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Quadrimestrale dell’AERCO Associazione Emiliano Romagnola Cori N° 1 Gennaio—Aprile 2009 Farcoro Tariffa Associazioni Senza Fini di Lucro “Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Bologna”

FARCORO, January 2009

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FARCORO is the official Magazine of the AERCO, the Emilia Romagna Choral Association. Editor: Andrea Angelini

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Quadrimestrale dell’AERCO

Associazione Emiliano Romagnola Cori

N° 1 Gennaio—Aprile 2009

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1 Editoriale di Andrea Angelini

2 DIDATTICA L’evoluzione nel canto popolare di Giacomo Monica

7 DIDATTICA Un coro di voci bianche oggi di Mario Pigazzini

10 DIDATTICA L’Eton Choirbook di Andrea Angelini

12 IN MEMORIAM Di Giorgio Piombini di Giuseppe Sitta, Davide Masarati e Pierpaolo Scattolin

16 IN MEMORIAM Di Giorgio Vacchi di Paolino da Bari e Pierfranco Pucci

19 TECNICA CORALE I Modi Gregoriani a cura della Schola Gregoriana Mediolanensis

26 CURIOSITA’ Stonati, provate a sdraiarvi e canterete come Bocelli di Mauro Uberti

28 I SONDAGGI Quale musica per la liturgia? a cura di Andrea Angelini

Farcoro – Indice

FARCORO Quadrimestrale dell’Aerco Associazione Emiliano Romagnola Cori Gennaio-Aprile 2009 Autorizzazione del Tribunale di Bologna N° 4530 del 24/02/1977 Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 Art. 1, comma 2 DCB, Bologna Direttore Responsabile Andrea Angelini Comitato di Redazione Fedele Fantuzzi Giacomo Monica Puccio Pucci Edo Mazzoni Loris Tamburini Matteo Unich Mario Pigazzini Grafica e impaginazione Andrea Angelini Sede Legale c/o Aerco – Via San Carlo 25/f 40121 Bologna Contatti Redazione: [email protected] +39 347 2573878

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FARCORO incontra il suo nuovo Direttore

La scorsa estate, quando il Segretario Puccio Pucci mi ha chiesto di diventare il nuovo Direttore della Rivista dell’Aerco, FARCORO, ho avvertito una sensazione di gioia ma anche di profonda

responsabilità: sarei subentrato a 2 musicisti, purtroppo recentemente scomparsi, autentici fari della coralità regionale. Mi riferisco agli illustri maestri Giorgio Vacchi e Giorgio Piombini che hanno fino a qui guidato la Rivista. Ogni nuovo compito racchiude comunque in sé il senso della sfida e della voglia di mettere a nudo le proprie capacità. Ho raccolto i pareri di amici e colleghi e ho pensato che si poteva fare. Vedremo se il tempo darà ragione a questa mia decisione.

Un nuovo direttore è chiamato anche a portare modifiche e trasformazioni. E’ così infatti che troverete tanti cambiamenti, a cominciare dalla copertina e dal formato. Ormai tutte le riviste hanno adottato un look accattivante, un qualcosa che attiri il lettore ad aprirne le pagine; la grafica della cover è stata ideata dal sottoscritto ed è stata approvata dalla Commissione Artistica. Spero che vi piaccia!

Naturalmente sono i contenuti che fanno piacevole ed interessante uno strumento di lavoro, quale vorrei considerare FARCORO. Prima di decidere quali sarebbero stati gli argomenti di volta in volta trattati, mi sono riletto la quasi totalità dei numeri precedenti ed ho avuto ancora modo di ammirare l’opera profusa da Vacchi e Piombini. Quanti articoli di estremo interesse per tutti noi, direttori e coristi, in questi anni! L’unica mancanza forse era la non omogeneità dei titoli all’interno di uno stesso numero. Ho così deciso, d’accordo con i miei collaboratori, di mantenere le stesse tematiche in tutti i numeri, allo scopo di creare un filo conduttore tra la Redazione e i lettori. Si darà spazio, in ogni edizione, alla didattica, il tema più

importante per far crescere la coralità amatoriale, alle partiture, in special modo a quelle di giovani compositori della Regione, corredate dalla presentazione di un piccolo curriculum personale e da una scheda nella quale il compositore spieghi scelta stilistica, condotta compositiva, soluzioni tecniche per la scelta dell’organico, lavoro di concertazione e chiavi di lettura interpretativa. Ancora, avremo in grande considerazione le opinioni dei lettori su temi che di volta in volta saranno presentati sulle pagine della Rivista. Spazio anche alle recensioni di CD o partiture particolarmente interessanti nell’ambito della musica corale. Anche la cronaca degli avvenimenti più importanti, corredata da una recensione critica, troverà la sua collocazione in ogni numero.

FARCORO non dovrà comunque divenire una replica di AERCONotizie, che viceversa si propone di informare i cori relativamente alle tematiche della vita associativa, con particolare attenzione agli aspetti fiscali ed alle decisioni degli Organi Direttivi. A fianco all’edizione cartacea sarà curata una versione elettronica per una sua più ampia diffusione tramite il nostro sito web e tramite l’invio ad una mailing-list selezionata.

Questo numero, invece, avrà una veste un po’ speciale, perché mi pareva fondamentale dare il giusto tributo ed onore ai 2 compianti musicisti. Nelle prossime pagine troverete alcuni articoli che spero aiutino tutti i lettori a comprendere l’importanza dell’opera musicale ed umana di Giorgio Vacchi e Giorgio Piombini.

Naturalmente FARCORO aspetta il contributo di tutti voi attraverso suggerimenti e proposte di pubblicazione.

Bologna, 10 Dicembre 2008

Andrea Angelini

[email protected]

Farcoro - editoriale

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L’evoluzione nel canto popolare di Giacomo Monica La storia della musica ci suggerisce con chiarezza come l'evoluzione nei generi e negli stili musicali sia avvenuta nel corso dei secoli in modo sistematico, progressivo, graduale e soprattutto concatenato, pur avvalendosi dei più diversi apporti geniali legati alla creatività, allo spazio immaginativo e a un intuito artistico straordinario che ha sempre contraddistinto i talenti geniali che nel tempo hanno dato vita alla storia della musica. Si pensi, solo per fare un esempio, al primo Beethoven ancora legato a Mozart o all'ultimo Beethoven già avviato al Romanticismo.

In questo lungo percorso a noi noto per tutte le innumerevoli documentazioni, dal gregoriano ai contemporanei, tutti i compositori si sono serviti di una specifica scrittura basata sulla notazione che, pur lasciando spazio alle più varie interpretazioni, filologiche o meno, resta da ben più di mille anni il cardine, il punto di riferimento scientifico dal quale ogni studio musicologico o interpretativo, per essere serio, deve partire.

Al contrario il canto popolare, espressione di un linguaggio fantasioso, semplice, ingenuo, spontaneo, immediato, "povero" ma altamente significativo, per secoli e secoli non è mai stato scritto lasciando al tramando orale tutta l'essenza del significato espressivo. Linguaggio che assimilato e sedimentato nel tempo attraverso varie forme aggregative è diventato tradizione. Linguaggio che non risente tanto dell'influenza delle epoche e dei corrispondenti stili, ma piuttosto assorbe gli inevitabili e continui microscopici cambiamenti legati ai luoghi d'importazione e di esportazione e delle caratteristiche intrinseche dei ceppi familiari diverse da luogo a luogo, che ne rimarcano l'unicità dei dialetti e degl' idiomi identificatori.

Il brusco e improvviso cambiamento avvenuto di fatto solamente in questi ultimi ottant'anni è stato determinato dalla registrazione, dalla scrittura e dall'armonizzazione che ne hanno modificato parzialmente la sostanza e l'autenticità, a tutto vantaggio però di un ritrovato rinnovamento che, per una maggior valorizzazione del canto popolare, si è adeguata al nostro tempo, dopo la scomparsa della civiltà contadina e dell'analfabetismo.

Le tantissime melodie tutte monodiche (l'armonizzazione è un procedimento colto estraneo all'autenticità) che compongono il nostro patrimonio collettivo di inestimabile valore, prima registrate e scritte poi armonizzate, hanno contribuito a imprimere un cambiamento di rotta netto diventando così repertorio e materiale di attrazione per la strutturazione a carattere stabile di tantissimi cori, a differenza delle precedenti spontanee aggregazioni dedite al canto.

Tenendo conto prima di tutto che scrivere su pentagramma una cultura mai scritta può essere estremamente riduttivo ma ora necessario, analizziamo partendo dalla radice dell'autenticità i metodi compositivi più utilizzati che rappresentano la nuova proposta del canto popolare, dalla prima SAT (con canti armonizzati a tre voci da A. Pedrotti) ai giorni nostri.

Scrivere di canto popolare resta di fatto un compito delicatissimo che investe, a mio modo di vedere, non solo la tecnica compositiva e la personale sensibilità, ma resta legittimato solo se l'aggiungere porta a un grado di maggior condivisione musicale e a nuove energie sonore lasciando inalterato il canto nel carattere e nella semplicità.

Questo, per me, vale anche nel caso della reinvenzione (canto d'ispirazione popolare, vedi ad esempio "Signore delle cime" di Bepi De Marzi) se destinata a divenire, per l'accoglienza e per la diffusione la tradizione di un domani.

Ecco i principali metodi compositivi espressi:

partendo dai

(1) gruppi spontanei, che rappresentano la radice e l'autenticità,

(2) armonizzazione,

(3) elaborazione,

(4) canto d'ispirazione popolare.

Farcoro – didattica 1

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GRUPPI SPONTANEI

Sentendo cantare i gruppi spontanei, e spesso in occasione particolari si possono ancora notare queste forme di aggregazione improvvisate, si intravede il contorno di un'esecuzione legata ad una prassi interpretativa pura, priva di qualsiasi regola fissa. Questa forma che potremmo definire (in senso positivo e pregevole) di "analfabetismo" musicale, nella piena libertà ritmica, in cui la ripetizione dello stesso brano non è mai rispettosa del rigore metrico, non avendo sostegno alcuna scrittura musicale, porta di volta in volta a costanti cambiamenti esecutivi ed interpretativi.

Nonostante il consolidamento di una prassi esecutiva ben precisa all'interno di ogni singolo gruppo, anche la dinamica può risultare del tutto casuale, variando a seconda del momento, del numero delle voci, del volume sonoro ed è soggetta ad "improvvisazione" con sfumature quasi sempre estemporanee.

L'uso abbondante e inconsapevole di fioriture e portamenti rientra perfettamente in un modo di cantare rustico, al di fuori di ogni impostazione vocale e mai artefatto. Questo ne rafforza l'espressività, l'efficacia, lo stile facendolo diventare un sistema codificato. Anche nell'esecuzione spontanea dei brani le voci si dividono con logica intuitiva così che il canto risulta a due voci, spesso con andamento parallelo ad intervalli di 3ª e raramente a tre voci di solito in chiusura.

In senso stretto, secondo un'ottica purista, con il repertorio e la proposta

interpretativa di questi gruppi si può teorizzare che essi sono l'ultima espressione del canto popolare, in quanto l'introduzione del processo di armonizzazione ed elaborazione altro non ha fatto se non alterare l'antica radice di quella spontaneità che ne costituisce l'essenza ed il colore.

Ogni intervento colto è infatti "distruttivo", semmai l'obiettivo dei processi di elaborazione può essere quello di far incontrare due culture e fonderle insieme. Questo modo resta l'unica vera armonizzazione; non si tratta tanto di tener vivo un linguaggio d'altri tempi, quanto di saperlo inserire nell'evoluzione naturale delle nostra società. 1. La pastora

E vagheggiando le rive del mare io mi incontrai una pastorella che l'attendeva i suoi pecorini sull' erba fresca e bella.

E di lì passò un bel cavaliere el ghe disse oh bella figlia tenda pure i tuoi bei pecorini che lupo te li piglia.

E c'al tira avanti signor cavaliere c'al tira avanti a la sicura se salta fuori il lupo dal bosco non avrò paura.

Salta fuori il lupo dal bosco con quella faccia d'arrabbiato el ghe prese il più bel pecorino che la pastora aveva. Che torna indietro signor cavaliere con la sua spada al fianco per avrir la pancia del lupo che il pecorin vien fora.

T ulì pastora il vostro pecorino e mettetelo poi nel branco, se io vi ho fatto un favor voi me ne farete un altro.

Che favor vuliv che vi faccia sono una povera villana e quando toso il più bel pecorin vi donerò la lana.

lo non faccio il mercante di lana nè di lino nè di stoffa, voglio solo un bacino d'amore dalla vostra santa bocca.

Ma io non posso baciarti d'amore che della gente ho paura e io ti bacerò questa sera al chiaror della luna.

Onesta Ugolotti lO agosto 1943.

Ricercatore: Giacomo Monica Informatore: Gruppo spontaneo Scurano Cantori: Ugo Garulli, Tullio Gelmini, Ettore Rivieri, Franco Corradi, Romano Padovani, Mauro Corradi, Paolo Laurenti, Severino Garulli, Giovanni Bonardi, Tommaso Mattioli, Giorgio Garulli, Mino Guerci, Enzo Rivieri, Ugo Zini, Don Elio Piazza. Luogo: Scurano (Neviano Arduini) Data: 15 marzo 1982 Sistema: scritto durante le prove di preparazione per le esecuzioni pubbliche in Rassegne corali a Neviano A., Langhirano, Scurano e altre ancora e riportato integralmente sul CD allegato al! volume.

Esempio stupendo di "canto libero': libero nella ritmica, nei punti di riposo, nell'espressione, nelle note e negli abbellimenti. E' letteralmente impossibile scriverlo correttamente in quanto l'esecuzione porta a continui cambiamenti. La scrittura musicale, riduttiva per natura, è solo una traccia e si sente nello scrivere che il canto la respinge. Sentire nell'esecuzione che il coro entra con decisione a metà parola, contrapponendosi al "solo': è abitudine consueta in tanti brani di questo genere ed è un'ulteriore conferma di pura autenticità.

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ARMONIZZAZIONI

La forma più semplice per arricchire una melodia con una veste armonica, composta da una sequenza di accordi che la rende più gradevole e ne arricchisce il contenuto espressivo, è l'armonizzazione. In essa quasi sempre non figurano giochi contrappuntistici, ricerche ritmiche, imitazioni, canoni, ardue modulazioni, fugati, effetti sincopati perché tipici di procedimenti compositivi più elaborati. L'impianto semplice e fondamentalmente accordale è sorretto dall'andamento omoritmico delle voci che evidenziano la punteggiatura, l'articolazione del testo e ne sottolineano la melodia.

Nella sostanza la melodia popolare armonizzata segue pari pari i criteri del corale luterano, la cui radice storica è del tutto simile: la melodia, spesso di carattere profano, col tempo si trasforma nel testo e si adegua alle esigenze del rito religioso (riforma luterana) e due secoli dopo viene armonizzata per coro da J. S. Bach che porterà questo modello ai massimi livelli, a tutt'oggi imitato.

Esempio con armonizzazione di Luigi Pigarelli Il testamento del capitano (dal Repertorio del Coro SAT di TN)

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ELABORAZIONE

Per elaborazione si intende un procedimento compositivo che, rispetto alla semplice armonizzazione, lascia maggior spazio alla fantasia e ne aumenta le possibili soluzioni. Spesso le caratteristiche della melodia o del frammento vengono unite a idee musicali personali con lo scopo di supportarsi a vicenda potenziandone il risultato. Sul piano strettamente tecnico-compositivo l'elaborazione (rispetto all'armonizzazione) prevede solitamente una scrittura molto più articolata, inserendovi motivi di imitazioni tematiche, passaggi del canto nelle parti gravi, modulazioni, giochi di voci in canone o addirittura piccoli fugati, spezzando così quella scrittura tipica dell'armonizzazione che vive fondamentalmente sulla omoritmia verticale delle voci. Questa scrittura più "mossa" offre inoltre l'opportunità di dare alle quattro parti una maggiore cantabilità e indipendenza nell'andamento melodico.

Esempio di elaborazione di Fedele Fantuzzi: Dimmi Armando (dal repertorio del Coro La Baita di Scandiano RE)

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CANTI D’ISPIRAZIONE POPOLARE Nel canto d'ispirazione popolare il musicista è l'autore della melodia, spesso anche delle parole e della conseguente elaborazione. In assenza del vincolo melodico e testuale tratta i brani con personale ispirazione pur ricalcando moduli e tematiche popolari, di fatto reinventandole.

La composizione libera e fantasiosa, per l'assoluta mancanza di condizionamenti preesistenti, si attiene comunque al rispetto della "forma" in cui la struttura si limita a due frasi musicali più o meno dilatate, contrapposte se necessario ad un ritornello.

Molte delle pagine corali oggigiorno, per il consenso pieno da parte degli esecutori e del pubblico, sono entrate nel solco della tradizione pur essendo d'autore. Pagine che non tradiscono affatto tutti quei caratteri peculiari di semplicità che contraddistinguono il canto popolare, ma al contrario lo valorizzano, lo rendono ancor più vivo permettendo ad ogni coro amatoriale (esperto in questo genere) di attingere ad un repertorio sempre più vasto. Solo per fare un paio di esempi, si pensi a "La montanara" (versi e musica di Toni Ortelli con armonizzazione di Pigarelli) o a gran parte dell'opera di Bepi De Marzi.

In questo percorso evolutivo siamo ben lontani da come i puristi del canto popolare vorrebbero conservare l'autenticità con tutti i connessi carismi, ma l'evoluzione nella composizione e nell'interpretazione è un processo irreversibile.

