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FORNARA Roberto, La visione contraddetta. La dialettica fra visibilità e non-visibilità divina nella Bibbia ebraica con particolare riferimento ai testi fondanti della Tôrâ d’Israele . La tesi per il dottorato in teologia biblica è stata discussa il 13 gennaio 2004 presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma . Presidente della Commissione era il P. Roland Meynet, sj, della PUG. Relatrice della dissertazione era la Prof. Bruna Costacurta, della PUG, mentre il P. Pietro Bovati, Vice- Rettore del PIB, è stato il secondo relatore. La teologia biblica e la spiritualità cristiana, sulla scia della grande tradizione apofatica, hanno spesso amplificato il «dogma» dell’invisibilità divina, fondandosi su affermazioni veterotestamentarie, quali Es 33,20: nessun uomo può «vedere Dio» e restare in vita. D’altra parte, si è talora creato uno iato profondo fra l’ermeneutica biblica e la tradizione mistica, che ha invece attinto a piene mani alla metafora visiva per parlare dell’esperienza di Dio. Negli studi critici, la netta separazione fra i due Testamenti ha poi contribuito a contrapporre drasticamente due modalità di rivelazione: se il Dio rivelato dal Primo Testamento rimane un Dio invisibile, la sua visibilità è rintracciabile soltanto nella carne umana del Verbo. In realtà, una lettura anche superficiale dei testi può rilevare, all’interno della stessa Bibbia ebraica, affermazioni apparentemente contraddittorie. In Es 24,9-11, per esempio, l’esperienza privilegiata di Mosè, di Aronne e degli anziani d’Israele si contrappone apertamente ad Es 33,20, poiché essi «vedono Dio», mangiano e bevono. Uno studio più attento del lessico e delle strutture narrative dei contesti interessati, ci ha permesso di scoprire non solo che questa tensione è presente nel Primo Testamento, ma che essa rappresenta l’elemento costitutivo delle diverse esperienze di Dio. La pubblicazione della Teologia dell’Antico Testamento di Walter Brueggemann ci ha confermati nella nostra iniziale ipotesi di lavoro. Brueggemann coglie, infatti, in tutta la teologia veterotestamentaria, questa tensione di fondo tra due poli opposti. Talvolta la copresenza degli estremi tradisce fonti e tradizioni diverse nella preistoria del testo; in una lettura sincronica, però, l’eventuale scelta redazionale di preservare certe affermazioni teologiche insieme ai loro contrari, è portatrice di senso. Essa imprime al testo un dinamismo di ricerca e di superamento, creando – al tempo stesso – una serie di ambiguità e di sfumature, che permettono di salvaguardare il mistero divino e il senso della trascendenza. Si è così aperta una strada per lo studio della dialettica fra visibilità e non-visibilità divina nella Bibbia ebraica, una ricerca che si rendeva necessaria per due motivi. Anzitutto, manca – a tutt’oggi – una monografia critica che raccolga questi dati nella loro fenomenologia e li studi per la loro rilevanza teologica. In secondo luogo, è necessario riequilibrare la tradizionale impostazione riservata al fenomeno teofanico: i grandi studi critici sulle teofanie bibliche (primo fra tutti, il classico lavoro di Jeremias) hanno isolato diversi elementi per lo studio di questo

Fornara Roberto

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FORNARA Roberto, La visione contraddetta

Fornara Roberto,La visione contraddetta. La dialettica fra visibilit e non-visibilit divina nella Bibbia ebraica con particolare riferimento ai testi fondanti della Tr dIsraele . La tesi per il dottorato in teologia biblica stata discussa il 13 gennaio 2004 presso la Pontificia Universit Gregoriana di Roma . Presidente della Commissione era il P. Roland Meynet, sj, della PUG. Relatrice della dissertazione era la Prof. Bruna Costacurta, della PUG, mentre il P. Pietro Bovati, Vice-Rettore del PIB, stato il secondo relatore. La teologia biblica e la spiritualit cristiana, sulla scia della grande tradizione apofatica, hanno spesso amplificato il dogma dellinvisibilit divina, fondandosi su affermazioni veterotestamentarie, quali Es 33,20: nessun uomo pu vedere Dio e restare in vita. Daltra parte, si talora creato uno iato profondo fra lermeneutica biblica e la tradizione mistica, che ha invece attinto a piene mani alla metafora visiva per parlare dellesperienza di Dio. Negli studi critici, la netta separazione fra i due Testamenti ha poi contribuito a contrapporre drasticamente due modalit di rivelazione: se il Dio rivelato dal Primo Testamento rimane un Dio invisibile, la sua visibilit rintracciabile soltanto nella carne umana del Verbo. In realt, una lettura anche superficiale dei testi pu rilevare, allinterno della stessa Bibbia ebraica, affermazioni apparentemente contraddittorie. In Es 24,9-11, per esempio, lesperienza privilegiata di Mos, di Aronne e degli anziani dIsraele si contrappone apertamente ad Es 33,20, poich essi vedono Dio, mangiano e bevono. Uno studio pi attento del lessico e delle strutture narrative dei contesti interessati, ci ha permesso di scoprire non solo che questa tensione presente nel Primo Testamento, ma che essa rappresenta lelemento costitutivo delle diverse esperienze di Dio. La pubblicazione della Teologia dellAntico Testamento di Walter Brueggemann ci ha confermati nella nostra iniziale ipotesi di lavoro. Brueggemann coglie, infatti, in tutta la teologia veterotestamentaria, questa tensione di fondo tra due poli opposti. Talvolta la copresenza degli estremi tradisce fonti e tradizioni diverse nella preistoria del testo; in una lettura sincronica, per, leventuale scelta redazionale di preservare certe affermazioni teologiche insieme ai loro contrari, portatrice di senso. Essa imprime al testo un dinamismo di ricerca e di superamento, creando al tempo stesso una serie di ambiguit e di sfumature, che permettono di salvaguardare il mistero divino e il senso della trascendenza. Si cos aperta una strada per lo studio della dialettica fra visibilit e non-visibilit divina nella Bibbia ebraica, una ricerca che si rendeva necessaria per due motivi. Anzitutto, manca a tuttoggi una monografia critica che raccolga questi dati nella loro fenomenologia e li studi per la loro rilevanza teologica. In secondo