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Anno LX-n.11 /Novembre 2016 www.cittanuova.it
28 /Le mani sul Congo 56 /Firenze un anno dopo 74 /Monte Athos
Fiction quotidianaSERIE TV E VITA REALE
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I.P.
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Torno dall’altra parte del mondo, dalle Filippine del discusso presidente Duterte. Ogni volta che mi avvicino al Pacifico dal lato asiatico, mi rendo conto come i Paesi della regione abbiano una vitalità molto spesso caotica, immatura e non sempre sostenuta da basi culturali solide, ma nel contempo che innova, lavora, intercetta la rivoluzione digitale, crea nuovo lavoro e lo cambia con facilità. Queste società sono giovanissime rispetto alle nostre vecchie nazioni europee. Sono esse che mostrano come l’asse portante del mondo si sia spostato negli ultimi 20 anni dall’Atlantico al Pacifico. Se fino agli anni ’90 le decisioni che contavano venivano prese sull’Atlantico, ora invece vengono prese sempre più sul Pacifico. L’economia, innanzitutto: la creatività industriale e finanziaria non è più appannaggio esclusivo della Vecchia Europa e delle Americhe, ma delle Americhe e dell’Asia-Oceania. Lo stesso Nuovo continente sembra aver scelto di guardare verso le sponde asiatiche piuttosto che a quelle europee.Ineluttabile declino della nostra tradizione europea? Siamo infinitamente più preoccupati dalla questione islamica, mentre dovremmo interessarci molto di più alla “minaccia” dell’Estremo Oriente. Ricordo uno scalo a Bishkek, capitale del Kirghizistan, unico Paese al mondo ad ospitare nel contempo basi militari statunitensi e russe. Sulle piste stazionavano una decina di giganteschi Antonov russi e altrettanti Hercules Usa. Pachidermi
immobili. E in mezzo… decine di piccoli aerei cinesi da cui si caricavano e scaricavano merci. Il successo di Pechino (ma anche di Ho Chi Minh Ville, Seul, Jacarta, Bangkok, Kuala Lumpur…) è dovuto alla strategia ben nota agli economisti del win-win, vinci tu che vinco anch’io. È un metodo vincente in affari, ma anche nelle comunicazioni e, perché no, nell’organizzazione sociale. Certo, alcuni risvolti culturali sono inquietanti, per la massificazione al ribasso. Ma nelle Filippine come negli altri Paesi della regione si continua a rispettare l’Europa per la cultura e l’arte: si vorrebbe che il Vecchio continente condividesse maggiormente le sue ricchezze. Ebbene, lo scivolamento dell’asse del mondo dall’Atlantico al Pacifico potrebbe essere la spinta per una nuova condivisione culturale e artistica da parte di noi europei. A condizione di essere aperti. Se invece ci chiudiamo dentro muri sempre più alti, rischiamo di morire soffocati da un altezzoso isolazionismo.
L’asse del mondo si sposta.
di Michele Zanzucchi
il punto
3cittànuova n.11 | Novembre 2016
20 /LOGISTICA Un settore strategico dove crescono
le proteste per le condizioni spesso inumane dei lavoratori.
64 /NEUROSCIENZE Le ultime scoperte sui fattori
di rischio alla base dei comportamenti violenti.
34 /INTERVISTA Chico Whitaker, architetto
e avvocato dei diritti civili, è tra gli ideatori
del Forum sociale mondiale.
74 /REPORTAGE Tra i monasteri del Monte Athos, che conservano
intatta da un millennio la tradizione ortodossa. EXTRACN
Anno LX-n.11 /Novembre 2016 www.cittanuova.it
28 /Le mani sul Congo 56 /Firenze un anno dopo 74 /Monte Athos
Fiction quotidianaSERIE TV E VITA REALE
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I.P.
10 /Perché le serie tv attraggono milioni di spettatori
davanti al piccolo schermo?
7 /PING PONG di Vittorio Sedini 27 /OLTRE IL MERCATO di Luigino Bruni 31 /SCENARI MONDIALI di Pasquale Ferrara 42 /PIANETA FAMIGLIA Barbara e Paolo Rovea 55 /SE POSSO di Piero Coda 71 /PENSARE L’UNITÀ di Jesús Morán 93 /GIBI E DOPPIAW di Walter Kostner
In copertina
Opinioni
sommarioIl punto3 /L’asse del mondo si sposta.di Michele Zanzucchi
Editoriali8 /Referendum e unità del Paese.di Iole Mucciconi
/Esercizi di democrazia.di Vittorio Pelligra
9 /Conflitti senza regole.di Vincenzo Buonomo
Le regioni17 /Epatite C, una battaglia per la salute.di Francesca Cabibbo
18 /Venezia, parte la raccolta porta a porta.di Chiara Andreola
19 /Crisi, aziende in ginocchio.di Silvano Gianti
Politica lavoro economia24 /Tribunali nel caos.di Sara Fornaro
Pagine internazionali28 /La falsa miseria del Congo.di Giulio Albanese
32 /Flash dal mondo.di Silvano Malini, Maddalena
Maltese, Pedro Vaz Patto,
Tanino Minuta
Famiglia e società38 /Educare col cuore.di Elena Cardinali
39 /Ho Chi Minh City-Roma (Spazio Famiglia).di Giovanna Pieroni
40 /Domande & risposte.di Marina Gui, Marco D’Ercole,
Maria e Raimondo Scotto,
Federico De Rosa, don Paolo
Gentili
Cantiere Italia43 /Cultura delle relazioni.di Rosalba Poli e Andrea Goller
44 /La salute è di casa.di Aurora Nicosia
47 /Amatriciana solidale.di Chiara Andreola
48 /Fedeltà creativa di “uomini-mondo”.di Giustino Di Domenico
Storie50 /Luis, un eroe per caso.a cura di Aurelio Molè
53 /Storie brevi.di Silvano Malini, Tamara
Pastorelli, Tanino Minuta
Spiritualità56 /Rilanciare Firenze.di Aurelio Molè
59 /Parola di vita - Dicembre.di Fabio Ciardi
60 /I giovani, la fede, le scelte.di Maria Chiara De Lorenzo
62 /Il nome di ogni prova della vita.di Chiara Lubich
Idee e cultura68 /Mastroianni, un divo made in Italy.di Mario Spinelli
72 /Il piacere di leggere. a cura di Gianni Abba
SEGNALIAMO SU
CHIESA
Il nuovo generale
dei gesuiti
di Armando Ceccarelli sj
MATERNITÀ SURROGATA
Il no del Consiglio
d’Europa
di Daniela Notarfonso
CALCIO
Azzardo nazionale
di Vittorio Pelligra
EXTRACN
EXTRACN
Mensile di opinione del Movimento dei focolari fondato nel 1956 da Chiara Lubich con la collaborazione di Pasquale Foresi.
Direttore responsabile: Michele Zanzucchi
Caporedattore: Aurelio Molè
Redazione: Carlo Cefaloni, Sara
Fornaro, Maddalena Maltese, Giulio
Meazzini, Aurora Nicosia
Progetto Grafico: Humus Design
Impaginazione: Umberto Paciarelli
Segreteria di redazione: Luigia Coletta
Abbonamenti: Antonella Di Egidio,
Desy Guidotti, Marcello Armati
Promozione: Marta Chierico
Editore: Città Nuova della P.A.M.O.M.
Via Pieve Torina, 55 | 00156 Roma
T 06 3216212 F 06 3207185
C.F. 02694140589 P.I.V.A. 01103421002
Direttore generale: Stefano Sisti
Stampa: Arti Grafiche La Moderna
di Miliucci Marco e Floriana S.n.c.
Via Enrico Fermi, 13/17
00012 Guidonia Montecelio (Roma)
tel. 0774354314/0774378283
Tutti i diritti di riproduzione riservati
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anche se non pubblicati, non si
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n.5619
del 13/1/57 e successivo n.5946 del
13/9/57
Iscrizione R.O.C. n. 5849 del 10/12/2001
La testata usufruisce dei contributi diretti
dello Stato di cui alla legge 250/1990
73 /In libreria. a cura di Oreste Paliotti
Arte e spettacolo80 /Maya, il linguaggio della bellezza. di Mario Dal Bello
82 /Francesca Fialdini: il mio primo romanzo. di Gabriele Amenta
83 /Cinema. di Edoardo Zaccagnini
Moda. di Beatrice Tetegan
84 /Musica radio e teatro.di Elena D’Angelo, Aurelio Molè
e Giuseppe Distefano
85 /Musica leggera. di Franz Coriasco
/Appuntamenti, cd, novità.
Fantasilandia86 /La cicala e la formica (tratta da Big)
di Bianca Pedrolli
Pagine verdi90 /Buon appetito con… di Cristina Orlandi
91 /Alimentazione. di Giuseppe Chella
/Educazione sanitaria. di Spartaco Mencaroni
/Diario di una neomamma. di Luigia Coletta
92 /Ecologia integrale. a cura di Luca Fiorani
Dialogo con i lettori95 /La nostra città.di Marta Chierico
96 /Guardiamoci attorno.
97 /Riparliamone.a cura di Gianni Abba
Penultima fermata98 /Ho ricevuto, ora restituisco. di Elena Granata
88 /SPORT Abbiamo
incontrato Jan Frodeno,
il campione del mondo
di triathlon “Ironman”.
Direzione e redazionevia Pieve Torina, 55 - 00156 ROMA
T 06 96522200 - 06 3203620 r.a.
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Ufficio pubblicitàvia Pieve Torina, 55 - 00156 ROMA
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F 06 3207185
Questo numero è stato chiuso in tipografia il 21-10-2016.
Il numero 10 di Ottobre 2016 è stato consegnato alle poste il 17-10-2016.
EXTRACN
EXTRACN
la vignettaPING PONGanche i sassi parlano
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7cittànuova n.11 | Novembre 2016
8 cittànuova n.11 | Novembre 2016
editoriali
La campagna elettorale è ancora terribilmente lunga e, anche se sembra di aver già visto e sentito tutto, prepariamoci ad altre roventi polemiche, possibilmente però senza rassegnazione. Stiamo in campana: il referendum costituzionale non ha bisogno di quorum e nelle parti politiche vi può essere tutto l’interesse a che vada a votare poca gente, solo quella... sotto controllo. Invece, ognuno si senta chiamato in causa e sia consapevole dell’importanza della sua partecipazione, di voto e di riflessione. Pian piano, pur tra grida esasperate ed esagerate, le buone ragioni del Sì e del No stanno emergendo e diventa possibile per tutti formarsi un solido convincimento, capace di comprendere anche le ragioni dell’altro. Su questo punto ha speso parole brevi ma molto significative il presidente Mattarella durante il discorso tenuto ai sindaci riuniti per l’assemblea dell’Associazione dei comuni italiani: «È necessario, nell’avvicinarsi al giorno del referendum, e sarà necessario, dopo il suo risultato, il contributo di tutti, sereno e vicendevolmente rispettoso». Si sa, il capo dello Stato ogni tanto
fa capolino nella tenzone elettorale per spegnere gli eccessi polemici e richiamare a toni e contenuti alti, ma in queste parole vi è un portato addirittura culturale. Con uno sguardo già rivolto al futuro, esse ci invitano a entrare pienamente nella responsabilità di costruire un Paese coeso attraverso un atteggiamento serenamente rispettoso dell’altra parte, nella reciprocità. Per la politica italiana è davvero una rivoluzione culturale. Ne siamo capaci? Se mettessimo davvero a fuoco che il vero rischio del dopo voto, al di là degli scenari terrorizzanti che vengono dipinti, è il perpetuarsi della divisione tra forze politiche e tra cittadini, riusciremmo a cogliere un po’ il senso di questa rivoluzione. Per cominciare, non dimentichiamo che dobbiamo decidere sulla Costituzione, che è essa stessa strumento di coesione e non può diventare il suo contrario. Rigettiamo gli slogan elettorali, espressione di pensiero corto, e mettiamoci sull’onda del pensiero lungo di Mattarella, custodendo attraverso il rispetto reciproco, in cabina e fuori, l’unità del nostro Paese.
Nel suo famoso Epitaffio, il grande ateniese Pericle ricorda ai suoi concittadini che la grandezza della loro città deriva principalmente dal fatto che ognuno di loro si adopera privatamente e pubblicamente nella ricerca del vero e del bello. Ecco, ancora oggi lo sviluppo di una grande democrazia liberale si dovrebbe misurare sulla qualità del suo dibattito pubblico, sulla possibilità cioè di confrontare posizioni differenti nell’arena civile in modo argomentato, chiaro, con interventi capaci di suscitare differenze di opinione ma anche di dare utili elementi per la decisione, interventi diretti alla ricerca del vero e del bello. In questi ultimi tempi, assistendo a vari confronti, da quello sul referendum costituzionale, a quello sulla riforma pensionistica, dal sempiterno scontro
sulle vaccinazioni fino a quello sui compiti a casa, si ha l’impressione che, se misurata su questo orizzonte, la qualità del nostro confronto democratico non sia propriamente da alta classifica. Partigianeria, disinformazione sistematica, toni da stadio che trascendono facilmente nell’hate speach, in una certa “incontinenza verbale”, non aiutano la ricerca della verità, né tantomeno l’esercizio di una cittadinanza matura, critica e consapevole; anzi producono un’erosione di fiducia tra cittadini e nelle istituzioni, in assenza della quale, come del lubrificante in un motore, le nostre comunità si paralizzano in contrapposizioni tanto deleterie quanto inutili. Come uscire da questa impasse?
Politica italiana
Referendum e unità del Paesedi Iole Mucciconi
Società
Esercizi di democraziadi Vittorio Pelligra
9cittànuova n.11 | Novembre 2016
“In guerra tutto è permesso”, secondo un vecchio adagio che per secoli il maturare della “pubblica coscienza” ha cercato di smentire. O almeno di arginare, rifiutando il ricorso alla guerra, prevenendo la barbarie e gli immancabili effetti negativi del conflitto armato. Un’azione che, per quanto paradossale, sembrava un punto acquisito nei rapporti internazionali. Poi, dopo le trasgressioni nei conflitti della fine del ’900, la volontà di “umanizzare la guerra” spostò l’attenzione sui tribunali internazionali: ex-Yugoslavia, Ruanda, Sierra Leone, fino alla Corte penale internazionale. Un traguardo forse minimo, certo limitato, ma frutto di una volontà inesistente solo qualche decennio prima che lasciava ben sperare. Questo, però, sembra lontano da quanto accade in Siria, Iraq, Yemen, Libia… dove si combattono conflitti senza regole. I gruppi combattenti che affiancano eserciti regolari non si contano, alimentando la vecchia guerra mercenaria. I civili sono privi di protezione, costretti a vivere sotto bombardamenti e assedi. E ospedali e centri di primo soccorso diventano obiettivi militari (quasi sempre per errore!), mentre manca ogni protezione per i più vulnerabili,
a iniziare dai bambini vittime delle bombe e delle armi, dell’arruolamento o del lavoro forzato, della mancanza di acqua e viveri, di malattie e infezioni. Anche gli appelli per istituire corridoi umanitari e trasportare feriti o distribuire beni primari sono rimasti inascoltati. Si continua a ripetere che tutto è affidato alla trattativa, anche se nemmeno il fronte diplomatico può dirsi immune dall’assenza di regole. Si negozia, ma non tutte le parti sono coinvolte e alcune hanno riproposto il vecchio adagio: in guerra tutto è permesso. Così il cessate il fuoco si allontana o non trova rispetto. E non manca chi nella trattativa concretizza altri interessi, magari in aree diverse da quelle del conflitto. Perdere ogni speranza, allora? L’indignazione non può limitarsi a reclamare altra violenza o generici disarmi e idilliaci accordi di pace. Se la diplomazia deve coltivare i segnali, anche piccoli, ma concreti che parlano di riconciliazione, di pacificazione, di rispetto reciproco, obbligare le parti in un conflitto a rispettare le regole sarebbe già un passo in avanti. Non una magra soddisfazione, come dice chi, in attesa di grandi accadimenti, perde di vista il bene che si può fare oggi.
Il filosofo scozzese David Hume sosteneva che la via migliore per valutare la bontà di una posizione, di un’idea, delle nostre azioni, fosse quella di osservarle con gli occhi di uno spettatore imparziale. Uscire fuori di noi, per così dire, e attraverso l’immaginazione e la capacità di metterci nei panni degli altri, osservarci con occhi distaccati, imparziali appunto. Un’idea simile è stata nel secolo scorso ripresa da John Rawls, il più importante filosofo politico del ’900, il quale sosteneva che un accordo sui fondamenti del nostro vivere comune può avvenire solo dietro il cosiddetto “velo di ignoranza”. Quando dobbiamo
prendere una decisione pubblica partendo da posizioni differenti, suggerisce Rawls, dobbiamo valutare pro e contro delle varie proposte sapendo quali saranno le conseguenza di ognuna delle idee in campo per tutti, tranne che per noi. Attraverso questo esercizio potremmo prendere le distanze dai nostri interessi particolari e valutare i termini del dibattito sempre più in modo obiettivo e imparziale. Un esercizio necessario oggi più che mai, per proteggere le nostre comunità dall’atrofia della vera partecipazione democratica.
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Conflitti senza regoledi Vincenzo Buonomo
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10 cittànuova n.11 | Novembre 2016
il soccorsodegli eroi
TELEVISIONEl’inchiesta
Le serie tv attraggono milioni di telespettatori in cerca di messaggi di senso per la propria vita. Le differenze tra le fiction italiane e statunitensi
parte desideriamo che il protago-nista sia sempre impeccabile, para-dossalmente è proprio la sua natura imperfetta, che richiama la nostra, ad attirarci e incuriosirci. La lunga e la media serialità non sono però le uniche forme televisi-ve di successo in Italia. Tra le serie che tradizionalmente raccolgono i maggiori ascolti, ritroviamo le mi-niserie in due puntate, spesso di matrice biografica, dalle storie di papi e santi alle grandi personali-tà laiche che hanno caratterizzato la storia, la società e la cultura del nostro Paese, come la recente fi-ction ispirata alla vita della stilista Luisa Spagnoli.Allo spettatore medio non interes-sa sapere se tutto ciò che la serie descrive è avvenuto davvero nella realtà. Allo spettatore interessa co-gliere un messaggio per la propria vita. Ogni genere televisivo rispon-de infatti a una precisa domanda che, nel caso del racconto biografi-co, è: qual è la vita che vale davvero la pena di essere vissuta? Che cosa ha reso “eccezionale” questa par-ticolare esistenza e che cosa può dire alla mia? Ciò che ci interessa,
Che cosa fa sì che le serie televisi-ve attraggano milioni di spettatori davanti al piccolo schermo? A differenza della televisione an-glofona, più inquieta e specchio delle spinte contrastanti dell’epoca contemporanea, la serialità italia-na, che si distingue per una mag-giore positività di fondo, rassicura e conforta i propri spettatori. Don Matteo continua a mietere succes-si di audience, anche in replica, non solo e non tanto per i suoi racconti gialli alla Padre Brown, ma per il messaggio di riscatto che offre. La serie sembra dirci che non importa quanto intricato sia il problema: si risolverà. E ancora: il male esiste, ma esiste anche la possibilità del pentimento e della redenzione.Lo stesso vale per Il commissario Montalbano che, nonostante offra un tipo di detection diverso, vanta la presenza di un personaggio molto amato dagli italiani, capace di gio-care sull’attesa di novità e sull’esi-genza di rassicurazione, sulla vo-glia di sorpresa e sul ritorno del già noto. Salvo Montalbano è un mix di qualità e difetti, di semplicità e di contraddizioni. E così, se da una
come spettatori, non è quindi solo la risoluzione di una trama, ma la presenza di una verità umana che in qualche modo ci illumini sulla nostra stessa vita. Le serie tv, in-somma, più di altre forme narra-tive contemporanee, rispondono efficacemente al nostro insoppri-mibile desiderio di storie e alla curiosità di vivere esperienze che arricchiscano la nostra umanità e che illuminino, in qualche modo, il nostro quotidiano.
11cittànuova n.11 | Novembre 2016
Per quanto riguarda invece le se-rialità straniera, mai come in que-sti ultimi anni il piccolo schermo, soprattutto quello statunitense o e anglosassone, ha prodotto serie tv colte e raffinate, che sono di-ventate oggetto di studio anche a livello accademico, a dispetto del pregiudizio che da sempre carat-terizza la televisione, considerata inferiore al cinema in quanto a qualità estetica e legittimità cul-turale.
La televisione di qualità quindi esiste ed è tale sia per compiutezza estetica e tecnica sia per comples-sità, dal momento che è spesso ric-ca di sostrati metaforici e letterari: le serie televisive moderne citano la grande letteratura, il cinema, il teatro e sono costruite attraverso strutture narrative e tecniche figu-rative a volte molto elaborate. A differenza della fiction italia-na, che si rivolge per lo più a un pubblico generalista, la fiction
statunitense è molto targettizza-ta e punta a raggiungere un “pro-prio” pubblico, che generalmente è molto ristretto. Infatti una serie statunitense, per reggere economi-camente, può avere anche solo 10 milioni di spettatori, ossia un ra-ting (percentuale di spettatori sul totale della popolazione) di soli 3 punti. Il dato si abbassa ulterior-mente passando dalla televisione generalista a quella a pagamento: è il caso del canale Hbo, famoso per
di Eleonora Fornasari
Sky C
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ma
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SA
Scena da “Il Trono di Spade”.
12 cittànuova n.11 | Novembre 2016
Alla ricerca di narratoriARMANDO FUMAGALLI Docente di Semiotica e Storia e linguaggi del cinema internazionale e direttore del master in International Screenwriting and Production, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
“Spesso le serie televisive italiane vengono attaccate dai critici per essere troppo edificanti e poco realistiche. Qual è il suo punto di vista? A mio parere i critici televisivi alle volte hanno una sorta di “deformazione
professionale”. Vedono la tv nei loro orari di lavoro e si attendono novità ed
emozioni forti. Per il pubblico normale, che spesso si deve alzare molto presto
la mattina, fa lavori faticosi, ha una vita complicata, la televisione, specialmente
quella delle 9 di sera, è un momento di evasione prima di andare a dormire. È
questo – a mio parere – uno dei motivi del disprezzo per il sano intrattenimento
di serie come Don Matteo.
Perché le serie statunitensi non hanno un grande riscontro di pubblico in Italia?Se si guardano bene i numeri, ci sono serie statunitensi che vengono
trasmesse in tutto il mondo, se ne parla molto, ricevono tanti premi, ma in
nessun Paese sono dei fenomeni veramente popolari. È il caso, per esempio, di
Breaking Bad, che aveva ascolti, anche in Usa, intorno all’1% della popolazione.
Ma se ne è parlato molto e la sensazione è stata di un grande successo anche
in termini numerici, ma che non corrispondono alla realtà.
Lei dirige il Master in “International Screenwriting and Production” presso l’Università Cattolica di Milano: di che tipo di narratori di storie ha bisogno la televisione italiana?Ha bisogno di persone con una grande cultura umanistica di fondo. Consiglio
sempre di leggere autori come Shakespeare, Dickens, Tolstoj, Dostoevskij, Jane
Austen, Tolkien, Lewis che conoscono il cuore dell’uomo, e di avere la pazienza
di imparare le tecniche che rendono un racconto avvincente e denso. Ormai
un certo stile diluito e basato su cliché e luoghi comuni non funziona più
neanche nella fiction più generalista. Occorre dare intensità, sia nel dramma
che nella commedia. E ci vogliono persone che abbiano un profondo rispetto
del pubblico televisivo, che è fatto in ampia parte da persone semplici e con
bassa scolarità, ma che meritano storie con una grande profondità umana e
che lascino qualcosa di “vero” allo spettatore, anche quando si ha a che fare
con una commedia.
l’inchiesta TELEVISIONE
Uffi
cio
sta
mp
a/A
NS
A
Terence Hill in “Don Matteo”.
13cittànuova n.11 | Novembre 2016
serie come Il Trono di Spade, True Detective o l’irriverente Girls. Ge-neralmente sono serie di cui si par-la molto a livello mediatico, spesso per i temi trattati e il fandom (co-munità di fan, appassionati) che suscitano ma, comparati per esem-pio ai grandi numeri raggiunti dal cinema hollywoodiano, appare chiaro come siano per lo più pro-dotti di nicchia. Queste stesse se-rie in Italia non catturano grandi ascolti, anche se sono molto segui-te tra i più giovani o gli appassiona-ti di genere, che però prediligono altri canali di trasmissione, spesso “non ufficiali” e che permettono una visione quasi “in contempora-nea” con la messa in onda estera.
Ciò che rende interessanti queste serie è la presenza di conflitti tematici universali e di personaggi forti con cui il pubblico può empatizzare
Le fiction più viste in Italia SPETTATORI SHARE
2011 Il commissario Montalbano 9.561.000 33%
2012 Paolo Borsellino 8.200.000 29%
2013 Volare: la grande storia
di Domenico Modugno 11.483.00 39%
2014 Don Matteo 8.888.000 30%
2015 Un passo dal cielo 7.718.00 29%
Un’istantanea da “Breaking Bad”.
14 cittànuova n.11 | Novembre 2016
Il motivo dello scarso interesse suscitato sulla nostra televisione risiede proprio nella differente composizione del nostro pubblico: la fiction italiana in prima serata riesce ad attrarre una fetta ampia di pubblico, proprio perché pensa-ta per rivolgersi tanto al bambino quanto all’ottantenne. La grande libertà di cui gode la te-levisione statunitense in termini di
audience, consente certamente una produzione qualitativa maggiore e diversificata e livelli di scrittura molto raffinati (tanto da fare gola anche ad attori tradizionalmente legati al cinema, si pensi a Uma Thurman, protagonista di The Slap, o Winona Ryder in Stranger Things). Ciò che rende interessan-ti queste serie e che fa sì che mi-lioni di persone in tutto il mondo
ne parlino, è per lo più la presen-za di conflitti tematici interessan-ti e universali capaci di toccare le corde della nostra esperienza e di personaggi forti con cui il pubblico possa empatizzare, prendendone a cuore le sorti. Ciò vuol dire che chi ha seguito appassionatamente Bre-aking Bad non lo ha fatto perché si identificava nel professor White, produttore di anfetamine e spie-
l’inchiesta TELEVISIONER
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Luca Zingaretti nei panni del “Commissario Montalbano”.
Le 4 amiche di “Girls”.
Serie tv e vita realeBENEDETTO IPPOLITOFilosofo e docente di Storia della filosofia medievale all’Università degli studi Roma Tre.
“Le serie tv più note, soprattutto statunitensi, interpretano il presente. Pensiamo agli scenari apocalittici in “The Walking Dead” e lo scontro tra mondi in “Il Trono di Spade”. Rappresentano davvero le inquietudini di oggi?Le serie televisive, non soltanto statunitensi ma anche italiane, presentano
sempre, anche se nascosta, un’interpretazione forte della realtà, sollecitando,
rilevando, talvolta perfino enfatizzando, aspetti della vita che sono molto
rilevanti dal punto di vista etico. Se prendiamo, ad esempio, House of Cards,
è facile capire che non si tratta soltanto di una narrazione avvincente di
personaggi molto simili a quelli reali, ma di un vero e proprio giudizio sul
comportamento umano e sui criteri immorali con cui è gestito il potere. In
questo senso non esiste fiction che abbia una neutralità, perché comunque è
costantemente veicolata una “verità”, che si voglia o no è trasmessa una certa
visione dell’uomo, della libertà.
In che modo, secondo lei, le fiction sono espressione di una vita reale?Aristotele nella Poetica ci dà un grande insegnamento. L’arte è «imitazione della
vita». Il punto fondamentale, però, è che cosa si vuole fotografare del mondo.
Il rischio, ad esempio, è che per generare suggestioni si dia un’immagine del
proprio tempo non soltanto limitata, come inevitabilmente deve essere in una
fiction, ma unilaterale, monca e totalmente schiacciata nella depravazione.
Perché si influenzano gli stili di vita?Avviene perché le storie narrate sono cariche di senso, quindi tendono
a legittimare o delegittimare il costume e i comportamenti. E, oltre a ciò,
l’influenza diventa magnetica nell’adolescenza, proprio perché i ragazzi vivono
una fase di ricerca degli standard comportamentali.
Fare apparire appetibili la giustizia, l’onestà, la generosità è estremamente
importante, altrimenti si rischia di considerare le virtù umane come
desuete, soltanto perché non compaiono nelle fiction: un fatto questo
che evidentemente tende a togliere alle virtù il giusto posto che hanno
nell’impegno effettivo di ogni persona.
a cura di Aurelio Molè
Un’immagine di “The Walking Dead”.