Per fortuna che nella musica restano sempre parole dal significato fondamentale e magico come la condivisione, il coinvolgimento, la carica emotiva, l'entusiasmo, l'energia e la bellezza estetica del canto che liberano da ogni pregiudizio il pensiero per diventare purezza musicale incontestabile.

Esempio di Canto di ispirazione popolare di Bepi De Marzi: Sanmatìo (dal repertorio del Coro I Crodaioli di Arzignano VI)

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Un Coro di Voci Bianche oggi di Mario Pigazzini

Raccontare la storia di un coro

Illustrare le formule didattiche

Presentare la metodologia dell’apprendimento musicale

Convincere i genitori dell’importanza di un’esperienza corale

Le Voci Bianche del Coro Farnesiano nascono nel 1976 per iniziativa del Maestro Roberto Goitre, allora docente presso il Conservatorio di Musica G. Nicolini di Piacenza. Qualche anno prima, nel 1972, il maestro Goitre aveva pubblicato il “Cantar leggendo” e da entusiasta voleva realizzare quanto aveva teorizzato.

Nacquero così i corsi di propedeutica musicale e poco dopo era pronto un coro di voci bianche. La formula didattica era quindi molto chiara: corsi di preparazione, selezione naturale o quasi, ingresso nel coro. Ma per reggere il grande avvicendarsi delle voci che nel corso di sette anni ( da 8 a 15 ) cambiano continuamente la compagine corale occorrevano, oltre che delle idee teoriche, dei risultati concreti, tangibili. Nel corso degli anni i corsi di propedeutica diventarono sempre più importanti ed articolati: si passò da un corso annuale a due anni di corso, poi a tre anni e infine ad una struttura che prevedeva un corso preparatorio per il terzo anno di Scuola Materna (5 anni) e tre anni di corsi propedeutici. Un progetto didattico di così lunga durata aveva bisogno di

un filo conduttore che portasse i bambini ad apprendere il linguaggio musicale proprio come una seconda lingua: la metodologia didattica del “Cantar leggendo” ! Il problema che si presentava nel X secolo a Guido d’Arezzo era quello di poter insegnare ai bambini, con un sistema semplice, a decifrare il linguaggio dei suoni e quindi cantare con facilità a prima vista canti mai uditi. Dopo quasi un millennio il problema si presentava così a Zoltan Kodaly: come poter leggere la musica in modo semplice che privilegiasse il suono alla cerebrale dizione parlata dei nomi. Zoltan Kodaly trovò nella pedagogia musicale di Guido la genuina radice di una didattica sicura e funzionale e sulla matrice guidoniana fondò la sua linea didattica. Roberto Goitre, quando in un suo viaggio in Ungheria si rese conto dei brillanti risultati di questo lavoro, non perse tempo: aveva trovato quanto da anni cercava, l’idea madre del suo progetto di alfabetizzazione musicale. Esaminò progetti e programmi della scuola ungherese e soprattutto studiò attentamente la metodologia di Kodaly e in modo particolare quella di Guido d’Arezzo. Nel 1972 era pronto il “Cantar leggendo” un libro appunto più da cantare che da leggere! Attorno a questo libro sono nati poi una serie di esercizi giornalieri, consigliati in parte nel libro stesso e in parte frutto dell’esperienza del Coro Farnesiano nel corso di questi anni, che rappresentano l’ossatura della pratica quotidiana del “Cantar leggendo”. Esaminiamo ora queste formule didattiche che permettono di sentire, riconoscere e riproporre il suono per poi avere un rapporto attivo nell’ambito della lettura cantata e cioè saper leggere la musica attraverso i segni, tenendo conto soprattutto del rapporto degli intervalli.

Le abilità di lettura e di canto vengono così supportate da una serie di esercizi che mirano a sviluppare in concreto le capacità personali del bambino.

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Analizziamo quindi ogni punto cercando di cogliere le motivazioni didattiche e le valenze metodologiche.

La lettura chironomica (lettura sulle dita della mano che indicano mimicamente le relazioni di intervallo) rappresenta la fase avanzata della capacità di memorizzare e ripetere un intervallo da qualsiasi punto della scala, portando il bambino ad una predisposizione alla relazione immediata e quindi quasi spontanea. La lettura chironomica si può realizzare ad una voce, a due e anche a tre voci. Naturalmente la difficoltà di esecuzione sarà soprattutto di coordinamento. Sempre con la lettura chironomica si può predisporre un vocalizzo estemporaneo come preparazione ad un canto e come esercizio di vocalità. La lettura chironomica con mutazioni rappresenta il momento più interessante della lettura con il sistema del do mobile; con la mutazione si ritorna all’antico: alla metodologia guidoniana. Con Guido d’Arezzo mutare significava utilizzare con perizia i tre esacordi naturale, molle e duro e quindi solmisare era la capacità di passare da un esacordo all’altro mediante la sostituzione delle sillabe. Oggi per noi mutare ha un significato molto più ampio poiché le tonalità e la modulazione hanno notevolmente arricchito le possibilità di mutare. Nella lettura chironomica la mutazione avviene dopo una precisa richiesta del maestro di mutare un suono dal nome x al nome y e quindi come effetto si produrrà una nuova concatenazione dell’intervallo

che prenderà come punto di partenza il nuovo nome. La mutazione quindi serve a poter identificare una relazione diversa in modo molto veloce, arrivando ad una elasticità mentale davvero notevole. La lettura chironomica con alterazioni. Alterare un suono significa innalzarlo con un diesis o abbassarlo con un bemolle. Con il do mobile ogni alterazione viene identificata con un nome, quindi i cinque diesis e i cinque bemolli hanno tutti un nome preciso: di ri fi si li e ta lo sa ma ra, desinenza -i per i diesis e desinenza -a per i bemolli. Unica eccezione il la che avendo già la desinenza a viene chiamato lo. L’utilizzo di nomi diversi per suoni diversi porta ad una maggiore possibilità di identificare il suono e ad una notevole precisione di intonazione. L’intervallo cromatico verrà indicato dal maestro con un solo dito invece delle due dita che indicano l’intervallo diatonico. Scale cromatiche. La scala cromatica è costruita ascendendo con i cinque diesis e discendendo con i cinque bemolli. Diremo quindi: do DI re RI mi fa FI sol SI la LI ti do do ti TA la LO sol SA fa mi MA re RA do Dopo una buona ripetizione sia ascendendo che discendendo, con particolare attenzione all’intonazione, si può procedere anche per terze a canone, quindi per moto contrario e con ritmi diversi. La lettura mentale è un esercizio fondamentale per l’affinamento dell’orecchio interno. Abituarsi ad immaginare i suoni significa acquisire capacità di controllo costante dell’intonazione e della relazione dei suoni stessi. E’ esattamente il contrario di chi si abitua a cantare ad orecchio. Nella pratica per lettura mentale si intende leggere sulle dita come nella normale lettura chironomica, ma ad un cenno del maestro, si sospende il canto per seguire mentalmente la concatenazione degli intervalli per poi dichiarare, ad un cenno del maestro, qual è il nome e l’intonazione dell’ultimo suono. Nella lettura mentale con mutazioni le cose si complicano un pochino poiché, oltre a seguire mentalmente le relazioni degli intervalli, bisogna anche mutare l’ambiente tonale e questo non è molto facile senza la possibilità di verificarlo in modo sonoro. L’esercizio porta ad una buona elasticità mentale molto utile al futuro musicista -cantore. Tutto si svolge come nella lettura mentale soltanto che la mutazione viene di volta in volta dichiarata a voce dal maestro. La lettura a tre parti parallele rappresenta un ulteriore affinamento delle capacità musicali. L’ orecchio interno, che ha già sviluppato con la lettura chironomica una buona capacità di controllo dell’intervallo, deve ora confrontarsi con le altre due voci che procedono sì per intervalli paralleli, ma partendo da punti diversi. Il maestro porta le tre voci ad una disposizione che ritiene opportuna al gruppo e con un gesto circolare indica l’inizio della lettura a parti parallele. Glissati. Nel percorso di educazione dell’orecchio trova spazio questo moderno esercizio di intonazione che non contempla la scomposizione di un intervallo per toni o semitoni, ma prende in esame solamente il punto di partenza e il punto di arrivo. Per realizzare l’intervallo il cantore dovrà raggiungere i due estremi come scivolando su di un tappeto sonoro. Chironomicamente il maestro,

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dopo aver stabilito l’intonazione di partenza, indicherà prima l’intervallo con le dita quindi muovendo la mano stabilirà la velocità di raggiungimento dell’intervallo stesso. Il canone: la formula didattica per eccellenza nell’insegnamento del canto corale, con la quale i compositori di ogni epoca si sono destreggiati nel predisporre formule per ogni tipo di difficoltà. Il canone estemporaneo che ci interessa in questa esposizione si realizza in due modi: uno ritmico ed uno melodico. Il canone ritmico viene proposto dal maestro utilizzando fonemi dei simboli musicali mentre il canone melodico viene proposto utilizzando le sillabe guidoniane. Nella pratica il maestro propone all’ascolto due misure e i bambini, sulla seconda misura proposta, devono già imitare la prima, mentre il maestro passa a proporre la successiva instaurando così un processo di ripetizione a distanza di una misura. Ciò implica quindi la capacità di ascoltare, pensare, memorizzare e ripetere allo stesso tempo. Nella proposta didattica è bene procedere per gradi di difficoltà: a) proposta di una cellula ritmica o melodica seguita da pause b) proposta di una cellula seguita da un valore lungo c) proposta di una cellula seguita che procede con andamento libero. Durante l’esecuzione se il gruppo dimostrasse difficoltà sarà cura del maestro ritornare alla formula più facile per poter procedere nel modo migliore.

Esercizio di riconoscimento di brevi frasi melodiche. Il maestro propone con la propria voce o con uno strumento una breve frase melodica: i bambini devono intuire l’ambito tonale e rispondere nel modo più naturale con il nome dei suoni. Dopo aver affermato varie situazioni melodiche in un ambito tonale è bene spostarsi in diversi ambiti tonali: l’orecchio si abituerà ad individuare le nuove strutture melodiche e a ricostruirne l’identità musicale. Esercizio mnemonico. La memoria è un sussidio importantissimo per il musicista che va continuamente allenato e sviluppato con ogni tipo di esercizio. Esempio: Il gioco dei colori come preparazione ai giochi musicali. Il maestro propone ai bambini due colori: rosso, giallo I bambini rispondono immediatamente: rosso, giallo Il maestro ripropone rosso, giallo e aggiunge verde, blu I bambini ripetono: rosso, giallo, verde, blu Il maestro continuerà a ripetere da capo e ad aggiungere due nuovi colori fino a quando sarà possibile. Chi sbaglia per primo avrà perso! E’ importante una proposta ed una ripetizione a cadenza ritmata. Con le cellule melodiche il procedimento è identico. Il piano vivente. Il principio del piano vivente è il seguente: ogni bambino deve compiere un determinato gesto, emettere un determinato suono, produrre un determinato rumore al cenno del maestro. lo scopo del piano vivente è di sviluppare le capacità di attenzione, concentrazione e prontezza di riflessi. Il piano vivente si può realizzare in tantissimi modi: con fonemi, con rumori, con suoni, in gruppi o affidando un compito ad ogni singolo bambino. La realizzazione: il maestro si comporterà come se suonasse un pianoforte vero, quindi dopo aver affidato i vari compiti indicherà in modo preciso un gruppo che risponderà al comando nel modo designato. Crescere con il canto, immersi nel mondo dei suoni, imparando ad usare lo strumento più bello e perfetto che la natura ci ha dato: non è una cosa straordinaria per un bambino?

Cosa può desiderare di più un genitore che vuole dare al proprio figlio delle possibilità di crescita? La musica è una grande arte; ma chiede molto: impegno costante, studio, prove, prove , prove…. quanta fatica!

Il segreto sta nel cambiare la fatica in gioco e per un bambino è molto facile.

Se si riesce a far cantare e suonare un bambino come se si trattasse di partecipare ad un bel gioco allora il gioco è fatto. Molti genitori vorrebbero capire subito se il proprio figlio è portato per la musica… forse per prima cosa dovrebbero osservare quanta voglia ha di fare musica.

Il coro è il miglior modo per avvicinarsi alla musica e per capire se è il caso o no di farla diventare una cosa molto importante nel proprio futuro.

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L’Eton Choirbook di Andrea Angelini Molti dei nostri lettori avranno sicuramente notato che la filigrana della copertina presenta una pagina musicale in notazione antica. Essa è stata tratta da uno dei libri corali più importanti dell’epoca rinascimentale: l’Eton Choirbook, il Libro Corale di Eton College, Windsor, Inghilterra. Questo libro che rappresenta la principale fonte della musica inglese del tardo XV secolo, è una splendida produzione con magnifiche capo lettere miniate ed un attraente uso di inchiostro rosso per la colorazione e per il testo delle sezioni solistiche. Misura 58,5 x 43 cm. ed ogni pentagramma è alto circa 2 cm. Con queste dimensioni il libro era largamente praticabile anche da un folto gruppo di cantanti che, come in uso allora, attorniava il libro posto su di un grande leggio. Il libro corrisponde alla descrizione trovata in un inventario del 1531 dello stesso Collegio di Eton che descrive “di un grande libro di canti il cui secondo foglio comincia con le parole tum cuncta”, perché appunto la seconda pagina del libro inizia con '-tum Cuncta' (da 'luctum / Cunctaque peccamina', parole usate da John Browne in O Maria Salvatoris Mater). E 'unico tra i manoscritti del tempo ancora conservati nella sua sede originale. Un indice posto alla fine elenca sessantuno antifone, e questo indubbiamente segna il completamento della prima parte del manoscritto. Le antifone sono raggruppate in base al numero di voci utilizzate: quelle con più parti vengono prima delle altre. Circa un terzo sono purtroppo mancanti o gravemente incomplete. Quelle superstiti devono essere state copiate dalla stessa persona principalmente, se non interamente, attorno al 1490: lo possiamo dedurre da un'iscrizione posta alla fine del brano O Domine coeli terraeque creator di Richard Davy. A conforto di quanto detto si può notare una 'O' miniata nella parte centrale dello stesso lavoro di Davy che contiene le braccia di Enrico Bost, prevosto di Eton, che morì nel 1502. Un indice all'inizio comprende cinque ulteriori antifone (di due delle quali sono sopravvissuti solo frammenti), ventiquattro Magnificat (quattro di questi completi e quattro parzialmente conservati), e la Passione di Richard Davy (assai incompleta). Le opere di questo gruppo sono state copiate dalla stessa mano di quelle del gruppo precedente e,

probabilmente, solo poco tempo dopo. Un Salve Regina a nove voci di Robert Wylkynson e uno Jesus autem transiens/Credo in unum Deum a tredici voci dello stesso autore, che non appaiono in indice e che probabilmente furono scritti in un secondo

O Maria Salvatoris, dall’Eton Choirbook momento da una mano assai meno elegante (forse proprio Wylkynson), sono stati quasi certamente inseriti tra il 1500 e il 1515 quando il loro compositore è stato anche “direttore” della Cappella di Eton. Sebbene ci siano gravi parti mancanti del manoscritto, ciò che rimane è sufficiente per dare una chiara visione sull’uso dell’Antifona devozionale e sul cosiddetto alternatim Magnificat negli ultimi venti o trenta anni del quindicesimo secolo. Senza tali opere non sapremmo nulla dei lavori di compositori come John Browne, non avremmo composizioni complete di Richard Davy e solo due pezzi di Walter Lambe.