luogo, necessario riequilibrare la tradizionale impostazione riservata al fenomeno teofanico: i grandi studi critici sulle teofanie bibliche (primo fra tutti, il classico lavoro di Jeremias) hanno isolato diversi elementi per lo studio di questo genere letterario (il venire di Dio, gli sconvolgimenti degli elementi naturali, la parola o la presenza divina), ma hanno sorprendentemente trascurato di approfondire lo studio di un elemento centrale: la metafora visiva. I tentativi pi pregevoli, in proposito, sono molto datati e parziali. Una dissertazione di Staton del 1988 (non pubblicata) si proponeva in verit di colmare la lacuna, ma la sua opera si rivela abbastanza approssimativa, e si limita al tema del vedere e dellapparire, senza cogliere la dialettica fra i due poli del problema. La sua impostazione diacronica, inoltre, superata, nonostante sia posteriore alla messa in discussione dellipotesi documentaria. La presente dissertazione si propone, dunque, di colmare il vuoto. Lambito di ricerca non la teofania in quanto tale, e i testi analizzati non rientrano tutti allo stesso livello in questo genere letterario. Ci siamo occupati della percezione visiva della divinit quale metafora per lesperienza umana di Dio; il campo stato ristretto ulteriormente, limitandolo alla tensione che si viene a creare, nella Bibbia ebraica, fra laffermazione e la negazione di tale percezione. La selezione previa dei testi biblici di riferimento avvenuta identificando i lessemi del campo semantico del vedere, studiando poi di volta in volta in prospettiva sincronica tutti gli accorgimenti lessicali, sintattici, simbolici e narrativi, che potessero in qualche modo contraddire o limitare laffermazione della percezione visiva del divino. I risultati della ricerca sono stati suddivisi in tre grandi sezioni, relativamente omogenee. Una prima parte (composta dai tre capitoli iniziali) presenta la fenomenologia generale della percezione visiva del divino. La seconda parte (dal quarto al sesto capitolo) si concentra sulla dinamica del processo percettivo, mentre i sei capitoli finali, che costituiscono la terza ed ultima parte del lavoro, sono dedicati allanalisi esegetico-teologica dei testi fondanti. Prima parte FENOMENOLOGIA GENERALE DELLA PERCEZIONE VISIVA DEL DIVINO Scopo di questa parte introduttiva di presentare un panorama il pi possibile completo e dettagliato delle forme in cui la Bibbia ebraica parla della percezione visiva del mondo divino. E prevalente, in questo contesto, unanalisi di tipo lessicografico. In un primo capitolo, si analizzano i testi che affermano la percezione visiva. Accanto ai principali segnali indicatori del campo semantico della visione, molti altri indizi del testo concorrono ad affermare unesperienza di tipo visivo. La dissertazione commenta, ad esempio, la portata visiva dellesperienza onirica. Ne emerge unattenzione inaspettata della Bibbia ebraica alla metafora visiva, percepibile anche nei riferimenti simbolici allocchio, quale organo della percezione. La negazione della percezione non affidata semplicemente ad accorgimenti lessicografici, che vengono delineati nel secondo capitolo, ma anche ad una serie di metafore complementari: prima fra tutte, quella del nascondimento di Dio, ampiamente studiata, soprattutto nel gesto di nascondere il volto e nellimmagine del Dio che si nasconde, secondo il celebre testo di Is 45,15. Dal punto di vista narrativo, scopriamo che la visione pu essere impedita dalla divinit, sia per una forma di castigo, sia per un desiderio di protezione. La negazione pu essere, invece, espressione di una colpa delluomo, della paura di guardare o della vergogna di alzare lo sguardo. Le forme di negazione assoluta della percezione, che tanto hanno contribuito a determinare il dogma dellinvisibilit divina, rappresentano contesti significativi, ma quantitativamente marginali del primo Testamento. Espressa in forma apodittica, la negazione assoluta si riduce quasi esclusivamente al contesto di Es 33,18-23; sotto forma di domanda retorica, interessa invece alcuni testi profetici e il libro di Giobbe. Un excursus sulla relazione fra la non-visibilit divina e lidolatria conclude questo capitolo. Dallo studio dei testi emerge, per, una terza tipologia (oggetto del terzo capitolo), tesa a sfumare e limitare laffermazione o la negazione della percezione. Il ricorso lessicografico a particelle o lessemi di comparazione non rappresenta che una minima parte delle possibilit espressive. Lo studio si concentrato, pertanto, su altri lessemi particolarmente significativi, sulla metafora lessicalizzata nel linguaggio del culto e della piet personale, sulle limitazioni di carattere temporale e su quelle nellordine spaziale. In questultimo settore, emersa limportanza della distanziazione del soggetto dalloggetto, elemento costitutivo di ogni percezione visiva. In questa prima parte, come pure nella successiva, numerose tabelle corredano il testo, offrendo la possibilit di verificare la pertinenza delle conclusioni nella totalit delle ricorrenze implicate. Appare chiaro, fin da questa prima indagine, che i testi pi significativi non sono quelli che presentano la visione del Dio dIsraele o che negano la possibilit umana di vederlo, ma quelli che lasciano intravvedere il mistero di Yhwh, attraverso una serie di accorgimenti. Seconda parte IL FENOMENO DELLA PERCEZIONE VISIVA NEL SUO DINAMISMO Con questa seconda parte, il lavoro passa da unanalisi del fenomeno compreso staticamente, allo studio del processo percettivo nel suo dinamismo. Ci siamo proposti di individuare tutti i segnali del testo utili a fornire informazioni sullinizio del processo, sui suoi protagonisti, sulle fasi e le caratteristiche della sua evoluzione, sui suoi effetti e sulle sue conseguenze. Si comincia studiando il soggetto e loggetto della percezione (capitolo quarto). Per quanto concerne il primo aspetto, stato possibile rintracciare una certa preponderanza del soggetto individuale rispetto a quello collettivo (questultimo ristretto, prevalentemente, alle esperienze paradigmatiche dellEsodo e del Sinai), in uno stato di coscienza non alterato: fenomeni estatici di qualsiasi genere risultano del tutto marginali. E soprattutto lesame