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76 – Avventure nel mondo 1 | 2011 Etiopia. L’Eldorado di Rimbaud da un Etiopia storica di Renzo Pin L anciandosi un sorriso ogni tanto, le ragazze del tavolino accanto conversano fitto d’un misterioso argomento. La più bella indossa un corpetto pastello elasticizzato ai fianchi che allunga ancor più le sue curve appena accennate, da sirena. Fuori della vetrata del bar, un grande albero ripara un sottobosco di tavolini, coca-cole e avventori molto compresi nel relax pomeridiano. Intanto il nostro supersucco è arrivato. Abbiamo preso a chiamare così i bicchierozzi di denso, delizioso frappè di mango, papaya o avocado di cui è divenuta nostra missione effettuare il controllo qualità in ogni bar d’Etiopia. Per appena otto birr, meno di cinquanta centesimi di euro, abbiamo deciso di non privarci di nulla. VIAGGI | Etiopia

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76 – Avventure nel mondo 1 | 2011

Etiopia. L’Eldorado di Rimbaudda un Etiopia storica

di Renzo Pin

Lanciandosi un sorriso ogni tanto, le ragazze del tavolino accanto conversano fitto d’un misterioso

argomento. La più bella indossa un corpetto pastello elasticizzato ai fianchi che allunga ancor più le sue curve appena accennate, da sirena. Fuori della vetrata del bar, un grande albero ripara un sottobosco di tavolini, coca-cole e avventori molto compresi nel relax pomeridiano. Intanto il nostro supersucco è arrivato. Abbiamo preso a chiamare così i bicchierozzi di denso, delizioso frappè di mango, papaya o avocado di cui è divenuta nostra missione effettuare il controllo qualità in ogni bar d’Etiopia. Per appena otto birr, meno di cinquanta centesimi di euro, abbiamo deciso di non privarci di nulla.

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Da destra, coltivazioni nel Parco dei Monti Simien.In alto, interno di un bar a Lalibela.Sotto, Castello di Guzara nel paesaggio.

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Non di questo momento di requie dalla pol-vere e dall’ossido di carbonio degli obsoleti minibus bianchi e blu dove i passeggeri sie-dono compatti. O dai mendicanti, sfrattati dalla clinica ortopedica per casi disperati, che si spostano sui marciapiedi come ra-gni, alternandosi a quelli dalle vuote orbite bianche, forse schiavi accecati dopo una storica sconfitta il cui ricordo sta svanendo assieme ai caratteri metallici rubati alle de-diche dei monumenti. Il bar ci isola anche dai morti viventi avvolti in sudici sudari che ingrombrano i marciapiedi. Chissà, forse da quei bozzoli informi uscirà un giorno una bel-lissima anima, ma la trasfigurazione dei reiet-ti di Addis Abeba sembra remotissima. Chi ha subito una metamorfosi sono io: adesso, finalmente, so quanto pesano gli occhi dei diseredati sulla mia persona, quello sguar-do che s’era finora fermato su una pagina di giornale. Scappavo chiudendo la porta dell’auto mentre fuori i bambini battevano e tendevano la mano, come da noi si fa solo con le celebrità. Non sapevo d’essere un privilegiato per saper leggere e scrivere e per poter comunicare col vasto mondo – anche se non in amarico.I saggi divulgativi sulla pasticceria, sulle basi della letteratura e sull’uso del pc del sedicen-te Mega Bookstore accanto (appena uno stanzone, in verità) suscitano tenerezza. Per la vendita occorrono quattro persone: alla prima consegno i libri per lo scarico dall’in-ventario, la seconda incassa l’ammontare, la terza infila i libri in un sacchetto e, all’uscita, l’ultima controlla lo scontrino. C’è anche un volumetto, sovvenzionato da una fantomati-ca setta, che lancia fulmini e saette contro Sodoma annunciando il castigo a venire in