15cittànuova n.11 | Novembre 2016
tato spacciatore, ma più probabil-mente perché provava pietà per lui (Walter White inizia a spacciare per aiutare la sua famiglia, in dif-ficoltà economiche e con un figlio handicappato) e allo stesso tempo sperava in una sua redenzione. No-nostante la trama della serie possa sembrare, all’apparenza, quanto di più lontano ci sia dalla nostra vita quotidiana, Breaking Bad pone lo spettatore di fronte a un quesito esistenziale: fin dove può spingersi il declino morale di un uomo, ini-zialmente rispettabile? The Walking Dead, alla settima sta-gione, dietro l’apparente presenza splatter degli zombie, estranei di certo al mondo reale, nasconde una domanda di fondo che sem-bra invece interrogare il presente: quando l’orrore domina il mondo, come si può far sopravvivere ciò
che è “umano”? Fin dove la pau-ra per la nostra stessa vita può portarci a perdere ogni traccia di umanità? Allo stesso modo l’orrore e lo scontro “tra mondi” che carat-terizza Il Trono di Spade, sembra avere molto a che fare con un mon-do contemporaneo costantemente minacciato dal terrorismo e da un presunto “scontro di civiltà”, in cui l’orrore si fa anche e soprattutto “visivo”. Quindi, anche nelle serie televisive di genere fantasy, hor-ror o fantascientifico, si possono in realtà nascondere messaggi più o meno profondi che interessano la società nel suo divenire. Que-sto spiega il successo delle serie di supereroi nel primo decennio del 2000 (come Heroes o Smallvil-le) che possono essere lette come “figlie” di quello stato di paura e insicurezza innescato nel popolo
americano dall’attentato terrori-stico dell’11 settembre 2001: un momento in cui il mondo occiden-tale ha dovuto fare i conti con la sua vulnerabilità e ha sentito forse più che mai il bisogno di chiamare in soccorso degli “eroi”.
l’inchiesta TELEVISIONE
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Contenuti aggiuntivi su cittanuova.itSerie tv. Il soccorso degli eroi.
cittànuova n.11 | Novembre 2016
PUGLIAle regioni
Da Bari l’appello dei medici alla ministra Lorenzin per garantire terapie a tutti i malati
a cura di Sara Fornaro
Una battaglia per la sanità. Una battaglia per eradicare una malattia: l’epatite C. Che si scontra però con i costi altissimi del farmaco. Il Sistema sanitario nazionale garantisce l’accesso alla cura solo agli ammalati più
gravi. I medici della Fnomceo (Federazione nazionale ordine medici chirurghi e odontoiatri), nel congresso di Bari del 16-17 settembre, hanno chiesto alla ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, di garantire l’accesso
alle terapie a tutti gli ammalati. Si chiede di produrre il farmaco generico in Italia: ad oggi è impossibile, poiché i farmaci in commercio (Sofosbuvir, Ledipasvir, Daclatasvir) sono prodotti da aziende che ne
di Francesca Cabibbo
epatite c, una battagliaper la salute
17
18 cittànuova n.11 | Novembre 2016
le regioni
detengono il brevetto. Il 10 ottobre, una petizione analoga è partita dalla Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi, l’ordine professionale degli infermieri.«La nostra è una battaglia sanitaria ed etica – spiega il presidente dell’Ordine dei medici di Ragusa, Salvatore D’Amanti –, non economica. Non è giusto attendere l’aggravamento della malattia per trattare un paziente con questi farmaci». «È una battaglia difficile – afferma Giovanni Ferraro, medico di famiglia a Comiso (Ragusa) –. C’è la necessità di garantire a tutti i pazienti la miglior cura possibile; ma le case farmaceutiche hanno investito nelle sperimentazioni e sono titolari del brevetto». Alcuni Stati, come l’India o l’Egitto, hanno ottenuto il farmaco a prezzi bassi: 350 o 700 euro il costo dell’intero ciclo di cura che, in Italia, supera i 40 mila euro (74 mila euro in farmacia). Ed è già iniziato il fenomeno del “turismo sanitario”. La battaglia di medici e infermieri ha, però, avuto inizio in Toscana, nel luglio 2016: Gavino Maciocco, dell’Università di Firenze, ha lanciato la petizione sottoscritta, per primo, dal presidente dell’Ordine dei medici fiorentino, Antonio Panti. «Lo Stato dovrebbe valutare i costi in una prospettiva quinquennale. Un progetto che permetta di raggiungere, in 5 anni, tutti gli ammalati – spiega Panti –, consentirebbe quasi di eradicare la malattia e di abbattere i costi negli anni successivi».Il sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo, il 7 ottobre, rispondendo a un’interrogazione della parlamentare Marisa Nicchi (Si), ha ribadito che è impossibile produrre il farmaco senza il consenso del titolare del brevetto. L’unica via è la dichiarazione di
emergenza nazionale. «La stiamo valutando», ha detto De Filippo. In Italia, non esiste un censimento ufficiale degli ammalati di Hcv, il virus dell’epatite C. Si calcola siano almeno un milione e 330 mila i malati con cirrosi. Oltre 20 mila persone muoiono, ogni anno, per malattie del fegato.
Venezia, parte la raccolta porta a porta
Il servizio sperimentale
coinvolge 5.500 famiglie di Chiara Andreola
veneto
«E così finalmente i veneziani capirono il meccanismo della raccolta differenziata: la plastica in un canale, il vetro in un altro!». No, non voleva essere offensiva questa frase di Marco Paolini nel suo spettacolo Il Milione, ma semplicemente sollevare con ironia un problema sentito: la raccolta dei rifiuti, compito improbo nella città lagunare. Chi ha visitato Venezia ricorderà gli spazzini con i carretti, che raccolgono i sacchi della spazzatura lasciati nelle calli, per caricarli poi nelle barche; con relativi disagi per l’igiene pubblica, tenendo conto che gabbiani e topi sono abitanti naturali della laguna. Il Comune e Veritas, la società che si occupa
della raccolta, hanno avviato un servizio sperimentale di raccolta porta a porta tra l’Accademia e Punta della Dogana, che ha coinvolto circa 1.300 utenze. Dal 4 ottobre il sistema è stato esteso all’intero sestiere di Dorsoduro. Vietato quindi – pena multe salate – lasciare i rifiuti in strada: sarà l’operatore ecologico a bussare alla porta. Chi è impossibilitato ad essere in casa può portare i sacchetti della differenziata nelle barche di raccolta, ormeggiate dalle 6.30 alle 8.30. Inevitabile qualche mugugno – 5.500 le utenze coinvolte – soprattutto nei primi giorni in cui qualche disservizio si è registrato; ma cittadini e amministrazione comunale guardano avanti: l’assessore all’Ambiente Massimiliano De Martin ha assicurato che nella zona sperimentale «sono spariti i gabbiani, è migliorata la vivibilità dal momento che le strade sono pulite e sono diminuiti i topi. Inoltre è raddoppiata la percentuale di raccolta differenziata, ora superiore al 40%». Ed è proprio quest’ultimo il tasto dolente in una Regione come il Veneto, prima in Italia ad aver superato il 65% di raccolta differenziata, con punte che vanno oltre l’80% in diversi Comuni, e che marcia spedita verso l’obiettivo del 76% fissato per il 2020. Il capoluogo deve mettersi in marcia per recuperare: così il nuovo sistema verrà esteso a gennaio ai sestieri di San Polo e Santa Croce, a marzo a San Marco, a ottobre a Cannaregio, e a Castello a febbraio 2018.
19cittànuova n.11 | Novembre 2016
Crisi, aziendein ginocchio
I dipendenti licenziati
impiegati in lavori
socialmente utili di Silvano Gianti
liguria
poi è data dalla privatizzazione dell’azienda: nodo che lascia aperti mille interrogativi, così come per la Piaggio. L’azienda con sede a Genova e Albenga ha dichiarato 130 esuberi. Preoccupazioni giungono anche dal settore delle riparazioni navali, dove 600 lavoratori diretti e altrettanti indiretti rischiano la cassa integrazione o il licenziamento. Non va bene nemmeno per 137 dipendenti della Ericsson: rischiano anch’essi il posto di lavoro. Per non parlare del pastificio Agnesi, che a Imperia ha cessato la produzione della pasta e tenta la fortuna con i sughi. Valvola di sfogo temporanea, per molti, laddove è possibile, rimane il “rifugio” temporaneo nei lavori socialmente utili. Cioè una occupazione presso una pubblica amministrazione o una cooperativa per svolgere lavori utili alla collettività. L’occupazione può avere la durata, a seconda del tipo di progetto, da 6 a 24 mesi. Non dà
luogo a un rapporto di lavoro, quindi si mantiene l’anzianità di disoccupazione. I promotori sono amministrazioni ed enti pubblici, società a totale o prevalente partecipazione pubblica e cooperative sociali. Purtroppo, i dati di Unioncamere Liguria lasciano poche speranze. Le imprese continuano a ridursi: erano 140.178 a giugno 2013, 137.515 l’anno scorso e a giugno 2016 sono scese a 136.999. Il numero delle chiusure (6.234) supera quello delle nuove iscrizioni (5.497): sono state perse 737 aziende in soli 6 mesi. Nel commercio sono 1.662 le cessazioni contro 935 iscrizioni, in calo anche le imprese giovanili. In leggera crescita le imprese straniere, 17.922 in totale.
L’autunno caldo in Liguria ha il nome di molte imprese: Ilva, Piaggio, Ericsson, Pastificio Agnesi... I circa 1.600 lavoratori dell’acciaieria di Corneliano sono in solidarietà a rotazione, a blocchi di 500-600 per volta. Altrettanti usufruiscono dei lavori socialmente utili per integrare il reddito. La grossa incognita
20 cittànuova n.11 | Novembre 2016
politica lavoro economia LOGISTICA
21cittànuova n.11 | Novembre 2016
«Questa tuta ci rende invisibili». Lo dicono i latinos della California, addetti alle pulizie, narrati nel film Bread and Roses di Ken Loach. La scomparsa dei volti è ancora più facile, oggi in Italia, nel mondo della logistica perché le manifestazioni e gli scioperi avvengono in orari notturni e lontano da ogni centro abitato, vicino depositi e magazzini dove bisogna fare in fretta per spedire la merce ordinata via web. A fremere sono, in particolare, i cosiddetti “padroncini” che sono tutt’altro che padroni. Posseggono il mezzo per le consegne e devono rispettare i tempi se vogliono che il loro servizio venga rinnovato. «Una volta avevamo un contratto di lavoro e certe garanzie – mi dice Giuseppe –, ma dopo ho dovuto aprire la partita Iva e mettermi in proprio. Ora non mi chiamano più e non so come fare. A 50 anni vado dagli amici per qualche lavoro di giardinaggio. Il
furgone l’ho venduto. Mia moglie non lavora e ho una figlia che sta ancora al liceo». Davanti a questa prospettiva angosciante si comprende la tensione che può accendersi, come dimostrano molti video, la notte fonda o la mattina presto quando i camion sono pronti per fare il giro dei clienti, ma la strada è bloccata dai facchini che protestano per le condizioni inumane di lavoro. I piazzali solitari diventano affollati di polizia, autisti e capi delle cooperative da cui dipendono gli operai, sostenuti spesso dagli attivisti dei centri sociali. Siamo nel cuore della logistica, un termine di origine militare che sta a significare il sistema che collega la produzione industriale e agricola con il mondo della grande distribuzione organizzata. Nell’era della rete informatica, dove tutto sembra leggero e immateriale, grandi società internazionali (ad esempio Fedex, Ups, Tnt, Dhl, Gls ed Sda, che è una società
Le contraddizioni della grande distribuzione, un settore strategico dove crescono le proteste per le condizioni spesso inumane dei lavoratori
nella nottedelle merci
di Carlo Cefaloni
22 cittànuova n.11 | Novembre 2016
controllata da Poste italiane) e nazionali (ad esempio, la Bartolini in Italia) dominano una filiera pesante fatti di enormi strutture di stoccaggio delle merci collegate con porti e aeroporti.
Carico e scarico
È dal movimento dei beni verso i mercati che si generano grandi margini di guadagno. Per abbattere i costi relativi al trasporto, e alla fase di carico e scarico delle merci, interviene il meccanismo dell’appalto a società esterne, spesso cooperative spurie dove, cioè, il socio lavoratore conta poco o nulla. Ma basta un piccolo numero di persone in carne e ossa per provocare un collasso alla circolazione delle merci. Per mettersi davanti a un camion in partenza, ci vuole una grande frustrazione. Anni di lavoro malpagato in appalto o subappalto. Si tratta spesso di un’area grigia, come hanno dimostrato numerose indagini della Guardia di Finanza sul comportamento fraudolento delle false cooperative, dallo scandalo di 30 milioni di evasione
contributiva e fiscale scovata a Padova nel 2010 fino al caso del consorzio Gesconet emerso nel 2014 a Roma con 1,7 miliardi di euro di tasse evase illecitamente. Senza arrivare all’associazione per delinquere, la pratica delle cooperative, lontane cioè da ogni finalità mutualistica, è
molto diffusa per abbassare i costi del settore, con i facchini che continuano a fare lo stesso identico lavoro ma cambiano di casacca ogni 2 o 3 anni. Sono semplici operai che chiedono il rispetto delle norme del contratto collettivo. Dalla paga oraria alla copertura per ferie e malattia e altre conquiste che risalgono all’inizio del ’900. Non parliamo solo di lavoratori stranieri, perché la paura e la vulnerabilità non appartengono esclusivamente a chi teme la perdita del permesso di soggiorno.
Un professore egiziano a Piacenza
L’emergere di forme di un’organizzazione sindacale, principalmente con la sigla Si.Cobas, è stato fortemente ostacolato. In uno di questi frequenti contenziosi ha perso la vita Abd El Salam Ahmed El Danf, 54 anni, 5 figli a carico, già professore di agraria in Egitto, venuto a lavorare, da 12 anni, come facchino a Piacenza per una Srl che opera per la multinazionale Gls (vettore di proprietà delle Poste britanniche). Abdel aveva aderito a uno sciopero indetto dal sindacato Usb per far riassumere alcuni compagni di lavoro licenziati. Nella notte del 16 settembre, uno dei corrieri lo ha travolto e ucciso con il suo camion. Secondo la magistratura si è trattato solo di un incidente fortuito. Una versione dei fatti contestata fortemente da colleghi e amici che hanno chiesto la solidarietà delle migliaia di operai, delle più diverse nazionalità, distribuiti, a Piacenza come Bologna, tra capannoni e magazzini estesi per milioni di metri quadrati.
politica lavoro economia
«Lavoriamo, con un contratto rinnovato a discrezione, per settimane di fila, domenica compresa, senza riposo e senza turnazione fissa. Un sms ci avverte la sera per il giorno dopo».
LOGISTICAS
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Un momento della manifestazione dello scorso settembre a Milano per l’operaio ucciso a Piacenza.
Sono storie e volti che, se arrivano sugli schermi della tv, appaiono segnati dalla smorfia dell’emozione, come quando hanno bloccato i tir di marchi famosi quali Ikea, Esselunga o Granarolo.Uomini e donne addetti ai pacchi di qualche remoto polo industriale sono arrivati anche davanti ai negozi di tendenza nella moda come H&M per denunciare le pessime condizioni in cui sono costretti a lavorare. Forse i clienti e i commessi avranno espresso loro simpatia, restando, comunque, dell’idea di poter far poco. E, invece, la questione va posta seriamente perché ci troviamo davanti a un settore sempre più importante, già ora al 13% del Pil, in una penisola che è fisiologicamente una piattaforma logistica aperta ai collegamenti
via mare tra l’Europa e le zone geografiche dove si concentra buona parte della produzione di merci. Esistono piani di investimento pluriennali in grado di attrarre ingenti capitoli in un settore che non dovrebbe tollerare lo sfruttamento del lavoro in una filiera con 460 mila addetti diretti e un milione nell’indotto (dati Confindustria Confetra 2012). Secondo alcuni esperti, come Andrea Asneghi e Pierluigi Rausei, che ne hanno parlato per primi sul bollettino Adapt dell’università di Modena, bisogna ripristinare il reato di somministrazione fraudolenta di mano d’opera, abrogato con il Jobs act, che imponeva, in caso di frode, il contratto di lavoro direttamente tra facchino e grande società di distribuzione.Con l’adozione di una “clausola
sociale” si potrebbero, inoltre, mettere in sicurezza i posti di lavoro a prescindere dalla variazione dell’azienda che gestisce il servizio. Altrimenti si favoriscono forme di concorrenza sleale, si spalancano le porte a chi si limita, banalmente, a trattare peggio chi lavora.Ma è tutto il sistema degli appalti che meriterebbe maggiore attenzione e un’analisi più approfondita per capire come si creano e distribuiscono ricchezza e povertà non solo in Italia.
24 cittànuova n.11 | Novembre 2016
Non c’è pace nei tribunali italiani. E non soltanto per la mancanza di materiale di cancelleria, per l’organico ridotto, per la mancata riqualificazione dei dipendenti, per la scarsa sicurezza e per la durata infinita dei processi. Nei mesi scorsi, infatti, in base a un accordo interministeriale per la ricollocazione del personale degli enti soppressi (Province, Istituto nazionale per il commercio con l’estero, Croce Rossa italiana…), è stato necessario individuare una diversa occupazione per circa 20 mila lavoratori. Una parte di questi è stata inviata nei tribunali, dove sono in servizio operatori e assistenti giudiziari, cancellieri e funzionari, che mettono in moto la macchina giudiziaria, coadiuvano e assistono i giudici, consentendo il regolare svolgimento dei processi. E così, senza la necessaria formazione, persone con altre specializzazioni – e finanche autisti, cuochi, infermieri e barellieri – si sono ritrovate ad assistere i magistrati o archiviare sentenze. Il nuovo personale ha stravolto il precedente organigramma, anche perché i nuovi dipendenti, avendo in molti casi raggiunto un inquadramento più alto nell’ente
di provenienza, si sono ritrovati a capo di funzionari con decenni di esperienza. «Si è assistito così – afferma il giudice Tullio Morello, membro del consiglio giudiziario di Napoli – all’anomalia tutta italiana di un lavoratore di livello inferiore che deve formare un collega di livello superiore. Una situazione paradossale». Immediatamente è scoppiata la protesta dei lavoratori degli uffici
giudiziari in varie città italiane. Ma grande è anche la difficoltà dei nuovi operatori, costretti a svolgere mansioni per le quali sono impreparati. Magistrati e avvocati hanno evidenziato il proprio sdegno al ministro della Giustizia Andrea Orlando, esprimendo nel contempo solidarietà ai membri delle cancellerie, che invocano una riqualificazione professionale che consenta loro un avanzamento di carriera e un miglioramento economico. Malumori e disagi si stanno verificando in tutta Italia, ma la protesta è particolarmente accesa a Napoli. Tina Rubino, classe 1955, cancelliera presso il tribunale partenopeo, è molto amareggiata. «Vedo passarmi avanti professionalmente autisti di ambulanze che – spiega – con grande difficoltà vengono adibiti a fare i cancellieri, qualifica alla
tribunali nel caosGiustizia a rischio per i trasferimenti dei dipendenti pubblici. I lavoratori delle cancellerie chiedono una riqualificazione. A rischio la validità delle sentenze
politica lavoro economia PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Tina Rubino, cancelliera al tribunale di Napoli.
quale i miei colleghi ed io siamo arrivati dopo concorsi specifici, perché non ci sono avanzamenti di carriera automatici. Dopo 36 anni di servizio ho uno stipendio di 1.500 euro al mese, mentre i nuovi arrivati guadagnano anche oltre 2 mila euro, in quanto riqualificati nei loro enti di provenienza. Attualmente – sottolinea Rubino – assisto oltre 30 giudici per l’esecuzione di
provvedimenti di archiviazione. Si parla tanto di processo telematico e intanto ci sono decine di migliaia di fascicoli da lavorare e io non ho uno scanner né una stampante funzionante. Senza il nostro lavoro, gli atti dei giudici sono carta straccia. La giustizia si poggia su un tavolino a tre gambe, composto da magistrati, avvocati, personale. Se uno di questi viene a mancare o non lavora a dovere,
può crollare tutto».Il ministero ha bandito un concorso per l’assunzione di 800 cancellieri, ma cosa accadrà ai lavoratori che aspettano una riqualificazione? E a quelli costretti a operare in un contesto che non conoscono? «Il problema della carenza di personale amministrativo e giudiziario – afferma l’avvocato Attilio Belloni, presidente della Camera penale partenopea – è già stato posto all’attenzione del ministro, ma la nostra richiesta di ispezione straordinaria è rimasta senza risposta. Il tribunale, in particolare quello di sorveglianza, ha bisogno di personale adeguatamente formato, pronto a svolgere le delicate funzioni a cui è chiamato», altrimenti si rischia la sistematica violazione dei diritti dei detenuti e un pesante condizionamento dell’esercizio della normale attività giudiziaria. L’immissione in servizio di personale non qualificato, sottolinea inoltre il giudice Morello, pregiudica la dignità dei processi e rischia di determinare anche delle nullità processuali. «Stigmatizzo – conclude il componente del consiglio giudiziario partenopeo – l’idea che si possa prendere chiunque e metterlo a lavorare nel processo senza che abbia alcuna competenza. Questo è un problema serio che riguarda tutti, anche i cittadini che non possono usufruire di un servizio dignitoso».
di Sara Fornaro
25cittànuova n.11 | Novembre 2016
E X T R A
Contenuti aggiuntivi su cittanuova.itPersonale inadeguato, tribunali nel caos
Presidio dei lavoratori dell’ufficio giudiziario di Napoli.
La sussidiarietà delle emozioniLuigino Bruni è professore di
Economia politica all’Università
Lumsa di Roma ed editorialista di
Avvenire. È tra i riscopritori della
tradizione italiana dell’Economia
civile e coordinatore del progetto
Economia di Comunione. Insieme
a Stefano Zamagni, è promotore
e cofondatore della Scuola di
Economia Civile.
Nelle grandi imprese del nostro tempo sta
crescendo velocemente l’attenzione alla
gestione delle emozioni. Le organizzazioni
economiche iniziano ad avvertire
d’istinto che stiamo dentro una profonda
trasformazione antropologica, e cercano,
come possono, di trovare le soluzioni. Il
capitalismo, per la sua capacità di anticipare
i bisogni e i desideri, sta comprendendo che
nel nostro tempo c’è un oceano di solitudini,
di carestie di attenzione e di tenerezza, di
mancanza di stima e di riconoscimento,
di bisogno di essere visti e amati, dalle
dimensioni inedite e immense. E si sta
attrezzando per soddisfare anche questa
“domanda” dei nuovi mercati. Dall’altra
parte, i protagonisti della nostra economia
sanno che la fragilità emotiva dei lavoratori
è un suo vulnus sempre più grande. Una
fragilità dovuta alla scomparsa quasi
improvvisa di tutto un patrimonio millenario
di coltivazione e di educazione delle
emozioni. Le generazioni passate avevano
imparato a vivere insieme sofferenze, gioie,
crisi, ad elaborare i lutti. La letteratura,
la pietà popolare, le poesie ci avevano
insegnato come soffrire per il dolore degli
altri, anche di chi non vedremo e non
abbracceremo mai. Il lutto era un evento
totale, che nel suo tempo limitato assorbiva
tutto (a casa mia quando moriva un vicino
non si accendeva la tv). Quella gestione delle
emozioni ci aveva così insegnato a soffrire
per gli sconosciuti; ma senza religioni,
letteratura, arte si piange solo per la “natura”
(parenti e amici intimi), non si piange per
la “cultura”: per gli sconosciuti, che non
sono mai così sconosciuti da non sentirli
fratelli. Noi questa gestione delle emozioni
l’abbiamo dimenticata, e ci troviamo in una
specie di “sabato santo delle emozioni”, in
attesa di una resurrezione.
Un segnale di questa emergenza emotiva
del nostro capitalismo è la presenza
sempre più massiccia nelle imprese di
coach, counselor, psicologi aziendali, la
crescita dell’offerta di nuovi master in
“Gestione delle risorse emotive”, “Sviluppo
dell’intelligenza emotiva”. Tutto ciò dice che
la crisi emozionale è grande, e che da essa
originano tanti nuovi conflitti relazionali e il
malessere dell’anima – a lavoro e a casa.
I risultati sono per ora nell’insieme piuttosto
deludenti, e non potrebbe essere altrimenti,
poiché nelle imprese si stanno sempre più
concentrando le grandi contraddizioni
del nostro tempo. La fabbrica non è più la
“morfologia del capitalismo”. Non può allora
essere l’impresa a curare la povertà emotiva
dei suoi lavoratori, perché la malattia è
molto più vasta di quella che si manifesta
all’interno dei suoi confini.
Pensiamo, ad esempio, all’enorme
cambiamento anche lavorativo che sta
generando l’evoluzione di Internet. Molte
relazioni sociali vengono ormai vissute
e gestite negli ambienti dei social media.
Interazioni senza corpi, dove ci scambiamo
milioni di parole diverse da quelle che ci
diciamo o ci diremmo guardandoci in faccia
e stringendo la mano dell’altro. Non vediamo
il rossore delle guance, gli occhi inumiditi,
il tremore della voce; e così con parole e
simboli (emoticon) diciamo cose nuove e
diverse, quasi sempre meno responsabili e
vere.
Data l’importanza che questi nuovi
“luoghi” hanno per ragazzi e giovani (e
ormai bambini), dovremmo investire
molto di più nell’educazione alle emozioni
nell’era di Internet – e dovremmo riflettere
di più sul fatto che questo ambiente è
gestito da enormi multinazionali a scopo
di lucro. Parlare di più e approfondire la
banalizzazione delle parole e dei segni.
Il “cuore” e i “baci” sono cose serie, che
vanno gestite con cura e parsimonia, per
non farli diventare cuori e baci vuoti che
poi non ci sono più quando un giorno
dovremmo donarli davvero a qualcuno in
carne e ossa, e a quello/a soltanto. Anche
nell’uso di questi strumenti, che sono anche
una grande benedizione, dovrebbe valere
il “principio di sussidiarietà”: una parola
inviata sui social è buona solo se aiuta
(sussidia) le parole buone che ci diremo
quando ci incontreremo fuori dalla Rete.
Reimpareremo a lavorare se reimpareremo
a stare insieme, coll’anima e col corpo.
oltre il mercato LUIGINO BRUNI
27cittànuova n.11 | Novembre 2016
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la falsa miseriadel congo
29cittànuova n.11 | Novembre 2016
lunga sull’insicurezza dell’intero scacchiere. Come se non bastasse, la moneta locale – il franco congolese – dall’inizio dell’anno ha subito una svalutazione del 9%. Dunque, contrariamente a quanto spesso si pensa, il Congo non è povero, semmai è impoverito. È proprio per questo che il gesuita Rigobert Minani ha definito l’inganno uno “scandalo geologico” che è la causa delle guerre che dal 1996 al 2003 hanno insanguinato il Paese, provocando 4, se non addirittura 5 milioni di morti. La crescente divaricazione tra i ceti ricchi e quelli meno abbienti è sintomatica della gravissima esclusione sociale. Basti pensare che lo 0,5% della popolazione – l’attuale oligarchia al governo – detiene il controllo di oltre l’80% della ricchezza. Una quota consistente del Pil finisce nelle tasche dei nababbi locali o in quelle delle multinazionali (cinesi, americane, europee…), mentre la base sociale della nazione sbarca il lunario con un dollaro al giorno. La crisi economica è anche legata alla contestata rielezione del presidente Joseph Kabila nel novembre 2011. Etienne Tshisekedi, fondatore dell’Unione per la democrazia e il progresso sociale (Udps) e suo
Un sottosuolo ricco di materie prime, immense piantagioni di legni pregiati vengono depredati da multinazionali estere e da Stati vicini, mettendo a rischio la democrazia interna
Un tempo, quando regnava supremo e incontrastato Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga (letteralmente “Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo”), si chiamava Zaire, oggi è la Repubblica Democratica del Congo (RdC). Un Paese affascinante, autentico crogiolo di popoli – oltre 69 milioni gli abitanti divisi in 300 etnie – con straordinarie culture ancestrali, fatto d’immense foreste equatoriali tra le quali primeggiano i palmizi e i preziosi alberi di ebano e mogano. E cosa dire delle immense ricchezze del sottosuolo? Eppure, questo gigante continua ad essere fortemente penalizzato: quest’anno il governo di Kinshasa è stato costretto a ridimensionare le previsioni di crescita a causa della svalutazione delle commodity. Pertanto nel 2016 l’aumento del prodotto interno lordo (Pil) dovrebbe attestarsi attorno al 4,3%, rispetto al 6,9% del 2015. Purtroppo, l’estrazione e il traffico illegale delle materie prime di cui è immensamente ricco il sottosuolo alimentano l’azione di numerosi gruppi armati, particolarmente nel settore orientale del Paese. I continui massacri perpetrati nel Nord Kivu, nella zona di Butembo-Beni, la dicono
di Giulio Albanese
Dal 1 luglio al 31 agosto la
missione Onu per il Congo
ha rilevato 776 violazioni
dei diritti umani e quasi 500
sono imputabili alle forze di
polizia; il resto è attribuito
ai diversi gruppi armati che
terrorizzano il Nord del
Paese. I civili sono le prime
vittime. La commissione ha
denunciato l’uso eccessivo
della forza verso i prigionieri
politici e ha sottolineato i forti
condizionamenti che il mondo
degli affari esercita sui giudici,
a loro volta manipolati dal
governo.
Efr
em
Lu
ka
tsky/A
P
avversario, ha denunciato i manifesti brogli elettorali e rifiutato l’esito delle urne. Da quella data la stallo istituzionale ha congelato qualsiasi competizione politica diretta. A parte Kabila, il cui mandato terminerà quest’anno a dicembre, e i deputati nazionali, tutti gli altri esponenti politici (deputati provinciali, senatori nazionali e governatori delle province), eletti nel 2006, sono rimasti in carica fino ad oggi. I governatori delle nuove province, eletti nei primi mesi del 2016, in realtà sono stati indirettamente promossi da deputati provinciali già fuori mandato. La tensione è alle stelle. Basti pensare che tra il 19 e il 20 settembre scorsi, a Kinshasa, hanno perso la vita almeno 50 persone durante feroci scontri tra opposizione e forze filogovernative. Secondo il dettato costituzionale, a 3 mesi esatti dalla fine del secondo mandato di Kabila, dovevano essere convocate dalla Commissione elettorale le elezioni presidenziali, ma al momento non si ha notizia che sia accaduto. Un capo di Stato ad interim
dovrebbe occuparsene e il nome di Tshisekedi comincia a circolare poiché ritenuto da molti il vero vincitore della precedente consultazione. La situazione è comunque critica e il Congo viene descritto dagli analisti come una grande polveriera che potrebbe esplodere da un momento all’altro. E questo non solo per le divisioni interne, ma anche per le costanti interferenze esercitate dai due potenti e ingordi vicini di casa: Ruanda e Uganda, che non pare abbiano rinunciato a spartirsi le ricchezze e i vastissimi territori dell’ex Zaire. Il saccheggio diretto o attraverso loro emissari è a dir poco scandaloso. Una cosa è certa: con queste premesse il cammino verso la democrazia è davvero ancora tutto in salita.
30 cittànuova n.11 | Novembre 2016
pagine internazionali
Il 90% del cobalto estratto in
Congo finisce in Cina che è
il primo mercato mondiale di
questo minerale. Dalla sua
lavorazione nascono i poli
negativi delle batterie dei
nostri portatili e smartphone.