delloggetto, per, che pu indicare il grado di visibilit. In questa analisi dettagliata, ci siamo soffermati soprattutto sulla persona divina come oggetto di percezione e sulle diverse metafore antropomorfiche (in particolare il volto e limmagine divina), senza trascurare possibili mediazioni visive (come la figura dellangelo), o categorie teologiche, quali la gloria di Yhwh. Il quinto capitolo si occupa, pi propriamente, della percezione in atto, dallinizio al termine dellesperienza. Si cerca dapprima se esista una situazione iniziale privilegiata per lesperienza percettiva, in grado di favorire la visibilit. Non sembra che esista una condizione pi favorevole di altre a questo scopo, neppure atti rituali, la preghiera del singolo o le varie forme di ricerca del divino. Se esiste un ambito privilegiato, questo da cercare, piuttosto, nelle situazioni di difficolt, di crisi e di peccato. Si passa poi a descrivere il fenomeno della percezione, verificando anzitutto se lesperienza sia presentata come qualcosa di immediato oppure come un processo graduale. Un tema che interessa da vicino la dialettica la chiarezza della percezione. Si scopre cos che la collocazione temporale della visione nelle varie ore della giornata e della notte, influisce notevolmente sulla tensione fra visibilit e non-visibilit: lanalisi lessicografica e simbolica della luce conferma questo dato. Uno studio pi particolareggiato di 1Sam 3,1-15 mostra che la chiarezza della percezione non dipende assolutamente da fattori umani. Non rientrano, generalmente, negli scopi del narratore annotazioni circa la durata temporale della visione, collocata quasi fuori dal tempo. Abbondano invece i riferimenti alla reiterabilit dellesperienza, di cui abbiamo cercato di mettere in luce il significato teologico-spirituale. La reazione immediata alla percezione visiva di Dio ruota generalmente intorno allemozione della paura (che comporta, fra laltro, il desiderio di mantenere le distanze e il rifiuto di guardare) e allatteggiamento di stupore, di fronte ad unesperienza imprevista e imprevedibile. Sul versante della comunicazione verbale, la visione abilita alla parola e al dialogo con linterlocutore divino, pi che al silenzio adorante e contemplativo, sottolineando fra altri aspetti il carattere personale del Dio dIsraele. Le conseguenze a lungo termine possono interessare, invece, azioni cultuali, oppure la volont di tener viva attraverso segni visibili (un altare, una stele) la memoria dellincontro con Dio. Il cambiamento del nome del soggetto (o del luogo in cui avvenuta la percezione), presente in diversi racconti patriarcali, lespressione di una profonda trasformazione, originata appunto dallincontro con Dio. Nello stesso contesto, si studiano lannuncio e la testimonianza della visione, e le conseguenze etiche e spirituali sulla vita del protagonista, mentre un breve excursus rileva la fondamentale tensione insita nelle reazioni del soggetto: luomo desidera profondamente avvicinarsi a ci da cui si allontana perch ne ha paura. E la tensione tra fascinans e tremendum, messa in luce da R. Otto nei suoi studi sul sacro. Il capitolo si conclude con unindagine lessicografica sulle formule di conclusione dellatto percettivo, da cui traspare che il pi delle volte lindicazione sulla fine della percezione assente, creando cos una sorta di continuit fra la visione e le conseguenze che ne derivano. Elemento ricorrente , invece, il riconoscimento a posteriori della divinit: il soggetto riconosce lidentit del suo interlocutore solo nel momento in cui questi scompare dal suo campo visivo. Poich lindagine precedente ha fatto emergere diversi accorgimenti testuali e narrativi, sembrato opportuno dedicare uno studio specifico (il sesto capitolo) a queste strategie a servizio della dialettica. In un primo paragrafo si studiano i diversi livelli di tensione. Un filone poco studiato e, tuttavia, rilevante nel testo, costituito dai rapporti di sinestesia. Unanalisi narrativa dei testi ha permesso di evidenziare il fenomeno dellestensione o restrizione del campo visivo e quello del racconto autobiografico della percezione, mentre pi scontata (e ampiamente studiata) la tecnica del cambiamento del punto di vista (o focalizzazione). Lanalisi simbolica dei testi, partendo dallevidenza che il linguaggio mistico (come, del resto, ogni linguaggio religioso) di natura eminentemente simbolica, ha cercato di far emergere sia limportanza del simbolo al servizio della dialettica, sia le categorie simboliche predominanti: il fuoco (con la nube e il fumo), langelo e luomo. Terza parte ANALISI ESEGETICO-TEOLOGICA DI TESTI FONDANTI Le parti precedenti del lavoro hanno contribuito soprattutto a far emergere le costanti della dialettica nella Bibbia ebraica. Lultima parte si propone, invece, di cogliere le principali differenze specifiche, attraverso unanalisi esegetico-teologica dei testi ritenuti pi significativi. Data la vastit del materiale a disposizione, si imposta la necessit di delimitare la scelta dei testi ad alcune pericopi del Pentateuco, non solo per il valore normativo e fondante che riconosciamo alla Tr dIsraele, ma soprattutto per alcuni rilievi emersi nel corso del lavoro: a) il fenomeno della visibilit divina statisticamente pi rilevante nei primi cinque libri della Bibbia ebraica; b) dal punto di vista qualitativo, le grandi teofanie dei testi fondanti hanno uno spessore teologico e spirituale di gran lunga superiore, ad esempio, a quello delle visioni profetiche o delle metafore lessicalizzate del salterio; c) nei testi della Tr si trovano, talora semplicemente in nuce, tutti gli elementi lessicografici, narrativi e simbolici che caratterizzano la dialettica fra visibilit e non-visibilit divina anche nelle altre sezioni della Bibbia ebraica. Il settimo capitolo dedicato, appunto, a rendere ragione di questa scelta, offrendo nel contempo due indicazioni complementari. Da una parte, abbiamo voluto presentare lo status quaestionis degli studi diacronici in merito ai testi studiati. Daltra parte, abbiamo indicato per sommi capi la metodologia della nostra analisi, che comprende fondamentalmente i seguenti punti: delimitazione della pericope, ricerca della presenza e della significativit