assenza di una pronta conversione. E, forse, ne ha di che: lo studente di biologia col quale avevo attaccato bottone aspettando che la sauna pubblica, frequentatissima da ambe-due i sessi, decidesse quel giorno se aprire o no (non c’era acqua fredda, sosteneva la cassiera), ha sentito la necessità, di punto in bianco, di rivelarmi di essere omosessuale. Buono a sapere che la pluralità della natura non sia riconducibile alla perdita di orienta-mento della civiltà occidentale ma si presen-ti anche nei più diretti discendenti dei nostri antenati che, muovendo proprio da queste terre, hanno conquistato tutto il pianeta. Gli etiopi ora sono determinati a conquistarsi il diritto di vivere – che in molti casi vuol dire sopravvivere. Come negli anni cinquanta ci si illuminavano gli occhi a dollaro in presen-za di un americano, così per loro lo stranie-ro, il “farangi” – richiamo costante al quale controbatto con “hàbescia”, “autoctono”, zittendone alcuni – è uno scrigno di birr che attende solo di essere forzato. E con quale tenacia ci provano! E quale soave pace è la pausa del supersucco, lontani dalle pres-santi richieste di elemosina, di accettare una sedicente guida o una corsa in taxi. Ma cer-to non posso imbrattarmi la faccia di lucido da scarpe per sfuggire all’assalto al farangi, tanto più che spesso, senza una guida – an-che una ragazzina che abbia capito cosa si voglia visitare può bastare – è impossibile localizzare chiese, tombe e musei, tanto fit-to è l’intreccio delle stradine di Harar, tanto rare sono le indicazioni lungo le strade di Addis Abeba, tanto sprovveduto è reso il farangi da quell’alfabeto così decorativo da meritare di figurare su magliette e poster ma che rimane, ahimé, indecifrabile.

Stamane però il percorso era chiarissimo: bandierine colorate decoravano la cancel-lata della chiesa di Kiddist Maryam per la grande festa del ventuno del mese, di ogni mese, eccetto quello che di giorni ne ha solo una manciata. Per noi era il ventinove, e chissà quale altra data per gli arabi. Un interessante calendario dava tutte e tre le in-dicazioni, confermando che tutto è relativo – ora compresa: gli orologi etiopi indicano le sei di mattina quando i nostri segnano mez-zogiorno. Il giorno, logicamente e secondo un’usanza che fu degli ebrei, inizia con l’ora zero all’alba, che a questa latitudine è assai regolare. Alle quattro, 10am ora occidenta-le, la ressa per entrare nel cortile della chie-sa per i rituali tre giri attorno all’edificio aveva assunto connotati da tragedia sportiva. Le campane suonavano, il prete aveva già ini-ziato a blaterare attraverso un impianto di amplificazione da gruppo punk e non avreb-be smesso per un altro paio d’ore – il tempo della visita al vicino Museo Nazionale, dove l’antediluviana Lucy scimmiotta Shakespe-are: “Molto rumore per nulla”. Difatti è alta giusto tre piedi e mezzo e nella vetrinetta non c’è che una copia – i resti dell’ominide più antico mai ritrovato sono nei sotterranei del museo, oggetto di studi. Più interessanti, al primo piano, alcuni scranni e chaises lon-gues dalla concezione semplice ma scolpite con mano sicura. Uno di noi avrà la pazza idea di acquistarne un esemplare presso un negozietto – un affare a meri 160 birr – al quale, con nostra assoluta sorpresa, l’im-piegato del check-in attaccherà l’etichetta “Transfer Cairo-Fiumicino” senza batter ci-glio. Requisito invece un geode in quanto “bene culturale dell’Etiopia”. Peccato, aveva

03 Ascesa alla chiesa rupestre di Abuna Yemata Guh nelle montagne del Tigrai04 Altra veduta dell’ascesa alla chiesa rupestre

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03 0402

VIAGGI | Etiopia01 Affreschi parietali di Debre Birhan Selassie a Gondar02 Animali nel solleone vicino al villaggio di Dugem

