eugenio contava di aprirsi il passo verso Porta Palazzo e sbloccare la città.

Sebbene l’alto comando francese, nella fattispecie il Marsin, non si aspettasse una battaglia quel giorno, esso aveva comunque un proprio piano. La mattina del 6 settembre, alla notizia che l’armata alleata aveva superato la Dora Riparia ad Alpignano, fu ordinata la costruzione della linea trincerata tra i fiumi Stura e Dora Riparia. Nessuno degli ufficiali aveva fretta, pertanto i lavori iniziarono solo alle 5 del pomeriggio e non furono portati avanti alacremente come la gravità del momento avrebbe reso necessario8. Per quanto incompleti o poco definiti, per la giornata campale del 7 settembre questi movimenti di terra furono sufficienti a garantire un discreta protezione alle truppe e a creare non pochi problemi agli alleati. Il fronte, concavo al centro, si appoggiava a destra alla Stura e a sinistra sul forte ridotto di Lucento e sulla Dora Riparia. Il terreno non era certo il migliore; secoli di esondazioni avevano fatto sì che quella

6 Memoires du comte de Bonneval, ci-devant General de l’Infanterie au service de Sa Majesté Impériale & Catholique, Vol. I, Londra 1737, p. 73. 7 I reparti di fanteria prussiana del periodo combattevano su quattro file, formazione utilizzata sino al 29 novembre 1740. I reggimenti erano organizzati in reparti da uno o due battaglioni. Nel primo caso le unità erano forti di 680 uomini, con un fronte di circa 97,5 metri. Nel secondo caso i battaglioni erano assai più numerosi, 844 uomini, con un fronte di combattimento di circa 122. Se ne deduce che la sola Brigata Stillen teneva una linea di circa 570 metri. O. GROEHLER, Das Heerwesen in Brandeburg und Preussen von 1640 bis 1806. Das Heerwesen, Berlin 1993, pp. 73-83. 8 Oulx, 18 settembre. Il Signor duca de La Feuillade e il Signor il maresciallo di Marcin non han voluto sguarnire la montagna, per la paura che da là giungesse un soccorso dentro Torino. Il Signor de la Feuillade ha sempre sostenuto che il lato tra la Dora e la Stura fosse impraticabile. Sua Altezza reale nondimeno [...] cominciò a far tracciare 1.200 tese di trinceramenti, alle 5 di sera. Non ce n’era che metà fatti, quando, alle 6 del mattino, vennero ad avvertirci che il nemico marciava in battaglia contro di noi. Lettera Da M. De Mauroy a M. De Chamillart, in G. MENGIN, Relation du Siége de Turin en 1706, Paris 1832, p. 271.

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campagna, per quanto coltivata, fosse ricca di ciottoli alluvionali e sabbia. Fatto, questo, che non rese agevole la costruzione dei trinceramenti. La mattina del 7 settembre la linea fortificata, lunga 2.350 metri, presentava una fossa larga, a seconda dei settori, da tre a quattro piedi (0,96/1,28 metri) per un piede e mezzo di profondità (0,48 metri). Dal piano di campagna il parapetto, ancora incompleto e privo di qualsivoglia rinforzo in legno, emergeva solo sino all’altezza della cintura, quindi sino a circa un metro di altezza9. Nulla di più, quindi, di un modesto appiglio tattico lungo il quale schierare i reparti10.

Su come difendere queste linee di circonvallazione esistevano in Francia vari trattati, il più famoso dei quali era il Traité des Sieges et de l’Attaque des Places del maresciallo Vauban. Il trinceramento doveva essere presidiato da una prima linea di fanteria. I battaglioni schierati per la prima difesa erano disposti su sei linee. Venti tese (38 metri) indietro occorreva schierare una seconda linea di fanteria perché chiudesse eventuali falle aperte sul fronte e sostituisse i reparti della prima linea troppo provati. Trenta tese (57 metri) dietro la seconda linea e 60 tese (114 metri) dietro la prima venivano a disporsi gli squadroni di cavalleria, distanti tra loro 70 tese (133 metri), coperti da traverse di terra che dovevano proteggere la truppa dai colpi di artiglieria. La mancanza di truppe fece sì che la seconda linea di fanteria fosse a Torino del tutto assente.

Il 6 settembre le forze francesi nel settore Stura-Dora Riparia, 17 battaglioni di fanteria e 23 squadroni di cavalleria (circa 7.600 fanti e 2.300 cavalieri), erano state rinforzate da 3 battaglioni e 43 squadroni (1.200 fanti e 4.300 cavalieri). Alle loro spalle la linea di controvallazione era presidiata da 5 battaglioni di fanteria e 11 squadroni di cavalleria, mentre altri 5 erano di presidio ai ponti di Lucento sulla riva destra della Dora Riparia. Contro 24.000 fanti, 6.000 cavalieri e 15 cannoni da campagna alleati, i gigliati allinearono lungo la linea trincerata 20 battaglioni e 55 squadroni, per un totale di 8.800 fanti e 5.500 cavalieri, con 39 pezzi da campagna. Almeno per la fanteria, era quello il numero minimo di battaglioni previsto per presidiare con una certa densità i trinceramenti e non lasciare dei pericolosi vuoti. La disposizione dei reparti su 6 file prevista per il combattimento a difesa di una linea trincerata faceva sì che il fronte di battaglione fosse di circa 90 metri. Prevedendo uno spazio di distacco tra reparto e reparto di circa una decina di metri, i 20 battaglioni disponibili avrebbero coperto appena 1.800 metri dei 2.350 totali. Con queste forze gli alleati avrebbero avuto la possibilità di superare in più punti lo schieramento francese attraversando la maglia dei battaglioni passando nei varchi tra reparti senza incontrare tutta quella resistenza che invece dovettero affrontare e vincere11. I battaglioni schierati su 4 ranghi si estendevano, ciascuno, per circa 110 metri, consentendo al comando gigliato di allungare il cordone della fanteria a 2.200 metri, col risultato di coprire per intero il fronte e non ostacolare nel contempo il dispiegamento dell’artiglieria campale12. La distribuzione di questa lungo tutto il fronte era necessaria per compensare i vuoti e dare un’ossatura solida a una linea di fanteria tutto sommato ancora fragile e poco resistente.

9 [...] I trinceramenti erano assai imperfetti, principalmente sulla destra, dove si elevavano quasi all’altezza della cintura. MENGIN, Relation du Siége cit., p. 117. M. de Chamarande si lamentava, in una lettera scritta al ministro Chamillart 22 giorni dopo la battaglia, che l’indolenza dell’ufficiale, come la mollezza e la cattiva volontà del soldato per i lavori che sono stati fatti, supera ogni decenza; e tutto questo è assai più stupefacente dal momento che sono stati tutti ben pagati. Ibidem, p. 276. Per la verità nel resto delle linee dove il comando si aspettava un attacco, specie in montagna e nel settore Po-Dora Riparia, le opere furono migliorate, specie con palizzate e, sul piano, i fossati furono approfonditi sino alla profondità di 1,9 e 2,23 metri e allagati. Semplicemente furono lasciati per ultimi i lavori del settore ritenuto, a torto, il più sicuro. Lucento, non di meno, era stato pesantemente fortificato sin dalle primissime fasi dell’assedio, ed era stato occupato e presidiato già nel 1705. Lo stato dei lavori della circonvallazione tra Stura e Dora e ben descritta in Memoires de la derniere Guerre d’Italie, avec des Remarques Critiques & Militaires, par Monsieur D***, Colonia 1728, pp. 110-111; Le nostre linee di Circonvallazione non erano più chiaramente l’obbiettivo del Principe Eugenio [ossia il settore Dora Riparia-Po], lavorammo nella notte per tracciare una linea dritta tra La Stura e la Dora senza alcun fianco, con una fossa larga da tre a quattro piedi e di uno e mezzo di profondità, il terreno era pieno di pietre, e sabbia, il parapetto fatto alla stessa maniera, la terra del fosso senza fascine; questo Trinceramento pareva di più un’Opera tracciata che difensiva, avendo tutte le imperfezioni necessarie per nuocerci. Questa descrizione solo in parte concorda sullo stato dei lavori descritti dal Tarizzo; Alzavansi queste quattro piedi da terra (1,28 metri), ed erano fiancheggiate con altre linee angolari, che sporgevano di fuori, ed erano in sì gran numero, che la distanza dell’une dall’altre non era più d’un tiro di pistola: oltre che rendevale quasi inacessibili il fosso che avevano avanti alto sei piedi, e di pari lunghezza (1,92 metri). F.A. TARIZZO, Ragguaglio Istorico dell’Assedio, Difesa, e Liberazione della Citta di Torino, Torino 1707, pp. 77-78. Le differenze possono spiegarsi con differenti stati di lavoro sulla linea, assai più approfonditi verso la Dora Riparia. Quanto fossero incomplete queste opere lo si evince facendo un confronto con il 6° profilo di trinceramento proposto dal Vauban, il più contenuto; essi emergevano di 6 piedi (1,92 metri) dal piano di campagna ed erano protetti anteriormente da un fosso profondo 5 piedi (1,6 metri) e largo 8 piedi (2,56 metri). Le Triomphe de la Méthode. Le traitè de l’attaque des places de Monsieur de Vauban Ingégneur du Roi, présenté par N. FAUCHERRE et P. PROST, Evreux 1992, p. 12. 10 Il Vauban segnalava come, in caso di battaglia, solo il primo dei suoi profili dava sufficienti garanzie di tenuta. Il trinceramento in questione aveva un’altezza, dal fosso, di 4,374 m, con un fossato largo 5,8 m e profondo 2,43 m. Un’opera di difesa più simile ad una fortificazione permanente che campale, assai più imponente che non il modesto scavo effettuato il 6 settembre 1706 tra Stura e Dora Riparia. Traité des Sieges et de l’Attaque des Places, par le Maréchal de Vauban, Paris 1829, pp. 30-31. 11 La relazione del Quincy, ripresa dalle campagne del Principe Eugenio, riferisce dell’arrivo a battaglia iniziata delle Brigate Bretagne e Perche. Queste brigate erano già in linea sin dalla mattina, altrimenti i reparti imperiali avrebbero potuto con molta agilità superare la brigata La Marine con tutta tranquillità alla sua sinistra, cosa che invece non fecero. Se ci fosse stato un simile vuoto il Principe Eugenio ne avrebbe sicuramente approfittato, frantumando sin da subito la linea avversaria, oltretutto non nella sua estremità, ma nel punto di congiunzione con il centro, isolando senza rimedio 5 battaglioni avversari. La relazione del Quincy, già tratta da J.S. QUINCY, Histoire militaire du regne de Louis le Grand, Vol. V, Paris 1726, p. 159, è presente anche in J.J.G. PELET, Mémoires militaires relatifs a la succesion d’Espagne sous Louis XIV, Vol. VI, Paris 1842, pp. 665-666; Le Campagne del Principe Eugenio di Savoia, Divisione Storica Militare dell’I. R. Archivio di Guerra Austro Ungarico, Vol. VIII, Torino 1889, p. 239. 12 I battaglioni francesi, secondo l’Ordonnance del 2 marzo 1703, contavano 650 uomini nei ranghi, schierati però su 5 file con un fronte di 117 metri. Solo a partire dal 1706 fu concesso lo schieramento su 4 ranghi, in modo da ottenere un fronte di battaglione di 146 metri. In casi particolari si adottavano schieramenti straordinari di tre o due file, come fece il Reggimento Sault il 15 agosto 1702 alla Battaglia di Luzzara. G. SUSANE, Historire de l’Infanterie française, Vol. II, Paris 1876, pp. 158-159. I 20 battaglioni francesi che combatterono a Torino, con una forza ridotta di un terzo (450 uomini), spesso mancanti delle compagnie granatiere distrutte nei combattimenti in Cittadella del 31 agosto, potevano mantenere il fronte previsto di 117 metri con uno schieramento su non più 4 ranghi.

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La cavalleria, con 55 squadroni suddivisi in 9 brigate, era pronta alle spalle della fanteria. Sette di queste unità erano poste in un fronte grosso modo parallelo ai trinceramenti, tra i 280 e i 375 metri dietro le spalle della fanteria. Ogni brigata disponeva di un numero variabile di squadroni, da un minimo di 4 ad un massimo di 8, schierati su una sola linea. Al primo sfondamento questi reparti avrebbero dovuto caricare il nemico e permettere ai colleghi della fanteria di chiudere il varco. Il fuoco dell’artiglieria, della fucileria e l’appoggio della cavalleria avrebbero dovuto alla fine ottenere abbastanza tempo per far giungere rinforzi, esaurire la spinta offensiva del nemico e respingerlo definitivamente13.

Mentre alle cinque del mattino i generali alleati facevano eseguire le ricognizioni definitive e si apprestavano alla marcia, i comandanti francesi erano nei loro quartieri. L’Orléans dormiva quando giunse la notizia dell’avanzata del nemico; Egli accolse la notizia con una noncuranza e degli sbadigli che mi sorpresero. “Cosa vuoi che faccia, Dubois? Se la caveranno come potranno”. Tuttavia si vestì, salì a cavallo e percorse il campo con l’aria di passeggiare 14. Il feroce dibattito del 1 settembre aveva lasciato aperti profondi risentimenti tra il duca ed il Marsin in particolare, mentre il La Feuillade pensava solamente al “suo” assedio. Filippo d’Orléans passò le prime ore della giornata a cavalcare lentamente alle spalle dei reparti che già si erano schierati in linea. Mentre era giunto al secondo redan dell’ala sinistra, in corrispondenza dei battaglioni del Reggimento Piémont, fu raggiunto da uno stupitissimo Marsin, che si muoveva a piedi, indicandogli i nemici. Il duca gli rispose secco; Pregateli di allontanarsi. Gli rinfacciò anche la distruzione dell’Armata d’Italia; Mi lavo le mani di questo guaio: l’armata d’Italia è perduta, e per vostro errore 15. Non poteva mortificare in modo peggiore l’animo di un comandante che ancora viveva nel cono d’ombra della disfatta di Blenheim di due anni prima. L’Orléans era deciso a non rientrare in linea, ma fu un veterano del Reggimento Piémont a rinfacciargli se intendeva rifiutare al nemico la sua spada, ossia se intendeva battersi sino alla fine. Toccato nell’Onore, rispose che la richiesta era troppo gentile perché potesse essere rifiutata e si preparò al combattimento. Tornò sulla linea di combattimento a fianco di un umiliato Marsin. Staffette furono subito inviate all’Albergotti e al La Feuillade perché accorressero con quanti più uomini potessero.

Chi non aveva tempo da perdere erano i loro subordinati incaricati di osservare l’avanzata del nemico e la corretta disposizione delle truppe. Ebbero tutto il tempo necessario per sistemare al meglio i loro uomini; l’avanzata degli alleati fu avvertita come tale quasi subito, alle 5.30 del mattino. Il primo colpo di cannone fu tirato tre ore e mezza dopo, alle 9. Solo alle 11 lo schieramento alleato fu pronto per l’assalto.

2. Il corpo e le armi del soldato.

2.1. Il corpo.

Si può affermare, a ragion veduta, che i soldati di gran parte degli eserciti, per lo meno prima dello sviluppo del

trasporto meccanico, si impegnavano in battaglia già stanchi, non fosse altro perché dovevano raggiungere il luogo dello scontro marciando sotto il peso delle armi e dell’equipaggiamento.

L’esercito alleato aveva percorso oltre 450 km, dal Veneto al Piemonte, sostenendo anche due assedi. Dal 18 luglio non si era più fermato, tranne tre soste di un giorno il 16 luglio ed il 20 ed il 24 agosto. Quindi, dopo due giorni di riposo, il 2 ed il 3 settembre, aveva iniziato la manovra di avvicinamento al campo di battaglia. Tuttavia, se in precedenza le tappe erano state anche di 50 km al giorno, in questi giorni non si superarono i 20 km. La mattina del 7 furono coperti, prima di schierarsi sulla linea di partenza, 5 km.

La notte tra il 6 ed il 7 le truppe del Principe Eugenio bivaccarono sotto le stelle. Fu una notte particolarmente buia, in quanto il giorno dopo sarebbe stata la prima di luna nuova. Sebbene fosse estate, il bivacco all’esterno senza protezione non poteva essere eccessivamente riposante. L’armata, che vantava alcuni reparti veterani della campagna d’Italia del 1705, aveva avuto sino ad allora una esperienza di guerra sostanzialmente omogenea, essendo stata formata al preciso scopo di essere impiegata nella campagna del 1706.

Gli uomini impiegati dal Daun nella sortita dalla città assediata erano provatissimi, avendo partecipanto a 3 anni di campagne in Piemonte. Nei loro occhi e nelle loro menti non solo avevano gli assedi di Verrua e Chivasso, per citare due dei più celebrati, ma sopratutto gli orrori degli scontri in Cittadella, avvenuti pochi giorni prima.

Più complessa era la situazione delle forze francesi. La grande concentrazione di truppe gigliate in Piemonte era il risultato dell’incontro di due differenti armate, l’Armata di Lombardia e l’Armata di Piemonte. Dei 20 battaglioni francesi schierati a battaglia la mattina del 7 settembre, 17 appartenevano all’Armata di Lombardia. Avevano anch’essi sulle gambe centinaia di chilometri di marcia essendosi ritirati a piedi dall’Adige a Torino, ed erano giunti presso il campo d’assedio tra il 28 agosto ed il 1 settembre. L’unico reggimento dell’Armata del Piemonte schierato nei trinceramenti, il Normandie, forte di 3 battaglioni, aveva trascorso un turno di combattimento nelle trincee davanti alla Cittadella di Torino, esperienza che non poteva certo dirsi riposante.

13 Ciascun squadrone di cavalleria e dragoni, forte di circa un centinaio di cavalieri, era schierato su tre file, con un fronte di battaglia di battaglia di circa 30 metri. J.F. DE CHASTENET MARQUIS DE PUYSÉGUR, Art de la guerre par principes et par règles, Vol. I, Paris 1748, p. 128. Tale disposizione tattica era di fatto del tutto simile sia per i reparti francesi che per quelli alleati. 14 G. DUBOIS, Mémoires du Cardinal Dubois, Paris 1829, p. 339, citato in G. AMORETTI, P. MENIETTI, Torino 1706. Cronache e memorie della città assediata, Torino 2005, p. 141. 15 DUBOIS, Mémoires cit , p. 340.

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Alcuni reggimenti di fanteria francese si allinearono sul campo di battaglia senza le compagnie di granatieri, e con alcune compagnie scelte decimate. Le tre compagnie granatiere del Reggimento Piémont, giunte dalla Lombardia il 28 luglio, già il 31 erano state gettate nella fornace del fronte d’attacco della Cittadella. Dopo duri scontri sulla Mezzaluna del Soccorso, i granatieri erano rimasti coinvolti nell’esplosione di una mina al di sotto della piazza d’armi di sinistra del cammino coperto. Di 150 uomini non ne erano usciti vivi che 30, quasi tutti gravemente feriti. Tra i caduti vi furono i tre comandanti di compagnia e i loro subordinati. Il 1 settembre il resto del reparto giungeva al campo di Torino e sei giorni dopo l’unità prendeva parte alla battaglia tra la Stura e la Dora Riparia privato dei suoi migliori soldati, come tristemente recita il diario reggimentale. Nondimeno il Piémont era uno dei sei Les Vieux; pertanto, nonostante le gravi perdite e il morale basso, scese in campo deciso a tenere alto l’onore del corpo. L’alta considerazione che i soldati di un reparto considerato privilegiato e d’elite avevano di sé era tale che un soldato si permise persino di motteggiare un depresso duca di Orléans deciso ad assistere alla battaglia come semplice testimone; Fu uno dei soldati veterani del Piémont, poco convinto dei talenti militari dei marescialli de La Feuillade e de Marsin, che convinse il duca d’Orléans a ritornare alla testa delle truppe, dalle quali si teneva lontano in seguito a dei dissidi che esistevano tra quei marescialli e lui 16. Il 31 agosto erano stati gettati nel calderone della Cittadella anche i granatieri e altre compagnie scelte dei Reggimenti Auvergne, Bougogne, Dillon, La Marine e Perche.

Come loro, anche Reggimento Normandie, presente in trincea sin dal 2 giugno 1706, scendeva in campo praticamente senza i suoi granatieri. L’assalto del 27 agosto alla Mezzaluna del Soccorso aveva visto la distruzione dei due terzi delle sue tre compagnie granatieri, 99 dei quali ed un capitano rimasti uccisi in combattimento. Non più di 40 granatieri erano disponibili per la battaglia, all’incirca la forza di una compagnia. Uguale perdite erano toccate ai Reggimenti Royal des Vaisseaux, Berry, Beauvoisis e Lyonnais, attivamente impegnati nelle operazioni d’assedio e presenti sul campo di battaglia. La mancanza di queste compagnie si fece sentire non poco nel corso del combattimento. Nei fossati della Cittadella erano state distrutte forze d’élite ideali a controbattere le compagnie prussiane ed austriache che il Principe Eugenio aveva ammassato alla sua ala sinistra. Un corpo di granatieri era una forza imponente, e non solo sotto l’aspetto della loro persona; paragonabili alla presenza sul campo di battaglia di una coppia di batterie di cannoni pesanti, il loro effetto morale sull’avversario non deve essere sottostimato. La loro comparsa in combattimento ridava fiducia ai compagni e ispirava terrore ai nemici. Dopo Blenheim e Cassano d’Adda ciascun combattente dell’Armée Royal aveva imparato a rispettare e temere questa truppa; Abbiamo con l’esperienza appreso che un granatiere, semplicemente perché si chiama granatiere, è considerato maggiormente, è meno incline alla diserzione e combatte meglio. Ho spesso notato che quando i soldati sono assegnati da altre compagnie a quella dei granatieri, essi prendono qualcosa dello spirito dei granatieri nello stesso istante in cui indossano il berrettone di pelo. L’apparenza e la condotta si trasformano 17. Ma questi vantaggi costavano cari. Le missioni erano pericolose, e i granatieri francesi a Torino pagarono un prezzo troppo elevato per il loro rango di élite. Inoltre queste compagnie erano per i reggimenti di linea un continuo stillicidio di uomini alti e utili 18.

A Torino erano presenti ben tre dei sei Les Vieux; Piémont, Normandie, La Marine e uno dei Petit Vieux, il Reggimento Auvergne. Orgogliosi delle proprie tradizioni reggimentali e del prestigio che essi godevano in seno all’Armée Royal, si batterono con coraggio e, nonostante la mancanza delle compagnie granatiere, furono una vera e propria diga nei confronti delle fanterie alleate, sino a quando la potenza di fuoco non li costrinse a indietreggiare con gravissime perdite.

