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Fubini e Galimberti Su Leopardi

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Alcuni passi di Galimberti tratti dall'Introduzione alle operette morali, e alcune parole di Fubini sull'ultimo Leopardi

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Page 1: Fubini e Galimberti Su Leopardi

Non si possono studiare le Operette Morali trascurando lo Zibaldone: non già perché le teorie esposte nell'opera definitiva abbiano bisogno di essere chiarite con i materiali ancora informi della speculazione leopardiana, ma per seguire lo sviluppo dello spirito del Leopardi, che attraverso le discussioni del suo diario è pervenuto alla sua opera definitiva. Dallo Zibaldone il Leopardi non ha nemmeno ricavato il «concetto» più caratteristico delle Operette, quello della indifferenza od ostilità della natura, quale è enunciato nel Dialogo della natura e di un Islandese, e che si presenta così inatteso e ingiustificato logicamente nel corso della speculazione leopardiana durante la composizione delle Operette: ciononostante si può ben dire che la stesura del suo diario lo ha preparato a dare le Operette così come noi le conosciamo. Le pagine dello Zibaldone, nelle quali il Leopardi ha tentato di confermare giorno per giorno la sua originaria intuizione pessimistica, stanno tra la sua primitiva disperazione e l'opera che noi studiamo, ineliminabili. Esse non sono soltanto il precedente stilistico delle Operette, ma, ben più, il necessario precedente morale. Nella prosa dello Zibaldone il Leopardi si è esercitato a staccarsi da se medesimo, a tradurre in un linguaggio impersonale la sua personale esperienza a considerare i propri casi come esempi particolari di leggi generali: in tal modo al mondo della sua esperienza immediata ha potuto sostituirsi un mondo concettuale che ha preso ogni giorno più per lui reale consistenza e ha trovato nelle Operette la sua più chiara e completa espressione.

Le Operette infatti nascono, quando il Leopardi, ripiegandosi su se medesimo, fra le molte discussioni dello Zibaldone, trova purificati e chiariti i motivi originari del suo pessimismo, formulati in alcuni concetti tra logici e fantastici, a cui egli si può rivolgere con un moto di affetto, di amore e di odio. Non ci si attenda di ritrovare in questi scritti quelli che sono stati gli strumenti della sua ricerca, i concetti filosofici, offertigli dalle sue letture: si può dire che la maggior parte delle osservazioni dello Zibaldone che potevano avere sviluppi filosofici, è stata abbandonata dal Leopardi. Così, se nello Zibaldone il Leopardi discute a lungo sul fatto dell'assuefazione, che gli sembra provare la falsità di ogni innatismo o sull'amor proprio, che egli considera come unico movente delle nostre azioni, all'assuefazione e all'amor proprio accenna nelle Operette soltanto come a fatti indiscutibili e come a cosa nota accenna, nell'Ottonieri, incidentalmente, a quella distinzione tra amor proprio ed egoismo, che ha una parte così essenziale nelle sue considerazioni di carattere etico, perché con essa pare reintrodurre un criterio di giudizio morale, pel quale sembrava non vi fosse posto nella teoria dell'amor proprio. Parimenti nulla accoglie nelle Operette dei pensieri intorno al bello assoluto, oggetto di così frequenti discussioni nello Zibaldone: nulla perché i pensieri del Parini, in cui ravvisiamo qualcuna delle osservazioni dello Zibaldone su quell'argomento sono privi di qualsiasi portata filosofica, e non dimostrano, come tentavano di fare le pagine dello Zibaldone, il carattere soggettivo del giudizio estetico, ma unicamente le difficoltà che ci impediscono troppe volte di riconoscere il valore vero di un'opera di poesia e perciò sembrano presupporre un valore obbiettivo, indipendente dal nostro giudizio. Chi passi dallo Zibaldone alle Operette, prova, ad una prima lettura almeno, il senso di un impoverimento del pensiero, dell'abbandono dei più schietti motivi filosofici e con questi di non poche acute descrizioni psicologiche: ma riconosce anche, pur che vi rifletta, che quei motivi non al Leopardi appartengono, ma ai filosofi da lui studiati e che egli da essi li aveva mutuati per rafforzare le sue convinzioni pessimistiche, ma doveva abbandonarli, appena queste gli si fossero confermate e chiarite. Un concetto, in cui il suo sentimento non sia impegnato, non può a lungo interessare il Leopardi: perciò egli si accosta, nello Zibaldone, alla filosofia e subito se ne allontana, appena che per la sua indagine hanno acquistato qualche consistenza quei concetti, che, come persone reali, possono commuoverlo, voglio dire i concetti di Felicità, di Piacere, di Noia, di Dolore, di Natura. Le Operette rappresentano il momento in cui nella speculazione del Leopardi riaffluisce, per così dire, il suo sentimento: anche il trapasso, così brusco, da una concezione della Natura ad una opposta che si rivela nel Dialogo della Natura e dell'Islandese, si potrebbe spiegare come un moto subitaneo dell'animo del Leopardi, che va oltre le conclusioni del suo pensiero quali si erano formulate nello Zibaldone, e si rivolge contro uno di quei concetti-miti, su cui più si era

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assottigliato il suo ingegno. Soltanto dopo la composizione di quel dialogo a quel concetto tornerà sullo Zibaldone, tentando di sviluppare filosoficamente la sua nuova intuizione, così come aveva negli anni precedenti sviluppato nelle molte pagine dello Zibaldone la sua intuizione giovanile. Veramente protagonisti delle Operette non sono tanto quei pallidi personaggi che si chiamano Ruysch o Colombo, Tasso o Malambruno, che pure, come vedremo, hanno un carattere proprio ed un valore fantastico, ma quelli che possiamo chiamare concetti-miti di Felicità, Piacere, Noia, Dolore, Natura, che si sono sostituiti nell'animo del Leopardi a più concreti oggetti di odio e di amore: la Felicità assurda e impossibile, ma vagheggiata da una invincibile nostalgia e salutata con trepido affetto ad ogni fugace ed illusoria apparizione, il Piacere fantasma ingannevole e vano e pur talvolta così vicino a noi da sembrare cosa reale, la Speranza irragionevole e pur mai del tutto vinta, allettatrice ad una vita inutile e pur suscitatrice di liete immaginazioni, Amore, così raro e miracoloso, che ci dona forse l'unica vera beatitudine a noi concessa, la Natura indifferente ed ostile, ma pur desiderata e invocata nelle stesse parole che l'accusano. Qual meraviglia che questi concetti prendano talvolta vere sembianze fantastiche, come Amore nell'ultima pagina della Storia del genere umano e la Natura nei due dialoghi in cui si presenta come interlocutrice? Ognuno di quei concetti, non soltanto questi, che si colorano in un'immagine, raccoglie, come si è visto, intorno a sé, al pari di ogni immagine poetica, i sentimenti del poeta nella loro complessità: e se non può suscitare una commozione profonda, a cui egli partecipi con tutto l'essere, non restano per altro pure astrazioni.

Certo le Operette suppongono un distacco della vita immediata, e perciò una vita sentimentale fatta più tenue e meno intensa dal lavoro dell'intelletto. Certo non si potrà trovare nelle pagine della Storia del genere umano che esaltano il potere delle illusioni, l'intensità poetica che è nei versi della maturità, in cui il poeta rievoca e rimpiange le illusioni della sua giovinezza, o nel pur commosso inno ad Amore, figlio di Venere Celeste, la profondità e la drammaticità di certi accenti del Pensiero dominante: e, se taluno nella domanda di Malambruno al demonio - Fammi felice un momento di tempo - può scorgere un motivo analogo a quello della celebre richiesta di Faust, nessuno potrà paragonare le due scene, quella del poeta tedesco, che trasfonde nel suo personaggio immediatamente tutto l'ardore dell'anima sua, e quella del poeta italiano che non esprime una richiesta erompente schietta dal suo animo, ma, dopo avere con la sua analisi dimostrata l'irrealtà del piacere, si rivolge con un sorriso melanconico a contemplare quel vano fantasma sempre sfuggente al desiderio degli uomini. Ma non per questo sono da escludere le Operette dal novero delle opere di poesia, né si deve cercare la poesia delle Operette in quei passi nei quali il poeta, come in qualche sua lettera, più direttamente si confessa, o lascia con minore ritegno parlare il suo cuore. Le Operette, non si dimentichi, sorgono in un momento di relativa calma, lontano dalla disperazione e dall'entusiasmo, dall'accorato rimpianto di un passato irrevocabile e dall'agitazione di una passione attuale: sono sempre, anche quelle che possono parere più fantastiche e commosse come l'Elogio degli uccelli e il Cantico del gallo silvestre, l'esposizione che uno spirito pacato compie dei risultati della sua meditazione e che si anima di vita poetica per il valore sentimentale che quelle conclusioni hanno per lui, ma non può mai tramutarsi in un'immediata espressione dei suoi particolari affetti, né in una vivace e disinteressata rappresentazione fantastica, nella quale i personaggi interessino di per sé indipendentemente dai concetti che sono chiamati ad esporre nel loro dialogo.Soltanto più tardi, quando le venti operette della prima edizione saranno già da tempo composte, e con esse anche qualcuna di quelle che compariranno nell'edizione definitiva, il Leopardi potrà salutare il risorgimento pieno ed intero della sua vita sentimentale.

