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Dispensa n. 9a del corso di
PLANETOLOGIA
(Prof. V. Orofino)
FORMAZIONE PLANETARIA:
UN POSSIBILE MODELLO
A. CENNI DI FORMAZIONE STELLARE
Università del Salento
Corso di Laurea Magistrale in Fisica
A.A. 2011-2012
Ultimo aggiornamento: Agosto 2011
2
1. Introduzione
Esiste un processo evolutivo che parte dai grani di polvere interstellare e porta
a corpi di dimensioni enormemente più grandi, quali gli asteroidi ed i nuclei cometari
o addirittura i pianeti. Si tratta del processo di formazione planetaria, a sua volta
strettamente connesso con quello di formazione stellare. Nella presente dispensa verrà
descritto quest’ultimo processo, con particolare riguardo al ruolo in esso giocato dalle
particelle di polvere. Il processo di formazione planetaria, in cui i grani di polvere
giocano un ruolo ancor più decisivo, sarà invece trattato nella dispensa successiva.
2. Collasso gravitazionale di una nube molecolare
E’ ormai ben noto che le stelle si formano a causa del collasso gravitazionale
di enormi nubi di gas e polvere interstellare. Il collasso può essere dovuto o ad un
fatto completamente spontaneo (Shu, 1985; Scoville et al., 1986) o anche a
perturbazioni esterne prodotte dal passaggio della nube nei bracci a spirale della Via
Lattea, o dall’esplosione di vicine supernovae (Mueller e Arnett, 1976; Cameron e
Truran, 1977).
Per capire come ciò accada è meglio dapprima chiarirsi le idee riguardo alle
forze che agiscono in prevalenza nel mezzo interstellare, e cercare di vedere in che
modo la loro combinazione possa condizionare l’evoluzione della materia diffusa in
strutture più o meno compatte.
Indubbiamente uno dei protagonisti della vicenda è il campo gravitazionale. In
assenza di altri effetti, l’azione che il campo gravitazionale esercita su una nube
diffusa è essenzialmente aggregante, cioè le particelle che costituiscono la nebulosa
tendono ad avvicinarsi sempre più le une alle altre e la nube occupa un volume
sempre più piccolo.
E’ importante notare che la forza gravitazionale è l’unica di tipo attrattivo che
agisce sulla contrazione. Tutti gli altri effetti che prenderemo in esame sono, invece,
di natura disgregante e, prime fra tutte, le forze di pressione. Infatti il mezzo
interstellare è essenzialmente costituito di gas, che data l’estrema rarefazione può
essere considerato in ottima approssimazione un gas perfetto. La pressione del gas
tende evidentemente ad opporsi alla contrazione.
Altri processi che possono essere descritti mediante effetti di pressione sono
quelli associati a fenomeni di turbolenza. Si definiscono come “moti turbolenti” quelli
che coinvolgono singole parti di nube che si urtano e si rimescolano tra loro in modo
estremamente disordinato generando dei vortici. Si definisce “vortice” una massa di
gas in movimento cui è associato un momento angolare che tende a conservarsi o ad
essere parzialmente scambiato con altri vortici limitrofi.
3
La trattazione di tali moti turbolenti è assai complessa soprattutto a causa del
fatto che i vortici hanno scale enormemente grandi (dell’ordine delle frazioni di
parsec o maggiori) e velocità tipiche estremamente elevate (di qualche chilometro al
secondo). Tuttavia, almeno qualitativamente, si può dire che l’insieme dei vortici si
muove in modo disordinato analogo a quello delle particelle di un gas. Queste ed altre
proprietà meno intuitive permettono di trattare l’insieme dei vortici come un gas
perfetto cui si possono associare tutte le grandezze termodinamiche caratteristiche. Si
può quindi parlare di una pressione esercitata dal gas dei vortici.
Oltre alla pressione del gas e a quella dei vortici, esiste anche una componente
legata al campo magnetico interstellare, largamente diffuso nella Galassia, e del quale
peraltro non è ben nota l’origine. Consideriamo una nube molecolare posta in una
regione dove è presente un campo magnetico e supponiamo che essa collassi sotto
l’azione della forza di gravità. Su ciascuna particella carica della nube, che si muove
con velocità v , si esercita una forza di Lorentz pari a BvqFL
(dove q è la carica
della particella e B il vettore induzione magnetica). Tale forza vincola il moto della
particella e influenza la dinamica del collasso. In effetti, siccome la nube è costituita
da particelle cariche, per la proprietà della conservazione del flusso magnetico, il
numero di linee di forza presenti nella nube deve restare inalterato. Pertanto se la nube
si contrae, le linee di forza si avvicineranno tra di loro e la densità di energia
magnetica aumenterà opponendosi ad una ulteriore contrazione della nube. Al campo
magnetico è così associabile una pressione che non è però isotropa come quella
termica, ma dipende dalla configurazione delle linee di forza, in quanto tende ad
opporsi al collasso perpendicolarmente alle linee di forza, mentre parallelamente il
collasso è poco ostacolato1.