La cavalleria gigliata non si era risparmiata; buona parte di essa, 43 dei 55 squadroni che parteciparono alla battaglia, erano reduci da una campagna estiva estenuante, trascorsa nella sterile operazione di inseguimento delle forze ducali uscite dalla città il 17 giugno, nella scorta di convogli dalla Val di Susa e lungo il corso del Po in direzione di Casale, nelle operazioni di controguerriglia nelle campagne e nelle requisizioni di foraggio e viveri. Alcuni reparti erano stati costretti anche ad un turno di combattimento sul fronte d’attacco della Cittadella di Torino, sorte toccata alla 1a e alla 5a Brigata Carabiniers, ai Reggimenti di cavalleria Anjou, Bouzols, Coulange, al Reggimento dragoni Bozelli, Cherisey, Dauphin Dragon e ai reggimenti di dragoni Languedoc e Hautefort, i cui 6 squadroni furono tra i 30 inviati dal La Feuillade di rinforzo all’armata impegnata in battaglia. I restanti 9 squadroni erano in forza all’Armata di Lombardia, ed erano appena giunti in Piemonte dopo una lunga marcia attraverso la Pianura Padana. I 3 squadroni del reggimento di Dragoni Belle Isle, dopo tale marcia, avevano partecipato all’attacco del 31 agosto contro la controguardia del bastione di San Maurizio.

Cavalcature e uomini erano provati e stanchi, nondimeno rappresentarono il 7 settembre l’unica seria minaccia che mise in pericolo la vittoria del Principe Eugenio.

Entrambi i contendenti combatterono con lo stomaco vuoto. Gli alleati si cucinarono qualcosa la sera prima, tra il 6 ed il 7. Avevano marciato per 10 km prima di attestarsi poco a sud-ovest di Venaria. I francesi, nei loro campi, avevano ricevuto il rancio serale, e non ebbero il tempo di mangiare altro per tutta la giornata, né c’è ne fu la possibilità la mattina con il nemico che marciava verso di loro in ordine di battaglia. Oltretutto nel campo gigliato incominciavano a mancare i viveri e munizioni. Le scorte soddisfacevano le necessità operative sino al 9 settembre, per cui farina e polvere sarebbero state razionate sino all’arrivo di un convoglio proveniente da Crescentino.

16 SUSANE, Histoire de l’Infanterie cit., Vol. II, p. 268. 17 J. COGNIAZZO, Freymüthige Beytrag zur Geshichte des östreichischen Militairdienstes, Frankfurt 1779, p. 106. 18 W. DALRYMPLE, Tacticks, Dublin 1782, p. 10.

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Affamati, sfiniti dalle marce e dai turni in trincea: questa dunque la condizione dei combattenti di Torino all’inizio della battaglia. Coloro i quali passarono la notte nei campi dormirono nelle peggiori condizioni, o non dormirono affatto. Solo i francesi, vicini ai loro campi, dormirono nelle loro tende, probabilmente anche serenamente, dato che nessuno si aspettava di combattere l’indomani.

2.2. Le armi e la mente. Prima del combattimento tutte le armi furono controllate, le gibecières riempite dai 30 ai 40 colpi, e le pietre focaie

sostituite19. In media ogni pietra focaia consentiva 28 colpi, dopo di che doveva essere sostituita. Pietre di riserva venivano pertanto già preparate nelle gibecières, avvolte da una lamina di piombo per favorire la presa della ganascia del cane della batteria. In combattimento la pietra era così già pronta per l’uso, senza perdere tempo a modellare il piombo. L’arma da fuoco era accuratamente controllata e pulita; da essa dipendeva la vita del soldato. Una buona manutenzione dell’arma consentiva il cambio della pietra ogni 30 colpi, con un colpo fallito su 10 tiri – per il quale era necessario ricaricare lo scodellino - e un colpo fallito parzialmente su 20 colpi – quando invece bastava riarmare il cane e tirare -. Con una buona manutenzione, specie se prima di uno scontro, l’efficacia dell’arma in combattimento migliorava notevolmente. Questo fatto era di estrema importanza, in particolare nell’armata del Principe Eugenio dove la potenza di fuoco avrebbe dovuto sfondare le linee avversarie. Vi erano nella manutenzione dell’arma delle implicazioni di tipo psicologico. L’equipaggiamento ben mantenuto era un simbolo di disciplina, efficienza e solidità del reparto. I prussiani del principe di Anhalt Dessau avevano ogni parte del loro equipaggiamento lucido come uno specchio – il moschetto, la spada, e lo scudo d’ottone sulla patta della giberna. [...] Solo le persone senza testa condanneranno questo splendore come inutile. Esso aumenta il coraggio e la fiducia del soldato, e aumenta la dignità di tutto l’esercito 20. Del resto fu certo uno spettacolo impressionante osservare migliaia di canne di fucile lucide scintillare alle prime luci del sole; la guerra giocava, e gioca tutt’oggi, anche su questi aspetti psicologici.

Non sembra che gli eserciti fossero meglio preparati, spiritualmente e mentalmente, alla battaglia di quanto non lo fossero sotto il profilo fisico. Di cerimonie religiose, a quanto sembra, a Torino non ve ne furono. Il 7 settembre era un martedì, e non si ravvisava tale necessità. Inoltre il Principe Eugenio non intendeva sprecare tempo, e quasi sicuramente non ci furono funzioni religiose sul campo né la sera del 6, né il mattino dopo. Allo stesso modo i francesi furono impegnati sin dal primo mattino nei preparativi dell’imminente scontro. Ciò che non mancò fu il ricorso ad amuleti e scongiuri personali. Medaglie, biglietti con frasi portafortuna, preghiere con immagini sacre circolavano presso ogni reparto di entrambi gli eserciti. Il più celebre, specie tra le truppe sabaude, era l’immagine della Consolata, che dopo l’assedio divenne un vero e proprio portafortuna dei soldati, che non disdegnavano di portare il biglietto con l’immagine della madonna sul cappello. I francesi facevano largo uso di simili amuleti cartacei, dove si trovavano scritte frasi magiche, preghiere, esortazioni manoscritte o stampate su piccoli riquadri di carta.

Un altro elemento necessario per la coesione dei reparti ed elevare lo spirito combattivo fu la distribuzione di alcolici e tabacco. Il fumo e il tabacco da fiuto erano due tipici compagni della vita del militare: Il Tabacco è fumato principalmente in apposite pipe di terracotta. L’esperienza insegna che è una magnifica cura contro i disagi e le malattie 21. La truppa piemontese, e quella spagnola sull’altro fronte, era generalmente astemia. Non così quella francese e quella tedesca. I soldati del Brandeburgo dovevano aver bevuto vino e liquori in abbondanza, al punto che il pericolo imminente della battaglia e dei proiettili nemici per essi non era più tale. Il Tarizzo riferì che l’armata alleata marciò verso il nemico con un’aria sì lieta, e festosa, come se andasse a trionfare, e non a combattere 22. Anche il Solaro della Margarita, che come il precedente non fu testimone oculare dei fatti in quanto serviva nella piazzaforte assediata, scrisse come l’avvicinamento avvenne con molta decisione e con la più grande allegria che si possa immaginare 23. La gaiezza era generata non solo dall’abbondante distribuzione di liquori, ma poteva anche essere una manifestazione del sollievo provato dalla truppa, dal momento che dopo tanto marciare finalmente si ingaggiava battaglia. Parte dei reparti alleati, specie quelli prussiani, era formata da truppe esperte. Mentre il gusto della battaglia accresceva, a furia di partecipare a scontri, solo in individui assolutamente fuori dal comune, gran parte dei veterani preferiva comunque battersi subito, piuttosto che attendere ancora. Lo stesso sentimento era provato nelle fila francesi, dove da giorni ci si chiedeva dove il Principe Eugenio avrebbe colpito.

3. Partenza ed avvicinamento. La sveglia nel campo alleato fu data alle quattro del mattino. Per un esercito impegnato in una campagna estiva non

era certo un’ora insolita, e la stessa armata alleata aveva in più occasioni marciato durante le fresche ore notturne. Non fu suonata alcuna assemblea o adunata e, come ordinato, nessun tamburo o tromba in quella mattinata furono fatti rullare o squillare. L’intenzione del Principe Eugenio era di cogliere di sorpresa il nemico.

19 SURIREY DE SAINT REMY, Mémoires d’Artillerie, Paris 1697, p. 290. Si faceva notare che un soldato doveva recare con sé almeno una libbra di polvere e due di piombo, per un totale di 40 cartucce. PUYSÉGUR, Art de la guerre cit., p. 108. 20 J.W. ARCHENHOLTZ, Gemälde der preussischen Armee von und in dem siebenjährigen Kriege, Osnabrük 1974, pp. 16-18. 21 H.F. FLEMING, Der Vollkommene Teutsche Soldat, Leipzig 1726, p. 356. 22 TARIZZO, Ragguaglio Istorico cit., p. 76. 23 SOLARO DE LA MARGARITA, Journal Historique du Siége de la Ville et de la Cittadelle de Turin en 1706, avec le rapport officiel des opérations de l’artillerie, Turin 1838, p. 133.

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La sorpresa in questo caso non significava piombare addosso al nemico all’improvviso, come era stato fatto a Cremona nel 1702, ma rendere incerta sino all’ultimo la direttrice del suo attacco. In poche ore sarebbe stato scoperto, ma avrebbe in tal modo dato pochissimo o punto tempo all’avversario di migliorare le proprie difese e, soprattutto, avrebbe drasticamente diminuito la possibilità per i francesi di far giungere in tempo utile rinforzi nel minacciato settore Stura-Dora Riparia. I soldati erano già vestiti e furono in condizione di mettersi in marcia entro le cinque e mezzo del mattino. I soldati disposero a terra i loro abersacchi e tutto l’equipaggiamento personale che sarebbe risultato inutile in combattimento. Si formarono così sul terreno pile di materiale che sarebbe stato raccolto solo a combattimento terminato.

A quel punto mancavano ancora 3.000 metri dalla base di partenza24. L’armata alleata avanzò su tre colonne; le colonne di fanteria alle ali, con la cavalleria al centro. Tale dispositivo era sopravanzato anteriormente da almeno due brigate di cavalleria, aventi lo scopo di esplorazione e velo di protezione25. Lungo la strada Venaria-Torino venivano fatti muovere i traini d’artiglieria, carri munizione e tutti i materiali necessari all’armata. La forza alleata avanzò verso il nemico per poi arrestarsi nuovamente a 500 metri da essa, oltre il limite della portata utile delle artiglierie. Erano, in quel momento, circa le 7 e mezza del mattino.

I francesi compresero che gli alleati si stavano avvicinando per ingaggiare battaglia sin dalle 5.30 del mattino. L’allarme fu generale e si sparse per l’accampamento.

Il primo a rendersi conto di ciò che stava avvenendo fu il luogotenente generale Saint-Frémont. Ne diede avviso alle 6 del mattino al maresciallo Marsin, anche se questo ancora non si era persuaso di ciò che stava avvenendo, ossia che l’armata alleata stava per ingaggiare battaglia. Per il momento non furono richiesti rinforzi.

Una volta urlato dalle sentinelle l’allarme, i tamburi batterono l’adunata. La sveglia, improvvisa, dovette creare un notevole scompiglio nel campo gigliato. Non di meno i campi erano pensati per favorire la raccolta e lo schieramento delle truppe il più rapidamente e razionalmente possibile. I reparti francesi erano veterani di cinque anni di guerra, abituati a sorprese ben più gravi26. Non si scomposero né si sbandarono, ma battaglione dopo battaglione si allinearono dietro l’improvvisato trinceramento nella poco usuale formazione di 4 linee e rimasero ad attendere il nemico che emergeva in lontananza con il sorgere del sole.

Solitamente la difesa di un trinceramento era discussa tra i comandanti il giorno prima dello scontro; ad ogni reggimento era assegnata la difesa di un settore della linea fortificata. Questo non era ancora avvenuto e i vari comandi di settore furono assegnati nel corso della stessa mattinata. Vero è che le brigate, in particolare quelle di cavalleria, avevano i loro comandi già definiti, e ciò aiutò non poco i francesi ad imbastire la loro linea di difesa priva, però, di una seconda linea di fanteria. Infine, verso le 7 del mattino, era ormai chiaro a tutti, ed in particolare al Marsin, che la battaglia era inevitabile. Solo allora furono inviate le staffette con la richiesta di rinforzi in direzione del comando dell’Albergotti sulla collina e del La Feuillade al fronte d’attacco della Cittadella.

Ormai il nemico era solo a mezzo chilometro dalla base di partenza.

4. La percezione del nemico.

La prima cosa che fu avvertita dai francesi fu il rumore dell’armata in movimento. Tamburi e trombe non erano stati fatti suonare, né sarebbero stati impiegati sino al momento dello scontro vero e proprio, eppure l’armata alleata fu distintamente sentita non appena partì. Si trattava pur sempre di circa 30.000 uomini che si erano messi in movimento. Il brusio delle parole, il clangore di armi ed equipaggiamenti metallici che sbattevano o sfregavano tra di loro, lo sferragliare dei traini d’artiglieria e degli equipaggi del treno, il calpestio delle cavalcature producevano un rumore che, in una mattina d’estate degli inizi del XVIII secolo, fu avvertito distintamente nel campo francese a quasi 4 km di distanza: un rumore sordo e lontano mi svegliò, pregai Ravannes d’informarsi cosa succedeva. Egli tornò per dirmi che l’armata del principe Eugenio avanzava in ordine di battaglia 27. Un effetto sonoro che, su altri campi, fu paragonato a quello prodotto da un mare lontano, le cui onde cozzino contro una costa corazzata di ferro 28.

Un simile rumore, arricchito dal suono dei tamburi e delle trombe della cavalleria – i francesi non avevano alcuna necessità di non farsi sentire – si levò allora dal campo di Madonna di Campagna. Non sappiamo se i soldati del Principe Eugenio sentirono il brusio del nemico. E’ probabile tuttavia che esso sia stato coperto dalle detonazioni prodotte dell’artiglieria d’assedio francese. Proprio quella mattina, dopo una sospensione notturna necessaria per la riorganizzazione e il restauro delle batterie da breccia, era ripreso il tiro contro il vertice della Mezzaluna del Soccorso, la faccia destra del Bastione del Beato Amedeo e la faccia sinistra del Bastione di San Maurizio.

Una sottile linea scura fu la prima percezione che i soldati alleati ebbero delle formazioni nemiche. Avanzando in pianura non poterono scorgere il nemico se non ad una distanza relativamente vicina, sebbene ancora al sicuro dalla

24 La base di partenza è la zona dalla quale un complesso tattico muove all’attacco, dopo avervi sostato per il tempo strettamente necessario a perfezionare le predisposizioni organizzative per l’azione. 25 Non appena che questa armata giunse davanti al villaggio di Altessano, il duca di Savoia fece marciare la cavalleria della sinistra della prima linea davanti alla fanteria, e il resto avanzò secondo l’ordine che doveva osservare. PELET, Memoires militaires cit., p. 664. 26 La guarnigione gigliata di Cremona fu assalita alle ore 5 del mattino del 2 febbraio 1702. Erano allora presenti sette dei 17 reggimenti che combatterono alla battaglia di Torino quattro anni dopo; Rgt. Auvergne, Anjou, Bourgogne, Bretagne, Dillon, Du Fort (nel 1702 Maulevrier), Royal des Vaisseaux. 27 DUBOIS, Mémoires cit., p. 339. 28 J. KEEGAN, Il volto della battaglia, Milano 2001, p. 147.

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portata effettiva delle armi dell’epoca. Solo superato il villaggio di Altessano si incominciò infatti a vedere qualcosa. Il sole era già piuttosto alto, anche se sorgeva proprio in faccia all’armata che avanzava. Con difficoltà dunque si poteva scorgere i bassi e poco regolari profili del trinceramento, mentre assai più imponente era la massa di uomini. Controluce i battaglioni francesi erano scure masse allungate dalle quali si levavano a distanza regolari le loro bandiere. Sulla destra il forte ridotto del Castello di Lucento, mentre avanzata rispetto al centro della linea vi era la cascina Arnaudi la Gioia29. Ancora più a destra si levavano le dense colonne di fumo delle batterie da breccia francesi, segno che la Cittadella era in quel momento sotto bombardamento.

Sull’altro lato del fronte la linea della armata alleata prendeva sempre più forma. Prima una sottile striscia indefinita che avanzava da occidente, quindi si incominciarono a distinguere gli uomini, le bandiere, le lucenti canne dei fucili che riflettevano i raggi del sole mattutino.

Il settimo giorno di settembre alle otto del mattino, l’armata nemica apparve nella piana marciando su tre colonne, il P. Eugenio conduceva quella di destra composta da fanteria, e da qualche Reggimento di Dragoni lungo il fiume Dora che è un luogo dal terreno rotto e pieno di gole. Il S. Duca di Savoia alla testa di quella di sinistra costeggiava la Stura mettendo davanti a lui numerose compagnie di Granatieri: la colonna di centro era tutta di cavalleria con ai fianchi qualche pezzo di cannone. Questa disposizione sembrerà nuova, e la nostra assai straordinaria, non avendo che al più otto mila uomini contro i trentamila che ci attaccarono 30.

I reparti della cavalleria avanzata tornarono nelle loro posizioni, mentre a fanteria sopravanzava. I 6 battaglioni di granatieri si erano spinti troppo in avanti, a circa 400 metri dal nemico, ed entrarono nel raggio d’azione di 2 pezzi di campagna francesi – probabilmente da 4 libbre - collocati nei trinceramenti. Mentre i granatieri si ritiravano parzialmente giunse il parco d’artiglieria; i 15 pezzi furono messi in batteria sulla sinistra della strada che da Venaria andava in direzione di Madonna di Campagna, a circa 470 metri dai trinceramenti della destra francese, ed effettuarono tre salve generali contro i trinceramenti. Era questo il segnale convenuto tra il Principe Eugenio e il governatore della piazzaforte Daun per il segnale della battaglia. Parte della guarnigione uscì da Porta Palazzo e si preparò alla sortita non appena ce ne fosse stata l’occasione. Non gli rimanevano che 400 granatieri, 1.200 fanti (i resti di 12 battaglioni), 500 cavalieri e 6 cannoni; non poteva correre il rischio di gettarli allo sbaraglio, ma sarebbe intervento non appena il nemico fosse in difficoltà. Alle 8.30 del mattino furono così tirati i primi colpi d’artiglieria.

La battaglia era iniziata.

5. La battaglia dell’artiglieria. Dopo le prime tre salve regolari i 15 cannoni alleati iniziarono a bombardare le linee francesi. Si trovavano tutti

sull’ala sinistra, per ammorbidire il più possibile la destra nemica, dove si intendeva sfondare. Contro di loro rispose l’artiglieria francese. Ma non si trattava di un duello di artiglieria. Anche se gli artiglieri vedevano in questo tipo di combattimento la più alta dimostrazione della loro abilità, a Torino vi erano altre priorità. Da una parte e dall’altra si intendeva disorganizzare il nemico.

Gli artiglieri francesi disponevano di 39 pezzi, 35 cannoni da campagna da 4 libbre e 4 da 8 libbre, posti negli intervalli lasciati dai battaglioni e, principalmente, sui sei redan e al Castello di Lucento. Cercarono subito di colpire la fanteria avversaria, che si stava ammassando su tutta la linea del fronte, e disturbare il più possibile le manovre dei reparti alleati che via via si stavano allineando per l’attacco.

Gli imperiali, dal canto loro, si affannavano intorno ai pezzi allo scopo di spianare la strada alle fanterie prussiane che dovevano attaccare l’ala destra.

Per questo scopo i contendenti utilizzarono munizione a palla piena. Le pesanti sfere di ghisa rappresentavano la munizione più versatile in mano agli artiglieri. Sino all’introduzione dei cannoni a canna rigata, il 70/80% dei proiettili trasportati sul campo di battaglia era di questo tipo. E’ chiaro che si faceva grande affidamento su questa ordinanza, piuttosto che su altri tipi di proiettile. Il materiale imperiale tirava palle piuttosto “pesanti”, da 6 libbre, il cui peso era di 3,348 kg, mentre il cannone da 4 libbre francese sparava palle da 1,956 kg31. Lo scopo di queste sfere erano due: rompere muri di fortificazione in operazioni d’assedio, e, più semplicemente, distruggere uomini, animali e materiali. In quest’ultimo ruolo anche le ordinanze più leggere avevano un effetto devastante contro qualunque tipo di ostacolo, animato o meno, fosse nella loro traiettoria e raggio d’azione. Erano in grado di causare numerose perdite anche con un solo colpo, al primo impatto e durante i seguenti rimbalzi della palla, e non potevano considerarsi innocue sino a quando non si fossero definitivamente fermate. Potevano danneggiare irrimediabilmente anche l’affusto d’artiglieria più robusto, e così un carro da trasporto, nonché spaccare in due un uomo o un cavallo. Vi sono memorie di ben 40 soldati uccisi da una singola palla a 500, 600 metri dalla batteria che l’aveva sparata, tutti disposti in linea al momento del fuoco. Le chiuse formazioni di fanteria, necessarie per amplificare al massimo la potenza di fuoco dei fucili ad avancarica a pietra focaia, rendeva gli uomini vulnerabili ai proiettili sferici, e le manovre di evasione virtualmente

29 Tale cascinale era stato fortificato dai francesi. Con Lucento formava il dispositivo francese di circonvallazione, dal momento che nel settore Dora Riparia-Stura non era stata costruita alcuna linea di trinceramento. Con la costruzione della nuova linea, sull’asse Lucento-Cascina Balbiano-Stura, la cascina La Gioia si veniva a trovare in una posizione troppo esterna, e pertanto fu abbandonata probabilmente sin dal giorno 6 settembre. 30 Memoires de la derniere Guerre d’Italie cit., pp. 114. 31 La libbra austriaca, pfund, pesava 0,558 kg. I pezzi austriaci da campagna in questa occasione tiravano palle più pesante. Non solo erano pezzi da 6 lb, ma la libbra francese fermava le lancette della bilancia a sole 0,489 kg. A parità nominale di peso, i proiettili imperiali rimanevano più pesanti. La libbra piemontese era più leggera, corrispondente a 0,368 kg.

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impossibili. In media ogni colpo, tirato alla giusta distanza e con il corretto angolo di elevazione, poteva uccidere sul colpo tre o quattro uomini, e mutilarne o ferirne gravemente altri quattro o cinque, per un totale di circa otto uomini messi fuori combattimento.