Meco ritorna a vivereLa piaggia, il bosco, il monte...

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Allora, non basterà più al Leopardi la prosa poetica delle Operette e la poesia gli si presenterà spontanea, come sola capace di accogliere i suoi ricordi, in cui si confondono l'amaro ed il dolce, i «moti» più immediati del suo «cuore», «tristi e cari» ad un tempo, la gioia e il dolore di una vita rinnovata e tutta presente a sé stessa, ben diversi dai sentimenti lieti e dolorosi che i concetti fantastici della sua speculazione suscitavano in lui. Eppure dal Leopardi delle Operette al Leopardi di A Silvia non crediamo di scorgere il trapasso da un Leopardi filosofo a un Leopardi poeta, ma da una poesia più limitata nella sua ispirazione, inevitabilmente più povera e monotona, ad una poesia in cui confluisce, fantasticamente trasfigurata, tutta la vita di un individuo.

Da “Giacomo Leopardi: operette morali” MARIO FUBINI

1. “non solo alla lingua francese, (come osserva la Stael) ma anche a tutte le altre moderne, pare che la prosa sarebbe più confacente del verso alla poesia moderna. Ho mostrato altrove in cosa debba qeusta essenzialmente consistere, e quanto ella sia più prosaica che poetica” (Zib. 2172-). Fissata il 26 novembre 1821, l’ossevazione nasce al centro della prima stagione leopardiana, quando l’andante spianatao degli Idilli non si è ancora esaurito e larmatura delle Canzoni aspetta i più aerei fastigi, Alla Primavera, Alla sua Donna. Tuttora impegnato a dar forma al suo pensiero poetico in due nuclei vistosamente diversi per molti aspetti, ma mossi in profondità da una ragione unitaria, Leopardi ne misura il dislivello da una forma espressiva che già gli apppare più adeguata a una nuova idea di letteratura. “Altrove” ha ingfatti mostrato che la “poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo ed è poesia in un senso tutto diverso da quello antico; anzi, vista l’esemplarità della poesia “immaginativa” antica, è “piuttosto una filosofia, un’eloquenza, se non queanto è più splendida, più ornata della filosofia ed eloquenza della prosa”. “Giacché il sentimentale è fondato e sgorga dalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione dell’uomo e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l’essere ispirata dal falso” (Zib 734-735).Negli Idilli e nelle Canzoni, almeno nei momenti più alti e nuovi, L. dà complementari esempi di “poesia sentimentale”: concitate eo deserte meditazioni sul nulla che si dilata col progredire dei tempi storici o abbandoni all’infinito fluso dell’essere, che sono anche, però, consapevoli “finzioni”, erette a personale difesa dell’assedio del nulla. E in misure e modi diversi persino il linguaggio reca nelle scelte lessicale e fin nelle strutture morfologiche e sintattiche, l’impronta i quel Vero negativo ormai assimilato nel profondo.Sia la nozione di poesia “sentimentale”, sia le attuazioni poetiche che l’hanno preparata e la seguiranno sono certo lontanissime dalla inclinazione a evadere nella fantasticheria. [...]Nella tecnica letterari stessa di Idilli e Canzoni, oltre che nelle posizioni di pensiero consentono la concezione dei due cicli lirici, alla coscienza della morte oggettiva delle illusioni sopravvive “una specie di disperata speranza”. [...] a fargli apparire troppo precaria la consistenza delle illusioni individuali sarò la difficoltò di “creder sempre”, ossia di regola, a eccezioni dalla regola, di chiudere gli occhi, aldi là di qualche istante di grazia (la sospensione della coscienza dell’Infinito e della Vita solitaria)), al Vero svelato dalla ragione.[...] non per questo , nel rinunciare alle illusioni, Leopardi obbedisce aun impulso razionalistico, bensì auna spinta assai più profonda, che sul piano discorsivo non sempre gli è chiara fino in fondo. Rinucnia, in verità, alle illusioni perchè sono simulacri troppo pallidi, riconosciuti ormai come tali, di una realtà vissuta un tempo come presenza sensibile, indenne da qualsiasi dubbio. Solo a illuminare più intensamente, senon a

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riconquistare, quella condizione perduta tende ora con tutte le sue forze di filosofo-poeta. Attraverso l’evocazione della beatitudine antica e fanciullesca si volge alla disperata ricerca di una condizione ignara non soltanto della ostilità della ragione alla natura, ma della distinzione stessa tra vero e falso, estranea persino alla possibilità deò costituirsi di nozioni contrapposte o anche solo distinte; a uno stato, in definitiva, totalmente indifferenziato, alieno da qualsiasi distinzione: tra uomo e animale, tra mondo animato e mondo inanimato, tra soggetto e oggetto; auna condizione anteriore a qualsiasi volontà di crescere, come l’esistenza dei primi uomini-bambini nel mondo privo di varietà della Storia del genere umano, o successiva alla possibilità e al desiderio di mutare, se non in un perenne movimento ciclico come quello dei morti nel Coro del Ruisch: stati di tensione vitale minima, rivolta tutta e soltanto ad assaporare “poco meno che opinione di felicità” o almeno la sicurezza dal dolore della vita.

2. Se a questo mira Leopardi, non sorprenderà tuttavia il suo atteggiamento, da un certo punto in avanti, verso la filosofia moderna, espressione perfezuonatissima della detestata ragione; né apparirà (o non apparirà aoltanto) come un’altra delle “conversioni” che los crittore ha incoraggiato a distinguere nella storia della sua vita interiore (cfr. Zib. 143-144).Leopardi, in realtò, ha cercato di scoprire sempre e soltanto una condizione libera dal dolore e dalla noia. Nella sua mente mutano solo i tempi e i luoghi in cui gli è parso che tale stato si sisa manifestato o possa, di nuovo o per la prima volta, apparire: antichità e fanciullezza, la “aranatica valle” dei Patriarchi biblici, la California non ancora incivilita, il mondo futuro che balenerà all’orizzonte della Ginestra, la morte, la non-esistenza. Allo stesso modo mutano le sue idee sui mezzi che possano consentire il raggiungimento della meta. Alla soglia delle Operette Morali è filosofia, la filosofia moderna a esser indicata, paradossalmente, quale strumento decisivo, come risulta da alcune più radiali considerazioni zibaldonianae, in cui la questione viene messa a nudo dalla esasperazione dei termini.Scrive il 21 maggio 1823:

Paragonando la filosofia antica colla moderna, si trova che questa è tanto superiore a quella, principalmente perchè i filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare. Il che se gli antichi tal volta facevano, niuno però era che in questo caso non istimasse suo debito e suo interesse il sostituire. [2] Così fecero anche nella prima restaurazione della filosofia Cartesio e Newton. Ma i filosofi [2710] moderni, sempre togliendo, niente sostituiscono. E questo è il vero modo di filosofare, non già, come si dice, perchè la debolezza del nostro intelletto c’impedisce di trovare il vero positivo, ma perchè in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quello che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch’esse non hanno. La natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda ed aperta. Per ben conoscerla non è bisogno alzare alcun velo che la cuopra: è bisogno rimuovere gl’impedimenti e le alterazioni che sono nei nostri occhi e nel nostro intelletto; e queste, fabbricateci e cagionateci da noi col nostro raziocinio. Quindi è che i più semplici più sanno: che la semplicità, come dice un filosofo tedesco (Wieland,) è sottilissima, che i fanciulli e i selvaggi più vergini vincono di sapienza le persone più addottrinate: cioè più mescolate di elementi stranieri al loro intelletto...

In queste pagine esemplari alcuni punti fermi sono definiti nel modo più netto: la filosofia moderna coincide con il “vero modo di filosfare”; il suo metodo non dev’essere respinto, bensì praticato; esso consiste tuttoe soltanto nel “disingannare e atterrate” (le sole costruzione della filosofia moderna sono “sistemi in sostanza negativi”). Dunque – si deduce – ddalla filosfia moderna bisogna espungere tutte le nuove costruzioni, le nuove favole, non meno dannose che false, come il progresso e l’amore universale, che caratterizzano – è necessario precisare – certo pensiero illuministico non meno che certo spiritualismo della Restaurazione. (cfr. Zib. 3973-3975).