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L’Eton Choirbook è di gran lunga la più importante delle poche fonti superstiti in lingua inglese; infatti il libro è considerato senza dubbio uno dei più grandi monumenti della musica inglese, di ogni epoca. Nell’ultima decade del XV secolo il manoscritto di Eton deve aver rappresentato il summit dell’attività musicale inglese ma d'altro canto non può essere stato solo l’isolato compimento di quello che oggi sembra apparire. I suoi compositori appartenevano ad una varietà di importanti istituzioni corali ed il tipo di brani su “larga scala” che l’Eton Choirbook contiene è sicuramente stato cantato, composto e copiato da molti di questi musicisti e sebbene non abbiamo altri grandi choirbooks prima dei manoscritti Lambeth e Caius (datati quindi 1510 o posteriori), ci sono pervenuti alcuni altri frammenti dello “stile di Eton”. Al British Museum, per esempio, sono esposti tre bifolia, da un piccolo choirbook, copiati all’incirca nel 1475, che contengono, oltre a brani di autori precedenti quali Plummer, Dunstable e Dufay (Caput Kyrie), frammenti di un Gaude flore virginali a 5 parti che ha molto in comune con la musica antica di Eton. Opere come le antifone e i Magnificat dell’Eton Choirbook sarebbero state oltre la reale possibilità esecutiva dei più piccoli e meno abili cori; alcuni di questi presumibilmente utilizzavano il repertorio conservato in fonti minori, quali i manoscritti di Pepys, Ritson e York. Le più importanti caratteristiche della musica di Eton sono la ricchezza e la brillantezza della sonorità (che non è stata mai riscontrata nella musica antica) oltre ad un’incredibile vitalità ritmica e varietà melodica. Analogamente vi si trova spesso una relazione abbastanza distante tra parole e musica. L'origine e la storia del magnifico stile Eton sono oscuri, a causa della scarsità delle fonti nel tardo quindicesimo secolo e per la mancanza di dati precisi sulla cronologia delle singole opere o sulla vita dei compositori. L'esistenza di alcuni ampi parallelismi tra l'evoluzione stilistica della musica dell’Europa continentale e quella in lingua inglese dopo Dunstable, in particolare per l'adozione della parte armonica del basso e per una maggiore complessità del ritmo e della struttura della frase, suggerisce che vi è stato qualche attraversamento del Canale della Manica, con scambio di idee, fino a

circa il 1450 ed anche oltre; musicisti come John Plummer († 1462) e Walter Frye († 1474) sono infatti citati nelle fonti inglesi e continentali. Ma è evidente dal carattere peculiare dello stile di Eton che dal 1470 circa la musica inglese si è sviluppata in “isolamento” rispetto alla florida attività di Francia e Fiandre. Infatti, è evidente che né l’Eton Choirbook né i libri minori contengano musica del continente europeo, ignorando così totalmente compositori come Ockeghem, Obrecht e Josquin. Gli ultimi brani di musica sacra stranieri che sono stati rintracciati in Inghilterra sono i frammenti della Missa Caput di Dufay (1440/50). Dal 1500, quando il choirbook è stata praticamente completato, la musica inglese è stata decisamente isolata e conservativa; a quel tempo, sul continente, Josquin Des Prez, pioniere del dilagante stile imitativo, era già nella sua mezza età. Venticinque compositori figurano nell’Eton choirbook. I maggiori e più fini contributi sono dati da John Browne, Walter Lambe e Richard Davy. Secondi in ordine di importanza sono William Cornysh, Robert Wylkynson, Robert Fayrfax e Horwood. La maggior parte di loro con solo uno o due brani inseriti. Veduta aerea dell’Eton College, Windsor

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In ricordo di Giorgio Piombini Giorgio Piombini: il ricordo di un Maestro a cura del prof. Giuseppe Sitta Ripercorrere la vita artistica e professionale di Giorgio Piombini non è facile, proprio perché questa è stata molto intensa e si è dipanata in campi diversi ma legati fra loro dalla musica. Indirizzato alla musica da Don Vincenzo Saltini a Carpi, compie gli studi musicali presso i Conservatori Musicali di Bologna e Verona. Successivamente trova nel Card. Giacomo Lercaro un convinto assertore del canto sacro nella nuova liturgia della Santa Messa. Il Cardinale lo chiama prima a far parte della Commissione per l’applicazione nella liturgia domenicale del nuovo Direttorio e a metà degli Anni Sessanta a formare e a dirigere il coro della Cattedrale di Bologna, il C.A.L.A.B. Giorgio saprà ripagare summa cum laude questi due grandi Uomini di Chiesa. E’ Maestro di Cappella nella Basilica di S. Luca, dal 1954 al 1962; nella Parrocchia di S. Anna a Bologna, dal 1963 al 1972; in Cattedrale a Bologna col

CALAB dal 1964 al 1975; della Cappella musicale di S. Biagio nella Collegiato di S. Biagio di Cento (Fe) dal 1970 al 2006; a Budrio (BO) dirige la Corale Bellini, dal 1976 al 1977; alla parrocchia dell’Immacolata di Bologna nel 1987 fonda

l’omonima Cappella Musicale. Tiene corsi di aggiornamento di musica e canto gregoriano per insegnanti, corsi di Musicologia per studenti italiani e stranieri; insegna all’Istituto diocesano di Musica Sacra di Modena; tiene corsi di Canto Gregoriano; trascrive musiche antiche; riordina gli Archivi Musicali della Collegiata di San Biagio di Cento e della Società corale “Euridice” di Bologna; è relatore a convegni sull’Iconografia musicale e sulla tutela del patrimonio bibliografico musicale. E’ Responsabile del Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna, (olim Civico Museo Bibliografico Musicale) dal 1976 al 1993. Qui Giorgio diventa per studiosi e ricercatori il punto di riferimento obbligato, sia per la sua conoscenza diretta dell’immenso tesoro librario/documentario, sia per la sua grande disponibilità umana e professionale. A questo proposito desidero ricordare la sua segnalazione che consente di scoprire e riconoscere in alcune composizioni musicali quelle che il Guercino affrescò tra il 1615 e il 1617 in una stanza dell’abitazione di Bartolomeo Pannini, a Cento (Fe) in Borgo di Mezzo, oggi Corso Guercino. Ma Giorgio non si accontenta di “aspettare le richieste” e vuole aprire al mondo questa struttura museale: propone, ad esempio, la trascrizione e pubblicazione di musiche inedite ivi conservate, a cura di giovani musicisti e ricercatori, per cui il Museo diventa centro propulsore di inediti e occasione per giovani interpreti di farsi conoscere: ricordo, tra gli altri, “Kyrie e Gloria alla Pastorale per la notte di Natale, per soli, coro e orchestra d’archi” di G.A. Riccieri, a cura di Giorgio Piombini, “Le Sonate per Organo” di G.B. Martini, a cura di Davide Masarati, ecc. Al suo deciso interessamento si deve l’attuale prestigiosa sede del Museo Internazionale della Musica di Bologna in Strada Maggiore 34. Liuwe Tamminga, concertista e organista di S. Petronio in Bologna, racconta che entrare in Biblioteca, per gli studiosi era come entrare in Paradiso. L’ambiente era accogliente, professionale ma umano, competenza e affabilità erano i tratti che apparivano subito allo studioso che veniva quasi coccolato in questo “Sancta Sanctorum” della musica. Pubblica per le Edizioni Fondazione Levi di Venezia, 1983, gli Indici della rivista “Note

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d’archivio per la storia musicale” 1924-43 con la premessa di Oscar Mischiati; per i tipi Eurarte, 2004, pubblica le “Composizioni inedite per Organo”di Enrico Drusiani, mentre nel 1987 aveva pubblicato su “L’Archiginnasio” “La prima dello Stabat Mater all’Archiginnasio”. Così lo ricorda Pier Paolo Scattolin: “(…) la sua casa era per lui uno strumento musicale, dove organo, clavicembalo, pianoforte si incrociavano in maniera raffinata e continua (…) era inseparabile dal Coro della Collegiata di San Biagio di Cento così come dal suo berretto da operaio della musica (…) la sua migliore azione didattica si esprimeva nell’andare incontro alle persone che studiavano musica partendo da posizione veramente umili; Giorgio si potrebbe definire il musicista ideale per coloro che in qualche maniera trovavano difficile il percorso accademico o per quelli che addirittura ne erano stati respinti (…), la ricerca e lo studio hanno sempre caratterizzato la sua azione, dall’attività di direttore di coro a quella di ripristino ad uso liturgico degli organi, allo studio musicologico del repertorio corale e della catalogazione (…)”. Non ha mai dimenticato le sue origini montanare: per questo ha saputo trasfondere nella musica un valore fondamentale della sua montagna, quello della continuità, per cui ha saputo “seminare”, mettere a dimora tante piantine, tra le quali una delle più belle è la Rassegna “Itinerari Organistici nella provincia di Bologna”. Da sempre aveva compreso che l’inesorabile avanzare della tecnologia e dell’elettronica avrebbe rischiato di confinare a ruolo di inutili cimeli questi tesori musicali unici ed irripetibili di storia, di cultura e di religiosità. Grazie anche al progressivo coinvolgimento in questa titanica impresa di Enti pubblici e privati, fra i quali la Provincia di Bologna, la Sovrintendenza ai Beni Culturali, il Gruppo di Studi Savena-Setta-Sambro, le Comunità parrocchiali, si è ottenuto dall’estate del 1986 in media, un restauro all’anno di organi presenti nelle chiese dell’Appennino bolognese. Ricordo a cura di Davide Masarati

Ho collaborato con Giorgio Piombini per venticinque anni e prima di me, per altri undici anni, mio padre. Trentasei anni di vita musicale, di rapporto entusiasticamente collaborativo: due organisti e un maestro del coro uniti da una costante e convinta dedizione al servizio musicale nella

liturgia, in un contesto, quello della Cappella Musicale di S. Biagio di Cento, straordinario per longevità e continuità (attività ininterrotta sin dal 1589). Visto il lungo periodo vissuto insieme nella appassionata attività musicale e soprattutto per la sincera amicizia e reciproca stima che ha sempre legato chi scrive e Giorgio Piombini, mi permetterò di chiamarlo per nome in questo breve resoconto e omaggio al suo lavoro e alle sue opere.

Succeduto a mio padre nella carica di organista titolare nel maggio del 1981, fui immediatamente coinvolto da Giorgio nell’arricchimento del repertorio della Cappella Musicale. La buona conoscenza da parte mia delle potenzialità dell’organo dei Fratelli Benedetti della Basilica e la condivisa volontà del maestro di evitare accuratamente le “pallide” composizioni liturgiche per organo e coro realizzate negli anni del post-concilio, caratterizzarono per tanti anni e caratterizzano tutt’ora l’azione musicale liturgica della Cappella di S. Biagio.

Giorgio ha compiuto una preziosa opera di ricerca, selezione e studio di decine di brani di autori quali Haendel, Bach, Haydn, Mozart, brani che ottimamente si prestano ai tempi e ai caratteri dei vari momenti della liturgia.

Terminata questa solitaria fase preparatoria, pazientemente iniziava il suo lavoro direttoriale con un coro formato perlopiù da cantori appassionati, senza particolari conoscenze musicali; contemporaneamente svolgeva un paziente lavoro di trascrizione della partitura orchestrale e di riduzione per l’organo. Giorgio in questo era davvero abile e i suoi lavori risultavano da subito di grande effetto e perfettamente rispondenti alle esigenze esecutive dell’organista. E fu così che la Cappella Musicale di S. Biagio si è distinta per un uso “orchestrale” dell’organo e tanti capolavori, tratti dalle opere sacre e dagli oratori dei più grandi compositori del barocco e del classico, accompagnarono innumerevoli momenti liturgici, con buona pace di Monsignor Baviera, il parroco di S. Biagio, fervente appassionato della musica dei grandi. Giorgio, appena ve n’era l’occasione e la sostenibilità economica, rispolverava la partitura orchestrale, impugnava la bacchetta e dirigeva col pieno organico, dando vita ad eventi indimenticabili, come nel 1989, quarto centenario della Cappella Musicale di S. Biagio con l’esecuzione della Messa del Riccieri, autore “riscoperto” e fatto rinascere dalla solerzia del nostro. Mi ci volle qualche anno per scoprire che Giorgio era diplomato sia in pianoforte che in clavicembalo: modestia di altri

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tempi che a volte mi parve quasi eccessiva. Ricordo che in occasione di un concerto c’era da accompagnare, al clavicembalo, un flautista. Giorgio cercò di smarcarsi chiedendo a me se ero disponibile, ma io gli dissi che tra i due era lui il diplomato in clavicembalo e così potei vederlo all’opera (l’unica volta) come esecutore e fui sorpreso non solo per l’impeccabile esecuzione, ma anche per la musicalità e la perfetta conoscenza delle prassi esecutive della musica antica. In un mondo dove conoscenze altolocate e curricula enciclopedici rappresentano comode chiavi di accesso ai ruoli che contano, Giorgio si destreggiava con saldo sapere musicale (pudicamente poco vantato), con virtuosa costanza nell’impegno, con una passione incrollabile per il repertorio storico del periodo “aureo” della musica sacra, quello che va da Palestrina a Mozart.

Come direttore di coro Giorgio era bravo e capace, poteva vantare un’esperienza di oltre mezzo secolo, vissuta presso le realtà corali più importanti della diocesi di Bologna e possedeva una conoscenza straordinaria della liturgia, che gli permetteva di guidare coro, organista e fedeli con precisione assoluta.

Lavorare insieme per tanti anni ci permise di superare anche la difficoltà logistica della distanza fisica del coro dall’organo, problema che ha indotto (ahinoi) molti parroci a realizzare consolle elettriche o ad acquistare organi elettronici e pianole da sistemare in mezzo ai coristi. Dopo un paio d’anni di rodaggio, l’intesa divenne davvero perfetta e questo ci permise di affrontare brani sempre più impegnativi: parti della messa in si minore di Bach, i mottetti di Mozart, ed alcune composizioni del repertorio del barocco bolognese.

Nel suo lavoro di bibliotecario del Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna, Giorgio fu punto di riferimento importante e spesso vitale per innumerevoli studiosi provenienti da tutto il mondo. Io stesso, allievo poi neo diplomato del Conservatorio Martini di Bologna, mi rivolsi a lui tante volte nelle azioni di ricerca e sempre ottenni risposte certe. Il suo lavoro, anche in questa attività, rivelò sempre una sano desiderio di migliorare, di rinnovare, di valorizzare, non per il desiderio di personale “visibilità”, ma con lo scopo di dare visibilità agli immensi valori librari posti sotto la sua responsabilità, e di coinvolgere e gratificare i suoi collaboratori che quotidianamente e con lo stesso

entusiasmo lavoravano nella storica sede di Piazza Rossini. Ricordo che Giorgio si muoveva tra le

migliaia di opere del CMBM con una sicurezza assoluta, andando a segno, in pochi minuti, anche nella ricerca più difficoltosa. Tanti sono i musicisti che hanno goduto della sua collaborazione e dei suoi ritrovamenti: musicologi, organisti, cembalisti, direttori di coro, filologi. Giorgio era fatto così, non serbava gelosamente le sue piccole o grandi scoperte ma amava condividerle e parlarne, certo di fare, innanzitutto, un doveroso servizio all’arte musicale.

La sua grande passione e l’ambito nel quale, a mio avviso, eccelleva era il canto gregoriano. Oltre a formare il coro “Angelica”, sempre nell’ambito delle attività della Cappella Musicale di S. Biagio, era sempre alla ricerca di nuove occasioni liturgiche per inserire antifone, responsorii, inni, sequenze, suggerendomi, a volte, di improvvisare nella prassi dell’alternanza. Anche in questa attività la conoscenza del latino unita ad un senso acutissimo dell’azione liturgica, hanno permesso a Giorgio di guidare coristi e organista in un percorso musicale tanto in voga in epoche passate e purtroppo così poco frequentato oggi.

L’amore per l’organo lo indusse ad azioni le più svariate: aiuto organaro nel ripristino dell’organo di Montorio, consulente preparato e convincente nelle azioni di restauro e valorizzazione di strumenti collocati, in taluni casi, in chiese sperdute nei posti più impensabili dell’Appennino, collaboratore generoso e disinteressato di molte parrocchie nella formazione di cori e di ripresa della prassi musicale con organo (a canne!), organizzatore infaticabile e direttore artistico per vent’anni della rassegna “Itinerari Organistici nell’Appennino Bolognese”. Molti sono gli strumenti storici “salvati” da questa sua opera meritoria e resa nel più autentico volontariato. Pianista, organista, cembalista, musicologo, liturgista, organizzatore, docente, ma soprattutto direttore di coro, tanti sono stati i ruoli che l’amico Giorgio sapeva interpretare con uno stile fatto non solo di professionalità e competenza, ma anche di disponibilità, generosità, lealtà, affidabilità, equilibrio.

Io lo ricordo col suo sorriso affabile, puntuale come un orologio, attendermi in sagrestia, prima di ogni esecuzione della Cappella Musicale di S. Biagio, con il programma musicale provvisto delle preziose istruzioni che ci permettevano sempre di svolgere al meglio due mestieri antichi e bellissimi, l’organista ed il maestro di cappella, e sempre ed esclusivamente “a maggior gloria di Dio”.

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Giorgio Piombini a cura di Pierpaolo Scattolin

Era l’uomo della pazienza, della comprensione verso l’altro, ma contemporaneamente aveva una precisa determinazione nel dirigersi verso gli obiettivi prestabiliti e si arrabbiava quando incrociava l’altezzosità e la presunzione. Lontano dai luoghi e dalle persone che contano aveva abbracciato la coralità al servizio della liturgia ma contemporaneamente come luogo dell’ incontro umano con un istintivo approccio didattica rivolta alla base. La sua casa era per lui uno strumento musicale, dove organo, clavicembalo e pianoforte si incrociavano in maniera raffinata e continua. L’idea che il compositore “locale” fosse un punto di riferimento musicale importante si è concretizzata nella ricerca sul Riccieri, indicando il radicamento nella cultura locale non come restrittivo punto di conservazione della tradizione ma come ricerca, come base per andare oltre. Inseparabile dal Coro della Collegiata S. Biagio di Cento come dal suo berretto da operaio della musica, in realtà si potrebbe definire un vero “gentleman”. Buongustaio, i nostri incontri spesso erano proprio nel momento conviviale, dove comunque si discuteva di musica e delle necessità culturali della comunità Montana da cui proveniva. Ricordo anche la sua autoironia e il suo spirito sportivo quando l’ho letteralmente “messo” per la prima volta sugli sci in Val d’Aosta. In campo professionale particolarmente significativa è stata la sua illuminata attività come bibliotecario del Civico

Museo Bibliografico Musicale di Bologna: ha saputo con pazienza e grande senso di responsabilità tessere il dialogo con studenti, docenti, ricercatori spesso provenienti dall’estero per favorire il loro approccio con problemi non solo di consultazione ma anche di indirizzo musicologico. Il rapporto fra la biblioteca del Conservatorio e quello del Museo Bibliografico non è stato sempre di piena collaborazione, ma frequentemente di carattere conflittuale: Giorgio si è sempre prodigato nel tenere aperto il sereno collegamento fra le due istituzioni. La sua grande trasparenza unita alla sincerità di rapporto era tesa a favorire ed orientare lo studioso, risolvendo i numerosi problemi legati alla ricerca musicologica. Del resto la ricerca e lo studio hanno sempre caratterizzato la sua azione, dall’attività di direttore di coro a quella del ripristino ad uso liturgico degli organi, allo studio musicologico del repertorio corale e della catalogazione. La sua individuazione nel canto gregoriano e nella polifonia classica non tanto della restaurazione del vecchio come idea

liturgica, bensì come convinzione dell’equilibrio tra il senso estetico della preghiera e la sua dimensione sonora. La musica come espressione ma anche come disciplina e partecipazione umana, come ricerca del bello che

discende dal divino, attraverso l’utilizzazione in chiesa della voce in coro e dello strumento principe, l’organo, che preferiva accordato in modo che il coro potesse cantare anche in tonalità lontane da quelle antiche: era il suo senso pratico a indirizzare sempre le sue scelte musicali. La sua migliore azione didattica si esprimeva nell’andare incontro alle persone che studiavano musica partendo da posizioni veramente umili: Giorgio si potrebbe definire il musicista ideale per coloro che in qualche maniera trovavano difficile il percorso accademico o per quelli che addirittura ne erano stati respinti. Punto di rifermento anche nell’Aerco (Associazione Emiliano-Romagnola Cori) di cui è stato

redattore dal 1989, contribuendo, a fare della rivista “Farcoro” e dei “Quaderni di Farcoro” uno strumento importante ed essenziale per la coralità regionale e nazionale.