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la forma di un uovo à la coque e togliendo la calottina si scorgevano i cristalli color ameti-sta all’interno. Aeroporto che vai, impiegato che trovi.Dall’oblò dell’aereo i rilievi dell’altopiano etiope sembrano appena creati. Questa ter-ra brulla, arcaica, ha ispirato i primi cristiani ad un’esistenza altrettanto grezza e povera. Le maggiori attrazioni dell’Etiopia storica, i monasteri e le chiese, sono state costruite o scavate nella roccia durante un medioe-vo la cui storia è perduta nel groviglio del-le contraddittorie tradizioni. La meraviglia è assoluta alla prima visita dei centri religiosi del Lago Tana: dentro una struttura cilindri-ca a tucul, un sancta sanctorum quadrato – una porta su ogni facciata – presenta scene delle sacre scritture e della tradizio-ne etiope. Nelle varie chiese i miti e l’icono-grafia rimangono i medesimi: un pescione piantagrane finalmente arpionato, un santo a cavallo d’un gallo, angeli crociati pronti a dar battaglia ed ex-cannibali che si tagliano la lingua in segno di pentimento. Cambia solo la mano dell’artista. L’intento è inge-nuamente didascalico e lo stile fumettistico: un credo fiabesco, accessibile ai pastori e ai contadini che si riuniscono per le lunghe celebrazioni dei giorni di festa, marcate dai tamburi, dai sistri, dai canti, dalle danze, dalle processioni e dai ricorrenti, lancinanti ululati delle donne. Il male, nella chiesa orto-dossa, è rappresentabile e la perenne lotta col bene è un’epopea avvincente e piena di colore: al Museo Etnografico, l’unico del paese a livello internazionale, una tavoletta illustra le fantasiose torture e morti di San Giorgio, numerose perché il santo continua-va a resuscitare. Giorgio è tra i più venera-

ti, e ci tiene ad esserlo. Difatti, dimenticato dagli scalpellini che avevano ricavato dalla roccia di Lalibela due intricati gruppi di chie-sette, cappelle e piccoli antri per gli eremiti, il santo apparve al re Lalibela per protestare. Per lui, il sovrano fece scavare la più perfetta delle chiese, in forma di croce e splendida-mente isolata, in un affioramento roccioso poco distante.Interrati i luoghi sacri in labirintiche trincee o relegati fuori dalle vicende umane in isole sperdute o lungo le coste di un lago immen-so, la vocazione eremitica dei primi ortodos-si – convertiti nel quarto secolo da un grup-po di nove apostoli provenienti dal Medio Oriente – non era ancora paga: non solo lontano dal mondo, ma più vicine al cielo do-vevano essere le loro oasi di preghiera e pe-nitenza. Tanto accanimento contro il corpo è per noi incomprensibile, ma c’è chi sostie-ne che, in un quadro d’evoluzione, nessuna èra sia uguale all’altra, e che i richiami della carne fossero più imperiosi in quei tempi e quindi, per le anime elette, più importante mortificarli. Le cime dei dirupi del Tigray ri-spondevano alla bisogna, e ci hanno offerto un paio di memorabili ascese. Per visitare la chiesa del monastero e il villaggio semiab-bandonato di Debre Damo, sulla cima piatta di una tozza montagna, occorre attaccarsi ad una fune e tirarsi su per una trentina di metri. Il pompiere del gruppo ce l’ha fatta da solo; gli altri, dopo aver assicurato un cappio di pelle di capra due volte attorno al corpo, hanno accettato l’aiuto di un prete che, dall’alto, tirava. Come al Monte Athos, niente donne lassù: potrebbero fuorviare i pensieri dei pii abitanti dell’eremo. La chiesa non è particolarmente notabile, ma la situa-

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05 Entrata della chiesa rupestre di Mikael Imba vicino al villaggio di Atsbi nel Tigrai

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zione è unica. Negli affioramenti rocciosi tra le case in pietra ormai disabitate, ma ancora protette da cinte di mura a secco, sono stati scavati diversi bacini per il battesimo ad im-mersione, cui danno accesso alcuni scalini. Dentro, il pelo dell’acqua è completamente ostruito dal verde di piccole piante acquati-che. A Lalibela una di queste vasche è de-dicata alle cura delle donne sterili, sebbene non osi pensare cosa possano dar alla luce dopo un bagno in quelle acque stagnanti. Altra scalata indimenticabile è quella ad Abuna Yemata Guh. Sappiamo di esplora-tori professionisti che, vista la situazione, ci hanno rinunciato. In realtà basta accettare l’aiuto (interessato) dei ragazzi della zona che conoscono la sequenza delle mosse da fare. La parete è verticale, e piccoli inca-vi sono stati scavati in secoli d’uso, alcuni per i piedi, altri, con un po’ d’appiglio, per le mani. A volte, con un’oscillazione, occorre cambiare il piede d’appoggio – insomma, occorre sapere quel che si sta facendo, e non c’è alcuna misura di sicurezza, ma ba-sta essere in decenti condizioni fisiche, non guardarsi attorno e puntare con determina-zione verso l’alto. In cima agli enormi massi che paiono riparare la valle dal vento si apre una caverna. Un teschio e alcune ossa con-servate in un anfratto accompagnano le pro-ficue ore che vi si possono passare immersi in meditazione. Poco più su, un cornicione largo tre palmi – parete verticale a destra e strapiombo verticale di duecento metri a sinistra – porta a una grotta naturale, am-pliata e rozzamente scolpita per adibirla al culto. In ogni chiesa, l’anticamera è tappez-zata da luride stuoie o da polverosi tappeti, e un altro vano, quello adiacente al sancta sanctorum, è accessibile, dietro al quale però ai fedeli è vietato spingersi. Quello è il regno incontrastato del prete, che occor-re localizzare ogni volta in quanto custode delle chiavi. Il prete funge anche da bigliet-taio, e rilascia una ricevuta per il pagamento del prezzo d’ingresso, fissato di solito in 50 birr a testa, fatta eccezione per Abreha we Atsbeha, dove un foglio affisso alla porta del cortile avvisa che il consiglio di gestione ha deliberato all’unanimità, naturalmente col solo scopo di assicurare al turista un miglio-re servizio in qualunque momento della gior-nata, di richiedergli il pagamento di 100 birr. A questi si aggiunge, al solito, la mancia per chi sia andato a chiamare il prete, la mancia