del campo semantico del vedere, ricerca dei segnali testuali (soprattutto sinonimi e antonimi) che consentano di costruire i poli della tensione, attenzione al dinamismo della dialettica nel movimento progressivo del testo, analisi simbolica della metafora o delle metafore predominanti, attenzione sommaria alla storia dellinterpretazione. I capitoli seguenti passano, dunque, in rassegna i testi scelti allinterno del Pentateuco. Dai racconti patriarcali abbiamo selezionato la prima alleanza di Dio con Abramo (Gn 15,1-21), il sogno di Giacobbe a Bethel (Gn 28,10-22), e soprattutto la sua lotta notturna allo Yabboq, narrata con maestria in Gn 32,22-33, con levidente intento di equilibrare visibilit e non-visibilit divina (ottavo capitolo). Dopo unanalisi del movimento del testo di Es 3,1-6 nel nono capitolo, lanalisi si concentra pi diffusamente sulla tradizione della teofania sinaitica e della rinnovazione dellalleanza nel complesso esodico (Es 19-24.33-34: decimo capitolo) e nella lettura deuteronomica dellevento (Dt 4-5; 9,7-10,11: undicesimo capitolo). Naturalmente, lo studio si limita al nostro tema e non intende affatto offrire unesegesi dettagliata di tutti questi testi, da cui estrapoliamo semplicemente le parti narrative. Il dodicesimo capitolo , infine, dedicato alla pericope dellasina di Balaam (Nm 22,22-35), di cui offriamo una chiave di lettura originale. Collocandola nel genere letterario della fiaba, vi scorgiamo infatti un dinamismo pedagogico, che illustra la necessit di un cammino per imparare a vedere Dio. Conclusione La vastit del tema ci ha impedito di studiare nel dettaglio tutti i testi, ma riteniamo che la dissertazione presenti in forma organica un panorama completo della dialettica, con ampi saggi esemplificativi, che nascono dallattenzione costante al testo biblico. Le strade che il lavoro apre sono, forse, pi numerose delle conclusioni a cui siamo giunti. Sarebbe certamente interessante studiare le linee di una possibile storia evolutiva della dialettica, in prospettiva diacronica; il compito non poteva rientrare nei limiti che ci siamo proposti. Allo stesso modo, ampi spazi di indagine si aprono per quanto riguarda la storia della ricezione della dialettica. Riteniamo, tuttavia, che la dissertazione dimostri sufficientemente la nostra ipotesi di lavoro: la dialettica non un modo per parlare dellesperienza di Dio, ma la modalit costante nella Bibbia ebraica per presentare questo tema. Parallelamente a questo risultato, sembra opportuno rivalutare la portata e linflusso culturale della metafora visiva nel mondo ebraico, troppo spesso e troppo frettolosamente contrapposto allambiente greco-ellenistico nei termini di cultura uditiva e cultura visiva. Il cammino percorso ci ha permesso di cogliere, in una grande variet di forme espressive, la costante presenza della dialettica fra visibilit e non-visibilit divina. Questa tensione si rivelata produttrice di senso, poich riesce a salvaguardare il mistero e la trascendenza, senza rinunciare ad affermare che lesperienza di Dio possibile. Se dovessimo rintracciare, allinterno della Bibbia ebraica, unicona che caratterizzi tutto il discorso veterotestamentario sulla dialettica, e che riassuma sinteticamente i risultati del nostro lavoro, dovremmo affidarci alle espressioni finali del poema di Giobbe: io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono (Gb 42,5). Giobbe, dopo un itinerario tormentato nellimpossibilit di scorgere la presenza divina, giunge finalmente alla visione. Ma si tratta di un vedere paradossale, perch egli vede Dio nel momento in cui accetta di non vedere e di non capire, aprendosi al mistero e alla trascendenza. Il credente Giobbe diviene il paradigma di un voler vedere Dio che non ha nulla di scontato n di banale, e che daltra parte conosce almeno parzialmente una possibilit di soddisfazione. Nella tenacia del cammino, nel desiderio di accedere alla visione, nella fatica della ricerca, nel rifiuto delle false immagini di Dio fornite dagli amici, nellaccettazione di tutte le ferite, nei paradossi della propria umanit, Giobbe (e con lui il credente di ogni tempo, in particolare il lettore cristiano, che vi legge in trasparenza licona evangelica del Figlio e della sua carne che rivela e nasconde il volto del Padre) pu effettivamente vedere Dio. Nello iato fra assenza e presenza, fra morte e risurrezione come scrive il prof. Salmann si apre al credente la feconda possibilit di inabitare la fessura, di essere davanti a Dio in assenza di Dio, rimanere presso di lui nel suo abbandono. La parabola della fede si situa, cos, tra lesperienza e la certezza di aver visto Dio e lattesa e il desiderio di poterlo contemplare un giorno faccia a faccia.Questa ricerca ' pubblicata in Analecta Biblica 155, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 2004.

GIUNTOLI Federico, L'officina della tradizione. Studio di alcuni interventi redazionali post-sacerdotali e del loro contesto nel ciclo di Giacobbe (Gn 25,1950,26)(Mod.: Prof. Jean Louis SKA).Dal libro di Esdra (4,1-7a):

1 E vennero a sapere i nemici di Giuda e di Beniamino che i deportati stavano costruendo un tempio al Signore, Dio dIsraele. 2 E si recarono da Zorobabele [, da Giosu] e dai capi-famiglia e dissero loro: Vogliamo costruire insieme a voi perch come voi (anche noi) ricerchiamo il vostro Dio e [non] a lui offriamo sacrifici fin dai giorni di Esar Chaddon, re di Assiria, che ci condusse qua. 3 E dissero a loro Zorobabele, Giosu e il resto dei capi-famiglia dIsraele: Non tocca a voi (insieme a) noi costruire una casa al Signore nostro: noi soli costruiremo al Signore Dio dIsraele, cos come ci ha comandato il re Ciro, re di Persia. 4 E il popolo della terra si diede a scoraggiare il popolo di Giuda e a terrorizzarlo per (impedirgli) di costruire. 5 E corruppero contro di essi (alcuni) funzionari per far fallire il loro proposito. Ci per tutti i giorni di Ciro, re di Persia, fino al regno di Dario, re di Persia. 6 E durante il regno di Serse, allinizio del suo regno, essi scrissero unaccusa contro gli abitanti di Giuda e di Gerusalemme. 7a E nei giorni di Artaserse, Bishlam, Mitridate, Thabeel e il resto dei loro colleghi scrissero ad Artaserse, re di Persia.