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In ricordo di Giorgio Vacchi Ricordo di Giorgio a cura di Paolino da Bari (alias Paolo Edgardo Todesco) Il Presidente del coro Stelutis, l’inarrestabile Puccio Pucci, mi ha chiesto di buttare giù un pezzo in ricordo di Giorgio per il primo numero della rinnovata rivista Farcoro dell’AERCO e provo a scrivere qualcosa, attingendo dalla memoria degli innumerevoli momenti passati con Giorgio negli ultimi sessanta anni.

I miei primi ricordi su Giorgio risalgano al 1947-48, quando entrambi frequentavamo assiduamente il centro diocesano di Azione cattolica. In quegli anni, appena usciti dalla guerra e dalla distruzione di gente e città, a noi sembrava possibile creare un mondo nuovo di gente che si volesse bene e l’Azione cattolica sembrava ad entrambi il posto adatto. Io ero appena sfuggito alla persecuzione razziale per merito di numerosi preti che ci avevano ospitato e nascosto e Giorgio era reduce da un paese della bassa dove aveva sentito cantare in chiesa le vecchie con voci dure, a squarciagola, esperienza che ci sarebbe stata utile. Giorgio allora studiava pianoforte e spesso arrivava con degli spartiti in via Zamboni 22, dove c’era il centro diocesano, e c’era anche un pianoforte e si metteva a suonare in modo favoloso. Io lo guardavo e lo ascoltavo ammirato. A me sarebbe piaciuto molto suonare il pianoforte, cosa che non avevo potuto fare perché quando avevo raggiunto un’età adatta a suonare ero dovuto fuggire da Bologna e andare a nascondermi in collegi di orfanelli, ero una minaccia per il regime e dovevo essere eliminato se mi trovavano. E mentre Giorgio suonava io avevo un compito importante e difficile per uno che non sapeva leggere la musica, dovevo girare la pagina quando era il momento giusto. Lui mi faceva dei segni veloci mentre io cercavo di seguire la cascata di palline che corrispondevano sulla pagina alle note da suonare per essere pronto al momento giusto. Ricordo che era molto impegnativo, ma lo facevo volentieri perchè mi sembrava di essere una parte di Giorgio mentre suonava. Così con Giorgio avevo due cose in comune, la voglia di creare un mondo nuovo e la musica, due cose per me e per lui fondamentali. Qui cominciarono le prime discussioni. Giorgio mi spiegava che il musicista è un tecnico, deve eseguire un lavoro, deve suonare. E non può emozionarsi mentre suona, non deve commuoversi se no addio tecnica. E se si commettono errori di esecuzione bisogna tirare dritto, non ci si deve fermare e provare a fare di nuovo la cosa fino a che non riesca. Bisogna studiare molto, moltissimo fino a che i pezzi vengano bene, dal principio alla fine. Perchè chi ascolta si aspetta che tu vada avanti. Così comincia la mia educazione musicale con Giorgio. Lui però era di un’altra parrocchia, San Giuseppe e Ignazio, vicino a porta Castiglione, e lì, a sedici anni aveva creato un coro, il coro della parrocchia, si chiamava Stella alpina e cantavano le canzoni della

montagna, come usava allora, sulla scia del coro della SAT o il coro SOSAT che diverse volte venivano a cantare a Bologna in qualche sala di musica, come la Bossi, e noi a sentirli religiosamente. Perchè qualche beato aveva detto : “chi canta prega due volte” e questa frase per

noi era fondamentale; la preghiera e la musica per cambiare il mondo. E io ero molto deluso perché essendo di un’altra parrocchia non potevo cantare con Giorgio quelle meravigliose canzoni. Così quando Giorgio tornò a Bologna, dopo una delusione amorosa che lo aveva fatto partire in anticipo a fare il militare, come artigliere in Friuli, trovò un coro già pronto, derivante da una iniziativa diocesana del Cardinale Lercaro che voleva diffondere di nuovo la tradizione di fare cantare la gente durante le Messe, coro in cui noi della Maddalena e altri di parrocchie diverse avevano aderito in massa con l’impegno che quando Giorgio sarebbe

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tornato sarebbe stato lui il direttore. Cosa che successe, anche se Giorgio accettò di fare il direttore senza fare il coro diocesano che aveva in testa Lercaro; nacque il Coro Stelutis. E Giorgio tutto sommato non era contento di dovere cantare alla moda montanara, trentina o friulana, con le voci molto curate e con molti pianissimo, così diversi dal modo di cantare alla “boia di un giuda” che lui aveva sentito dalle vecchie della pianura e così diverso, anche da noi bolognesi e non trentini.. E così cominciò l’avventura della scoperta del modo di cantare alla emiliana, il vagabondare per i paesi della collina e della montagna emiliana con tanto di registratore, a fare cantare le vecchie signore di paese, depositarie della tradizione, a risvegliare la curiosità dei giovani per questi signori che venivano dalla pianura a registrare vecchie cante: allora voleva dire che erano cose di valore, da non perdere. E cominciarono a nascere nuovi ricercatori in tutta la montagna, che raccoglievano le vecchie cante e assieme, qui e là, nascevano nuovi cori e oggi l’Aerco ne ha più di duecento, nati spesso sotto la spinta di Giorgio e della sua passione, oltre che dalla sua tecnica. E molti ragazzi cominciarono a fare musica nelle scuole della montagna che avevano avuto la fortuna di avere Giorgio come insegnante di musica, in questo paese che della musica ne farebbe spesso e volentieri a meno. Oltre a questo Giorgio aveva un’ altra idea in testa che derivava dalla seconda passione comune, il desiderio di fare un mondo nuovo. Il Coro Stelutis infatti era diventata una comunità vera, di gente la più diversa possibile che copriva tutti i mestieri e che aveva in comune la voglia di cantare e di vivere assieme, non soltanto un coro di bravi coristi. E ricordo le discussioni che Giorgio faceva con Malatesta, il direttore del coro tre Pini di Padova. Malatesta avrebbe voluto in coro solo quelli avevano una voce e una intonazione perfetta. Giorgio invece voleva che tutti cantassero; la natura ci fa tutti diversi e fare coro voleva dire far cantare tutti assieme, anche gli stonati che a forza di cantare nello Stelutis sono diventati intonati. E noi più che essere un coro che canta canzoni popolari siamo diventati popolo che canta. Popolo che ha ricominciato a cantare invece che ascoltare canzonette e veline. E la fondazione della TÎZ, vecchio fienile ristrutturato con la sua sala per la musica e la stalla per le cene e il prato per le feste è diventato un polo di attrazione per attività comuni: è una vera comunità di gente diversa che lavora assieme, che canta assieme, che si diverte assieme, un anticipo di quel mondo nuovo che vogliamo creare da quando eravamo piccoli.

Nostalgia a cura di Pierfranco Pucci Vengo dall'ascolto di canti, presentati in più serate da cinque cori, due dei quali stranieri. L'aspetto organizzativo è ben curato. In particolare, all'ascoltatore viene offerta una documentazione, in italiano ed in inglese, che comprende programma, note biografiche di ciascun coro e del suo maestro. Ogni sera, all'inizio del concerto, dal presentatore alcune di tali informazioni sono riproposte al pubblico. Inoltre si richiede di riservare gli applausi alla fine della esecuzione dei canti. Nel corso di tali serate, un coro propone mescolanze di generi musicali, mentre su di un grande schermo si susseguono, in tema, immagini sfuocate. Un altro

coro sperimenta il canto spaziale, con gruppi di coristi posti ai quatto punti cardinali della stessa. Poi c'è il coro che sopporta il canto con il suono di strumenti ad hoc e con giochi di luce. Alla fine dei diversi concerti, il pubblico applaude e sembra apprezzare il lavoro di ricerca di questi cori e l'esigenza di fare spettacolo. Tuttavia, per il pubblico non è facile capire queste esecuzioni e provare naturali emozioni. Per quanto mi riguarda, proprio assistendo a tali concerti, ho sentito la nostalgia di quella commozione che sa infondere in me Giorgio con alcune delle canzoni eseguite dal suo coro Stelutis. Nei concerti del coro Stelutis, a cui ho di tanto in tanto assistito, c'è il maestro, Giorgio, che prima di ogni canto, ne spiega l'origine, il senso e la struttura musicale, precisando pure il ruolo delle

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diverse voci. Con quel suo modo insuperabile di colloquiare, diretto a ciascuno di noi presenti, Giorgio ci fa sentire un po' protagonisti della serata, ci prende per mano e diventa mediatore tra noi e la sua musica. A questo punto, i componenti del coro Stelutis sono chiamati a dare il meglio di se, in conformità agli elementi esposti da Giorgio. Ora, il canto prende a svolgersi, l'amalgama delle voci è mirabile. Pa me ascoltatore è di soddisfazione constatare di entrare subito in sintonia con la musica di Giorgio. Spesso mi è capitato che, in ascolto ad occhi chiusi, sono stato rapito dalla melodia, fino a raggiungere la commozione e, al termine del canto, dare sfogo al personale entusiasmo con calorosi applausi. Questo, per me, significa che il progetto musicale del Maestro ha raggiunto lo scopo e che il suo coro ha eseguito al meglio il canto. Quando la mente richiama la presenza di Giorgio, in me prende forma anche la nostalgia delle giornate trascorse in montagna, nell'ambito della cosiddetta "Settimana del Rifugio", a cui avevano accesso pure gli amici dei coristi.

Organizzata dal segretario, la "Settimana del Rifugio" (in genere la terza di luglio di ogni anno) vedeva coristi e amici invadere un rifugio alpino, scelto per l'occasione tra i più belli delle nostre montagne. L'iniziativa raggiungeva lo scopo di facilitare i rapporti interpersonali sia affrontando insieme salite, discese, ferrate e ghiacciai, sia consentendo il dialogo nei momenti di riposo. E Giorgio colloquiava con i coristi e con noi amici, sui temi più diversi, mettendo a disposizione di tutti la sua matura esperienza di vita. Dopo cena, coristi ed amici davano vita a concerti improvvisati, per soddisfare la gioia di cantare insieme ed allietare gli stessi ospiti del rifugio. Giorgio non assumeva la direzione delle operazioni, lasciava libero sfogo al canto e, con grande pazienza, sopportava la comparsa di qualche inevitabile nota stonata Gli ospiti del rifugio erano coinvolti in questo clima di sincera allegria e, riconoscenti, spesso "intimavano" ai coristi l'obbligo di brindare insieme con del vino, del migliore in dotazione. Sì, di tutto questo ho nostalgia Giorgio, grazie.

Vi ricordiamo che l’edizione elettronica di FARCORO è disponibile anche sul sito web dell’Associazione Emiliano Romagnoli Cori all’indirizzo

www.aerco.it

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I Modi Gregoriani a cura della Schola Gregoriana Mediolanensis I modi gregoriani furono utilizzati nel Medio Evo e nel Rinascimento. Durante il Rinascimento essi divennero progressivamente le nostre scale maggiore e minore. Il numero dei modi varia secondo il periodo temporale e la teorizzazione musicale, ma in generale si sono identificati otto modi. Ogni modo gregoriano ha una finale, una nota con la quale termina la melodia e sulla quale è basata. La sua funzione era simile a quella della tonica nella scala maggiore o minore. Inoltre i modi gregoriani hanno una dominante, o tonica, cioè una nota sulla quale c’è la maggiore insistenza nella melodia. Gli otto modi, octoechos, sono divisi in due categorie: modo autentico e modo plagale. Ogni modo plagale è associato con un modo autentico. Entrambi hanno la stessa nota finale. La differenza tra il modo autentico e il relativo plagale è nella nota dominante e nell’estensione della melodia. I modi plagali sono quelli con ambito melodico meno esteso e gradi più gravi. Con terminologia greca i modi vengono classificati in: - protus - deuterus - tritus - tetrardus La numerazione gregoriana assegna i numeri dispari I, III, V e VII ai modi autentici; i numeri pari II, IV, VI, VIII ai modi plagali. Il relativo modo plagale del modo autentico I è II, del III è IV, ecc.

Farcoro – Tecnica corale

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I modi esprimono sentimenti? Qualche autore ha preteso di attribuire a ciascun modo una specifica caratteristica espressiva di un determinato sentimento. Questa qualità è denominata “etica modale”. Guido d’Arezzo dice: “Il primo è grave, il secondo triste, il terzo mistico, il quarto armonioso, il quinto allegro, il sesto devoto, il settimo angelico e l’ottavo perfetto”. Adàn de Fulda così li commenta: “Il primo modo si presta a ogni sentimento, il secondo è adatto alle cose tristi, il terzo è veemente, il quarto è tenero, il quinto si addice agli

allegri, il sesto alle persone di provata pietà, il settimo attiene alla gioventù e l’ottavo alla saggezza”. Juan de Espinosa, autore del secolo XVI, commenta a sua volta: “Il primo è allegro e molto adatto per attenuare le passioni dell’animo …; grave e piangente il secondo, molto appropriato per provocare lacrime …; il terzo è molto efficace per incitare all’ira …; mentre il quarto prende in sé ogni gioia, incita ai diletti e calma la rabbia...; il quinto produce allegria e piacere a coloro che sono tristi …; lacrimoso e pietoso è il sesto …; piacere e tristezza si uniscono nel settimo …; per forza dev’essere molto allegro l’ottavo …”

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Spiritualità del canto gregoriano Il canto gregoriano è musica sacra. Esso ha spinto la consacrazione a Dio fino all’assoluto dei voti religiosi, e per questo la Chiesa romana l’ha proposto come modello supremo di ogni musica sacra. Esso presenta tutte le caratteristiche della consacrazione religiosa: è un canto povero, un canto casto ed obbediente. Povertà Innanzi tutto è un canto povero: ha rinunciato definitivamente ad arricchirsi. è sufficiente un colpo d’occhio per accorgersi della povertà, della limitatezza, della modestia dei suoi mezzi tecnici. Di fianco alle ricchezze rutilanti dell’orchestra e della polifonia, il canto gregoriano non avrà da offrire che una linea, una sola. Utilizza solo intervalli piccoli: la seconda, la terza; la quarta e la quinta sono già più rare, la sesta è quasi ignorata; l’ottava, sconosciuta nell’apogeo del gregoriano. Il canto gregoriano, che rinuncia a frazionare i toni in semitoni, rinuncia anche a dividere i tempi; il suo tempo primo, flessibile d’altronde come la sillaba latina, è indivisibile. Il suo ritmo ignora la misura isocrona, la quadratura, le simmetrie sistematiche che mettono ordine e chiarezza nella composizione classica, i tempi forti, la sincope, in breve, tutte le altre conquiste della musica posteriore. Nato povero e tale è rimasto. Ha fatto veramente voto solenne e perenne di povertà. L’armonizzazione strumentale di cui lo si riveste in maniera esagerata, con il pretesto di sostenere il canto, è un controsenso storico. Quanto ai tentativi di gregoriano polifonico, sono ridicoli, e non sono altro che l’opera di persone che non hanno una nozione molto precisa del canto gregoriano. Ma questa povertà, veramente evangelica, non ha nulla a che vedere con l’indigenza. Al canto gregoriano non manca nulla. Non è assolutamente insipido o inespressivo, tranne quando è male eseguito. Il vero povero evangelico è in realtà ricco di tutte le vere ricchezze. Possiede una natura umana sgombra, perfettamente libera dalle complicazioni e dal sovrappiù, che lo rende capace di gioire in pieno dell’unica cosa necessaria. Così è la linea gregoriana: semplice, elastica, libera nell’andamento, vivace nei movimenti, diretta all’essenziale, staccata dal superfluo, anche quando è lussureggiante di ornamenti. In una parola: bella, di tutta la bellezza franca e diretta di un’arte assolutamente padrona di sé. Castità In secondo luogo, la melodia gregoriana è casta. Ciò appare nel suo evitare accuratamente ogni civetteria

che attirerebbe l’attenzione su di sé, ogni sensualità, anche attenuata, ogni sentimentalismo e ogni manierismo dei mezzi espressivi, pur così ricchi di sensibilità. Essa ha mirato, e raggiunto, la massima trasparenza al messaggio spirituale di cui è portatrice. Non succede così anche sul piano umano? Non succede forse anche nell’esperienza quotidiana che più una persona è casta, al fine di riservarsi interamente e totalmente all’amore di Dio, più la presenza di Dio in lei è evidente, radiosa e quasi tangibile? Le anime più pure hanno una freschezza di sentimenti e una spontaneità squisite, che le rendono quasi diafane e permettono loro di rivelare esternamente la presenza intima di Dio. Così è per il canto gregoriano. Se gli capita di esprimere le passioni umane, e ciò succede spesso (amore, paura, speranza, fiducia, coraggio, tristezza, stanchezza, spavento, e altro ancora), come per incanto il canto gregoriano ne cancella il carattere passionale, indipendente e anarchico, per presentarle calmate, ordinate, dominate dall’immensa pace divina. Tutto ciò, beninteso, a condizione che l’interprete voglia entrare a sua volta nel gioco, che conosca lo spirito che anima l’opera che vuole esprimere. Se è una persona volgare, o che cerca solamente di mettersi in mostra, la purezza della cantilena ne sarà alterata, e verrà offuscata l’immagine dello specchio che doveva riflettere un altro mondo. Vedere Dio, e farlo vedere agli altri, è permesso solo ai puri di cuore. Disciplina esigente, certo, ma anche liberatrice. Come ha detto San Paolo, non vi è niente che divide quanto la preoccupazione, e talvolta il dovere, di piacere ad altri che a Dio. Liberata da questa tirannia, la melodia gregoriana, quale voluta di incenso, s’innalza leggera, flessibile, spontanea, più musicale che mai: ancora una volta, libertà e spiritualità vanno di pari passo. Obbedienza Infine l’obbedienza è forse l’aspetto più positivo della composizione gregoriana. Tutto il resto, povertà di mezzi tecnici, pudore d’espressione, poteva essere considerato come preparatorio. Nella via della rinuncia, mancava ancora l’essenziale. Il sacrificio più radicale che la Chiesa chiede alla musica, per renderla degna della fiducia accordatale, è di essere solo musica, di accettare il ruolo secondario di servitore del testo liturgico. Le melodie gregoriane infatti non esistono per se stesse; esse sono invece al servizio esclusivo del testo liturgico da cui sono nate, nell’atto stesso della preghiera ufficiale della Chiesa. Con una docilità meravigliosa, senza nulla perdere in freschezza e spontaneità, queste melodie si sottomettono effettivamente al testo. Ben lungi dall’essere