Si noti, che la percentuale di particelle ionizzate in una nube molecolare è
molto bassa, essendo circa pari a 10-7 per una nube con una densità di 104 cm-3 (de
Jong et al., 1980). Tuttavia, sebbene la forza di Lorentz agisca soltanto sulle particelle
ionizzate, essa coinvolge indirettamente anche quelle neutre attraverso un
trascinamento dovuto ad una sorta di attrito tra le due componenti chiamato
“diffusione ambipolare” (Shu et al., 1987).
Trascurando per il momento gli effetti del campo magnetico interstellare, le
condizioni sotto le quali una nube inizia a collassare per autogravitazione possono
essere studiate in buona approssimazione esaminando le condizioni per l’equilibrio
idrostatico ed usando per esse il teorema del viriale. Quest’ultimo stabilisce in
sostanza che se U è l’energia di autogravitazione e K l’energia cinetica totale
(comprendente il moto di agitazione termica, la rotazione, etc.), la nube si espande, è
in equilibrio o collassa a seconda che la grandezza X = U + 2K sia positiva, nulla o (
1): In realtà, secondo Shu et al. (1987), la presenza di onde di Alfven, generate da processi di turbolenza, è in grado di ostacolare il collasso anche parallelamente al campo magnetico.
4
negativa. Il problema del collasso può allora essere studiato partendo da una
situazione in cui X è negativa ma molto vicina a zero (cioè da una piccola
perturbazione rispetto all’equilibrio) ed analizzando l’evoluzione successiva del
sistema. Quindi:
U + 2K 0 . (1)
Se v è la velocità media delle N particelle di massa media m che compongono la
nebulosa, si ha che:
22
2
1
2
1MvNmvK
con M massa totale della nube; inoltre, circa l’energia gravitazionale si può assumere:
R
cMGU
2
dove R è il raggio della nube, c è un fattore numerico dell’ordine dell’unità, detto
“fattore di forma”, mentre G è la costante gravitazionale. Per questo dalla (1) la
condizione perché il collasso, iniziato a causa dell’instabilità gravitazionale del gas,
possa continuare è che subito dopo l’inizio del collasso la nebulosa acquisti un raggio:
2 kT
mMG
v
cMGR , (2)
dove T è la temperatura del gas e k la costante di Boltzmann.
Naturalmente la condizione (2) deve verificarsi durante tutto il tempo in cui
dura il collasso; perciò, se la temperatura varia, la variazione deve essere tale da
rispettare sempre la diseguaglianza. In caso contrario il collasso si arresta.
Ora all’inizio del collasso la nube è estremamente rarefatta e risulta in generale
trasparente alla radiazione nel visibile. Così la contrazione può avvenire a temperatura
praticamente costante (addirittura leggermente decrescente) perché, almeno fino a
quando la temperatura non è molto elevata, l’emissione infrarossa della polvere e la
diseccitazione degli ioni Si+ e C+ del gas, con conseguente emissione infrarossa, è
sufficiente a smaltire nello spazio l’energia termica dovuta alla liberazione di energia
gravitazionale: in altre parole il processo di scambio termico tra le particelle della
nube non è significativo, per cui l’equilibrio termico con l’ambiente non dipende
5
molto dallo stato della nube medesima ad un certo istante. Questa fase del collasso
prende il nome di “collasso isotermo”. Se rappresentata su di un piano log T - log
(dove è la densità della nebulosa), l’evoluzione del sistema è descritta da una curva
molto simile ad una retta, praticamente indipendente dalle condizioni iniziali (v. fig.
1). Poiché allora il secondo membro della (2) resta costante, ne consegue che, una
volta iniziato il collasso, la (2) sarà sempre più valida e quindi il collasso tenderà
asintoticamente alla caduta libera della materia verso il centro della nube senza che la
resistenza delle forze di pressione possa riuscire a fermarla.