In questa presentazione del mio lavoro di dottorato Lofficina della Tradizione. Studio di alcuni interventi redazionali post-sacerdotali e del loro contesto nel ciclo di Giacobbe (Gn 25,19 50,26) proceder scandendo la sua illustrazione in tre tappe: (A) Inizier proprio col riferirmi alla sezione del libro di Esdra dianzi richiamata. Lo scopo quello di trovare alcuni appigli per introdurci seppur sommariamente al clima, allambiente e ai periodi storici, politici e culturali di Israele abbastanza prossimi a quelli di cui mi sono occupato nella mia dissertazione. (B) Dopo aver cercato di inquadrare approssimativamente alcuni dei presupposti sottostanti agli oggetti della presente ricerca, proseguir con lillustrare con una maggior dovizia di dettagli lorganizzazione dellintero lavoro e la trattazione dei suoi contenuti.

(C) Alla fine, una breve considerazione sul metodo seguito durante un tale itinerario di lavoro e una concisa nota riassuntiva concluderanno il tutto.

(A) Nella pagina di Esdra pocanzi richiamata venuto a delinearsi un quadro non poco complesso degli avvenimenti vissuti e patiti dalla comunit dei figli dIsraele ritornata in Canaan dopo gli anni del suo soggiorno forzato nella terra dei Caldei. Si alluso pi o meno velatamente agli scontri politici, ideologici, culturali e cultuali che si accesero nella Gerusalemme ancora in fase di ricostruzione e di riorganizzazione civile e religiosa fra i deportati rimpatriati (hl'AGh; ynEB.; at'Wlg" ynEB.) e coloro che, non avendo conosciuto lesilio, erano da sempre rimasti nelle desolazioni della Gerusalemme distrutta e nei suoi suburbi (#r,a'h' yMe[;/~[;; tAcr'a]h' yMe[;). Di tali scontri, inoltre, si attestata anche una durevolezza temporale non indifferente (pi di un secolo, per rimanere fedeli solo a quanto registrato), giacch ben quattro regni di re persiani sono venuti a coinvolgersi (Ciro II, il Grande[1]; Dario I[2]; Serse I[3]; Artaserse I Longimanus[4]). Pur se le fonti disponibili si fanno al proposito assai scarse e frammentarie, non impossibile arguire le motivazioni dellinsorgenza di tali scontri. Se lesperienza dellesilio dur una cinquantina danni[5], difficile pensare che la popolazione non deportata non si fosse riorganizzata in una certa qual sorta di vita vivibile e strutturata. Pu dunque essere solo immaginata lentit degli scontri che dovettero nascere tra il popolo che ritornava dopo molti anni da Babilonia ed i paesani rimasti nella Terra. Stando ad Ez 33,24 la posta in gioco fra le due fazioni viene ribadita come particolarmente importante e determinante: leredit della Terra. Ciascuno dei due gruppi si sentiva giustificato ad accamparvi diritti a danno dellaltro. Chi era rimasto non era disposto a condividerla n, tantomeno, a cederla, ritrovandosi cos a distruggere lequilibrio che a fatica, forse, si era ricostruito; chi ritornava la vedeva quale premio promesso del contro-esodo che si era verificato in virt delluscita da Babilonia. Ciascuno poteva addurre giustificazioni. Sempre allinterno di questo clima, i rimpatriati, su suggerimento dello stesso YHWH, accusavano i rimasti di non osservare la Legge (cf. Ez 33,25-26 [cf. Gv 7,19!]). Per continuare ad avere unidea degli intendimenti e delle ideologie di queste due fazioni (pur sempre dalla stessa fonte non troppo imparziale), si potrebbe ricordare ancora Ez 11,15. In questo luogo YHWH svela ad Ezechiele i pensieri che si agitano nei cuori dei rimasti nella Terra: Ormai essi [gli esiliati] sono lontani dal Signore: a noi la terra data in possesso ereditario!. Seguita qui ad apparire con solarit la medesima posta in gioco: il possesso della Terra, leredit dei padri. I rimasti, da una parte, la reclamavano, fondando la loro pretesa su di una base teologica: chi, per lesilio, si allontanato dalla Terra si allontanato dal Signore, stato da lui punito e, dunque, si escluso anche dai diritti su di essa. Gli esiliati, dallaltra, la pretendevano, basando anchessi il loro reclamo su di una fondazione teologica: il Signore ci ha seguiti in terra straniera ed sua esclusiva volont che noi ripossediamo la Terra. La forza pensante ed autoritativa di Giuda lintelligentsija doveva senzaltro appartenere al gruppo dei deportati. Ad essere esiliate, infatti, dovettero essere le famiglie sacerdotali, i notabili, i possidenti, la manodopera nobile degli artigiani in una parola, le classi sociali tra le pi elevate, vitali e attive (cf. 2 Re 24,15-16; 25,18-19). I contadini e la gente socialmente e politicamente ininfluente dovettero essere stati tralasciati (2 Re 25,12.22; Ger 39,10; 52,16)[6]. Al ritorno dei primi i hl'AGh; ynEB. dovettero seguire le rivendicazioni dei secondi, gli #r,a'h' yMe[;, con i relativi conflitti[7]. Il problema, tuttavia, era ancor pi generalizzato ed espanso. Oltre alle resistenze e ai dissidi interni fin qui miseramente riassunti, coloro che ritornavano da Babilonia dovevano fare anche i conti con uno stato, un territorio, una provincia politicamente ed economicamente disastrati. Uno stato da vivacizzare, se non nelle strutture, nelle coscienze, almeno. Una provincia, un territorio, una classe sacerdotale dirigenziale da legittimare, una citt da ripopolare, un passato di glorie e di fasti in cui credere e, soprattutto, far credere; uno spessore culturale ed un prestigio nazionale da re-inventare al fine di dare una dignit, unonorabilit, unelevatezza, una rispettabilit ed una gravit al nuovo Israele. Il compito degli esiliati rimpatriati, dunque, non dovette limitarsi solo a quello della ricostruzione delle macerie e dellinnalzamento di cinte murarie. Li attendevano ben altre ricostruzioni e assai diversi innalzamenti, come visto. Ora, parlare di queste questioni altro non che parlare di Giuda, del