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Occore anzi aggiungere, aquanto proposito, che è durata troppo alingo la tendenza a considerare come centrale nel pensiero leopardiano un interno dibattito tra spiritualismo e materialismo, che si presenta invece in esso come conseguenza e corollario di altro.Massiammente lo interessa, infatti, il contrasto fra senso dell’essere come realtà tutta vivente, insieme una e infinitamente varia [...], e visioni dualistiche – d’impronta spiritualistica o materialistica, teistica o atea – prodotte dalla ragione e che, inaugurate o aggravate dal Cristianesimo, si sono via via esasperate nella filosofia e nella vita moderna (NOTA: nel mondo modernoil reale è concepito e vissuto dualisticamente su ogni piano: spirito e materia, anima e corpo, ragione e passioni, individuo e società, individui e masse, e viadiscorrendo. E la vittoria sembra ormai certa per le astratte forme devitalizzanti: “... lo spirito ha consumato la materia” (Zib. 2912; 7 luglio 1823 )).[..riflessioni di Leopardi sull’Idea di Religione come la più terribile fra quelle prodotte dalla nemica ragione...] Ora si dà continuità fra gli errori “fabbricati dall’uomo”, a partire almeno dal Cristianesimo fino all’ “incivilimento non medio ma eccessivo del nostro secolo”, visti coem gradi di un medesimo processo di dissacrazione del mondo. Del resto: “Non è egli un paradosso che la Religione Cristiana in gran parte sia stata la fonte dell’ateismo, o generalemente, della incredulità religiosa! Eppure io così la penso”, afferma non il laico ma, semmai, il pagano Leopardi, disegnando “quasi un albero genealogico” dei processi della incredulità dal giudaizmo attraverso il cattolicesmio e le confessioni riformate.

3. Individuato il procedimento negativo come carattere specifico della filosofai moderna, preparta dal Cristianesimo, Leopardi decide a un certo punto di seguire fino in fondo quel “vero modo di filosofare”. Senza mai smentire i suoi iniziali convincimenti sul mondo cristiano e moderno come epoche di esistenza impoverita, non si limita, ora, al rimpianto, al lamento, alla protesta. Alla tattica, praticata praticata nnelle Canzoni e negli Idilli, di rimozione o di ribellione, sostiutisce la apradossale strategia della messa in opera, fino alle conseguenze estreme, del metodo filosofico nuovo. Anziché condurre una battaglia di retroguardia, votata all’insuccesso, opera infine una disperata sortita dalla rocca delle illusioni, per non più rientrarvi: per attraversare invece, fino in fondo, le linee nemiche, usando le armi del nemico, fingendosi il nemico e anzi, in qualche modo, essendo il nemico.Ormai chiuso alle favole della Incarnazione e Redenzione e dell’amore universale fondato su tali premesse (“uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la degenerazione dell’uomo..” 1 maggio 1821), si è già appropriata la centrale vertà negativa svelata o imposta da Cristo:

Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l'idea del perpetuo nemico della virtù dell'innocenza dell'eroismo della sensibilità vera, d'ogni singolarità dell'animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell'uomo, essendo pur troppo vero che come l'individuo per natura è buono e felice, così la moltitudine (e l'individuo in essa) è malvagia e infelice. (Zib. 112; maggio 1820)

Ma il rifiuto del mondo nel senso di società segna solo la prima tappa di un cammino che, attraverso dichiarazioni d’insoddisfazione in cui riecheggila la sola pars destruens di meditazioni agostiniane e pascaliane, metterà capo al rifiuto della natura e della vita e alla individuazione del nulla come principio primo delle cose. Dal nulla che dilaga nella storia in forma di miseria morale e civile rappresentato nella canzone Ad Angelo Mai (1820) Leopardi arriverà, nel Cantico del gallo silvestre, a concepire il nulla come scaturigine di tutte le cose che sono.Nelle Operette Morali la sua visione si tinge di colori non più “cristiani” ma “gnostici”, espressi da un costante senso di estraneità al mondo, che si traduce talora in quadri

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mitologici: la caduta dalla indifferenziata beatitudine delle Origini, la discesa di Amore Sotèr nella Storia del genere umano, la incarcerazione dell’anima eletta nel Dialogo della Natura e di un’Anima, l’apparizione della natura in figura di sordo demiurgo nel Dialogo della Natura e di un Islandese, la individuazione del nulla come dio-che-non-è, come gnostico “proprincipio”, nell’apocalittico Cantico [«la genesi del mondo e la sua escatologia... rispondono... ad una cupa fantasia tra gnostica e orientale in cui l’opera divina è guastata dal tremendo Arimane e dai geni del male» ha incidentalmente osservato V. Cilento, Leopardi e l’antico [...]. In un geniale saggio Guido Ceronetti ha poi indicato rapporti di consonanza tra rappresentazioni della luna nei Canti e quell’«esemplare groviglio simbolico e cultuale» che fu la religione selenitica della Samaria al tempo di Simon Mago (Intatta luna [1970], in Difesa della luna, Milano 1971, pp.78-81 [...].) ]. O si pensi aldi là delle Operette composte nel ’24, aquella “gnostica” maledizione del creato che è il famoso pensiero zibaldoniano del 19-22 aprile 1826 (con l’illuminante appunto-progetto che lo commenta: “si potrebbe esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico, indiano ec.”):

Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere; non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L'esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla.

E come nella realtà dell’Occidente si succedettero meddaggio cristiano, gnosticismo, manicheismo, da queste posizioni pare aprirsi la via alla conclusione estrema della metafisica leopardiana, il tardo abbozzo dell’inno Ad Arimane dio del male, identificato a un certo punto con la natura e con Dio:

Re delle cose , autor del mondo, arcanaMalvagità, sommo potere e sommaIntelligenza, eternoDator de’ mali e reggitor del moto,. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Te con diversi nomi il volgo appella Fato, natura e Dio.

4. Indubbio è l’uso che Leopardi fa delle conquiste negative della scienza e della filosofia moderna, da Copernico a Galileo e Newton, da Cartesio a Locke [NOTA: «... Cartesio, Galileo, Newton, locke ec. Hanno veramente mutato faccia alla filosofia» (Zib. 1857; 5-6 ottobre 1821)], ma soprattutto di quei filosofi che, a differenza di Cartesio e Newton «nella prima restaurazione dlla filosofia», «sempre togliendo, niente sostituiscono» [NOTA: chiarisce la questione in modo netto ed efficace M. A. Rigoni, indicando una serie di rispondenze con quel Settecento che, oltre al «discorso dei Lumi», ha conosciuto anche il «discorso dell’Ombra», per usare espresioni di G.Gusdorf da lui citate (Illuminismo e negazione [Su Leopardi e La Mettrie] [1978-79], in Saggi ecc., cit., pp. 83-86)]. Tanto nettamente settecentesco (anche in questo caso soltanto nella pars destruens), il pensiero leopardiano tende aun punto d’arrivo tutto diverso dalla costruzione di una umanità di credenti nell’avvento di un perfetto ordine sociale. Se

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nella «utopistica» Ginestra spererà in una generazione di uomini così coscienti della propria miseria da sentir la necessità di non accrescere il male che ci è stato assegnato, ora, tra ’23 e ’24, prospetta forse una condizione di vita rinnovata almeno in singoli istanti, ma per i soli individui illuminati dai bagliori d’incendio del pensiero moderno.Portato al limite, il metodo negativo del filosofare ultimo dovrebbe poter condurre a qualcosa di simile alla totale ignoranza del bambino e del selvaggio «più vergine», soli sapientissimi e non esclusi dalla felicità; al riparo, almeno, dalla ossessione del male e della morte. Certo, adempiendosi perfettamente, la filosofia giungerebbe all’autodistruzione, ma soltanto sulle sue rovine potrebbe spuntare un altro modo di conoscenza, fondato sull’immaginazione, sul cuore, sulle passioni stesse, e in grado di cogliere il «poetico» della natura, della «universalità delle cose». Scrive il 22 agosto 1823 (Zib.3237-3245):