L’aumento ulteriore della densità, però, fa si che ad un certo punto (quando è
aumentata di tre o quattro ordini di grandezza, tanto per fissare le idee) la nube non
sia più trasparente alla radiazione UV e visibile ma opaca. Accade cioè che il gas
diventa sufficientemente addensato da rendere il meccanismo di acquisizione di
energia termica molto più efficiente a causa dell’elevato numero di collisioni tra
particelle. Al contrario di quel che avveniva prima, i fotoni UV non riescono più a
penetrare nella nube per formare gli ioni Si+ e C+ che sono i principali responsabili del
raffreddamento della nube stessa; quest’ultima tende pertanto a scaldarsi. D’altronde
la polvere è a temperatura molto bassa (Td << Tg in quanto gli scambi termici tra
gas e polvere sono trascurabili in questa fase), e quindi emette poca energia. In altre
parole la nube intrappola efficacemente l’energia che le viene continuamente fornita
dal campo gravitazionale.
Fig. 1 - Evoluzione iniziale di una nube protostellare in fase di collasso.
Da questo punto in poi l’evoluzione della nube viene meglio descritta da un
“collasso adiabatico” piuttosto che da uno isotermo, cioè lo scambio di calore con
l’esterno è trascurabile rispetto agli scambi interni tra le particelle (v. fig. 1). In tal
6
caso, eliminando nella (2) il raggio tramite la densità, si trova che la condizione per il
proseguimento del collasso diventa:
3
1
3
2
Mk
mGT . (3)
Pertanto, poiché il collasso avviene in modo adiabatico 1 T , la condizione
perché il collasso si prolunghi è che sia - 1 1/3, cioè 1.33. Se risulta
maggiore di 1.33, l’aumento di temperatura tende a riportare verso l’equilibrio il
rapporto pressione/gravitazione ed il collasso è destinato prima o poi ad arrestarsi.
Il parametro dipende dall’abbondanza percentuale di idrogeno molecolare ed
atomico ma è comunque pari circa ad 1.5 (è infatti compreso tra il valore = 1.7 per
un gas monoatomico e = 1.4 per un gas biatomico); per questo motivo l’unico modo
per far si che il collasso continui è che la nebulosa riesca in qualche maniera ad
aumentare la propria efficienza di dissipazione dell’energia termica accumulata
durante il collasso adiabatico. In questo contesto la presenza dei grani di polvere è
fondamentale per garantire la continuazione del processo di contrazione. Ciò in
quanto, quando la densità della nube supera i 106 cm-3, gli scambi termici tra gas e
polvere diventano efficienti (Leung, 1985), sicché i grani si riscaldano ad opera delle
collisioni con gli atomi e le molecole del gas e riemettono questa energia sotto forma
di radiazione infrarossa. Tale energia viene così perduta dalla nube dal momento che
questa è trasparente nell’infrarosso. Ma la polvere favorisce il collasso anche in un
altro modo. I grani di polvere hanno masse di molti ordini di grandezza superiori a
quelle delle particelle del gas (circa 10-12 g contro 10-24 g) e quindi non riescono ad
essere sostenuti, come gli atomi e le molecole, dalla pressione del gas. Per effetto
della forza gravitazionale che tiene unita la nube, essi cominciano così a “precipitare”
verso il centro della nube stessa e nel fare ciò comunicano anche al gas circostante
una componente di moto verso l’interno; in questo modo il processo di collasso della
nube viene alquanto facilitato.
Così l’instabilità iniziale determina il collasso di una massa di gas e polvere
pari a 103 104 M; questa nel contrarsi si frammenta in unità minori, dell’ordine di
una massa solare (Coradini et al., 1980). Ciò avviene perché le rapide compressioni
della nube generano fluttuazioni di pressione che agitano il gas, creando, come già
visto, vortici di diverse dimensioni. Si creano così regioni in cui esiste una
disomogeneità nella densità del gas e nella concentrazione delle particelle e, laddove
questa è sufficientemente grande, il gas comincia a ricadere su se stesso dando luogo
alla frantumazione della nube in frammenti che collassano ciascuno con un proprio
moto di rotazione poiché conservano il moto dei vortici originari. Tale
frammentazione della nube agevola il collasso in quanto facilita grandemente la
7
perdita di energia per irraggiamento a causa della maggiore superficie radiante. Si noti
che il collasso di ciascun frammento avviene a velocità diverse; in particolare è più
rapido al centro che alla periferia, come dimostrano misure spettroscopiche su alcune
nubi molecolari della nostra Galassia. Queste misure riguardano righe spettrali di
molecole prese a diverse profondità quali, ad esempio quella del CO nello strato più
interno e dell’H2CO negli strati più superficiali. Si nota che le righe del CO
presentano un allargamento Doppler maggiore di quello dell’H2CO, quindi significa
che la velocità delle prime particelle è maggiore (Scoville e Wannier, 1979).