Nondimeno l’artiglieria campale, sia francese che alleata, risultò assai meno efficace di quanto ci si potesse aspettare. Le perdite furono trascurabili da ambo le parti principalmente perché i pezzi operavano al limite delle loro capacità. I cannoni di maggior calibro, ad esempio quelli da 24 libbre, potevano scagliare un proiettile anche oltre i 600 metri, ma i pezzi da 4 e 6 libbre da campagna non avevano efficacia oltre i 500 metri. I colpi arrivavano lenti, molti rotolando, oppure al limite della spinta della carica di lancio. Ciò nonostante ci furono perdite, principalmente tra i battaglioni di fanteria della prima linea, ma assai meno gravi di quanto sia lecito supporre dopo oltre due ore e mezza di ininterrotta cannonade. I battaglioni francesi soffrirono ancora meno perdite degli alleati. Per quanto incompleto e non in grado di coprire la figura intera di uomo, il riporto di terra del trinceramento fu in grado di intercettare la maggior parte dei colpi d’artiglieria. I reparti francesi ed alleati uscirono quasi del tutto indenni dal bombardamento, convinti in cuor loro, come molti soldati della prima metà del XVIII secolo, che il tiro del cannone non crea gravi danni in guerra, e vi è un proverbio tra i nostri uomini che tu debba essere particolarmente sfortunato per essere ucciso da una cannonata in combattimento 32.

6. L’avanzata.

Nel frattempo l’armata alleata si ridispiegava per l’attacco. Era una misura necessaria, dal momento che la lingua di

terra tra Stura e Dora Riparia si restringeva all’altezza di Altessano, passando da una larghezza di oltre 3.700 metri ai 2.350 metri del trinceramento francese. I reparti, già tra di loro suddivisi secondo l’ordine di battaglia stilato il giorno precedente e inseriti in una ben definita catena di comando, iniziarono a disporsi in formazione di combattimento e si schierarono su due file di quattro brigate ciascuna, appoggiando la sinistra alla Stura e la destra alla Dora Riparia. Va da sé che l’allineamento della fanteria, basato su quattro colonne di due brigate ciascuna, dovette essere corretto e ristretto. In particolare furono ammassate il più possibile le brigate sulla sinistra, in modo dare all’ala destra la possibilità di distendersi per l’attacco. L’unico modo per permettere alle brigate dell’ala sinistra di impegnare il nemico era quello di scaglionare le forze e far avanzare le brigate l’una dopo l’altra; prima i battaglioni di formazione dei granatieri, quindi i prussiani di Stillen ed infine gli imperiali della Brigata Zumjungen33. Con i 5 battaglioni prussiani della Brigata Stillen e i 9 della Brigata Zumjungen, che in parte a sinistra si sovrapponevano ai prussiani, venivano investiti gli oltre 900 metri dell’ala destra francese senza che le brigate imperiali dovessero piegarsi in avanti per seguire l’andamento concavo del fronte francese. Le Brigate Coppe e Isselbach riuscivano ad investire l’intero fronte dal centro francese sino alle rive della Dora Riparia, ma la loro funzione, al momento, era subordinata alla riuscita dello sfondamento delle linee nemiche sul lato della Stura. Vennero stabiliti i settori da attaccare, i tempi per l’azione e fissati i punti di riferimento necessari per l’avanzata.

Alle spalle della fanteria le undici brigate di cavalleria vennero a disporsi su due file, la prima di 6 brigate, con 54 squadroni, e la seconda di 5 brigate con 45 squadroni.

Alle ore 11, dopo oltre due ore di tiro d’artiglieria, il Principe Eugenio diede il segnale dell’attacco. L’avanzata in linea era tanto semplice da un punto di vista teorico, quanto complicato in pratica. Serviva un punto

di riferimento per l’allineamento. Un albero, un campanile o un ufficiale a cavallo, solitamente un aiutante di campo, servivano allo scopo. Dopo di che occorreva assegnare una specifica direzione alle formazioni e alle unità dell’esercito. In ciascuna brigata venne selezionato un battaglione di riferimento che funzionava da guida per tutti gli altri. Il comandante di battaglione si poneva a circa 3 metri dal centro della prima linea. Alle sue spalle prendevano posizione le bandiere del reparto, e i battaglione quindi avanzava. I gruppi bandiera dei battaglioni vicini facevano riferimento per il loro allineamento e la loro avanzata sul battaglione di riferimento stabilito.

Il gruppo bandiera è considerato la chiave di volta del battaglione. Ogni soldato che marcia alla sua destra, deve sentire la pressione dell’uomo alla sua sinistra; ogni soldato che marcia alla sua sinistra, deve sentire la pressione dell’uomo alla sua destra 34. Oltre a sentire questa pressione sul proprio corpo verso il centro del reparto, i soldati guardavano continuamente con la coda dell’occhio nella medesima direzione, per controllare continuamente il loro allineamento. Uomini e cavalcature ben addestrate sviluppavano un istinto per la regolarità, al punto che si ricordano cavalcature che si sistemavano nei ranghi senza alcune necessità di correzione da parte del cavaliere35. Era comandato il silenzio assoluto nei ranghi, misura necessaria perché gli ordini fossero intesi da tutti, e alla fanteria fu ordinato di portare l’arma alla spalla e non puntata verso il nemico. Avanzando verso il nemico, è con grande difficoltà che gli

32 E. MAUVILLON, Historie de la dernière guerre de Bohème, Vol. II, Amsterdam 1756, p. 101. Poco credibile, nonchè l’unica ad affermare questo, è la relazione imperiale riportata dal Pelet, dove si afferma che sino a che il cannoneggiamento durà, gli imperiali soffrirono grandemente. PELET, Memoires militaires cit., p. 667. 33 Anche ammettendo uno schieramento minimo di 90 metri, con rispettivamente 5 e 9 battaglioni, le Brigate Stillen e Zumjungen avrebbero coperto una linea di oltre un chilometro, mentre l’area da attaccare era limitata a poco più di 900 metri. I battaglioni austriaci, con una forza media di 460 uomini, erano disposti su 5 file con un fronte di battaglione di circa 90 metri. La Brigata Zumjungen poteva dunque coprire da sola con i suoi 9 battaglioni oltre 800 metri. A questi si devono aggiungere i 570 tenuti dalla Brigata Stillen. Fu necessario pertanto far avanzare le brigate scaglionate tra loro, impegnando il nemico in tempi differenti da sinistra verso destra, ricostruzione suffragata anche dai resoconti della battaglia. 34 G.H. BERENHORST, Betrachtungen über die Kriegskunst, Vol. I, Leipzig 1798, p 236. 35 C. DUFFY, The Military Experience in the Age of Reasons, Chicago 1998, p. 202.

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ufficiali possono impedire agli uomini (in particolare sotto il fuoco) di prendere le armi, senza ordini, dalle loro spalle, e sparare ad una distanza troppo elevata. Quanto è più difficile impedire il loro fuoco, quando hanno le armi tra le loro mani già abbassate, e le loro dita sui grilletti? Non dico che sia impossibile sebbene io lo ritenga tale 36. Misura che veniva a rafforzarsi con la necessità, prevista a Torino, di fare fuoco contro il nemico a distanza ravvicinata, onde aprire un varco nel suo schieramento.

Tuttavia la perfezione delle manovre previste nei trattati di tattica militari sui campi di battaglia si vedeva assai raramente. Molti ostacoli ed imprevisti rendevano estremamente difficile una ordinata avanzata in linea. Brevi rallentamenti in una linea di cavalieri si trasmetteva con forza alle linee che seguivano, al punto tale che l’ultima linea doveva di fatto fermarsi37. Per contro l’avanzata della fanteria doveva essere un evento estremamente lento, se si voleva procedere con qualche ordine 38. Nondimeno il passo, cadenzato dai tamburi, era facilmente perso a causa delle perdite, oppure per la presenza di ostacoli quali pietre, buche, o semplicemente per la conformazione del terreno39.

I maggiori gridano “serrare!”: i soldati allora chiudono verso il centro, che gradatamente collassa sino a quando si trovano ad una profondità di otto fila. Nessuno che è stato in azione può confutare questo aspetto 40. I soldati si spingevano ammassandosi verso il centro, ed il passo si perdeva con estrema facilità. Questa era la situazione fisica degli uomini che stavano marciando verso i francesi. Sulla sinistra le due colonne di fanteria alleata si avvicinarono a tal punto in modo tale da sembrare una sola. Ai comandanti francesi l’armata nemica apparve nel piano marciando su tre colonne 41.

7. Fanterie all’attacco. Una delle caratteristiche principali delle battaglie del periodo era la concentrazione di tempo e spazio. L’intera

vicenda veniva solitamente decisa tra l’alba e il tramonto, e le linee del fronte delle armate contrapposte erano ammassate su un tratto di terreno equivalente al fronte di un paio di moderni battaglioni di fanteria.

I primi a muoversi furono i sei battaglioni di formazione di Granatieri, circa 2.500 uomini, schierati su due file di tre battaglioni ciascuno e comandati dal colonnello Dalmuth42. Con la Stura alla loro sinistra marciarono verso i trinceramenti francesi. Con un fronte di circa 300 metri avrebbero attaccato il fronte nemico nel settore compreso tra il ciglione di Stura e il secondo redan, posizioni tenute dalla Brigata La Marine, la migliore tra quelle a disposizione dei francesi, composta dai 3 battaglioni del Reggimento La Marine del colonnello Pierre le Guerchois de Sainte-Colombe e dai 2 battaglioni del Reggimento Auvergne del colonnello David d’Alba. La marcia di granatieri non era in linea retta. Muovendo lungo la riva destra della Stura avrebbero piegato verso destra prima di arrivare ai trinceramenti nemici. Un percorso di 500 metri, 450 dei quali sotto il fuoco nemico. Sin da subito sarebbero stati bersaglio dell’artiglieria, almeno 3 pezzi, poi, sotto i 180 metri, avrebbero subito il fuoco dei fucili. Solo a pochi metri di distanza avrebbero risposto al fuoco. Il tiro di fucileria, ad una distanza ravvicinata, avrebbe scompaginato i francesi, favorendo il superamento del fossato e del trinceramento stesso.

7.1. Artiglieria contro fanteria. L’artiglieria alleata cessò il tiro e i granatieri di Dalmuth avanzarono verso il nemico, entrando nella Kill Zone

(zona di uccisione) del dispositivo francese subito dopo aver superato la batteria dei 15 pezzi. La Kill Zone è un’area del campo di battaglia ben definita e relativamente limitata, di cui l’esempio più noto e meglio comprensibile è fornito dalla “terra di nessuno” della guerra di trincea. La profondità della Kill Zone è determinata dalla portata effettiva dell’arma impiegata. La prima fase dello scontro sarebbe avvenuto entro un rettangolo di terreno largo 300 e profondo in media 450 metri.

Gli artiglieri gigliati non persero tempo e i cannoni che difendevano il settore iniziarono a bersagliare il nemico. Dei 39 cannoni gigliati scaglionati lungo l’intera linea dei trinceramenti, solo una batteria di 3 pezzi poté entrare in azione contro la fanteria che avanzava ora contro di loro43. La ridotta gittata non consentiva infatti a tutta l’artiglieria del fronte di concentrare il fuoco contro i granatieri che stavano arrivando.

36 H. BLAND, A Tretise of Military Discipline, London 1727, p. 80. 37 M. MOTTIN DE LA BALME, Éléments de tactique pour la cavallerie, Paris 1776, p. 30. 38 J. MAUVILLON, Geschichte Ferdinands Herzog von Braunschweig-Lüneburg, Vol. II, Leipzig 1794, p. 281. 39 Contrariamente a quanto si pensa, l’abitudine e la necessità di muovere gli uomini al passo secondo il suono di un tamburo non venne mai meno per tutto il XVII e il XVIII secolo. L’Etat du Regiment des Gardes de S.A.R. del 1 maggio 1701 prevedeva che i soldati saranno avvertiti di partire sempre con il piede sinistro per marciare, osservando di avere libertà di gomito. ASTO, Corte, Biblioteca Antica, Manoscritti, H.VI.28, Etat du Regiment des Gardes de S.A.R., 1er may 1701, p. 43. Dovendo manovrare con formazioni spesse 4, 5 ed addirittura 6 fila lo stesso accorgimento era mantenuto anche presso gli eserciti imperiali, prussiano e quelli delle Due Corone. 40 MAURIZIO DI SASSONIA, Mes rêveries, Vol. I, Amsterdam-Leipzig 1757, p. 36. 41 MENGIN, Relation du Siége de Turin cit., p. 264. 42 Si trattava delle compagnie granatiere di tutta l’armata alleata. Ammettendo una forza media per compagnia di 50 uomini, la forza complessiva del “gruppo d’assalto” di granatieri era di 2.500. Il reggimento di fanteria prussiana del generalmajor Friedrich Ludwig Herzog von Holstein-Beck, IR. Holstein-Beck, schierava a Torino solamente i suoi 100 granatieri, i quali non è chiaro se appartenessero a due o una singola compagnia. Allo stesso modo i reggimenti imperiali prevedevano una forza teorica di era levata anche una compagnia di 100 granatieri per battaglione. Tuttavia il grado di logoramento delle forze alleate fece sì che la ogni battaglione avesse una forza media di 50 uomini per compagnia. 43 La Brigata La Marine era appoggiata da una batteria di 3 pezzi da campagna. Non è ricordata la presenza di altra artiglieria in appoggio a questo settore del fronte.

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Gli artiglieri gigliati continuarono a tirare contro di loro munizioni a palla piena utilizzate sino ad allora. La cadenza di tiro non fu però eccezionale, dal momento che essi stavano caricando e sparando da ormai oltre due ore, e la fatica incominciava a farsi sentire. Occorrevano di solito tre salve prima di inquadrare il bersaglio44, ma i primi colpi giunti a segno potevano avere sul nemico effetti variabili e, se ben diretta, una salva di artiglieria aveva gli stessi mortiferi effetti di una scarica di moschetteria a breve distanza. All’inizio del combattimento i cannoni erano ancora puliti e freddi, ed erano serviti da cannonieri ancora nel pieno delle forze, ben distanti dall’offesa che poteva esser loro recata dai fucilieri avversari. Quella mattina, però, il cannone stava facendo sentire la sua voce da oltre due ore. La qualità e la cadenza di tiro, con le canne di bronzo ormai surriscaldate, sporche dei residui di polvere nera bruciata, non fu delle migliori, e i tre pezzi da soli non furono in grado di bloccare l’avanzata dei granatieri alleati. Ciascun pezzo non poté tirare più di 9 colpi ciascuno, anche ammettendo che i granatieri avanzassero ad una velocità di circa 30 metri al minuto, piuttosto lentamente per mantenere coeso lo schieramento lineare. Oltretutto i francesi incominciavano a scarseggiare di munizioni.

Gli uomini di Dalmuth furono bersagliati da una ventina di colpi d’artiglieria, e ciascuno di essi mise fuori combattimento uno o più soldati. Una volta in marcia i primi colpi furono avvertiti come un tuono lontano, ed era possibile vedere i colpi in arrivo, simili ad un punto nero che si muoveva nell’aria, mentre nuvole di terra si sollevano nel luogo in cui i proiettili cadevano corti e nuvole di terriccio erano scagliate in aria. Quindi uno sferragliare si levava dalla selva di baionette, e si potevano udire i colpi sordi dell’impatto delle palle di ghisa sui corpi di uomini e cavalli.

Il tiro a palla durò circa una decina di minuti. Le formazioni di testa erano ormai giunte a 180 metri di distanza, e contro di loro si iniziò ad impiegare munizione a grappolo45. Ogni cannone tatticamente diveniva l’equivalente di una gigantesca mitragliatrice. La munizione a grappolo aveva però dei limiti. La rosa della mitraglia manteneva un diametro di circa 28 metri per una gittata di circa un’ottantina di metri, dopo di che i proiettili sparati si disperdevano; parte dei colpi affondavano nel terreno, altri finivano alti. Di sicuro, sebbene letale a corto raggio, non si trattava di una munizione precisa.

7.2. Fanteria contro Fanteria. Sotto i 150 metri, in aggiunta al fuoco dell’artiglieria, anche la fanteria gigliata iniziò il proprio tiro. A Torino lo

scontro tra le contrapposte fanterie fu esclusivamente un combattimento a fuoco. Si prolungò con alterne vicende entro un raggio d’azione tra i 150 e i 6 metri, sino a quando una delle due parti, gli alleati prima, i francesi poi, persero coesione e si ritirarono. I francesi aprirono il fuoco ad una distanza veramente troppo grande per le armi che possedevano, vale a dire fucili ad avancarica a canna liscia con innesco a pietra focaia. A 150 metri solo il 15% dei colpi sparati fu in grado di colpire qualcosa o qualcuno, spesso non mortalmente. Man mano che la distanza decresceva la quantità dei colpi andati a segno, e delle perdite inflitte, aumentava.

I battaglioni francesi che difesero la linea di circonvallazione effettuarono due tipi di fuoco; per ranghi e con fuoco di parapetto. Dove la linea fortificata era ancora incompleta i reparti gigliati furono costretti a comportarsi tatticamente come se i trinceramenti non esistessero affatto. I primi tre ranghi si inginocchiavano, il quarto rango rimaneva in piedi e scaricava l’arma. Il terzo rango allora si alzava, faceva fuoco, e così via sino al primo rango. Una volta conclusa la sequenza di tiro si ricaricava l’arma e si ricominciava. Dove le opere campali erano state completate, in particolare intorno al Castello di Lucento, fu possibile effettuare il fuoco di parapetto. Sempre per ranghi, la prima fila effettuava il suo tiro, sfruttando la protezione dei trinceramenti sfilava nelle retrovie per ricaricare e permetteva al secondo rango di prendere posizione dietro il parapetto, puntare e scaricare l’arma.

Il singolo soldato non puntava contro un nemico in particolare, ma contro la “massa” di nemici. Questo aspetto era sottolineato dagli ordini di puntamento, en joue (letteralmente abbassare l’arma) piuttosto di viser (mirare). Man mano che la distanza diminuiva cambiavano anche i punti di riferimento per i soldati su dove puntare l’arma rispetto alla linea di fanteria che avanzava. Avendo come principio l’idea di colpire il torso del soldato nemico alla distanza di 150 metri si mirava una cinquantina di centimetri sopra le teste dei nemici. A 115 metri si mirava alla testa; tra i 90 e i 60 metri al torace, e sotto i 50 metri alle ginocchia.

I soldati francesi ben presto ebbero un’idea piuttosto confusa di ciò che stava accadendo. Il fumo rese presto la visuale del campo di battaglia piuttosto limitata. Oltre 2.000 fucili e 3 pezzi d’artiglieria, schierati su poco più di 500 metri, stavano facendo fuoco contro il nemico in avvicinamento e una pesante coltre di fumo, simile ad una spessa nebbia, iniziò ad avvolgere i battaglioni impegnati nel tiro. Le armi individuali dei fanti, caricate con polvere nera, emettevano nuvole di fumo denso, bianco-grigiastro, che stagnava basso e che solo un vento molto forte poteva disperdere. Questa nebbia artificiale rappresentava un ostacolo concreto per la visibilità sul campo di battaglia, e il soldato impegnato nello scontro non sarebbe riuscito a scorgere con efficacia oltre i 50 metri davanti a sé.

44 E. DE SYLVA TAROICCA, Pensées sur la Tactique et la Stratégique ou vrai principes de la science militaire, Torino 1778, pp. 66-67. 45 Il munizionamento a mitraglia era invece dato da una certa quantità di pallette di ferro sistemate a strati intorno ad una asta lignea fissata ad un tacco cilindrico. I proiettili erano sistemati a strati, circa una decina, e avvolti in una rete di spago. Al momento dello sparo l’alta temperatura e le sollecitazioni durante il percorso nella bocca da fuoco determinavano la dissoluzione dell’involucro di spago e la liberazione delle sfere di metallo, le quali, una volta espulse dall’arma, formavano un’ampia rosata. BSAAT, Sezione 14, n° 499, VE 3, Dissegni d’ogni sorta de Cannoni et Mortari con tutte le pezze, stromenti ed utigli appartenenti all’Artiglieria come anco le piante, alzate et profili di tutte le machine, edifizy, et ordegni necessari alla medema, l’anno 1732, tav. 23-24; SAINT REMY, Memoires d’Artillerie cit., pp. 105-106.

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Aumentava il fumo ed aumentavano, per i granatieri, le perdite. La distanza diminuiva e l’efficacia del tiro di fucileria incominciava a farsi sentire. Le prime perdite furono subite sui 90 metri, aumentarono sensibilmente a 45 metri, ma per il momento i granatieri non risposero al fuoco e avanzarono ancora. Probabilmente Dalmouth intendeva giungere a contatto e aprire un varco nella linea avversaria a colpi di baionetta. Anni dopo, memore dell’esperienza della Guerra di Successione Spagnola, il maresciallo di Francia Puységur commentava a proposito dell’efficacia degli assalti alla baionetta; Le armi da fuoco sono il più distruttivo tipo di armamento. Per esserne convinti, basta andare in un ospedale e si vedrà quanti pochi uomini sono stati feriti dal freddo acciaio rispetto alle armi da fuoco. La mia argomentazione non è avanzata con leggerezza. E’ basata sulla conoscenza 46.

Dalmuth doveva forse essere convinto di poter giungere addosso ai francesi con la propria formazione abbastanza coesa e con uomini dal morale altissimo, per spingersi sino a dieci passi (6 metri!) dal trinceramento francese senza replicare al fuoco. Ma a quel punto la ridotta distanza rese il tiro di fucileria una vera e propria esecuzione e in pochi attimi i superstiti si sbandarono e si ritirarono. E’ credibile che, dopo aver subito numerose salve dal nemico, un battaglione sia in grado di aprire il fuoco quando finalmente desidererà farlo? Sarà in grado di tenere un assalto, o andare all’assalto a sua volta contro un nemico fresco ed intatto? Può questa condotta essere immaginata, o lasciarla solo agli ufficiali che non hanno visto nulla della guerra? 47 I granatieri, sia in gruppo che singolarmente, ripercorsero i 500 metri che li separavano dalle loro retrovie, scivolando sul fianco sinistro della Brigata Stillen che stava muovendo in avanti per attaccare a sua volta i francesi. Non si fermarono se non nelle retrovie della Brigata Hagen, dove gli ufficiali incominciarono a riformare le compagnie e i battaglioni48.