Chiunque esamina la natura delle cose colla pura ragione, senz’aiutarsi dell’immaginazione nè del sentimento, nè dar loro alcun luogo, ch’è il procedere di molti tedeschi nella filosofia, come dire nella metafisica e nella politica, potrà ben quello che suona il vocabolo analizzare, cioè risolvere e disfar la natura, ma e’ non potrà mai ricomporla, voglio dire e’ non potrà mai dalle sue osservazioni e dalla sua analisi tirare una grande e generale conseguenza, nè stringere e condurre le dette osservazioni in un gran risultato; e facendolo, come non lasciano di farlo, s’inganneranno; e così veramente loro interviene. Io voglio anche supporre ch’egli arrivino colla loro analisi fino a scomporre e risolvere la natura ne’ suoi menomi ed ultimi elementi, e ch’egli ottengano di conoscere ciascuna da se tutte le parti della natura. Ma il tutto di essa, il fine e il rapporto scambievole di esse parti tra loro, e di ciascuna verso il tutto, lo scopo di questo tutto, e l’intenzion vera e profonda della natura, quel ch’ella ha destinato, la cagione (lasciamo ora star l’efficiente) la cagion finale del suo essere e del suo esser tale, il perchè ella abbia così disposto e così formato le sue parti, nella cognizione delle quali cose dee consistere lo scopo del filosofo, e intorno alle quali si aggirano insomma tutte le verità generali veramente grandi e importanti, queste cose, dico, è impossibile il ritrovarle e l’intenderle a chiunque colla sola ragione analizza ed esamina la natura. La natura così analizzata non differisce punto da un corpo morto. Ora supponghiamo che noi fossimo animali di specie diversa dalla nostra, anzi di natura diversa dalla general natura degli animali che conosciamo, e nondimeno fossimo, siccome siamo, dotati d’intendimento. Se non avendo noi mai veduto nè uomo alcuno nè animale di quelli che realmente esistono, e niuna notizia avendone, ci fosse portato innanzi un corpo umano morto, e notomizzandolo noi giungessimo a conoscerne a una a una tutte le più menome parti, e chimicamente decomponendolo, arrivassimo a scoprirne ciascuno ultimo elemento; perciò forse potremmo noi conoscere, intendere, ritrovare, concepire qual fosse il destino, l’azione le funzioni le virtù le forze ec., di ciascheduna parte d’esso corpo rispetto a se stesse, all’altre parti ed al tutto, quale lo scopo e l’oggetto di quella disposizione e di quel tal ordine che in esse patti scorgeremmo, e osserveremmo pure co’ propri occhi, e colle proprie mani tratteremmo; quali gli effetti particolari e l’effetto generale e complessivo di esso ordine, e del tutto di esso corpo; quale il fine di questo tutto; quale insomma e che cosa la vita dell’uomo; anzi se quel corpo fosse mai e dovesse esser vissuto; anzi pure, se dalla nostra stessa vita non l’arguissimo, o se alcuno potesse intendere senza vivere, concepiremmo noi e ritrarremmo in alcun modo dalla piena e perfetta e analitica ed elementare cognizione di quel corpo morto, l’idea della vita? o vogliamo solamente dire l’idea di quel corpo vivo? e intenderemmo noi quale e che cosa fosse l’uomo vivente, e il suo modo di vivere esteriore o interiore? Io credo che tutti sieno per rispondere che niuna di queste cose intenderemmo; che volendole congetturare, andremmo le mille miglia lontani dal vero, o sarebbe a scommetter millioni contro uno che di nulla mai, neanche facendo un milione di congetture, ci apporremmo; finalmente ch’egli sarebbe cosa probabilissima, ch’esaminato e conosciuto quel corpo morto, in questa conoscenza ci fermassimo, e neppur ci venisse in sospetto ch’ei fosse mai stato altro, nè fosse mai stato destinato ad esser altro che quel che noi lo vedremmo, e tale qual noi lo vedremmo, nè della sua passata vita nè dell’uom vivo, ci sorgerebbe in capo la più menoma conghiettura.

Applicando questa similitudine al mio proposito dico che scoprire ed intendere qual sia la natura viva, quale il modo, quali le cagioni e gli effetti, quali gli andamenti e i processi, quale il fine o i fini, le intenzioni, i destini della vita della natura o delle cose, quale la vera destinazione del loro essere, quale insomma lo spirito della natura, colla semplice conoscenza, per dir così, del suo corpo, e coll’analisi esatta, minuziosa, materiale delle sue parti anche morali, non si può, dico, con questi soli mezzi, scoprire nè intendere, nè felicemente o anche pur probabilmente congetturare. Si può con certezza affermare che la natura, e vogliamo dire l’università delle cose, è composta, conformata e ordinata ad un effetto poetico, o vogliamo dire disposta e destinatamente ordinata a

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produrre un effetto poetico generale; ed altri ancora particolari; relativamente al tutto, o a questa o quella parte. Nulla di poetico si scorge nelle sue parti, separandole l’una dall’altra, ed esaminandole a una a una col semplice lume della ragione esatta e geometrica: nulla di poetico ne’ suoi mezzi, nelle sue forze e molle interiori o esteriori, ne’ suoi processi in questo modo disgregati e considerati: nulla nella natura decomposta e risoluta, e quasi fredda, morta, esangue, immobile, giacente, per così dire, sotto il coltello anatomico, o introdotta nel fornello chimico di un metafisico che niun altro mezzo, niun altro istrumento, niun’altra forza o agente impiega nelle sue speculazioni, ne’ suoi esami e indagini, nelle sue operazioni e, come dire, esperimenti, se non la pura e fredda ragione. Nulla di poetico poterono nè potranno mai scoprire la pura e semplice ragione e la matematica. Perocchè tutto ciò ch’è poetico si sente piuttosto che si conosca e s’intenda, o vogliamo anzi dire, sentendolo si conosce e s’intende, nè altrimenti può esser conosciuto, scoperto ed inteso, che col sentirlo. Ma la pura ragione e la matematica non hanno sensorio alcuno. Spetta all’immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopraddette cose; ed elle il possono, perocchè noi ne’ quali risiedono esse facoltà, siamo pur parte di questa natura e di questa università ch’esaminiamo; e queste facoltà nostre sono esse sole in armonia col poetico ch’è nella natura; la ragione non lo è; onde quelle sono molte più atte e potenti a indovinar la natura che non è la ragione a scoprirla. E siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò ch’è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della natura. Essi solo possono meno imperfettamente contemplare, conoscere, abbracciare, comprendere il tutto della natura, il suo modo di essere di operare, di vivere, i suoi generali e grandi effetti, i suoi fini. Essi pronunziando o congetturando sopra queste cose, sono meno soggetti ad errare, e soli capaci di apporsi talora al vero o di accostarsegli. Essi soli sono atti a concepire, creare, formare, perfezionare un sistema filosofico, metafisico, politico che abbia il meno possibile di falso, o, se non altro, il più possibile di simile al vero, e il meno possibile di assurdo, d’improbabile, di stravagante. Per essi gli uomini convengono tra loro nelle materie speculative e in molti punti astratti, assai più che per la ragione, al contrario di quel che parrebbe dover succedere; perocchè egli è certissimo che gli uomini discorrendo o conghietturando per via di semplice ragione, discordano per lo più tra loro infinitamente, s’allontanano le mille miglia gli uni dagli altri, e pigliano e seguono tutt’altri sentieri; laddove discorrendo per via di sentimento e d’immaginazione, gli uomini, le diversissime classi di essi, le nazioni, i secoli, bene spesso, e costantemente, convengono del tutto fra loro, come si può vedere in moltissime proposizioni (sistemi) ed anche pùre supposizioni, dall’immaginativa e dal cuore o trovate o formate, e da essi soli derivate e autorizzate, e in essi soli fondate, le quali furono sempre e sono tuttavia ammesse e tenute da tutte o da quasi tutte le nazioni in tutti i tempi, e dall’universale degli uomini avute, anche oggidì, per verità indubitabili, e da’ sapienti, quando non altro, per più verisimili e più universalmente accettabili che alcun’altra sul rispettivo proposito. Il che forse di niuna ipotesi (generale o particolare, cioè costituente sistema, o no ec.) dettata dalla pura ragione e dal puro raziocinio, si vedrà essere intervenuto nè intervenire. Finalmente la sola immaginazione ed il cuore, e le passioni stesse; o la ragione non altrimenti che colla loro efficace intervenzione, hanno scoperto e insegnato e confermato le più grandi, più generali, più sublimi, profonde, fondamentali, e più importanti verità filosofiche che si posseggano, e rivelato o dichiarato i più grandi, alti, intimi misteri che si conoscano, della natura e delle cose, come altrove ho diffusamente esposto.