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per l’occasionale guida o sacrestano che aspetta che si abbia terminato per richiude-re la chiesa, e infine la mancia per il prete stesso: pare infatti che l’incasso del bigliet-to – compilato a mano in doppia copia con carta carbone – vada alla Chiesa Ortodossa d’Etiopia. I preti, poveretti, sono a volte poco più di cenciosi relitti umani: abbiamo trovato il vecchio “abba” di Debre Maryam, a Bahir Dar, nell’orticello, forse a cogliere l’insalata per la cena, e quello di Mikael Barka, non lontano da Atsbi, seduto per terra con la ca-nuta moglie, intento a togliere i sassolini dai chicchi di riso o grano su una stuoia stesa a terra, nel cortile. Per alcuni, come quello di Debre Tsion Abuna Abraham, abbiamo do-vuto aspettare il termine della celebrazione del Timkat, l’Epifania etiope. Con quanto gu-sto i valligiani cantano e ballano in proces-sione, quanto queste feste devono star loro a cuore, proprio come ai nostri papà portava allegria la sagra del paese con la giostra e gli autoscontri. Il prete, un aitante cinquan-tenne, con quattro salti si è portato dalla val-lata, dalla quale ci arrivavano in lontananza le litanie e il ritmo dei tamburi, all’altezza del-la strada dalla quale osservavamo la parata di ombrelli di velluto da cerimonia multicolo-ri. Sembrava la scena di un film sull’Antico

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Testamento. Iniziata la salita, lunga e fatico-sa sotto il sole di mezzogiorno, ma stavolta priva di passaggi tecnici, dopo poco lo ab-biamo visto il doppio più avanti di noi, quasi le pietre sconnesse e i salti del percorso gli scivolassero sotto i piedi. Né all’andata né al ritorno è stato possibile liberarci di un nu-golo di ragazzini, del loro incessante “iù, iù” “uèr ar iù go?” e “uozziornéim?”. La chiesa, ricavata scavando una parete rocciosa co-lor ruggine, è circondata da un alto passag-gio a ferro di cavallo che porta a una bassa stanza dal soffitto coperto di grezzi bassori-lievi, luogo di preghiera del fondatore: una vera e propria tana. Nel perfetto silenzio, il frastuono delle ali dei colombi fa trasalire il visitatore, e la luce che entra da un’apertura, il raccoglimento e il distacco dalla materia, i minuti stessi che si trascorrono lassù non appartengono né al nostro secolo né al tem-po, ma all’anticamera dell’assoluto. I preti, quando possono e vogliono, ci mostrano i loro tesori: volumi di pergamena più o meno antichi dei quali offrono al mirino delle nostre compatte le pagine istoriate – di solito l’inizio di ogni Vangelo – assieme alle loro croci. Tre sono gli stili per una croce: Gondar, Axum e Lalibela. Talvolta s’incontra anche un prete spiritoso, che per pochi birr è felice di posa-re col suo pastorale ornato dalla croce. Di croci sono pieni i negozi di souvenir, come anche di altarini lignei dipinti a mano, di scul-ture africaneggianti – animali, maschere –, di dipinti su pelle di vacca o pecora, di tessuti e di oreficeria in argento e oro. Ovunque si vada, i medesimi oggetti affollano stanzini e bugigattoli che assumono l’aspetto di antri dove muoversi è un’impresa. In stanze a par-te, ai conoscitori vengono presentati i pezzi