Tutto ciò vale ignorando l’effetto del campo magnetico galattico. Quando si
tiene in considerazione la resistenza che tale campo oppone al collasso della nube,
tramite la forza di Lorentz, si trova che la nube inizialmente a simmetria sferica,
durante il collasso assume ben presto una forma ellissoidale (v. fig. 2). Se indichiamo
con L la misura dell’asse maggiore dell’ellissoide, è stato provato (Mastel, 1985) che
quando risulta:
2
1
0
0 3
G
BLL c
(4)
(dove B è il campo magnetico interstellare, la densità di massa iniziale, mentre è
una costante numerica adimensionale dell’ordine dell’unità), il collasso continua
nonostante la resistenza del campo magnetico intrappolato nella nube. In caso
contrario il campo magnetico riesce ad arrestare la contrazione.
Fig. 2 Modifica del campo magnetico galattico durante il collasso di una nube interstellare.
8
Nella (4) si può assumere n(H2)m(H2)10-21 g/cm3 (Myers, 1985),
mentre B20120G (Troland et al., 1986; Crutcher e Kazes, 1983). Si trova così
che Lc è al più dell’ordine di qualche decina di parsec. Siccome diverse nubi hanno
dimensioni superiori a tale valore, queste possono collassare spontaneamente, dando
luogo a stelle senza che il campo magnetico riesca ad opporsi efficacemente alla
contrazione. Per quelle che hanno dimensioni inferiori, invece, c’è bisogno che il
collasso sia in qualche modo favorito dall’esterno.
Come già accennato, una possibilità è che la compressione che si verifica nel
mezzo interstellare quando esso attraversa uno dei fronti d’urto che risiedono nei
bracci a spirale della Galassia agisca nel senso di provocare il collasso di una massa
che sia già prossima alla condizione di innesco del collasso, a causa di precedenti
attraversamenti dei bracci (Gratton, 1978). Durante tali attraversamenti le nubi sono
fortemente compresse e se superano il limite di instabilità condensano in masse
dell’ordine di quelle stellari.
Un’altra possibilità è che il collasso sia innescato da fronti d’urto dovuti
all’esplosione di vicine supernovae (Cameron, 1976). Tale ipotesi, alternativa
all’innesco dovuto all’attraversamento dei bracci, rende anch’essa conto del fatto che
le stelle si formino nei bracci perché le stelle massicce, che danno luogo alle
supernovae, hanno vita breve (pari a 87 1010 anni) e quindi esplodono nei bracci.
Naturalmente le due ipotesi non si escludono a vicenda e i due meccanismi di
innesco del collasso gravitazionale potrebbero benissimo agire contemporaneamente
nel processo di formazione delle stelle.
Le varie fasi del collasso gravitazionale descritte in questo paragrafo sono
illustrate in fig. 3.
3. Formazione del disco protoplanetario
Come si vede dalle figg. 3e e 3f, al termine della prima fase di collasso di una
nube molecolare, si formano concentrazioni di massa più piccole che ruotano, alle
quali si può associare un momento angolare J. Se si considera un frammento, ovvero
una nebulosa protostellare di forma sferoidale di massa M, raggio R, e velocità
angolare , questo risulta dotato, infatti, di un momento angolare: J = k M R2 , con k
coefficiente opportuno che tiene conto della distribuzione non uniforme della massa.