Un pensiero come questo permette divedere non soltanto quali modi di consocenza e di stile Leopardi rifiutasse, ma anche, fino a un certo punto, come la sua «filosofia» gli si venisse definendo, su quali basi gnoseologiche si proponesse di fondarla, quale scopo primario le assegnasse. L’indagine della «natura», cioè della «università delle cose», sentita come una totalità vivente di cui siamo parte, costituisce senza dubbio il compito primo della filosofia [cfr. ivi 4138-4139]. Il rifiuto di qualsiasi adozione metafisica e l’adozione del metodo filosofico moderno in quanto metodo essenzialmente negativo non conducono però a un’ottica «matematica» [NOTA: Matematico equivale a filosofico nel senso che il mondo moderno dà alla pfilosifa, non nell’idea che Leopardi ha di questa; cfr. infatti, per es., il Frammento sul suicidio: «... la politica segue ad esser quasi puramente matematica, in cambio d’esser filosofica»], da applicarsi a una realtà meccanica; il reale è invece sentito – aprioristicamente, si dica pure – come vivente. I mezzi per scoprirne il senso sono individuati nell’immaginazione e nel cuore. Insomma: la poesia, intesa non come evasione e fantasticheria ma come meditazione appassionata e disinteressata sulle cose, è la più penetratnte forma di conoscenza della realtà vivente. (Adorata o maledetta, la natura apparirà pur sempre come entità vivente; la materia stessa potrà essere concepita come animata). A quest’unica

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conclusione «positiva» approda l’accoglimento leopardiano della filosofia moderna: una difesa della poesia concepita come conoscenza e come strumento di vita morale: «Se alcun libro morale potesse giovare, - afferma Eleandro nel Dialogo che nell’edizione del ’27 costituiva l’epilogo della raccolta – io penso che gioverebbero massimamente i poetici: dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente, cioè libri destinati a muovere l’immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi».Certo è una poesia – occore insistere – che, senza spiegare né insegnare niente, reca in sé la tensione che da sempre ha animato la ricerca filosofica e religiosa. E la prosa delle Operette esprime allo stato puro tale tensione; sembra anzi, in alcuni dei momenti più alti, rappresentare al vivo quegli assoluti che il pensiero filosofico ha negato all’uomo o immaginandoli, come ha fatto Platone, antecedenti alle cose e dunque divisi da esse, o negandone la realtà, come ha fatto la filosofia recente più significativa; e che il sistema del sensista Leopardi mira invece a restituire nella loro concretezza. «Si può dire (ma è quistione di nomi) - ha scritto nel ’21[Zib. 1791-1792 (25 settembre 1821)], in un tentativo di paradossale inveramento del platonismo – che nel mio sistema non distrugge l’assoluto, ma lo moltiplica; cioè distrugge l’assoluto, ma lo moltiplica; cioè distrugge ciò che si ha per assoluto, e rende assoluto ciò che si chiama relativo». Precisamente:

Distrugge l'idea astratta ed antecedente del bene e del male, del vero e del falso, del perfetto e imperfetto indipendente da tutto ciò che è; ma rende tutti gli esseri possibili assolutamente perfetti, cioè perfetti per se, aventi la ragione della loro perfezione in se stessi, e in questo, ch'essi esistono così e sono così fatti; perfezione indipendente da qualunque ragione o necessità estrinseca e da qualunque preesistenza. Così tutte le perfezioni relative diventano assolute, e gli assoluti in luogo di svanire, si moltiplicano, e in modo ch'essi ponno essere e diversi e contrari fra loro: laddove finora si è supposta impossibile la contrarietà in tutto ciò che assolutamente si negava o affermava, che si stimava assolutamente e indipendentemente buono o cattivo; restringendo la contrarietà, e la possibilità sua, a' soli relativi, e loro idee.

Rivolto a superare le antinomie fondamentali del pensiero occidentale [NOTA: IMMEDIATAMENTE PRIMA Leopardi ha ipotizzato la possibilità di una «sostanza composta ma immateriale», dopo aver giudicato sciocco «il considerare l’idea dello spirito come essenzialmente inseparabile da quella di ente semplice, e il confondere l’idea astratta della composizone con quella della materia» [continua il pensiero: Quasi che le sostanze componenti non potessero esser che materiali, e non ci potesse essere una sostanza composta ma immateriale, perché composta di sostanze immateriali. Il che è tanto possibile e facile nè più nè meno quanto che esistano sostanze materiali composte. Se possono esistere sostanze immateriali, possono anche esistere sostanze composte da sostanze immateriali, e benchè composte non saranno mai altro che immateriali. Quindi trovata l'idea dello spirito, non si è fatto altro che trovare una cosa di cui nulla possiamo negare o affermare, non già l'idea astratta dell'ente semplice. Lo spirito potrà dividersi all'infinito come la materia, e dopo giunti allo spirito, dovremo tanto penare per raggiungere l'ente semplice o la sua idea, quanto dopo la congnizione della materia.

Così dico dell'idea delle parti], il progetto sembra trovare pieno adempimento in rappresentazioni di figure e oggetti (e moti e ritmi) che appaiono, per la prima volta nelle Operette, come «aventi la ragione della loro perfezione in se stessi, e in questo, ch’essi esistono così e sono così fatti». Si pensi, per fare un esempio solo, ai segni di speranza che rasserenano il finale del Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierez: «... quella canna che andava in sul mare a galla, e mostra essere tagliata di poco; e quel ramicello di albero con quelle coccole rosse e fresche...». anche nei canti che nasceranno dopo l’impegno speculativo e polemico delle Operette morali ogni aspetto del reale tenderà a manifestarsi in epifanie altrettanto umilmente assolute.

5. Magnanima accettazione del proprio destino («... il nostro fato, dove egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande» afferma il Parini alla fine della Operetta a lui dedicata), nella «infelice» - e splendida - «scena del mondo» (La vita solitaria, 47): pare questa l’unica via d’uscita, se può considerarsi tale, conclusioni sul male intrinseco all’essere, che Leopardi non abbandonerà più. Di fatto, il «risorgimento» degli affetti

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cantato nel 1828 e che annuncia la ripresa della poesia in versi con i cosiddetti grandi Idilli, non implica in alcun modo un qualsiasi qcquisto di fiducia, bensì l’accentuarsi di un atteggiamento di fronte alle cose, di cui le Operette offrono già l’indicazione e non soltanto in quei momenti di moltiplicazione dell’assoluto [NOTA: nemmeno più tardi muta la visione negativa leopardiana. Spetta a W. Binni il grande merito di aver rivelato la tensione appassionata della «nuova poetica» dopo la fase dei «grandi Idilli»; ma non appare convincente la successiva proposta di una convergenza con la tesi luporiniana di un Leopardi, a suo modo, «progressivo»].Il racconto delle vicende umanenell’Operetta che apre la raccolta prospetta già un tragico «lieto fine»: Amore figlio di Venere celeste scende come deus ex machina a consolare gli animi dei pochi eletti, esposti più degli altri alle ferite della fortuna e degli uomini. Ma già prima del suo finale intervento la rappresentazione del ciclico susseguirsi di fasi paurosamente dolorose e di fasi meno aspre ha suggerito un senso di superiore pacificazione. E anche dopo la Storia l’esistenza del mondo e di ogni creatura viene configurandosi come moto perennemente circolare. Che appare, certo sotto specie di «perpetuo circuito di produzione e distruzione» [NOTA: Dialogo della Natura e di un Islandese. La stessa idea e la stessa immagine s’incontrano già nello Zib. in un pensiero del 20 agosto 1821, in forma di rettifica a un’impostazione tutta diversa: «La natura è madre benignissima del tutto, ed anche de’ particolari generi e specie che in esso si contengono, ma non degl’individui. Questi servono sovente a loro spese al bene del genere, della specie, o del tutto, al quale serve pure talvolta con proprio danno la specie e il genere stesso. È già notato che la morte serve alla vita, e che l’ordine naturale, è un cerchio di distruzione, e riproduzione, e di cangiamenti regolari e costanti quanto al tutto, ma non quanto alle parti, le quali accidentalmente servono agli stessi fini ora in un modo ora in un altro.» [1530-31]] quando se ne vedano gli effeti sulle creature (non sul «mondo», alla cui conservazione ciascuna serve continuamente); anche, tuttavia, come ritmo perfettissimo, quando sia contemplato per se stesso, al di fuori di qualsiasi preoccupazione per le sorti dei singoli esistenti. E l’Islandese riceve la rivelazione del perpetuo circuito della Natura stessa, che gli è apparsa come un’entità «di volto mezzo tra bello e terribile». Attraverso la scoperta del moto circolare che governa le cose Leopardi, che intanto distrutto qualunque schermo ideologico lo separasse dal contatto col reale, sembra finalmente essere giunto a quella meta che si era prefissa:

...la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quello che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch’esse non hanno. La natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda ed aperta. Per ben conoscerla non è bisogno alzare alcun velo che la cuopra: è bisogno rimuovere gl’impedimenti e le alterazioni che sono nei nostri occhi e nel nostro intelletto; e queste, fabbricateci e cagionateci da noi col nostro raziocinio. Quindi è che i più semplici più sanno: che la semplicità, come dice un filosofo tedesco, (Wieland) è sottilissima, che i fanciulli e i selvaggi più vergini vincono di sapienza le persone più addottrinate: cioè più mescolate di elementi stranieri al loro intelletto. (Zib. 2710; 21 MAGGIO 1823 ). [NOTA: il nodo di pensieri sintetizato dalla rappresentazione del Dialogo implica un’altra, complementare conclusione, che sarà resa esplicita in termini discorsivi nello Zib. il 2 giugno 1824: ossia il convincimento della totale inadeguatezza della ragione alla conoscenza del reale: «Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura. L'essere effettivamente, e il non potere in alcun modo esser felice, e ciò per impotenza innata e inseparabile dall'esistenza, anzi pure il non poter non essere infelice, sono due verità tanto ben dimostrate e certe intorno all'uomo e ad ogni vivente, quanto possa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostra esperienza. Or l'essere, unito all'infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso a se stesso e suo proprio inimico. Dunque l'essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo. La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfezione dell'esistenza (imperfezione dimostrata dalla necessità di essere infelice, e compresa in lei); cioè nell'essere, ed essere per necessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e propria. Di più che una tale essenza comprenda in se una necessaria cagione e principio di essere malamente, come può stare, se il male per sua natura è contrario all'essenza rispettiva delle cose e perciò solo è male? Se l'essere infelicemente non è essere malamente, l'infelicità non sarà dunque un male a chi la soffre nè contraria e nemica al suo subbietto, anzi gli sarà un bene poichè tutto quello che si contiene nella propria essenza e natura di un ente dev'essere un bene per quell'ente. Chi può