veramente preziosi – le monete antiche au-tentiche, i dipinti meno dozzinali e i gioielli di buona fattura.Ecco Gondar, il più italiano dei centri del circuito classico. Passiamo in rassegna le costruzioni coloniali: il palazzo delle Poste, che domina la piazza centrale, il quartier ge-nerale della polizia e alcuni complessi abita-tivi abbandonati. Per ripugnante che possa essere l’ideologia dietro lo stile architetto-nico e artistico degli anni ’30, non si può negargli una inconfondibilità e una pulizia di linee fuori dal comune. Ci s’aspettereb-be un qualche sentimento di rivalsa, dopo i trascorsi storici tra Italia ed Etiopia, ma no: ci dicono che l’Italia è un buon paese, che le relazioni ora sono amichevoli. Il no-vantatreenne sacerdote di Wukro Chirkos ci confida i suoi ricordi in un sorprendente italiano, ed altri ancora conoscono un po’ la nostra lingua per ragioni di affari. Non che si siano italianizzati: poco oltre la piazza, la sera, dopo cena, dal Balageru Bar trabocca un incessante ritmo tribale. Dentro, un tro-vatore, accompagnandosi con un liuto ad una sola corda, improvvisa, proprio come facevano i negri trapiantati nelle Americhe con il blues. Una ballerina lo accompagna imitando il suono acuto del sistro: “Tssss! Tssss!”, muovendo le spalle e scuotendo il piccolo petto. Prendono in giro gli stranie-ri che si sono seduti assieme ai locali, che bevono da bottigliette monodose un vino molto ordinario o analcolici colle bollicine. Anche alcuni ristoranti celebrano il colore locale: particolarmente gradevoli quello del Seven Olives Hotel di Lalibela, l’”Hàbesha Kitfo” di Gondar e, a Macallè, l’”Hàbesha Village”. Per trovare quella rara specialità

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06 I testi sacri dell’Abba di Debre Maryam (vicino a Bahir Dar)07 Costruzioni nel Recinto Reale di Gondar08 Lungo la strada da Axum a Yeha09 La cascata Chele Anka nei pressi di Macalle10 Verso Lalibela

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tutta etiope, il “fish goulash”, sorprendente-mente presente in tutti i menù ma mai di-sponibile, ci siamo dovuti spingere fino al nuovo “Fresh Taste” di Harar, dove abbiamo anche potuto visitare la linea di produzione della Harar Beer Factory, una distilleria inau-gurata nel 1984 in collaborazione con ma-estranze cecoslovacche. In collaborazione con missionari portoghesi era invece stato fatto costruire il castello di Guzara (1571) e i bagni di Fasilidas vicino a Gondar, e in Gon-dar stessa il recinto reale, un complesso di castelli, biblioteche, depositi e stalle. Poco fuori città, la piccola chiesa di Debre Birhan Selassie custodisce l’opera d’arte più nota d’Etiopia: il soffitto dipinto con decine di vol-ti d’angelo. Con la sua aria vagamente goti-ca, è la chiesa che più si avvicina alla nostra idea di luogo sacro, anche se l’incessante afflusso di turisti le ha tolto l’aura religiosa. È così riccamente decorata perché doveva conservare l’arca dell’alleanza, della quale si sono perse le tracce o che forse sta ad Axum, in una cappella vicino alla Cattedrale di Tsion Maryam – non lontano da dove la stele che si ergeva a piazza di Porta Capena a Roma, affumicata per decenni dal traffico diretto all’EUR, ora fa bella mostra di sé nel Parco delle Steli.Tra Gondar e Axum, la meraviglia naturale dell’Etiopia settentrionale merita almeno un giornata: il parco dei monti Simien offre paesaggi stupendi che non hanno nulla da invidiare al Grand Canyon. Sì, delle cascate del Nilo Azzurro vicino a Bahir Dar i primi esploratori avevano pure riportato racconti eccitatissimi, ma ora che la maggior parte dell’acqua è convogliata verso una centrale idroelettrica, sono rimaste ben poca cosa.