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soffocate, più sovente vi attingono ispirazione immediata, formando con questo un’unità paragonabile a quella di anima e corpo. Ed è precisamente questo servizio esclusivo che strappa definitivamente la melodia a se stessa, che la consacra, realizzando alla lettera la frase del Vangelo già citata: "Chi vuole diventare mio discepolo, rinunci a se stesso e mi segua". La melodia si fa dunque obbediente alla Parola di Dio: è Lui che in effetti ci ha fornito le formule di lode e di adorazione. La Chiesa riprende questi testi ispirati, li sceglie, li classifica, li mette insieme, li chiarisce a vicenda, operando così una sintesi meravigliosa tra Scrittura e Tradizione, componendo così il poema della Sacra Liturgia nel quale l’unità del piano divino e la grande storia della nostra salvezza si trovano descritti liricamente. Ogni testo delle scritture trova in questo insieme, anch’esso certamente ispirato, come una "canonicità secondaria", che lo rende per così dire due volte espressivo della verità divina. La melodia gregoriana che vi si unisce aggiunge lirismo ai testi, rendendoli più sensibili, più pienamente umani. Se non ne accresce il contenuto intelligibile, ne favorisce certamente la comprensione. Diffusione del canto gregoriano Con questo termine si comprende tutta la musica della Chiesa latina, ossia tanto quella nata prima di Gregorio Magno quanto quella composta fino agli albori del Rinascimento. Il canto gregoriano definisce il canto liturgico della Chiesa latina (distinto dal canto proprio degli altri riti: ambrosiano, mozarabico, greco, ecc.). I canti cristiani dei primi tre, quattro secoli, in lingua greca, risentirono di influssi delle religioni anteriori, come quella pagana orientale e quella ebraica. Vennero poi rinnovate nella pratica orale e nello spirito dai fedeli e dai sacerdoti. Nacque così la salmodia (canto sillabico recitato su un tono di lezione) espressa in forma antifonale (alterna fra due cori) e responsoriale (canto alterno del sacerdote e dei fedeli). Tra i canti antichissimi il Kyrie, il Gloria, l’Alleluia, il Sanctus, l’Agnus Dei. Nel IV secolo la Chiesa cominciò ad accogliere nella liturgia molti canti già divenuti patrimonio popolare. Uomini dotti e d’azione assecondavano da parte loro questa iniziativa: S. Agostino studiava filosoficamente De Musica e descriveva nelle Confessioni le emozioni della musica, S. Ambrogio esaltava la bellezza del canto sacro, offriva al popolo le melopee più semplici (inni ambrosiani) e fissava il rito lombardo che ancora oggi sopravvive. Durante le invasioni dei Goti e degli Ostrogoti l’Italia ebbe un periodo di miseria, e questo si ripercosse sul canto cristiano,

accresciuto comunque di nuove preghiere per feste speciali e santificazioni. All’inizio del Medioevo, durante la dominazione bizantina (553-568) ed oltre, nella storia della musica iniziò una fase di difesa della cultura, e con essa lo studio e la diffusione della musica: Cassiodoro, Boezio, Marziano Cappella, Isidoro di Siviglia. Nel 529 Benedetto da Norcia (480-543) fondava il monastero di Montecassino e nella sua regola prescriveva i canti claustrali. La musica, annoverata fra le arti del Quadrivio, era largamente onorata e meditata in ogni suo aspetto scientifico e spirituale. E’ questa un’epoca molto feconda di produzione liturgica. Accanto alle antiche, sorgono nuove preghiere che si arricchiscono di versi e di periodi musicali. Si giunge cosi alla figura di Gregorio Magno, pure benedettino, il più attivo organizzatore del canto liturgico, che doveva disciplinare questa parte della liturgia. Raggiunto il pontificato, Gregorio riordinò la Schola Cantorum romana, seminario di cantori ufficiali, e raccolse in un volume l’Antifonarius Cento, tutti i canti tramandati, aumentandoli e coordinandoli. Questo centone di preghiere, che andò distrutto nelle invasioni, probabilmente conteneva, oltre ai testi verbali, qualche annotazione musicale. Dalla schola romana partivano numerosi cantori per diffondere in tutto l’Occidente il canto gregoriano. Ma, da quest’opera di propaganda che incontrò a volte fiere opposizioni, nacquero forme e maniere di canti liturgici diversi, tollerati all’inizio perché sorti da tradizioni locali, quale il rito gallicano (Francia), il mozarabico (Spagna), l’anglicano (Britannia), Scuole analoghe a quella romana si aprirono presso le principali chiese e abbazie di Francia, Svizzera, Germania, divenendo culle di dotti musicisti e centri di irradiazione dell’arte gregoriana. Le principali scuole furono; Fulda, Soisson, Metz, Reichenau, San Gallo. A quest’epoca iniziò la ricerca di una più libera forma di composizione musicale e di uno sfogo fuori dai legami del testo sacro. Innovatore del canto gregoriano. sarebbe Notcker dell’abbazia di S. Gallo, che rese autonome le lunghe fioriture vocali della parola Alleluja, adattandovi sillabicamente nuovi testi. Tali canti alleluiatici o giubilazioni, detti sequenze, ebbero in un primo tempo il testo in prosa e più tardi (sec. XII) in versi, avvicinandosi sempre più all’inno. Le sequenza si diffusero rapidamente in tutto l’Occidente, dando luogo anche a numerosi canti religiosi non ufficiali e a fonie profane, quali le épitres farcies, divenute poi per abuso parodie comiche e satiriche del testo liturgico, molto gradite al popolo. Così, nel secolo IX ha inizio la storia della libera invenzione musicale.

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Quadro illustrativo dello sviluppo della notazione del canto piano

Per quanto riguarda la teoria musicale gregoriana, la sua origine sta in quella greca, con limiti e modificazioni. Dei tre generi (diatonico, enarmonico, cromatico) fu adottato solo il primo, come il più adatto per la sua austerità ad innalzare inni a Dio. Dei modi greci furono usati solo i fondamentali costruiti però sulla scala ascendente. La struttura melodica del canto gregoriano procedeva per gradi congiunti. Il ritmo si basava su quello della declamazione ed era perciò libero; la quadratura ritmica prevalse solo nell’innodia. Per la notazione musicale si conosce fino al ‘500 circa una tradizione esclusivamente orale; poi, con la fondazione delle Schole Cantorum, il libro cantorio si arricchì di segni che indicavano l’innalzamento, l’abbassamento della voce e le legature espressi dal maestro con movimento della mano (chironomia). In seguito ad imitazione della notazione greca, si usarono le lettere dall’alfabeto per indicare la successione dei suoni e la loro relativa distanza. Infine furono adoperati i neumi, speciali segni che costituiscono una specie di stenografia musicale, di origine greco bizantina e derivati dagli accenti, i quali, disposti sopra e sotto il rigo, rappresentavano l’ondulazione melodica della melopea dando il senso della direzione. La notazione neumatica si arricchì più tardi di una linea corredata da una lettera-chiave (C=do, F= fa) stabilendo così un preciso punto di

partenza e una maggiore sicurezza negli intervalli e nel rapporto tonale fra i suoni. Ha così inizio una notazione diastematica (diastema= intervallo). Un secondo, terzo e quarto rigo, aggiunti al primo, costituirono il tetragramma nel quale i neumi, perduti i tratti curvi e filiformi, si adattarono assumendo la forma di note nere e quadrate.

Esempio di scrittura a 2 voci (Sec. XIII)

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Il canto liturgico da Gregorio Magno alla nascita della polifonia Gregorio Magno, di famiglia senatoria romana, discendente dalla gens Anicia, dopo aver rivestito delle cariche pubbliche si ritirò a vita monastica. Rimase a Costantinopoli, come legato di papa Pelagio II presso l’imperatore d’Oriente, circa sei anni. Nel 590 fu eletto papa. Aiutò la popolazione romana durante la peste e anche quando essa era tormentata dalla fame. Difese i possedimenti pontifici dai Longobardi e nel 593 mosse contro Agilulfo che marciava verso Roma, riuscendo a salvare la città, ma impegnandola al versamento di 500 libbre d’oro all’anno alla monarchia longobarda. Favorì l’opera della cristianizzazione di questo popolo insieme alla regina Teodolinda. Curò l’amministrazione del popolo scegliendo i “rectores” fra i membri del clero romano, cercando di assicurare la giustizia e l’ordine. Egli riunì tutti i canti sacri in un grande libro: l’Antifonario, pretendendo che anche nell’Occidente fossero eseguite soltanto melodie gregoriane. Ordinò il canto liturgico romano che da lui prese il nome di gregoriano. Il suo svolgersi lento e calmo, quasi fuori dal tempo, invogliava i fedeli alla

contemplazione della grandezza divina e al distacco dalle cose terrene. Era per questo motivo a ritmo libero, le note si susseguivano senza il rigore delle stanghette, senza quindi essere suddivise in battute, per seguire fedelmente gli accenti del linguaggio parlato. L’assenza del ritmo è l’elemento più caratteristico del canto gregoriano. Tale assenza era dovuta alla convinzione che esso, appunto, fosse

strettamente legato alla quotidianità della vita terrena e perciò lontano dalla spiritualità. Inoltre era vocale, affidato rigorosamente alle sole voci, in quanto preghiera (Era uno scandalo in quei tempi fare entrare in chiesa uno strumento musicale!). Il testo era in latino. Il canto gregoriano è giunto fino ai nostri giorni, grazie ai centri di cultura musicale

che erano i monasteri, le abbazie e i conventi, soprattutto benedettini, dove le musiche venivano trascritte a mano dai monaci. Lo sviluppo del gregoriano fu favorito anche dalla formazione di una Schola Cantorum in Roma, frequentata per ben nove anni dai coristi, che imparavano a memoria tutte le partiture, dal momento che non esisteva la stampa musicale. I gesti della mano del direttore erano un valido sussidio mnemonico per orientare i cantori nell’apprendere le melodie. La loro collocazione era vicino l’altare, dove in piedi e in posizione eretta venivano eseguite le melodie sia a “dialogo”, fra un solista e il coro (canto responsoriale), sia “monodico”, da un solista o da un coro omofono (cioè tutte le voci cantavano la stessa melodia),o infine dal coro diviso in due parti (canto antifonale). Le varie forme del canto gregoriano erano: 1) Salmodico o accentus, tratto dai salmi (erano versi di lode a Dio tratti dalla Bibbia), la lettura era sillabica, una nota per ogni sillaba, cantata sempre dal celebrante sullo stesso tono (monotonale o canto piano). 2) Melismatico o concentus, era il canto vero e proprio che nacque come risposta all’accentus. Esso veniva eseguito dai fedeli o dalla Schola Cantorum. La melodia era ricca di melismi, ossia di tante note attorno ad una sola sillaba. Un esempio è l’alleluja sulle cui vocali ruotavano tante note.

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Stonati provate a sdraiarvi e canterete come Bocelli! di Mauro Uberti

"Io non m’intendo di musica perché sono stonato". È questa un'affermazione che accade di udire con frequenza quando, in incontri occasionali, di musica si viene a parlare. Eppure delle tre affermazioni - che il nostro interlocutore non s’intende di musica, che è stonato e che questa è la causa della sua ignoranza - è valida soltanto la prima: che il signore non s'intende di musica. Se egli, infatti, si stendesse a terra e, supino, provasse a cantare, dopo un ragionevole numero di tentativi scoprirebbe che il dominio della sua voce andrebbe decisamente migliorando… anche se, non per questo, apparirebbero migliorate le sue conoscenze musicali.

È opinione comune che la capacità di cantare correttamente una melodia sia una dote di tipo artistico, non molto diversa, in fondo, da quella di saperla ideare. Si tratta invece di un'attitudine fisiologica, strettamente legata al comportamento respiratorio e che ha in comune con l’arte molto meno di quanto solitamente si creda. Per rendersi conto del meccanismo che vi sta alla base, si prosegua la lettura di queste righe ad alta voce ponendosi un dito sul pomo d'Adamo.

Si avvertirà facilmente che, nel corso di una frase - cioè di un respiro - il pomo d'Adamo (ciò che sporge all'esterno della nostra laringe) risale compiendo un'escursione piuttosto ampia. Ciò è dovuto al fatto che, nel corso di un'espirazione, i polmoni vengono spinti verso l’alto e, con essi, la trachea e la laringe. In questa risalita sta la spiegazione della stonazione.

Come si sa la laringe è, anzitutto, la valvola esterna dei polmoni ed è costituita, da un sistema di occlusione, dato dalla contrazione attiva delle corde vocali e da uno di rinforzo, che incrementa la loro forza di chiusura. Semplificando molto le cose, si può dire che il sistema di chiusura, costituito dalla muscolatura interna della laringe, è quello che consente l'emissione delle note basse e medie, mentre quello di rinforzo, dato da un sistema a leva con muscolatura esterna, serve all'emissione di quelle acute.

Nel canto i due sistemi si integrano a vicenda, distribuendosi inoltre il compito della regolazione fine e di quella grossolana dell'altezza tonale della voce. I muscoli sternotiroidei - che ancorano la cartilagine tiroidea allo sterno e che si possono facilmente palpare al di sopra di quest'osso, ai due lati della trachea, atteggiando uno sbadiglio - tendono a trattenere questa cartilagine - cioè il pomo d'Adamo che abbiamo palpato - mentre tutta la laringe risale nel corso dell’espirazione. In questo modo le corde vocali vengono stirate e portate all'incirca alla tensione necessaria per ottenere le note volute mentre la loro contrazione attiva permette la regolazione fine dell'altezza tonale.

Ma che c'entra, allora, la respirazione? Centra col fatto che la situazione descritta - quella in cui i polmoni, nel corso dell'espirazione, vengono spinti sufficientemente in alto — è soltanto quella ideale. Nella realtà le cose non vanno sempre così. Il comportamento meccanico del nostro sistema respiratorio è molto simile a quello di un tubetto di dentifricio. Sia in un caso che nell'altro c’è qualcosa da far risalire verso l’alto: nel primo caso, la pasta

Farcoro – Curiosità

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dentifricia, nel secondo la massa dei visceri che, strizzati dalla cintura muscolare addominale, dovrebbero, comprimere i polmoni a mo' di pistone. Il modo più logico di spremere il dentifricio sarebbe quello di schiacciare il tubetto alla base, tuttavia la maggior parte delle persone lo strizza a metà.

Qualcosa di simile accade nella respirazione. Il comportamento ideale sarebbe quello di dare inizio alla contrazione della parete muscolare addominale incominciando dal basso, ma molte persone incominciano la loro espirazione strizzandosi all'altezza della bocca dello stomaco. In questo modo la forza espiratoria si divide in due rami: uno discendente che, paradossalmente, fa rigonfiare l'addome e l'altro ascendente che, però, non è più sufficiente a far compiere ai polmoni la corsa necessaria perché facciano da servo-motore alla laringe.

Di qui l'incapacità di emettere le note desiderate. In posizione supina, invece, la forza di gravità lavora a nostro vantaggio scaricando sul diaframma il peso dei visceri e facendo compiere ai polmoni - e quindi alla laringe - l'escursione necessaria a intonare correttamente le melodie.

In posizione supina la forza di gravità lavora a nostro favore e, facendo scivolare i visceri come su un piano inclinato, ne scarica il peso sul diaframma. Questo lavoro svolge funzione di servo motore nei confronti della laringe e anche le persone stonate riescono a migliorare la propria intonazione.