regno del Sud. Gli esecutori cui deputare tutto questo programma di sensibilizzazione altri non sono che gli scrittori viventi e operanti in quei periodi difficili di transizioni e di adattamenti; ed i testimoni della loro opera altri non sono che alcune espansioni redazionali dei periodi post-esilici che possono essere rintracciate in scritti e contesti pi antichi, unitamente anche a certaltre tardive compilazioni ex novo redatte. Limitatamente al ciclo di Giacobbe e alla storia di Giuseppe in esso contenuta, proprio di alcune di queste tardive espansioni post-esiliche che mi sono occupato nel mio lavoro di dottorato. Laccezione post-esilico, tuttavia, pur riferendosi ad una collocazione temporale pi o meno precisa allinterno della linea cronologica della storia dIsraele le et successive allesilio caldeo non specifica ancora a sufficienza le qualit e le peculiarit proprie alle redazioni cui ho rivolta lattenzione. Si tratta, infatti, di redazioni di presumibile origine post-sacerdotale. Di redazioni, cio, successive allopera dellautore sacerdotale e, quindi, collocabili in periodi decisamente non lontani (se non addirittura, forse, in qualche caso coincidenti) da quelli del cosiddetto, seppur sfuggevole, editore finale. Sono il loro stile e la loro teologia non appartenenti univocamente n ai testi deuteronomistici n a quelli sacerdotali, unitamente anche ad alcuni sottaciuti intendimenti, a sospingere verso unattribuzione post-deuteronomistica e post-sacerdotale. Sono, dunque, alcuni materiali e rielaborazioni testuali verosimilmente pi recenti contenuti nellattuale ciclo di Giacobbe ad essere stati i particolari oggetti del mio lavoro. (B) LOfficina della Tradizione, dunque. E che cosa si produce in questa Officina? Cosa vi si lavora? La Tradizione scritta di e su Israele, per lappunto. Frammenti di testi, residui di redazioni, pezzi di composizioni, scampoli di Tradizione; il tutto fuso, combinato, congregato e connesso, mediante lausilio di novelli inserimenti e adattamenti testuali, in una globalit, divenuta canonica, diversamente equilibrata e organizzata.

Sono tre, in particolare, i luoghi di Genesi verso cui ho indirizzata lattenzione: i cc. 32* 33*; 45* 47*; 48*. A ciascuna di queste sezioni corrisponde un capitolo del lavoro. A questi succedono quattro appendici di varia estensione, in cui vengono approfonditi e ampliati alcuni temi collaterali, ora accennati ora presupposti nel corpo stesso della dissertazione. Nella prima parte mi sono dunque occupato dello studio della pericope di Gn 32,10-13 e della ricostruzione della possibile storia della redazione del suo contesto precedente e susseguente (cf. Gn 32,1 33,17). Si tratta della supplica rivolta da Giacobbe al Dio dei suoi padri per impetrarne la protezione e lassistenza. Una tale preghiera viene proferita nellapprossimarsi del suo incontro con Esa al termine degli anni di esilio presso Labano. Lo scopo principale di questo capitolo stato quello di arrivare a mostrare lauspicabilit di unattribuzione redazionale post-sacerdotale a proposito di Gn 32,10-13, ovvero dei versetti in cui condensata la supplica proferita da Giacobbe. Qui, per chiarezza e semplicit, focalizzer solo sui risultati raggiunti dallo studio di questa preghiera, senza occuparmi anche di quelli ottenuti dallanalisi del suo contesto precedente e susseguente. Dopo essermi adoperato a mostrare lorigine secondaria, e, dunque, redazionale, di quella preghiera mi sono impegnato in un suo studio terminologico, stilistico e teologico. Oltre a questo mi sono dedicato anche ad una indagine comparativa con altre eucologie assimilabili ad assai recenti periodi di composizione, sia del canone biblico ebraico e greco sia di provenienza extra-biblica. Il fine del tutto stato quello di cercare di provare con una certa decisione la plausibile origine post-sacerdotale di quella preghiera. Le peculiarit stilistiche della preghiera che sarebbero potute essere interpretate come proprie delle scuole deuteronomistiche in consonanza con alcuni Autori (E. Blum, fra questi) si sono al contrario rivelate indicazioni richiamanti semplicemente una sensibilit propria di uno stile liturgico-eucologico, pertinente, in realt, ad epoche ben pi tardive. In altri termini, linnegabile presenza in quei versetti di uno stile di sapore deuteronomistico in unione, per, anche ad alcune altre prerogative di gusto pi sacerdotale non stato automaticamente da essere inteso come segno di una paternit redazionale di medesimo stampo. Attraverso una sorta di rilettura e di risignificazione ermeneutica, sui due personaggi principali di questi racconti (Giacobbe e Esa) sono state proiettate le necessit e le contingenze delle tardive epoche della storia dIsraele cui quelle redazioni appartengono. Giacobbe, patriarca ed eponimo del popolo eletto, ritornante in Canaan al termine degli anni del suo forzato soggiorno presso Labano, fatto diventare licona dello stesso Israele che, al termine degli anni della sua cattivit babilonese, fu chiamato a vivere lesperienza del ritorno. Esa, per converso, essendo rimasto nella Terra della promessa e non avendo di conseguenza potuto patire lesperienza dellesilio, fatto diventare limmagine dei popoli del paese. Di coloro, cio, che non avendo condiviso con Israele la deportazione caldea ed essendosi anche riorganizzati in una probabile vita nei dintorni delle devastazioni di Gerusalemme, dimostrarono una non indifferente ostilit nei confronti di coloro che ritornavano, ritrovandosi inevitabilmente anche a vedere alterarsi il precario equilibrio che, forse a stento, si erano ricostruito (cf., ad esempio, Esd 4; Ne 2* 6*)[8]. In questo senso, le angosce e le paure fatte esprimere a Giacobbe nel corpo della sua