Immediatamente dietro ai granatieri la Brigata Stillen era avanzata verso il proprio destino. Erano cinque battaglioni di fanteria prussiana, ed erano quanto di meglio l’armata alleata potesse mettere in campo. I reggimenti Anhalt Dessau (2 btg.) e Markgraf Christian (1 btg.) erano reduci della battaglia di Blenheim (12 agosto1704), della campagna di Lombardia del 1705 e della battaglia di Calcinato del 19 aprile 1706, dove il Reggimento Markgraf Albrecht (2° btg.) aveva ricevuto il suo battesimo del fuoco sul fronte italiano. Il Reggimento Prinz Philipp (1 btg.) aveva combattuto alla seconda grande battaglia di Blenheim nel 1704 e a Cassano nel 1705. Li guidava in battaglia il principe Leopoldo di Anhalt Dessau in persona. Attraversarono il campo di battaglia, cosparso dei relitti dell’attacco precedente ed andato a vuoto, vale a dire armi, sparse quà e là, e corpi, o parti di corpo, che giacevano a terra. Dal fronte giungevano loro improvvisi scrosci di fucileria, ventate di fumo, grida indecifrabili. All’interno dei battaglioni subitanei movimenti spingevano e gettavano gli uomini l’un contro l’altro come nel fitto di una calca. Non appena i granatieri abbandonarono la linea del fronte, il fuoco dei francesi fu rivolto contro di loro. Il fumo e le fortificazioni campali rendevano il campo di battaglia vuoto, e il nemico quasi invisibile, anche alle brevi distanze; il Fuoco divenne generale lungo la Linea, era assai intenso sia da parte del Nemico che da quello Imperiale, e continuò così senza alcuna interruzione, per qualcosa come mezz’ora, durante il quale lo Spazio tra i Combattenti sembrava separato da una nube di fumo e zolfo, che impediva loro di avanzare l’uno contro l’altro 49.

Il rumore però, rendeva a tutti chiaro che il combattimento stava raggiungendo il suo apice. Nel frastuono vi erano suoni imprevisti e casuali. Le pallottole che colpivano le lame delle spade producevano una singolare vibrazione armonica; qualcosa di simile era originato dai proiettili che urtavano contro le baionette inastate, cosa che avveniva di frequente, e ne risultava un suono che poteva essere scambiato per quello che si produce facendo scorrere un pezzo di legno attraverso una cancellata. Al contrario dei granatieri, i prussiani, giunti a distanza ravvicinata, al grido di Victoria! aprirono il fuoco ed ingaggiarono un serrato combattimento a fuoco con i francesi50.

Nel combattimento moderno pochi uomini fanno fuoco con le proprie armi. Studi sui combattimenti della Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico e in Normandia hanno rivelato che il soldato è spesso un individuo isolato, bloccato da una inerzia paralizzante, e che su una media di cento uomini impegnati in combattimento, solo quindici uomini vi hanno partecipato attivamente con il proprio armamento individuale51. L’esperienza della battaglia nel XVIII secolo era completamente differente. Inserito in formazioni chiuse e compatte, il soldato viveva gli intensi momenti dello scontro

46 PUYSÉGUR, Art de la guerre cit., p. 109. 47 Essai sur la tactique de l’infanterie, Vol. I, Amsterdam 1761, p. 260. 48 Il Quincy e le Campagne del Principe Eugenio, riferiscono che i granatieri del primo attacco furono inseguiti dai granatieri del M. de Rouvrey, i cui uomini superarono i trinceramenti e che entrarono nei battaglioni nemici, nei quali fecero una grande strage. In realtà non si trattava di granatieri, ma dei carabinieri della 5a Brigata Carabiniers comandati da François-Paul de Courseulles, marquis de Rouvray. L’episodio avvenne nel centro della linea francese, contro truppe della Brigata Coppe guidata dal barone di Rehbinder. PELET, Memoires militaires cit., p. 665; Campagne del Principe Eugenio cit., p. 238. 49 The Military History of the late Prince Eugene of Savoy, and of the late John Duke of Marlborough, including a particular description of the several Battles, Sieges, &c, in which either or both these general commanded, Vol. II, Dublin 1737, pp. 154-155. 50 Il grido di battaglia era per la truppa un suono positivo per il morale. Per un attimo soffocava il rumore della battaglia, ed aveva dei chiari intenti intimidatori nei confronti del nemico. Presso varie nazioni esistevano, nel XVIII secolo vari urli di guerra. Sconosciuto in occidente era il grido cosacco Hurrah!, ossia Hu Raj!, che significa “in paradiso”, luogo deputato ad accogliere i valorosi caduti in battaglia. Tale grido di guerra fu diffuso in parte durante la Guerra di Successione Polacca, per poi essere conosciuto maggiormente nella Guerra dei Sette Anni e nelle Guerre Napoleoniche. Fu in queste ultime occasioni adottato dagli inglesi e dai tedeschi. Agli inizi del XVIII secolo il grido più utilizzato dalle nazioni germaniche era appunto Victoria!, mentre gli imperiali urlavano anche Römisch Reich! (Impero Romano, nel significato di Sacro Romano Impero). I reparti tedeschi di fede cattolica romana invocavano Unser Frauen! (Nostra Signora!). I francesi utilizzavano il ben noto Vive le Roi!. Ogni reggimento aveva un proprio motto o grido, impiegato in battaglia. Ad esempio il Reggimento di fanteria Auvergne, presente a Torino, impegnava combattimento urlando En avant, Auvergne, sans peur! Per gli spagnoli valeva sempre l’antico Espana! San Iago! L’esercito sabaudo sin dal medioevo apriva battaglia al grido di guerra Savoye! Bonnes Nouvelles! Saint-Maurice! O. DE WATTEVILLE, Le Cri de Guerre chez les differérents Peuples, Paris 1889. 51 S.L. MARSHALL, Men against fire, New York 1947.

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desideroso di scaricare la propria arma il prima possibile a qualsiasi costo, come una sorta di liberazione dall’esercizio del caricamento e del fragore degli spari vicini. Poco interessava dove il colpo era diretto, né, tanto meno, le tattiche del periodo richiedevano qualità nel tiro. Dopo la prima serie di scariche gli uomini incominciavano a sbagliare le normali procedure di caricamento. La bacchetta del fucile veniva fatta scorrere dentro e fuori la canna, senza alcun tentativo di spingere polvere, palla e borra sino sul fondo, e spesso la bacchetta stessa non era affatto impiegata, dal momento che i soldati preferivano velocizzare il caricamento sbattendo l’arma verticalmente al suolo con il calcio per far scendere la carica giù lungo l’anima della canna. Quanti colpi a fuoco accelerato pensate sia in grado di tirare [il soldato] quando è in queste condizioni [in battaglia] ? Cinque al minuto? Questa è certo la norma in piazza d’armi [...]. Ma, quando consideriamo tutto il bagaglio del soldato, e il fatto che egli non è mai addestrato in piazza d’armi con il suo carico completo, tutto ciò che si porta dietro nei campi di addestramento nei tempi di pace è per le riviste, tenendo conto di questo, sarebbe ottimistico se egli sparerà uno o, al più, due colpi al minuto 52. Anche a questo basso rateo di tiro, una ventina di colpi erano abbastanza per rendere la canna troppo calda, e durante un prolungato scontro a fuoco, come fu appunto Torino, l’anima dell’arma diveniva così incrostata di residui di polvere da sparo da rendere la ricarica più lunga e complessa. I colpi a vuoto erano numerosi, ed esponevano i soldati a gravi pericoli, quali l’esplosione della propria arma. Dopo un certo numero di tiri (variabile in base alla qualità della selce) la pietra focaia si consumava e non era più in grado di innescare la polvere del bacinetto, costringendo il soldato a fermare la procedura di caricamento e a sostituirla. Spesso residui di polvere bruciata ostruivano il focone, impedendo alla fiamma sviluppata dalla carica posta nel bacinetto di raggiungere il colpo in canna. Nell’eccitazione e nel frastuono della battaglia non c’erano garanzie che il soldato si accorgesse di questo malfunzionamento dell’arma; egli continuava a ricaricare colpo dopo colpo, sino a quando cinque, o sei, colpi si erano depositati uno sopra l’altro. Se il primo colpo riusciva a questo punto ad innescarsi, la canna esplodeva come un petardo illuminante.

E’ chiaro quanto il primo colpo fosse una preziosa risorsa. Mentre i francesi avevano iniziato il loro tiro già oltre i 100 metri, gli alleati giunsero a distanza ravvicinata con le armi cariche, le canne pulite e le pietre ancora nuove. Quando una scarica di fucileria era effettuata a breve distanza, essa era capace di causare un massacro nelle file nemiche. Noi dobbiamo addestrare i soldati prima di tutto a trattenere il loro fuoco, e a sopportare quello del nemico. In circostanze normali un battaglione è sconfitto non appena ha aperto il fuoco, e il nemico ha ancora la sua riserva di fuoco 53. Tuttavia, dopo poco meno di un quarto d’ora, anche i fanti del Brandeburgo furono respinti.

Cos’è che distrugge il coraggio della truppa in azione, cosa fa che se la diano a gambe? Te lo dirò – sono le perdite che essi devono sostenere 54. Scariche di proiettili di fucile e mitraglia d’artiglieria solcavano l’aria ed attraversavano il campo, infliggendo contusioni, forando divise e cappelli alla lunga distanza, uccidendo o ferendo gravemente a breve raggio. Le ferite potevano essere tremende; prima di tutto un proiettile nemico gli diede una forte botta al ginocchio destro. Quindi una lo colpì sotto il braccio sinistro e andò a conficcarsi vicino alla spina dorsale, dalla quale dovette essere poi rimossa. Infine la più tremenda e seria ferita fu causata da una palla di piombo deliberatamente incisa, che ricevette sul collo sotto il mento 55. Quando una palla di moschetto colpiva a piena forza, spesso percorreva una traiettoria eccentrica mentre attraversava tessuti di varia consistenza all’interno del corpo umano, provocando gravissimi danni nel suo percorso. Il fianco più colpito era il sinistro, quello maggiormente esposto all’offesa nemica a causa della postura da assumere per il tiro con l’arma individuale. Quando un uomo era abbattuto, non solo i soldati perdevano un compagno d’armi, ma il reparto era privato di un elemento di forza. Talvolta un corpo senza vita poteva essere oggetto di macabro umorismo, anche se più spesso le urla dei feriti erano un suono che i soldati non amavano ascoltare, facendo nascere in loro paura per l’azione e il combattimento. Era una procedura standard proibire alla truppa di soccorrere i feriti e trasportarli fuori dal campo di battaglia. Senza questa precauzione, per ciascuno di essi quattro o cinque uomini avrebbero lasciato i ranghi del reparto.

Le perdite subite in una azione influiscono sulla tenuta di una unità in combattimento non tanto per il loro numero in assoluto, ma per il rateo in cui esse sono subite. E’ più deleteria una perdita del 40% in due giorni piuttosto che una perdita del 70% della forza combattente su due settimane di battaglia. Questo principio ha una diretta applicazione alle circostanze di combattimento del XVIII secolo, le cui dimensioni erano estremamente compatte sotto ogni aspetto, e perdite in questa percentuale potevano essere inflitte o subite in una manciata di minuti. Il soldato poteva subire un collasso fisico e mentale non appena le sue risorse morali erano state del tutto prosciugate dall’intensità dell’azione in corso; In un attimo fui sopraffatto da una paura tale che mi privò di tutto il mio coraggio, e il terrore mi fece tremare le gambe. Un fanciullo mi avrebbe buttato a terra. Su questa “febbre da cannone” ho spesso colloquiato con ufficiali di tutti i gradi, così come con valorosi soldati semplici. Mi assicurarono sulla parola che chiunque affermi di essere stato in battaglia, e non abbia mai provato questa tremenda paura, deve essere considerato uno spaccone e un bugiardo. Ma tutti loro parlarono di una cosa che io stesso avevo notato, cioè che questa sensazione si trasmette in questo modo nelle fasi iniziali, centrali e conclusive di un battaglia, che gli uomini più forti sostengono i più deboli, e che una fuga generale avviene solo quando questa paura attanaglia la maggior parte dell’esercito, e gli uomini deboli trascinano con loro i forti 56. La “febbre da cannone” era qualcosa di molto simile a quello che nel XX secolo fu identificato come

52 COGNIAZZO, Freymüthige Beytrag cit., p. 147. 53 J.S. QUINCY, Histoire militaire du regne de Louis le Grand, Vol. VIII, Paris 1726, p. 67. 54 F.W. ZANTHIER, Versuche über die Marsche der Armeen, die Lager, Schlachten un den Operations-Plan, Dresden 1778, p. 107. 55 C.F. PAULI, Denkmale berühmter Feld-Herren, Halle 1768, pp. 283-284. 56 C.D. KÜSTER, Bruchstück seines Campagnelebens im siebenjährigen Kriege, Berlin 1791, pp. 61-62.

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“shock da battaglia”. Fu altresì notato che il singolo uomo risponde allo stress da combattimento in maniera sempre meno efficace sul lungo termine. Dopo le sue prime esperienze in azione, il soldato raggiunge una soglia di “minimo sforzo”. Le sue forze sono continuamente spese negli sforzi richiesti per sopravvivere ad esperienze di combattimento, e al suo momento di maggior efficienza segue un accelerato processo degenerativo che abbatte tutte le sue difese. Il passaggio dei soldati lungo questa “curva di efficienza di combattimento” non è prevedibile, e varia in base alle differenti realtà della guerra. Nei combattimenti in Normandia del 1944 tale via dolorosa era completata in circa 50 giorni, mentre durante la guerra dello Yom Kippur del 1973 i soldati israeliani dell’IDF scoprirono di poter arrivare ad una situazione di totale esaurimento fisico e psicologico dopo appena 30 ore di combattimento57. La “febbre da cannone”, nei tipici scontri a fuoco del XVIII secolo, sopraggiungeva in qualunque momento della battaglia, e in meno di un’ora dal loro ingresso in battaglia parte degli uomini dell’Anhalt Dessau ne furono travolti. Una impressionante dimostrazione dell’intensità dei combattimenti di ciò che fu definita “la guerra dei merletti”.

La stanchezza, la confusione e le perdite che continuavano ad aumentare furono gli elementi che fecero ripiegare anche la Brigata Stillen, il cui comandante, il maggior generale Ulrich Christoph von Stillen, era stato ferito. Gli uomini, come i granatieri, iniziarono, più o meno spontaneamente, a ritirarsi. Probabilmente qualche reparto iniziò anche a sbandarsi, al punto che il Principe Eugenio, preoccupato per la piega che gli eventi stavano prendendo, fece avanzare a loro sostegno la Brigata Hagen. In breve i cinque battaglioni della Brigata Stillen furono fatti arretrare sino dietro alla linea della seconda brigata prussiana, dove i ranghi furono riformati e i riorganizzati per il combattimento. Verso le 11.30 partì il terzo attacco contro l’ala destra francese. La battaglia in quel momento infuriava su tutta la linea Stura-Dora Riparia.

8. Lo sfondamento.

Il luogotenente generale Jean-François Ravend de Saint-Frémont era impegnato sull’ala sinistra della linea francese, ossia nel tratto di trinceramento dall’angolo rientrante sino alla Dora Riparia. Oltre ai propri dovere di comandante, vi erano varie ragioni per le quali l’ufficiale gigliato non poteva avere una visione globale e completa del campo e degli eventi. Il terreno pianeggiante era senza alcun rilievo degno di tal nome sul quale salire e godere di una visione d’insieme del campo di battaglia. Il fumo del combattimento impediva addirittura di osservare la prima linea, da sinistra giungeva l’eco lontano del cannoneggiamento che stava colpendo il fronte d’attacco della Cittadella, da destra il frastuono del combattimento al centro e, più lontano verso nord, all’ala destra. L’ufficiale francese poteva accorgersi appena di ciò che stava avvenendo a poche centinaia di metri da lui, di certo non poteva sapere nulla di ciò avveniva all’ala destra, a 1.500 metri dal suo centro di comando. Per quel che ne sapevano lui ed il suo subordinato, Christian-Louis Montmorency-Luxembourg, la battaglia la stavano vincendo; tutto andava bene sul nostro lato.

Respinti i granatieri, la linea alleata aveva impegnato l’intero fronte francese. Mentre la Brigata Stillen tentava senza successo di perforare la destra francese coadiuvato dalla Brigata Zumjungen, la linea alleata si era già divisa in tre distinti tronconi che dovevano impegnare separatamente le ali ed il centro. Ciascuno di esso combatté una battaglia a sé stante. Il compito delle brigate del centro e della destra era quello impedire che reparti potessero portare soccorso all’ala destra sottoposta ad una pressione sempre maggiore. Contro Lucento i 9 battaglioni delle Brigata Königsegg si impegnarono piuttosto blandamente. Dovevano “fissare” il nemico e, per il momento, il loro attacco era solo un diversivo. Pertanto il primo attacco che il principe di Saxe-Gotha effettuò fu respinto58. Il suo compito diversivo stava riuscendo piuttosto bene, al punto che all’ala sinistra francese stavano prendendo posizione 28 squadroni appiedati di dragoni e 2 di cavalleria, inviati dal La Feuillade. Oltre a loro, almeno un altro battaglione di fanteria aveva attraversato i ponti sulla Dora.

Al centro il barone di Rehbinder aveva preso il suo compito assai più sul serio; i 6 battaglioni palatinali della Brigata Coppe si erano avvicinati al trinceramento e avevano ingaggiato un combattimento a fuoco ravvicinato con i 3 battaglioni della Brigata Bretagne. Uno dei battaglioni francesi, il 1° del Reggimento Bourgogne posto tra il primo ed il secondo redan di sinistra, soffrì gravi perdite, si ritirò ed abbandonò il tratto di trinceramento che doveva difendere. Il 2° battaglione dovette piegare sulla destra per far fronte alla minaccia, e viceversa fece il 1° battaglione del Reggimento Bretagne che piegò indietro alla sua sinistra. La crisi fu di breve durata. Il duca di Orléans si mise alla testa della brigata di cavalleria che doveva chiudere varchi nel fronte davanti a sé. Alla testa della Brigata Rouvray, con i 4 squadroni della 1a e della 5a Brigata Carabiniers e uno squadrone del Reggimento Coulanges della omonima Brigata, attaccò frontalmente i palatinali, come la pianificazione tattica dello schieramento francese, del resto, prevedeva. La carica francese, o la semplice minaccia di questa, fece sì che la fanteria nemica si ritirasse abbandonando le postazioni conquistate. I cavalieri, approfittando del basso profilo dei trinceramenti incompiuti, li scavalcarono e avanzarono per una trentina di metri59. Non andarono lontano; si trovarono isolati davanti a forze nemiche fresche e furono costretti a

57 M. HASTINGS, Overlord. Il D Day e la battaglia di Normandia, Milano 1985, pp. 251-284; S. DUNSTAN, The Yom Kippur War 1973, Vol. II, Oxford 2003, pp. 61-64. 58 I tre attacchi sull’ala destra condotti dal principe di Saxe-Gotha furono effettuati per tutta la durata della battaglia, e non solo tra le 11 e le 12 del mattino. Così avvenne anche per le forze del barone di Rehbinder. PELET, Memoires militaires cit., pp. 666-667, 677, 679. 59 Sant Frémont affermò che il duca di Orléans caricò il nemico con un solo squadrone dei Carabiniers. Cosa fattibile se la falla del fronte fosse stata di quei soli 110 metri di fronte tenuti dal 1° battaglione del Reggimento Bourgogne. I battaglioni alle sua ali piegarono verso l’interno, con l’intento di proteggersi dalla minaccia che giungeva ora dai trinceramenti. La breccia da chiudere era ormai ben più grande, forse sui 150 metri. Tenendo conto che uno squadrone occupava circa 50 metri di fronte, erano necessari almeno due squadroni per questo attacco. Nulla, quindi, di più facile che il duca

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ritirarsi, subendo gravi perdite a causa della potenza di fuoco della fanteria alleata e dei suoi pezzi reggimentali, finendo poi anche controcaricati dalla Brigata Schellardt60. Il duca di Orléans fu raggiunto da tre colpi, due dei quali ammaccarono la sua corazza, mentre il terzo lo ferì all’anca.

Tatticamente, almeno all’ala destra, il piano francese funzionava. La cavalleria aveva chiuso la breccia e il nemico non passava. Ma se al Saint-Frémont sfuggiva la percezione della battaglia nella sua globalità, questa sfuggiva anche al comando supremo, rappresentato dal duca di Orléans e dal Marsin. Il primo si era gettato alla testa dei Carabiniers vincendo uno scontro tutto sommato secondario nello scenario globale della battaglia in svolgimento. Il secondo, tormentato dai suoi errori, rimase uno spettatore passivo degli eventi. Nessuno fu in grado o volle portare aiuto all’ala destra. Come un fulmine a ciel sereno al comando del Saint-Frémont giunse la notizia che la destra, dove stavano i Signori d’Estaing, de Villiers e Sennetère, era stata forzata 61.

Se l’ala destra degli alleati doveva “fissare” le forze nemiche, quella sinistra doveva invece sconfiggerle. Gli uomini di Stillen non erano riusciti a passare, mentre alla loro destra anche gli imperiali del maggior generale Johann Heironymous Zumjungen tentavano a loro volta di sfondare, impiegando a distanza ravvicinata anche i loro pezzi reggimentali, ma la linea francese sembrava ancora tenere62.

Alle ore 11.30 gli otto battaglioni del luogotenente generale François Saillant d’Estaing avevano respinto un primo attacco e stava sostenendo un secondo assalto. La Brigata La Marine si era battuta prima contro i battaglioni di formazione dei granatieri alleati, dopo di che si era scontrata con la Brigata Stillen e l’aveva ributtata indietro. La brigata immediatamente sulla sinistra, Brigata Perche, stava ora cercando di bloccare, a fatica, l’assalto portato dalla Brigata Zumjungen. L’intero combattimento, un serrato scontro a fuoco, aveva visto i francesi per il momento in grado di tenere la linea. Tuttavia il consumo di munizioni era stato assai elevato, e i colpi incominciavano a mancare. Si vide in quel momento la gravità della distruzione del convoglio di muli di Pianezza. Prima l’artiglieria, poi la fanteria incominciò a scarseggiare di munizioni. Alla nostra destra gli rispondemmo [col cannone] sino a che le munizioni, che erano in poca quantità, durarono; la nostra fanteria cadde nello stesso problema 63.

Arrivò in quel mentre il nuovo attacco prussiano. A condurlo vi era non solo il principe di Anhalt Dessau ma il Principe Eugenio in persona. La Brigata Hagen, sostenuta da Stillen, attaccò di nuovo la Brigata La Marine, quasi con ferocia; i valorosi Prussiani, parte animati dalla real presenza del loro supremo Comandante, parte ingelositi, che gli altri non precorressero a toglier loro il vanto di penetrare i primi nelle trincee, avventoronsi come Leoni a sforzarle 64. Il maggior generale Philipp Sigismund von Hagen, come il suo collega poco prima, fu a sua volta ferito, ma la pressione sui francesi non diminuì.