Sono 100 mila i lavoratori delle
miniere sotto controllo cinese
che scavano senza protezione
e stipendi adeguati. Amnesty
denuncia che tra i minatori ci
sono oltre 40 mila bambini
impiegati per 12 ore al giorno
con una paga di appena 2
dollari
Lo “scandalo geologico”Le entrate della Repubblica democratica del Congo dipendono dal settore minerario, petrolifero e dal gas. La caduta dei prezzi e la svalutazione delle commodity ha fatto sì che la produzione di rame – di cui il Congo è il più grande produttore a livello continentale – sia scesa del 14% nella prima parte dell’anno, mentre la produzione di cobalto – di cui il Paese è leader mondiale – è diminuita del 13%. La Repubblica democratica del Congo è anche il quarto produttore di diamanti a livello internazionale, con immense riserve di uranio, oro, rutilio e cassiterite. Nel 2015 il valore assoluto del Pil congolese è stato, secondo i dati della Banca Mondiale, di circa 35 miliardi di dollari; una cifra davvero irrisoria se confrontata con quella, ad esempio, della nostra regione Lombardia dove, nell’anno dell’Expo, il Pil ha toccato i 350 miliardi.
AFRICA
Mondo di nessuno o mondo di tutti?Pasquale Ferrara, diplomatico e
saggista, docente di diplomazia
e relazioni internazionali alla
Libera Università Internazionale
degli Studi Sociali Guido Carli
(Luiss) e all’Istituto Universitario
Sophia (Ius).
Si parla con troppa leggerezza di “nuova
guerra fredda” nelle relazioni tra Russia
e Stati Uniti. Una narrazione che può
innescare percezioni reciproche di
minaccia e di pericolo, di cui non abbiamo
alcun bisogno in un mondo che è già
sull’orlo di una crisi di nervi. Mi sembra più
responsabile prendere atto che la Russia
e gli Stati Uniti perseguono due cammini
assai diversi per riaffermare in una realtà
internazionale multicentrica quel che resta
del loro ruolo di grandi potenze.
La Russia preferisce l’assertività, il fatto
compiuto (in Crimea, come in Siria); gli Stati
Uniti usano il sistema di alleanze (un po’
arrugginite) e le organizzazioni multilaterali
messe in piedi dopo la Seconda guerra
mondiale per legittimare obiettivi di politica
estera e soprattutto di sicurezza. Il risultato
netto di questi percorsi divergenti è da
una parte l’acuirsi delle crisi irrisolte nel
Mediterraneo e nel Medio Oriente (come
nel caso della tragedia di Aleppo), dall’altro
la virtuale paralisi del Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite (in cui l’Italia siederà
come membro non permanente nel 2017)
a motivo dei veti incrociati (spesso impliciti
e preventivi, il che impedisce persino di
pensare a una votazione significativa).
Quel che più preoccupa è il progressivo
ampliarsi dei margini di divergenza tra
Washington e Mosca, e la loro estensione
in contesti geo-strategici diversi e rischiosi.
È il caso, ad esempio, del dispiegamento
“a titolo dimostrativo” da parte della Nato
(decisione del vertice di Varsavia del luglio
2016) di un contingente militare dai 3 ai 4
mila uomini in Lettonia, come rassicurazione
ai Paesi Baltici la cui percezione di minaccia
da parte della Russia rimane forte. La
misura, visti i numeri, è poco più che
simbolica, ma i simboli contano in politica e
a Mosca non hanno certo gradito, tutt’altro. Il
dissidio si è spostato persino sul piano della
politica interna americana, con l’appoggio
neanche tanto velato di Putin al candidato
Trump e le sospette intrusioni informatiche
nella posta elettronica di Hillary Clinton,
con tanto di minaccia di ritorsione di pari
natura da parte di Washington. Tuttavia
la storia non si riavvolge né si ripete, e più
che di guerra fredda 2.0 bisogna credere a
Charles Kupchan quando parla del “mondo
di nessuno”: un mondo dove non ci sono più
potenze davvero dominanti. Un motivo in
più per lavorare per il “mondo di tutti”.
scenari mondiali PASQUALE FERRARA
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Un contingente italiano schierato in Lettonia.
31cittànuova n.11 | Novembre 2016
32 cittànuova n.11 | Novembre 2016
impadronirsi di armi è cominciata l’era dei sequestri e degli assassini eccellenti: la figlia dell’ex presidente della Repubblica Raúl Cubas e l’impresario ed ex sindaco Luis Alberto Lindstron, entrambi uccisi dopo aver riscosso cospicui riscatti. Il governo centrale ha risposto con decreti d’urgenza che hanno istituito il coprifuoco, raid mirati e l’attuale “Fuerza de Tarea Conjunta” (Ftc), una speciale missione che impegna esercito e polizia. Ben 5 comandanti si sono alternati a capo della Ftc, con magrissimi risultati e ingenti investimenti, mentre la guerriglia continua a mietere vittime tra militari, poliziotti, civili. Monta l’indignazione dei paraguayani che non si spiegano l’incapacità di un esercito di notevole superiorità numerica. L’opinione pubblica imputa il fallimento al presidente della Repubblica Horacio Cartes, sospettato di essere lui stesso un narcotrafficante, e alla casta militare che non vuole perdere il denaro destinato alla lotta al terrorismo. Chi viaggia nella zona, come è successo a me, trova posti di blocco con carri armati e giovanissimi militari impauriti, in mezzo a una povertà estrema. Nessuno difende l’Epp, ma la paura di rappresaglie diventa la carta vincente per obbligare la gente a collaborare.
all’Occidente di cessare la vendita delle armi e di bloccarne il flusso di ingresso da Giordania e Turchia. Sollecita il blocco delle sanzioni economiche che stanno uccidendo un popolo e insiste sul controllo dei flussi finanziari che stipendiano i terroristi. Sollecita la costruzione della democrazia attraverso progetti per le scuole e per l’istruzione e incoraggia gli accordi di pace e le riconciliazioni perché si ricostruisca il tessuto civile ed economico del Paese.
Un piccolo ma stranamente invincibile gruppo di 60 militanti del cosiddetto “Esercito del popolo paraguayano” (Epp) tiene in scacco il Nord del Paraguay, da circa 8 anni. Secondo il postulato “la terra è di chi la lavora”, ha dato vita a una tipica guerriglia di stampo marxista-leninista che sostiene le occupazioni abusive dei “senza terra” e vive di sequestri e attentati, anche contro le forze dell’ordine. Il fine è quello di instaurare uno Stato socialista. Come mai il governo non riesce a fermare un numero così esiguo di combattenti sospettati di legami con le Farc? Le origini del gruppo armato sono legate all’incendio di macchinari nell’azienda Santa Herminia, nella provincia settentrionale di Concepción, una delle zone più povere e abbandonate. L’utilizzo di pesticidi nei terreni dell’azienda aveva danneggiato la salute dei contadini proprietari dei campi confinanti. Una sentenza della Corte aveva dato ragione ai coltivatori ma la corruzione, anche all’interno del sistema giudiziario, aveva impedito l’applicazione della pena. L’azione dolosa è servita da collante per le comunità indigene e i senza terra che ben presto hanno cominciato a sostenere l’Epp e a scagliarsi contro le mega aziende agricole a capitale straniero produttrici di soia ogm. A seguito dell’assalto a una caserma per
Nel silenzio quasi generale dei media italiani, il vescovo maronita Joseph Tobji della Siria ha incontrato la Commissione Affari esteri del Senato per offrire la testimonianza diretta dei 5 anni di martirio vissuti da Aleppo. Il vescovo ha voluto precisare che la città è divisa in due e la parte est in mano ai ribelli “terroristi” – li ha così definiti a più riprese – è quella che gode di maggiore visibilità sulla stampa mentre nessuno parla dei morti e degli stenti del milione e mezzo di siriani che vive ad ovest. Nel suo manifesto per salvare la città chiede
PARAGUAY
La guerriglia sconosciuta che terrorizza un Paesedi SILVANO MALINI
SIRIA
Un manifesto per salvare Aleppo di MADDALENA MALTESE
pagine internazionali FLASH DAL MONDO
/AN
SA
33cittànuova n.11 | Novembre 2016
referendum e poi respinta, influenzata anche dal suo diniego. Ma è sul piano internazionale che il nuovo segretario dell’Onu ha trovato la sua vera vocazione politica. Il suo ruolo di alto commissario Onu per i rifugiati ha ottenuto notevoli riconoscimenti perché ha saputo mettere al servizio di questa missione la sua capacità di dialogo, la sensibilità sociale e quella sollecitudine verso i più sofferenti che lo ha sempre contraddistinto.
questi “scartati”. La vita del Vangelo ha creato una rete di amicizie e di aiuti concreti, fatta soprattutto di persone a totale disposizione degli indigenti, non solo per cibo e vestiario. Nei cortili sono nate compagnie teatrali e gruppi biblici. Si organizzano gite tra gli abitanti dei vari agglomerati per favorire la conoscenza perché l’emarginazione è una delle ferite più profonde da risanare. E quest’anno ben 20 giovani sono partiti per la Gmg, ma sui pattini: 61 km sulle rotelle per testimoniare la vita dei cortili.
L’elezione di António Guterres a segretario generale dell’Onu è stato motivo di gioia per dirigenti e cittadini portoghesi perché il merito ha prevalso sugli equilibri di potere delle grandi potenze. I germogli dell’impegno sociale e civile di Guterres sono da cercare nella Chiesa cattolica, quando negli anni ’60 del secolo scorso frequentava un gruppo di giovani intellettuali cattolici, il “grupo da Luz” (dal nome del seminario francescano dove si riunivano). Di questo gruppo ha fatto parte anche l’attuale presidente della Repubblica portoghese, Marcelo Rebelo de Sousa. Sia l’uno che l’altro, di orientamenti politici diversi dicono che le luci di quella loro esperienza ispirano tutt’oggi le loro azioni sociali e politiche. Segretario generale del Partito socialista dal 1992 e primo ministro dal 1995 fino al 2001, Guterres ha lasciato il governo dopo la sconfitta elettorale. Pur seguendo una linea dialogante rispetto ad altri governi, il bilancio del suo mandato resta controverso, in particolare sul piano delle finanze pubbliche. Ha fatto storia la sua opposizione (contro la posizione maggioritaria del partito) a una proposta di liberalizzazione dell’aborto che è stata sottomessa a
La città di Katowice, nota per le industrie metallurgiche e le miniere di carbone, è stata un centro industriale di rilievo. La chiusura delle acciaierie e di parte delle miniere, a seguito di alcune norme di tutela dell’ambiente, ha creato una drammatica disoccupazione. Non è raro vedere questi disoccupati raccogliere ferraglie e rottami metallici dai bidoni della spazzatura per rivenderli e avere un guadagno. Nei caseggiati di questi operai e minatori, quadrati di cemento con al centro un cortile, operano da alcuni anni sacerdoti e laici dell’Associazione Swiatlo w familoku (Luce per i caseggiati popolari), con iniziative a sostegno di
PORTOGALLO
Un portoghese a capo del mondodi PEDRO VAZ PATTO
POLONIA
Il sole nei cortili di Katowicedi TANINO MINUTA
Anche se i poteri del
segretario-generale sono
limitati, António Guterres in
un certo senso sta a capo
del mondo e speriamo che
a fianco dei potenti che si
troverà a frequentare ci sia
posto per i più vulnerabili e
abbandonati.
António Guterres.
”
chico whitaker
INTERVISTA A
Alla gente che vuole cambiare il mondo serve uno spazio di dialogo libero. Io glielo offro
35cittànuova n.11 | Novembre 2016
Architetto e avvocato per i diritti civili, torturato dalla dittatura militare brasiliana, sognatore e uomo di fede, è tra gli ideatori del Forum sociale mondiale
partecipazione popolare che nel 1988 presentarono ben 122 emendamenti agli estensori della Costituzione brasiliana. Ha ricevuto nel 2006 il premio Right Livelihood, il cosiddetto “Nobel alternativo”, assegnato a chi si dedica e vive per la giustizia sociale e per l’ambiente. Volevo ascoltare il suo discorso alla plenaria del Forum e non avevo programmato una vera e propria intervista. Lui su quel palco non è mai salito e ci siamo invece ritrovati vicini e in platea, impegnati in una conversazione spontanea e appassionata sulla sua visione del mondo e del futuro.
Il titolo del Forum sociale 2016 è “Un altro mondo è possibile”. Di quale mondo stai parlando, Chico?Il mondo che noi conosciamo è un mondo dominato dal denaro e
Si aggira tra gli stand del Forum sociale mondiale (Fsm) di Montreal come un visitatore qualunque: zainetto sulle spalle, foulard rosso al collo, basco beige di traverso. Non si impone per la sua statura, per la sua barba bianca, ma la sua giovialità non passa inosservata. Lo seguo con lo sguardo mentre saluta con calore sia chi lo ferma volutamente e sia chi lo sfiora, ignaro che quest’uomo energico e dismesso insieme è tra i fondatori della più famosa assise internazionale della società civile: il Forum sociale infatti dal 2001 riunisce attorno ai temi della giustizia sociale, dello sfruttamento dei poveri, dei diritti umani e dell’ambiente milioni di attivisti e studiosi. I filosofi Noam Chomsky ed Edgar Morin, gli economisti Joseph Stiglitz e Riccardo Petrella, la giornalista di “No logo”, Naomi Klein, hanno spesso legato il loro
nome ai progetti del Forum. Il cartellino che riporta il nome di Chico Whitaker, patriarca e anima di questa esperienza, è stropicciato e vi spicca un curioso adesivo, anch’esso rosso come il suo foulard. Vi è scritto: “Utopista debuttante”. Ma a 84 anni, Chico, come tutti lo appellano familiarmente, non può certo definirsi un debuttante, soprattutto se si guarda alla sua storia e all’esilio ventennale a cui lo ha costretto la giunta militare in Brasile a partire dal 1966, quando venne schedato assieme alla moglie e ai 4 figli come uno tra i più acerrimi nemici del Paese. Sulle torture preferisce non rispondere. Architetto, avvocato, cattolico fin nelle midolla – da giovane aveva conosciuto dom Helder Camara –, ha lavorato con l’Unesco come ricercatore ed è stato a capo delle plenarie di
intervista a cura di Maddalena Maltese (con la collaborazione di C. Lohla e M. Rodriguez)
1931Nasce
a San Paolo in Brasile
1953-54È presidente
della Juventude
Universitaria Catolica
del Brasile
1966Subisce l’esilio,
vive tra Francia
e Cile
1981Rientra
in Brasile e si dedica
alla politica
2001Organizza
il primo Forum sociale
mondiale
2006Riceve
il “Right Livelihood”
36 cittànuova n.11 | Novembre 2016
CHICO WHITAKERintervista a...
Come è nata l’idea del Forum sociale?È venuta a un uomo d’affari brasiliano che nel 2000 si trovava a Parigi in contemporanea con lo svolgimento del Forum economico mondiale a Davos. Anch’io mi trovavo casualmente a Parigi. Lui mi ha cercato e ci siamo incontrati. La prima cosa che mi ha detto a proposito di Davos è stata: «Non si può continuare in questo modo. Non c’è nessuno che contesti la loro politica e le loro scelte. Dobbiamo fare noi un Forum sociale». Ne abbiamo parlato con le nostre rispettive mogli (ride di cuore ricordando l’episodio, ndr) e, ottenuto il loro assenso, siamo andati a incontrare Bernard Cassen, docente universitario e direttore generale di Le Monde Diplomatique, da anni impegnato nei movimenti anti-globalizzazione. Lui ci ha sfidati: «Siete capaci di organizzare a gennaio dell’anno prossimo in contemporanea con Davos un appuntamento per i movimenti no global? Se sì, noi verremo anche dalla Francia». Sono andato dal sindaco di Porto Alegre e mi ha dato il suo consenso e con 8 associazioni di lavoratori di estrazione ideale e politica totalmente diversa, assieme alla Commissione giustizia e pace della Chiesa brasiliana, abbiamo organizzato il primo Forum mondiale nel gennaio del 2001 con 12 mila partecipanti. C’è posto per la fede e le religioni in un Forum considerato da sempre espressione della sinistra? Certo che c’è posto. I temi discussi al Forum sono presentati dal popolo, dalla gente. Tutti possono proporre la loro idea e i loro progetti. Una volta mi trovavo in Francia e una femminista mi ha detto: «Non hai incluso la questione
dal profitto come motore di tutte le cose. Ma un mondo così non è più possibile. Il denaro era nato per scambiare beni e servizi e non era un valore. Oggi il denaro è un padrone che ci domina e ci rende schiavi, generatori di violenza, corruzione, spoliazione della natura. Dentro questo mondo però ce n’è un altro dove le persone non vivono in competizione, lavorano fianco a fianco per risolvere i problemi che riguardano tutti. Noi non siamo felici perché ricchi di beni materiali, ma perché abbiamo tanti rapporti di amicizia e fraternità e questo è l’altro mondo possibile dove conta la felicità più del denaro.
Quali cambiamenti stai osservando nella storia?Sto osservando che non solo un altro mondo è possibile, ma è necessario e urgente. Guarda come si sta imponendo la questione ambientale, anche a causa dei disastri naturali che sono un campanello d’allarme anche per l’economia: o cambiamo il modo di produrre o andremo
verso il disastro. Il cambiamento si sta imponendo anche in politica. In Spagna, ad esempio, il movimento degli Indignados sta criticando la democrazia rappresentativa dicendo al vecchio establishment: «Voi non ci rappresentate più. Servono altre voci». Oppure il movimento Occupy Wall Street che grida agli speculatori: «Noi siamo il 99% dell’umanità e voi solo l’uno». Il bilancio generale dice che stiamo vivendo in un processo lungo di cui non vedremo la fine presto, e meno che mai la vedrò io con i miei 84 anni, ma non mi stanco di sognarlo.
In questo mondo complesso, c’è ancora posto per i sognatori?Ce n’è tanto. Guarda quante persone ci sono qui e da quanti posti arrivano, seduti a discutere e progettare. Hanno la possibilità di essere attori di cambiamento con le loro proposte e magari non hanno un ruolo principale o determinante ma sanno che partecipare è il primo passo per imprimere alla storia una direzione diversa.
Un momento del Forum sociale mondiale 2016 a Montreal.
società civile. Qualcuno parla di funerale del Forum, in realtà ci stiamo lasciando interpellare dal cambiamento.
È questo il tuo timore?No. Il timore più grande è che il capitalismo ci tolga la speranza e che ci porti a pensare che siamo impotenti di fronte al male. Una giornalista mi ha confessato che ci sono poteri forti, c’è il terrorismo e non possiamo fare nulla. No! Se noi continuiamo a vivere come consumisti, come macchine senza pensiero scriviamo la nostra fine. Noi possiamo fare la differenza anche di fronte al terrorismo: non è una questione di religioni, ma un problema ecologico e di potere. Ecologico nel senso che accaparrarsi energia, materie prime e petrolio è la prima fonte di guerre e ingiustizie che alimentano il nuovo colonialismo. Dobbiamo porci domande profonde di fronte ai mali del mondo e alle nostre scelte.
Come Chico definirebbe Chico?Sono un uomo comune che sta cercando di imparare a capire il mondo.
delle sfruttamento delle donne tra i temi del tuo Forum». E io gli ho risposto: «Perché devo metterlo io? Io non sono il regista e non dirigo nulla. Vieni e organizza tu un tema». Ricordo che qualche anno fa un gruppo dall’India ha voluto proporre degli appuntamenti di spiritualità. Li hanno presentati liberamente. Ci sono teologi, religiosi, associazioni di varie fedi. Qui non c’è un’organizzazione piramidale, come quella assunta dalla sinistra e dai suoi partiti che usano delle avanguardie per invitare le persone a seguire il cambiamento ma in realtà sono i vertici ad imporlo come affermazione del loro potere. Il cambiamento non è imposto, viene dal basso, dalla saggezza originaria dei popoli e della gente che vuole trasformare il mondo attingendo a questa fonte e non accetta visioni autoritarie che si mascherano dietro a strumentalizzazioni del cambiamento.
Quindi le differenze di pensiero per Chico non sono un problema?Al contrario, la diversità è il volto della nuova società di oggi. Dobbiamo rispettare tutti i tipi di diversità: culturale, ideologica, di percorso, di comprensione della vita e delle cose. Ieri ho incrociato un ragazzo ventenne che mi ha detto: «Venire qui mi ha svegliato sulle responsabilità del capitalismo nella povertà del mondo. Io sono contro il capitalismo, contro gli sfruttatori». E ha continuato con tutti questi contro. A un certo punto l’ho fermato e gli ho detto: «Tu come risolveresti questi problemi? Se non mi dici come li risolvi e come ti impegni a risolverli, non ti sei svegliato abbastanza». Lui è appena all’inizio del suo cammino e io che ho 84 anni sto cominciando solo
adesso a capire me stesso: siamo in tappe diverse e io devo avere la pazienza dell’attesa e il dovere di indicare una meta.
A proposito di confronti con idee diverse. Ho l’impressione che Stati Uniti e Israele nei vostri incontri stiano sempre sul banco degli imputati e non abbiano spazi adeguati per comunicare la loro visione…Qui ci sono tanti statunitensi che stanno tenendo diversi forum sull’ambiente e in particolare contro i depositi di scorie nucleari che sembra giacciano nei Grandi laghi al confine con il Canada. Il popolo non ha la responsabilità delle cose negative decise dai governi. Qui lottano contro le ingiustizie perché la società civile ha una forza grande che deriva dalla sua autonomia. I governi dipendono dal voto e noi votiamo e possiamo cambiarli e dare potere a chi lavora sul serio per il bene comune e non per il capitale e l’arricchimento proprio.
Quali pensieri ti inquietano in questo tempo? La mia sensazione è che siamo a un punto di svolta che richiede nuove strategie. Continuiamo a dire quello che non vogliamo, ma dobbiamo anche dire quello che vogliamo. Da qui l’idea di organizzare il prossimo anno, in contemporanea con il G20, dei forum su temi già nell’agenda dei capi di Stato. Le proteste che accompagnano questi incontri sono spesso fini a sé stesse. Noi vorremmo invece incontrarci con i migliori esponenti del mondo economico e politico per studiare e proporre progetti e idee di sviluppo e partecipazione e non di sola crescita economica. In questo modo aiuteremo i nostri governi a prendere decisioni eque, che rispondano alla
Abbiamo creato un processo che non si fermerà e che ci fa desiderare la felicità e la giustizia più del denaro
37cittànuova n.11 | Novembre 2016
38 cittànuova n.11 | Novembre 2016
Il nuovo libro di Ezio Aceti dedicato a genitori,
insegnanti ed educatori
La nostra società è “liquida”, senza regole condivise, né una gerarchia di valori. Una società che pone al centro le emozioni, dominata da mass media che rendono la vita frenetica, condizionando stili di vita, relazioni, comunicazione. In questa società vivono le nuove generazioni. Per quanti sono chiamati a educare, l’impresa è da “far tremare i polsi”. Come orientarsi? Risponde Ezio Aceti, psicoterapeuta, nel libro Crescere è una meravigliosa avventura (libro e dvd per i tipi di Città Nuova).
Perché questo libro?Per amore dell’uomo e in particolare dei bambini. Nella nostra società quello che manca è una vera conoscenza dell’uomo,
in crisi soprattutto nei suoi processi evolutivi. I genitori oggi conoscono le implicazioni informatiche dei cellulari, ma non del loro bambino. Il buon senso senza conoscenza rischia di diventare ignoranza pedagogica. Lo scopo del libro quindi è uno solo: far conoscere i bambini per poterli amare meglio. Non contiene teorie scientifiche particolari, vuole solo offrire alcuni principi basilari, condivisi da pedagogia e psicologia, che secondo me devono diventare popolari.
Com’è cambiata l’educazione? Una volta si riteneva che le regole fossero importanti, per cui si imponevano senza tener conto di quello che il bambino viveva. Questo sistema per fortuna è
passato. Si è capito che l’oggetto dell’educazione è il bambino, per cui è necessario entrare in relazione con lui. Senza relazione non c’è educazione. Le regole servono, ma dopo la relazione. Se non c’è rapporto, tutte le norme vengono vissute come fredde, antiquate, frutto di potere. Se invece c’è il rapporto, allora le regole sono dono, regalo. L’atto educativo è sempre un atto di donazione, che serve al bambino per crescere e stare nella realtà. Educazione è il nome pedagogico della relazione.
Un consiglio per i genitori?Nel rapporto con i bambini fidatevi del vostro cuore, dell’affetto che avete dentro. Forse sarà faticoso perché non siete abituati, ma bisogna coltivare dentro di sé il linguaggio dell’amore prima di darlo agli altri. Magari molti genitori andranno in crisi per paura di perdere le regole ricevute, il sistema che dava sicurezza.
Perché è importante educare al sacro? Il mondo è ateo perché non prega. E non prega perché non conosce Dio. L’ateismo è dimenticanza di Dio. Non si ha la pazienza e l’intelligenza di dare ai bambini l’unica cosa necessaria: il rapporto personale con Gesù. Un bambino che ha questo rapporto, vive un’esperienza talmente significativa che da grande continuerà a vivere così e sentirà il bisogno di offrire a tutti la gioia che ha sperimentato. Il sacro va dato ai bambini secondo il loro modo di pensare. Questa è la vera evangelizzazione. In questo modo l’uomo sente che la sua vita ha senso, perché noi ci realizziamo solo nella misura in cui ci diamo all’altro. È questo darsi che dà senso alla nostra vita.
NUOVE GENERAZIONIfamiglia e società
educare col cuore
a cura di Elena Cardinali
L’arcobaleno della solidarietà: famiglie adottive in campo per migliorare stato
di salute e qualità della vita di bambini gravemente malati
Un giorno i colori del mondo si misero a litigare su chi fosse il più grande, finché la pioggia fece capire che ognuno di loro esisteva per uno scopo speciale, per cui era necessario unirsi. Da allora, l’arcobaleno dipinge il cielo per ricordarci che abbiamo bisogno gli uni degli altri. A darci questa lezione sono i bambini di seconda elementare della scuola Europa (I.C. Carlo Alberto Dalla Chiesa) di Roma nella recita La guerra dei colori. La somma raccolta con questa iniziativa, promossa da alcune famiglie adottive, è stata devoluta per il progetto On your side (Dalla vostra parte). Il progetto mira a realizzare interventi di supporto medico sanitario per i bambini di alcuni orfanotrofi di Ho Chi
Minh City in Vietnam che, oltre alle condizioni disagiate tipiche dei minori abbandonati, soffrono per gravi malattie. «L’orfanotrofio di Thi Nghe ospita 380 bambini abbandonati e offre cibo e alloggio ad altri 200 minori provenienti da famiglie disagiate – spiega la dott.ssa Manuela Priolo, medico genetista e collaboratrice di AFN, recentemente tornata dal Vietnam, dove ha potuto verificare i bisogni e le condizioni dei bambini e delle strutture sanitarie –. Di questi, circa la metà sono colpiti da paralisi cerebrale e soffrono di crisi epilettiche, ma la disponibilità di farmaci è limitata. A Go Vap, con 283 bambini di cui la metà con grave disabilità, il problema sanitario è la diffusione di malattie infettive respiratorie.
E la spesa di antibiotici in un anno si aggira intorno ai 5000 euro. Le problematiche degli orfanotrofi di provincia sono ancora maggiori, come a Vinh Long dove, insieme ai bambini abbandonati, vengono accolti anche anziani e persone con problemi mentali. Questa struttura necessita di sostentamento economico per acquistare cibo e migliorare le condizioni igieniche». Questi istituti non hanno riconoscimenti statali e non ricevono alcun tipo di sovvenzione, affidandosi a donazioni spontanee. Alcuni dei piccoli attori della scuola di Roma sono bambini provenienti proprio dagli istituti vietnamiti di cui sopra e che sono stati adottati tramite AFNonlus. Le distanze così si accorciano e Ho Chi Minh, la più grande città del Vietnam, la più industrializzata con 7 milioni di abitanti, non sembra poi così lontana per quelle famiglie che durante il loro percorso adottivo hanno incontrato gli occhi di quei bambini. Queste coppie adottive hanno ora un obiettivo: tramite iniziative di solidarietà e donazioni far arrivare il calore della famiglia a chi non ce l’ha perché non può essere adottato a causa di gravi patologie. Nella consapevolezza che, come i colori, gli esseri umani hanno bisogno gli uni degli altri, perché è nel condividere che si scopre la ricchezza della vita.
PROGETTI AFN – SPAZIO FAMIGLIAfamiglia e società
ho chi minh city-romadi Giovanna Pieroni
39cittànuova n.11 | Novembre 2016
Per contribuire al progetto scrivere [email protected].
In un orfanotrofio di Ho Chi Minh City, sostenuto dal progetto di AFN “On your side”.
questo decreto non mi sembra giusto. È necessario legalizzare? Quali sono gli effettivi miglioramenti? Lo Stato si arricchirebbe, ma i soldi non rischiano di riversarsi nella spesa sanitaria per chi consuma marijuana? Sarebbe un giro senza fine, e si peggiorerebbe solo la salute delle persone. La legalizzazione farà aumentare il consumo di droghe più dannose? Perché rendere legale un’altra dipendenza? Non ne abbiamo abbastanza di fumo, alcool, azzardo? Si fa fatica a combattere una grave malattia, la dipendenza, per poi liberarne un’altra e dover ricominciare da capo. Legalizziamo la cannabis, liberalizziamo la cannabis. La liberalizzeremo anche, ma poi chi ne usufruirà sarà libero?
l’attenzione. Per contro ha anche effetti antidolorifici. Penso che un uso terapeutico potrebbe essere introdotto per certe patologie. Ma qui si vuole aprire alla legalizzazione per tutti! Questa decisione farà aumentare l’uso? Qualcuno dice che in Paesi dove questo è avvenuto, non c’è stato un aumento significativo, mentre è calato il mercato illegale. Una certa quota di illegalità però rimane comunque, ma potrebbe esserci più controllo, che eviterebbe la pericolosità dei mix che oggi si trovano dagli spacciatori. Come cittadina vorrei una informazione completa sulla pericolosità della cannabis. Lo stesso per l’alcool. Forse leggi per promuovere stili di vita salutari, sport, buona alimentazione e lavoro per i giovani sarebbero più prioritarie per il Paese.