Se si sostituiscono i valori opportuni, si vede che il valore di J è in genere abbastanza
elevato e la sua conservazione ostacolerebbe la formazione di materia attorno alla
futura stella e quindi la formazione di un eventuale sistema planetario. Infatti, durante
il collasso, la nebulosa protostellare, per la conservazione di J, aumenterebbe la sua
velocità di rotazione, espellendo una grande quantità di materiale dalla zona
9
equatoriale (Pichet et al., 1996) e favorendo così la formazione di sistemi binari o
multipli. E’ ormai certo che circa i 2/3 delle stelle di tipo solare si raggruppano in
sistemi di questo tipo (Duquennoy e Mayor, 1991), mentre stelle singole sono solo
una minoranza, di cui il Sole presumibilmente fa parte2. Tuttavia essendo interessati
alla formazione del Sistema Solare, ossia di un sistema stellare singolo invece di uno
binario o multiplo, occorre ipotizzare la presenza di qualche meccanismo in grado di
smaltire il momento angolare della nube protostellare (ma non troppo, altrimenti si
potrebbe formare una stella senza pianeti). Il meccanismo, in realtà, non è unico, ma
varie cause concorrono alla sottrazione di momento angolare all’oggetto centrale.
Fig. 3 – Fasi iniziali della formazione del Sistema Solare. (a): Stelle massicce con una breve vita delimitano i bracci. (b): Un’esplosione di supernova crea un’instabilità che provoca la concentrazione di nubi di gas e polvere ad alta densità. (c): Le forze gravitazionali provocano la contrazione della nube a cui si oppone la pressione interna. (d): Se la nube possiede una massa sufficiente la gravità domina e la nube collassa. (e): La nube originaria si frantuma in diversi frammenti. (f): Ogni frammento possiede un suo moto di rotazione (da Cameron, 1976).
(
2 ): Il fatto che esistano tanti sistemi multipli non implica che i pianeti debbano essere rari. In
effetti un pianeta può formarsi anche in un sistema doppio, a patto che orbiti o vicino ad una delle due stelle, o lontano da entrambe (Boss, 1995). In quest’ultimo caso, perché si abbiano orbite stabili occorre che la distanza stella-pianeta sia almeno quattro volte maggiore della separazione tra le due stelle compagne (Doyle et al., 2000).
10
La prima causa è evidente; infatti già la frammentazione appena discussa porta
ad una distribuzione del momento angolare totale della nube nei diversi frammenti che
successivamente collassano in stelle. Inoltre non tutto il frammento in fase di collasso
gravitazionale partecipa alla formazione stellare. La materia circumstellare residua
porta con sé un’altra frazione di momento angolare.
Infine la materia circumstellare viene in gran parte spazzata via dal vento
stellare, che compare nelle ultime fasi del collasso gravitazionale della protostella (v.
paragrafo successivo); d’altra parte anche l’interazione del campo magnetico
dell’oggetto centrale con la materia carica circostante è causa di dissipazione di
momento angolare. Infatti, contraendosi la nebulosa trascina con sé le linee di forza
del campo magnetico, cui sono legate le particelle ionizzate del meno denso mezzo
circostante (ma anche quelle neutre, a causa della diffusione ambipolare). Quindi la
nebulosa, cedendo momento angolare al mezzo circostante, rallenta il suo moto di
rotazione, favorendo il collasso verso il centro di una grande quantità di gas e polvere,
che andrà a formare la protostella. Quando la nube protostellare diventa
sufficientemente densa, il processo di dissipazione dell’energia rotazionale si ferma e
di conseguenza anche J si stabilizza su di un valore praticamente costante nel tempo.
Per questo l’ulteriore contrazione della nube protostellare causa un aumento della
velocità angolare, che dà luogo dapprima ad un appiattimento della struttura ed in
seguito porta all’instaurarsi dell’instabilità rotazionale della parte centrale della nube
stessa.
Per esaminare più in dettaglio il fenomeno sopra accennato, si consideri un
volumetto di massa m ad una distanza R dal centro della nube di massa M. Nel corso
del collasso sul volumetto agisce sia la forza gravitazionale:
FG = 2R
GmM (5)
sia la forza centrifuga:
322
22 cos
cosRMk
mJRmFc
(6)
(dove è la latitudine), forza che deriva evidentemente dalla rotazione del volumetto
intorno all’asse della nube.
La (6), che è stata ottenuta ricordando l’espressione del momento angolare J =
k M R2 , mostra che la resistenza opposta al collasso gravitazionale dalla forza
11
centrifuga è via via crescente man mano che ci si sposta dai poli (dove Fc = 0)
all’equatore della nube (v. fig. 4). Ne consegue che durante il collasso, la nube si
schiaccia fortemente ai poli assumendo la forma di un ellissoide con una forte
concentrazione di gas e polvere in prossimità del centro. Tale accumulo di materia
dovuto alla più elevata velocità di contrazione nella regione centrale, dà luogo ad un
oggetto, il core della nube protostellare, la cui rapida evoluzione procede
indipendentemente dal resto della nube, dando alla fine origine alla protostella.