In contemporanea i quattro squadroni dei due reggimenti di Ussari imperiali Ebergényi e Viszlay, complessivamente circa quattrocento uomini, avrebbero tentato un aggiramento della destra francese, sfruttando una strada campestre che scendeva lungo il greto sassoso della Stura. Il cammino era dominato ad una quota più alta dal terreno dove era stato costruito il trinceramento. Ma la scarsità di truppe rendeva impossibile presidiare quel tratto di fronte. Scesero nelle basse di Stura, risalirono la scarpata di terra e sbucarono alle spalle della prima linea nemica sulla piana nei pressi della cascina Comotto, a 370 metri dietro la linea del fronte. Al momento poterono fare poco o nulla e la loro presenza fu del tutto irrilevante per il crollo dell’ala destra francese. Quando il primo cavallo superò il ciglione di Dora, i prussiani avevano già forzato il trinceramento. Inoltre davanti a loro stava la Brigata Chateaumorant, forte di 7 squadroni di cavalleria pesante, che li affrontarono in combattimento, il Reggimento Colonel Général fece il suo dovere e prese uno stendardo 65. La storiografia sabauda si gloriò del fatto che questo attacco fu risolutivo e che fu guidato dal duca di Savoia in persona. In realtà, mentre avvenne lo sfondamento, Vittorio Amedeo II si trovava davanti al terzo redan, a oltre 800 metri dalla cascina Comotto, e stava assistendo all’attacco delle brigate del luogotenente generale Carl Alexander herzog zu Württemberg66. Gli ussari imperiali rimasero bloccati sul ciglione di Stura, e per il momento

abbia attaccato con l’intera Brigata Rouvrey, come riportato nel rapporto francese sulla cavalleria impiegata in battaglia. PELET, Memoires militaires cit., p. 659. 60 Questa Brigata, comandata dal Signore di Rouvrey, respinse il nemico che aveva messo in fuga un battaglione, e con tanto vigore che lo inseguì al di là del trinceramento, cosa che non poté fare senza una grossa perdita e molto valore. PELET, Memoires militaires cit., p. 659. L’attacco di questa brigata è riportato anche nella memoria del Principe Eugenio trascritta dal Pelet, nella quale si trova scritto che in quel momento la loro cavalleria si giovò di uno degli appianamenti della loro linea, penetrò nel campo degli imperiali, e venne a prendere i Sassoni sul fianco. La si respinse con dell’altra cavalleria che la caricò, e nella fuga andò a portare terrore e disordine tra quelli della sua parte. PELET, Memoires militaires cit., p. 679. 61 Lettera del luogotenente generale De Saint-Frémont al ministro Chamillart, in MENGIN, Relation du Siége de Turin cit., p. 265. 62 PELET, Memoires militaires cit., p. 678. Nella relazione del Principe Eugenio riportata dal Pelet, si trova scritto che gli alleati furono respinti tre volte su tutti i lati. Pertanto si è sempre ritenuto questi attacchi contemporanei. In realtà i prussiani del principe di Anhalt Dessau e gli uomini di Württemberg sfondarono al secondo tentativo, dopo un combattimento a fuoco serrato. Rehbinder e Saxe-Gota effettivamente impiegarono più tempo a forzare i trinceramenti, tentando tre volte l’assalto. Nel momento in cui i prussiani sfondavano era in corso, o stava per essere sferrato, il secondo assalto. Non a caso il Reggimento francese Piemont ha nelle sue memorie reggimentali il vanto di aver respinto tre volte gli attaccanti a Torino. Il Piemont era in forza all’ala sinistra. SUSANE, Histoire de l’Infanterie cit., vol. II, p. 268. 63 Memoires de la Derniere Guerre in Italie cit., p. 114. 64 TARIZZO, Ragguaglio Istorico cit., p. 78. 65 Tale brigata era schierata ai guadi dello Stura. La brigata, come aveva fatto la Brigata Bonneval, era probabilmente avanzata per sostenere la fanteria francese sempre più provata. Gli ussari, dunque, a conti fatti avrebbero dovuto combattere contro non meno di 14 squadroni di cavalleria. PELET, Memoires militaires cit., p. 658. 66 La presenza del duca Vittorio Amedeo II a questo attacco fu data per certa nelle Campagne del Principe Eugenio cit., p. 239. Il dato, smentito dalle varie relazioni coeve di parte alleata e dagli stessi documenti citati nell’opera, contrasta con la narrazione fatta dal Solaro della Margarita, il quale descrive anche le difficoltà avute dal duca nel superare i trinceramenti, raccontando come egli si trovasse nei pressi del terzo redan (tenuto dalla Brigata Perche, in particolare dal 1° battaglione del Reggimento Du Fort). Gli autori delle Campagne travisarono le parole del Quincy che riferì che il

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non furono più in grado di proseguire oltre. Solo nelle ultime fasi della battaglia presero parte ai rastrellamenti degli sbandati.

I fanti francesi non si accorsero di nulla di tutto ciò. Erano impegnati in fronteggiare il nemico e, intorno a mezzogiorno, dopo l’ennesimo serrato scontro a fuoco, non furono più in grado di tenere il fronte. I soldati, circondati dai corpi dei loro compagni caduti, necessitavano di rinforzi, truppa fresca che li sostituisse in prima linea, rimpiazzi che per il momento non erano disponibili. A peggiorare la situazione era il rapido esaurimento delle munizioni. Il Reggimento La Marine fu infine costretto a combattere con la sola baionetta67. Sostenuti dal proprio tiro di fucileria, ai quali i nemici non potevano più rispondere, i prussiani riuscirono a superar il fossato ed arrampicarsi sul trinceramento68.

I francesi piegarono indietro, con gran confusione; più ti avvicini al nemico più spaventato diventi, e un codardo, che sparerà ad un soldato coraggioso a un centinaio di passi, non avrà il coraggio di fare lo stesso a breve distanza 69. Tutto ad un tratto una voce si diffuse nell’esercito francese; siamo morti! Abbandonarono la postazione e presero a fuggire; nel contempo il principe di Anhalt scalava il trinceramento e vinceva la battaglia 70.

Provati, spaventati, circondati da cadaveri o feriti urlanti, non appena dalle colonne di fumo apparvero i volti del nemico, e le punte delle loro baionette, i soldati gigliati si sbandarono e fuggirono. I primi soldati ad abbandonare i reparti furono quelli dei ranghi arretrati. Gli uomini sul fronte potevano scorgere i propri ufficiali, vedere il nemico, valutare in maniera abbastanza esatta il pericolo che correvano, decidere sul da farsi e come affrontare l’avversario. Gli uomini del terzo o del quarto rango non potevano vedere nulla di tutto ciò, impediti alla vista dal corpo dei soldati davanti a loro, dal riporto di terra del trinceramento e dal fumo della fucileria. Tra di loro, e spesso sotto di loro, stavano i corpi dei feriti e dei morti, mentre dal davanti si sentivano solo urla e spari. Ogni reparto era circondato da un cordone di ufficiali e graduati di truppa; una prima linea di capitani e luogotenenti era posizionata proprio di fronte al primo rango, o al suo interno, con il compito principale di regolare l’azione di fuoco. In questa posizione potevano comandare il fuoco, evitando che la disciplina di tiro venisse a mancare e che i soldati sparassero a loro piacimento (feu de billebaude). Era una posizione di combattimento assai esposta e pericolosa, non solo per i colpi che potevano giungere dal nemico, ma anche dai propri uomini, da soldati poco addestrati o malintenzionati. Un’altro cordone di ufficiali e sottufficiali si stendeva sul retro del battaglione, impiegata in ogni circostanza utile per mantenere le truppe coese in azione, urlando ordini, spingendo con le mani i soldati al loro posto, o rimettendoli in linea con gli esponton o le sergentine livellate all’altezza delle reni, mantenendo compatto il reparto il meglio che potevano. Le perdite però aumentavano ad ogni salva nemica, e un graduato ucciso o ferito era un elemento di controllo in meno.

I battaglioni francesi che persero la loro coesione si trasformarono da una massa ordinata in una folla in rotta; La folla in fuga è creata da una minaccia. Tutti fuggono; non c’è chi non ne sia travolto; il pericolo incombente è lo stesso per tutti... e tutti provano la stessa eccitazione e l’energia di alcuni incrementa l’energia di altri. Finché stanno assieme hanno la sensazione che il pericolo sia equamente distribuito. Nessuno vuole ammettere che proprio lui, fra tanti, sarà la vittima e, poiché il movimento della fuga tutta quanta è proteso alla salvezza, ciascuno è convinto che egli personalmente la raggiungerà. Chiunque cada strada facendo, agisce da sprone sugli altri. Il fato ha colto lui e ha risparmiato loro. Egli rappresenta un sacrificio offerto al pericolo. Per quanto importante possa essere stato agli occhi

Duca di Savoia, essendosi ricordato che c’era un vuoto sul lato della Stura, che il Duca di Orléans non aveva potuto riempire a causa delle poche truppe che c’erano su quel lato e che si poteva superare facilmente i trinceramenti, come avevano fatto i Carabinieri [si riferisce alla carica dei Carabiniers francesi, che inseguirono i soldati di Rehbinder oltre i trinceramenti], fece marciare [sulla sinistra] delle nuove truppe. Gli ussari effettivamente si mossero, ma non vi è notizia che Vittorio Amedeo fosse con loro. SOLARO, Journal Historique cit., pp. 133-134; PELET, Memoires militaires cit., p. 666. Inoltre il movimento offensivo degli ussari non fu risolutivo come si volle far passare. Tutte le cronache precedenti alle Campagne del Principe Eugenio, sia a stampa che manoscritte, sono concordi nell’affermare che il merito di aver travolto l’ala destra francese spetti ai prussiani del principe di Anhalt Dessau. Il movimento aggirante sull’ala destra è frutto, probabilmente, di una generazioni di storici che, nel 1876, era già stata abituata alle tattiche di combattimento della Guerra dei Sette Anni e, in particolare, alle Guerre Napoleoniche; L’attacco fattosi da Prussiani il primo tempo verso la Stura sotto il comando del Principe d’Anhalt Dessau, che quantunque respinti per due volte, fu sostenuto con quella bravura qual’è propria, come in suo più lontano da soccorsi, vibrò il colpo più forte,e più decisivo per la Vittoria. Relazione dell’assedio, della difesa e liberazione di Torino dall’esercito francese, p. 14, ASTO, Corte, Museo Storico; Relation de l’attaque, Campagne del Principe Eugenio cit., pp. 475-477; E. GIGLIO-TOS, Di tre lettere inedite sulla Battaglia di Torino 7 settembre 1706, Torino 1905, pp. 3-5; Diario dell’Assedio di Torino 1706, ASTO, Corte, Storie della Real Casa, Categoria III, Mazzo 20, pp. 35-36; TARIZZO, Ragguaglio Istorico cit., p. 78. A battaglia conclusa il Principe Eugenio lodò il cugino con queste parole; A sua gloire immortale e a suo onore non risparmiò l’augusta Person, ma la espose senza tema là dove maggiore era il fuoco, per il bene della causa comune ed a conforto e gioia dei sudditi e del paese fu presente dal principio alla fine, guidò egli stesso i soldati e cacciò il nemico oltre Po, sempre impartendo gli ordres opportuni durante la battaglia. Nuovamente si elogia la sua presenza in prima linea, ma nessun accenno a manovre avvolgenti o alla sua presenza all’attacco dell’ala destra nemica, mentre è ricordato il suo inseguimento dei nemici in rotta sino al Regio Parco. C. TRABUCCO, La Volpe Savoiarda e l’Assedio di Torino, Torino 1978, p. 156. Va da sé che la storiografia sabauda, sino alle opere più recenti, hanno accolto con molta gioia e con poco spirito critico la presunta azione risolutiva di Vittorio Amedeo II sulle rive della Stura. 67 L’avvicinamento del Nemico si fece con un gran fuoco di Cannone Alla nostra destra gli rispondemmo sino a che le Munizioni, che erano in poca quantità, durarono; la nostra Fanteria cadde nello stesso problema, e in meno di un’ora, essa fu ridotta alla Baionetta, mancando d’avere di che tirare. Memoires de la Derniere Guerre d’Italie cit., p. 114. 68 Furono impiegate anche granate a mano. PELET, Memoires militaires cit., p. 678. 69 J.A. GUIBERT, Essai général de tactique, Vol. I, Paris 1804, p. 216. 70 FRÉDERICK II, Mémoires pour servir a l’Histoire de la Maison de Brandebourg, Postdam 1805, p. 171. Federico II giudicava troppo esteso lo schieramento adottato dall’Orléans e criticava la scelta di non aver attaccato, con forze doppie, l’armata del Principe Eugenio. Sullo sfondamento della linea tra Stura e Dora confonde singolarmente i due fiumi. Secondo il re di Prussia il panico nelle fila francesi fu generato da tre granatieri sbandati, i quali, durante l’attacco finale del principe di Anhalt Dessau, penetrarono lungo la Dora, e aggirarono il trinceramento per un passo dove esso non si appoggiava bene al fiume. Data la situazione di stress patita dalle truppe gigliata, qualsiasi pretesto sarebbe stato ottimo per darsi alla fuga.

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di alcuni di loro, come compagno di fuga, cadendo diviene importante agli occhi di tutti. La fine naturale della fuga è il raggiungimento naturale della meta; una volta che questa folla è in salvo, si disperde 71.

Contemporaneamente, vedendo i reparti sulla destra piegare indietro, anche i battaglioni della Brigata Perche iniziarono a loro volta a retrocedere, e mentre nel frattempo le brigate di Württemberg, la Zumjungen e la Bonneval, superarono a loro volta il trinceramento. Tutta l’ala destra, dal terzo redan alla Stura, si era piegata all’indietro, aprendo una falla di 750 metri.

I reparti francesi si comportarono in maniere diverse. Alcuni di loro, specie quelli che presidiavano il settore dove avvenne lo sfondamento, semplicemente si disintegrarono, come avvenne per i due battaglioni del Reggimento La Marine che tenevano l’estrema sinistra. La truppa fuggì via, verso le retrovie, cercando scampo. I battaglioni che non si sfasciarono arretrarono sino alla Madonna di Campagna dove, dietro la strada che univa il complesso religioso alla cascina Balbiano, iniziarono faticosamente a riorganizzarsi. I prussiani di Hagen non si fermarono, come era stato loro ordinato, sui trinceramenti e così non così fecero gli imperiali di Zumjungen, ma si gettarono sui reparti nemici che tentavano di arretrare. Il Reggimento La Marine e quello di Auvergne poterono retrocedere a fatica, distaccando alcune compagnie a coprire la ritirata. Il colonnello Pierre Le Guerchois de Sainte-Colombe del La Marine utilizzò a questo scopo la compagna granatieri del capitano de Bonnaud del 1° battaglione. Quasi accerchiato dai prussiani di Hagen, de Bonnaud rischiò di essere tagliato fuori e si sganciò a fatica, grazie anche all’intervento della cavalleria, dopo aver perduto 2 luogotenenti, 2 sergenti e 34 granatieri; con il 70% di perdite la sua compagnia era di fatto stata distrutta. Mentre la fanteria continuava a ritirarsi, la cavalleria gigliata tentava di salvare la giornata.

9. Battaglia di cavalleria. La seconda linea di cavalleria francese avrebbe dovuto caricare e chiudere ogni falla che le si presentasse davanti.

All’ala sinistra la Brigata Rouvrey aveva agito in tal senso e il primo tentativo di rompere il fronte era stato respinto. Adesso 4 battaglioni prussiani e non meno di 9 imperiali stavano superando il trinceramento. La cavalleria francese, senza una guida precisa, non riuscì a manovrare efficacemente, e ogni brigata combatté singolarmente. Gli scontri si consumarono tutti in poco meno di un’ora, tra le 12.30 e le 13.30.

9.1. I Corazzieri del Re. Superata la linea dei trinceramenti la fanteria prussiana si gettò in avanti, dividendosi in due tronconi. La fanteria

nemica stava piegando verso la loro destra mentre davanti a loro si trovava una linea di cavalleria. Hagen piegò verso destra, con Zumjungen, mentre Stillen proseguì frontalmente contro i reparti nemici. Si trattava della Brigata Bonneval, che era alla destra della linea di cavalleria che sosteneva quella di fanteria; si era appoggiata alla Stura, dietro il Reggimento la Marina 72. Il brigadiere di cavalleria marchese di Bonneval, già Mestre del Camp del Reggimento Cuirassiers du Roi, si era avvicinato di un centinaio di metri per sostenere la propria fanteria in crescente difficoltà. Tuttavia non era riuscito a evitare il crollo della linea e ora i prussiani si muovevano verso di lui. Decise di caricare il nemico, anche perché l’ordine di ritirata non significava un semplice dietro-front, ma avrebbe dovuto far voltare i cavalli e riformare i ranghi, offrendo il fianco e la retroguardia ad un nemico imbaldanzito dal successo che stava avanzando verso di lui.

La carica non era quella corsa scompaginata o disordinata che numerose tele e la finzione cinematografica ci hanno abituato a vedere; era un complesso gioco di tempo-distanze. I ranghi dovevano rimanere il più possibile coesi tra di loro, i cavalieri cavalcavano a contatto di ginocchia; questa disposizione era detta en muraille. L’effetto visivo doveva essere appunto quello di una immane muraglia di uomini e cavalli che si avvicinava al nemico. Muovendo all’attacco li squadroni avanzavano schierati su tre file. Prima al passo, poi al trotto leggero avveniva l’avvicinamento. Giunti a breve distanza, circa 50 metri, i tre ranghi contemporaneamente sparavano contro il nemico con le armi in loro dotazione, carabine o pistole. Questa scarica di fucileria avrebbe dovuto scompaginare le file del nemico; spada alla mano avveniva a questo punto la carica. L’ufficiale comandante di reparto gridava A moi! e dava così il segnale della carica, riportato a tutti i ranghi dal suono delle trombe. I cavalieri, mantenendo il più possibile la coesione tra di loro, davano di sprone e piombavano sul nemico.

I cavalieri dovevano riuscire a trovare dei varchi nelle linee della fanteria avversaria; così facendo potevano scompaginare lo schieramento avversario e iniziare ad ingaggiare una serie di duelli tra singoli individui o di piccoli gruppi; la meleé. Questo se il nemico non si era nel frattempo ritirato.

Ugualmente avvenivano le cariche contro la fanteria; l’assalto della truppa a cavallo giocava principalmente su un fattore psicologico, ossia che il fante non sarebbe stato in grado di rimanere al suo posto mentre la massa di cavalli veniva lanciata al galoppo. In situazioni normali un cavallo al galoppo non punta direttamente su un ostacolo che può saltare o superare scartando di lato. Allo stesso modo non è in grado di saltare né di individuare un varco in uno schieramento compatto di uomini; tanto meno si precipiterà verso quella sorta di ostacolo, ovviamente pericoloso, rappresentato dalla selva di baionette abbassate. D’altro canto un uomo eviterà di mettersi sul percorso di un cavallo al galoppo; fuggirà, si metterà al riparo, e soltanto se ha nervi eccezionalmente solidi e sa davvero come maneggiare le

71 KEEGAN, Il volto della battaglia cit., p. 183. 72 PELET, Memoires militaires cit., p. 658.

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proprie armi, rimarrà dove si trova. Ciò non toglie che incidenti accadano. Uomini che fanno male i loro calcoli o siano poco rapidi e cavalli sbalestrati o imbizzarriti effettivamente si scontrano, e i risultati sono spiacevoli quasi unicamente per l’uomo. La fanteria veniva addestrata a “ricevere” la cavalleria, ossia ad attendere a piè fermo il nemico e a non farsi prendere dal panico, e i cavalli a loro volta erano addestrati a caricare gli ostacoli, e la principale funzione del cavaliere consisteva proprio nell’obbligare gli animali a farlo, nonostante che la loro natura ed istinto vi si ribellassero.

Se con “l’urto” la cavalleria riusciva a penetrare attraverso le fila avversarie uccidendo un certo numero di avversari e a volgere in fuga gli impauriti superstiti, il “principio d’armi” della cavalleria, “l’urto” appunto, aveva avuto pieno successo. A rigor di termini, ciò che cavalleria infliggeva era più psicologico che fisico; un visibile sbandamento tra i ranghi dei fanti in attesa, sufficiente a spronare i cavalleggeri durante gli ultimi 50 metri, una scarica di fucileria che passasse sopra le loro teste, a riprova dell’indecisione del nemico, quindi l’improvviso venir meno della risolutezza di questo e la scomparsa dell’ordine. Ed ecco il battaglione di fanteria trasformarsi in gregge, girare le schiene, le teste incassate, fuggendo alla disperata di fronte ai ben più rapidi zoccoli dei cavalieri: tale, in teoria, avrebbe dovuto essere l’effetto di una carica del genere. Ma se la fanteria non fuggiva e si manteneva coesa la sconfitta dei cavalieri era praticamente certa.

Così i prussiani affrontarono la cavalleria in arrivo, non cedettero e fecero fuoco a distanza ravvicinata contro il nemico; i reparti francesi si fermarono, indietreggiarono, parte si incartarono verso destra o sinistra e, anzi, furono pure contrattaccati. I cavalieri francesi che non erano stati uccisi dal fuoco dei fanti, o sbalzati dalle cavalcature, furono costretti a ritirarsi. Alcune compagnie furono ridotte a mal partito dalla fucileria; un servitore del Reggimento dei Coracieri riferisce di non esservi restati che trenta soldati di quel Regimento, ma gl’altri venduta cara la sua vita 73. Il resto della brigata, i 4 squadroni dei Reggimenti La Bretauche e La Vaupaliére, si ritirò verso Po, mentre i 3 squadroni del Reggimento Cuirassiers du Roi ritirandosi piegarono alla loro destra, dove si ritrovarono con i superstiti del Reggimento Royal-Roussillon che era appena stato respinto sulla linea dei trinceramenti dal Reggimento di fanteria imperiale Maximilian Starhemberg. Per il momento, però, la Brigata Stillen non avanzò oltre.

Il marchese di Bonneval, il cui cavallo era stato ucciso, fu circondato da un gruppo di granatieri ungheresi, i quali, sopravissuti al primo sanguinoso attacco contro le linee francesi, non erano molto propensi a fare prigionieri. Per sua fortuna fu riconosciuto da suo fratello minore Claude Alexandre de Bonneval che, al comando della propria brigata di fanteria alleata che aveva attraversato poco prima il trinceramento, gli salvò la vita74. Il marchese fu portato davanti al Signor il Duca di Savoia, questo Principe che aveva visto il vigore del suo Reggimento, e la sua buona manovra, e gli fece i complimenti 75. In quel mentre la carica della Brigata Bonnelles era stata respinta da poco e la cavalleria alleata accingeva a distruggere i resti della cavalleria gigliata.