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I Simien invece sono talmente belli che gli escursionisti organizzano spedizioni a piedi di anche più d’una settimana, con guida, guardia (ambedue obbligatorie, a sentire il ranger che rilascia i passi) e muli per il tra-sporto, alloggiando presso gli abitanti dei villaggi che costellano le pendici, coltivate a terrazze ove possibile, di questi rilievi. La pre-senza di abitanti dà al parco una dimensione meno selvaggia, più abbordabile, senza però sminuire la sua straordinaria monumentalità. Colonie di babbuini gelada scavano radici commestibili, rapaci punteggiano l’azzurro e vediamo perfino un branco di rari stambec-chi walia ibex, una specie endemica degli alti Simien. È sabato mattina presto e a Debark, il villaggio base per i Simien, c’è grande agi-tazione per il mercato settimanale. Un gio-vanotto nudo, mantello in spalla e bastone in mano come l’Edipo del famoso quadro di Ingres, guarda il viavai, le sue gioie in bella mostra, tra l’indifferenza generale. Forse qui è normale, chissà. Puntiamo verso nord: il nostro autista ignora ogni regola di creanza per non rimanere dietro ad altre vetture, den-tro alla scia polverosa che, nell’aria secca, si amplifica e persiste come il fumo di un razzo. La strada che da Debark porta a Axum è lun-ga, tutta tornanti, a volte anche pericolosa ma sicuramente la più panoramica d’Africa. È un gioiello di ingegneria italiana che scen-de circa 2.000 metri fino al fiume Tacazzè in relativamente pochi chilometri. Ora sono i cinesi che costruiscono le strade in Etio-pia – i villaggi degli operai sono protetti da un recinto di filo spinato – ma non si cimen-tano in progetti così ardui. Difficile è anche un’altra strada, quella che da Korem porta

a Lalibela attraverso aspre montagne. Ogni pomeriggio si aggruma una perturbazione che verso sera scende a Lalibela. Pioggia in Etiopia! Il nostro autista, dopo aver arranca-to a lungo con coraggiosa determinazione, decide di arrendersi in corrispondenza di alcune capanne: la visibilità è zero, siamo dentro ad una nuvola e piove fitto. Già imma-ginavo di pernottare scaldato dalle capre – non sarebbe stata la prima volta, ma non me l’aspettavo – ma riusciamo ad arrivare a La-libela col calar della notte. Anche qui, come dappertutto, l’esercito delle dodici scimmie è più veloce di noi: gli inservienti (mai parola fu più appropriata!) dell’albergo si precipita-no sui nostri bagagli per portarli alle nostre stanze senza neanche sapere quali siano. Io mi sono premunito e ho sempre il portafo-glio pieno di biglietti da 1 birr…“Chirrr-up! Chirrr-up!” I pulsanti delle fotoca-mere del gruppo di bianchi ai margini della piazza del Grande Mercato di Harar sparano a raffica, fissando le picchiate radenti, veloci e un tantino macabre di una ventina di falchi neri. Sopra gli archi arabi dei depositi costru-iti dagli italiani si intravede il tetto di legno, in stile alpino, della casa di Rimbaud, che an-che vicino alla morte non smise di progettare un ritorno in Africa, il suo Eldorado. La co-struzione è vicina a quella, ormai scomparsa, che appartenne al poeta, e vi si respira un’aria antica. V’è stata girata la sua biografia, “Una stagione all’inferno”, titolo che si materializza con l’incontrovertibilità della realtà qui, tra stretti passaggi ciechi, la spazzatura onnipre-sente e l’incessante assedio dei bambini di Harar. Nei cassetti degli alberghi si trovano preservativi, timido tentativo di arginare que-sta piaga. Le foto centenarie al primo piano mostrano la città, la quarta in ordine di san-tità per l’Islam, come avamposto di frontiera, bello e impossibile: Rimbaud fu uno dei primi bianchi ad arrivarci. Poco è cambiato nell’or-ganizzazione quasi tribale della popolazione e nelle sue credenze: Harar vanta la più alta concentrazione di moschee del mondo, e in sacre stanze disseminate lungo i vicoli, na-scoste agli occhi degli infedeli, pesanti volu-te d’incenso stagnano sui mausolei di santi uomini, a cui fanno devota e gelosa guardia vecchi in pose da odalisca. L’impronta ara-ba è evidente anche nella concezione della casa tradizionale. La porta s’apre su un vasto ambiente movimentato da tre livelli, occupati a seconda del rango e dell’età. I bei tappe-ti esigono che le scarpe vengano lasciate all’uscio, e i coloratissimi oggetti d’ogni gior-no, quando non in uso, decorano i muri. Im-pressiona la logica, la gerarchia e l’economia d’uso di questi spazi. Nella città vecchia, an-