Fig. 4 – Effetto della rotazione sul collasso gravitazionale di una nebulosa.
Poiché il momento angolare del nucleo centrale in pratica si conserva, dalla
(5) e dalla (6), dove stavolta M è la massa del core, si vede che durante il collasso la
forza centrifuga, proporzionale ad 1/R3, cresce più rapidamente di quella
gravitazionale proporzionale solo ad 1/R2. Quando queste due forze diventano uguali
in modulo, si verifica quella che viene detta “instabilità rotazionale” (Bakouline et al.,
1975). Evidentemente tale fenomeno riguarda principalmente le regioni equatoriali
del core (0), dove come si vede dalla fig. 4, la forza centrifuga è parallela ed
opposta ad FG. In queste regioni la distanza Rc dal centro necessaria affinché
l’instabilità si manifesti, si ricava dall’eguaglianza della (5) con la (6) che dà:
32
2
GMk
JRc (7)
Quando R = Rc la forza centrifuga bilancia esattamente la forza gravitazionale,
annullandone gli effetti e causando l’instaurarsi dell’instabilità rotazionale3. E’ a
( 3
): Ad esempio nel caso del Sistema Solare l’instabilità rotazionale dovrebbe essere apparsa quando il raggio del core della nebulosa protostellare era circa uguale a 40 UA (Natta, 2000) ovvero quasi pari alla distanza media di Plutone dal Sole.
12
questo punto che comincia, principalmente dalle regioni equatoriali, una perdita di
materia che va a formare il cosiddetto “disco protoplanetario”. Tale disco si trova
immerso in una regione costituita da quella parte dell’inviluppo ellissoidale che non
ha partecipato direttamente alla formazione della protostella e del disco, ma che,
cadendo su questi ultimi, incrementa la loro massa. A sua volta la materia del disco,
spiralizzando lentamente verso la protostella, va ad accrescere ulteriormente la massa
di quest’ultima; per questo motivo il disco protoplanetario è anche detto “disco
d’accrescimento”. Al di là dell’inviluppo ellissoidale, in cui gas e polvere sono in
caduta sull’oggetto centrale e sul disco, esiste poi un inviluppo più esterno quasi
statico che di fatto non partecipa al processo di formazione stellare ma che rimane
legato alla nube molecolare d’origine.
Si noti che, secondo alcuni autori, l’instabilità rotazionale non è necessaria
per la formazione del disco, nel senso che il collasso gravitazionale di una nube in
rotazione più o meno rapida porta necessariamente e molto rapidamente (in un tempo
dell’ordine dei 105 – 106 anni) alla formazione di una struttura molto appiattita in
direzione perpendicolare all’asse di rotazione, ossia, di fatto, ad un disco. In effetti,
siccome qualunque oggetto celeste in contrazione è dotato di momento angolare non
nullo, a causa della conservazione di tale grandezza, il collasso gravitazionale avviene
sempre (v. fig. 4) verso un piano piuttosto che verso il punto centrale (Greaves, 2005).
Secondo questo punto di vista il raggio esterno del disco non sarebbe determinato
dalla (7), ma assumerebbe valori più alti (fino a 800 – 1000 UA) vincolati solo dalla
presenza di stelle vicine che con la loro perturbazione gravitazionale potrebbero
strappare le parti esterne del disco, determinandone in tal modo il bordo esterno. Per
esempio nel caso del Sole il disco possedeva probabilmente un raggio esterno di 40 –
50 UA a causa del passaggio di una stella vicina che avrebbe troncato il disco
protoplanetario (Greaves, 2005). In realtà si ha ragione di pensare che il Sole sarebbe
nato in un ammasso contenente stelle molto massicce che avrebbero concluso la loro
breve vita contemporaneamente con la formazione del Sole.
4. Dissipazione del momento angolare dell’oggetto centrale
All’epoca della formazione del disco, l’oggetto centrale si trova in una
condizione di quasi equilibrio idrostatico e può essere pertanto considerato una stella
a tutti gli effetti, anche se alcuni autori preferiscono usare il termine “protostella” a
causa del fatto che al suo interno non si sono ancora innescate le reazioni
termonucleari di fusione dell’idrogeno in elio.