preghiera (cf. Gn 32,12) altro non sono che le angosce e le paure della comunit post-esilica durante il tempo della difficile riorganizzazione della propria vita civile e religiosa e della non facile gestione degli scontri intestini con le popolazioni pocanzi ricordate. In quella preghiera, fra laltro, viene menzionato anche il ricordo della promessa di assistenza assicurata da YHWH nei confronti del patriarca durante gli anni delle sue peregrinazioni (cf. Gn 32,11.13a), di quella di una numerosa discendenza (cf. Gn 32,13b) e di un incolume e benedetto ritorno (cf. Gn 32,10). Ora, sempre mediante lintervento di tardive inserzioni redazionali, tutto questo sembra richiamarsi con una certa evidenza a quanto espresso in Gn 28,13-14.15, ovvero nel punto di cominciamento dellesilico viaggio di Giacobbe. Con gli episodi narrati in Gn 32* 33* e con la preghiera in essi contenuta il cerchio sembra dunque venire a chiudersi. Gli itinerari dellesule Giacobbe e quelli dellesule Israele, sotto queste luci, paiono davvero ben assimilabili. Nella seconda parte di questo lavoro, invece, mi sono occupato non tanto di inserzioni redazionali immesse in testi e contesti pi antichi, quanto di rielaborazioni post-sacerdotali di quegli stessi testi.Lambito testuale di riferimento stata la sezione di Gn 45* 47*, ovvero i luoghi narrativi deputati a descrivere linvito di Giuseppe e di Faraone al gruppo dei fratelli scesi in Egitto per trasferirsi stabilmente in quella terra, assieme al loro padre. Il fine di quegli inviti era quello di far trovare loro uno scampo alla dura carestia che, nella cronologia della narrazione, affliggeva ormai da due anni (cf. Gn 41,27.30.36.54 con Gn 45,6.11) tutte le terre (cf. Gn 41,54).La rielaborazione post-sacerdotale cui sto facendo riferimento verte su di un particolare aggiustamento che leditore del testo massoretico sembrerebbe aver effettuato su di un testo cronologicamente precedente, tuttora testimoniato dalla versione che ne hanno offerta i LXX. Si tratta di Gn 47,5-6 [TM] in rapporto a Gn 47,5-6 [LXX].Ciascuno dei due testi presenta delle stranezze e delle marcate dissonanze. Da una parte si notano dei pesanti attacchi alla logica dellargomentazione. Nel TM Faraone informa Giuseppe dellarrivo dei suoi familiari (cf. v. 5) quando era stato proprio lui in persona ad essere avvertito con la medesima notizia dallo stesso Giuseppe (cf. v. 1); nei LXX Faraone e Giuseppe danno per conosciuta la presenza della casa di Giacobbe in Egitto (cf. v. 5a), salvo poi lesistenza di un intervento intrusivo del Narratore che ne racconta nuovamente (e, dunque, anacronisticamente) larrivo (cf. v. 5ba). Daltra parte le incoerenze sono ben visibili in entrambe e singole le versioni anche da un punto di vista geografico: Faraone si dichiara disposto a concedere per la loro installazione nel suo territorio sia una non meglio precisata terra migliore dEgitto (cf. v. 6a [TM]; v. 6 [LXX]) sia la ben individuata terra di Goshem (cf. v. 6b [TM]; v. 5ab [LXX]).Lattrito prodotto dalla lettura di queste due versioni e dal loro accostamento si prestato a rivestirsi della funzione di affidabile indizio per intercettare una duplice tradizione del racconto della discesa in Egitto di Giacobbe e di tutta la sua casa, ancora ravvisabile e sufficientemente ricostruibile allinterno degli attuali cc. 45* 47* di Genesi. Una tradizione (delle due, la pi completa e integrata) sembrata rifarsi allinvito proferito dal solo Giuseppe. La sola terra di Goshen sarebbe stata il territorio promesso per il loro stanziamento (cf. Gn 45,9-15 [45,21 46,1.5-6(*)]; 46,28 47,4.5aa [LXX].6b [TM].12). Laltra, pi breve, parsa rifarsi al secondo invito, quello proferito dal solo Faraone. La sola terra migliore dEgitto, al contrario, sarebbe stata destinata ai familiari di Giuseppe per la loro residenza (cf. Gn 45,16-20 [+ 45,21 46,1.5-6(*)]; 47,5ba [LXX]. 5-6a [TM].11aa.g.b).In un tal modo, attraverso le scelte editoriali apprezzabili nel TM, si avuta una diversa opportunit per continuare a vedere lanonimo ma assai efficace lavoro dei redattori successivi a quelli delle redazioni sacerdotali: quello di giungere a confezionare un prodotto per quanto possibile coeso e coerente, visti anche i non facili presupposti della duplicit e del parallelismo delle tradizioni in quei punti rinvenute. In questo senso, lo scopo dellintervento editoriale post-sacerdotale rinvenuto in Gn 47,5-6 [TM] ha dato pi che altro lapparenza di raffinare il testo di quei versetti rispetto alla loro forma visibile nei LXX, in modo da dissimulare maggiormente le mire disunivoche e pur coesistenti delle due gi segnalate versioni dellemigrazione di tutta la casa di Giacobbe verso lEgitto.Nella terza parte di questo lavoro sono invece tornato ad occuparmi di testi redazionalmente immessi in contesti narrativi gi in esistenza, cos come avvenuto a proposito di Gn 32* (cf. prima parte). Sono in particolare le sezioni di Gn 48,3-6.7 (P) e di Gn 48,15-16 (post-P) ad aver richiamato la mia attenzione. Si tratta dei luoghi narrativi in cui Giacobbe, ormai vicino allora di ricongiungersi ai suoi padri, si trova prima a legittimare (cf. vv. 5-6) poi a benedire (cf. vv. 15-16) Manasse ed Efraim, i due figli di Giuseppe avuti in terra dEgitto da Aseneth, figlia del sacerdote di On. Dopo aver tentata una proposta a riguardo della storia della redazione dellintero c. 48, mi sono impegnato in uno studio delle due inserzioni redazionali dianzi richiamate.Gli elementi emersi sembrano tutti indirizzarsi, come avvenuto per laggiunta di Gn 32,10-13, verso lindividuazione di un meta-messaggio a deciso favore della comunit dei figli dIsraele rientrata in Canaan dopo aver patito gli anni dellesilio caldeo. In altri termini, per mezzo