Nelle due illustrazioni: 1 – Vista anteriore e posteriore della laringe 2 – Sezione in corrispondenza delle corde vocali 1

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Quale musica per la liturgia? Le inchieste di FARCORO – a cura della Redazione La prima delle inchieste che FARCORO propone ai lettori offrirà sicuramente spunto per accesi dibattiti ed appassionate polemiche. Lungi da noi il proporre una soluzione che possa adattarsi ad ogni realtà! Ci sembrava comunque un tema appassionante per molti direttori e coristi, in special modo per coloro che, in virtù della loro attività musicale, si trovano continuamente a dover operare delle scelte e delle mediazioni tra quello che la normativa sulla musica sacra prevede, la loro formazione personale, la dignità della liturgia, il tipo di Assemblea partecipante e numerosi altri aspetti non meno importanti. Si è soliti adoperare una divisione di massima tra gli addetti ai lavori: ci sono coloro che rifuggono da ogni tipo di modernismo e propongono (o comunque lo vorrebbero) solo brani tratti dal repertorio gregoriano, polifonico classico e comunque brani accompagnati all’organo e coloro che, in maniera diametralmente opposta, hanno abbracciato unicamente quel repertorio post-conciliare che spesso prevede l’uso di altri strumenti, quali la chitarra e le percussioni. In mezzo, naturalmente, ci sta di tutto ma se si va a fondo sull’argomento ed alla fine il direttore è chiamato ad una scelta è facile allora vedere come il Concilio Vaticano II sia stato un elemento di frattura, piuttosto che di opportunità per i cori che svolgono servizio liturgico. Allo scopo di offrire spunti di riflessione ai colleghi ed amici, dai quali poi attendiamo pensieri da pubblicare, ci è piaciuto riportare le idee sulla materia di due figure portanti nel panorama della musica sacra italiana, che d’impatto sembrerebbero stare agli antipodi fra di loro ma che invece, se si va a leggere bene tra le righe, sono più vicini di quanto possa apparire. Si tratta di Monsignor Domenico Bartolucci, direttore perpetuo della Cappella Sistina e di Monsignor Marco Frisina, direttore della Pontificia Cappella Musicale Lateranense. Potete indirizzare le vostre meditazioni a [email protected]. Vi auguriamo una buona lettura scevra da ogni preconcetto.

Ho fatto un sogno: è risorta la musica di Palestrina e Gregorio Magno

ROMA, 21 luglio 2006 – Il concerto diretto nella Cappella Sistina a fine giugno dal maestro Domenico Bartolucci, in onore e alla presenza di Benedetto XVI, ha sicuramente segnato un punto di svolta, nella disputa sul ruolo che la musica ha e avrà nella liturgia cattolica. Ma questo punto di svolta è per ora solo simbolico. Il nuovo tragitto è autorevolmente segnato. “Un autentico aggiornamento della musica sacra non può avvenire che nel solco della grande tradizione del passato, del canto

gregoriano e della polifonia sacra”, disse in quell’occasione Benedetto XVI. Un papa di cui “tutti conoscono l’amore grandissimo per la liturgia e quindi per la musica sacra”, aveva sottolineato Bartolucci nel suo saluto. Ma il traguardo appare

ancora molto lontano. Delle sventure che si sono abbattute sulla musica liturgica nell’ultimo mezzo secolo, il novantenne Bartolucci è un testimone di prim’ordine. Grandissimo interprete del gregoriano e della polifonia di Giovanni Pierluigi da Palestrina, e nello stesso tempo vittima del loro quasi azzeramento. Quando la curia di Giovanni Paolo II ordì e attuò l’estromissione di Bartolucci da direttore del coro papale della Cappella Sistina, solo Joseph Ratzinger, allora cardinale, fu dalla sua parte. Ora che Ratzinger è divenuto papa, le chance che si inverta il corso della storia e che il gregoriano e la polifonia ritrovino centralità nella Chiesa sono reali. Ma nè Benedetto XVI nè Bartolucci sono così ingenui da non percepire l’estrema difficoltà dell’impresa. Perchè la Chiesa torni ad attingere al tesoro della sua grande musica sacra occorre infatti una formidabile opera di rieducazione, liturgica prima ancora che musicale. È quello che Bartolucci fa capire nell’intervista da lui rilasciata a “L’espresso” n. 29, 2006, e riprodotta integralmente qui sotto. In essa egli dice tra l’altro: “Io sono ottimista per volontà, ma giudico la situazione attuale realisticamente, e credo che un Napoleone senza generali possa far poco”. Che Benedetto XVI sia in questo campo un “Napoleone senza generali” lo si è visto, ad esempio, nella veglia e nella messa da lui presiedute e celebrate a Valencia lo scorso 8-9 luglio, organizzate dal pontificio consiglio per la famiglia e dalla conferenza episcopale spagnola. La veglia seguiva pedissequamente i canoni degli show televisivi, con presentatori, ospiti, comici, cantanti e ballerini. Mentre la messa, nei suoi canti, riproduceva lo stile “popolare” invalso durante il

Farcoro – I Sondaggi

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pontificato di Giovanni Paolo II: stile impietosamente descritto e giudicato da Bartolucci nell’intervista che segue. Ecco dunque la fiammeggiante intervista, raccolta e trascritta dall’esperto di musica classica del settimanale “L’espresso”, Riccardo Lenzi: Quando il cantore era come un sacerdote, Intervista con Domenico Bartolucci” D. – Maestro Bartolucci, ben sei papi hanno assistito ai suoi concerti. In quale di loro ha trovato maggior sapienza musicale? R. – Nell'ultimo, Benedetto XVI. Suona il pianoforte, è un profondo conoscitore di Mozart, ama la liturgia della Chiesa e di conseguenza tiene in somma considerazione la musica. Anche Pio XII l’amava molto e spesso suonava il violino. La Cappella Sistina deve poi moltissimo a Giovanni XXIII. Da lui nel 1959 ebbi l’approvazione per il progetto di ricostituzione della Sistina che purtroppo, anche a causa della malattia del precedente direttore Lorenzo Perosi, era in condizioni precarie: non aveva più un organico stabile, un archivio musicale, né una sede. Allora si ottenne la sede, si congedarono i falsettisti e si definì l’organico dei cantori con i relativi stipendi; finalmente si poté anche istituire la scuola dei ragazzi. Poi venne Paolo VI, ma lui era stonato e non so quanto apprezzasse la musica. D. – Perosi, il cosiddetto rifondatore dell’oratorio italiano? R. – Perosi era un autentico musicista, un uomo impastato di musica. Ebbe la fortuna di dirigere la Sistina ai tempi del Motu Proprio sulla musica sacra che voleva giustamente purificarla dal teatralismo di cui si era imbevuta. Poteva dare un nuovo impulso alla musica di Chiesa, ma purtroppo non aveva una conoscenza adeguata della polifonia palestriniana e delle tradizioni sistine. Del canto gregoriano poi affidò la direzione al vice maestro! Le sue composizioni liturgiche spesso sono state d’esempio per lo stile superficiale del cecilianesimo, lontano da quella perfetta fusione tra testo e musica. D. – Perosi faceva il verso a Puccini... R. – Ma il lucchese era un uomo intelligente. E poi i suoi “fugati” erano ben superiori a quelli del tortonese. D. – In qualche maniera Perosi è stato l'antesignano dell’attuale volgarizzazione della musica sacra? R. – Non proprio. Oggi nelle chiese sono di moda le canzonette e lo strimpellio delle chitarre, ma la colpa è soprattutto delle idee sbagliate di pseudo intellettuali che hanno creato questa degenerazione della liturgia e quindi della musica, travolgendo e disprezzando l’eredità del passato e credendo di ottenere chissà quale bene per la gente. Se l'arte della musica non torna alla grande arte, non ad un accomodamento o a un sottoprodotto, non ha alcun senso interrogarsi sulla sua funzione per la Chiesa. Io sono contro le chitarre, ma anche contro la faciloneria della musica ceciliana: più o meno è la stessa zuppa! Il nostro motto deve essere: torniamo al canto gregoriano e alla polifonia palestriniana e proseguiamo su questa strada! D. – Quali sono le iniziative che Benedetto XVI dovrebbe prendere per realizzare questo disegno, in un mondo fatto di discoteche e ipod? R. – Il grande repertorio di musica sacra che ci è stato consegnato dal passato è costituito dalle messe, dagli offertori, dai responsori: prima non esisteva liturgia senza musica. Oggi colla nuova liturgia questo repertorio non ha più spazio, è una stonatura, inutile illudersi. È come se Michelangelo per il giudizio universale avesse avuto a disposizione un francobollo! Mi dica lei come è possibile oggi eseguire un Gloria o addirittura un Credo. Per prima cosa dovremmo tornare, almeno per le messe solenni e per le feste, a una liturgia che dia spazio alla musica e che si esprima nella lingua universale della Chiesa, il latino. In Sistina, dopo la riforma liturgica, ho potuto mantenere vivo il repertorio tradizionale della Cappella solo nei concerti. Pensi che la Missa Papae Marcelli di Palestrina non si canta più in San Pietro dai tempi di papa Giovanni! Ci fu concesso benignamente di eseguirla per l’anno palestriniano e la

volevano senza il Credo, ma quella volta fui irremovibile e si eseguì tutta. D. – Pensa che l'assemblea dei fedeli dovrebbe partecipare cantando in gregoriano alla celebrazione dei riti? R. – Sull’esecuzione del canto gregoriano bisogna fare delle distinzioni. Una parte del repertorio, ad esempio gli introiti o gli offertori, richiede un’arte raffinatissima che può essere interpretata compiutamente solo da veri artisti. C’è poi anche un repertorio cantato dal popolo: penso alla messa “degli Angeli”, alle musiche processionali, agli inni. Era commovente il canto popolare del Te Deum, del Magnificat, delle litanie, musiche che la gente aveva assimilato e fatto sue, ma oggi anche di questo è rimasto ben poco. Inoltre il gregoriano è stato falsato dalla teoria ritmica ed estetica dei benedettini di Solesmes. Il canto gregoriano è nato nei secoli di ferro, deve essere virile e forte, altro che le dolcezze e i comodi adattamenti dei giorni nostri. D. – Pensa che le tradizioni musicali del passato si stiano estinguendo? R. – Cosa vuole: se non c'è la continuità che le mantiene vive sono destinate all’oblio e l’attuale liturgia di certo non le favorisce... Io sono ottimista per volontà, ma giudico la situazione attuale realisticamente, e credo che un Napoleone senza generali possa far poco. Oggi il motto è “andare al popolo, guardarlo negli occhi”, ma sono tutte storie! Facendo così finiamo per celebrare noi stessi: il mistero e la bellezza di Dio sono allontanati. In realtà assistiamo alla decadenza dell'Occidente. Un vescovo africano una volta mi disse: “Speriamo che il concilio non ci tolga il latino dalla liturgia, altrimenti nel mio paese prevarrà una babele di dialetti”. D. – Giovanni Paolo II è stato un po' accomodante su questi temi? R. – Nonostante diversi richiami, nel suo pontificato si è consolidata la crisi della liturgia. A volte proprio le celebrazioni papali hanno contribuito ad affermare questo nuovo indirizzo con balli, balletti e tam tam. Una volta andai via dicendo: “Mi richiamate quando è finito lo spettacolo!” Capisce bene che se da San Pietro danno questi esempi, i richiami e i lamenti non servono a niente. Io di questo ho sempre protestato. E anche se mi hanno buttato fuori con la scusa degli 80 anni, non me ne pento. D. – Cosa voleva dire, una volta, cantare nella Cappella Sistina? R. – Il luogo e il coro erano un tutt'uno, così com'erano un tutt'uno la musica e la liturgia. La musica non era un semplice ornamento, ma dava vita al testo liturgico e il cantore era come un sacerdote. D. – Ma oggi si può comporre proseguendo lo stile gregoriano? R. – Bisognerebbe ritrovare quello spirito, intanto, di solidità. Ma la Chiesa ha fatto l'opposto favorendo motivi facili, orecchiabili, canzonettistici. Così credeva di piacere alla gente, e ha proseguito per questa strada. Ma l'arte non è questo. La grande arte è densità. D. – Non vede qualche compositore, oggi, in grado di resuscitare una tale tradizione? R. – Non è una questione d'ingegno: non c'è più l'ambiente. La colpa non è dei musicisti, ma di quello che si richiede loro. D. – Eppure i monaci di Santo Domingo de Silos, con il gregoriano, hanno venduto milioni di dischi. Similmente la Terza sinfonia di Henryk Gorecki con le sue suggestioni medioevali... R. – Fenomeni consumistici che m'interessano poco. D. – Ma ci sono compositori autorevoli che hanno messo la fede al primo posto, come Pärt o Penderecki... R. – A loro manca il senso liturgico. Anche Mozart è grande, ma dubito che la sua musica sacra stia tanto a suo agio in una cattedrale. Il canto gregoriano e Palestrina invece sono un tutt'uno con la liturgia. D. – Nelle lettere di Mozart in effetti non traspare un gran sentimento religioso. Eppure, nell'“et incarnatus est” della sua Messa in do minore, quel farsi voce di soprano degli strumenti a fiato ci spiega perfettamente il mistero dell'incarnazione...

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R. – Non dimentichi che il padre di Mozart era maestro di cappella. Quindi, volente o nolente, respirò a pieni polmoni l'aria della Chiesa. C'è sempre qualcosa di concreto, soprattutto nella biografia giovanile di un uomo, a spiegare tali profondità spirituali. Pensi a Verdi che da ragazzo ebbe come primo maestro un prete e suonava l'organo a messa. D. – Lei si sente un po' solo, senza eredi? R. – Non c'è più nessuno. Mi ritengo l'ultimo maestro di cappella. D. – Ma a Lipsia, alla chiesa di San Tommaso, c'è il sedicesimo Kantor dai tempi di Bach... R. – In Germania, in campo protestante, i figli del compositore dei brandeburghesi salvaguardano gelosamente la loro identità. Disse giustamente Verdi che i tedeschi sono figli fedeli di Bach, mentre noi italiani siamo figli degeneri di Palestrina. D. – A proposito di Verdi, la grande musica sacra non sempre è compatibile con la liturgia… R. – Certamente. La Messa da Requiem di Verdi non può dirsi una messa adatta alla liturgia, ma pensi con quale potenza penetra il senso del testo! Anche Beethoven: ascolti l'attacco del Credo. Altro che il movimento ceciliano. Sono quei capolavori di musica sacra che hanno il loro giusto spazio nelle esecuzioni concertistiche. D. – Anche Bruckner era molto ispirato... R. – Ha il difetto di essere prolisso. La Messa con gli strumenti a fiato, quella in mi minore, è assai noiosa. D. – Aveva ragione Mahler a dire che era “mezzo dio e mezzo babbeo”? R. – È così. Aveva dei momenti straordinari, ad esempio quando trattava gli archi con grande sapienza. Ma poi cominciava a strombettare e allora... D. – E Mahler le piace? R. – Come il precedente. Momenti belli, ma assai ripetitivo. Verrebbe da gridargli a un certo punto: taglia, abbiamo capito! D. – Secondo Ratzinger c'è la musica come fenomeno di massa, pop, che si misura sui valori del mercato. E quella colta, cerebrale, destinata a una piccola élite.. R. – È la musica dei moderni, da Schönberg in poi, ma la musica sacra deve proseguire lo spirito del canto gregoriano e

rispettare la liturgia. Il cantore in chiesa non fa l’artista, fa il predicatore, ovvero predica cantando. D. – Lei invidia un po’ le Chiese orientali? R. – Giustamente non hanno cambiato niente. La Chiesa cattolica ha rinunciato a se stessa e alla propria fisionomia, come quelle donne che si fanno la plastica facciale: poi non si riconoscono più e qualche volta gliene derivano anche serie conseguenze. D. – Fu suo padre ad avvicinarla alla musica? R. – Era un operaio di una fabbrica di laterizi a Borgo San Lorenzo in provincia di Firenze. Amava cantare in chiesa. E le romanze di Verdi e di Donizetti. Ma allora cantavano tutti: i contadini mentre potavano le viti, il calzolaio mentre rifiniva le suole. C'erano le bande in piazza, durante le feste arrivavano le guide musicali da Firenze e il teatro del paese aveva due stagioni d’opera all’anno. È tutto finito. D. – In Italia i governi hanno pure tagliato i finanziamenti a orchestre e teatri... R. – Hanno fatto bene. Negli enti c’è troppa gente che vegeta. Prenda ad esempio gli uffici amministrativi: prima c'erano quattro o cinque persone, adesso sono venti-venticinque. D. – In che senso Palestrina, Lasso o Victoria possono considerarsi attuali? R. – Per la loro densità musicale. Palestrina è il primo patriarca che ha capito che cosa vuol dire far musica; lui ha intuito la necessità di una scrittura contrappuntistica vincolata dal testo, aliena dalla complessità e dai canoni della scrittura fiamminga. D. – Per il filosofo Schopenhauer la musica è il culmine di tutte le arti, oggettivazione immediata della Volontà. Per i cattolici può definirsi espressione diretta di Dio, quanto il Verbo? R. – La musica è arte con la “a” maiuscola. La scultura ha il marmo, l'architettura l'edificio... La musica la vedi solo con gli occhi dello spirito, ti entra dentro. E la Chiesa ha il merito di averla coltivata nelle sue cantorie, di averle dato la grammatica e la sintassi. La musica è l'anima della parola che diventa arte. In definitiva, ti dispone a scoprire e accogliere la bellezza di Dio. Per questo più che mai oggi la Chiesa deve sapersene riappropriare.