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comprendere queste mostruosità? Intanto l'infelicità necessaria de' viventi è certa. E però secondo tutti i principii della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l'essere. Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche cosa? L'amor proprio è incompatibile colla felicità, causa della infelicità necessariamente, se non vi fosse amor proprio non vi sarebbe infelicità, e da altra parte la felicità non può aver luogo senz'amor proprio, come ho

provato altrove, e l'idea di quella suppone l'idea e l'esistenza di questo. Del resto e in generale è certissimo che nella natura delle cose si scuoprono mille contraddizioni in mille

generi e di mille qualità, non delle apparenti, ma delle dimostrate con tutti i lumi e l'esattezza la più geometrica della metafisica e della logica; e tanto evidenti per noi quanto lo è la verità della proposizione Non può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunziare alla credenza o di questa o

di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione» (4099-4100)]

Tutta spiegata, nuda e aperta sta la Natura davanti all’Islandese: tutta spiegata appare la natura davanti all’autore delle Operette morali, in un regale distacco in cui la bellezza si fonde con una indifferenza che alle creature sembra crudeltà [NOTA: E Mario Praz ha trovato infatti sostanziale rispondenza tra gli argomenti svolti da Leopardi e il discorso di Almani nella Justine di Sade sulla crudeltà della natura]. Non nel dimenticare le conclusioni negative della ragione e nel tornare a una qualche speranza o fiducia sta per Leopardi la possibilità di una visione pacificata; bensì nella totale rinuncia a qualsiasi speranza e fiducia. L’intervento salvifico di Amore si annuncia soltanto dopo che il ritmo ciclico della storia umana si è dispiegato lungo la narrazione; e Plotino esorta Porfirio a sopportare la fatica della vita per amore delle persone care dopo avergli ricordato come l’esistenza si svolga secondo un ritmo d’incessanti ritorni. Ma l’esempio più alto ed evidente di questa conquistata coscienza è offerto dal Coro dei morti del Ruysch, dove la perfetta circolarità della forma coincide con la rappresentazione forse più ardita nell’intera opera leopardiana: di un ritorno dalla morte al pensiero della vita, visto dalla aprte della morte, nella assoluta abolizione di ogni schermo tra prima e dopo, al di qua e al di là, soggetto e oggetto. La «ignuda natura» dei morti appar infine in comunione col fondo di tutte le cose, nel quale si acquieta ogni affanno. È il punto d’arrivo nella ricerca del «poetico» della natura, che si svela infine come morte intrinseca all’essere. E dall’ultimo grado della meditazione si libera di nuovo, a contatto con il cuore delle cose, la poesia in versi del Coro; s’impenna sula prosa che ha accompaganto l’arrivo a quella soglia.

Se è possibile parlòare di un superamento delle premesse nichiliste nel corso delle Operette morali, è anche possibile individuarne le premesse fin dalla Storia. Nell’iniziale visione totalmente negativa è latente la disperata pace degli sviluppi ulteriori: l’estatica contemplazione dell’Elogio degli uccelli e del Colombo, l’abolizione del rimpianto e della speranza che scaturisce dalla considerazione del perenne ritorno di un tempo che si richiama alle Origini nel Venditore d’almanacchi, l’invocazione di Tristano alla morte nell’altro Dialogo del ’32, in cui si placa la tensione polemica, risorta, derisoria come mai prima, a spazzar via le favole moderne, capaci pur sempre, se non d’impedire il raggiungimento di una meta ormai chiara, d’intralciare il cammino col riscatto delle mezze verità.

E la scoperta manifestata soprattutto dal Coro, permessa e quasi prodotta dalla più rigorosa strategia negativa, costituisce un punto fermo per lo svolgimento di tutta l’opera successiva, anche al di fuori delle Operette morali. La presuppongono i risultati più alti dei «grandi Idilli», la melodia infinita del Canto notturno, che torna su se stessa con lo steso andamento ciclico della luna interrogata dal pastore, l’offrisi delle cose come in un eterno presente («Sgombrarsi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare»), come se lo sguardo del poeta avesse riacquistato l’acume fanciullesco e antico rimpianto fin dal Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, «quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accenndao, quasi mostrasse di volerci favellare». Da tutta la successiva posia leopardiana, pur così capace di nuova vita, pare ancora posarsi sulle cose lo sguardo dei morti del Ruysch.

Si potrà certo obiettare che il modo di conoscenza qui attribuito a Leopardi è dedotto soprattutto dall’analisi di fatti stilistici. Ma sarà obiezione fondata sul rifiuto della forza consocitiva propria del testo poetico, che non è riducibile a mero veicolo di un pensiero già

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compiuto, ed è invece capace di costituire un suo proprio senso che, al limite, può persino contraddire il significato del messaggio esplicito.

6. Dalla individuazione della prosa come strumento espressivo peculiare del poetare moderno, alal decisione di farsi filosofo moderno e alla composizione nel ’24 della massima parte delle Operette morali, Leopardi muove con un passo incalzante verso la meta e , correndo un rischio massimo, gioca tutte le sue carte nella scommessa.Si trattava, in realtà, di una somma di rischi. Facendosi filosofo, filosofo moderno, Leopardi doveva evitare di fermarsi a mezza strada, prima di avere sradicato tutti gli errori costruiti dalla mente umana, tutte le «verità positive». Convertendosi alla filosofia, aveva candidato se stesso come ultimo filosofo, come affossatore della filosofia; e nessuna garanzia gli si offriva, d’altronde, nonché di giungere alla meta, di verificare l’ipotesi di un ritrovamento, aquel punto, di una condizione conoscitiva e vitale incontaminata.Sul versante formale il pericolo, altrettanto grave, era costituito dalla possibile resa ai modi caratteristici della prosa moderna di stampo francese o francesizzante. La lingua francese è infatti sottoposta nella sua forma alla servitù della ragione; in essa, poesia e prosa sono state livellate da quella stessa forza nefasta. La lingua italiana, privilegiata dalla sua indole antica, offre però allo scrittore i mezzi per sottrarsi a quella schiavitù :

... Tutto ciò ch’è precisamente definito, potrà bene aver luogo talvolta nel linguaggio poetico, giacchè non bisogna considerar la sua natura che nell’insieme, ma certo propriamente parlando, e per se stesso, non è poetico. Lo stesso effetto e la stessa natura si osserva in una prosa che senza esser poetica, sia però sublime, elevata, magnifica, grandiloquente. La vera nobiltà dello stile prosaico, consiste essa pure costantemente in non so che d’indefinito. Tale suol essere la prosa degli antichi, greci e latini. E v’è non pertanto assai notabile diversità fra l’indefinito del linguaggio poetico, e quello del prosaico, oratorio ec.Quindi si veda come sia per sua natura incapace di poesia la lingua francese, la quale è incapacissima d’indefinito, e dove anche ne’ più sublimi stili, non trovi mai altro che perpetua, ed intera definitezza.Anche il non aver la lingua francese un linguaggio diviso dal volgo, la rende incapace d’indefinito, e quindi di linguaggio poetico, e poichè la lingua è quasi tutt’uno colle cose, incapace anche di vera poesia.Nè solo di linguaggio poetico, ma anche di quel nobile e maestoso linguaggio prosaico, ch’è proprio degli antichi, e fra tutti i moderni degl’italiani (degli spagnuoli ancora, e de’ francesi prima della riforma), e che ho specificato qui dietro. (Zib. 1901-1902; 12 ottobre 1821)

L’impresa di Leopardi, scrittore italiano, è diretta a offrire alla letteratura nazionale una prosa filosofica, che essa non possiede. La presente situazione dell’Italia è caratterizzata dall’assenza di letteratura propria moderna e di filosofia moderna; e se s’interpretano in reciproco rapporto gli appunti alle pp. 1057-58 e 1997-98 dello Zibaldone, l’assenza di letteratura prosastica moderna appare come la conseguenza della mancanza di filosofia moderna. Né valgono a colmare il vuoto calchi eseguiti su modelli stranieri: la prosa italiana foggiata su schemi settecenteschi francesi ne ripete fatalmente l’aridità, la secchezza meramente geometrica, quindi si pone al di fuori di una tradizione che dev’essere ravvisata e non spenta. In Leopardi passione nazionale, coscienza linguistica, ricerca letteraria e tensione filosofica «negativa» tendono a convergere, in polemica sia con la restaurazione politico-sociale, il purismo linguistico, l’accademismo letterario, sia con il cosmopolitismo, «la vicendevole fratellanza delle scienze e delle arti, i miracoli dell’industria», lo schematismo linguistico e letterario di origine francese, il carattere analitico della filosofia moderna:

L’analisi delle cose è la morte della bellezza o della grandezza loro, e la morte della poesia. Così l’analisi delle idee, il risolverle nelle loro parti ed elementi, e il presentare nude e isolate e senza veruno accompagnamento d’idee concomitanti, le dette parti o elementi d’idee. Questo appunto è ciò che fanno i termini, e qui consiste la differenza ch’è tra la precisione, e la proprietà delle voci. La massima parte delle voci filosofiche divenute comuni oggidì... non fa altro che esprimere idee già contenute nelle idee antiche, ma ora separate dalle altre parti delle idee madri, mediante l’analisi che il progresso dello spirito umano ha fatto naturalmente di queste idee madri... Quindi la secchezza che risulta dall’uso de’ termini (Zib. 1234-1235)

Risalendo al ’21, un pensiero come questo appartiene, certo, a una fase ancora «antifilosofica»; tuttavia le posizioni raggiunte da Leopardi nel ’23 derivano, assai più che da un’inversione di rotta, da un più rigoroso sviluppo di tali premesse. La scomposizione delle idee madri in idee particolari appare nel ’21 come distruzione di totalità conoscitive, frantumate in verità positive

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particolari; nel ’23 il procedimento analitico non è affatto rinnegato, bensì vagheggiato nelle sue cnseguenze ultime: come sradicamento totale di verità positive sia generali sia particolari, e conquista di un Vero negativo. Parallelamente, sul piano linguistico-stilistico, il rifiuto dei «termini» è mantenuto; ma l’attuazione di una prosa caratterizzata dalla ricerca dell’ «indefinito» si concreta, nelle Operette, assai meno che negli Idilli e nelle Canzoni, come ricerca del «vago» e dell’ «ardito» (meno che mai del «grandiloquente»): assai più, invece, come scoperta del senso negativo celato in tante voci o costruzioni «vaghe» «ardite» «poetiche».Nel dibattere da vari angoli visuali la questione teorica e, al tempo stesso, nell’elaborare la sua nuova poetica di prosatore italiano moderno, Leopardi oscilla invero, nel giro di qualche anno, tra ipotesi di soluzione anche distanti. Ma al disotto del susseguirsi di risposte anche divergenti è possibile scorgere un procedere, discontinuo ma graduale, verso il superamento di contrasti che dapprincipio sembravano insormontabili. Ad attenuare la constatazione che la «buona» lingua italiana non è mai stata «applicata» al «genere filosofico moderno e preciso», e a rafforzare il convincimento che esso possa e debba aprirsi anche a «quel genere filosofico che possiamo generalmente chiamare metafisico, e che abbraccia la morale, l’ideologia, la psicologia (scienza de’ sentimenti, delle passioni e del cuore umano) la logica, la politica più sottile ec.», che è «la parte principalissima e quasi il tutto degli studi e della vita d’oggidì», stanno le eccezioni registrate il 13 luglio 1821: gli scritti scientifici del Galilei, del Redi «e pochi altri», gli scritti politici del Machiavelli «e di qualche altro antico», «riusciti perfettamente quanto alla lingua, ed in ordine alla amteria, quanto comportavano i tempi e le cognizioni d’allora» (Zib. 1316-17). Con discorso più generale il 30 ottobre la lingua italiana è giudicata capacissima di «stile preciso» e capacissima d’eleganza, anche se non nei tempi modernim (come si vede in Galileo, «purissimo italiano» se non elegante «dovunque è preciso e matematico»), e a differenza della lingua francese, che è incapacissima di eleganza. Il 14 novembre Leopardi fa un’affermazione anche più larga:

... la lingua italiana essendo fra le lingue moderne formate la più antica di fatto e d’indole, la più libera ec. (tanto ch’ella vince in queste qualità la stessa latina sua madre) è sommamente capace di filosofia, per astrusa che possa essere, quando coloro che l’adoprano, sappiano conoscere e impiegare le sue qualità, e le immense sue forze, e le forme di cui è suscettibile per sua natura, e volerla applicare alle cose moderne ec.

A mano a mano che s’approssima il tempo delle Operette, la meditazione leopardiana sui problemi che condizionano l’idea e la composizione del libro si concreta in blocchi di pagine dello Zibaldone via via più compatti. Tra il 1° e il 2 settembre 1823, a breve distanza ormai dallo scatto inventivo del ’24, Leopardi riempie di seguito ventidue pagine, dedicandole interamente alla situazione dello scrittore italiano moderno. Motivi già dibattuti e spunti già proposti sono ripresi e immessi in un discorso che aspira alla’organicità. I dati sono fissati in modo netto: assenza di lingua nazionale moderna in Italia, derivata dall’assenza di letteratura da più di centocinquant’anni, in coincidenza col sorgere e il progredire delle letterature europee, sensibili al movimento della cultura nuova: «Ciò singolarmente si può dire in quanto alla filosofia, la quale rinata dopo la detta epoca, e tutta nuova, fa parere più che pigmea la filosofia di tutti gli altri secoli insieme. Ella è divenuta la scienza, il carattere, la proprietà de’ moderni; ella regge, domina, vivifica, anima tutta la letteratura moderna; ella n’è la materia e il subbietto; ella in somma è il tutto oggidì negli studi, e in qualsivoglia genere di scrittura; o certo nulla è senza di lei. » (Zib. 3321). Glis crittori italiani dei tempi recenti sono caduti in due errori opposti ed equivalenti: o hanno imitato la lingua e la letteratura antica, precludendosi la possibilità di essere scrittori vivi, o hanno imitato le letterature straniere e, di conseguenza, i loro schemi linguistici, andando «a scuola dagli stranieri» e così seguendo «barbarie venuta in uso». (Una barbarie – è certo – non consistente soltanto nell’abbandono della tradizione nazionale, ma piuttosto, visto che Leopardi non è purista né nazionalista né classicista in senso accademico, costituita dall’obbedienza a codici mentali e de espressivi tipicamente moderni). La constatazione non sembra però impedire un via d’uscita: da cercarsi non certo nell’accettazione inerte del patrimonio linguistico italiano, ma nell’indole della nostra lingua, che è lingua «antica bensì, ma ricchissima, vastissima, bellissima, potentissima»

volendo dare alla moderna Italia una moderna letteratura, conviene non già mutare la sua antica lingua, nè disfarla, nè rinnovarla, ma salvi i suoi fondamenti, l’indole e proprietà sua, e tutti i suoi pregi secondo le loro speciali e proprie qualità, rimodernarla, e fare in modo che la lingua moderna italiana illustre sia propriamente una continuazione, una derivazione dell’antica, anzi la medesima antica lingua continuata. (Zib. 3325-26)

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quanto più penetrerà nell’indole della lingua italiana, che è dinamica, tanto più, per questa via paradossale, lo scrittore ne attuerà il rinnovamento.Consepevole del rapporto d’interazione che corre tra lingua e letteratura, Leopardi oscilla tra la speranza di un autentico rinnovamento linguistico affidato a scrittori che dovrebbero però fabbricarsi lo strumento con cui significare loro idee, e la previsione di una lingua foggiata da una nuova letteratura soggetta alle idee e al gusto dominante:

con mio dispiacere predìco che seppur avremo mai più lingua moderna propria, questa non nascerà dall’antica nè a lei corrisponderà, ma nascendo dalla nuova letteratura, a questa sarà conforme: ed essendo di origine straniera, ci si verrà appoco appoco appropriando e pigliando forme nazionali (quai ch’elle saranno per essere; non già le antiche)... (Zib. 3333)

[...] Eppure, diviso tra speranze non confortate dalla realtà contemporanea e previsioni di uno sviluppo storico che avverrà nel segno della «barbarie», l’animo di Leopardi si orienta, nonostante tutto, nel senso della speranza, privo di altri punti d’appoggio all’infuori di una non dichiarata ma trasparente fiducia nelle proprie forze. È, in realtà, un autoritratto il profilo dell’«italiano» che, come già nel Discorso intorno alla poesia romantica, si pone al di sopra dello scontro in atto dal 1816 tra conservatori e novatori, classicisti e romantici, paladini della tradizione nazionale e fautori di aperture europee, idolatri delle forme e agitatori di idee e problemi: incapaci, tutti, di operare una sintesi tra poli che soltanto in astratto appaiono contrapposti:

Quindi si consideri... la vera infelicità della condizione in cui si trova oggidì l’italiano che aspiri ad esser scrittor classico, cioè pensare originalmente, dir cose proprie del tempo, dirle in modo proprio del tempo, e perfettamente adoperare la sua lingua, senza le quali condizioni, e una sola che ne manchi, non si può mai nè pretendere giustamente, nè ragionevolmente sperare l’immortalità letteraria. (Alla quale, e sia detto per incidenza, ben raro o niuno è che giungesse per mezzo di opere scritte in lingua non sua; come se noi spaventati dalle difficoltà che ho detto e son per dire, volessimo scrivere in francese piuttosto che in italiano.) (Zib.3326-27)

Il riferimento all’impresa individuale di Dante nel pensiero-postilla del 2 settembre 1823 (Zib. 3338-40) conferma che Leopardi pensa a un rinnovamento linguistico operato dall’iniziativa di uno scrittore nuovo. Sarà tuttavia un altro argomento, non deducibile da queste né da altre pagine, a svelare in modo decisivo la disperta fiducia che a un certo punto prevale in lui: il fatto oggettivo che di là a qualche mese scelga di esser lui, nonostante tutti i segni riconosciuti avversi all’impresa, quello scrittore italiano moderno, prosatore e filosofo.Se lo Zibaldone chiarisce tra il ’21 e il ’23 ragioni e modi del costituirsi nella mente di Leopardi dell’idea delle Operette, è l’esistenza delle Operette a rivelare al lettore d’oggi il senso più vero delle pagine zibaldoniane, nelle quali le considerazioni teoriche non si esauriscono in sé ma si aprono alla progettazione; senza perdere, per questa loro natura eteronoma, vigore teoretico, eppure rinviando oltre se stesse, a un piano più alto. Nei tempi del processo conoscitivo leopardiano – dallo Zibaldone alle Operette morali – l’interpretazione della realtà storica si muta, davvero, nella sua trasformazione.Scelta della prosa in accordo col pensiero moderno, seguìto solo inquanto distruttore di errori, antichi e nuovi, significa anche rifiuto di schemi stilistici fissati da una letteratura filosofica e scientifica dominata dalla ragione «geometrica»; e la ricerca, al di là d essi, di un nuovo stile, atto a esprimere una visione totalmente spoglia d’inganni e, al di là di questa, il senso, non definibile in termini razionali, del rapporto profondo con la totalità, con la «università delle cose», non viziato da alcuno schema ideologico, né antico né moderno. Una prosa, perciò, quasi assolutamente priva di abbellimenti, se non per ottenere efffetti deformanti (come per es. nella Proposta dei premi), del tutto aliena dalla floridezza lessicale e ritmica della tradizione avviata dal Boccaccio (cfr. Zib. 1384-86); spesso disadorna, invece, ma non nella soddisfatta compostezza di una scrittura filosofica o scientifica settecentesca; bensì come affiorante da un fondo di buio e di silenzio. E increspata da voci antiche, liberamente derivate da autori del Tre, del Cinque, del Seicento, o che rinviano alla origine latina; mai ripescate con intenti puristici ma scempre a evocare un «passato» non definibile in termini storici [NOTA: C. Vossler consideò l’amore leopardiano per l’arcaismo come volontà di ritorno alla «semplice e fresca voce della gioventù dei popoli» (Leopardi, [1923], p.217)]; e sintatticamente, prosa svariante da una scansione aforistica ritmata secondo modi negativi a movimenti ampi, poggianti su riprese, su ritorni; gravitante, infine, intorno a pochi perni, costiducono ai centri della meditazione veramente filosofica la felicità, la morte, il destino, il nulla. Se si riconosce

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che l’impulso e il motore della scrittura leopardiana è di titpo piuttosto conoscitivo che letterario e, d’altra parte, che il modello di esistenza al quale egli guarda per giudicare su quel metro il mondo contemporaneo non si può situare in un momento storico determinato, occorre prender atto della difficoltà d’isolare un periodo di storia della prosa italiana (non si dice un autore) per trovarvi certe premesse di quei risultati. I ricorrenti arcaismi lessicali e sintattici rinviano a tutta la tradizione italiana fino a quel Settecento in cui, effettivamente, essa si trasformò anche sotto l’urgere di un tipo straniero di prosa formatosi in accordo con un pensiero razionalistico appagato dalle verità positive conquistate. Sulla scorta di giudizi formulati nello Zibaldone e delle scelte operate più tardi per la Crestomazia si potrà, al più indicare un preferenza per il Cinquecento, visto coem secolo della maturità prosastica. [...] Se si terrà conto di questi dati e del fatto che anche all’interno di un determinato àmbito storico le preferenze e la reattività di Leopardi si manifestabno specialmente di fronte a testi coem quelli raccolti nelle sezioni Filosofia speculativa e Filosofia pratica della Crestomazia, si dovrò concludere che una ricerca, se non di «fonti», di premesse, di rispondenze nel passato a situazioni, quadri spunti, modi stilistici delle Operette morali sarà più fruttuosa se orientata verso testi che potevano imporsi all’attenzione o riafforare alla memoria anzitutto per ragioni filosofiche. (Anzitutto, enon soltanto, s’intende; poichè Leopardi nega persino la possibilità di un pensiero separato dall’espressione [cfr. Zib. 1694; 13 settembre 1821]).

FRAMMENTO SUL SUICIDIO

Che vale il dire che l’uomo è cambiato? Se anche la natura invecchiasse o potesse mai cambiarsi ecc. Ma poiché ecc. e la felicità che la natura ci ha destinata, e le vie d’ottenerla sono sempre immutabili e sole, a che fine ci condurrà l’averle abbandonate che cosa dimostrano tante morti volontarie ecc. se nonché gli uomini sono stanchi e disperati di questa esistenza? Anticamente gli uomini si uccidevano per eroismo per illusioni per passioni violente ecc. e le morti loro erano illustri. ecc. Ma ora che l’eroismo e le illusioni sono sparite, e le passioni così indebolite, che vuol dire che il numero dei suicidi è tanto maggiore e non solamente nelle persone illustri per grandi sventure come una volta, e nutrite di grandi immaginazioni, ma in ogni classe, tanto che queste morti neanche sono più illustri? Che vuol dire che l’Inghilterra n’è stata sempre più feconda che le altre parti? Vuol dire che in Inghilterra si medita più che altrove, e dovunque si medita, senza immaginazione ed entusiasmo, si desta la vita; vuol dire che la cognizione delle cose conduce il desiderio alla morte ecc. Ed ora si vedono morti volontarie fatte con tutta freddezza. E infatti se togliamo il timore o la speranza del futuro, non è così meschino calcolatore che ragguagliando le partite di una vita nulla e morta e piena di dolore e di noia certa che inevitabile ecc.ecc.ecc.

E pure il suicidio è la cosa più mostruosa in natura ecc.ecc.

Non è più possibile l’ingannarci o il dissimulare. La filosofia che ha fatto conoscer tanto che quella dimenticanza di noi stessi ch’era facile una volta, ora è impossibile. O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a pare re una sostanza, e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto. So che questi parranno sogni e follie, come so ancora che chiunque trent’anni addietro avesse prenunziata questa immensa rivoluzione di cose e di opinioni della quale siamo stati e siamo spettatori e parte, non avrebbe trovato chi si degnasse di mettere in beffa il suo vaticinio ecc. In somma il continuare in questa vita della quale abbiamo conosciuto l’infelicità e il nulla, senza distrazioni vive, e senza quelle illusioni su cui la natura ha stabilita la nostra vita, non è possibile.

Tuttavia la politica segue ad esser quasi puramente matematica, in cambio d’esser filosofica, quasi che convenisse alla filosofia dopo aver distrutto ogni cosa l’adoprarsi a riedificare (quando anzi questo dev’essere il suo vero oggetto presentemente, al contrario de’ tempi d’ignoranza), e ch’ella non dovesse mai fare un gran bene agli uomini, perchè fin qui non ha fatto loro altro che beni piccoli e mali sommi. Oggetto primitivo della natura nel variare le cose: la distrazione dell’uomo, e il non farlo fermare a lungo in nessun oggetto neanche nel piacere il quale dopo lungo desiderio allora ch’è conseguito ci diventa arena tra le mani, e come quegli ebrei che dicevano haec est illa Noemis? Così noi sempre e inevitabilmente diciamo allora questo è quel gran piacere? Tutto il piano della natura intorno alla vita umana si aggira sopra la gran legge di distrazione, illusione e dimenticanza. Quanto più questa legge è svigorita tanto più il mondo va in perdizione.

Pochissimi convengono che le cose antiche fossero veramente più felici delle moderne, e questi pochissimi le riguardano come cose alla quali non si dee più pensare perché le circostanze sono cambiate. Ma la natura non è

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cambiata, e un’altra felicità non si trova, e la filosofia moderna non si dee vantare di nulla se non è capace di ridurci a uno stato nel quale possiamo esser felici. O sieno cose antiche o non antiche, il fatto sta che quelle convenivano all’uomo e queste no, e che allora si viveva anche morendo, e ora si muore vivendo, e che non ci sono altri mezzi che quegli antichi per tornare ad amare e a sentir la vita.

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