9.2. La carica del Reggimento Royal Roussillon e la nuova linea di difesa francese. La mattina del 7 settembre un aiutante di campo del duca di Orléans raggiunse il maresciallo di campo Jérôme-

François L’Écuyer, comte de Muret, con l’ordine di portare immediatamente i 3 battaglioni al suo comando oltre il Po e raggiungere la linea di circonvallazione tra Stura e Dora Riparia. Ci volle almeno un’ora per riunire gli uomini e per raggiungere la riva sinistra del fiume. Una volta arrivati, si trattava alla fine di due soli battaglioni dei Reggimenti Beauvoisis e Berry, De Muret ordinò loro di avanzare su Madonna di Campagna. Lui, da solo e più velocemente dei suoi uomini incolonnati, proseguì per esaminare lo stato delle cose; sentii mentre marciavo un gran fuoco ai nostri trinceramenti, che mi fece andare di gran carriera. Giunto là notò con orrore che la cavalleria del nemico era già passata sul bordo della Stura e che la fanteria era salita sul parapetto. Raggiunse uno degli squadroni del Reggimento Royal-Roussillon e si mise alla sua testa. La situazione della cavalleria non era però delle più facili; dal comando non giungevano più ordini e la Brigata Bonneval era impegnata in combattimento. La Chateaumorant, dopo i combattimenti ai guadi di Stura con gli ussari imperiali, era impegnata a riorganizzarsi e a tenere a bada i 5 battaglioni prussiani di Stillen. Rimanevano disponibili le Brigate Bonnelles e Bouzouls, per un totale di 13 squadroni, due dei quali di dragoni. La vicina Brigata Kerkado e i suoi 8 squadroni era impegnata alla difesa del centro della linea e non si sarebbe mossa76. De Muret raggiunse il comando della Brigata Bonnelles, e si rese presto conto che gli ufficiali di cavalleria erano piuttosto dubbiosi sul da farsi, specie nella confusione e nella concitazione del momento. Incoraggiò i presenti e li convinse a caricare il nemico. La Brigata Bonnelles partì alla carica, ma la Brigata Bouzols, che era al suo fianco, invece si ritirò. Solo uno squadrone del Reggimento Bartillat rimase al suo posto e partecipò all’attacco. Furono così solo 8 gli squadroni che avanzarono contro gli alleati.

La linea di fanteria alleata era in quel momento divisa in tre gruppi. Zumjungen e Hagen, dopo aver sfondato la linea dei trinceramenti, stavano piegando a destra all’inseguimento della fanteria francese che si stava ritirando su Madonna di Campagna, Stillen era avanzato contro la Brigata Bonneval che lo stava caricando. La Brigata alleata

73 GIGLIO-TOS, Di tre lettere inedite cit., p.6. 74 Ouvres choises litteraires, historiques et militaires du màrechal Prince de Ligne, Ginevra 1809, p. 278. 75 Memoires de la derniere guerre in Italie cit., p. 116. 76 Non si mosse neppure quando anche il centro e il duca di Orlèans gli ordinarono di sostenere la linea. Il comandante del reparto, il brigadiere Signore De Kerkado, già malato, morì per le ferite subite durante le fasi della ritirata. PELET, Memoires militaires cit., p. 659; Journal du Marquis de Dangeau, publié en entier pour la premiere fois par MM. Eud. Soulié et L. Dussieux, avec les additions inédites du Duc de Saint-Simon publiées par M. Feuillet de Conches, Tomo XI, Paris 1857, pp. 205, 212. Un altro Kerkado era morto il 30 agosto 1706 nelle trincee del fronte d’attacco. AMORETTI, MENIETTI, Torino 1706 cit., p. 158.

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Bonneval stava superando il trinceramento all’altezza del terzo redan, seguendo i reparti di Zumjungen, quando gli fu ordinato di lasciare i 2 battaglioni del Reggimento Maximilian Starhemberg a presidio del tratto tra il terzo ed il secondo redan. Ancora dietro, la cavalleria, sfruttando i varchi che i pionieri avevano aperto nel trinceramento, si accingeva a superare l’ostacolo. Fu allora che venne sferrato l’attacco della Brigata Bonnelles. Otto squadroni caricarono i reparti prussiani di Hagen che si stavano muovendo, rispetto ai cavalieri francesi, da destra verso sinistra. In questo caso “l’urto” ebbe pieno successo e i prussiani si sbandarono. I francesi inseguirono i reparti in fuga sino al trinceramento, catturando loro anche una bandiera. Il Principe Eugenio accorse al disordine; e affrettati i guastatori, perché ampliassero i passaggi, quando li vide allargati spinse il Generale Visconti con i Corazzieri, e co’ Dragoni Tedeschi a cavallo contra la cavalleria delle Due Corone 77. Portandosi nella primissima linea per riformare i ranghi e incoraggiare i soldati, rischiò in questa occasione di essere ucciso; il Principe Eugenio, sottoposto al medesimo fuoco, con il più semplice soldato, provò come loro la violenza [del combattimento]78. Tre pezzi d’artiglieria ben postati [i pezzi catturati sul trinceramento e sistemati sul fianco sinistra della cavalleria francese] arrestano i carabinieri francesi che, senza questo, avrebbero maltrattato i miei corazzieri e la mia fanteria. Fu appunto nel rannodare quella [la fanteria] che era già stata scossa, che uno dei miei paggi venne ucciso dietro a me e che il mio cavallo ferito da un colpo di carabina mi rovesciò in un fosso. Mi si credette morto e si dice che questo fece per qualche momento qualche effetto sulle truppe. L’ordine che diedi montando a cavallo coperto di polvere, di fango e di sangue, al reggimento di Starhemberg di fare una scarica sulla cavalleria francese, né sbarazzo la mia fanteria che si mantenne nel tratto della linea che aveva forzato 79.

Il Principe Eugenio, facendo segno con il cappello che non aveva ricevuto ferite 80, rialzatosi e nuovamente a cavallo, si era rapidamente recato presso il Reggimento Maximilian Starhemberg schierato sul trinceramento che si stava preparando “ad accogliere” il nemico. Aveva presso di sé i tre pezzi d’artiglieria campale che avevano rinvenuto sul terzo redan e che ora avevano voltato contro il nemico81. La cavalleria francese nell’inseguimento dei fuggiaschi aveva perso buona parte della loro coesione. Inoltre l’avanzata della Brigata Bonnelles era in linea retta; era impossibile, una volta deciso l’attacco, far manovrare i reparti, schierati in questo caso su un fronte di circa 350 metri, a destra o a sinistra, o far cambiare loro improvvisamente direzione. Giunti al trinceramento i cavalieri francesi si fermarono, ammassandosi davanti ai rialzi di terra che non furono in grado di superare, bersagliati dall’artiglieria che gli alleati avevano catturato. Proprio in quel mentre i due battaglioni imperiali del Maximilian Starhemberg, che avevano fatto con eccezionale tempismo conversione alla loro sinistra, avanzarono e, a distanza ravvicinata, aprirono il fuoco contro la massa dei cavalieri. Il Mestre de Camp del Royal-Roussillon, il marchese di Bonnelles, perse la vita in quel momento. Il maresciallo di campo De Muret, che non era allineato nella compatta massa di cavalieri, poté osservare cosa avvenne; In quel momento la colonna di fanteria nemica era entrata sulla nostra sinistra, e, non avendo trovato il nostro fianco coperto da nulla, perché la nostra fanteria si ritirava, ci tirò una salva a bruciapelo, e obbligò la nostra cavalleria a smettere di inseguire i nemici e a ritirarsi indietro.

I francesi, battuti, si ritirarono disordinatamente. Solo gli squadroni che erano rimasti più sulla destra si erano salvati dalla grandine di colpi che era arrivata loro dal fianco sinistro. La brigata era senza più comando e i vari reparti, almeno quelli che avevano mantenuto una certa coesione, cercarono in qualche modo scampo, anche perché nel frattempo il Principe Eugenio stava preparando il suo attacco contro i resti della cavalleria francese.

De Muret si vide solo e senza risorse su quel lato, andai verso sinistra [ossia verso a Stura, poiché si sta ritirando] dove un’altra colonna di cavalleria [il Reggimento Cuirassiers du Roi] stava avanzando grazie al fatto che la strada era sgombra della loro fanteria, come ho avuto l’onore di dire. Per poter raggiungere la nostra [fanteria] che continuava a ritirarsi, fu necessario passare tra due squadroni nemici [della Brigata Grevendorf che si stava spostando in avanti], cosa che feci, e raggiunsi la Brigata La Marine e Auvergne 82. I resti del Royal Roussillon, ritirandosi si incontrarono con ciò che rimaneva del Reggimento Cuirassiers du Roi. Insieme incominciarono ad affluire verso Madonna di Campagna, passando attraverso le maglie della cavalleria alleata che si stava muovendo verso il Po; Il Reggimento Corazzieri del Re[...] fu raggiunto al suo ritorno dal Reggimento Royal Roussillon Cavallerie, che resero tutte e due per qualche momento il destino della nostra destra incerto, sino a quando non furono circondati senza speranza di soccorso, si ritirarono in così buon ordine, che [il nemico] non osò intraprendere nulla contro di loro 83.

Intorno alle 13 la fanteria alleata sulla destra era di nuovo schierata sui trinceramenti francesi che aveva espugnato. Qui i reparti che erano stati scossi dalla carica francese furono riorganizzati e riallineati, in attesa che si concludesse lo scontro della cavalleria che si era nel frattempo sviluppato tra la linea di controvallazione e lo Stura. In quel momento, però, l’esito della battaglia non era più in forse, ma era solo una questione di tempo. Una brigata di fanteria, quella di Bonneval, marciando sui trinceramenti ormai sgombri di nemici, fu spostata sull’ala destra per la spallata finale contro Lucento.

77 C. PAOLETTI, Il Principe Eugenio di Savoia, Roma 2001, p. 312. 78 Memoires de la Derniere Guerre in Italie cit., p. 114; PELET, Memoires militaires cit., p. 678; SOLARO, Journal Historique cit., p. 133. 79 C. ASSUM, Eugenio di Savoia, Torino 1933, p. 150. 80 The Military History cit., p. 148. 81 I nemici avevano lasciato dentro quel redan tre pezzi di cannone che vengono puntati, il più presto possibile, contro di loro. SOLARO, Journal Historique cit., p. 134. 82 Lettera del maresciallo di campo Muret al ministro Chamillart. MENGIN, Relation du Siége de Turin cit., pp. 275-278. 83 Memoires de la Derniere Guerre d’Italie cit., p. 116.

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9.3. L’attacco della cavalleria alleata. Il duca aveva rischiato di essere ucciso. Durante l’attacco ai trinceramenti un colpo di cannone aveva tranciato il

braccio destro al colonnello prussiano Saint-Hippolyte che aveva la funzione di aiutante di campo e che stava a cavallo alla destra di Vittorio Amedeo84. Si era poi recato alle spalle della Brigata Zumjungen al momento dello sfondamento della linea francese. Aveva visto i nemici abbandonare i trinceramenti e subito si era diretto al terzo redan. Qui lo scavo era stato abbastanza approfondito e la sua cavalcatura non riuscì a superare l’ostacolo. Smontò da cavallo per arrampicarsi sul parapetto della fortificazione, seguito da vari ufficiali. Al di là della linea poté assistere all’ultimo tentativo francese di vincere la giornata; Intanto S.A.R. rimonta a cavallo e come si rende conto che i nemici si sono gettati parte sulla loro destra contro la nostra sinistra [questo è l’attacco della Brigata Bonneval], parte della loro sinistra contro la nostra destra [questo è l’attacco della Brigata Bonnelles], e che quelli del centro si stanno ritirando [questa è la fanteria in ritirata su Madonna di Campagna], corre sulla sinistra, dove i nemici sembrano fare maggior resistenza. Trova uno squadrone delle sue guardie del corpo [Gardes du Corp] e due dei dragoni del suo reggimento [Dragoni di S.A.R.] che si stanno radunando al di là del trinceramento, si mette alla loro testa, si scaglia sui nemici prendendoli sul fianco 85.

Tra Madonna di Campagna e la Stura la cavalleria gigliata tentò di riorganizzarsi; i 17 squadroni delle Brigate Chateaumorand (7), Simiane (5) e Bouzols (5) erano ancora intatti. Oltre a queste forze c’erano i resti di due brigate, Bonneval e Bonnelles, 9 squadroni in fase di riorganizzazione. Il Principe Eugenio contro queste forze stava preparando un vero e proprio colpo di grazia. Furono concentrate le Brigate del Generale di Cavalleria Visconti, 26 squadroni delle Brigate Falkenstein (11), Monasterolo (9) e Gravendorf (6) e tutta la seconda linea di cavalleria al comando del Generale di Cavalleria de Langallerie; altri 45 squadroni suddivisi tra le Brigate Sinzerdorff (12), Tornon (9), Battée (8), Wiser (4) e Reising (12). La cavalleria francese fu di nuovo ferocemente caricata dallo stesso Visconti, e dal Signor di Langallerie colla seconda linea, anzi dallo stesso Duca di Savoia, che alla testa de’ Dragoni e delle Guardie Piemontesi pugnava con ardore. Il maggior numero di gente a cavallo oppresse il minore, e la Cavalleria Gallispana della dritta, rotta con istrage, e con prigionia de’ Capi, se ne fuggì, parte di là della Dora, parte attraverso la Stura a Civasso, e poi sul Milanese 86.

Da un punto di vista strettamente numerico, tra i due schieramenti non poteva esserci assolutamente confronto. Il Principe Eugenio aveva concentrato contro 26 squadroni di cavalleria, 9 dei quali erano già stati impegnati in combattimento e sconfitti, qualcosa come 71 squadroni, all’incirca il 70% della cavalleria alleata disponibile. Tra questi vi erano 7 reggimenti di corazzieri imperiali, per un totale di 26 squadroni. Equipaggiati con un pesante elmo e una corazza che copriva loro il torace e la schiena, grazie a queste protezioni godevano nel combattimento serrato di un vantaggio tattico notevole sui reparti francesi.

La cavalleria alleata attaccò per sfondare il nuovo fronte nemico; in altre parole avrebbe tentato di spazzar via quei reparti di cavalleria che si trovavano sulla sua direttrice. A comandare queste forze, però, non c’era il duca di Savoia. Il Principe Eugenio diede il comando della cavalleria dell’ala destra al generale di Cavalleria Annibale Visconti, il quale eseguì perfettamente gli ordini ricevuti. Vittorio Amedeo guidò in prima persona 3 squadroni, che tra l’altro erano pure sabaudi.

Al momento dello scontro, erano circa le 13, i reparti di cavalleria francesi erano fermi o quasi, piuttosto poco desiderosi di impegnarsi in combattimento. La Brigata Bouzols una mezz’ora prima aveva rifiutato di partecipare alla carica della Brigata Bonnelles. In quel momento però si videro costretti a combattere almeno per guadagnare un minimo di tempo e spazio per potersi allontanare indisturbati.

Prima di giungere a contatto le due schiere si scambiarono una scarica con le proprie armi da fuoco; In questa occasione a S.A.R. vengono indirizzati parecchi colpi di arma da fuoco 87. Il pericolo corso dal duca di Savoia fu però più apparente che reale; In un raggio superiore ai cinquanta passi [15 metri] un colpo di pistola e una pietra ben lanciata hanno lo stesso effetto. In un combattimento serrato una pistola scarica è senza alcuna utilità nelle parate di scherma, e l’unica cosa che si può fare è gettarla via, poiché se la risistemi nella sua fondina ed estrai la tua spada, per ricompensa riceverai un fendente sopra il tuo orecchio. Quando il primo rango apre il fuoco con le sue quaranta carabine, spesso non vi è vi è un singolo colpo messo a segno. Possiamo essere sorpresi? Non solo la carabina è troppo pesante per essere maneggiata con una mano sola, ma la truppa di solito spara a lunga distanza quando i

84 Sulle vicende del colonnello di Saint-Hippolye, che sopravvisse alla tremenda ferita, si veda C. PIO DE MAGISTRIS, Lettere di Vittorio Amedeo II nel periodo dell’assedio di Torino 1706, Torino 1914, pp. 56-58, nota 2, dove sono riportate le Memoires du Sieur de Montolieu, baron de S.t Hippolyte contenant un abregé les principaux evenements de la guerre du Piémont. 85 SOLARO, Journal Historique cit., p. 134. Durante i combattimenti che seguirono i Dragoni di S.A.R. catturarono i timballi ad un reggimento francese, definito in seguito Carabinieri di Sillesle. Tale reparto non solo non risulta nell’Ordine di Battaglia francese di Torino, ma sembra che un reparto con tale titolo non sia mai esistito. Probabilmente si trattava del nome del comandante di compagnia. I Dragoni di S.A.R., poi Dragoni di S.M. dal 27 marzo 1713, ebbero il privilegio di sostituire i tamburi, propri della loro specialità, con i timballi catturati. Il 31 dicembre 1726, vent’anni dopo la battaglia, fu ordinata la loro sostituzione con nuovi strumenti con tutti li fornimenti e guarniture alle medeme adiacenti. La sostituzione avvenne l’anno seguente. S. ALES, Le regie truppe sarde 1750-1773, Milano 1989, p. 48. 86 PAOLETTI, Il Principe Eugenio cit., p. 313. 87 SOLARO, Journal Historique cit., p. 134

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cavalli stanno galoppando e gli uomini ne sono scossi, e il bersaglio si muove così velocemente che è abbastanza impossibile prende la giusta mira 88.

I francesi furono caricati frontalmente dalla massa dei 68 squadroni di Visconti e Langallerie, mentre sul loro fianco destro agirono i 3 alle dirette dipendenze del duca di Savoia.

Nell’immaginario collettivo lo scontro tra due contrapposte formazioni di cavalleria avrebbe dovuto comportare l’impatto tra dense formazioni lanciate ad alta velocità, col risultato di ottenere una mischia confusa di uomini e cavalli gli uni ammassati agli altri, sempre più pressati e schiacciati man mano che i ranghi successivi vengono trascinati dal proprio impeto addosso a quelli di testa. Per poter affrontare il nemico occorreva aprire i propri ranghi e ingaggiare combattimento singolo, colpo su colpo, faccia a faccia. Questa modalità di attacco esigeva, per definizione, il consenso di entrambe le parti di battersi e permettere alle formazioni di cavalleria di venire ai ferri corti in maniera efficace; Quando, tuttavia, i due squadroni sono formati da uomini e cavalcature che hanno un’uguale esperienza di guerra e sono ugualmente ben addestrati, la carica si svolge come segue – i ranghi corrono l’uno verso l’altro, i cavalli cercano gli intervalli a loro concessi, i cavalieri ingaggiano un combattimento serrato, e le forze sono così completamente mischiate che i due squadroni si attraversano ed emergono nel retro di ciascuno. Nella mischia il combattimento è deciso dai cavalli più agili e dalle truppe più abili 89.

I cavalieri dovevano contemporaneamente combattere contro il nemico e controllare le proprie cavalcature che noi possiamo immaginare come debbano essere terrorizzate dal metallo lucido e scintillante delle armi, i diversi tipi di esplosioni, il fuoco e il fumo, gli urli di guerra, e il fetore emesso dalle ferite, dal sangue versato e dai corpi 90.

I trattati di combattimento del periodo raccomandavano di impugnare la spada con la lama dritta in linea con il braccio, la coccia a protezione della faccia, e la punta ben protesa in avanti. Questa postura era la migliore per colpire con la punta della spada, il che era ritenuto universalmente il colpo più letale in assoluto; un singolo affondo in un corpo dato con la punta ucciderà un uomo, il che spesso non può essere ottenuto con venti colpi di taglio 91. Ovviamente questa massima andava bene per quei reparti che adottavano lame dritte, adatte a colpire con effetto perforante, quali la cavalleria pesante francese ed alleata. Altre unità, come dragoni e ussari, impiegavano lame curve, la cui specifica era quella di infliggere colpi con effetto tagliente; Quando è al galoppo e un cavaliere attacca il suo nemico con la punta, egli inevitabilmente lo infilzerà. Ma allora dovrà fermare il suo cavallo e interrompere la sua partecipazione all’azione per poter estrarre la spada. Nello stesso tempo un dragone con una lama curva avrà ferito tre o quattro nemici, senza fermare il suo cavallo o smettere di combattere. I nemici non saranno feriti mortalmente, ma saranno messi fuori combattimento, il che è ciò che dobbiamo cercare in battaglia 92.

Nella mischia avvennero scene come questa; Il mio primo colpo colpì un ufficiale nemico e gli staccò il braccio. La mano e la spada piombarono quasi addosso a me, e l’uomo mutilato cadde di sella. Diedi un altro potente colpo al nemico che si presentò, ed egli cadde con il suo cranio spaccato in due. Urlai al Capitano Kladowsky di fare attenzione. Diedi un terzo potente colpo, ma colpii la carabina di un ussaro nemico e la lama si frantumò. Proprio in quel momento un nemico colpì la faccia di Kladowsky, e cadde dalla sella al suolo 93.

Il duca Vittorio Amedeo II rischiò nuovamente di essere ucciso in un duello con un cavaliere avversario; Ha corso il rischio di essere ucciso se un colpo di pistola non avesse preceduto un cavaliere che, dopo averlo mancato una prima volta, stava ritornando su di lui. Il suo scudiero ed il suo maestro di scuderia hanno i cavalli uccisi sotto di loro 94.

La resistenza delle brigate gigliate durò qualche minuto. Mentre il primo rango di ciascun squadrone era completamente impegnata nello scambio di colpi col nemico, il secondo ed il terzo rango, più per il diffondersi del panico che per le perdite subite, si diedero alla fuga.

I cavalieri sconfitti utilizzarono la forza rimanente delle loro cavalcature per allontanarsi il più velocemente possibile. Visconti sospese l’inseguimento, ma gli sconfitti continuarono ad essere tormentati dalle forze del duca di Savoia sin oltre la strada per Leinì, che da Torino tagliava perpendicolarmente il campo di battaglia.

10. La battaglia nella battaglia; Lucento. Mentre alle 12 i prussiani sulla destra stavano forzando il trinceramento avversario, sulla sinistra era sferrato un

secondo assalto contro la sinistra francese. L’intento di questa azione era chiaro; l’attacco di Lucento fu soltanto per tenere occupata la Sinistra francese sin che riuscisse di forzare la trincea nemica, cioè fino a tanto che la Cavalleria allemana vi avesse l’ingresso, poiché allora soverchiando con la superiorità di Truppe a cavallo i Galloispani e feriti i loro capi primarj, non si pensò che allo scampo 95.