Musica per la liturgia fra tradizione e novità Relazione di M°. Mons. Marco Frisina tenuta a Bologna il 20/11/2005 L’argomento mi pare molto bello, perché è una cosa che mi è stata a cuore da sempre, da quando cominciai a scrivere proprio i canti per la liturgia. Il primo canto in assoluto che scrissi, prima che entrassi in Seminario, Benedici Signore…è del 1977, quando tanti di voi non erano ancora nati. E quei canti nacquero proprio per una esigenza pratica. Io mi stavo diplomando (mi sono diplomato in composizione nel ’79 a Roma), e mi avvicinai al Seminario nel penultimo anno di studi musicali, credendo, probabilmente, di non scrivere più musica. Pensavo così: quando si fanno certe scelte si è un po’ radicali interiormente, per cui uno non pensa a tante cose che potrebbero anche essere utili. Entrando in Seminario il Rettore di allora, Mons. Romano, mi chiese, per il Seminario, i primi canti. E allora cominciò questa avventura. Mio malgrado a dire la verità, perché io pensavo che se dovevo scrivere musica, doveva essere musica sacra di un certo tipo, diciamo anche di una certa elevatezza. Venivo dal Conservatorio, dopo aver fatto tante fatiche (io pensavo dentro di me), quindi volevo dare soddisfazione al mio desiderio di far vedere quanto valessi. Queste cose da giovani (avevo allora 23 anni), ce le portiamo dentro: adesso ci posso sorridere, ma allora non era così facile. Ma il Rettore, Mons. Mangano, ora Arcivescovo di Cagliari, era

molto sicuro, molto deciso nelle sue richieste, e volle dei canti semplici, perché li doveva far cantare a dei seminaristi - che per tradizione non sono sempre eccezionali come cantori - e d’altra parte, dignitosi, degni della Liturgia. Dovevano essere secondo la tradizione, però dovevano far cantare tutti; dovevano seguire i testi del messale come indicavano i documenti della Chiesa, ma nello stesso tempo dovevano coinvolgere immediatamente. Avevamo un gruppo di preghiera di giovani che era un punto di riferimento per noi. D’altra parte erano gli anni ’70, e canti liturgici ce ne erano tanti, giovanili; ma erano poco liturgici e molto giovanili, e il Rettore non li amava per niente. E allora lui, come punto di riferimento, mi diede sempre il gregoriano. Stiamo parlando del ’78-‘79, diventava Papa Giovanni Paolo II mentre io entravo in seminario. Questo fu l’inizio della mia avventura con i canti liturgici. E devo dire che i primi anni sono stati un po’ duri, perché cercavo di capire che cosa fosse veramente necessario. E devo ringraziare Dio proprio di quei due anni iniziali, perché mi diedero chiarezza (allora non mi sembrava chiaro quello che dicevo poco fa, mi sembrava di dover mettere d’accordo due opposti). Invece quello sforzo mi fece capire che era possibile

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rimanere fedeli alla tradizione della Chiesa e, proprio interpretando con fedeltà quella tradizione, creare un repertorio per tutti e nello stesso tempo di una qualità sempre più alta. E cominciai a fare i primi tentativi, le cui cavie erano i seminaristi. Ma quei tentativi mi furono molto utili perché capii cosa non si doveva fare e cosa si doveva fare, e scoprii alcune cose che adesso, dopo tanti anni, ho razionalizzato in maniera maggiore. Scoprii che è importante innanzi tutto capire che cos’è tradizione: di questo vorrei parlare, perché a volte, soprattutto oggi, c’è un po’ di tradizionalismo, di nostalgia, come se i tempi passati fossero i migliori. Queste sono cose che avvengono in ogni epoca, e in ogni epoca sono abbastanza ridicole, perché i tempi passati appaiono sempre migliori, con l’ottica di oggi: è un po’ il romanticismo del passato. Ricordo che quando ero bambino non si cantava quasi nulla in parrocchia; adesso, per grazia di Dio, si canta molto di più. Certo, una volta c’era una società più semplice, però non è detto che fosse una società più

santa o più vicina a Dio; i problemi erano gli stessi di oggi. E poi, come disse Agostino: “il passato non c’è più, il futuro non c’è ancora”; quindi quello che c’è è oggi, e oggi bisogna lavorare con quello che abbiamo, con quello che esiste. Quindi con molto realismo: io allora avevo i seminaristi, oggi ho il coro diocesano e anche l’orchestra, ma quello ho. E allora cominciai a capire che la tradizione è una consegna che mi viene fatta, ma di cui io sono responsabile non perché la devo custodire a chiave o, per usare le parole evangeliche, perché devo mettere il talento sotto terra. Invece devo rendere questa consegna viva oggi, e poi devo consegnarla al domani: il mio compito è quello di passamano, non ne sono il padrone. E allora questo significa che, con umiltà, bisogna leggere la tradizione, capire che cosa la tradizione ci consegna; e con la stessa umiltà sforzarci di essere coloro che la incarnano oggi, la sua ricchezza, per poterla consegnare alle generazioni future. Capii, per esempio, che non devono essere scritti canti per i giovani e canti per gli adulti: i canti sono per tutti. Quello che diceva prima don Gabriele [Cavina] mi fa particolarmente piacere perché è l’intenzione prima: io non voglio scrivere canti per i giovani, voglio scrivere i canti per la Chiesa, per la comunità ecclesiale. E devono essere coinvolgenti per i giovani come per gli anziani, per gli intellettuali come per i semplici. Non devo, io, fare un repertorio, come dire, mirato: non sono mica un commerciante che devo vendere dei prodotti mirati. Io non vendo un prodotto, io aiuto, devo aiutare i miei fratelli a pregare. E la Chiesa mi dice come fare: quindi io lì devo stare, in qualche

modo anche prigioniero di quelle richieste: come allora in Seminario, alla mia Chiesa, adesso alla mia diocesi, e anche alle altre Diocesi, devo dire la verità. Ma queste sono richieste che mi vengono fatte perché sono al servizio della Chiesa, e non viceversa. La normatività del gregoriano Il gregoriano cominciò a essere per me un riferimento, ma non come spesso s’intende, come se bisognasse imitarlo, copiarlo, fare una sorta di camuffamento del gregoriano. Sarebbe come dire un uomo del Medioevo vestito con l’abito di oggi. Non ha senso. Allora il gregoriano la Chiesa lo nomina come normativo, così dicono i documenti. Il fatto che il gregoriano sia normativo ha un valore molto importante. Voi sapete che cosa significa normativo? Che fa legge. Vuol dire che nel gregoriano ci sono delle regole dentro, delle leggi, delle strutture che sono valide eternamente e non sono legate al linguaggio medievale, ma possono essere valide anche oggi e saranno valide domani. Per me è molto importante questo che vi sto dicendo, perché sono queste regole che devono condizionarci tutti, così come la Chiesa ci chiede. Quando ero più giovane pensavo a queste cose come un peso, perché come

Cinque criteri

tutti i giovani scalpitano quando vengono chiusi dentro a delle scatole o dentro a dei criteri. Ma adesso, ormai non più giovane, diciamo ex-giovane (non mi sento vecchio, non sarò mai vecchio, spero) capisco che quei criteri, quelle regole, sono la freschezza del canto liturgico, sono la garanzia di cui il canto liturgico si avvale, quindi è sempre fresco. Di quei criteri ne ho enucleati cinque, che per me sono dei binari, e ve li volevo illustrare per farvi capire questo “avvicinare” due cose così apparentemente lontane.

1. Innanzi tutto il gregoriano ci insegna il primato della parola sulla musica. Cosa vuol dire? Il gregoriano non mette le parole sulla musica, ma fa sì che la musica allarghi, dilati il valore di una parola e sia al suo servizio. Si pone al servizio della parola, perché la musica di fatto è questo. Quando Dio creò il mondo, io dico sempre ... ci sono sicuramente dei giovani che studiano fisica ... nel momento dell’era di Plank, alla 10 -43

dell’universo,

quando, all’inizio di tutto, si cominciavano a separare gli elementi, le leggi fondamentali della fisica, quando cominciò ad esistere il mondo e la materia così come la conosciamo, Dio mise all’interno di tutto (cominciò allora e continuò fino ad adesso) il suo verbo, il suo logos, a governare la creazione, dando a tutte le cose il significato, il senso, il valore che dovevano avere. Le cose dovevano parlare, dovevano narrare la gloria di Dio. Cominciò da subito: le leggi universali, come la gravitazione, l’elettromagnetismo, le leggi nucleari sono cose meravigliose. Anche la fisica oggi, che prima non aveva queste cognizioni, ci mostra la bellezza del Verbo per mezzo del quale tutto è stato fatto. Il Verbo è la logica di tutte le cose, e io direi anche è l’armonia delle cose, ossia quella capacità che le cose hanno di essere tra di loro correlate. Anche vedendo il parco del Seminario dove sono ospite, la bellezza della natura questa mattina, con questo sole bellissimo, risplendeva. Ma che cos’è che risplende? Soprattutto, che cos’è che noi percepiamo? Percepiamo l’equilibrio del tutto, l’armonia del tutto, e ci sentiamo come se tutte le cose cantassero un bellissimo canto che noi ascoltiamo; abbiamo quella sensazione. Beethoven, quando era depresso, era triste, aveva le sue grandi disgrazie, andava nel Prater a Vienna e si immergeva nella natura, perché lì soltanto trovava pace e ritrovava quell’armonia stupenda che ha tradotto in musica nella “Pastorale”, la 6° sinfonia, che è l’omaggio all’armonia del mondo. E Beethoven ci insegna (ci sono delle parole bellissime nei suoi quaderni di appunti) che la musica è leggere questo Verbo nascosto, ascoltare quest’armonia nascosta, che l’uomo solo sa intendere perché è fatto a immagine di Dio, è una lingua che può capire solo chi è

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fatto a immagine di Dio. Capite allora che le parole, che veicolano i concetti, sono dei codici per parlare, per poterci intendere; se io dico “tavolo”, voi capite che è il tavolo e se avete il concetto e dicessi “table”, o “scuhan” ecc.. in qualunque lingua, sarebbe incomprensibile per chi non capisce il codice; ma se io vi faccio un pezzo di musica che raffigura il tavolo, se io sono capace di farvelo capire, voi capite immediatamente che è il tavolo e non c’è bisogno di parole. Quindi la musica è qualcosa che sorpassa le parole, ma nella rivelazione del Verbo, quando il Verbo si è rivelato, le due cose devono andare insieme. E’ come se le parole che Cristo ci ha svelato, con la musica diventassero potentissime, concetti animati da questo linguaggio universale, che il Signore ci ha regalato, e che si pone al servizio di quei concetti, di quelle parole per poterci nutrire spiritualmente, in maniera eccezionale. Quindi la musica al servizio della Parola di Dio, è la Parola di Dio rivelata, sono rivelazioni di rivelazioni, è una specie di rivelazione al quadrato la Parola cantata. Quando san Benedetto dice “pregare due volte, cantando”, vuol dire questo: è una preghiera potenziata. Non è soltanto dire “Vieni Signore Gesù”: una cosa è dirlo, una cosa è cantarlo, perché nella musica noi sentiamo di unirci a tutto, anche al corpo, alla mente, ... a tutto, dicendo delle parole; quindi diventa un gesto straordinario. Quindi, capite, nel gregoriano la musica è al servizio della parola, perché è al servizio di Cristo; serve proprio ad aprire le parole, come a schiuderle, a renderle più comprensibili, al punto tale che se uno non capisce le parole, attraverso la musica le capisce, tanto è forte il legame. Se noi cantiamo il Veni Creator, noi non capiamo magari. Io da bambino non capivo niente: Guttura, non sapevo cosa fosse, Paraclitus, ... Io ho fatto la Cresima che avevo otto anni, però io ricordo il giorno della Cresima come un momento emozionante, quando si sente il Veni Creator, perché la musica insieme a quelle parole, di cui non capivo il significato concettuale, la musica me lo aveva fatto intuire. Veni Creator Spiritus ... vi ricordate com’è questa melodia? E’ una melodia che si espande, come se il nostro cuore si aprisse, e il gregoriano vuole questo: la musica legata a quelle parole vuole aiutare a farci capire. Quindi questo legame con il primato della parola. 2. La melodia. Il gregoriano è melodia. Essenzialmente melodia, non c’è neanche accompagnamento; se lo vedete il gregoriano non ha l’accompagnamento, è melodia pura. Io ci pensavo a questo fatto, di questa melodia pura, semplice a una voce sola, così essenziale. Ma che cos’è la melodia? La melodia è una cosa molto importante, perché, attraverso la melodia noi trasformiamo i suoni, qualsiasi suono, in qualcosa di comprensibile. I suoni, da soli, sono soltanto dei rumori; avete sentito prima: c’era il flauto, la chitarra, l’organo, sono strumenti; l’aria passa nelle canne dell’organo e fa un rumore. Eppure questi rumori, messi in ordine, creano delle melodie che provocano in ciascuno di noi una reazione. E’ una cosa un po’ misteriosa la melodia, le note sono sempre quelle, si dice sempre con sette note si sono fatti miliardi di musiche, eppure quelle stesse note in un ordine danno una reazione, in un altro no. Vi siete domandati perché? A volte sono le stesse identiche note, a volte anche nella stessa successione, ma le durate cambiano; e la durata, unita all’altezza delle note, provocano in noi una reazione o un’altra. Noi ci commuoviamo a volte per una melodia. Come è possibile che ci si possa commuovere? Che cosa succede? E’ perché una melodia è una sintesi di tante informazioni che vanno a toccare nel nostro cuore una sorta di tastiera misteriosa, la tastiera dell’anima, che reagisce, che vibra in sintonia con noi. Ci sono delle melodie che commuovono, delle altre che eccitano, delle altre che ci addormentano, pensate alla ninna nanna, altre che danno la sensazione della maestà, altre della dolcezza, della forza, ecc. Perché? Perché dentro questo rapporto melodico tra i suoni il compositore ha messo delle informazioni, e nella preghiera la melodia è necessaria, perché la preghiera è sempre un atto di amore a Dio, e la

melodia nella liturgia è sempre un grande canto d’amore. Il cuore, nel canto liturgico, nella melodia liturgica, deve sempre aprirsi verso Dio. La melodia, quindi, è molto importante: senza di quella non c’è preghiera, senza di quella le note sono una dopo l’altra. Quando sentiamo una melodia che non ci fa né caldo né freddo, a noi non piace, è insipida, non dice niente. Che vuol dire? Che quella melodia non crea nel nostro cuore un giusto rapporto con noi: e allora non serve. Non è che la musica è obbligatoria. Io lo dico spesso: se un canto non è utile alla preghiera, è inutile farlo, non è obbligatorio, non siamo mica obbligati a cantare. Se si canta bisogna che il nostro cuore vibri nel canto. Lo dico soprattutto per noi, perché per noi musicisti è difficile fare così, far le melodie, però le melodie il gregoriano ce ne ha lasciate tantissime, meravigliose, ci possono commuovere perché è come se ci accompagnassero per mano a comprendere questo mistero d’amore che ci lega a Dio. Guardate: si canta solo per amore. Lo dice anche l’introduzione al Messale che si canta per amore: è una frase di Agostino. Io vi aggiungerei: solo per amore. Chi non ama, non canta, non ha nessuna ragione di cantare, e la melodia ne è l’espressione, è l’espressione dell’amore del cristiano verso il suo Dio, verso i suoi fratelli: è melodia. Noi siamo italiani, poi, e gli italiani hanno esportato in tutto il mondo la melodia, ce la invidiano tutto il mondo, forse perché siamo capaci di innamorarci, siamo un po’ passionali, siamo italiani, ma questo è un grande dono che abbiamo ricevuto per tutto il mondo noi italiani, dovremmo veramente cercare di farne tesoro. All’estero non sanno fare le melodie, è difficilissimo che troviamo delle belle melodie, lo so perché me lo dicono. E quindi il gregoriano invece ci insegna anche questa cosa: la melodia, che nella sua nudità deve essere eloquente. 3. Le forme del gregoriano. Se voi avete un po’ di dimestichezza del gregoriano, conoscete quali sono le forme del gregoriano: il salmo, l’inno, l’antifona, il responsorio, la litania ecc. Sono tutte forme che, se andate a vedere, sono tutte legate all’azione liturgica, non ce n’è nessuna non legata all’azione liturgica. Forme scelte solo per accompagnare l’azione liturgica. Per esempio non si trova il mottetto. Il mottetto nasce storicamente in un periodo in cui si abbellisce una melodia al punto tale da renderla indipendente per il coro. Per esempio, si prendeva uno spunto gregoriano e se ne faceva poi una composizione meravigliosa. Noi abbiamo grandi mottetti: Palestrina, la scuola romana, ecc. fino al ‘900. Però questa forma non la trovate nel gregoriano. Nel gregoriano ci sono delle forme molto più semplici. Antifona e salmo, ovvero un ritornello, che è di tutti, e un salmo, che è della schola. E’ normale, questa è la struttura normale dei canti di ingresso, di Comunione, anche di offertorio. Trovate l’inno che è tutto strofico, ossia strofe con la stessa musica con parole diverse, trovate le litanie, trovate il responsorio e anche il graduale che è simile al mottetto, il graduale che è il salmo responsoriale, di fatto, ma che è anche un po’ più complesso, fatto per un solista, fatto per un gruppetto di persone più esperte. Ma all’interno di tutti i brani sono pochi quelli che hanno queste strutture. In maggioranza sono strutture partecipative, proprio perché fatte per la liturgia. Per cui quando uno si accinge a scrivere un brano per la liturgia deve stare attento che rientri in una di quelle forme, deve stare attento perché così è sicuro che nella liturgia è utile, ha una locazione opportuna. 4. Il linguaggio stesso musicale, il linguaggio con cui è scritta questa musica. Io di solito dico sempre che c’è una emozione all’interno del gregoriano, ma un’emozione composta, come se chi sta pregando sentisse vibrare nel cuore e rimanesse stupito, fermo, orientato verso il cielo, poi si mettesse a ballare insieme a quello che sente, ma lo tiene integralmente e lo fa uscire come se fosse un fiore, come se fiorisse. Questa atmosfera tipica del gregoriano, emoziona sempre. Io capisco che per chi non è abituato a sentire il gregoriano può sembrare una cosa poco