L’Italia è divisa in due. Cantone, Autorità anticorruzione, si è schierato per la legalizzazione: le società criminali ci perderebbero, e ci sarebbe più sicurezza di cosa si sta prendendo e di quanto è forte. Poi c’è la medicina: la cannabis sarebbe un rimedio per combattere vari gravi sintomi. Le persone a favore dicono che l’alcool ha più effetti negativi e che la marijuana non incita il cervello alla violenza. Gratteri, procuratore di Catanzaro, invece afferma: «Mai si potrà competere sul piano del prezzo, figuriamoci se i tossicodipendenti andrebbero a comprare la cannabis legale a 10 euro se dagli spacciatori la possono avere a 4». E probabilmente aumenteranno gli utilizzatori, come successo in altri Stati.Mi domando se questo problema sia di vitale importanza per l’Italia. Sono tante le cose da migliorare, e vedere tante energie spese per
Come mamma e nonna, mi viene una forte preoccupazione, che mi porta ad essere contraria. Quando frequentavo il liceo, tra noi studenti era chiaro chi faceva uso di droghe: si vedevano nelle piazze questi ragazzi con l’occhio spento che poi si bucavano. Oggi molti giovani dicono che hanno fatto uso di cannabis, magari solo per provare, senza rendersi conto che fanno qualcosa di illegale, che porta soldi alla malavita. Da anni c’è una forte campagna per la legalizzazione, si vuole convincere l’opinione pubblica che non è dannosa. Da tanti studi risultano invece effetti sul sistema nervoso, che porterebbero a schizofrenia e psicosi in soggetti, dicono, predisposti. Anche un uso per prova in determinate condizioni può portare ad ansia e incubi. Pare induca infertilità e la possibilità di sviluppare dipendenza con la ricerca di altre droghe. L’effetto sedativo la rende pericolosa per chi guida o per lavori in cui sia necessaria
Nonni e nipoti
In Parlamento si discute di legalizzare il consumo di cannabis per uso personale. Che ne pensate?MARINA GUIla nonna
MARCO D’ERCOLE il nipote“
“
famiglia e societàf i li i à DOMANDE & RISPOSTE
40 cittànuova n.11 | Novembre 2016
Una nonna e un nipote
(non della stessa famiglia!)
si confrontano su uno stesso
tema. Per imparare gli uni
dagli altri.
41cittànuova n.11 | Novembre 2016
Integrare la diversità
FEDERICO DE ROSA
Volare
Nell’educazione dei bambini l’autonomia è considerata obiettivo primario. Che sapore ha per te?Anna Rita - Pavia
Chi vuole capire cosa significa essere autonomi deve passare per la dipendenza dagli altri. Fare tutto attraverso qualcun altro è limitante e crescere così è faticoso. Capire cosa vuole il tuo prossimo richiede intuizione, abilità nell’immedesimarsi, amore e capacità di fare silenzio. Chi non ha provato quale limitazione sia non potersi muovere per una gamba rotta? A me capita da sempre e chi mi ama
sa cosa ha significato capire la condizione di disabilità condividendola nel quotidiano. Crescere significa spiccare il volo, ma volare con un’ala sola è faticoso. Male fa chi non spinge noi volatili limitati nel movimento a sfrecciare comunque! Basta poco per adattare il volo a mete vicine: non si deve smettere di lottare per diventare più autonomi e sentirsi grandi e un po’ felici. Non so dirvi che gioia sia per me cercare di preparare un panino da solo o fare una passeggiata e comprare un gelato. Chi vola con un’ala sola va incoraggiato. Una mamma che impedisce a suo figlio di allontanarsi per vivere la sua vita sa di commettere un crimine. Chi vive a fianco di un disabile
deve credere nelle sue possibilità, nei suoi progressi e gioire con lui. Altrimenti alla disabilità si aggiunge la prigione dell’impossibilità imposta da altri. L’obiettivo dell’autonomia è valido per tutti e va perseguito.
L’importante è sollevarsi da terra e librarsi in volo. La meta è la stessa per tutti.
Vita in famiglia
MARIA E RAIMONDO SCOTTO
Omofobia e tesori nascosti
Siamo desolati. Nella classe di nostro figlio di 13 anni, un ragazzo è stato picchiato perché omosessuale. Cosa possiamo fare? Una famiglia della Sardegna
Prima di tutto diciamo che non è facile parlare di omosessualità in un adolescente. Durante questa fase della vita, alcuni atteggiamenti potrebbero essere legati
alla ricerca della propria identità non ancora ben definita. Premesso questo, il problema di fondo non è l’omofobia, quanto l’intolleranza diffusa verso chi è diverso da noi. È la diversità che spaventa: di un’altra cultura, di un’altra razza, di un altro modo di essere o di fare. La stessa diversità uomo-donna può metterci in crisi. Quasi sempre l’intolleranza è dettata dalla paura di perdere le nostre convinzioni profonde, la tranquillità, lo stato sociale raggiunto. Più
siamo fragili e insicuri, più la paura aumenta. Se a questo si aggiunge la carica di aggressività presente in tanti, frutto anche della società competitiva in cui siamo immersi e che genera tante frustrazioni, si comprende almeno in parte quanto è successo in quella scuola.Bisogna aiutare i giovani, partendo dall’esperienza della diversità che fanno in famiglia, a trasmettere agli amici questa esperienza testimoniando in prima persona, con coraggio, la tolleranza verso tutti.
Ma bisogna fare anche un altro passo. Pian piano dobbiamo aiutarli a capire che occorre passare dalla tolleranza all’accoglienza, perché solo l’accoglienza ci aiuta a cogliere il positivo che si trova in chi è diverso da me. Accogliere è cercare il vero volto dell’altro, il tesoro, a volte nascosto, che si cela in chiunque. In questo modo l’accoglienza del diverso diventa una possibilità di crescita, arricchisce.
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famiglia e società
Per svilupparci armonicamente
necessitiamo di reti di rapporti (vedi CN n.
10/2016). Facciamo ora un passo avanti,
fuori della nostra famiglia. Spesso si pensa
che le relazioni esterne siano importanti
fino al formarsi di una famiglia propria: da lì
in poi ciò che conta è la tua famiglia, il resto
perde di importanza, sembra non vi sia
tempo per altro.
In realtà l’esperienza, e chi si occupa del
benessere psicologico, ci insegnano che
per vivere armonicamente ciascuno di noi
dovrebbe adempiere 3 compiti vitali: lavoro,
amore e relazioni sociali (Adler). Ciascuno
di questi dovrebbe occupare circa un terzo
dell’esistenza, non di più. Se invece uno dei 3
prende il sopravvento, la salute psichica (e a
volte fisica) ne soffre.
Dunque, la rete sociale è importante, perché
sostiene nelle difficoltà. Occupandomi degli
altri, poi, i miei problemi si relativizzano.
Infine, se sono connesso con chi mi
circonda, il benessere e il malessere altrui
riverberano su di me.
Tutti i sistemi di welfare più avanzati
riconoscono l’importanza delle reti sociali
e cercano di sostenerle. Coltivare affetti
e legami fuori della propria famiglia
ha dunque un’importanza profonda
per il nostro stare bene. Perché siano
vive, tuttavia, le reti hanno bisogno di
manutenzione: vanno curate e nutrite con
gesti precisi, occorre riservare loro del
tempo.
Noi famiglie possiamo creare legami sociali
unendoci: l’associazionismo familiare
promuove proprio questo, solidarietà e
aiuto tra famiglie. Nella visione dell’uomo
secondo cui il benessere scaturisce
soprattutto dalle relazioni tra persone, e
non solo dall’autorealizzazione personale, le
associazioni familiari sono uno strumento di
diffusione del “capitale sociale”.
pianeta famiglia BARBARA E PAOLO ROVEA
Associazionismo familiare
Popolo e famiglia di Dio
DON PAOLO GENTILI
(Direttore Ufficio Nazionale
per la pastorale familiare
della Conferenza Episcopale
Italiana)
Il sacramento della misericordia
Nella mia parrocchia hanno tolto la possibilità di confessarsi durante le messe domenicali (ma solo il venerdì alle 17.00). Risultato: non si confessa più nessuno. Franca
Da più parti si avverte che il sacramento della
riconciliazione è in crisi. Qualche volta dipende anche dai tempi e modi dedicati dai sacerdoti al confessionale; alcune restrizioni sono dovute a una sensibile diminuzione del clero, di cui soffre il nostro Paese. La vera questione, però, è favorire una nuova alleanza tra sacerdoti e laici che faccia emergere lo splendore del sacramento della misericordia. Il Vangelo non è una gara ad avere ragione, ma ad amare il fratello. Si tratta di uscire tutti dalla «sindrome del figlio fedele» per conoscere l’abbraccio
benedicente del Padre (Lc 15, 20). Papa Francesco ricordava ai sacerdoti che «il confessionale non dev’essere una sala di tortura, bensì il luogo della misericordia del Signore» (Evangelii gaudium, 44). È proprio quella rigenerazione alla sorgente dell’amore che può sollecitare una moglie a chiedere perdono al marito e un papà a chiedere perdono al figlio. Forse anche il ministero dei sacerdoti deve avere come modello l’amore genitoriale, che richiede un servizio a tempo pieno. Nello
stesso modo, possiamo sognare un fedele capace di chiedere scusa al suo prete. Occorre però una rinnovata disponibilità dei fedeli ad avvicinarsi senza paura e senza fretta ai propri pastori, quando è possibile in orari fuori dalle messe domenicali. Insomma, sarebbe bello che tutti maturassimo nella consapevolezza di essere pietre vive della Chiesa, accogliendo la luce della Parola: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rom 12, 10).
p.ge
ntili@
chiesa
cattol
ica.it
DOMANDE & RISPOSTE
42 cittànuova n.11 | Novembre 2016
AZIONI NEL PAESEcantiere italia
cultura delle relazioni /un impegno comune
a quello giovanile e familiare. Una riflessione importante è stata quella sulle varie modalità che un’azienda, un ente, una qualsiasi associazione ha di organizzarsi. Diverse esperienze, numerose le possibili risposte. Un partecipante suggeriva semplicemente una prassi: adottare un metodo “comunionale”, dialogico, che chiede il coinvolgimento di tutte le persone interessate alla decisione. Semplicemente perché lo Spirito soffia «dove vuole e quando vuole», e ognuno può portare un contributo. Ciò richiede di educarsi all’ascolto e al dialogo, di essere disponibili a un processo di sintesi, di avere la capacità di rinunciare a tutto ciò che risulta accessorio per dare importanza ai contenuti essenziali, anche se applicati in maniera innovativa, diversa rispetto alla prassi consueta. Rosalba Poli e Andrea Goller
In un recente convegno dei responsabili dei Focolari nel mondo – 200 persone dall’Europa –, le tematiche hanno spaziato dal rapporto con l’Islam all’impatto delle migrazioni nei nostri Paesi, dall’impegno per la pace alla riforma di papa Francesco, dall’ambito sociale
Il “metodo” della comunione
in questo numero
Santa Margherita Belice (AG), Loppiano (FI),Castel Gandolfo (RM)
Iniziative avviate sul territorio italiano in campo sociale, politico, economico ed ecclesiale.
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44 cittànuova n.11 | Novembre 201644 cittànuova n.11 | Novembre 2016
CITTADINANZA ATTIVAcantiere italia
La salute è di casa
dalla popolazione locale negli anni ’50 che però, come tanti altri nosocomi, viene chiuso, nonostante lasciti testamentari di altri cittadini. Rimane una guardia medica h24 che in diversi casi si rivela risolutiva. Come per Michelle, con problemi respiratori sin dalla nascita, più di una volta salvata in extremis. Fino a quando, appunto, accade l’episodio narrato in apertura: la guardia medica era da poco diventata h12, quindi aperta solo dalle 20 alle 8, e quel papà avendola trovata chiusa aveva provato a chiedere aiuto in farmacia, arrivando però troppo tardi. «L’opinione pubblica è rimasta scossa da questa morte – mi racconta
«Quella bambina morta nella nostra farmacia tra le braccia del padre non ci ha dato pace!». Inizia dal racconto di un fatto drammatico la storia di un progetto sanitario innovativo che Gaspare Viola, farmacista di Santa Margherita Belice, mi illustra nei dettagli. Siamo appunto nella valle del Belice, in provincia di Agrigento, nota per il terremoto che la devastò nel gennaio 1968 causando più di 400 morti, 1000 feriti, oltre 90 mila sfollati. Il paese di quasi 7 mila abitanti, dove ancora da varie parti sono visibili i segni del sisma, vantava la presenza di un ospedale realizzato con fondi destinati
IN PROVINCIA DI AGRIGENTO UN PROGETTO INNOVATIVO IN AMBITO
SANITARIO PENSATO E REALIZZATO CON L’APPORTO DEGLI ABITANTI
SANTA MARGHERITA BELICE (AG)
L’inaugurazione dell’ambulatorio sociale da parte dell’assessore regionale alla Salute Baldo Gucciardi avvenuta il 24 settembre scorso.
45cittànuova n.11 | Novembre 2016
famiglia di cambiare metodo di lavoro mettendosi in rete e garantendo per tutta la popolazione una presenza quotidiana. Finora hanno risposto positivamente 4 medici. Anche per loro c’è un vantaggio perché sanno che i propri assistiti sono coperti. Certo, deve scattare una molla motivazionale perché dal punto di vista remunerativo non c’è un vantaggio». Oltre ai medici di base hanno dato la loro disponibilità specialisti che vengono anche da altre città: angiologi, diabetologi, cardiologi, ortopedici, odontoiatri. Questi ultimi, ad esempio, hanno visitato tutta la popolazione arrivando a suggerire modalità di prevenzione e cura della nutrizione. Molti dei ragazzi visitati non erano mai stati dal dentista. Così come tanti adulti non si curano perché non hanno disponibilità economica per andare da uno specialista. «Ai medici di base chiediamo di indicarci le persone in necessità – racconta Gaspare –. Mettendo in relazione medicina specialistica e medicina di base, andiamo a coprire un vuoto enorme». Coinvolgimento, forse è una delle caratteristiche principali della Casa della salute, sia in fase progettuale che attuativa. «Noi non vogliamo che la Casa della salute diventi una nuova struttura sanitaria organizzata ed efficiente – aggiunge il dott. Viola –. Deve essere molto di più: un cammino di comunità che persegue una concezione alta di salute, non solo fisica né solo personale, con lo sguardo rivolto ai determinanti sociali delle malattie, cioè a tutti quei condizionamenti indotti dalla società che influiscono direttamente o indirettamente sulla salute della persona (povertà, precarietà, lacerazioni relazionali, conflitti, solitudini subìte, ecc.)». Con un metodo di condivisione e creatività: «Vogliamo arrivarci insieme, attraverso un lavoro di gruppo, non per la spinta di qualche singolo. L’idea che i servizi sanitari possano essere riorganizzati con l’apporto di cittadini
Gaspare – e lì abbiamo capito che dovevamo rimboccarci le maniche e valorizzare le nostre risorse umane e professionali, ridisegnare noi, come comunità civile, un modello di medicina del territorio». Da dove siete partiti? «Anzitutto abbiamo costituito un comitato civico col quale abbiamo iniziato a incontraci settimanalmente. Quando vivi esperienze drammatiche, la tua tenacia acquista una marcia in più». Comincia un lavoro che coinvolge numerose persone che volontariamente mettono a disposizione tempo, idee, capacità. «Siamo andati anche a incontrare la Commissione regionale della sanità per presentare il nostro progetto. Inizialmente non è stato
facile trovare ascolto, ma grazie a deputati più sensibili abbiamo ottenuto che qualcuno della Commissione venisse a trovarci. Così si sono impegnati a inserire la Casa della salute come progetto pilota nel Piano regionale sanitario». Ma cos’è la Casa della salute? Se parliamo della struttura, possiamo dire che sono dei locali dove viene garantito un presidio sanitario. Uno stabile dimesso è stato fornito dall’Azienda sanitaria provinciale di Agrigento e rimesso in piedi dai volontari con grande generosità. «Concretamente – commenta Gaspare – abbiamo chiesto ai medici di
«Molte persone – commenta
Gaspare Viola, farmacista di
Santa Margherita Belice –
hanno trovato nell’impegno
per la Casa della salute
l’opportunità di fare qualcosa
per gli altri e grazie a loro
riusciamo a fornire molti
servizi e a tenere il centro
sempre aperto».
di Aurora Nicosia
Il municipio di Santa Margherita Belice.
PROGETTIcantiere italia
Ha iniziato col programma Garanzia giovani che gli ha permesso per un anno un piccolo guadagno mensile, ma continua ancora oggi da volontario. «Siamo una trentina di volontari di varie età – mi racconta –, ma abbiamo tutti lo stesso obiettivo: aiutare chi ne ha bisogno». Lina è fisioterapista e ha la passione per la cura delle persone; Giulio e Paolo, nonostante l’età e condizioni fisiche non ottimali, si rendono disponibili per accompagnare in macchina chi non ha mezzi. Il progetto guarda avanti e può farlo perché conta su idee, passione, muscoli. Il dottor Viola mi ricorda una frase di don Puglisi, il sacerdote siciliano ucciso dalla mafia, che potrebbe racchiudere il senso della Casa della salute: «Ciascuno può fare poco, ma se non rinuncia a farlo bene, insieme si può fare molto».
attivi che entrano nei gangli dei servizi stessi è già un fatto che cambia la storia di quel servizio sanitario. L’eccellenza raggiungibile per noi non è un optional, è un dovere se è alla nostra portata, un imperativo etico».Il lavoro di squadra è evidente nei racconti di altri volontari che incontro. Biagio, in carrozzina, fa il segretario.
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Fatto dai ragazzi per i ragazzi.
Il bimestrale che parla di musica, politica, sport, famiglia, arte, legalità, new media e intercultura.
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O F F E R TA
«Non volevamo fare un
volontariato velleitario che
si sostituisse alle istituzioni
– spiega Gaspare Viola –,
ma chiedevamo un raccordo
operativo stabile, strutturale,
con le istituzioni sanitarie,
i comuni, i medici di base,
il mondo del volontariato».
Alcune persone dell’équipe che assicurano i vari servizi.
AIPECcantiere italia
nostra storia». Ed è stata poi l’Aipec a prendere contatto, chiedendo di che cosa avessero bisogno. Maria e Nando hanno individuato in un macchinario per la lavorazione dei legumi ciò che più li avrebbe aiutati, e a quello sono destinati i proventi della cena.Nando e Maria hanno infatti trovato una nuova sede ad Ascoli, che stanno allestendo per riavviare la produzione. Le difficoltà sono notevoli: «Il gestore di energia elettrica ci ha chiesto 1000 euro per il trasferimento dell’utenza e portarla a 30 kw; le banche, per un prestito, chiedono gli interessi. Capisco che le regole sono uguali per tutti, però si parla tanto di venire incontro agli imprenditori terremotati, e agire su questi fronti sarebbe un modo per farlo».Maria non si sbilancia sui tempi per riprendere la produzione; guardando invece su un termine più lungo, potrebbe esserci anche l’EdC: «Mi piace il pensiero che ci sta dietro, mi sono piaciute le persone che ho incontrato – afferma –. Quando saremo di nuovo in piedi, vogliamo anche noi con il nostro lavoro essere di aiuto ad altri».
Se c’è una cosa che non è mai mancata dal sisma del 24 agosto ad oggi è la (mi si passi il termine) “solidarietà mangereccia”, dato che già dai primi giorni non si sono contate le “amatriciane solidali”; ed è quanto è accaduto anche a Loppianolab, dove per iniziativa dell’Aipec (Associazione imprenditori per l’Economia di Comunione) venerdì 30 settembre è stata organizzata al Polo Lionello una cena a sostegno di un’impresa di Pescara del Tronto.Al di là del risultato concreto – 875 euro raccolti –, è stata l’occasione di reciproca conoscenza per i partecipanti, gli imprenditori Nando e Maria Filotei e l’EdC.Infatti i titolari dell’azienda Lino Filotei, che confeziona e distribuisce prodotti tipici, non conoscevano l’EdC; ma proprio negli imprenditori dell’Associazione hanno trovato un sostegno dopo aver perso la casa e lo stabilimento. «Siamo apparsi su Rai 3 – racconta Maria –: ci hanno filmati e abbiamo raccontato la
Amatriciana solidaleNEI GIORNI DELLA MANIFESTAZIONE DI LOPPIANOLAB, SI È SVOLTA
UNA CENA A SOSTEGNO DELL’AZIENDA LINO FILOTEI DI PESCARA
DEL TRONTO PER AIUTARE AD ALLESTIRE LA NUOVA SEDE AD ASCOLI
LOPPIANO (FI)
di Chiara Andreola
47cittànuova n.11 | Novembre 2016
Chi volesse sostenere l’Aipec nel suo aiuto alle aziende del Centro Italia colpite dal terremoto, può farlo tramite un versamento all’Iban IT31H0501802800000000150712, beneficiario Aipec, causale “Adotta un’impresa terremoto 2016”.
48 cittànuova n.11 | Novembre 201648 cittànuova n.11 | Novembre 2016
FOCOLARIcantiere italia
Fedeltà creativa di “uomini-mondo”
comunemente conosciuti. Qualcuno, cioè, che vuole mettere in pratica l’incontro decisivo dell’esistenza, facendo parlare la vita del Vangelo «nelle piazze, nelle case e nelle officine» per usare un’espressione di Chiara Lubich del 1956, anno della fondazione di questi “volontari”. 50 anni più tardi, nel 2006, la fondatrice ha lasciato a loro in consegna l’urgenza di rispondere alle sfide del nostro mondo che «ha bisogno di uomini credibili, costruttori di una umanità nuova nei vari ambiti della società».
Sono più di 8 mila in Italia. Si incontrano regolarmente ogni settimana, per lo più ospitandosi reciprocamente nelle proprie case, come avviene tra amici, e in tante associazioni, per condividere un percorso comune che non distingue professione o ceto sociale. Si tratta di una delle espressioni del Movimento dei Focolari che vede dei laici impegnati a mettersi in gioco nella vita quotidiana con radicalità evangelica. Proprio questa scelta, libera e appassionata, è all’origine del termine “volontari” con cui sono
LA SFIDA DELLA CONDIVISIONE OGGI IN ITALIA AL TEMPO
DELLA GLOBALIZZAZIONE. I “VOLONTARI” A CONGRESSO
CASTEL GANDOLFO (RM)
Carri armati sovietici per le strade di Budapest durante la rivoluzione del 1956.
49cittànuova n.11 | Novembre 2016
“volontarie” – abbiamo deciso di partire dalle radici dei Focolari per rileggere il nostro ruolo nella società, interrogandoci sulle pratiche finora attuate; ma, soprattutto, costruendo legame e conoscenza reciproca attraverso 38 ambiti tematici (ambiente, cooperazione, educazione, innovazione tecnologica...) con lavori di gruppo a scelta, guidati da 150 facilitatori. Siamo uomini e donne di varia estrazione sociale e culturale, presenti nelle diverse regioni italiane e impegnati, da laici del terzo millennio, a rinnovare gli ambienti in cui operiamo secondo la logica della fraternità e della condivisione». Ma cosa significa condividere? Ancora Franca Fiore: «La scelta parte dalla consapevolezza che l’innovazione tecnica e culturale non va nella direzione dei beni privati ma dei beni comuni. La condivisione può essere il paradigma di una umanità che abbatte i muri del localismo e dell’egoismo e dà spazio a una vera mondializzazione, quella dei popoli e delle persone, basata sull’amore reciproco. L’idea nasce da una frase di Chiara Lubich, fondatrice dei Focolari: “Se dovevamo essere pronte a dare la vita l’una per l’altra, era logico che intanto occorreva rispondere alle mille esigenze che l’amore fraterno richiedeva: occorreva condividere le gioie, i dolori, i pochi beni, le proprie esperienze spirituali. Ci siamo sforzate di fare così perché fosse vivo tra noi, prima d’ogni altra cosa, l’amore reciproco”».
Perché riunirsi in un congresso nazionale nel 2016? Secondo Peppe Iorio, responsabile italiano dei “volontari”, «l’idea è nata l’anno scorso quando con un gruppo di 60 persone provenienti da varie regioni ci siamo ritrovati per discutere sul ruolo e la mission che abbiamo oggi nella nostra società, a 60 anni dall’inizio. Prima di tutto crediamo di dover riscoprire la nostra appartenenza alla grande famiglia nata attorno a Chiara e che da lei ha raccolto la sfida ad essere “uomini-mondo” rinnovando, con il Vangelo vissuto, ogni ambito della vita umana per realizzare il suo sogno: la costruzione di un mondo unito». Ma come si può realizzare questa intenzione? «Come afferma il papa
nella Evangelii Gaudium – continua Iorio –, si tratta di attivare processi ed essere generativi. Il percorso che nasce vuole scoprire e condividere metodi efficaci per attualizzare, nella fedeltà creativa, la novità che abbiamo incontrato con i Focolari. Ci attende un grande lavoro comune per condividere le competenze di ciascuno e le tante esperienze e realizzazioni presenti su scala nazionale».Quale è il metodo di questa condivisione? «Già dall’incontro di fine ottobre – ci spiega Franca Fiore, responsabile nazionale delle
I “Volontari di Dio” nascono
nel 1956 come risposta
all’appello fatto da papa Pio
XII, davanti alla repressione
della società civile in
Ungheria, di riscoprire «il
nome di Dio come sinonimo
di pace e libertà». 60 anni di
impegno come laici proiettati
nel nuovo millennio.
I contenuti del congresso si
possono approfondire sui
social media (Facebook,
Twitter e You Tube) e sul blog
condividereblog.wordpress.com
di Giustino Di Domenico
Festa del 50° dei Volontari del Movimento dei Focolari a Budapest nel 2006.
50 cittànuova n.11 | Novembre 2016
TEMPO PER GLI ALTRIstorie
luis, un eroe per caso
Un badante colombiano salva 18 persone
dal terremoto di Amatrice
a cura di Aurelio Molè / illustrazione di Valerio Spinelli
Non si può capire un terremoto se non lo si è vissuto. Alle 3 e 36, un boato cupo, freddo, sinistro. Un urlo di allarme, un fulmine che precede il tuono. La terra trema per 120 interminabili secondi che separano l’ineluttabile e il reale. Accade di notte, nello stesso pressoché identico orario del terremoto de L’Aquila. Le viscere della terra si contorcono, si dimenano, cercano conforto, lasciandone tracce in nuove faglie, nuove ferite che cancellano Amatrice. In un istante tutto sembra finito.Sbalzo dal mio comodo letto nel sonno più profondo e mi ritrovo sopra il comodino. Intorno solo fuliggine, polvere che mi impedisce di vedere, di respirare. Si insinua negli occhi, nelle narici, nei polmoni. Annebbia anche il cervello che di fronte all’improvvisa emergenza si mette in moto automaticamente, in modalità d’emergenza. La luce è saltata, la torcia del cellulare fuori uso, il buio mi fa annaspare come se nuotassi nel vuoto, un odore acre e pungente di gas si disperde nell’aria. Continuano a cadere calcinacci e nel silenzio della notte risuonano ancora più distintamente le richieste di aiuto. Non c’è tempo di pensare, di capire cosa stia accadendo, le gambe corrono d’istinto in cerca di una via di
fuga. Apro la porta della mia camera, il pavimento dell’androne è ingombro di pezzi di muro, in fondo alle scale una porta contorta e senza vetri è difficile da scavalcare. Non si apre. La sfondo con veemenza. Sono fuori, nel cortile. L’aria è fredda, attorno le case vicine sono crollate in parte o del tutto. Voci indistinte e lontani richiami nel buio che incombe. Il campanile a vela della chiesa crolla, si frantuma, si sbriciola come un biscotto davanti ai miei occhi.Stranamente, nonostante l’agitazione, non ho paura, mantengo la calma, una forza d’animo sgorga dall’attimo che fugge e mi sostiene. Sebbene abbia superato i 50 anni, sono il più giovane nell’Istituto delle suore “Ancelle del Signore” di padre Minozzi, trasformato in casa per ferie, che ospita una trentina di anziani per un periodo di villeggiatura. Faccio il badante da più di 20 anni, mi affeziono alle persone, non è solo un lavoro, si diventa padri, madri, figli delle persone che si assistono. Di colpo mi ricordo di Laura e Corrado, i miei anziani. Grido aiuto. Piango. Tremo. Chiedo pietà a Dio. E torno su, ma le porte delle camere non si aprono. Il terremoto ha deformato i muri e gli infissi e si sono incastrate. A calci, spallate,
pugni riesco ad aprirle. La signora Laura non si è resa conto di quello che accadeva. Me la metto sulle spalle e la porto in cortile. Poi risalgo tante volte per la coperta e gli effetti personali. Tanti gridano aiuto. Il signor Corrado me lo carico sulle spalle e lo porto fuori. Così su e giù per le scale 10, 15, 20 volte sempre più veloce per timore
51cittànuova n.11 | Novembre 2016
di risvegliare il mostro che si agita sotto di noi. 18 persone sono tratte in salvo.Andrea Paglino, un uomo esemplare, un altro ospite della casa per ferie, resta accanto alla moglie Gabriella che è in carrozzina e non riesce a scendere giù per le scale. Lui non ce la fa, allora la prendo e la porto in salvo. È pesante, sbatto un ginocchio, mi duole la mano, ma in quei momenti le energie si moltiplicano.