88 G.H. BERENHORST, Betrachtungen über die Kriegskunst, Vol. II, Leipzig 1799, pp. 434-435; D’AUTHVILLE, Essai sur la cavalerie tant ancienne que moderne, Paris 1756, p. 309. 89 GUIBERT, Essai général cit., p. 164. 90 MOTTIN DE LA BALME, Éléments de tactique cit., p. 104-105. 91 M. GRANDMAISON, La Petite Guerre, ou Traité du service des troupes légères en Campagne, Paris 1756, p. 21. 92 JENEY, Le Partisan, ou l’art de faire la petite guerre, Le Hague 1759, p. 17. 93 DUFFY, The Military Experience cit., p. 226. L’episodio si riferisce ad un combattimento della Guerra di Successione d’Austria, ma rappresenta un dei più dettagliati resoconti di una azione di cavalleria del XVIII secolo. 94 SOLARO, Journal Historique cit., p. 134. 95 ASTO, Corte, Museo Storico, Relazione dell’assedio, della difesa e liberazione di Torino dall’esercito francese, p. 15.

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I francesi avevano ricevuto rinforzi; 30 squadroni di dragoni smontati erano giunti dal settore Po-Dora Riparia, insieme a due battaglioni di fanteria96.

L’attacco alleato fu respinto; il fuoco che giungeva dal trinceramento era troppo violento perché potesse esser superato. Il maresciallo Marsin, che già aveva avuto il proprio cavallo ucciso, era sui trinceramenti ad incitare i soldati, quando un proiettile di fucile lo colpì ad una coscia, ferendolo mortalmente97.

Alle 12.30 fu effettuato un altro tentativo, anch’esso destinato al fallimento. Gli assalti sferrati dal Barone di Rehbinder e dal Principe di Saxe-Gotha ai trinceramenti e al castello di Lucento volevano guadagnare tempo ed impegnare truppe nemiche, cosa che stava riuscendo loro piuttosto bene. Gli attacchi non erano sferrati simultaneamente; il cattivo fondo del terreno, la diversità degli obbiettivi a loro assegnati – una potente struttura fortificata al principe di Saxe-Gotha e un tratto di trinceramento al Rehbinder – fecero sì che i due comandanti alleati coordinassero piuttosto male i loro sforzi contro il dispositivo francese.

Le robuste mura del castello di Lucento, sul quale la difesa dell’ala sinistra era impostata, con le difese accessorie erette a sua difesa, rappresentavano una minaccia mortale per qualsiasi reparto di cavalleria nemica si fosse avventurato nei pressi, senza contare che costituivano una difesa impenetrabile ai pezzi reggimentali a disposizione della fanteria alleata. Rehbinder e Saxe-Gotha poterono fare dunque a meno della cavalleria alle loro spalle, che fu inviata all’ala sinistra che, nel frattempo, aveva avuto ragione della destra francese. La solidità, le dimensioni e la complessità di Lucento e dei fabbricati annessi, unite all’entità della guarnigione del castello, lo rendeva quasi imprendibile alle fanterie alleate. La difesa di Lucento divenne “una battaglia nella battaglia”, combattuta per tutta la durata della giornata da due cospicue formazioni che praticamente non ebbero parte né si interessarono a quant’altro stava accadendo in altre parti del campo. La caduta del castello non avvenne per una azione offensiva del nemico, ma fu abbandonato dai suoi stessi difensori. Durante il terzo assalto ai trinceramenti, i fanti di Rehbinder erano stati respinti, uno dei suoi comandanti di brigata, il feldmarchall-lieutenant Georg Friedrich Freiherr von Kriechbaum, fu ferito, ma gli alleati erano riusciti a mettere a segno un colpo fortunato. Una palla di fucile aveva colpito all’avambraccio sinistro il duca di Orléans. Non era una ferita grave, ma fu più che sufficiente per metterlo fuori combattimento98. Il comando francese si era di fatto dissolto in quel mentre.

La notizia che gli alleati avevano forzato la destra e il dolore al braccio fecero abbandonare la partita all’Orléans. Considerando la battaglia ormai perduta, diede disposizione a Saint-Frémont di ritirarsi oltre la Dora Riparia e abbandonare Lucento e, si recò a farsi medicare le ferite. Anche il Marsin si allontanò in quel momento. S.A.R., vedendo che non aveva più mezzi per recuperare la situazione, se ne andò a farsi medicare le sue ferite, come il Signor maresciallo di Marcin, e mi ordinarono, partendo, di raccogliere quello che potevo delle truppe, e di fare una azione di retroguardia. Rimase vicino a me il Signor cavaliere di Luxembourg, che mi fu di grande aiuto, per fare con ordine una delle più belle retroguardie che abbia mai visto 99.

Giungeva nelle linee alleate il Principe Eugenio, dopo aver veduto il General Visconti co’ Corazzieri dar addosso à nemici; cavalcò frettolosamente alla sua dritta verso la Dora e recate colà buone nuove della sinistra mezzo vittoriosa, rinvigorì i suoi a nuovo assalto, col quale sormontarono le rimanenti trincee 100.

Mentre i francesi si ritiravano, gli alleati superavano, al quarto assalto, i trinceramenti. Erano le 13 circa, un’ora e mezza dal primo attacco. Saint-Frémont doveva però ora gestire al meglio il traffico sui due ponti che intendeva utilizzare per far affluire sulla riva destra della Dora Riparia 14 battaglioni di fanteria e 52 squadroni. Aveva forze abbastanza numerose per resistere efficacemente, tuttavia doveva fare presto; non era detto che da un momento all’altro l’intero esercito alleato non si rovesciasse sulle sue truppe. Dopo le 13, a conferma delle sue preoccupazioni, stavano giungendo in zona i battaglioni della Brigata Bonneval e i 1.500 fanti della guarnigione di Torino, che attaccarono la truppa francese disposta intorno alla Cascina Scaravella, presso la quale catturarono il luogotenente generale Philippe de Valois de Villette, marquis de Murcey101. Il comandante francese accelerò le operazioni di ritirata e sgombero, deciso

96 I due battaglioni appartenevano al Rgt. Royal des Vaisseaux, 1° btg. (?), e Lyonnais, 1° btg. Gli altri 3 battaglioni, 2 del Royal des Vaisseaux e 2° del Lyonnais, rimasero sulla riva sinistra della Dora Riparia. 97 Il Marsin fu ferito durante il secondo attacco alleato alla sinistra, dopo l’azione dell’Orléans con la Brigata Rouvray, azione nella quale il duca ricevette un colpo all’anca, ma prima che questi fosse colpito al braccio durante il terzo assalto nemico. Si veda la lettera del duca di Orléans al Re, MENGIN, Relation du Siége de Turin cit., pp. 261-264. Colpito ad una coscia, fu trasportato nei suoi quartieri alla cascina La Losa, dove rimase prigioniero sulla parola. Il duca di Savoia inviò un suo chirurgo, che gli amputò la gamba ferita. Tuttavia questa operazione non migliorò la situazione, e il maresciallo di Francia si spense la mattina dell’8 settembre 1706. D. McKAY, Eugenio di Savoia. Ritratto di un condottiero 1663-1736, Torino 1989, p. 120. 98 M. il duca di Orléans, che fece meraviglie, è stato ferito da due colpi assai gravi, uno all’anca e l’altro all’avambraccio. Saint-Léger, il suo primo valletto di camera, che recò queste notizie, disse che la ferita al braccio è assai dolorosa e sarà lunga a guarire. Lardy, il suo chirurgo, scrisse a Madame [la madre del duca di Orléans], il 9 al mattino, che egli crede che il piccolo osso [cùbito] sia stato toccato; ma egli assicura che non rischia alcun pericolo per la vita. Come volevasi dimostrare, appena arrivato a Oulx in Val Chisone, fu costretto a fermarsi. Il 18 settembre la ferita si dimostrò assai più grave di quello che si era ritenuto in un primo tempo. Il cubito era stato effettivamente toccato dal proiettile ed era sopraggiunta la febbre. Gli fu somministrato dell’oppio per lenire il dolore. Il 24 fu dichiarato fuori pericolo, ma nei giorni precedenti gli sarebbe stato amputato il braccio se lo si fosse creduto in grado di sostenere l’operazione: la cancrena era il suo pericolo. E’ sempre a Oulx; l’aria è assai cattiva, ma non lo si potrà trasportare prima di otto giorni. Il 14 ottobre era a Briançon definitivamente guarito e in grado di riprendere il comando dell’Armata d’Italia. Journal du Marquis de Dangeau cit., pp. 204, 219 99 Lettera del luogotenente generale De Saint-Frémont al ministro Chamillart, in MENGIN, Relation du Siége de Turin cit., p. 265. 100 PAOLETTI, Il Principe Eugenio cit., p. 313. 101 Relation du Siége, défence et Libértion de la Ville et Citadelle de Turin dressée par un Officier de la Garnison (M. Hakbrett) sur les Mémoires tirés du Journal du Général Daun, in Relazioni e documenti sull’Assedio di Torino nel 1706. Raccolti, pubblicati, annotati da Antonio Manno, in Miscellanea di Storia Italiana, Tomo XVII, secondo della seconda serie, Torino 1878, p. 457.

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a lasciare meno materiali possibile agli alleati. Nel ripassare i ciglioni del castello di Lucento e i due ponti sulla Dora, feci ritirare a braccio tutti i cannoni che erano nelle ridotte di Lucento, in seguito feci rompere i due ponti e mi andai a schierare a battaglia, avvicinandomi alle truppe che il Signor de Chamarande aveva riunito lungo una scarpata [il ciglione destro della Dora]102.

I 22 squadroni di cavalleria ancora montati non ebbero troppa difficoltà a superare la Dora; il fiume era in magra e guadarlo non fu un’impresa particolarmente difficile. I 30 squadroni di dragoni che erano stati fatti smontare persero invece tutte le loro cavalcature, ma riuscirono comunque a guadagnare la riva destra103. La fanteria soffrì maggiormente. Dei 14 battaglioni presenti, 3 non riuscirono a sganciarsi e furono in parte distrutti, in parte fatti prigionieri. Il 2° battaglione del Reggimento Piémont, anziché ritirarsi verso la Dora, era rimasto tagliato fuori mentre ancora difendeva le opere del Castello di Lucento, che nel frattempo era stato incendiato104, con un battaglione del Reggimento Normandie, presumibilmente il 3°. Un battaglione del Reggimento Royal des Vaisseaux (probabilmente il 1°), che si era recato sulla riva sinistra della Dora, era stato assegnato alla difesa dei ponti105. Asserragliato nella cascina Tana e nelle vicine ridotte, fu fatto a sua volta prigioniero. Questi reparti cedettero per varie ragioni. I ponti erano affollati da materiali e truppa in ritirata; Saint-Frémont aveva deciso di portare in salvo l’artiglieria presente a Lucento e nelle fortificazioni campali accessorie. Così facendo impedì alle sue truppe di utilizzare i ponti, e privò le unità che dovevano presidiare la testa di ponte della potenza di fuoco dei cannoni che sino a quel momento avevano rappresentato uno strumento decisamente efficace per contrastare gli attacchi nemici. La confusione, la ritirata e la ressa dei ponti fu comunque uno shock psicologico piuttosto grave per quei reparti che sin dalla mattinata stavano difendendo valorosamente Lucento. Abbandonare il loro “territorio” così duramente conteso al nemico li rese particolarmente ben disposti alla resa. Oltretutto in questo combattimento di retroguardia era di fatto impossibile, per le tre unità francesi, potersi sganciare e attraversare a loro volta i ponti. Saint Frémont, quando vide che non vi era possibilità per i tre battaglioni di sottrarsi alla pressione nemica, distrusse i ponti. A quel punto le unità gigliate, tagliate fuori, cessarono ogni resistenza di fatto ormai del tutto inutile106. Anche gli alleati stavano ormai rallentando i loro sforzi contro il presidio; Si spedì ordine all’Infanteria dell’Ala destra di non attaccare Lusenta, benche già vi stava sotto il fuoco, ma giachè il Nemico cominciava ormai à fuggire, per risparmio della gente se ne astenesse 107.

Alle 13.30 il trinceramento francese tra Stura e Doria Riparia era completamente in mano alleata. 11. La battaglia degli ufficiali.

Il Principe Eugenio e il duca Vittorio Amedeo II rischiarono di essere uccisi nel corso dell’azione. I due

comandanti supremi francesi, il duca di Orléans e il maresciallo Marsin, furono uno seriamente e l’altro mortalmente feriti. La distanza dal nemico a cui si ponevano sul campo di battaglia era, per forza di cose, ridotta. Volenti o nolenti dovevano stare vicino ai punti dove si combatteva così da poter vedere ciò che accadeva e poter reagire per tempo, dato che i mezzi di comunicazione si limitavano a messaggeri a cavallo e segnali tromba o tamburo. Degli ufficiali francesi comandanti di brigata, quattro furono feriti (i marescialli di campo Villiers, la Bretonnière, Senneterre e, in questo caso mortalmente, il luogotenente generale Murçey e il maresciallo di campo Kerkado) e uno ucciso (Bonnelles). Tutti si spostarono quel giorno a cavallo, rimanendo in sella in alcuni casi per oltre 10 ore consecutive.

I comandanti e gli ufficiali superiori non erano assolutamente esentati dai pericoli oggettivi della battaglia. Non era un dovere del comandante rischiare la vita, ma doveva dare esempio di coraggio personale quando la situazione lo rendeva necessario. Il coraggio che gli ufficiali dovevano dimostrare sul campo non consisteva nell’abilità o la spavalderia con le quali infliggeva la morte al nemico, ma il fatto che ricevesse ferite, dimostrazione che veniva sottolineata dal suo rifiuto ad abbandonare il posto anche se colpito, come il Marsin che lasciò il suo posto di comando solo con il duca di Orléans. L’onore di un graduato era reso indiscutibile dalla puntigliosità con cui obbediva a ordini che rendevano inevitabili ferite o la morte. Gli ufficiali, insomma, erano preoccupati soprattutto dalla figura che

102 Lettera del luogotenente Saint-Frémont al ministro Chamillart. MENGIN, Relation du Siége de Turin cit., pp. 264-265. 103 H. CHOPPIN, Histoire Générale des Dragons, depuis leur origine jusq’à l’Empire, Parigi 1879, p. 245: 4 Caylus (Lautrec); 3 Dauphin; 3 Hautefort; 3 Languedoc; 3 Fimarcon; 3 Rannes; 3 Belle Isle; 3 Du Heron (Bourneuf-Vessè); 3 Belabre; 2 Bozelli. 104 PELET, Memoires militaires cit., p. 668. 105 SUSANE, Histoire de l’Infanterie cit., Vol. III, p. 59. 106 Notizie di questi reparti catturati si trovano in Diario dell’Assedio di Torino 1706, ASTO, Corte, Storie della Real Casa, Categoria III, Mazzo 20, pp. 35-36. Il Reggimento Royal des Vaisseaux è segnalato semplicemente come Royal. Non si tratta del reggimento Royal, impegnato in quel periodo prima sul Reno e poi nelle Fiandre, né il Royal Comptois, che non partecipò alla battaglia; Ragguaglio Giornale dell’Assedio di Torino cominciato li 13 maggio 1706 e liberazione del medesimo seguita li 7 settembre del medesimo anno. Manoscritto finora inedito pubblicato e commentato dal Dott. Costantino Coda torinese, Torino 1906, p. 129. Il Reggimento Piemont perse, uccisi in combattimento, i luogotenenti Chabertan e Limars. Fu fatto prigioniero il luogotenente colonnello De la Feuillade, con un Capitano, un Luogotenente e un Alfiere. Dei 1350 uomini impegnati, 531 andarono persi in combattimento e nella seguente ritirata. Il Normandie combatté strenuamente per la difesa di Lucento, perdendo tre comandanti di compagnia, i capitani Charvagnal, Saint-Geroges e Montalambert, oltre a numerosi altri ufficiali inferiori e 545 uomini di truppa. Il Royal des Vaisseaux perse un Luogotenente catturato e ben 882 uomini di truppa; oltre il 60% della forza originaria! Il Reggimento Lyonnais, il cui 1° battaglione era stato impegnato sulla riva sinistra della Dora Riparia, l’8 settembre 1706, contava a Pinerolo la perdita di 394 uomini, circa il 45% del totale. CODA, Ragguaglio Giornale cit., p. 169; MENGIN, Relation du Siége de Turin cit., pp. 278-280; SUSANE, Histoire de l’Infanterie cit., Vol. II, pp. 268, 435; SHAT, Registre de réception des militaires invalides, Vol. 2Xy/16, atto 18251. 107 ASV, Segreteria di Stato, Avvisi 72, Foglio Straordinario. 25 settembre 1706. Relazione distinta della gran Vittoria ottenuta contro li Francesi sotto Torino, colla liberazione dell’Assedio di quella Capitale, contenuta tutta nella continuazione del Diario dal Campo Cesareo sotto il Seren. Principe Eugenio, appresso detto Torino dalli 26 di Agosto, fino alli 10 di Settembre 1706.

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facevano agli occhi degli altri colleghi gallonati. L’onore aveva assoluta supremazia, ed era confermando la propria onorabilità davanti ai commilitoni che si esercitava, per via diretta, il comando sui soldati semplici.

La trasmissione degli ordini e la ricezione dei rapporti dal campo di battaglia dipendevano quasi totalmente dagli aiutanti di campo, che è un ufficiale che serve con un generale, e porta i suoi ordini ovunque sia necessario 108. Il classico aiutante di campo era solitamente un giovane nobile, dotato di una veloce cavalcatura. Questo incarico, per quanto pericoloso potesse essere in determinati frangenti, era particolarmente ambito presso quei giovani gentiluomini che desideravano rifuggire il grigiore e le fatiche della vita reggimentale. In breve la loro funzione era quella dei vasti apparati radio e trasmissioni degli attuali eserciti.

Questi ufficiali parlavano con l’autorità del comandante in capo nel trasmettere gli ordini, ed era più importante che comprendessero il senso dell’istruzione che dovevano trasmettere, piuttosto che riportare le parole del comando alla lettera.

Nel momento in cui due eserciti si scontravano, il comandante in capo era di fatto incapacitato a fare di più di ciò che faceva uno dei suoi subordinati. Non poteva essere ovunque, non poteva sovrintendere a ogni evento che accadeva e non poteva assistere ad ogni cosa. Una volta iniziato il combattimento ogni cosa ricadeva sui generali a lui subordinati. Così fece il Principe Eugenio, che personalmente comandò solo l’azione del Reggimento Maximilian Starhemberg contro la Brigata Bonnelles, così fece il duca di Orléans, che si dedicò alla difesa del centro della linea, delegando ai sui generali la difesa della linea di circonvallazione. Travolti dalla fuga dei loro stessi uomini, i comandati francesi, in particolare il Saint Nectaire e il de Murcey, si trovarono isolati, alla testa di raparti raccogliticci e sbandati, senza alcuna speranza di raggruppare un numero sufficiente di truppe per bloccare l’avanzata nemica e di poter ricevere aiuti.

12. Disgregazione. Alle 13 l’ala sinistra francese si stava ritirando e la cavalleria alleata stava di fatto distruggendo quella gigliata

dell’ala destra. In questo settore il maresciallo di campo De Muret era riuscito a imbastire una nuova improvvisata linea di difesa lungo la strada tra Venaria e Torino. L’ufficiale aveva raggiunto con il Reggimento Royal Roussillon e Cuirassiers du Roi la Brigata La Marine. Li fermai sul campo, e avendo trovato una strada fiancheggiata da una siepe, li rimisi in battaglia col fronte rivolto verso il nemico. La mia cavalleria si allineò sul mio fianco destro, e, siccome come essa era un pò più indietro rispetto alla mia fanteria, misi i reggimenti Beauvoisis e Berry, che mi raggiunsero in quel momento, perpendicolarmente, per unire le mie truppe le une alle altre. Questo schieramento fermò il nemico, che non poté più penetrare sul mio lato. La Brigata Perche si rifiutò di fermarsi e proseguì la sua ritirata verso Po. [Il colonnello del La Marine Le Guerchois] fece chiamare la brigata vicina che lo doveva sostenere, di avanzare per far fronte con la sua, e impedire di essere travolto da un più grande numero di battaglioni freschi che venivano addosso a lui per la quarta volta. Questa brigata, e il suo brigadiere, del quale fu dimenticato il ricordo, rifiutò 109. De Muret poteva a quel punto contare su almeno 5 battaglioni di fanteria, 6 squadroni di cavalleria e sulla speranza di un sostanziale aiuto da parte dell’ala sinistra. Il nemico, in parte ancora in fase di riorganizzazione dopo le cariche della Brigata Bonnelles, era impegnato nella distruzione della cavalleria dell’ala destra, a sinistra si stava dedicando alla presa di Lucento, e per il momento decise di non ingaggiar le truppe di De Muret, che, tra l’altro, non aveva più la sua destra appoggiata ai trinceramenti, e non era di ostacolo per le comunicazioni e il transito di rinforzi tra le due ali alleate. Il gruppo De Muret era rimasto tranquillo per oltre un’ora; nessun segno offensivo da parte degli alleati, nessuna notizia dal duca di Orléans, che in quel momento aveva già abbandonato il campo di battaglia. Rimasi così sotto il loro fuoco un’ora e più per attendere notizie da sua altezza reale, e non vedendo alcuno dalla sua parte, ed essendo il soccorso entrato [si era ormai stabilito il contatto tra la guarnigione di Torino e l’armata alleata], ed essendosi quello [il duca di Orléans] ritirato, io pensai alla mia ritirata, tutto il resto della fanteria [nemica] venne ad attaccarmi. La feci [la ritirata] col favore della nostra linea di controvallazione, mi servii della terra del fossato come di una banchetta, e ritirai le truppe in buon ordine, malgrado tutte le cannonate dei nemici. Ormai il gruppo De Muret era l’ultima forza francese organizzata tra Stura e Dora; alle 14 le Brigate Hagen, Stillen e Zumjungen cercarono di travolgere i battaglioni e gli squadroni francesi disposti nella loro improvvisata linea difensiva, i quali furono però abili a sottrarsi alla scontro, sfruttando la protezione che veniva loro dalla linea di controvallazione. Marciarono però al rovescio, utilizzando come banchetta di tiro i riporti di terra del fossato, mettendo tra loro e il nemico il ramparo del trinceramento.

La parte finale della battaglia fu un unico grande inseguimento da parte degli alleati, contrastato più o meno ferocemente a seconda della disponibilità o meno dei francesi di arrendersi.

Un buon numero di soldati, singolarmente o a piccoli gruppi, aveva abbandonato il trinceramento mentre ancora erano in corso i combattimenti lungo i trinceramenti. Questi si erano in parte diretti verso i ponti del Po, in parte si erano sistemati all’interno delle numerose cascine presenti sulla piana tra Stura e Dora. Il duca, dopo aver respinto i resti della cavalleria gigliata oltre la strada Torino-Leinì, giunse con il suo gruppo da battaglia, composto dai 2 squadroni del Reggimento Dragoni di S.A.R. e da uno squadrone delle Gardes du Corps, sino al Parco Vecchio, dove, impiegando anche qualche pezzo di artiglieria campale, riuscì ad occupare la cascina La Gioia del Vecchio Parco,

108 D’AUTHVILLE, Essai sur la cavalerie cit., p. 6. 109 SUSANE, Histoire de l’Infanterie cit., Vol. III, p. 21. In effetti la Brigata La Marine sostenne lungo tutta la giornata quattro attacchi alleati, dei quali i primi due furono respinti.