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cora cinta dalle mura costruite dal sultano nel 1560, una via è dominio dei sarti, che lavo-rano tranquilli alle loro vecchie Singer su uno sfondo di stoffe dai colori sgargianti. Il forte odore del caffè assale all’angolo di qualche strada, dove i chicchi dell’ottima qualità lo-cale vengono torrefatti o la bevanda servita, a volte seguendo il rispettoso rituale etiope. Anche il pasto serale delle iene segue una precisa etichetta: fuori dalle mura, in un paio di luoghi designati, gli uomini delle iene chia-mano gli animali per nome e, per appena 50 birr, si può assistere all’inconsueto incontro dell’umano col selvatico. Ma è la coesione del tessuto urbano, in pianta quasi uno dei fitti disegni a incastro di Keith Haring, la vera bellezza di Harar, non certo gli “splendidi mosaici della Asmaddin Beri”, come scrive la Lonely Planet a proposito di una delle porte occidentali della città, che a un’osservazione più attenta si rivelano essere sudicie matto-nelle dal disegno pacchiano. Alle rivendite – mere finestre su uno stanzino alle cui pareti figurano dappertutto gli stessi prodotti – una stecca di sigarette locali costa 50 birr, due euro e mezzo. Chi si accontenta, gode. Delle tanto sospirate Camel Light, per ignoranza non acquistate al duty free del Cairo, in Etio-pia non c’è traccia.

E non è l’unico zoccolo duro d’un viaggio in Etiopia: l’adattamento al quale si è co-stretti riguarda l’abc stesso della vita. Ab-biamo sentito le streghe di un gruppo che soggiornava contemporaneamente a noi all’albergo Atse Yohannis di Macallè pro-testare chiedendo uno sconto perché non c’era acqua nei bagni. Oltre alle beffe (pre-tendere acqua in un paese arido), anche il danno (aspettarsi una riduzione del prezzo)? Dove credevano di essere? Al 155° posto nella classifica dell’indice di sviluppo umano (http://it.wikipedia.org/wiki/Indice_di_svilup-po_umano) e tra il 70° e l’80° posto in base al Prodotto Interno Lordo (anche se il PIL andrebbe rapportato alla popolazione per avere un’idea più precisa di quanto siano poveri) (http://it.wikipedia.org/wiki/Lista_di_stati_per_PIL_(PPA), all’Etiopia non si può chiedere quel che non ha. La ragazza bianca che, all’aeroporto, sosteneva per le manine la bambina moretta, insegnandole a cam-minare, quella sì aveva capito cos’è l’Etio-pia. Abbiamo visto un paio di questi piccoli viaggiare con i genitori adottivi, ed è venuta anche a noi la tentazione di portare via una faccina di cioccolato. Il fascino dei bianchi è tale che i piccolissimi offrono la mano per camminare assieme, quasi ad avere un con-

tatto magico con un extraterrestre. Quelle volte, non c’è differenza culturale che tenga: il codice della vita è uguale per tutti. Dob-biamo confessare però di esserci presi una breve vacanza dalle privazioni degli alber-ghi etiopi: ci siamo concessi una notte alla Gheralta Lodge, un’oasi di pulizia con acqua calda e fredda a volontà, camere spaziose e cena e colazione come le intendiamo noi. Basti dire che, prima di cena, l’accoglienza ai nuovi arrivati prevede l’aperitivo, servito nella bella veranda coloniale che dà su un minigiardinetto verde, dove poltrone, divani, libri e pubblicazioni sulla geografia dell’Etio-pia, sui suoi abitanti, e perfino una rivista ita-liana d’epoca che stronca il discorso contro l’Italia tenuto da Hailé Selassie alla Società delle Nazioni, invitano al relax sulle note pet-tinate di “Portrait in Jazz” del Bill Evans Trio e del jazz forbito di Thelonious Monk. Solo ad Addis Abeba avremmo trovato una siste-mazione pari, dopo due ore di vane ricerche a causa del 14° African Union Summit che aveva intasato tutti gli alberghi raccomanda-ti: una “suite” con, oltre alle camere da letto, un salone con 37 posti a sedere a meri 500 birr a notte.Al ritorno, i doni dell’Etiopia passano in ras-segna via via che si riprendono le vecchie, cattive abitudini. Pantaloni che riuscivo a mala pena a infilarmi, ora, quattro chili giù – un bonus non previsto di questo viaggio – calzano perfettamente, grazie alla mancanza di alcolici, alle colazioni molto occasionali (gli alberghi non usano offrirla, e anche se lo facessero, chi mangerebbe ingera imbe-vuta, servita con ingera?), alle insalate che non conoscono l’olio, alle faticose cammi-nate necessarie per le visite e al non ave-