Ora tocca alla cognata Giuliana, ma è incastrata sotto un armadio. Con tutte le forze cerco di scalzarla dalla morsa ma non ci riesco. Non è grave. La Guardia forestale, la prima ad arrivare, qualche ora dopo la salva, facendo a pezzi l’armadio con il batacchio della campana usato come martello. Do comandi, le persone si sentono rassicurate e mi seguono, ma non so come ho fatto. Il lato dell’Istituto dove alloggio è
danneggiato, scricchiola, ma tiene, l’altro lato dell’edificio, quello più antico, è completamente crollato. Per entrare sfondo una porta a vetri. Andrea mi illumina il percorso con la torcia del cellulare e scavalca con me l’ostacolo. So che dall’altra parte dell’istituto ci sono 6 suore e 5 ospiti. Da quella parte non proviene né un suono, né una voce. Attraverso una sala da pranzo ancora in buone condizioni e mi ritrovo come di fronte a un tunnel. Andrea non è
TEMPO PER GLI ALTRIstorie
in grado di proseguire di fronte ai nuovi ostacoli. Attraverso il passaggio da solo e sento delle voci. Mi sembrano le suore. Grido hermanita, hermanita, che in spagnolo significa sorella, perché così chiamavo le suore in questi giorni di villeggiatura. Suor Giuseppina e suor Maria rispondono. Cerco di calmarle. Una mi dice che non riesce a respirare. Le dico di ridurre al minimo la respirazione, di controllare il battito cardiaco, di distrarsi. Lì non posso fare nulla, sono in una zona pericolante, senza luce.Poi, chiamo più volte suor Mariana e mi risponde solo al terzo tentativo. È come rintontita, ha preso un colpo in testa. Riesco a raggiungerla, a rimuovere dei detriti e a prenderla in braccio. Con le sue gambe esce fuori. Dopo
il nostro passaggio il tunnel crolla.Suor Giuseppina e suor Maria, circa un’ora dopo, sono salvate dalla Guardia forestale.Non so come ho fatto, da dove mi sono arrivate le forze. Perché l’ho fatto? Per istinto di bontà, di
carità. Così sono stato educato da mia nonna che mi ha dato sempre buoni consigli. Dio mi ha dato questa opportunità di dare la vita per gli altri, di essere un eroe per caso. È un grande motivo di soddisfazione che Dio mi ha offerto.Ho perso tutto il mio vestiario, è nulla di fronte a chi ha perso cari e case, ma non mi lamento perché sono sempre stato povero. La provvidenza mi ha aiutato, mi è arrivato più di quanto potessi aver mai potuto immaginare. Ringrazio i miei benefattori anche per aver chiesto, con una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, un gesto ufficiale di “grazie” conferito dalla massima autorità istituzionale. Attendo fiducioso.
Nuovi romanzi.
Appassionanti storie di vita vera.
Ogni due mesi un volume di 120
pagine con un breve saggio sul tema
in appendice.
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28 euroABBONAMENTO ANNUALE DIGITALE 19 EURO
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Francesca Fialdini
IL SOGNO DI UN VENDITORE DI ACCENDINI
Dal Senagal in Europa
in cerca di fortuna
e di un futuro migliore.
La forza d’animo
e la saggezza africane,
la solidarietà
sconosciuta di tanti
italiani permetteranno
ad Alì e ai suoi figli di
integrarsi. Da una storia
vera il racconto di
Francesca Fialdini.
Con un saggio di
Giancarlo Perego
Romanzo
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Francesca Fiald
IL SOGNO DI UN VENDITDI ACCENDIN
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Francesca Fialdin
Con un saggio d
Giancarlo Pereg
Romanzo
È Natale ogni volta che ami.
”Stranamente, nonostante l’agitazione, non ho paura, mantengo la calma, una forza d’animo sgorga dall’attimo che fugge e mi sostiene.
53cittànuova n.11 | Novembre 2016
sopravvivere in venezuela
Esperienze di
reciprocità e fiducia
nella provvidenza in un
Paese con un’industria
praticamente inesistente,
dove la gente fa fatica a
sbarcare il lunario
di Silvano Malini
In Venezuela si pubblica quotidianamente un originale “indice di scarsità”, calcolato in base alla disponibilità effettiva di beni di consumo in supermercati e dispense di quartiere. Oggi, in tempi di inflazione record del 331,9%, l’indice è dell’80%. In un’economia basata interamente sul petrolio e con un’industria praticamente inesistente, la gente fa molta fatica a sbarcare il lunario. Nei supermercati si trovano scaffali pieni di pregiata acqua minerale e altri prodotti carissimi, come ortaggi, corn flakes, pane integrale, ma mancano carta igienica, sapone, riso e
zucchero. C’è chi per lavorare fa la fila al supermercato per poter comprare la maggior quantità di farina di mais per poi rivenderla o barattarla con vicini, conoscenti o parenti. In questo contesto, la comunità dei Focolari “vive e lotta” con e per la sua gente, per dirla con uno slogan dei rivoluzionari storici dell’America Latina. «In questi ultimi mesi scarsità di cibo, saccheggi ai negozi e violenza generalizzata si sono acutizzati e raggiungono ormai tutti i settori della società», conferma la caraqueña (di Caracas, ndr) Arellis Mejía. Ciononostante, non ci si arrende: «C’è tanta comunione tra tutti e si condivide quello che si ha. Per esempio – continua Arellis – in un quartiere della città, la casa di una di noi si è trasformata in un centro di raccolta dove i vicini arrivano e chiedono di essere aiutati. C’è sempre qualcosa da dare, persino le medicine, frutto della provvidenza di Dio». I farmaci sono in effetti tra i beni di prima necessità più introvabili.E grazie a queste esperienze, che ricordano quelle degli albori del Movimento nella Trento degli anni ’40, che la nutrita comunità dei Focolari di Caracas, ma anche
quella di Valencia, Maracaibo e tanti altri centri, sperimenta la vitalità e la bellezza delle prime comunità cristiane. Dalla piccola Colinas de Guacamaya (Valencia), scrivono: «Oggi, mentre acquistavo al supermercato 12 rotoli di carta igienica, ho pensato a chi della comunità, come tanti altri qui in Venezuela, pur avendo i soldi per comprarla, non riesce a trovarla da nessuna parte. Chiamo un’amica che, felice, mi prega di prenderne per lei. A sua volta mi chiede se avessi bisogno di qualcosa, ed io ho potuto dirle che in casa avevamo bisogno di sapone. “Ah – ha risposto lei –, quello te lo do io; non solo, ti porti via anche un plátano (banano gigante, ndr) che mi ha appena dato mio figlio”. Ancora una volta ho toccato con mano che, se l’amore circola, il “date e vi sarà dato” promesso da Gesù si avvera». Gesti semplici, ma anche estremi, se si pensa che per un mango rubato, c’è chi arriva a uccidere.
genitori tosti in tutti i posti
Un figlio disabile,
una mamma che non
si arrende, un blog che
aggrega altri genitori
con problematiche simili
di Tamara Pastorelli
«Vedi, le orse sono grandi, imponenti, adorano il miele, sono giocherellone, ci vedono poco, proprio come me, e stanno sempre all’erta per difendere i propri piccoli. Così, appena annusano
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cittànuova n.11 | Novembre 201654
TEMPO PER GLI ALTRIstorie
un pericolo, scattano all’attacco, e spesso questo è sufficiente a far scappare i nemici… Io sono un po’ come loro, per questo firmo i miei post sul blog Genitori tosti in tutti posti con il nickname “Orsatosta”».Orsatosta al secolo si chiama Alessandra Corradi, ha 45 anni, è di Verona, ed è la mamma di Jacopo, un bambino con una malattia genetica rarissima. È lei che ha messo in moto il fenomeno Genitori tosti in tutti posti. «Tutto è cominciato con la nascita di mio figlio Jacopo. Ho avuto la fortuna di avere avuto una gravidanza serena, durante la quale non mi è stato diagnosticato nulla. Anche quando mio figlio è nato, mi hanno mandato subito a casa. La pediatra lo vedeva ogni 15 giorni, l’ostetrica ogni lunedì, e mi dicevano che era tutto normale. Solo che a me e a mio marito non sembrava proprio così. Se lo tenevi in braccio, Jacopo tremava, piangeva pochissimo e quasi non si muoveva. Così, costretta dalla mia insistenza, un giorno la pediatra si decide per una serie di accertamenti in ospedale, in neuropsichiatria infantile. Sul suo libretto sanitario vedevo comporsi termini come “distonia” e “tetraplegia”. Termini con cui uno non ha confidenza: ero persa. Cercavo sostegno nella mia città, speravo di trovare un gruppo di auto mutuo aiuto per orientarmi, condividere informazioni, aiutare veramente mio figlio, ma non ci sono mai riuscita. Io sono un orso, te l’ho detto, travolgo qualsiasi cosa… e così mi sono attaccata a Internet».Attraverso un forum online, Alessandra Orsatosta conosce e aggrega altri genitori con problematiche simili ma anche
quanto siamo in attesa. La signora dietro di me lo scoraggia subito, dicendo che di sabato non passano mai; io accenno ad eventualità molto più positive e lui mi sorride, si avvicina e mi dice: «Che bello, lei è una persona che vede i colori!».Poi, inaspettatamente comincia a parlarmi di sé, si presenta col nome e dice che tutti lo chiamano “Moscardino” senza spiegarne il motivo, ed è nato e cresciuto fino all’università in Sudafrica da padre italiano e madre inglese. Aggiunge: «Ho vissuto 25 anni nel buio». Non chiedo nulla, ma lui spiega di essere un ingegnere minerario e di aver lavorato tanto nelle miniere d’oro sudafricane a centinaia di metri sottoterra e di aver avuto un giorno, all’improvviso, un terribile bisogno di luce in tutti i sensi.L’altra signora, muta, ha sul volto una espressione sorpresa e diffidente sia sul suo racconto e forse anche sul mio ascolto interessato e la mia interazione con uno sconosciuto.Arriva il mio bus e mi scuso di dover troncare la conversazione, ma lui sale dietro di me e dice: «Solo per una fermata, per potermi congedare educatamente da lei», poi mi tende la mano e mi esorta: «Vada avanti così a vedere positiva ogni cosa con la sua lente colorata signora, e grazie di avermi ascoltato con vero interesse!».Il bus sta rallentando per la fermata: io lo saluto guardando i suoi occhi azzurri, accesi di trasparenza e di entusiasmo, e mentre scende gli dico: «A lei ogni bene, Moscardino», ed è così contento che lo abbia chiamato col suo nomignolo che al di là delle porte chiuse mi fa un inchino antico mentre sparisce alla mia vista.
diverse dalle sue, provenienti da tutta Italia: a Lodi intercetta Giovanni che lavora con la moglie a un progetto di logogenia per i bambini sordi; a Napoli, Gianfranco che ha un figlio con disturbo dello spettro autistico e che ha aperto uno sportello per aiutare l’integrazione scolastica; a Bologna c’è Rosario, che sogna un “dopo di noi” per sua figlia in famiglia, e che vorrebbe trasformare la sua casa in un co-housing fatto di famiglie che si aiutano reciprocamente.«Capisci? Genitori tosti è questo. Ci scambiamo informazioni, progettiamo azioni, sensibilizziamo alla “cultura della disabilità”, facendo nostri i problemi di tutti, facendo proposte, anche al governo, che partono dalla nostra esperienza e dal nostro studio dei problemi che incontriamo. Non lavoriamo solo per i nostri figli, ma per i figli di tutti. Pian piano, il numero di genitori iscritto al forum è cresciuto. Nel 2011 siamo diventati una onlus e ora il sito, grazie al lavoro di un genitore, è completamente accessibile anche ai non vedenti: www.genitoritosti.it».
moscardino
Un’amica scrive nel blog
In...visibile questa storia
a cura di Tanino Minuta
Pochi sprazzi di sole tra un platano e l’altro oggi mentre aspetto l’autobus alla fermata: siamo in due ad attendere. All’improvviso, veloce ed elegante, un uomo attraversa la strada verso di noi e sorridendoci chiede da
Responsabili di trafficare misericordiaPiero Coda, teologo, è preside
dell’Istituto Universitario Sophia
a Loppiano (Figline-Incisa
Valdarno). Tra le sue tante opere
ricordiamo “Dalla Trinità” (Città
Nuova).
Volge al termine il Giubileo della
misericordia. Quali i frutti?
Quelli più profondi e decisivi non sono
misurabili. E per di più un Giubileo centrato
sulla misericordia, oggi, è potuto certo
apparire un paradosso! a fronte d’una
situazione mondiale aggrovigliata sino ad
apparire inestricabile e spesso tanto tragica
da mozzarti le parole, se solo si guarda
con occhio di com-passione alle tante,
alle troppe vittime che, innocenti, cadono
senza numero lungo le strade che percorre
l’umanità.
Ma proprio così questo Giubileo ci ha
interpellati con il richiamo alla sapienza e
alla potenza del Vangelo che si sprigionano
dalla debolezza e dalla follia di Gesù
Crocifisso (cfr. 1 Cor 1, 23).
Come ha sottolineato papa Francesco lo
scorso anno a Firenze: «Si può dire che
oggi non viviamo un’epoca di cambiamenti
quanto un cambiamento d’epoca. Le
situazioni che viviamo oggi pongono sfide
nuove che per noi a volte sono persino
difficili da comprendere. Questo nostro
tempo richiede di vivere i problemi come
sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo
e all’opera nel mondo».
Per decifrare le situazioni in cui siamo
coinvolti non come ostacoli insormontabili
e deprimenti, ma come sfide – difficili, e
qualche volta addirittura impossibili se
si giudica col solo metro umano, eppure
aperte alla speranza –, occorre andare
alla sostanza delle cose, riguadagnando
lo sguardo della fede nel Dio «ricco di
misericordia» (Ef 2, 4) che ci mostra il suo
vero volto nel Figlio crocifisso e che, da Lui,
effonde senza misura lo Spirito della pace,
della giustizia, della fraternità nel cuore di
ogni uomo.
Occorre accoglierlo, lo sguardo di
misericordia che Gesù ci comunica,
occorre farlo nostro, occorre che diventi lo
sguardo con cui leggiamo e interpretiamo
l’esistenza e la storia, facendo germogliare
e crescere in noi il modo di giudicare e
d’agire di colui che, «pur essendo di natura
divina, non considerò un tesoro geloso la
sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se
stesso assumendo la condizione di servo»
(Fil 2, 6-7).
«La misericordia di Dio è la sua
responsabilità per noi», ha scritto papa
Francesco. E di questa responsabilità di
«amore, che giunge fino al perdono e al
dono di sé, la Chiesa si fa oggi serva e
mediatrice presso gli uomini».
Questo sguardo ha permesso a papa
Francesco d’intercettare nel suo significato
epocale un segno dei tempi che annuncia
il farsi strada d’una reimpaginazione
complessiva della situazione mondiale di
proporzioni imprevedibili: le migrazioni.
È il “sesto continente in movimento” che
rimescola gli equilibri precari in cui finora
abbiamo vissuto.
Mentre, in ambito politico, si brancola nel
buio o si cede alla tentazione d’innalzare
muri, le parole e i gesti di papa Francesco –
dalla visita a Lampedusa al pellegrinaggio
col patriarca Bartolomeo a Lesbo – dicono
uno sguardo che intercetta il peso oggettivo
e oneroso di ciò che sta accadendo e lo
legge nella luce della misericordia e della
speranza che spingono a costruire ponti.
«Con i migranti e i rifugiati – ha scritto
Pasquale Ferrara – cammina la storia,
si rendono manifesti i nodi irrisolti, le
crisi, le contraddizioni, le omissioni e la
responsabilità della politica internazionale».
Il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa
coniugati – mediante un lucido e profetico
discernimento – coi segni di questo tempo,
offrono quel “di più” di cui la Chiesa di Cristo
è debitrice al mondo: per testimoniare in
esso la presenza e l’azione del Dio della
pace, della giustizia, della fraternità.
È questo, forse, il frutto più tangibile
del Giubileo della misericordia. A noi la
responsabilità di trafficarlo con sapienza e
competenza.
se posso PIERO CODA
55cittànuova n.11 | Novembre 2016
CHIESAspiritualità
Firenze. È il 10 novembre 2015. Francesco rivolge lo sguardo assorto verso l’alto, verso la cupola. Osserva il volto di Cristo dipinto nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. L’immagine diventa il simbolo di un ritorno alla centralità della scelta personale di Gesù, del Vangelo, dell’essenziale.Scelta che il filosofo francese Maurice Blondel chiamava la «necessità assoluta del necessario», partendo «da lui presente in noi». Per andare avanti, occorre fermarsi e ritrovare gli stessi «sentimenti di Gesù» senza mai cedere a compromessi e ipocrisie. Un anno fa si concludeva il 5° Convegno ecclesiale nazionale di una Chiesa italiana che «rischia l’irrilevanza – secondo Nunzio Galantino, segretario della Cei – cristallizzata dentro parole, forme e riti» che, anche se necessari, hanno fatto il loro tempo e inchiodano la verità come una farfalla nella crisalide.Eppure Francesco era stato chiaro. Ma quanti ripetono i suoi inviti senza che ci sia una reale connessione tra mente, cuore e mani? Per generare serve vita nuova. Solo così la Chiesa andrebbe avanti non per proselitismo ma per attrazione, senza bisogno di nuove strategie, ma solo di nuovi adattamenti.
Un anno dopo Firenze è arduo fare un bilancio. Si era inaugurato lo stile della comunione che traccia percorsi ma poi sta alla singola volontà di ogni cristiano, associazione, movimento, diocesi realizzare progetti concreti nel tempo che è superiore allo spazio.«Le 3 malattie mortali del cristiano – prosegue Galantino – sono i luoghi comuni, il politicamente corretto e la retorica. Serve un processo di purificazione culturale che ci fa liberi interiormente, senza interessi. C’è un’urgenza di convertire il nostro linguaggio, verificarlo nella preghiera, senza perdere di freschezza e di comprensibilità per tutti».Per rilanciare «bisogna ripartire – secondo Pierpaolo Triani, docente di didattica all’università del Sacro Cuore – da 3 aspetti fondamentali. Il discorso del papa, riprendendo le sue sollecitazioni e approfondendo l’Evangelii gaudium; percorrere le 5 vie (uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare, ndr), per un umanesimo cristiano; applicare il metodo della sinodalità. I 3 aspetti vanno portati avanti contemporaneamente».«In generale non c’è approfondimento – commenta don Mario Benedini della diocesi di Brescia –, ma noi
abbiamo elaborato con 70 laici un documento in cui si danno indicazioni, alla luce dell’Evangelii gaudium, per progetti non ripetitivi del passato. Riprendiamo l’anima e la cultura del convegno di Firenze per dargli una modalità concreta».«Abbiamo sentito anche noi – spiegano Rosalba Poli e Andrea Goller, responsabili dei Focolari per l’Italia – di dover fare un percorso di conversione a una sinodalità sincera e profonda e impegnarci a promuoverla ancora
rilanciarefirenzeUn anno dopo il 5° convegno ecclesiale nazionale. Il futuro è in un nuovo stile e clima di comunione
56 cittànuova n.11 | Novembre 2016
di più lì dove operiamo, nella Chiesa e nella vita civile, perché è uno stile di grande attualità. Incontra le aspettative dell’uomo di oggi».In generale si può dire che il messaggio di Firenze è stato recepito, ma è ancora in gestazione e stenta a prendere corpo nella prassi. In molte diocesi non se n’è più parlato. «Si è creata una forbice sempre più vasta – secondo don Toni Bergamo di Lecce – tra la Chiesa che pensa solo ai
sacramenti e ai riti e le persone che conducono una vita fuori dalla comunità ecclesiale».Il futuro è in luoghi-non luoghi. Spazi, non nuove strutture, dove si pratica la comunione, si condividono le esperienze, il confronto, l’accoglienza, con il tempo per pensare, recuperare progettualità. «Se le persone non sono organizzate e sollecitate – chiosa Pierpaolo Triani –, la sinodalità non diventerà una pratica concreta e resterà solo un
auspicio».Firenze inaugura un nuovo stile, un nuovo clima di comunione, come era stato per il Concilio Vaticano II. «È il cammino – ha detto Francesco per il 50° anniversario per l’istituzione del Sinodo dei vescovi – che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio». Ascolto, condivisione, unità «per una fraternità universale».
di Aurelio Molè
57cittànuova n.11 | Novembre 2016
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Papa Francesco benedice una ragazza dell’ospedale pediatrico universitario di Cracovia durante la Gmg.
CULTURA E INFORMAZIONEEVENTI E IDEE PER IL MONDO CHE VERRÀ.
Dove c’è sapienza noi ci siamove cc’è
Da sessant’anni Città Nuova promuove una cultura fondata sull’unità della famiglia umana, per una civiltà basata sulla conoscenza e l’accoglienza. Il Gruppo editoriale, che si ispira al pensiero di Chiara Lubich, propone uno sguardo sul mondo inclusivo e rispettoso della verità e della dignità umana. Perché ciascuno veda con occhi aperti un futuro di pace.
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Il verbo è al presente: egli viene. È certezza
di adesso. Non dobbiamo aspettare domani,
o la fine dei tempi, o l’altra vita. Dio agisce
subito, l’amore non consente dilazioni o
ritardi. Il profeta Isaia si rivolgeva a un popolo
che attendeva con ansia la fine dell’esilio e
il ritorno in patria. In questi giorni d’attesa
del Natale non possiamo non ricordare che
una simile promessa di salvezza fu rivolta a
Maria: «Il Signore è con te» (Lc 1,28); l’angelo
le annunciava la nascita del Salvatore.
Non viene per una visita qualsiasi. Il suo
è un intervento decisivo, della massima
importanza: viene a salvarci! Da cosa?
Siamo in grave pericolo? Sì. A volte ne
siamo consapevoli, a volte non ce ne
rendiamo conto. Interviene perché vede gli
egoismi, l’indifferenza verso chi soffre ed
è nel bisogno, gli odi, le divisioni. Il cuore
dell’umanità è malato. Egli viene mosso a
pietà verso la sua creatura, non vuole che si
perda.
La sua è come la mano tesa verso un
naufrago che sta annegando. Purtroppo
in questo periodo questa immagine, che si
rinnova di giorno in giorno con i profughi
che tentano di attraversare i nostri mari,
ci è sempre sotto gli occhi, e vediamo con
quanta prontezza afferrano quella mano tesa,
quel giubbotto salvavita. Anche noi, in ogni
momento, possiamo afferrare la mano tesa di
Dio e seguirlo con fiducia. Egli non soltanto
guarisce il nostro cuore da quel ripiegamento
su noi stessi, che ci chiude verso gli altri,
ma ci rende, a nostra volta, capaci di aiutare
quanti sono nella necessità, nella tristezza,
nella prova.
«Non è certo il Gesù storico o Lui in quanto
Capo del Corpo mistico – scriveva Chiara
Lubich – che risolve i problemi. Lo fa Gesù-
noi, Gesù-io, Gesù-tu, ... È Gesù nell’uomo, in
quel dato uomo – quando la sua grazia è in
lui –, che costruisce un ponte, fa una strada,
... […] È come altro Cristo, come membro del
suo Corpo mistico, che ogni uomo porta
un contributo suo tipico in tutti i campi:
nella scienza, nell’arte, nella politica, nella
comunicazione e così via». L’uomo è con ciò
collaboratore con Cristo. «È l’incarnazione
che continua, incarnazione completa che
riguarda tutti i Gesù del Corpo mistico di
Cristo» 1.
È proprio quanto è accaduto a Roberto, un
ex-carcerato che ha trovato chi l’ha “salvato”
e che si è trasformato a sua volta in uno che
“salva”. Ha raccontato la sua esperienza, il
24 aprile, alla Mariapoli 2 di Villa Borghese a
Roma. «Finita una lunga detenzione pensavo
di ricominciare una vita, ma come si sa, anche
se hai pagato la tua pena, per la gente rimani
sempre un poco di buono. Cercando lavoro
ho trovato tutte le porte chiuse. Ho dovuto
elemosinare per strada, per sette mesi ho
fatto il barbone. Finché non ho incontrato
Alfonso che, mediante l’associazione da lui
creata, aiuta le famiglie dei carcerati. “Se
vuoi ricominciare, mi ha detto, vieni con me”.
Adesso da un anno lo aiuto a preparare le
buste della spesa per le famiglie dei carcerati
che andiamo a visitare. Per me è una grazia
immensa perché in queste famiglie rivedo
me stesso. Vedo la dignità di queste donne
sole con bambini piccoli, che vivono in
situazioni disperate, che aspettano qualcuno
che vada a portare loro un po’ di conforto,
un po’ di amore. Donandomi ho ritrovato la
mia dignità di essere umano, la mia vita ha un
senso. Ho una forza in più perché ho Dio nel
cuore, mi sento amato…».
1 Chiara Lubich, Gesù Abbandonato e la notte collettiva e culturale, al congresso delle gen 2,
Castel Gandolfo, 7 gennaio 2007 (letto da Silvana
Veronesi).
2 Mariapoli = città di Maria. Incontro tipico del
Movimento dei Focolari in cui persone delle più
varie età e provenienze si ritrovano per vivere
insieme, per più giorni, un’esperienza di fraternità
alla luce del Vangelo.
spiritualità PAROLA DI VITA di FABIO CIARDI
dicembre
«Egli viene a salvarvi» (Is 35, 4).
59cittànuova n.11 | Novembre 2016
testimoni del VangeloMadre Paola Elisabetta Cerioli, fondatrice dell’Istituto della Sacra
Famiglia, viene festeggiata il
giorno della vigilia di Natale. Nata
nel 1816 da una famiglia nobile
di Soncino (Cremona), Costanza
(all’anagrafe) andò sposa a 19
anni a un uomo di 60. Ebbe 3 figli,
ma morirono tutti giovanissimi.
Rimasta vedova e ricca a 38
anni, spese la vita accogliendo
in casa sua delle orfane. Fu la
scintilla da cui scaturì l’Istituto
Sacra Famiglia, nel quale prese
lei stessa i voti col nome di
suor Paola Elisabetta. Presto si
affiancò anche il ramo maschile.
Morì il 24 dicembre 1865 ed è
stata canonizzata il 16 maggio
2004.
CHIESAspiritualità
Che le nuove generazioni gli stiano a cuore è un dato ormai felicemente acquisito. E non
parliamo solo della Gmg di Cracovia o della precedente a Rio e dei forti messaggi lanciati
a queste platee mondiali: dal “fate chiasso”, e cioè siate scomodi, fate sentire la vostra voce, le vostre idee diverse, al no ai “giovani divano”, o che stanno a guardare dal balcone quello che altri decidono per loro: «Non lasciate che altri siano protagonisti del cambiamento, voi siete quelli che hanno il futuro». «Non accontentarsi di queste vite tiepide, vite “mediocremente pareggiate”: no, no! Andare avanti, cercando la vittoria sempre! Giocate in attacco! Calciate in avanti, costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà. Giocate in attacco sempre!». Tracce della sua passione per i giovani sono disseminate in tanti suoi viaggi: «Sognate grandi cose. Sognate che con voi il mondo
i giovanila fedele scelteSinodo 2018. Francesco propone un progetto di vita da realizzare con i ragazzi in prima linea
60 cittànuova n.11 | Novembre 2016
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Un momento di preghiera dei giovani partecipanti alla Gmg di Cracovia.
può essere diverso». «Non fatevi rubare la speranza». «Oggi Gesù ti invita, ti chiama a lasciare la tua impronta nella vita, un’impronta che segni la storia».Francesco guarda al presente giovane della Chiesa come un padre che non si sostituisce nelle scelte, ma che vuole accompagnare a ogni costo quei passi che aiutino nella propria realizzazione, nelle scelte personali come nella costruzione del mondo. C’è tutto questo percorso e altro ancora dietro l’annuncio del 6 ottobre scorso che il prossimo Sinodo dei vescovi sarà dedicato a “Giovani, fede, discernimento vocazionale”. La scelta ha spiazzato molti e arriva dopo aver consultato le Conferenze episcopali, le Chiese orientali cattoliche e l’Unione dei superiori generali. Ma se ne parlava già sulle note finali del
Sinodo sulla famiglia, uno dei più spinosi che la Chiesa cattolica abbia affrontato negli ultimi decenni, e che si è concluso con il capolavoro dell’Amoris Laetitia. Le radici affondano lì.Dopo l’annuncio, un gruppo di lavoro provvede a redigere i Lineamenta, la base su cui si esprimeranno le varie Chiese locali, in cui possiamo immaginare anche i giovani in prima linea, e che confluirà al Sinodo e sul tavolo di papa Francesco.E intanto? Intanto la vita. Quella che il Sinodo vuole raggiungere. La vita dei giovani. Dei millennials e dei nativi digitali, non solo quelli vicini alle parrocchie o ai movimenti, ma raggiunti lì dove sono, con le fragilità, le domande, i dubbi che affliggono ogni generazione. È il grande tema della trasmissione della fede, su cui la Chiesa si interroga da tempo, cosciente che le modalità in atto sono ormai superate e a rischio di incomunicabilità tra le generazioni, quando
si trasmettono concetti che appaiono vuoti e astratti e non un’esperienza vitale. Si tratta quindi di un lavoro di revisione, di confronto con la realtà. Soprattutto di ascolto di quella generazione fluida in cui le certezze dei genitori non sono più tali, pensiamo - solo per fare un esempio - alla questione dell’identità di genere, e che arriva a costruire Dio a modo mio, come rileva una recente indagine sui giovani e la fede in Italia (Bichi-Bignardi, ed. Fede e Pensiero). Ma sono anche i giovani che hanno, come ha detto il card. Bagnasco, «un fiuto verso le verità, un istinto per il bene», quando trovano adulti degni della loro fiducia. È il momento di guardare insieme al futuro, e papa Francesco vuole portare la Chiesa tutta a fare questo passo, in una reciprocità tra generazioni, accompagnandole «nel loro cammino esistenziale verso la maturità affinché, attraverso un processo di discernimento, possano scoprire il loro progetto di vita e realizzarlo con gioia, aprendosi all’incontro con Dio e con gli uomini e partecipando attivamente all’edificazione della Chiesa e della società».Immediate sono state le risposte di alcuni esponenti di pastorale giovanile o movimenti ecclesiali: «Grazie per la grande fiducia che riponi in noi – scrivono i giovani dell’Azione Cattolica – invitandoci ad essere noi stessi, a “non lasciarci anestetizzare l’anima”, a puntare in alto, senza mai svendere i grandi ideali che ciascuno di noi ha in cuore». «È stata una sorpresa – dichiara una giovane brasiliana dei Focolari –. Sono sicura che il papa saprà arrivare a tutti i giovani. Vedo in questo Sinodo una grande opportunità».
di Maria Chiara De Lorenzo
«Si pensa che non siamo capaci di affrontare i problemi, ma insieme a chi ha esperienza arriviamo a delle soluzioni». Un giovane del Salvador
61cittànuova n.11 | Novembre 2016
LA GRANDE ATTRATTIVAspiritualità
Nel corso di un dialogo pubblico, un’amica chiese ai presenti: «Secondo voi, quale è la parola che ciascuno di noi ritiene più importante?». Un momento di incertezza e poi vari tentativi di soluzione… Finché si arrivò alla risposta esatta: il proprio nome. Chiara Lubich, fin dall’inizio della “divina avventura della spiritualità dell’unità” a cui Dio la chiamò, scoprì un “nome” personalissimo di Gesù, nome che lui si era dato in quella che disse più volte essere “la sua ora”: Gesù Abbandonato, che gli deriva dal grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», espresso in croce.
il nomedi ogni prova della vita
62 cittànuova n.11 | Novembre 2016
È sempre una grande scoperta vedere come ad ogni dolore o prova della vita si può dare in certo senso il nome di Gesù Abbandonato.Siamo presi dalla paura? Gesù in croce nel suo abbandono non appare forse invaso dalla paura che il Padre si sia dimenticato di Lui? […] Le circostanze ci portano ad essere disorientati? Gesù in quel tremendo dolore sembra non comprendere più nulla di quanto gli sta succedendo dato che grida «Perché»? (cf. Mt 27, 46; Mc 15, 34). Veniamo contraddetti? Nell’abbandono non pare forse che il Padre non approvi l’operato del Figlio? Siamo rimproverati, o accusati? Gesù in croce nel suo abbandono ha avuto forse l’impressione di ricevere un rimprovero, un’accusa anche dal Cielo. E poi in certe prove che nella vita a volte possono susseguirsi incalzanti, non si arriva anche a dire desolati: questo sembra troppo, questo è l’oltre misura? Gesù nell’abbandono ha bevuto un calice amaro non solo colmo, ma traboccante. La sua è stata la prova oltre misura.E quando ci sorprende la delusione o siamo feriti da
un trauma, o da una disgrazia imprevista, o da una malattia o da una situazione assurda, possiamo sempre ricordare il dolore di Gesù Abbandonato che tutte queste prove e mille altre ancora ha impersonato. […]Si dice nel mondo che chi ama chiama per nome. […] E allora, per meglio riuscire in ciò, cerchiamo di abituarci a chiamarlo per nome nelle prove della nostra vita. Così gli diremo: Gesù Abbandonato-solitudine, Gesù Abbandonato-dubbio, Gesù Abbandonato-ferita, Gesù Abbandonato-prova, Gesù
Abbandonato-desolazione e così via. E chiamandolo per nome, egli si vedrà scoperto e riconosciuto sotto ogni dolore e ci risponderà con più amore; ed abbracciandolo diverrà per noi: la nostra pace, il nostro conforto, il coraggio, l’equilibrio, la salute, la vittoria. Sarà la spiegazione di tutto e la soluzione di tutto.