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posizione assai importante poiché gli consentiva di mettersi in comunicazione con la città di Torino. Sin da mezzogiorno la guarnigione di Torino stava partecipando allo scontro. La cavalleria iniziò a percorrere le retrovie francesi, cercando di fare prigionieri per comprendere cosa stesse avvenendo sul campo di battaglia, in attesa di avvisare il governatore Daun del momento propizio per intervenire. Alle 13 era ormai chiaro che la destra francese era stata sfondata, e che i 1.500 fanti potevano ormai concorrere attivamente ai combattimenti, spostandosi verso i ponti di Lucento.

Tuttavia, mentre aumentava il traffico di soldati sbandati verso i ponti di Po, né Vittorio Amedeo né Daun osarono proseguire più a fondo i loro attacchi; né fu stimato buon consiglio di proseguire i fuggiaschi, perché tutte le Cassine d’intorno erano piene di Fanteria, ch’erasi colà ricoverata nella fuga 110.

A conti fatti, erano sparsi tra la strada di Leinì ed i ponti i relitti di due brigate di fanteria e cinque di cavalleria, mentre cinque battaglioni e gli 11 squadroni delle brigate Cardenas e Uzès erano di presidio alla linea di controvallazione. Oltre queste forze erano ancora presenti le truppe del gruppo De Muret, 5 battaglioni e 6 squadroni, che intorno alle 14 erano in ritirata verso Po, dove giunsero senza troppi danni. Si trattava pur sempre di forze troppo numerose confronto a quanto disponeva Vittorio Amedeo, che per il momento si limitò a tormentare il nemico, portandosi con la sua cavalleria sulle rive di Po a monte dei ponti di barche. Questi erano troppo ben presidiati, anche con il concorso tardivo di parte delle truppe dell’Albergotti; tuttavia il duca tentò di distruggerli preparando dei fuochi d’artificio su dei piccoli battelli, che abbandonati senza guida alla corrente, dovrebbero dar fuoco ai ponti; ma non si produce l’effetto desiderato perché o il fuoco è troppo svelto ad accendersi dentro questi marchingegni, o l’acqua non ha sufficiente forza per trascinarli 111.

La situazione cambiò con la ritirata definitiva del gruppo De Muret. Il brigadiere francese, totalmente isolato ed ignaro di ciò che stava avvenendo su tutto il settore Stura-Dora Riparia, fece attraversare il Po ai suoi uomini, la cavalleria passò il Po al guado, la fanteria sui ponti della Dora e del Po, che feci in seguito rompere 112. Così facendo condannò senza rimedio cinque battaglioni di fanteria. La cavalleria di presidio ai ponti passò il fiume guadando, approfittando della secca estiva, ma la fanteria era rimasta completamente isolata. Cinque battaglioni, due del Marchesato del Monferrato, Guardie del duca di Mantova e Beltrambi, e i tre del Reggimento Dauphin, furono costretti alla resa113. La loro resistenza, non appena si videro abbandonati, fu quasi ovunque piuttosto debole ed intere compagnie si arresero o al gruppo d’assalto del duca di Savoia o alle forze del Daun; Sola dunque rimaneva a superare la controvallazione, ch’ora un’incatenatura di ben trenta Forticelli uniti insieme con una specie di cortine. Aveva ciascun d’essi il suo Presidio per lo meno di 60 uomini; ma in molti ve ne aveva fin’a duecento. La maggior parte d’essi alla prima intimazione d’arrendersi prigionieri a discrezione ubbidirono, e due soli vi furono, che vollero aspettare la voce del cannone 114. Tra i prigionieri vi fu anche il maresciallo di campo Henri de Saint-Nectaire, ferito mentre sta facendo tutto il possibile per riallineare e tranquillizzare i suoi spaventati soldati. Poi, non pensando mai più di trovare delle nostre truppe là dove non potevano essercene che delle loro, si imbatté in un piccolo distaccamento della nostra cavalleria che lo porta prigioniero dentro Torino 115.

I francesi poterono arrendersi con una certa sicurezza; la battaglia, per loro, era inequivocabilmente persa, e ora gli alleati potevano concedere loro vita salva. Solitamente non si facevano prigionieri sino a quando la vittoria non era di fatto certa. I prigionieri erano accettati dopo che i combattimenti andavano scemando, oppure se i reparti che si arrendevano non avevano inflitto gravi perdite agli attaccanti, come appunto i reggimenti dislocati nella linea di controvallazione. Pochi di quelli che si arrendevano singolarmente potevano essere sicuri di essere risparmiati; i più si radunavano assieme per una maggiore protezione. La massa garantiva, almeno psicologicamente, una protezione migliore alla violenza dell’avversario.

Alle 16 non vi era più una sola unità francese in grado di combattere tra Stura e Dora Riparia. Anzi, come un unico grande reparto in rotta, le truppe schierate nel settore Dora Riparia-Po iniziarono a disgregarsi e a darsi alla fuga. I primi sintomi di disgregazione si ebbero già verso mezzogiorno, quando comparvero i primi soldati sbandati dal campo di battaglia, e le voci che recavano non erano quelle di vittoria. I generali francesi superstiti avevano deciso l’abbandono completo delle operazioni ossidionali e il ripiegamento su Pinerolo, consegnando di fatto al nemico tutto il materiale

110 TARIZZO, Ragguaglio Istorico cit., p. 80. 111 SOLARO, Journal Historique cit., pp. 135-136. 112 Tutta la relazione del brigadiere Muret è trascritta in PELET, Memoires militaires cit., pp. 656-658. 113 Il Reggimento Guardie del duca di Mantova, altrimenti conosciuto come Monferrato, era comandato da Prospero Gonzaga, marchese di Luzzara. Il Gonzaga era stato ucciso in combattimento il 22 dicembre 1702 a Governolo. Fu sostituito nel 1704 dal Signore De Jaucourt de la Vaiserie. Distrutto a Torino, fu definitivamente cassato il 9 ottobre 1706. Il Reggimento Beltrambi, levato il 20 maggio 1705, fu anch’esso quasi interamente catturato il 6 settembre 1706, e fu ufficialmente sciolto il 9 ottobre 1706. Il Reggimento Dauphin, su una forza di 1350 uomini, contò alla fine della battaglia 1.200 perdite, finendo virtualmente distrutto. Una delle sue bandiere è ancora oggi conservata all’Armeria Reale di Torino (O. 15). Un altro reggimento, la cui storia operativa è quasi del tutto sconosciuta, distrutto nel corso della campagna in Piemonte del 1706 è il Reggimento Siougeat. Levato una prima volta il 6 dicembre 1695 e sciolto il 18 novembre 1698, fu ricostituito il 7 gennaio 1702. Dopo aver combattuto agli assedi di Vercelli, Ivrea e Verrua fu inviato a Torino. Il suo diario reggimentale laconicamente recita; Distrutto nel 1706 a Torino. SUSANE, Histoire de l’Infanterie cit., Vol. V, p. 343. 114 TARIZZO, Ragguaglio Istorico cit., p. 81. 115 Il Saint-Nectaire, detto “il marchese di Seneterre”, fu ferito mentre combatteva all’ala destra. Fu travolto nella rotta dell’ala destra e fu catturato mentre vagava, evidentemente senza scorta, nelle retrovie. SOLARO, Journal Historique cit., pp. 134-135. Ovviamente enfatizzò alquanto l’importanza avuta dalla cavalleria della guarnigione, che lo aveva catturato, nelle fasi conclusive della battaglia. EFISIO-TROS, Di tre lettere inedite cit., pp. 12-13.

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d’assedio, ad eccezione di qualche pezzo da campagna; furono spezzati, o incendiati, gli affusti dei cannoni e dei mortai e fatti esplodere i magazzini di polvere.

La battaglia era tecnicamente finita, ma intorno a Torino ancora si combatteva. L’armata gigliata in fase di ritirata era tallonata dalla cavalleria, mentre sulla collina le truppe dell’Albergotti continuavano a tenere la posizione.

Di una cosa si era però certi; l’assedio era stato spezzato ed è così che in quattro ore di tempo che noi abbiamo perduto il frutto di sei Campagne, ad uscire da un paese che ci era costato quasi quattrocentomila uomini...116

13. La morte e la vittoria. Il Duca di Savoia e il Principe Eugenio nello stesso tempo andarono a osservare le linee nemiche, e diedero gli

ordini necessari in queste occasioni per assicurare i Magazzini e le Munizioni, accampare le truppe, e per prevenire la licenziosità e il disordine nei quali piomba un esercito quando inizia il saccheggio. Impiegarono per questo fine due o tre ore: dopo questo entrarono in città attraverso un’immensa folla di gente, e andarono in Cattedrale 117.

Così terminata gloriosamente l’azione, S.A.R. col Principe Eugenio, e gli altri Principi, e Generali verso la sera entrò in Torino frà le acclamazioni di tutta la Città giubilante al rivedere il suo Sovrano salvo frà tanti pericoli, e vittorioso de’ suoi Nemici. Sotto lo sbarro dell’artiglieria, e il suono di tutte le Campane andossone Ella a dirittura col suo accompagnamento alla Chiesa Metropolitana di S. Giovanni, ove da Monsignor’ Arcivescovo, e dal Capitolo si cantò privatamente il Te Deum in azione di grazie a Dio per l’ottenuta vittoria. Vedevasi a correr da tutte le parti il Popolo ansioso di godere della vista del suo Sovrano, e degli altri suoi Liberatori 118. Ma ecco S.A.R. con il Principe Eugenio che si avvicinano alle nostre mura al suono delle campane ed al rumore dei cannoni. Entrano, fra le acclamazioni del popolo, dalla Porta di Palazzo, chiamata Porta della Vittoria, sono seguiti da molti Principi, Generali e dai primi Ufficiali dell’armata 119. I comandanti alleati si stavano godendo il loro trionfo, acclamati dalla popolazione torinese che vedeva in quella processione di principi e ufficiali la fine delle privazioni dell’assedio.

Per i soldati che avevano combattuto, però, non fu affatto festa. L’esercito alleato, esausto, passò la notte sul campo di battaglia. Lo stress della battaglia fu sentito anche dagli ufficiali. Il principe di Anhalt Dessau era stato sin dalle prime fasi dello scontro in prima linea, e per sua buona sorte non era stato colpito né ferito. I suoi nervi erano comunque assai scossi. Distrutto dalla fatica e dal caldo avvenne che entrando per Porta Palazzo colle vesti in disordine e sordide di polvere e di sangue, tutto trafelato e riarso entrasse in un caffé che era di una tale vedova Arignano, e là fra lo stupore dei fattorini, della padrona e degli accorrenti, quasi fuori di sé, vuotasse a furia bocce d’acqua, e facesse gran guasto di vasi e cristalli 120.

Mentre il comandante prussiano distruggeva il locale, per poi recarsi rifocillato in duomo ad ascoltare il Te Deum, i suoi uomini, gli altri soldati alleati e i prigionieri francesi in loro custodia erano sfiniti dalla tensione e dagli sforzi fisici della giornata al punto da non poter far altro che non fosse buttarsi a terra e dormire, anche se molti uomini si dedicarono al saccheggio. Uccidevano i feriti che capitavano loro, derubando e spogliando i corpi, amici o nemici che fossero. I morti perdevano calze, scarpe, camicie, divise, ed erano abbandonati completamente nudi.

Il panorama del campo di battaglia era anche percorso da soldati in cerca di legna per cucinare qualcosa – erano digiuni dall’alba – oppure impegnati a spostare morti e feriti a parte, in modo tale da ricavare un minimo di spazio per dormire. Non è la questione di essere duri di cuore, anche se sei un autentico villano. Ma quando sei così felice di essere scampato alla giornata divieni un pò insensibile 121. Tanta indifferenza alle sofferenze che si vedevano attorno, può essere spiegata con l’intervento di un meccanismo di difesa mentale. Per quanto stanchi fossero i soldati, difficilmente lo erano al punto da non sentirsela di non prestare neanche un aiuto di emergenza ai feriti. Eppure nulla fu tentato sino al levare del sole dell’8 settembre. Solo in quella giornata si portarono le prime cure ai feriti, anzi in Torino ci si accorse solo allora dell’esistenza di un esercito di liberazione che il giorno prima non aveva varcato con i suoi comandati le mura della città. Può sembrare un comportamento spietato, ma concorda con quanto ci è noto degli atteggiamenti umani in situazioni di disastro; quando maggiori sono le devastazioni e il numero delle vittime, maggiore è nei superstiti impotenza, frustrazione e il senso dell’inerzia. Le battaglie sono, per chi vi combatte, dei disastri. Su una fascia di terreno larga mediamente 3 km e profonda 6 giacevano i corpi di oltre 6.000 uomini, molti dei quali feriti gravemente e in preda a terribili sofferenze.

Se la vista soffriva nel vedere lo strazio che il campo di battaglia mostrava, nella calura estiva l’olfatto era contemporaneamente assalito dalle fetide esalazioni dei corpi spaccati e dall’odore acido del sangue coagulato. Lo spettacolo del terreno poteva essere di qualche interesse per quegli ufficiali capaci di dimostrare un minimo di distacco professionale. I corpi dei reparti più disciplinati giacevano in linee regolari, ammucchiati dove si erano ammassati per l’attacco, oppure isolati su un’area più vasta là dove c’era stata un’azione di cavalleria. Nondimeno, se gli uomini sotto il tuo comando vedono i loro camerati lasciati senza sepoltura, crederanno a buon ragione che saranno trattati con lo stesso disprezzo se accadrà loro di morire 122. I soldati raramente avevano l’opportunità si comporre i loro amici nel

116 Memoires de la derniere guerre in Italie cit., p. 117. 117 The Military History cit., pp. 154-155. 118 TARIZZO, Ragguaglio Istorico cit., pp. 82-83. 119 SOLARO, Journal Historique cit., p. 138. 120 D. CARUTTI, Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Firenze 1863, p. 299. 121 C. J. LIGNE, Fragments de l’historie de ma vie, Vol. II, Paris 1928, p. 7. 122 A.N. SANTA CRUZ Y MARCENADO, Réflexions militaires et politiques, Vol. VI, Le Hague 1740, p. 182.

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modo in cui essi desideravano. Per la grande maggioranza dei morti gli ultimi uffici erano completati da corvées di contadini e carrettieri, che scavano fosse comuni nelle quali gettavano i corpi dei caduti, ufficiali e soldati semplici, nemici e amici mischiati tra loro. Solo personaggi piuttosto importanti potevano godere di trattamenti diversi, tra i quali il maresciallo Marsin, il quale fu sepolto nella chiesa della Madonna di Campagna, insieme ad altri ufficiali francesi123.

Gli alleati lamentavano 947 caduti e 2.304 feriti, mentre i francesi caduti erano circa 1.000, oltre a 1.800 feriti. I prigionieri caduti in mano alleata erano 5.271, compresi tutti i feriti, per un totale di 6.500 uomini perduti dai gigliati in combattimento124.

I feriti che avevano superato la notte furono trasportati negli ospedali cittadini, dove i chirurghi e i loro assistenti si sarebbero presi cura di loro. Le loro tecniche base di operazione chirurgica furono codificate nella prima metà del XVI secolo, grazie all’attività e le opere di chirurghi militari quali Ambroise Paré125. Nel Medioevo l’amputazione di un arto veniva eseguita tramite un colpo d’ascia, seguita dalla cauterizzazione della ferita con un ferro arroventato. In seguito si impiegava un laccio emostatico stretto al di sopra della ferita e l’arto era rimosso con una sega, le arterie cucite, e lembi di pelle riportati sopra il taglio. Abbastanza pazienti sopravvissero a simili operazioni, incoraggiando i chirurghi a ideare addirittura arti artificiali. Nuovi strumenti chirurgici furono ideati e realizzati per permettere l’estrazione di proiettili, insieme alla carne maciullata, pezzi d’osso e materia esterna, quali i panni dell’uniforme. L’estrazione di un proiettile provocava nei pazienti gravi sofferenze; Il chirurgo reggimentale preparò tutti i suoi strumenti, che erano tutti d’argento. Per iniziare allargò la ferita [alla gamba destra] in tutte le direzioni, per ottenere un migliore accesso al proiettile. Questo si era sistemato sotto il tendine, anche se non lo aveva danneggiato. Egli lo tagliò nell’operazione, azzoppandomi, e dopo aver sondato la ferita prese il suo forcipe d’argento e afferrò la palla. Comunque il proiettile si era così ben piantato col passare del tempo che egli non riuscì ad afferrarlo, e il forcipe ad ogni tentativo scivolava, causandomi atroci dolori. Dopo aver visto per un paio di minuti questi infruttuosi tentativi, il chirurgo di compagnia ebbe pietà delle mie condizioni. Diede al chirurgo di reggimento i suoi forcipi di ferro, dotati di denti, e consigliò di lasciare stare gli strumenti d’argento. Il forcipe di ferro fece presa, e la palla fu rimossa dalla mia ferita 126. In ogni caso meno del 2% dei soldati feriti aveva qualche possibilità di sopravvivere alle sue ferite. Degli oltre 3.000 feriti raccolti a Torino, furono circa 600 i soldati che riuscirono a salvarsi. L’esperienza mostrava come un esercito del XVIII secolo poteva dirsi fortunato se superava un giorno di battaglia con meno del 25% di perdite. É difficile stabilire esattamente quali proporzioni di perdite erano inflitte dalle varie armi. Le testimonianze più interessanti ci giungono dagli elenchi degli Invalidi di Parigi; dei veterani francesi della Battaglia di Torino, il 50% fu ferito da arma da fuoco portatile, pistola o fucile. Il 25%, tutto personale della cavalleria, fu colpito con armi bianche ricevendo ferite quasi principalmente al braccio destro, tra la mano e il gomito. Gli altri riportarono ferite causate per svariate ragioni, quali cadute o ferite accidentali. Questi sono tuttavia elenchi di ferite dalle quali si poteva sopravvivere. Al contrario era estremamente difficile riuscire a salvarsi da un colpo diretto d’artiglieria. Un solo soldato era sopravvissuto ad un colpo di cannone.

Il trattamento dei prigionieri era ben differente da quello del XX secolo. Un interrogatorio approfondito era previsto solo dopo azioni su piccola scala, quando si potevano carpire informazioni utili per le operazioni in corso. Ai prigionieri di Torino fu chiesto di fornire il proprio nome, grado e reggimento, dopo di che furono scortati nei punti di raccolta127.

In circostanze normali la prigionia era accettata come una condizione temporanea, e terminava con uno scambio, un riscatto o con la liberazione “sulla parola” per gli ufficiali, con una detenzione in fortezza più o meno lunga per la truppa. Chi non volle abbandonare il proprio reparto ed arruolarsi nell’esercito alleato, era di solito lasciato andare libero “sulla parola” di non battersi per un periodo determinato di tempo, solitamente sino alla fine del conflitto, su un determinato fronte o contro un preciso nemico. Molti dei reparti presenti a Torino, probabilmente anche per queste ragioni, furono inviati sui fronti renano o delle Fiandre.

123 Gli altri ufficiali francesi sepolti nella chiesa di Madonna di Campagna furono; M. La Ferrier, tenente colonnello del Rgt. Royal des Vaisseaux; M. La Serre, capitano del Rgt. Touraine; M. Marsigliac, capitano del Rgt. Marcilly; M. Marchese di Sarsenage; il maresciallo di campo Kerkado (non il comandante dell’omonima brigata); M. Gaston de Montroc, capitano della compagnia granatieri del Rgt. Berry; M. De Rochevart, capitano del Rgt. Courassiers du Roi. Tutti, tranne il maresciallo Marsin e il capitano De Rochevart, erano caduti in azione durante le operazioni ossidionali tra il 13 maggio e il 1 settembre 1706. AMORETTI, MENIETTI, Torino 1706 cit., p. 158. 124 Le perdite alleate sono desunte da CODA, Ragguaglio Giornale cit., pp. 124-125. Quelle francesi sono tratte da MENGIN, Relation du Siége de Turin cit., p. 123. Un altro conteggio delle perdite è presente in ASV, Segreteria di Stato, Avvisi 72, Foglio Straordinario. 25 Settembre 1706; Lista tanto de’ Priggionieri nemici, che del bottino, che li Nostri hanno acquistato. Il Maresciallo di Marsin, fatto priggione, mà poi morto dalle sue ferite. Il Ten. Generale Conte di Murcei. Il Generale della Cavalleria Sig. della Bretonniere. Il Maresciallo di Campo Sig. di Seneterre. Il Maresciallo di Campo Marchese di Villers. Il Brigadiere Marchese di Bonneval. 2 Colonnelli, 5 Ten. Colonnelli, 3 Sergenti maggiori, 68 Capitani, 71 Tenenti, 18 Sottotenenti, 14 Alfieri e Cornetti, 20 Uffiziali del Commissariato, 5.094 soldati communi à piedi 6 à cavallo; 118 cannoni di batteria, 40 cannoni da Campagna, 55 Mortari, 3.000 sacchi con Frumento, 2.000 sacchi con Biscotto. Tutte le Tende e Baggaglio. Moltissimi Cavalli. Dalla parte nostra sono restati morti 797 Huomini dell’Infanteria, 239 della Cavalleria. Feriti 1970 huomini dell’Infanteria, 140 della Cavalleria. Somma 3146 in tutto sì morti che feriti. Furono catturate 30 bandiere di fanteria e 25 di cavalleria, che il 24 dicembre 1706 furono esposte in Duomo. D. REBAUDENGO, Torino racconta. Diario manoscritto di Francesco Lodovico Soleri, dal 22 marzo 1682 al 27 febbraio 1721 e il suo giornale dell’assedio del 1706. Trascrizione completa e commento, Torino 1969, p. 167. 125 A. PARÉ, Ouvres Complètes, par J.F. Malgaigne, Genève 1970. 126 C.W. PRITTWITZ UND GAFFRON, Unter der Fahne des Herzogs von Bavern, Berlin 1935, p. 303. 127 Le domande presentate in un interrogatorio sono trascritte in J. WILLSON, The Soldier’s Pocket-Dictionary, or friend in need: Being a Vocabulary of many thousand Words, Terms, and Questions, in general use, and most likely to occur in Military Service, expressed in six languages, viz. English, German, Dutch, French, Italian, and Spanish, London 1794, pp. 72-73.