ancora di un processo proiettivo e di una sostituzione ermeneutica, i due figli egiziani di Giuseppe, nati in seguito al matrimonio misto di questultimo con la figlia del sacerdote di On, sembrano essere stati usati per significare tuttaltre realt: gli israeliti della diaspora, e, forse, pi particolarmente, i nati nel suolo caldeo durante gli anni dellesilio. In virt, dunque, dellautorevole legittimazione e della susseguente benedizione di Manasse ed Efraim sembrano venire autorevolmente a legittimarsi, benedirsi e generalmente favorirsi tutti i figli dIsraele ritornati dallesilio di Babilonia, al fine di potere continuare a moltiplicarsi e ad accrescersi grandemente nella Terra per la quale YHWH in persona si era per pi volte impegnato. Ancora una volta i taciuti avversari a sfavore dei quali implicitamente adoperarsi sembrano continuare ad essere i cosiddetti popoli del paese che non vissero lesperienza della deportazione e tantomeno erano disposti a cedere ai ritornati quella Terra in cui avevano continuato ad abitare.La realt stessa dei matrimoni misti era una preoccupazione tuttaltro che trascurabile nei periodi post-esilici della storia dIsraele (cf. Esd 9 10; Ne 13,23-27). Lautorevole legittimazione e la conseguente benedizione dei due nipoti di Giacobbe, in questo senso, si trovavano anche a sanare tacitamente in radice il matrimonio misto di Giuseppe con Aseneth, oltrech, come visto, a glorificare lIsraele della diaspora agli occhi di tutti i suoi possibili avversari. In questo senso, sembra qui emergere una tendenza pi liberale e tollerante di quella, pi fondamentalista, espressa nei libri di Esdra e Neemia. In aggiunta, e sempre nella scia di quanto sinora affermato, con la benedizione di Gn 48,15-16 si viene anche ad assistere al passaggio lultimo! delle promesse ricevute da Abramo, Isacco e dallo stesso Giacobbe, sempre per mezzo dei due figli di Giuseppe, allinterezza della comunit dellIsraele post-esilico, rendendola cos la depositaria ultima ed unica delleredit dei padri. (C) Per terminare, alcune brevi considerazioni sul metodo. Per il ravvisamento delle inserzioni redazionali e per il rinvenimento di una possibile storia della redazione dei contesti narrativi in cui sono state inserite, le metodologie sono ovviamente provenute da quelle proprie degli orientamenti diacronici, anche se, laddove i testi lo hanno permesso, il ricorso a certune sensibilit derivanti da quelli sincronico-narrativi (analisi narrativa) non stato affatto rigettato. Anzi: punto di partenza dello studio di ciascuna unit presa in esame stato proprio losservazione del testo canonico, al fine di poter rivelare la sua pi o meno coerenza e conseguenza.Non evidentemente questo il luogo in cui impegnarsi in una discussione a riguardo del peraltro ancora aperto problema su quali e quante siano le metodologie inerenti ad una prospettiva diacronica e storico-critica di lettura dei testi. Per rimanere nellambito della presente ricerca, sono stati trattenuti le sensibilit e gli accorgimenti che, con coerenza, hanno permesso di individuare con un certo margine di plausibilit la storia della redazione dei testi dianzi richiamati. Fra questi, gli orientamenti propri sia della teoria documentaria classica, con il ravvisamento di fonti letterarie, sia della sua evoluzione, con lintercettazione di plurimi strati redazionali sono stati in genere quasi sempre rigettati. Il presente lavoro intende dunque collocarsi nel crescente ambito degli studi della ricerca attuale sul Pentateuco impegnati nellintercettazione, nello studio e nella valutazione degli interventi redazionali post-sacerdotali. Un consenso che si sta imponendo allattenzione dellesegesi contemporanea del Pentateuco, pur con differenziate sfumature e diversificati intendimenti (e senza la mancanza di energici attacchi!), infatti proprio quello di riconoscere una decisa importanza alle tardive epoche dellimpero persiano per lestremo lavoro di compilazione, trascrizione, redazione ed editazione dei sacri testi in vista del raggiungimento della forma ultima e definitiva dei primi cinque libri del canone biblico. anche con tutto questo che si ha la possibilit di verificare la cruciale importanza che ebbero a rivestire le tardive epoche post-esiliche della storia dIsraele nella composizione e nella struttura finali del Pentateuco. Di alcune storie patriarcali, per quanto concerne la presente ricerca.

[2] Dal 522 al 486. [3] Dal 486 al 465. [4] Dal 465 al 424.[5] Questo computo assai approssimativo basato sul prendere come data della presa di Gerusalemme il 586 a.C. e come inizio del rimpatrio il 538 a.C. Non pare tuttavia insensato ritenere nella realt dei fatti una durata ben maggiore. [6] Molto tendenziosamente 2 Cr 36,17-21 non fa menzione alcuna dei rimasti nel Paese. In ogni modo, al di l dei dati scritturistici, non da escludere che, al gruppo dei non deportati, appartenessero anche persone di valore e prestigio.[7] A questo riguardo non nemmeno un caso che Esd 9,1 descriva gli abitanti della terra che gli esiliati trovarono al loro ritorno con nomi quali Cananei, Hittiti, Perizziti, Gebusei, Ammoniti, Moabiti, Egiziani e Amorrei. Molte di queste popolazioni furono proprio fra quelle che Giosu dovette sconfiggere per poter conquistare il Paese[8] Nelle epoche esiliche e post-esiliche della storia dIsraele, Esa stato fatto pi comunemente diventare Edom, ossia leponimo dellIdumea. Eccetto che in alcuni casi in cui sembra di assistere ad una sorta di recupero (cf. spec. certi brani di matrice P), la colorazione fatta assumere a questo personaggio continuata ad essere fortemente negativa.

Questa ricerca pubblicata in Analecta Biblica 154, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 2003.