13
In questa fase la stella continua a perdere momento angolare. In effetti
l’accrescimento dell’oggetto centrale da parte del disco avviene lungo le linee del
campo magnetico stellare. Quest’ultimo non ruota in maniera solidale con la stella,
ma la sua rotazione può essere tale da far assumere alle proprie linee di forza
configurazioni più favorevoli all’eiezione di materia (nelle regioni polari) piuttosto
che all’accrescimento. Questo spiega perché oggetti giovani presentino violenti getti
intermittenti di materia in direzione dei poli stellari. Questi getti sottraggono, quindi,
altro momento angolare al sistema stella disco (si noti che questo meccanismo
favorisce l’eiezione delle particelle più veloci, in quanto la forza di Lorentz è
proporzionale alla velocità della particella, e quindi concorre a eliminare in maniera
preferenziale le particelle con maggiore momento angolare).
Occorre ricordare, infine, che il campo magnetico stellare si accoppia al
materiale carico presente nel disco e trasferisce a quest’ultimo parte del momento
angolare dell’oggetto centrale. Supponiamo che un campo magnetico a dipolo, più
intenso di quello attualmente presente nel Sole, sia legato alla stella. La materia
parzialmente ionizzata, trascinando con sé il campo, ne modifica la struttura a dipolo:
poiché la velocità angolare della struttura costituita dal disco e dall’inviluppo
circostante è più bassa di quella della stella, le linee di forza si avvolgono a spirale. In
questo processo esse frenano la rotazione della protostella e accelerano la rotazione
della struttura (v. fig. 5). Quando il frenamento della stella diventa importante,
l’instabilità rotazionale sparisce, la fuoriuscita di materia dal disco protoplanetario
cessa e quest’ultimo si distacca dalla stella (Bakouline et al., 1975).
La presenza di una cavità nella parte centrale del disco di accrescimento (Meyer
et al., 1997) è predetta dai modelli di accrescimento magnetosferici, nei quali il campo
magnetico stellare distrugge la parte interna del disco fino a distanze di qualche raggio
stellare; l’accrescimento della stella però continua ad efficienza ridotta, perché, come
proposto da Kenyon et al. (1996), il campo magnetico può incanalare materia del disco
verso l’oggetto centrale, lungo le linee di forza.
I calcoli mostrano che, a seconda che si tratti di una stella di massa moderata
(e quindi relativamente fredda) oppure molto massiva (e quindi calda), l’efficacia di
questo processo di frenamento dell’oggetto centrale differisce a causa dell’esistenza
nelle stelle fredde di una zona convettiva sottostante alla fotosfera che quelle calde
invece non possiedono.
Se il mantello della protostella è sede di moti di convezione, le linee di forza
magnetiche possono penetrare profondamente all’interno e situarsi praticamente nel
cuore della stella. Al contrario se non c’è convezione, le spire si trovano di fatto
all’esterno, ossia nel disco protoplanetario stesso. In queste condizioni accade che
l’accelerazione della rotazione del disco è troppo rapida e di breve durata, sicché
14
questo si disgrega senza che la stella riesca a trasferirgli una massa apprezzabile. Così
il disco protoplanetario non ha il tempo di formarsi e la rotazione della stella resta
rapida. Occorre precisare che la teoria appena illustrata (Hoyle, 1960) non è che
un’ipotesi di lavoro, verosimilmente ben fondata, ma pur sempre da verificare.
Bisogna inoltre notare che, come si vede dalla (7), quanto più alto è il
momento angolare della nube, tanto più grande è la distanza dal centro alla quale si
manifesta l’instabilità rotazionale e tanto più grande è quindi la quantità di materia
che non partecipa al collasso verso il centro. In caso quindi di momento angolare
relativamente elevato, il disco protoplanetario sarebbe sufficientemente massiccio.
Fig. 5 – Probabile struttura del campo magnetico in prossimità della stella. (a): Visione schematica laterale della stella, del disco e dell’inviluppo protoplanetario; (b): Visione schematica dall’alto (da Bakouline et al., 1975).
In conclusione, quindi, il collasso gravitazionale di una nube molecolare dà
luogo, a seconda delle condizioni iniziali, alla formazione di una stella di massa
piccola o intermedia circondata da un disco di gas e polvere oppure di una stella
massiccia in genere priva di disco.
15
5. Le stelle di presequenza
Come è noto, le stelle per così dire “mature”, quelle cioè che hanno già dato
l’avvio alla fusione nucleare dell’idrogeno nel loro nucleo, sono dette “stelle di
sequenza principale”. Tutte le stelle che non hanno raggiunto ancora questa fase sono
invece chiamate “stelle di presequenza”.