Chiara Lubich, Gesù Abbandonato, Città
Nuova, Roma 2016, pp. 134-135.
a cura di Donato Falmi
Chiara Lubich è stata fondatrice e prima presidente del Movimento
dei Focolari, nonché scrittrice prolifica. I suoi testi sono
un suo lascito e, ancora oggi, una fonte d’ispirazione per tanti.
Ogni mese Città Nuova ne propone uno stralcio.
E quando siamo feriti da una situazione assurda, possiamo sempre ricordare il dolore di Gesù Abbandonato
”
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idee e cultura NEUROSCIENZE
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Circa 150 anni fa, uno studioso italiano, Cesare Lombroso, propose un metodo per scoprire in anticipo le persone con tendenze criminali: alcune protuberanze della testa potevano essere il segnale di un cervello subumano all’interno. La teoria venne presto abbandonata, perché falsa. Presero piede, invece, nel secolo successivo, le spiegazioni sociologiche.
Guardare dentro il cervelloOggi le ipotesi sull’origine biologica del crimine sono tornate alla ribalta, grazie alle tecniche diagnostiche (neuroimaging) che permettono di “guardare dentro” la scatola cranica. Nuove discipline come neurocriminologia, neuroetica e neurolegge cominciano ad affacciarsi nelle università e… nei tribunali. Alcuni ricercatori studiano psicopatici, assassini e violenti di vario tipo, per verificare profilo genetico, ambiente familiare e sociale, traumi, educazione ricevuta, oltre a forma e funzionamento del cervello. L’ipotesi è che, come una persona zoppa non riesce a correre velocemente, allo stesso modo chi ha lesioni al cervello può
avere difficoltà a pensare in modo corretto e contenere gli impulsi aggressivi. La biologia, insomma, pone limiti al nostro pensare.
Fattori di rischioLo sviluppo del cervello può essere alterato da cause genetiche, familiari e ambientali. Un fattore ambientale può essere l’esposizione a metalli pesanti; un fattore familiare può essere la madre che rifiuta il bimbo o una famiglia instabile. Il fattore genetico ci dice, infine, che aggressività e violenza sono ereditabili da genitori e nonni, ma non sono un destino ineluttabile: se durante la crescita il bambino riceve un’attenzione affettiva ed educativa adeguata, il rischio di diventare violento potrebbe non realizzarsi mai. Se invece i fattori negativi si sommano, (vedi box) il risultato può essere devastante, con psicopatie anaffettive (incapacità di amare) e disturbi comportamentali fino ad esplosioni di violenza in età adulta.
ViolenzaGli assassini sono quasi sempre maschi. L’aggressività di serial
Le ultime scoperte sui fattori di rischio alla base dei comportamenti criminali
i semi dellaviolenza
di Giulio Meazzini
killer, psicopatici e disadattati sociali può essere improvvisa e impulsiva (in reazione a una critica o un attacco) oppure fredda e premeditata, ma comunque sempre fisica. Gli uomini aggressivi colpiscono mogli e compagne. Gli uomini violenti uccidono. Le donne invece usano per lo più una violenza di tipo psicologico e relazionale, attaccando la reputazione delle loro rivali tramite maldicenza, false accuse, pettegolezzi e umiliazioni.
SegnaliMa si può determinare chi, in una classe di bambini e bambine, diventerà antisociale e magari violento? No. Le neuroscienze ci dicono solo che ci sono dei segnali esterni, anomalie minori come bassa frequenza cardiaca a riposo o scarsa capacità di concentrazione, che potrebbero indicare sofferenze neurali. Ricordiamo però che cultura, contesto familiare, ambiente affettivo e spirituale (oltre ai farmaci) possono modificare la biologia (epigenetica), fino ad annullare le conseguenze dei danni cerebrali. Non c’è un determinismo, né un destino inesorabile già scritto. La nostra vita dipende in parte dalla biologia, ma in buona parte la costruiamo con le nostre scelte e con l’ambiente in cui viviamo.
SocietàRimane il rischio di scivolare in un nuovo razzismo, etichettando certe persone come violenti irrecuperabili. Celebre la frase di un avvocato: «Non è stato il mio cliente ad uccidere ma il suo cervello malato!». Un criminale cresciuto con un cervello malformato va condannato o curato con farmaci che attenuano l’aggressività? È più importante
proteggere la società o curare e riabilitare l’omicida? Lo stato può imporre a tutti i cittadini (soprattutto maschi) una Tac per scoprire malformazioni al cervello? Si può prevenire il crimine obbligando le persone a rischio a curarsi? È giusto ghettizzare persone che non hanno ancora commesso crimini solo per la loro conformazione cerebrale? Forse no. Non si può stabilire chi è normale e chi criminale sulla base delle immagini (così carine!) del cervello fornite da “scienziati
pop”, come li chiama qualcuno. Forse stiamo esagerando con le ipotesi di ingegneria sociale. Ognuno di noi ha limiti e imperfezioni. Non esiste una “normalità” che ha il diritto di emarginare gli altri. E soprattutto ognuno di noi cambia, evolve. Quindi ben vengano programmi per migliorare gli ambienti, per assistere le mamme in gravidanza, per “curare” chi ne ha bisogno. Ma non neghiamo la fiducia di poter migliorare, il diritto a una speranza di futuro. Nessuno ha il destino già segnato.
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idee e cultura
66
NEUROSCIENZE
Come ti rovino il bambino Alcuni fattori che, specialmente se combinati, possono aumentare il rischio di malformazioni nel cervello e di comportamenti violenti in età adulta:
◆ madre che fuma in gravidanza◆ madre che assume alcool in gravidanza◆ rifiuto materno e tentato aborto◆ complicazioni nel parto◆ scarsità di affetto e cure materne nel periodo pre e post
natale fino a due anni◆ malnutrizione◆ violenze e traumi alla testa◆ ambiente familiare sfavorevole e anaffettivo◆ esposizione a metalli neurotossici come piombo e cadmio◆ crescita in un quartiere degradato
Come ti proteggo il bambino
Le statistiche riportano una riduzione del crimine in età adulta per bambini con questi fattori di protezione:
◆ visite alla mamma durante la gravidanza da parte di infermiere che offrono informazioni, aiuto e istruzioni su come comportarsi
◆ integratori nutrizionali fino ai 5 anni, in particolare dieta a base di pesce
◆ stimolazione cognitiva ed esercizio fisico fino ai 5 anni L’educazione alla meditazione, fin dalla gioventù, riduce ansia da stress, uso di droghe e sigarette, depressione in età adulta.
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“Noi genitori & figli” cambia nome e formato. Diventa “Noi famiglia & vita” e continuerà ad accompagnare ogni mese “Avvenire”, ma trasformandosi in un tabloid tutto a colori, per offrire spazi maggiori all'approfondimento e per puntare a quella tempestività oggi indispensabile anche nel lavoro di analisi sui temi familiari e nel racconto di esperienze che, da oltre 18 anni, sono lo specifico della nostra rivista. L'attenzione ai temi della vita, che non è mai mancata, diventa nel nuovo “Noi” presenza più costante grazie alla collaborazione con il "Movimento per la vita". Un'alleanza rinnovata per promuovere tutti quei valori radicati nella famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna che sono l'architrave della civiltà umana e rappresentano per tutti garanzia di futuro e di benessere.
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68 cittànuova n.11 | Novembre 2016
Se Sordi, Gassman, Manfredi e Tognazzi erano i colonnelli del cinema italiano, come li chiamavano, di sicuro Marcello Mastroianni è stato il generale a 4 stelle della 7a arte tricolore. Del grandissimo attore ciociaro (era nato a Fontana Liri nel 1924) ricorrono i 20 anni dalla morte a Parigi, dove abitava da anni, il 19 dicembre 1996, per tumore al pancreas. Nella lunga carriera artistica (140 film in 50 anni, ma fece pure teatro) il protagonista della Dolce vita e di Divorzio all’italiana ha vinto decine di premi importanti, alcuni più volte, cosa rara, come le 2 Palme d’Oro e le 2 Coppe Volpi come miglior attore a Cannes e a Venezia, i 2 Golden Globe, i 2 Premi Bafta e un fiume di Nastri d’Argento e David di Donatello. Il tutto coronato dal Leone d’Oro alla carriera, nel ’90. Come altri divi mancò l’Oscar, ma aveva ottenuto 3 volte la nomination: per Divorzio all’italiana (’63), Una giornata particolare (’78) e Oci ciornie (’88). Nell’iter di Mastroianni c’è un prima e un dopo il 1960. Dopo l’esordio in teatro negli anni ’40, con Luchino Visconti, Mastroianni passa al cinema e nei ’50 interpreta una serie di commedie neorealiste dove la drammaticità di Rossellini e De Sica si stempera nel quotidiano piccolo-borghese o popolare, mentre l’Italia cresce e cura le ferite della guerra. Tra i lavori più riusciti del periodo, Peccato che sia una canaglia di Alessandro Blasetti (’54), dove l’attore fa coppia per la prima volta con Sophia Loren, e I soliti ignoti di Mario Monicelli (’58), accanto a un Gassman comico. Negli oltre 50 film del decennio Mastroianni affina il talento, matura come interprete e alla fine è adottato dal pubblico, che vede in lui il bravo ragazzo, l’uomo per bene di
idee e cultura A 20 ANNI DALLA MORTE
mastroianniun divomade in italyBravo ragazzo, simpatico e rubacuori, icona del latin lover. Ai vertici del successo internazionale pur restando sé stesso
Marcello Mastroianni e Sophia Loren in “Peccato che sia una canaglia” (1954).
6969cittànuova n.11 | Novembre 2016
sicché nel Bell’Antonio di Mauro Bolognini volle interpretare il ruolo di un impotente nella Sicilia maschilista degli anni ’50. Nel ’77, poi, sarà un gay in Una giornata particolare di Ettore Scola. E in Giallo napoletano di Sergio Corbucci (’79), quando era ancora uno splendido 50enne, accettò di essere Raffaele, mandolinista ambulante zoppo, perdente, precocemente invecchiato e del tutto antisexy.Il fatto è che pure nella vita privata e nelle interviste Mastroianni rifiutava l’etichetta di conquistatore. La sua vita
bell’aspetto della porta accanto, di origini umili ma che ha studiato, simpatico, gentile, sognatore e rubacuori. Quasi suo malgrado.A tal proposito si sa che un fattore del suo successo mondiale è stato l’esser visto come icona del latin lover. In realtà lui interpretò molti ruoli romantici, da Le notti bianche di Visconti a Vita privata di Louis Malle; e non parliamo del sodalizio con Sophia, da cui vennero una ventina di lavori a sfondo sentimentale, applauditi nel mondo. Ma il cliché di casanova Marcello lo sentiva stretto, limitante artisticamente,
sentimentale è stata più calma di quella di altri divi. Sposato nel ’50 con Flora Clarabella (nel ’51 è nata Barbara), i due si separarono nel ’70 ma lui non volle mai divorziare. I giornali scrissero che ciò era dovuto al cattolicesimo di Mastroianni, e non pare che l’attore abbia smentito. C’è un episodio che può aver un suo significato. Cresciuto in famiglia vicino alla romana piazza Ragusa (si era diplomato perito edìle al professionale Galileo di via Taranto), Mastroianni negli anni ’60 donò le campane all’erigenda parrocchia di S. Antonio a piazza Asti. In ogni caso alcune relazioni le ebbe, prima con l’americana Faye Dunaway, poi con Catherine Deneuve, dal ’71 al ’75, quando la star francese gli diede Clara, la seconda figlia di Mastroianni. Negli ultimissimi anni, travagliati dalla malattia, ebbe accanto Anna Maria Tatò, una regista italiana allora agli esordi.Dalle commedie dei ’50 ai 2 capolavori di Germi e Fellini che lo lanciarono nell’orbita internazionale, dal lavoro svolto sempre accanto ai massimi registi italiani del ’900 (Comencini, Lizzani, Giuseppe De Santis, Pietrangeli, Antonioni, Zurlini, Ferreri, De Sica e tanti altri) fino alle opere recenti, dove ambiva recitare ruoli di anziano quale ormai era, magari in rapporto dialettico coi giovani (vedi Stanno tutti bene di Giuseppe Tornatore, ’90), Marcello Mastroianni è stato l’unico attore cinematografico di origine-formazione italiana che abbia toccato i vertici del successo internazionale senza “hollywoodizzarsi”. Al massimo ha girato qualche film in Francia, nei ’70-’80. Insomma un made in Italy doc, esportato alla grande.
di Mario Spinelli
Nei panni di sé stesso con Federico Fellini nel film “Intervista” (1987).
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L’UMANITÀ.
Dal “noi sociale” al “noi personale”Jesús Morán è copresidente
del Movimento dei Focolari.
Laureato in Filosofia,
è specializzato in antropologia
teologica e teologia morale.
Nel suo intervento al convegno di Assisi, 30°
anniversario della giornata di preghiera per
la pace indetta da Giovanni Paolo II nel 1986,
il sociologo Zygmunt Bauman ha affermato
che la storia dell’umanità può essere
caratterizzata come l’espandersi della parola
“noi”. La globalizzazione e l’interdipendenza
reciproca stanno abbattendo le barriere fino
a rendere inutilizzabile il pronome “loro”:
ormai tutto è di tutti, tutto ha un’incidenza
su tutto. Il problema semmai – spiega
l’intellettuale polacco – si colloca a livello
di pensiero: manca una vera coscienza
cosmopolita. È necessario allora sviluppare
la cultura del dialogo, superare l’economia
liquida che non permette un acceso comune
ai beni della terra e del lavoro, infine
innescare una strategia educativa capillare,
di grande portata, che porti ad una vera
rivoluzione culturale.
Queste considerazioni di Bauman mi
sembrano decisive. Ma ritengo che
serva ancora maggiore radicalità. Quello
raggiunto attualmente a livello globale,
infatti, è ancora un “noi impersonale”,
e come tale soggetto a manipolazione.
Il potere esercitato sui processi di
globalizzazione dai gruppi egemonici di tipo
prevalentemente economico ne è la prova.
Come ha affermato l’economista Fitoussi
nell’ultima sessione del Cortile dei Gentili
tenutasi a Roma, la gente comune vede
la propria coscienza civile sprofondata in
un imponente malessere, perché si rende
conto che può cambiare i politici, ma non la
politica!
Bisogna invece costruire il “noi personale”
della comunione e della fraternità. Questa
sì sarebbe una rivoluzione culturale e di
pensiero. Le proposte di Bauman puntano
in questa direzione ma non bastano. Prima
di tutto bisogna capire di quale “noi” stiamo
parlando. In secondo luogo, come questo
“noi” possa diventare davvero personale.
Questo ci porta alla visione ontologica e
antropologica. Suggerisco solo alcune piste
al riguardo.
Perché si possa parlare di “noi personale”
i rapporti devono stabilirsi tra persone e
non solo tra individui. In questo modo si
conserva la soggettività, ma la si concepisce
come essenzialmente relazionale: il nostro
“io”, cioè, non si costruisce nel ripiegamento
individuale, ma a partire della centralità
dell’altro, operazione fondamentale e
impegnativa che solo l’amore può compiere.
Non basta, quindi, la socialità, cioè essere
uno accanto all’altro; serve il vivere dell’altro,
il “vivere l’altro” (Chiara Lubich). E questo
sia a livello interpersonale che interculturale
(anche i popoli sono a loro modo delle
soggettività). In questa linea, il dialogo non
è semplice accordo ma pensare insieme,
una continua decostruzione e costruzione
del mio pensiero nel confronto col pensiero
altrui. Il “noi personale” permette non solo
l’accesso equo ai beni e al lavoro, ma mette
in moto anche l’Economia di Comunione,
con speciale attenzione ai poveri e agli
ultimi. A livello pedagogico significa
educere, cioè far venir fuori stili di alterità e
solidarietà.
In definitiva, in questa meravigliosa storia
dell’espansione del “noi”, il nuovo passo
dell’umanità deve essere nella direzione
della personalizzazione e dell’elevazione.
In concreto, si tratta di generare spazi di
personalizzazione del “noi” (internazionali,
interculturali, interreligiosi) a tutti i livelli:
una ditta, una università, un quartiere, una
cittadella di testimonianza. Il “noi sociale”,
con le sue aporie e contraddizioni, è solo
l’ombra del “noi personale” che si affaccia.
pensare l’unità JESÚS MORÁN
71cittànuova n.11 | Novembre 2016
72
IL PIACERE DI LEGGEREidee e cultura
aiutare e difendere dioIl privilegio di giudicareGIANCARLO GAETA
1942: la giovane ebrea Etty Hillesum, pur potendo sfuggire alla deportazione,
decide di condividere la sorte del suo popolo e muore ad Auschwitz il 30
novembre 1943. Molti anni dopo, nel 1981 vengono pubblicate le sue Lettere e il suo Diario (Adelphi), che diventano un caso editoriale internazionale. Il
motivo è che Etty sceglie di «guardare in fondo al pozzo nero della distruzione
dell’umano», riflettendo su cosa succede agli individui «messi alla prova nei
fondamentali valori umani», perché «nessuna concezione, nessuna educazione
religiosa può reggere l’urto col male estremo». Giancarlo Gaeta, esperto di
storia delle religioni, in questo libretto riflette sulla vicenda di Etty, che dal
lager scrive: «Ti prometto una cosa, Dio, […] cercherò di aiutarti affinché tu non
venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa
però diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi,
ma siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica
cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente
conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche
contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. […] Tocca a noi
aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi». Etty offre sé stessa come
«campo di battaglia» per restituire significato alla vita e al dolore: nell’«ora della
disumanizzazione» «collabora» con Dio per evitare a ogni costo che venga
espulso dal mondo.
Scelgo ancora teRETROUVAILLE
San Paolo, € 12,00
La crisi di coppia non
arriva mai per colpa di
uno soltanto, anche se
per istinto siamo portati
a crederlo, e la storia di
Simona e Andrea lo dice
in maniera emblematica:
«Gli atteggiamenti diversi
ereditati nelle nostre
famiglie d’origine, ovvero
il mio essere taciturno,
pigro e accondiscendente
e l’essere Simona
pianificatrice, giudicante
e aggressiva, iniziarono a
manifestarsi ben presto:
le differenze ci portavano
a scontrarci e a provare
rancore e chiusura».
Sembra una situazione
di stallo che può durare
anche a lungo, in realtà ci
si sta muovendo, eccome,
l’uno per allontanarsi
dall’altra. E si fa spazio a
bugie e tradimenti. È una
Apeiron, € 8,90
/recensione a cura di
GIANNI ABBA
Verso la terra che ti indicheròMATTEO FERRARI
Città Nuova, € 14,00
La vita è vocazione, è
chiamata a mettersi in
cammino. Una realtà che
Matteo Ferrari descrive
non solo alla luce della
sua conoscenza biblica e
liturgica, ma dell’esperienza
personale e con tanti
giovani che partecipano
discernimento che guarda
la persona nella sua
interezza, sostenuta nella
non facile perseveranza.
/recensione a cura di
FRANCESCO CHÂTEL
a corsi nella comunità
benedettina di Camaldoli.
In quest’epoca di calo
delle vocazioni, si aprono
qui nuove dimensioni,
inscrivendo la vocazione in
un quadro antropologico
che mette l’accento sulle
relazioni, sull’incontro di
persone libere e capaci
di amare, e guarda alla
chiamata universale di
ogni persona come origine
delle chiamate particolari
(compreso il matrimonio).
Vocazione che nasce dal
dialogo fra ognuno e la
Parola di un Dio che non
vuole piegarci ai suoi
progetti ma costruire con
noi la nostra esistenza, e
che in un mondo “liquido”
deve essere vagliata col
cittànuova n.11 | Novembre 201672
in libreria a cura di ORESTE PALIOTTI
a cura di Gianni Abba
delle tante storie raccolte
in questo libro che come
chiave di volta ha l’incontro
col programma per coppie
in crisi “Retrouvaille”,
diffuso in vari Paesi del
mondo e portato avanti da
coppie che sono state in
crisi e che hanno lavorato
per salvare il loro rapporto.
Lo hanno fatto con la
certezza che la speranza
collabora con la volontà di
chi non vuole arrendersi.
/recensione a cura di
LUIGIA COLETTA
Vita di BelliMARCELLO TEODONIO
Castelvecchi, € 25,00
Nuova edizione della
biografia-riferimento del
massimo poeta dialettale
italiano, Giuseppe
Gioachino Belli, che nei suoi
32 mila versi in romanesco
ha saputo rappresentare
vizi e debolezze della Roma
dei papi tra ’700 e ’800,
tra Rivoluzione francese
e Unità d’Italia. Su questo
affascinante sfondo storico
l’autore, presidente del
Centro studi intitolato
al Belli, ricostruisce le
tappe della vita del poeta
mettendone in risalto la
duplicità di atteggiamenti:
la sofferta psicologia di
uomo incline a malinconia
e apatia, insieme alla
perenne curiosità
intellettuale; l’eccezionale
forza comica cui fa riscontro
la riflessione continua sul
tema della morte. Un ritratto
a tutto tondo di Belli, acuto
indagatore dell’animo
umano, specie di quello
del popolo; conscio della
sua arte ma deciso nel
declinare l’invito a tradurre
in dialetto romanesco un
«suggetto sì grave» come
quello rappresentato dal
Vangelo.
/recensione a cura di
ORESTE PALIOTTI
73cittànuova n.1 | 1 gennaio 2015
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Un testo provocatorio del discusso teologo americano, espulso dall’Ordine domenicano e ora prete della Comunione anglicana, attivista “visionario” e profeta “verde”, fautore di un pensiero che unisca tutte le culture.
Omosessuali e transgender alla ricerca di DioAdrien Bail
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Il percorso di fede di 12 omosessuali e transgender.
Storie di pascolo vaganteMarzia Verona
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Un viaggio alla scoperta del mondo dei pastori nomadi e delle loro antichissime pratiche.
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Dal silenzio del chiostro una raccolta poetica nutrita dalla Scrittura, dai Padri, dalla liturgia.
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Mondadori, € 20,00
Il dilemma di Wulf e Armin, giovani figli del capo di una tribù germanica: tradire la loro gente o quella Roma che li ha adottati per creare una nuova generazione di governanti, “barbari” per nascita ma romani per educazione?
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San Brochero
il prete “gaucho”
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Parroco dell’arcidiocesi di Córdoba (Argentina), percorreva chilometri a dorso di mula per farsi vicino a tutti. Condivise la condizione dei suoi fedeli fino a contrarre la lebbra per aver bevuto il mate con alcuni ammalati.
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Icaro nel cuore
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Arka, € 16,00
Fedele al mito classico, ri-narrato dallo stesso Dedalo per i bambini, questo racconto parla di ingegno, amore e sensibilità. La dimensione onirica viene trasmessa anche dalle illustrazioni che accompagnano il testo.
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reportage GRECIA
I 20 monasteri della “repubblica dei monaci” conservano intatta da un millennio la tradizione ortodossa nonostante l’arrivo della modernità. 48 ore in un luogo dove alle donne è vietato entrare
Testo e foto di Michele Zanzucchi
vivendo il monte athos
76 cittànuova n.11 | Novembre 2016
Ouranoupolis. Dove si salpa o si sbarca c’è sempre chi vuole fare affari, chi specula sui servizi di frontiera, chi cerca di sbarcare il lunario. Ma questo porto è proprio strano, perché è l’unico che porta a uno Stato come il Monte Athos, una sorta di repubblica dei mona-ci legata al patriarcato di Costan-tinopoli. Qui si va verso l’Athos, e solo questo importa. A Ouranou-polis si ritira il visto per entrarvi, oggi c’è assembramento, perché ieri i traghetti non hanno potuto viaggiare per il vento. Un’occasio-ne per conoscere pellegrini come Nikos che abita ad Atene e viene qui due volte all’anno, ha un fra-tello monaco. Si parte: m’accorgo che gli uomini in pellegrinaggio sono coloro che escono sui ponti e guardano il promontorio lungo e
reportage GRECIA
nerboruto. Ogni tanto si segnano, soprattutto tacciono.
Dafni. Dal porticciolo parte un’u-nica strada che sterrata s’inerpica
sulla montagna. Il bus vecchio e cigolante porta un carico maschi-le variegato ma “furiosamente” ansioso di giungere ai monasteri. Accanto a me siede un monaco ca-
La possente ed elegante silhouette del monastero Stavronikita.
Nel refettorio del monastero Pantokratoros.
77cittànuova n.11 | Novembre 2016
liforniano dai modi raffinati e dalla barba canuta: ogni anno trascorre un mese da queste parti. Fa parte di un monastero di San Franci-sco, dipendente da quello di Xe-nophontos. Boschi, cavalli, mare, paesaggi da favola. E i telefonini funzionano.
Karyes. Da mille anni e più, sep-pur con qualche interruzione, il territorio del Monte Athos è indi-pendente. Oggi fa parte dello Stato greco, con una sua reale autono-mia. Così c’è una capitale, Karyes, dove è di stanza il prefetto, pre-posto ai servizi di polizia, poste e telefonia. E c’è il palazzo dove viene regolata la vita dei diversi monasteri, dei romitori e degli ski-ti, comunità minori a essi collega-ti. L’istituzione governa i duemila monaci del Monte Athos. Sembra che tutti abbiano mille cose da fare.
Pantokratoros. Quando si riceve il visto, il diamonitirion, viene indi-cato il monastero nel quale si ver-rà ospitati. A me è toccato il Pan-tokratoros. Dopo decine di curve, guardando verso il mare scorgo una sorta di castello, una torre massiccia. Qui al Monte Athos i monasteri sono così. Attorno all’e-dificio principale, che “contiene” al suo interno un cortile e la chiesa madre, il katholikon, sorgono se-
Mormorio dal sancta sanctorum, sferragliare di turiboli, il profumo dell’incenso filtra attraverso i legni. Esercizi ginnici. Mistero.
Sacra liturgia a Pantokratoros.
Tutti i monaci lavorano, quasi sempre nell’agricoltura.
78 cittànuova n.11 | Novembre 2016
pace con Dio, con gli uomini e con sé stesso, seguendo l’esempio di monaci il cui sguardo era «pieno di cielo e di Dio». Theophilos sa bene come si svolgono le cose fuori dal Monte Athos: è vice-presidente dell’associazione tra gli igumeni. Maneggia con destrezza gli stru-menti dell’informatica. «Abbiamo ricevuto questo modo di vivere dall’antichità e vogliamo conser-varlo, in modo da essere aperti su tutti coloro fuori di qui». Theophi-los ne è convinto, mentre passeg-giamo con calma nei colori da urlo del tramonto. Non possiamo non parlare di modernità: «La vita spi-rituale è simile a quella della batte-ria dei telefonini: regolarmente va ricaricata. Le batterie non sono ca-riche una volta per tutte. Cerchia-mo di essere sempre in carica». La sua teologia è orientale e giovan-nea: «Gli uomini hanno sempre e solo bisogno di amore. Il problema è che siamo egoisti e poco umili. Gesù ci lascia fare se non chiedia-mo il suo aiuto. Egli ama l’umiltà degli uomini, ama che ripetano la preghiera come le onde del mare, con costanza. Così ci si salva. Non c’è disprezzo per la donna, nei mo-naci sani di mente e di spirito, ma solo rispetto».