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emozionante, ma se voi lo sentite bene, eseguito bene, capite quello che voglio dire. Il canto gregoriano, nella sua semplicità, provoca in noi, però, una sorta di nostalgia di cielo, di dilatazione del cuore, anche volendo di forza, in certi casi, certe melodie, certi inni, certe antifone, anche di gioia. Certo in un linguaggio che per noi può sembrare antico, perché è di 1000 anni fa, questo lo capisco, ma l’atmosfera generale è quella ed è importante. Noi diciamo: è musica sacra, subito. Ma perché diciamo subito che è sacra e non profana? Perché sentiamo che tutti questi elementi ci orientano in cielo, in alto. 5. L’eseguibilità. Che vuol dire? Che i brani gregoriani, come estensione, come intervalli, sono tutti eseguibili; non ci sono cose strane, non ci sono estensioni esagerate, ma soprattutto non ci sono intervalli innaturali, tutto è melodicamente eseguibile, perché era eseguito da persone normali. Non c’era il coro della Scala o, qui, del Comunale di Bologna, non c’era il professionista che doveva esibirsi: era il popolo o il coro, che poi era parte del popolo, che doveva eseguire quei canti. Allora, queste 5 caratteristiche si adattano anche oggi a qualunque canto, perché non sono legate a un’epoca. Il valore della parola, la liturgia, la forma, l’atmosfera spirituale, l’eseguibilità possono essere di qualunque canto, di qualunque epoca. Io non ho parlato di imitare lo stile gregoriano, perché non m’interessa imitarlo, perché non sarei capace, perché io vivo 1000 anni dopo, e anche più di 1000 anni dopo. E’ come voler fare un falso: vediamo un bel capolavoro rinascimentale, ci mettiamo a dipingere come si faceva nel Rinascimento. Si vede che è un falso, si vede che non è vero. Ma queste caratteristiche no, dobbiamo tenerle presenti, perché queste fanno dei canti, anche oggi, un canto che può essere spiritualmente fruibile, che è giusto per la liturgia e che ci aiuta nella preghiera. Per esempio, come può un canto liturgico, oggi, essere normato come il gregoriano? Facile: la Parola di Dio deve essere il testo. Lo dice il Concilio già 40 anni fa, che i canti liturgici devono essere tratti esclusivamente dai testi liturgici o dalla Parola di Dio e gl’inni e le altre cose create apposta devono essere in continuità con i testi biblici e liturgici, non si possono scostare da lì. Lo diceva 40 anni fa. Quindi, vedete, anche oggi la musica deve seguire il testo. Per esempio, io non posso fare il canto di Pasqua che sembra il Miserere del venerdì santo. Perché? Perché io devo seguire il testo: se c’è un Alleluia e c’è un Miserere, la musica sarà diversa; non posso fare un Alleluia dopo un Miserere o viceversa, perché la musica deve aiutare a capire il valore delle parole, che cosa ci sta dicendo quel testo. Se io musico, per esempio, il Maranatà, questa parola Maranatà significa: “Vieni Signore Gesù”. E’ un’invocazione, è un grido, non è che me lo dico a me stesso “Vieni Signore Gesù”, no. E se lo devo cantare con tante persone, devo dare a tutti la sensazione di dire: Vieni Signore Gesù, perché se io faccio questo con la musica, tutti lo capiranno, potranno pregare. Per quello ho scritto il Maranatà in quella maniera, va in su la melodia, va salendo….fino ad arrivare in cima, fino a quel: Vieni Signore Gesù. L’ho fatto apposta, mica è venuto per caso: mi metto lì e faccio le prove finché non viene come dico io. Ma è la parola che deve essere prima, è lei che deve uscir fuori. Perché? Perché non sono io che canto me stesso, io canto la parola della Chiesa. Così come la forma: se io devo far cantare un’assemblea, la forma deve essere quella del gregoriano, l’antifona, con il salmo successivo, una strofa successiva. E l’antifona è fatta dal popolo. Potrei pure scegliere un’altra forma, la litania, potrei scegliere anche l’inno, ma devo scegliere una di quelle forme per far pregare tutti, se no me la faccio per me, mi scrivo un bel canto per me, me lo ascolto e me lo canto. Ma poi che cosa ci faccio? Posso pure scrivere un capolavoro, ma non serve alla Chiesa. Così come l’eseguibilità: se io faccio un canto che ha bisogno di un soprano che vada al si bemolle acuto, ma che lo faccio a fare? Lo faccio se ho il coro

a quella maniera, sennò non lo posso fare, non mi serve. Così come l’atmosfera, non è che ci metto lì una bella chitarra con distorsore, con una bella batteria elettronica, per fare il Maranatà. Potrebbe anche andare di moda, ma io voglio far pregare, non voglio mica fare la disco dance. Ho bisogno che chi lo fa lo senta dentro questo, non fuori: è facile farlo sentire fuori, dentro deve essere sentito. Quindi come il gregoriano, quello stupore, quella emozione tutta profonda che deve sempre esserci. Vedete, io faccio questi esempi che sono tanti: bisogna sempre considerare come ogni canto è dentro poi ad un microcosmo, ad una realtà complessa e certe cose si devono fare anche con una certa pratica; alla fine poi si tratta proprio di imparare come si fa, e poi di cercare sempre, perché non si finisce mai d’imparare come. Avete notato poi, se voi che cantate i miei canti, che i miei canti si possono eseguire a una voce o a quattro voci, alcuni addirittura fino a nove voci. Se avete la raccolta di “Cristo nostra Pasqua”, lì se uno si vuole divertire ce n’è di tutte le misure 4,5,6,7,8,9 voci; però, tutte si possono eseguire a una voce. Perché faccio questo? Perché conosco bene le parrocchie, conosco i gruppi, conosco le comunità. Allora ci sono alcuni sono che sono cori bravissimi, addirittura ci sono cori delle cattedrali; e poi ci sono parrocchie che se hanno 5,6 cantori è una grazia di Dio. Allora cosa fare? Puniamo quelli che hanno 5 cantori, oppure viceversa puniamo i grandi cori delle cattedrali? No, facciamo in maniera tale che quel canto possa essere adattato da loro, secondo la misura dell’opportunità, senza che si tolga niente al canto. Certo, avere l’orchestra, il coro e tutto il resto è più bello che non averlo, questa è un’altra cosa, però se si può avere anche solo uno che canta, e canta la melodia, per questo io parlo di melodia, la melodia può da sola aiutare a pregare anche tutti, anche da soli. Non è facile, eh, ogni volta, però ci si riesce, ormai diventa un’abitudine, si pensa già in maniera modulare; e poi magari è bello vedersi tutti insieme. Magari in una delle vostre parrocchie si fa a una voce il canto, in quell’altra si può fare a 4 voci, magari un po’ scarse; poi magari ci si vede tutti insieme, tra parrocchie diverse, si mettono insieme le forze e il brano viene fatto integralmente come deve essere fatto con gli strumenti, con i cori, con i solisti: è bello poterlo fare, si può fare così. Quello che voglio farvi capire: quello che deve sempre vincere è la Chiesa, è bello che sia così. La vostra parrocchia, la vostra realtà totale fatta di popolo e coro (una parola su questo poi lo diciamo). Conclusione E ricordatevi alcuni criteri. Per esempio, non tutta la musica sacra è liturgica. Questo è un criterio cui bisogna stare attenti. Allora: c’è la musica profana, quella proprio non la consideriamo, ce ne sono tanti di brani, ed a volte s’intrufola anche nella liturgia, ma non c’entra niente; poi c’è la musica religiosa, che è quella che s’ispira a Dio, alle cose di Dio, ma qui mancano caratteristiche precise, come quelle che vi ho detto prima. All’interno della musica religiosa, poi, c’è la musica sacra che è quella fatta sulla Parola di Dio, usando i testi, con l’atmosfera anche spirituale; ma non basta. All’interno della musica sacra c’è la musica liturgica che è fatta esclusivamente per la liturgia, appositamente. Faccio un esempio: la Messa in si minore di Bach è il massimo, a mio avviso, che è stato espresso come musica sacra dedicata a Dio, più di quella credo non se ne possa fare. Eppure quel capolavoro incredibile che era la Messa in si minore di Bach non si può eseguire durante la liturgia. Perché? Perché la forma, la struttura, l’eseguibilità e tutto il resto non è adeguato alla liturgia; perché il Gloria dura 1 ora, ha bisogno di 4 solisti, di un coro incredibile, di un’orchestra bravissima e non ha senso questo, perché se tu senti il Gloria e ti metti seduto a sentirlo, ti dimentichi anche che sei in chiesa e stai a dir messa; e dopo un’ora ti ricordi che bisogna continuare

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la messa, che c’è la colletta e tutto il resto. Chiaramente è un capolavoro assoluto: allora bisogna eseguirla dopo la messa, o prima. Avanti si celebra la messa e dopo inizia il concerto, uno si siede e si sente questa cosa meravigliosa e va in paradiso. Ma non è celebrazione, è celebrazione in un altro senso, non è più una celebrazione eucaristica. Non so se capite questa differenza. E’ importantissima, perché uno dice: ma è tanto bello questo pezzo, perché non lo facciamo? Non basta che sia bello, deve essere adeguato alla celebrazione, altrimenti invece di essere bello diventa ingombrante. E’ come mettere un mobile troppo grosso in una stanza piccola. Ma soprattutto distrae, perché il fine della celebrazione è lodare Cristo Eucaristia. Se io non arrivo lì con il cuore e con tutto me stesso, io mi distraggo. Tanto è vero che i canti si devono interrompere quando l’azione liturgica corrispondente è finita. Per esempio, il canto d’ingresso è un canto d’ingresso. Non è che io devo eseguire le 12 strofe del canto, il parroco è arrivato magari all’altare, si siede, dopo un quarto d’ora, finito il canto, si rialza per continuare la messa. No, io capisco che il coro ama quel canto e lo vuole fare, allora magari comincia prima, ma, finito l’ingresso, il canto è finito. Così alla Comunione, così all’Offertorio, proprio perché il canto in quel caso è al servizio della liturgia. Certo se io eseguo il Kyrie della Messa in si minore, il primo Kyrie dura 10 minuti, poi c’è il Christe, sono altri 6 minuti, 8 minuti del secondo Kyrie si va un po’ fuori tempo. Non posso interrompere Bach, gli sparo? No, non si può. E allora, capite bene, non è opportuno. Questo vi fa capire che l’azione liturgica governa, però non significa che noi non dobbiamo eseguire anche brani belli, brani di grandi capolavori: dobbiamo eseguirli nei luoghi giusti. Magari come 2° canto di Comunione, quando tutto il popolo ha fatto la comunione si siede e possiamo pregare tutti con un meraviglioso mottetto di Palestrina, così come all’Offertorio, se non c’è una grande processione, ... si trovano dei momenti; e soprattutto fuori dalla liturgia sono mille i momenti. Ma, capite, anche lì è una questione di equilibrio, di opportunità all’interno dell’azione liturgica. E ricordatevi sempre la finalità, il fine: il canto liturgico ha come finalità, dicono i documenti della Chiesa, la gloria di Dio e l’edificazione dei fratelli, non lo spettacolo del coro o del direttore. E così andando avanti ce ne sono tanti di problemi di questo genere, per esempio i ruoli. A Roma c’era un prete, un parroco, che faceva tutto: celebrava messa, leggeva le letture, suonava, cantava, contemporaneamente: era un funambolo. Questo non ha senso, ma nella celebrazione c’è posto per tutto, anche lì in un’armonia superiore. Innanzi tutto c’è l’assemblea che deve cantare, l’assemblea è il coro più grande, ma è un coro vero, anche se vi sono dei soprammobili nell’assemblea, persone che stanno lì ferme, inchiodate sulla panca, non si muovono, non reagiscono. Possono esserci anche quelle, ma noi nell’assemblea dobbiamo avere a cuore anche questi, e insegnare all’assemblea che tutti siamo Corpo di Cristo glorioso, battezzati, che stiamo celebrando la Pasqua e dobbiamo tutti vibrare insieme a Cristo glorioso. Quindi anche il “soprammobile” deve cantare e dobbiamo trovare il modo, una strategia, per potere smuovere il cuore di questa gente, perché ci sarà grata dopo. E’ chiaro che l’ingegnere si vergogna di cantare avendo accanto la vicina di casa, perché dice: “Ora, se canto, che figura ci faccio, io che sono ingegnere”. Oppure la signora bene, del quartiere alto, che vicino ha la domestica magari della sua vicina di casa, “Mo’, se mi metto a cantare, che figura ...”. Ci sono tutte queste piccinerie degli esseri umani. Davanti al Signore si diventa tutti bambini, tutti nell’innocenza cantando la gloria di Dio, bisogna insegnarlo, perché il canto ha questo valore. L’edificazione dei fratelli dei Padri del Concilio è questo: far crescere nel cuore della gente l’amore per Dio, e il canto aiuta, perché il canto libera, è liberante. Come le signore che cantano in casa, quando stirano, o i signori che si fanno la barba e fischiettano. In pubblico non lo farebbero mai, ma lì sono

liberi, tranquilli, sereni; a maggior ragione davanti al Signore, bisogna liberare il cuore nel canto. E l’assemblea dobbiamo farla cantare. Io, scherzando, ogni tanto dico che in San Giovanni (in Laterano) ci sono gli Apostoli, i dodici apostoli del Borromini intorno alla navata centrale, che sanno i canti, perché ormai li hanno imparati stando sempre lì. E alla gente chiedo: “Ma scusate, cantano anche gli apostoli, cantate anche laggiù in fondo, non sento, ...” Li prendo un po’ scherzando, ma per far capire che è una cosa bella. Poi c’è il coro. Il coro non è, come dicevo prima, come quello del teatro Comunale, che canta in chiesa. Il coro è l’assemblea più brava. Allora: i più bravi dell’assemblea vengono a cantare in coro. Ci sono quelli che hanno studiato canto, musica, che hanno una bella voce, a cui piace cantare, questi vanno a cantare nel coro. A me non interessano quelli che lo fanno per mestiere, io voglio quelli che sanno cantare col cuore. E il coro serve a questo, perché il coro è al servizio dell’assemblea e di Dio, non fa gruppo a sé dicendo: Ah, noi siamo del coro! Se siete del coro, vuol dire che siete al servizio della liturgia in maniera più cosciente degli altri. E anche i professionisti, se voi volete cantare durante la liturgia, vi dovete convertire. Mica ci si converte solo in altre maniere, anche nella musica bisogna convertirsi, su questo bisognerebbe fare un gran discorso anche ai compositori. Però ci si converte al servizio di Dio. E il coro infatti è in una posizione tra l’altare e l’assemblea perché è in questo servizio, e aiuta l’assemblea, la sostiene, canta le parti più difficili che l’assemblea non può fare, le strofe magari, ecc. ma non schiaccia l’assemblea, non dice all’assemblea: siccome voi siete ignoranti, sentite noi. Ecco, quest’atteggiamento non ci deve essere, deve essere l’atteggiamento di chi aiuta l’assemblea e dialoga con l’assemblea. C’è poi il salmista. Il salmista ha un ruolo fondamentale perché lui non soltanto fa il solista, il salmista proclama la Parola di Dio, e col canto, e ha un valore grandissimo. Il salmista è quello che interpreta la risposta, il canto delle letture: la prima lettura propone e il salmo risponde. Quindi il salmista deve saper cantare bene, proclamare bene, salmodiare bene, come dice l’introduzione del messale, che vuol dire saper cantare parlando, parlar cantando, in maniera tale che tutti capiscano e possano con la musica anche essere nutriti. Il solista, invece, è quello che interpreta alcune parti dei canti che sono riservate a un solista, ma è meno importante del salmista. E poi c’è il celebrante. Mi viene da ridere perché penso ai miei confratelli: alcuni sono bravissimi, altri, diciamo, stentano … Sorrido anche perché io ho il mio vescovo, il cardinale Ruini, che è stonato. Allora ogni volta dico: “Eminenza, ma almeno in recto tono ...”. Il cardinale ha paura forte perché è stonato, lo so che è stonato. Però è un problema ogni volta perché a Pasqua il celebrante deve cantare e deve cantare tutte le cose che gli appartengono, compreso il prefazio, prima cosa, le orazioni, il canone. Il canto del celebrante dà il la a tutta l’assemblea e anche agli altri, ed è bello. Vi ricordate Giovanni Paolo II come cantava: lui era abituato a cantare e anche quando stava male cantava uguale, infatti quando lo sentivo cantare dicevo: “sta ancora bene”, perché per cantare, ci vuole che il diaframma sia a posto, e lui, infatti, fino alla fine, quasi, ha cantato; perché è il canto del celebrante, insieme all’assemblea, al coro, che porta su tutta la liturgia, come dice il prefazio. Nel prefazio il celebrante si prende per mano tutta la Chiesa e la porta sulla soglia del paradiso, la conduce lì e apre la porta e dice insieme agli angeli: cantiamo. Quindi vedete che tutti i diversi partecipanti all’azione liturgica hanno un loro ruolo. Una volta non era così chiaro. A dir la verità, faceva un po’ tutto il coro, il celebrante cantava, ma fra celebrante e coro si faceva tutto. Ma adesso è bello che ci sia tutta questa possibilità, compresi gli strumenti, l’organo, ognuno nella sua parte raffigura la Chiesa come corpo fatto di membra diverse che partecipano l’una all’altra all’unico amore.