Stelle di presequenza di massa compresa tra 2 e 10 M sono note come “Ae/Be
di Herbig” mentre quelle di massa inferiore (come il nostro Sole) sono denominate “T
Tauri”. Stelle di massa superiore a 10 M sono alquanto rare ed evolvono molto
rapidamente, rendendo il loro studio nella fase di presequenza molto complicato.
Sembra ormai evidente, anche grazie ad osservazioni dirette, che molte T Tauri siano
circondate da un disco di polvere (Burrows et al., 1996). La questione è invece ancora
dibattuta per le stelle Ae/Be di Herbig. Immagini a lunghezze d’onda millimetriche
rivelano la presenza di strutture a disco “scampanato” rotanti attorno alle stelle Ae di
Herbig di massa non troppo elevata (Mannings e Sargent,1997; 2000); queste strutture
sembrano essere ciò che rimane del disco di accrescimento e si pensa che siano
l’ambiente ideale per la formazione planetaria (Bouwman et al., 2003). Non è
altrettanto chiaro se ciò avvenga anche per le più massive Be di Herbig (vedi ad
esempio Bouwman et al., 2003; Elia et al., 2003). Questo perché l’evoluzione delle
stelle di massa superiore è molto veloce e potrebbe essere anche più rapida della
formazione del disco stesso.
5.1 Le stelle T Tauri
Le stelle di tipo T Tauri (indicate da ora in poi con l’acronimo TTS) sono stelle
molto giovani per le quali è ancora in corso la contrazione gravitazionale. In generale
le TTS hanno età compresa tra 105 e 108 anni e massa compresa tra 0.5 e 3.0 M, sono
circondate da materia calda e perdono massa attraverso venti stellari con velocità
tipiche dell’ordine di 100 km/s. Infatti durante la sua evoluzione una stella, prima che
inizi la combustione dell’idrogeno, attraversa una fase di grande instabilità con forte
emissione di vento stellare.
Generalmente le TTS hanno classi spettrali che variano dalla A alla M. Un
oggetto che passa attraverso la fase di TTS, può perdere fino a 0.4 M prima di
diventare stella di sequenza principale (Kaufmann, 1990).
Le TTS sono generalmente stelle variabili con periodo irregolare: l’oggetto
archetipo T Tauri mostra una luminosità nel visibile che varia tra 13 mag e 9 mag
anche se raramente scende sotto 10 mag. Le TTS si trovano nello stato evolutivo nel
quale forti venti stellari disgregano la nebulosa che le avvolge.
Tra la fase di T Tauri e la fusione dell’idrogeno (diverse decine di milioni di
anni) accadono i seguenti due eventi:
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a) evoluzione rotazionale: sostanzialmente si verificano i meccanismi di perdita di
momento angolare già esposti;
b) deplezione del deuterio e del litio: la fusione nucleare di queste due specie avviene
prima che le stelle di piccola massa diventino di sequenza principale; tuttavia l’entità
della deplezione del litio non è ancora del tutto compresa (Bouvier, 1994).
5.2 Le stelle Ae/Be di Herbig
Le stelle Ae/Be di Herbig (HAEBE) presentano variabilità fotometrica con
periodo irregolare. La variabilità di questi oggetti è evidentemente dovuta allo stato
evolutivo nel quale si trovano, caratterizzato da forte instabilità. Le HAEBE possono
essere suddivise in due categorie: quelle (dette “embedded”) che si trovano ancora nel
residuo della nube da cui si sono formate, il quale è responsabile di parte dell’eccesso
infrarosso osservato; e le HAEBE “isolated”, cioè non oscurate dalla nebulosa
protostellare, per le quali l’eccesso proviene esclusivamente dalla materia
circumstellare residua.
Poiché le HAEBE isolated sono lontane dalle regioni di formazione stellare, si
suppone che queste siano più evolute delle corrispondenti embedded.
Gli spettri di alcune HAEBE isolated, ottenuti dal satellite astronomico ISO,
presentano forti somiglianze con quelli delle comete appartenenti al nostro Sistema
Solare. Lo spettro della stella HD 100546 presenta ad esempio una grande varietà di
bande di stato solido, attribuibili a vari materiali sia cristallini che amorfi, la maggior
parte delle quali è anche presente nello spettro della cometa Hale-Bopp (Crovisier et
al.,1997; Malfait et al., 1998; Lellouch et al., 1998).
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