Teschi. Dopo la notte, dove il si-lenzio è rotto solo dalla preghiera dei monaci, la luce è arrivata. Co-mincia la memoria della suprema offerta del Cristo. Raramente ho vissuto tali momenti di contem-plazione. Dopo 4 ore di orazione nella tenebra, la luce appare divi-na. Mi avvicino a un edificio, for-se una cappella, su uno scoglio. Nessuno in giro. Apro la porta... a destra un mucchio di teschi, a sini-stra, perfettamente impilati, come pezzi di legna da ardere, i femori dei monaci morti al convento. Me-mento homo. La morte segue la vita e dalla morte rinasce la vita. Notte e giorno.
gherie, garage e laboratori, fienili, lavatoi, essiccatoi, forni. Scendo alla spiaggia di ciottoli − peccato, qui al Monte Athos è assolutamen-te vietato bagnarsi! −, poi percorro il perimetro del monastero. Que-sti fortilizi hanno un loro elegan-te fascino. Forse per le sporgenze dell’ultimo livello delle costruzio-ni, sorrette da puntelli obliqui, il che conferisce agli edifici uno slancio inusitato.
Preghiera. Un monaco batte su un legno ricurvo l’appello alla preghiera. Passa poi a una serie di campanelle, quindi alle campane. Entriamo nel katholikon, inondati
da una luce dorata che si rinfrange su mille superfici. I monaci arriva-no baciando le icone e segnandosi a raffica. Gli affreschi scuriti dai secoli lasciano trasparire panni dorati e sguardi immacolati dei santi. Mormorio dal sancta sanc-torum, sferragliare di turiboli, il profumo dell’incenso filtra attra-verso i legni. Esercizi ginnici. Mi-stero.
Theophilos. Ha 46 anni, ha stu-diato a Parigi, in Germania, in Gran Bretagna e a Roma. Parla 7 lingue. È entrato al Monte Athos per «vivere bene, meglio che in ogni altro posto del mondo», in
reportage GRECIA
Nel monastero Iviron.
Iviron. Al Monte Athos, ogni mo-nastero manifesta una sua bel-lezza. Ognuno riesce a creare momenti di beatitudine, per chi sa coglierli. Analogamente all’Eu-caristia. Iviron è uno dei più anti-chi e grandi monasteri dell’Athos, IV-V secolo. La Storia ha lavorato, con distruzioni e ricostruzioni. È proprio sul mare. Tra la torre d’ingresso e il monastero s’inter-pone una salita costeggiata da orti ed edifici di servizio. Un monaco gentile ma intransigente mi guida, Akatistos, viene da Rodi: annego così in un mare di affreschi, tal-volta ridotti a poca cosa, talaltra al contrario restaurati con troppa chiarezza. Mi immagino le miglia-ia di monaci che hanno trascorso la loro vita sotto queste volte, con le loro infinite domande e le loro risposte trovate, forse un po’ meno infinite.
Cibo. I pasti al Pantokratoros sono ascetici e brevi. Pranzo alle 8 e cena alle 16. Non si parla, a tur-no un monaco legge i Padri della Chiesa. Il menù è vegetariano: un piatto di spaghetti, riso o cavoli e un piattino d’insalata e cipollot-ti, qualche oliva, un po’ di pane e una mela, con un bicchiere di vino rosso acido. Il tutto servito su sto-viglie in alluminio. Il pasto non dura più di 10 minuti. Capisco così la magrezza dei monaci, anche se sospetto che, soprattutto i giovani, ricevano qualche extra dai cuochi.
Xenophontos. Torno alla civiltà, sfidando le onde del mare mosso. Sfilano i monasteri: ormai so che dentro alle mura c’è gente santa. C’è una dimensione politica in tut-to ciò. Qualcosa mi diceva che è un mondo dove le lancette si sono fermate, ma dopo sole 48 ore posso
dire che non è così. Qui c’è anche il presente. Ecco il monastero Xiro-potamos, tra Dafni e Karyes, dove vivono 30 monaci. Poi l’Agios Pan-teleimon, in mano ai russi, colorato di azzurro e verde. Quindi, impe-rioso, il monastero Xenophontos, sul mare, un centro di spiritualità molto influente con cento mona-ci. E il bellissimo Docheiariou, e il Konstamonitou… Cresce il deside-rio di tornare al Monte Athos, non da giornalista ma da pellegrino, a piedi, per percorrere il giro dei mo-nasteri.
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80 cittànuova n.11 | Novembre 2016
L’ultima volta che in Italia si sono raccontati i Maya è stato 18 anni fa a Venezia. Naturalmente, se n’è parlato spesso. Film su una civiltà crudele e inquietante – uno fra tutti, il violento Apocalypto di Mel Gibson –, profezie sulla fine del
mondo nel 2012 secondo una previsione di questo popolo (da parte dei propagatori della catastrofe, che però non si è effettuata), romanzi, racconti, fumetti (addirittura alcuni episodi di Tex Willer).Ma succede sempre, quando si conosce poco (o non lo si vuole conoscere davvero) un popolo o un personaggio, si fa volare la fantasia, nei romanzi e nelle fiction. Cominciarono già gli europei conquistadores nei primi decenni del secolo XVI, non capendo una civiltà che risaliva al
2000 a.C. e che fu spenta nel 1542.Oggi, scorrendo attraverso le sale silenziose della Gran Guardia, questa civiltà ci viene incontro, presentandoci la sua idea della bellezza. La quale, pur nella varietà delle forme e delle espressioni – esseri umani, animali, vegetali, decorazioni, ceramiche – tipiche di determinati momenti storici e dell’interscambio con altre culture, offre una visione del
mondo dominata dalla presenza dell’uomo e del suo corpo. Rivestito di tessuti preziosi, lavorato a snellire le imperfezioni, decorato con tatuaggi, esso esprime una sua individualità marcata, diventando un’icona di un tipo di bellezza alta e sicura, talora ricca di un mistero che ci sfugge. Diversa, certo, dalla nostra, derivante dagli archetipi classici, ma indubbiamente affascinante.Come fascinosi restano tuttora i grandi templi, le enormi piramidi dalle ripide scalinate sopravvissute agli oltraggi della natura e dell’uomo e che dicono
molto – ora che la scrittura è stata decifrata – di una
civiltà diffusa nel
Messico e nei Paesi intorno, amante
delle scienze, dell’astronomia e della terra che coltivava e nella quale vedeva la presenza della divinità.Le 4 sezioni della rassegna veronese rappresentano per noi un’occasione imperdibile di lasciarsi condurre da questo mondo lontano che ci parla direttamente attraverso le sue opere.Colpiscono subito 2 ritratti in stucco di K’inich Janaab Pakal, re di Palenque, risalenti a un periodo fra il 600 e il 900 della nostra era.
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arte e spettacolo
maya, il linguaggio della bellezza250 opere della civiltà precolombiana parlano
di un mondo ancora poco noto. Da scoprire
a Verona, al Palazzo della Gran Guardia
81cittànuova n.11 | Novembre 2016
L’aspetto ieratico è suggerito dai lineamenti affilati, dalla pettinatura, oltre la fronte rasata, che si alza come una foglia di quel mais di cui i Maya erano grandi coltivatori. Se il primo è il ritratto del re adulto, il secondo lo è di quando era bambino e simboleggia la sua rinascita come dio del lampo e dei re.Fa impressione questa bellezza austera, che trasporta in un’aura di sacralità oltre il tempo. Accade lo stesso nel Viso con barba posticcia a suo tempo nella facciata di un edificio a Comalcalco: un volto “lavorato” ad esprimere un personaggio di rango elevato. Certo, è un tipo di
bellezza “ricreata” con mezzi che ci stupiscono: l’accentuazione dello strabismo, i buchi nel naso e nelle orecchie, la deformazione del cranio, le applicazioni sui denti. Il risultato è di una impressionante astrazione del corpo, di un sentimento oscuro e possente dell’immortalità. Il pensiero corre immediato a certi risultati cubisti ed espressionisti dell’arte occidentale, priva tuttavia del senso magico e soprannaturale di questi ritratti,
come nel magnifico profilo umano “egizio” in un mattone del 1000 della nostra era.Il mondo Maya conosceva la morte e la violenza. I ritratti dei prigionieri, come quelli del Museo di Ocosingo (Chiapas) vedono uomini di profilo, la bocca spalancata nel dolore o accovacciati, legati e nudi per umiliarli. Sul perizoma, campeggia la scrittura della loro cattura ad opera del re di Toniná. Accanto all’uomo, l’animale sfolgorava come il serpente piumato, creatore del cielo, usato come base per le colonne: a lui venivano associati il vento, l’acqua e pure la guerra.Fra tante opere, rimane impressa la figura sdraiata (1250 d.C.) posta all’ingresso di un tempio. Lo sguardo terribile evoca il suo farsi intermediario fra terra e cielo. Il volto “lavorato” quasi astratto esprime la maestà degli dei ma pure quella dell’uomo.Un mondo da conoscere. Mario Dal Bello
Verona, Palazzo della Gran Guardia,
fino al 5/3/2017 (cat. Piazza Editore).
82 cittànuova n.11 | Novembre 2016
Ci risiamo! La solita modestia, bravura, intelligenza. Francesca Fialdini è come l’ammirate in Uno mattina di Raiuno: senza fronzoli. Si schermisce, ma ha scritto per i tipi di Città Nuova il suo primo romanzo. Sogno di un venditore di accendini è la storia vera di Youssou, fuggito dal Senegal e arrivato in Italia a 27 anni. La storia ha il pregio di calarsi nella mentalità, negli stati d’animo, nella bellezza delle relazioni di una famiglia che ha realizzato i propri progetti.
Un bilancio sul tuo lavoro da conduttrice a Uno mattina?Uno mattina è un programma impegnativo. Sia per la sveglia, alle 4 e 30, che per la complessità del prodotto. In questi 3 anni abbiamo modificato un po’ il taglio, cercando di rimanere più sull’informazione che sull’intrattenimento. I
fatti di cronaca nazionale e internazionale hanno richiesto la massima attenzione, dal Bataclan all’apertura della Porta Santa a Banguy. Perciò il bilancio non può che essere positivo. Il cambiamento però è parte del mezzo televisivo, non si escludono nuove sorprese.
Cosa pensi della tv? Che funzione sociale utile ha oggi?La tv rimane un mezzo fondamentale. Cresce l’interesse del pubblico verso i canali digitali e anche l’offerta si è diversificata, obbligandoci ogni giorno a cercare di dare il meglio nel concretizzare scelte di servizio pubblico. La mission rimane quella: informare con sensibilità, mobilitare l’attenzione sulle domande favorendo l’analisi del tempo in cui viviamo. Ma anche accompagnare con serenità, magari divertendo.
Ora sei passata alla scrittura. Che esperienza è stata scrivere il tuo primo romanzo?Non è esatto. Non sono propriamente passata alla scrittura, e quello che ho raccontato ne è una prova. La scrittura è riflessione e ricerca di stile e io volevo semplicemente accendere una luce e provare a calarmi nei panni di un un’altra persona, molto diversa da me per esperienze, cultura, provenienza.
In Italia gli immigrati producono il 9% del Pil. Perché hai scelto il tema dell’immigrazione?L’immigrazione è uno dei grandi temi del momento. Su questo si sta giocando la credibilità dell’Unione europea, e pure il suo futuro. Spesso sul tema c’è disinformazione, ma se noi cominciassimo a considerare il loro punto di vista, a partire dal travaglio interiore che comporta scegliere di lasciare tutto per affrontare un viaggio dai risvolti più drammatici, la questione si concentrerebbe soprattutto su come favorire le migliori politiche per l’accoglienza e l’integrazione. La storia che ho scelto ne è un esempio.
Quest’estate sei stata in Africa, per quale motivo?Per imparare. Per provare a capire. E sono tornata solo in parte. Il mal d’Africa esiste davvero.
Che progetti hai o ti piacerebbe fare per il futuro?Il futuro non lo progetto. Mi metto a disposizione, sia come donna che come professionista. Tra le cose che sicuramente vorrei fare c’è un viaggio in Senegal, da dove la storia che ho provato a raccontare è iniziata. Gabriele Amenta
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arte e spettacolo
il mio primo romanzoOgni giorno in onda tra le 6 e le 10 del mattino
su Raiuno, Francesca Fialdini pubblica
per Città Nuova una storia di integrazione
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83cittànuova n.11 | Novembre 2016
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Jin Chongyu, ospite della Milano Fashion Week, è il talento emergente tra i 15 designer cinesi più audaci, provocatori, taglienti della nuova sezione White East. JINNNN ha presentato la Collezione Primavera\Estate 2017 tra street style e abiti couture, una visione più commerciale e una di tendenza. «Nel 2013, quando facevo lo stilista da 5 anni – osserva Jin –, ho lanciato la mia etichetta JINNNN. Il messaggio
è: sii te stessa», inesprimibile autentico. «Ogni pezzo della collezione – afferma dopo la sfilata – ha una storia differente. Usiamo la mano per tagliare la pelle perché è facile romperla cucita a macchina. Anche il silicone è difficile da lavorare a mano». Per fare un singolo abito couture sono necessarie 100 ore di lavorazione. Per questo Jin affida la tecnica della pelle e del tessuto agli artisti di Givenchy. Preferisce per sé la fase della creazione e dell’ideazione.Beatrice Tetegan
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in guerra per amoreLo aspettavamo e non ha deluso. Pier Francesco Diliberto centra di nuovo il bersaglio con il suo secondo film: In guerra per amore. Possiamo considerarlo una sorta di prequel di quel gioiellino d’esordio che era La mafia uccide solo d’estate, del 2103, visto che il protagonista è sempre lui, il bravo Pif, e non cambia il nome del suo personaggio: Arturo Giammarresi. Soprattutto non cambia il tema e non cambia il modo di trattarlo: si parla di mafia con leggerezza, si attraversa una grande piaga italiana con una commedia. Se nel primo film si raccontavano 20 anni di storia di cosa nostra, dagli anni ’70 ai ’90 (fino agli attentati a Falcone e Borsellino), qui si affronta un momento di svolta della mafia siciliana, quando, cioè, durante la Seconda guerra mondiale, gli americani chiesero aiuto alle cosche per facilitarsi lo sbarco sull’isola, e in cambio offrirono posti di potere ai loro capi, e poi contarono sul loro appoggio per alimentare, come spiega il bel finale del film, la
paura del pericolo rosso durante la successiva Guerra fredda. In guerra per amore racconta la vicenda di un cameriere siciliano trapiantato a New York, che si innamora di una conterranea (Miriam Leone) già promessa a un boss amico di Lucky Luciano. C’è solo un modo per sperare di ottenere la mano della ragazza: andare da suo padre, rimasto in Sicilia, e parlare con lui. Mica facile, però, attraversare l’oceano, e allora conviene arruolarsi nell’esercito, visto che siamo nel ’43 e in Italia si combatte. In guerra per amore, assai curato da
un punto di vista visivo e pieno zeppo di bravi attori caratteristi, è un film che scansa l’ombra da un momento poco raccontato della Storia italiana. È una pellicola che sa denunciare mentre coinvolge e diverte, che sa rimanere in un pregevole e originale equilibrio tra dolce favola e amaro realismo. È dedicato a Ettore Scola, che amava tantissimo mettere individui comuni dentro i grandi eventi del ’900 italiano. Probabilmente, In guerra per amore sarebbe piaciuto al grande maestro. Edoardo Zaccagnini
84 cittànuova n.11 | Novembre 2016
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inviato speciale edipo re e a colono
Debutta il 9 novembre al Teatro della Luna di Milano l’attesissimo musical Evita, con la regia di Massimo Romeo Piparo, primo adattamento italiano del celebre spettacolo scritto nel 1978 da Tim Rice e Andrew Lloyd Webber. Nei panni dell’amata/odiata leader Argentina, la cantautrice Malika Ayane, da mesi impegnata nella preparazione di questo progetto musicale. L’artista si confronterà con la difficile interpretazione di un personaggio complesso e controverso ma dal carisma incontestabile ed eseguirà, accompagnata dall’orchestra live, brani impegnativi come la famosa Don’t cry for me Argentina, della quale Madonna ci regalò un’indimenticabile interpretazione. Il musical, molto curato e sofisticato, promette momenti di grande intensità ed emozioni. Malika Ayane si troverà a confrontarsi con una vera e propria icona: il suo talento poliedrico e la sua voce inconfondibile saranno la conferma che quando si ha personalità non si devono temere confronti.Elena D’Angelo
9 novembre al Teatro della Luna
di Milano – debutto
29 novembre, Genova
6 dicembre, Firenze
14 dicembre, Roma
18 gennaio, Trieste
La forza del racconto, della cronaca, spesso nera, ha immutato il suo fascino comunicativo perché coinvolge attraverso storie personali in cui è possibile identificarsi. Il classico Inviato speciale ogni sabato in onda su Radio 1 alle 9 e 5 conserva immutato il suo fascino di programma di approfondimento. Si apre con due conduttori che presentano gli argomenti della puntata come di consueto per i radiogiornali ricordati anche nella tipica musica da news. Cambia repentinamente il registro narrativo nelle storie assumendo la forma più tipica delle rubriche. Il protagonista della storia ricostruisce in prima persona la vicenda coinvolgendo con la sua voce attraverso cui si possono notare tutti i registri dei sentimenti e delle emozioni. Il testo del giornalista raccorda e sintetizza le parti mancanti dei fatti. Una musica di atmosfera sottolinea gli stati d’animo e lascia alla mente il tempo di pensare e farsi domande. Sono storie lunghe, approfondite, dilatate che permettono di capire fatti che spesso sono condensati in servizi di poco più di un minuto nei radiogiornali e permettono di penetrare drammi, scelte personali, contraddizioni del sistema Italia più di tanti articoli e saggi.Aurelio Molè
Il dramma di un immeritato destino, l’ineluttabile infelicità umana, la follia dell’autodistruzione in nome di una giustizia superiore alle leggi umane. Questi i temi di Sofocle nel narrarci le vicende del re tebano. L’uomo che inconsciamente uccide il padre e sposa la madre, e che poi scopre i propri misfatti, è il simbolo dell’oscura vicenda dell’uomo. Ma quando il protagonista, a distanza di anni, con l’unico sostegno della figlia Antigone, approda ad Atene per morirvi, il delitto e la sventura hanno trovato nella sofferenza la catarsi. Edipo re ed Edipo a Colono sono ora riunite in un unico
spettacolo firmato da Andrea Baracco e da Glauco Mauri anche interprete. Alla fine del suo lungo cammino Edipo comprende la luce e le tenebre dentro di lui, ma afferma anche il diritto alla libera responsabilità del suo agire. Egli è pronto ad accettare quello che deve accadere, è pronto a essere distrutto purché sia fatta luce. Solo nell’interrogarci comincia la dignità di essere uomini. Convinti che il Teatro può e deve servire “all’arte del vivere”, i due registi affrontano le due opere per trovare nel passato il nutrimento per comprendere il futuro.Giuseppe Distefano
Alla Pergola di Firenze fino al 13/11, e in tournée.
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diversamente (formid)abili
«Nessuno come lui ha saputo mettere in musica e parole l’epica dell’esistenza, le sue contraddizioni, la sua bellezza», ha dichiarato De Gregori alla notizia dell’assegnazione del Nobel a Dylan. Ma forse qualcuno c’era e c’è. E si chiama Bruce Springsteen. Entrambi hanno conquistato le cronache di quest’autunno: lo scorbutico e stagionato cantautore del Minnesota per via della chiacchierata ma in fondo più che legittima onorificenza, l’altro perché ha appena pubblicato la sua attesa autobiografia Born to run (oltre 500 pagine) e un cd antologico con 5 inediti. Le due voci più alte della poetica rock hanno un imprinting comune e
parecchie divergenze. Li accomuna l’umiltà dei rispettivi background socioculturali, l’amore per le radici della musica americana, la capacità di fare poesia coi materiali “poveri”. E, non ultima, l’urgenza mai esaurita di continuare a tener botta sui mercati: anche oggi, con età e redditi che consiglierebbero regimi di vita ben più placidi. Eppure erano e sono così diversi: l’uno sempre snobisticamente chiuso nella turris eburnea del proprio talento, l’altro indelebilmente marchiato dalle origini campane (i nonni materni venivano dalla costiera sorrentina), col loro immancabile corredo di estroversioni e passionalità ruspanti. E se la comune sensibilità per i temi sociali è stata per Dylan poco più che il propulsore necessario a spararlo nell’Olimpo dei Grandi, per Bruce è tutt’ora la
linfa essenziale della sua poetica. Indubbiamente il Boss deve a Dylan molto più del contrario, giacché per buona parte la sua carriera s’è dipanata sul solco tracciato dall’altro. Ma entrambi hanno carismi, stili, genialità e visioni della vita assolutamente autonomi. Del resto in quest’ambito neppure i talenti più puri inventano dal nulla, anzi, la loro destrezza consiste proprio nel
saper trasformare in “roba propria” materiali e umori preesistenti. Ma se il Nobel dylaniano ha sancito una volta di più il peso della cultura “bassa” – o pop –, allora è possibile che prima o poi anche il collega possa ritrovarsene uno in salotto… E c’è da scommetterci che anche in quel caso qualcuno griderà allo scandalo. Franz Coriasco
Antonio Salieri: “Les Danaides”Un grande autore,
ingiustamente calunniato
come omicida di Mozart, rifulge
nell’opera del 1784 in 5 atti
sulla mitica tragedia greca.
Il cast molto appropriato e
coinvolto, raffinato, è diretto
da Christophe Rousset con Les
Talens Lyriques per Palazzetto
Bru Zane. 2 cd M.D.B.
Bastille: “Wild world” (Virgin)
Dan Smith e soci rischiavano
grosso dopo il successo
clamoroso del loro esordio.
Ma questo loro ritorno ne
conferma appieno creatività e
ispirazione. Un album di indie
pop-rock fresco ed energetico
che conferma la band
londinese fra le più trendy in
circolazione. F.C.
Sfera Ebbasta: “Sfera Ebbasta” (Universal)
È l’astro nascente del nuovo
rap italico. Un ragazzotto di
periferia (di Cinisello Balsamo)
capace d’emanciparsi tanto
dalla marginalità desolante del
contesto, quanto di cantarne
con semplicità le insidie e gli
orizzonti, ma senza il gusto
per la provocazione di tanti
colleghi. F.C.
René Burri100 opere di René Burri
dedicate all’architettura e ai
suoi protagonisti, e 50 scatti
inediti di Ferdinando Scianna,
un reportage in stile street
photography sul Ghetto
ebraico per i 500 anni della
sua fondazione. “Utopia” e “Il
Ghetto di Venezia. 500 anni
dopo”. Venezia, Casa dei Tre
Oci, fino all’8/1/2017. G.D.
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Bob Dylan. Bruce Springsteen.
il giornalino dei bambini in gamba*
TRATTO DA n. 8 - OTTOBRE 2016
PER BAMBINI DA 3 A 99 ANNIfantasilandia
LA CICALA E LA FORMICALA FAVOLA CAPOVOLTA
D’estate, nei campi di mais c’erano tanti insetti che lavoravano per raccogliere i chicchi che sarebbero serviti come provviste per l’inverno. Solo uno, anzi una, non faceva nulla. La cicala se ne stava a cantare per i lavoratori che, a fine giornata, generosi com’erano, le davano ognuno un po’ del loro raccolto come ringraziamento.
C’era però una formica che era contraria a questo comportamento e non le dava niente perché diceva che per guadagnarsi le cose bisogna lavorare.
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Però la cicala, quando venne l’inverno, era così piena di provviste che dovette farsi costruire un magazzino per metterle tutte. La formica era così carica di invidia verso questo insetto che decise di farle un brutto scherzo! Una notte, mentre tutti dormivano, lei con un fiammifero incendiò il magazzino e se la diede a gambe soddisfatta perché dietro di lei sentiva delle esplosioni.
La formica invece aveva scoperto che con l’invidia non si ottiene nulla.
Possiamo immaginare la felicità della cicala quando la mattina si svegliò e si trovò davanti casa una valanga di popcorn che scoprì essere buonissimi. Tutti gli altri insetti ora andavano da lei per chiederle uno scambio con qualsiasi cosa pur di avere un po’ di quel miracoloso cibo che nessuno sapeva come fosse arrivato lì.
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88 cittànuova n.11 | Novembre 2016
SPORTpagine verdi
l’uomo di ferro3800 metri a nuoto, 180 km in bici, 42 km di corsa: questo è il triathlon Ironman. Abbiamo incontrato il campione del mondo Jan Frodeno
Da ragazzino sfidava le onde dell’oceano sulla sua tavola da surf lungo le coste del Sud Africa. Un uomo abituato a cogliere la magia di un attimo grazie alla semplicità di un caffè. Jan Frodeno, tedesco, 35 anni, campione del mondo di triathlon, specialità Ironman, per la seconda volta consecutiva lo scorso 8 ottobre alle Hawaii.
Hai iniziato la tua carriera come nuotatore. A seguire ti sei convertito al surf. Dopo una giornata passata a cavalcare le onde dell’oceano, hai raccontato d’aver detto a tua mamma che ti sentivi un “soul surfer”, un surfista per vocazione. È vero?Sì, io, la mia tavola e l’oceano, un luogo felice. In quegli anni sentivo che accarezzare le onde mi permetteva di ricongiungermi con me stesso. Sensazioni profonde. L’oceano inoltre accoglie tutti, c’è spazio per tutti.
La tua vita cambia nel 2000 mentre guardi in tv la gara olimpica di triathlon a Sydney. Hai 19 anni, dentro di te si accende la fiamma per questo sport e vendi la tua bici da corsa per Jan Frodeno durante la gara di Ironman 70.3 a Lanzarote (Canarie).
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89cittànuova n.11 | Novembre 2016
comprare il biglietto dell’aereo per tornare in Germania. Perché proprio la bici?Era la cosa più preziosa non solo dal punto di vista affettivo. I miei genitori non avevano molte possibilità. Siamo così riusciti a mettere assieme la somma necessaria.
Dopo entusiasmanti stagioni nella categoria under 23, inizia il cammino verso le Olimpiadi di Pechino. Nel 2008, hai conquistato l’oro senza i favori del pronostico.Credevo nella vittoria al 100%. Sapevo di poter e di voler vincere. Ho allenato anche la mente per conquistare questo obiettivo ed è stata la parte più difficile. Posso dire che la testa è in grado veramente di fare la differenza.
Dopo il sesto posto alle Olimpiadi di Londra 2012, abbandoni il triathlon olimpico per
dedicarti alla distanza regina: l’Ironman. Come mai?Avevo bisogno di nuovi stimoli, di un cambiamento. Le Olimpiadi sono sensazionali, ma dopo aver speso molti anni a curare la stessa distanza non avevo molte scelte: cambiare o smettere. Sono contento d’aver scelto la prima opzione.
Nel 2015, dopo aver tagliato il traguardo del Mondiale di Kona, ti sei inginocchiato baciando il ventre di tua moglie. Qualche mese dopo è
arrivato Luca. Come rimanere campioni nello sport e nella vita?La mia famiglia non dà molta importanza al Frodeno campione. Sono semplicemente Jan, il ragazzo di sempre che ha la fortuna di lavorare facendo sport. L’arrivo di Luca, la sua purezza, la sua innocenza, l’assenza di preoccupazioni, ha rinfrescato la visione del mondo attorno a me. È una prospettiva che mi aiuta ad affrontare tutte quelle situazioni dove la pressione sale e le aspettative nei miei confronti aumentano. Ciò che faccio, in fondo, è solo un gioco. Se giochi e ti diverti, il risultato viene come naturale conseguenza.
Oltre all’hobby della cucina e del surf, ne hai uno a dir poco originale: il caffè espresso per cui hai fondato un brand tutto tuo: Frodissimo...Tutto è partito grazie a una macchina per caffè italiana. Dava un tocco di
a cura di Giovanni Bettini
stile e buon gusto alla mia cucina. Il problema era che non bevevo caffè! A poco a poco ci presi gusto. Un giorno mi ritrovai con un amico che gustò il suo espresso in un quarto d’ora. Un tempo in cui la vita rallenta e puoi gustare un aroma che proviene da lontano, risultato di una sapiente lavorazione. Oggi un buon espresso accompagna l’inizio delle mie giornate: un rituale che mi fa pianificare le varie attività, concedendo qualche attimo di piacere. Per questo quando lo bevo non faccio nulla: mi gusto l’attimo. Un attimo magari da condividere.
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Contenuti aggiuntivi
su cittanuova.it Jan Frodeno. L’uomo di ferro.
Jan Frodeno18 agosto 1981
nasce a Colonia
2008
Oro a Pechino
2015
Campione mondiale
di Ironman 70.3
Atleta dell’anno
in Germania
2016
Record di percorrenza
(7 ore, 35 minuti
e 39 secondi)
Nuovo titolo mondiale
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Il traguardo al Campionato mondiale l’8 ottobre 2016.
Ai Mondiali di Kona 2015.
90 cittànuova n.11 | Novembre 201690 cittànuova n.11 | Novembre 2016
di Cristina Orlandi
Zuppa di piselli e lenticchie
INGREDIENTI PREPARAZIONE
Un’idea molto gustosa e salutare, un piatto unico
da servire sia caldo, sia tiepido. In alternativa ai crostini
di pane potreste servire la zuppa con riso, orzo o farro,
cotti nel brodo insieme alle lenticchie e ai piselli
Ingredienti per 4 persone
› 350 g di lenticchie rosse decorticate
› 350 g di piselli sgranati
› 2,5 l di brodo vegetale
› 1 carota
› 1 scalogno
› prezzemolo
› olio extravergine d’oliva
› q.b. di sale e pepe nero
› pane casareccio
› parmigiano reggiano grattugiato
Sciacquare le lenticchie,
metterle nella pentola,
coprirle d’acqua (3
volte il volume delle
lenticchie) e cuocere a
fuoco basso, aggiungere
acqua durate la cottura.
Dopo 5 min. unire i
piselli mescolando di
tanto in tanto, finché
le lenticchie non
avranno assunto una
consistenza cremosa
(dopo circa 20 min.).
Tagliare lo scalogno e
farlo appassire in un
cucchiaio d’olio, unire la
carota tagliata a dadini
piccoli. Aggiungere
lenticchie, piselli e
brodo vegetale bollente,
regolare di sale e
proseguire la cottura
con coperchio per circa
40 min. Far dorare in
forno il pane a cubetti
(circa 1 cm) con un filo
d’olio. Servire la zuppa
con una macinata di
pepe nero, prezzemolo
tritato, i crostini e un filo
d’olio. In ultimo, se lo
gradite, aggiungere il
parmigiano.
BUON APPETITO CON...pagine verdi
cottura70 min
preparazione 80 min
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EDUCAZIONE SANITARIA di Spartaco Mencaroni
di Luigia Coletta
L’usura della cartilagine provoca spesso molto dolore. Specialmente quella delle ginocchia, dei polsi, dei gomiti e della schiena si può danneggiare facilmente. Si è rilevato che alcuni alimenti ricchi di un amminoacido, la lisina, possono favorire la rigenerazione della cartilagine,
l’assorbimento del calcio e la produzione di collagene. Tra gli alimenti che contengono una elevata quantità di lisina si distinguono, in particolare, le lenticchie (1706 mg di lisina per cento gr) e i piselli (1557 mg di lisina). La lisina è un amminoacido che il nostro organismo non è capace di sintetizzare
e dobbiamo assumerlo con l’alimentazione. La sua funzione principale è la formazione di nuovi tessuti e la guarigione di lesioni fisiche, ferite ecc. Il deficit di questo amminoacido può produrre anche debolezza, problemi di memoria e la caduta di capelli.
Cosa influisce sullo sviluppo del cancro?Nel 2015 uno studio su Science metteva in correlazione il tasso di replicazione delle cellule di un tessuto e il rischio di sviluppare una neoplasia. Da ciò i media concludevano con superficialità che erano le mutazioni del Dna, indotte da un processo di replicazione, a condizionare il 70% del rischio di ammalarsi di cancro: il ruolo dei fattori esterni, come radiazioni o sostanze cancerogene,
controllabili con gli stili di vita, veniva così relegato ben al di sotto del “fattore sfortuna”. Una conclusione “mediatica”, non scientifica: questi messaggi fuorvianti riducono l’attenzione sulla prevenzione e sulla lotta ai comportamenti rischiosi per la salute. Quest’anno un altro studio pubblicato su Nature ribalta la questione, dimostrando che le cellule di fegato, colon e intestino tenue mutano con un tasso identico: «Non basta
l’accumularsi graduale di un numero sempre maggiore di “errori” sfortunati del Dna per spiegare le differenze nell’incidenza dei tumori», spiegano gli autori. Da ciò capiamo quanta strada resta da fare per comprendere (e combattere) i meccanismi alla base del cancro e quanto siano cruciali le nostre scelte e le politiche di prevenzione, anche ambientale. La nostra salute non si può ridurre a una questione di fortuna.
Non è improbabile che i weekend di mamme e papà siano scanditi dagli orari delle feste di compleanno e, se i figli piccoli sono due o più, l’attività è ancora più frenetica. Mi è capitato addirittura di partecipare nello stesso posto a due feste in contemporanea allestite in due sale, Irene da una parte e Michele
dall’altra! A volte non è possibile andare, è chiaro, ma esimersi troppo non è bello né conveniente se non si vuole ridurre drasticamente la vita sociale extrascolastica dei bambini. E anche perché, diciamolo, al momento di organizzare quella per i propri figli, si desidera la stessa partecipazione… Mia mamma, grande
donna, le organizzava in casa e impersonava sia il catering che l’animazione; oggi la location più gettonata è il parco giochi con gonfiabili, un investimento certo più oneroso, ma tanto divertimento per i bimbi. E anche per grandi che sappiano circondarsi di gente simpatica e alla mano!
ALIMENTAZIONE di Giuseppe Chella
DIARIO DI UNA NEOMAMMA
FESTE DI COMPLEANNO
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LENTICCHIE, PISELLI E CARTILAGINE
LA NATURA NON GIOCA A DADI
Grammenos Mastrojeni è un diplomatico italiano, attualmente coordinatore per Ambiente e Scienza della Cooperazione allo Sviluppo del ministero degli Esteri. Conferenziere e docente universitario, è autore di diversi saggi sull’ambiente, l’ultimo è L’Arca di Noè con Chiarelettere.L’ho incontrato nel suo ufficio alla Farnesina a circa un anno dall’enciclica ecologica Laudato si’ di papa Francesco e dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici.
Dott. Mastrojeni, come sta il nostro pianeta?Il pianeta dà segnali di collasso: per quanto vogliamo ignorarlo, la scienza non ha dubbi. Siamo prossimi a dei punti di non ritorno, oltre i quali il crollo di ogni pilastro dell’equilibrio porterà al crollo a catena degli altri.
Qual è la preoccupazione maggiore degli scienziati?Non possiamo illuderci di separare il destino del genere umano da quello
della natura che lo nutre. Carestie, conflitti ed esodi sono già iniziati e verranno sempre più con un clima imprevedibile.
Ci sono vie d’uscita?Possiamo impedirlo, basta poco, purché si impegnino tutti. Poche condotte responsabili da parte di ogni individuo, famiglia, villaggio, sostenute da scelte coerenti da parte di chi amministra città e nazioni, sono sufficienti per cambiare rotta. E si tratta di comportamenti e di regole che aumentano la qualità della vita, mentre rafforzano la pace e la giustizia.
Pensa che ce la faremo?Questo messaggio non può rimanere inascoltato. Denso di minacce, ma anche orizzonte di un mondo migliore a portata di mano, abbiamo poco tempo per capirlo: le scelte dell’umanità in questo decennio segneranno le generazioni per molti secoli a venire.Per questo farei appello a chi può e sa raggiungere le menti e toccare i cuori: a chi sa spiegare e raccontare, creare opinioni e diffondere consapevolezza. Giornalisti, insegnanti, filosofi, scrittori, pittori, attori, musicisti,
gente del circo e dello spettacolo, tocca a voi.
E noi, gente comune, che possiamo fare?Se vi sentite parte del tessuto di vita che anima madre terra, o se solo avete figli, guardate gli orizzonti che stiamo lasciando in eredità; e ditevi che una vostra parola, gesto, nota o tratto possono scongiurarli.
a cura di Luca Fioranipagine verdi
ecologia integraleA colloquio con Grammenos Mastrojeni, che da 20 anni concentra la sua attenzione sul legame fra squilibrio ambientale e instabilità sociale
AMBIENTE
PIRAMIDE AMBIENTALE
PIRAMIDE ALIMENTARE
Frutta s
Pane, PastPatate, Riso
Legumi
FruttaOrtaggi
Carne bovina
PesceFormaggio
rne suina
e avicola
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ALTO SSOBAS
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FONDAZIONE BCFN © 2015
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Carne
Frutta secLegumi
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DolciYogurt
PastaBiscotti
RisoLatte
Pane
PatateFrutta
Ortaggi
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FormaggioUova
Carne avicolaPesce
Biscotti
LatteYogurt
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92 cittànuova n.11 | Novembre 2016
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Contenuti aggiuntivi su cittanuova.itEcologia integrale in pratica
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93cittànuova n.11 | Novembre 2016
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Dialogo con i lettoriRispondiamo solo a lettere brevi, firmate, con l’indicazione del luogo
di provenienza.
INVIA A [email protected]
OPPURE via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma
mensile, siano pro-sì. Certo, cerchiamo di analizzare i provvedimenti del governo e giudicarli, con la maggiore obiettività e libertà di spirito possibile, senza preconcetti. La invito a un’operazione di purificazione della sua chiave di lettura. Quanto ai soldi del governo all’editoria, sono ormai pochi spiccioli, che non compensano che in minima parte tutte le tasse che siamo costretti a pagare, a cominciare dai servizi postali (tra l’altro sempre precari).
Città Nuova ai sacerdotiConosco Città Nuova da tantissimo tempo e solo dopo averla conosciuta bene, mi sono abbonato e dopo tanti anni leggo la rivista per intero. Purtroppo faccio spesso esperienza di persone che leggono tanto e che si rifiutano di conoscere la rivista, pur dandogliela gratuitamente alcune volte per poterla poi valutare. Quello che mi sorprende maggiormente, almeno per quello che mi capita, sono i sacerdoti; ne conosco alcuni e nessuno ha voluto prendere in considerazione la mia proposta; io che penso dovrebbero essere più propensi a conoscere una rivista che parla di tutto il mondo, espressione di un movimento diffuso in
tutto il mondo, rimango perplesso e mi chiedo perché. › Alberto Di Girolamo
Conosco centinaia di sacerdoti che invece leggono Città Nuova e che comprano i nostri libri, appassionati o critici, ma interessati a quanto elaboriamo. Non tutti debbono per forza essere alla ricerca di a quanto scriviamo. È anche vero che i poveri malcapitati spesso e volentieri sono sollecitati perché scelgano innumerevoli organi di informazione, cattolici in particolare. Le consiglio sì di continuare a proporre Città Nuova anche ai preti, ma senza mai aspettarsi una loro adesione. Libero, come noi siamo liberi. E vedrà che qualcuno si interesserà pure alle nostre pagine. Coraggio!
La famiglia umanaHo letto con molta attenzione il suo Punto dal titolo: “No allo scontro di civiltà”, che condivido in pieno, come l’editoriale di Giuseppe Barbaro: “Addio matrimoni”. L’uomo e la donna cristiani, di famiglia cristiana, di quella famiglia è rimasto solo il nome. E lo spirito di vero figlio di Dio con chi lo abbiamo sostituito? Siamo in piena crisi di identità umana, senza Dio è tutta animale-vegetale alla mercé di
spiriti diabolici capaci di cambiarci i connotati. E noi vogliamo fermarli con le parole cristiane vuote di Cristo, di celebrazioni spettacolari, sì, ma vuote di Cristo. › Domenico
Caro Domenico, capisco lo sgomento che può prendere un cristiano che osserva quest’oggi una società che sembra sgretolare le basi su cui essa stessa poggia. Però il cristiano non deve, non può e non vuole mai cedere allo sconforto, al gioco al massacro, al “si stava bene prima”. Dio agisce nella storia e nella libertà della persona umana. Siamo sicuri che tutto quello che affermiamo essere “valore irrinunciabile” spesso non sia che un modo per tranquillizzarci? Il Dio cristiano è morto in croce, per morire con noi uomini e donne, per indicarci che anche noi abbiamo la via della croce per risorgere. Anche a lei non posso che dire: “Coraggio!”, cerchi i segni di Dio nella storia, la nostra storia, e non solo i segni della sua assenza.
Draghi, un futuro resistente o resiliente?Da cattolico ho disponibilità ad andare a messa, da piccolo ho fatto il chierichetto, mi piaceva, mal sopportavo la puzza dell’incenso. Mi piacciono
Proprietà dei giornaliL’informazione si è lasciata occupare dalla politica, parlo di proprietà dei giornali e direttori Rai nominati dal governo (viva “Renzie”). Tutto è diventato uno slogan da campagna elettorale. Quindi la gente non capisce più e si divide. Città Nuova però è un giornale libero, quindi io mi domando: chi ve lo fa fare di essere filo-Pd? Siete proprio convinti voi? Quindi teniamoci tutte le occupazioni di “Renzie” nella tv “pubblica”, teniamoci questi spiccioli di finanziamenti se no chiudete anche voi, teniamoci questo popolo disinformato che rischia di scegliere un sì che aggiunge alla lista anche la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura e il capo dello Stato, tutti nominati dal governo (maggioranza è un eufemismo)? Siete l’unico giornale che spreca la sua libertà accarezzando il pensiero unico camuffandolo in “volemose ben”.› [email protected]
Caro lettore, vorrei che esplicitasse perché secondo lei noi siamo renziani. Prendiamo il referendum: sfido chiunque a dire che i nostri articoli, in particolare sul sito ma anche sul
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le messe importanti, stante la modestia di quest’epoca, ove l’economia si è fatta religione, mi devo accontentare di stare sul divano a vedere officiare certo Mario Draghi da Francoforte. La chiesa è spoglia, tipicamente luterana. Draghi. Come ex Ceo, mi auguro che, a fine mandato si dimetta, avendo toppato, lui e l’intero board della Bce. L’obiettivo, l’unico che avevano, era di un 2% di inflazione, ha ammesso, disperato, anche per quest’anno, lo 0,2%, il 90% in meno del target! Come uomo e leader invece a me Mario Draghi piace, anzi lo trovo il meglio di questa infornata. Non conoscendolo di persona, lo giudico solo dal linguaggio del corpo, l’unico aspetto che non possono manipolare. Hollande, Merkel, Renzi, Obama, il loro linguaggio del corpo li inchioda alla realtà, loro sono loro. Putin, lui è lui. Draghi, in conferenza stampa è perfetto, perché nature. Le élite del giornalismo economico europeo, che partecipano a questo tipo di conferenze, hanno, curiosamente, un’età indefinita, potrebbero avere 28 come 45 anni, ma ne dimostrano sempre 34, metà maschi, metà femmine. Hanno tutti lo stesso tono di voce, non conoscendo nulla del mondo vero, le loro domande sono solo tecniche, quelle che si fanno a scuola per dimostrare che si è studiato. Con lo stesso tono, Draghi risponde, con infinita pazienza. Sono un vecchio signore, sarei impresentabile
in quel parterre così giovane, eppure avrei ancora la giusta energia per andare a Francoforte e chiedergli: «Presidente Draghi, stante il mondo che lei e gli altri suoi compari state disegnando, quelli della mia famiglia, siamo genitori o nonni, preoccupati per i nostri bambini, come dobbiamo prepararli alla vita adulta? Dovremmo enfatizzare l’aspetto della resistenza o della resilienza?».› Giovanni Arletti
Draghi è espressione di un certo cerchio di uomini saliti al potere per meriti professionali e per amicizie giuste, come sempre accade, o quasi. Non è un politico, ma si trova costretto a fare politica. In una conferenza stampa alcuni mesi addietro fu “assalito” da una militante che salì in cattedra, nel senso che montò sul tavolo e sparse volantini attorno a lei. Vada a rivedere le foto di quel Mario Draghi in seria difficoltà. E capirà che anche lui è “umano”, discutibile e capace di sbagliare.
ReferendumSi avvicina la data del referendum e aumenta in me la confusione su cosa votare. L’impressione è quella di un momento chiave per la vita democratica del nostro Paese ma non ho ben chiaro fono in fondo come e perché la mia vita di semplice cittadino dovrebbe migliorare votando sì, oppure bisogna votare no per non passare a una specie di dittatura come affermano i fautori del no. Questo è quanto si recepisce
Come fa piacere ricevere regali, anche piccoli,
piccolissimi. Perché qualcuno si è ricordato di
te, ti ha pensato, ha voluto esserti vicino. Ma
quant’è bello anche farli. Avete presente quel
sorriso timido oppure l’esclamazione fragorosa
di sorpresa che illumina il volto del fortunato o
fortunata a cui avete deciso di farvi presente?
Se poi si riesce ad “azzeccare” anche il gusto
e le esigenze, si fa un “gol” al centro del cuore
che ci farà ricordare di noi, forse per sempre.
È bello donare; e se il gesto è accompagnato
dall’assoluta gratuità che non attende
contraccambio, è più bello ancora. Siamo
prossimi al Natale, l’occasione per eccellenza
per donare.
Anche Città Nuova vuole regalare qualcosa
ai suoi lettori. In particolare a quelli che
vorrebbero trasmettere i propri valori in forma
adeguata all’oggi. Quanti lettori ci stanno
chiedendo da tempo formule al passo con i
tempi, per donare valori e idee. Avrete visto
sulle pagine della rivista (pag. 99) una novità:
le card di Città Nuova. Quanti supermercati,
negozi, aziende le fanno. Anche Città Nuova le
ha colte come un’opportunità per farsi vicina
soprattutto a coloro che utilizzano volentieri
il web per i loro acquisti. Hanno diversi tagli
di spesa e godono di uno sconto se sono
acquistate entro il 31 dicembre. Hanno il
vantaggio di lasciare libertà di scelta tra libri
e abbonamenti e un tempo a disposizione
per l’acquisto che varia da 12 a 24 mesi (solo
per gli importi da 220 e da 550 euro). Tante
sono ormai le opportunità di acquisto tra le
pubblicazioni di Città Nuova: 1500 libri, 9
riviste e 100 e-book. Regalare le card significa
regalare libertà di scelta. E non è poco!
MARTA CHIERICO
CULTURA DEL DONO E CARD
La nostra città.
di Michele Zanzucchi
cittànuova n.11 | Novembre 2016
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LoppianolabRingrazio tutti per l’impegno che avete profuso per Loppianolab, per me è stato sentire espressi in modo organico intuizioni e inquietudini che da tempo mi agitano, e intravedere la luce che si irradia. Per un giovane laureato, che avevo invitato, è stato il vedere la società da una nuova prospettiva. Un compagno di cammino con il gruppo di persone ferite ha tratto nuovo slancio nel lavorare per un nuovo umanesimo. Per aggiornare l’équipe per la comunità locale di Ivrea dello spirito e delle proposte emerse nei 3 giorni, ho pensato di proporre la lettura di scritti apparsi sull’ultimo numero di Città Nuova. Ringrazio Dio di avermi dato una lunga vita per essere presente a questa nuova alba dell’umanesimo... pensando alle nuove generazioni.› Nino Maruelli
Commosso, a nome della redazione e di tutti gli organizzatori, le dico che Loppianolab riesce bene perché è frutto del lavoro comunitario di gente che vuole il bene comune, che ancora crede che insieme si possa capire e agire.
Degrado della SanitàSu Repubblica, all’inizio di ottobre, sono apparsi un paio di articoli che narrano le vicissitudini dei familiari di due persone malate di cancro, decedute una a Roma e l’altra a Bari nel pronto soccorso di due noti ospedali di quelle città. Per chi ha avuto la disavventura di mettere piede in un pronto soccorso, sa già di cosa stiamo parlando; ma il fatto che due malati terminali non possano ricevere adeguata assistenza per traghettare dalla vita alla morte mi rattrista profondamente.Ricordo, senza esagerare, i fiumi di inchiostro che Avvenire ha versato
durante il caso Englaro quando si voleva tenere in vita forzosamente una persona in coma da 17 anni e ora che tanta gente vorrebbe ricevere cure adeguate alla propria malattia o almeno morire dignitosamente, mi sembra che il silenzio sia assordante. Possibile che nessuno dica nulla in proposito? Mons. Tonino Bello ebbe a dire: «Delle nostre parole dobbiamo rendere conto davanti al tribunale della storia, ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio». › Alfio
Si sta avvicinando una dura battaglia parlamentare a proposito dell’eutanasia. Il rispetto e la difesa della vita, dalla nascita alla morte, ma anche in tutto il periodo che intercorre tra la nascita e la morte (cioè lavoro, cioè dignità umana, cioè casa, cioè libertà di scelta, cioè pari opportunità…) obbliga l’essere umano a fare di tutto per rendere la
dalle dichiarazioni delle parti o dai vari dibattiti in corso. La confusione deriva, secondo me, dal fatto che la questione è stata proposta nei termini pro o contro Renzi e non pro o contro i cittadini. Ritengo importante avere un vostro parere che reputo importante per le caratteristiche di obiettività, rispetto ed equilibrio che vi contraddistinguono da sempre. In attesa vi ringrazio e vi auguro buon lavoro.› Pio Di Gioia
Non le dico né sì né no. Credo che sia l’epoca del giudizio maturo. Ma le offro – vada sul nostro sito – una serie di articoli che possono aiutarla a farsi un’idea personale e libera, e quindi a dirle se votare sì o no. Siamo nell’epoca della cittadinanza responsabile. Legga pure l’editoriale di Iole Mucciconi a p. 8 di questo numero. Ancora, coraggio!
cittànuova n.11 | Novembre 2016
FAMIGLIA DISAGIATA
Teresa ha 45 anni e
Massimo 48. Hanno un
figlio, Stefano, di 26 anni.
Nessuno di loro lavora
attualmente. Quando è
possibile, portiamo degli
aiuti in viveri ogni 15
giorni e un po’ di sostegno
morale, che queste
persone è la cosa che più
gradiscono. Chiediamo
aiuto a chi può offrirlo.
Guardiamoci attorno a cura dell’associazione Progetto Sempre Persona
Invia il tuo contributo tramite c.c.p. n. 34452003 oppure tramite bonifico bancario (Iban IT46R07601032000000 34452003) intestato a Città Nuova della PAMOM, specificando come causale “Guardiamoci attorno”. Oppure scrivi a Città Nuova, via Pieve Torina 5500156 Roma.Le richieste di aiuto si accettano solo se convalidate da un sacerdote. Scrivete a [email protected] o all’indirizzo di posta. Verranno pubblicate a nostra discrezione e nei limiti dello spazio disponibile.
Dialogo con i lettori
ESTREMA POVERTÀ
Luca, 50 anni, e la moglie
Ornella, di 37 anni, abitano
a Roma e non riescono a
trovare lavoro, vivono in
estrema povertà. Portiamo
anche a loro degli alimenti
saltuariamente, però non
sono sufficienti per tutte le
necessità. Si chiede aiuto
per risollevare almeno un
po’ la situazione di disagio.
MANCA IL LAVORO
Marianna, 44 anni, e
Marcus, 35, hanno dovuto
lasciare i figli in Romania,
nel loro Paese. Nemmeno
loro riescono a trovare
un lavoro qui e quando
possiamo cerchiamo di
aiutarli andandoli a trovare
in casa e portando viveri e
vestiario. Si chiede un aiuto
economico.
97cittànuova n.11 | Novembre 2016
vita, appunto, più umana. I disservizi del sistema sanitario sono nei fatti anch’essi segno di una mancanza di umanità. Anche la decisione di darsi la morte in modo volontario può nascere, e molto spesso nasce, dalla disumanità di tanti aspetti della vita, dalle negligenze o dal dolo di tanti che vivono in modo disumano e trattano gli altri in modo sub-umano. Rendiamo la vita più umana per tutti, aiutandoci reciprocamente, e tante anticipazioni della morte – in tutti i sensi – potrebbero essere evitate.
Lettera aperta al dott. TavecchioGentile Presidente, mi rivolgo a Lei costernato dalla scelta che Lei (o la Figc, ma è lo stesso visto che la presiede) ha fatto con la decisione di accettare la sponsorizzazione di Intralot per le squadre nazionali, una delle società dell’azzardo più intraprendenti e in espansione. Le società sportive si ritroveranno come in un incubo a fare spot per il grande affare che svuota le tasche di tanti (soprattutto tra i più poveri), che alimenta la piaga dell’usura, che diffonde malessere sociale e che distrugge salute e ricchezza di persone, famiglie, imprese. Tali società hanno issato il nostro Paese al terzo posto nel mondo dell’azzardo. Ma Lei tutte queste cose le sa già, suppongo. E allora la mia e altrui costernazione muta in indignazione. Perché Presidente? Perché fare della Figc una complice del gioco d’azzardo che svuota
i cervelli e i portafogli, ridicolizza gli sforzi per una crescita culturale, svilisce il lavoro di chi è impegnato nel difficile compito educativo? Signor Tavecchio, rifiuti con determinazione soldi che sono frutto della rovina di milioni di cittadini, indotti da pubblicità subdole, a rovinarsi con l’azzardo; non guidi la Figc alla morte civile. Non ci faccia vergognare di essere tifosi della nostra Nazionale! La ringrazio.› Giuseppe Palocci
Concordo pienamente con la sua protesta. Siamo rimasti allibiti di fronte alla pochezza culturale di chi ha voluto accettare la sponsorizzazione di una società che istiga alla rovina tanta gente. Alta e forte deve essere la voce di chi rifiuta di soggiacere al diktat del denaro che succhia sangue agli innocenti. Parole forti? Non abbastanza.
Ciao, Samuel(l)eVorrei ringraziare Città Nuova per aver pubblicato sul numero 9/2016 l’articolo “Ciao Samuel(l)e”. L’ho trovato scritto con semplicità, ma nello stesso tempo con chiarezza. Trovo che emerga in maniera chiara che il giudizio non spetta a noi (come ha detto anche il papa), e che invece a tutti noi spetta accogliere al di là di ogni steccato.La preghiera della mamma di Samuelle: «Signore, tu me l’hai dato, insegnami ad accompagnarlo», non è ciò che ogni mamma è chiamata a fare nei confronti dei figli al di là delle loro scelte?› Sara - Roma
A proposito dell’articolo “Una scuola per tutti” apparso su CN n. 5/2016
In una realtà scolastica dove il disimpegno e il rispetto
asettico di presunte sfere d’azione (scuola e famiglia)
vede la non interferenza reciproca, aperta spesso
solo al reciproco giudizio negativo, bisognerebbe
capovolgere le cose e immischiarsi, mettersi in
gioco e contribuire a creare una scuola migliore e
partecipativa.
Quando è tempo di elezione dei rappresentanti
di classe, l’opportunità spesso viene vissuta con
difficoltà, senso di abbandono e impotenza. Anche per
un mancato adeguamento normativo di un istituto nato
in altra epoca e contesto storico.
Occuparsi dei propri figli occupandosi della loro
scuola è lavorare per il bene comune. L’impegno è
creare tutti i presupposti affinché docenti, personale e
studenti possano rendere al meglio. Questo si chiama
lavorare per il bene comune.
Nel quadro della cooperazione fra scuola e famiglia
e per una vera governance è determinante superare
l’individualismo e l’isolamento. I genitori, che
rappresentano i primi educatori, devono operare
scelte competenti che determinano l’educazione e le
politiche scolastiche. Perché la scuola sia buona deve
divenire comunità. Tutti si lamentano, tutti danno la
colpa a un altro. La ricerca del capro espiatorio è la
tecnica migliore per dire: fallo tu. E allora? Mettiamoci
in gioco. Mettiamoci la faccia e l’impegno. Fare i
rappresentanti a scuola è una scocciatura? Forse, ma
se non partecipiamo perdiamo il diritto di lamentarci o
meglio di dire la nostra per costruire qualcosa.
Abitiamo le scuole, perché ci interessa avere relazioni
e rapporti con gli altri genitori, condividere percorsi
educativi e cercare di rendere la scuola un luogo
bello prima di tutto per i ragazzi ma anche per noi. Si
impara insieme ad affrontare anche le problematiche
concrete... Perché la porta, il bagno, la lavagna rotte
sono rotte per il bambino di qualsiasi genitore, per
qualsiasi docente, per qualsiasi bidello o addetto
segreteria. La scuola quindi diventa un luogo bello e
interessante per tutti.
È la concretezza che salverà il mondo! Votate,
candidatevi, sostenete chi viene eletto. Fate gruppo in
modo costruttivo.
E ricordate che non siete soli. In tutta Italia la parola
d’ordine sta diventando ImmischiatiAScuola!
LUIGI CHÂTEL
MAMMA E PAPÀ, VENITE A SCUOLA!
Riparliamone.
di Michele Zanzucchi
a cura di GIANNI ABBA
98 cittànuova n.11 | Novembre 2016
Ho ricevuto, ora restituisco
Give Back, dicono gli americani. Dai indietro. Restituisci alla comunità quanto hai ricevuto. E se hai ricevuto molto – dalla scuola, dall’università, dalla tua azienda –, restituisci molto. Potremmo tradurre il concetto anche con gratitudine, se la parola fosse meno poetica e più pragmatica e ci aiutasse a dire: sono grato per quanto ho ricevuto e dunque mi adopero per restituire alla mia comunità un pizzico della mia fortuna. Mentre leggo la storia di Diego Piacentini, trasecolo. 50 anni e poco più, 13 anni trascorsi in Apple alla scuola di Steve Job e poi 16 come dirigente in Amazon, è stato chiamato dal governo italiano come commissario straordinario per introdurre il digitale nella vita dei cittadini. E ha accettato di partire, armi e bagagli, in cambio di nulla. Sì, perché Piacentini ha accettato di prendere un’aspettativa da Amazon di due anni e di lavorare gratuitamente. «Senza alcun tipo di stipendio, pro bono, zero. Ho rinunciato anche ai rimborsi spese, niente vitto e alloggio, pago tutto con la mia carta di credito personale. Nei miei 16 anni negli Stati Uniti sono stato contagiato da un’idea forte, quella di restituire al proprio Paese, alla propria scuola, alla propria università. È il concetto del Give back», dichiara Piacentini. Restituire è quasi un obbligo morale: se hai avuto successo, poi sei chiamato a dare indietro qualcosa a chi ti ha formato. Capisco perché la scelta di Piacentini
abbia così colpito il pubblico italiano: perché noi siamo lontanissimi da questa cultura. Il concetto di “restituzione” non esiste nella sfera pubblica italiana e talvolta è debole anche in quella privata. Spesso si preferisce l’appropriazione, il mantenimento delle posizioni, le rendite, l’occupazione a oltranza delle poltrone. Soprattutto chi ha ruoli di potere e posizioni economiche solide le mantiene per sé o al massimo le condivide con parenti e amici intimi. La restituzione, invece, presuppone l’impegno verso l’anonimo, lo sconosciuto, la comunità in senso lato. Può avvenire nella forma del mecenatismo, della donazione, della dedizione gratuita a qualche attività sociale o culturale, dell’impegno per le nuove generazioni. Non viene demandata alla stagione della pensione, quando l’impegno volontario è più diffuso e comprensibile, ma è parte del proprio impegno di persone attive e nel pieno delle forze. Una chiamata alle armi per noi generazione di mezzo a cui vorrei rispondere. Un recente avanzamento di carriera mi ha liberato dall’ansia di darmi da fare per il mio lavoro, inseguendo titoli e conferme. Ora vorrei poter restituire una parte di quello che ho ricevuto, vorrei poter generare occasioni di lavoro per i più giovani. So di avere un debito, spero di riuscire ad onorarlo.
GRATITUDINE
pen
ult
ima
ferm
ata
di Elena Granata
CULTURA E INFORMAZIONEEVENTI E IDEE PER IL MONDO CHE VERRÀ.
Dove c’è umanità noi ci siamo. E tu?ve cc’è
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