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11 Mercato di Macalle12 Sartoria all’aperto al mercato di Gondar13 Tessitrice della comunità di Awramba14 Muro moderno di protezione del monastero di Yemrehanna Kristos15 Strumento per la musica sacra

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Avventure nel mondo 1 | 2011 – 83

Etiopia

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re la sera a tiro di mano dolci e cioccolata. Hanno anche contribuito un paio di giorni di malessere grazie ad un’insalata del Cot-tage Restaurant, “uno dei più vecchi e dei migliori” di Addis – stando alla Bradt Guide, la vera bibbia del viaggiatore in Etiopia – e del suo cibo svizzero e continentale, mentre tutto era filato liscio durante le tre settima-ne di cibo locale. Si torna a casa, e l’acqua corrente è magicamente disponibile a qua-lunque ora (spesso, anche negli alberghi di categoria media, è disponibile solo dalle 6 alle 8 e dalle 18 alle 22) e, incredibile dic-tu, a volontà sia la fredda che la calda! Ora che la cura del corpo è di nuovo possibile, ora che non siamo più un drappello alla con-quista di inesplorati territori armati di una punta-e-clicca, riscopriamo dimensioni di noi che avevamo dimenticato e che, forse, in un paese del terzo mondo non esistono o che comunque raramente abbiamo trova-to in Etiopia: il diritto alla privacy, al rispet-to e quella pienezza dell’essere nei diversi ruoli che svolgiamo al lavoro, in famiglia, col partner. L’educazione, che ci riscatta da una vita simile a quella degli animali, deve ancora diventare una priorità per le famiglie

che mandano i ragazzi a pascolare pecore e mucche. Che dico! Una priorità? Più esatto dire una “possibilità”. Quanto distante sarà la scuola più vicina? Quanto può incidere sul bilancio familiare il peso di uno studente? Per questo un esperimento sociale come quello di Awramba, trovato tra Bahir Dar e Gondar, fa ben sperare. Attraverso i tempi e i continenti, a volte emergono questi esempi di comunità ideale, i membri delle quali han-no rinunciato alla proprietà privata lavorando insieme e insieme guadagnando, attuando una eguaglianza di ruoli tra i sessi e una con-divisione delle risorse umane e territoriali alla quale Marx avrebbe trovato un solo difetto: la libertà di credo religioso. Una ragazza dall’inglese migliore del nostro ci racconta le peripezie di questo speranzoso gruppo di comunardi, mostrandoci la scuola, l’ostello, lo stanzone coi telai, la biblioteca e un’abita-zione col suo ingegnoso sistema di cottura dei cibi e di riscaldamento. Veniamo alla fine presentati alla mente del progetto: il vecchio compare, appropriatamente fuori dai canoni, con uno zucchetto di lana verde pisello che pare una cuffia da bagno. Memori dell’espe-rimento di Auroville (Kerala, India) e, più vici-na a noi, anche se screditata dalla retorica risorgimentale, della colonia di San Leucio (Caserta), voluta da Ferdinando di Borbone, e i cui benefici per gli abitanti perdurano a tutt’oggi, auguriamo al progetto i consensi che la popolazione limitrofa finora non gli ha concesso e che ottenga dallo stato l’ap-poggio che necessita. Abbiamo anche visi-tato una cooperativa d’un gruppo di donne madri che producono oggetti di terracotta: un’iniziativa comunitaria più commerciale ma altrettanto valida. Gli etiopi devono mettere

il cervello in moto e smettere di pensare di potersi guadagnare da vivere – per poco che possa essere necessario in quel pae-se – facendo i lustrascarpe: con la polvere che c’è, una più completa assurdità è diffi-cile da immaginare. Se gli Stati Uniti sono il paradiso dei dietologi, l’Etiopia è il paradiso degli idraulici: nessun rubinetto funziona, e gli scaldabagni solo occasionalmente. Se il paese vuole puntare sul turismo, meglio pa-vimentare le strade, preservare il patrimonio culturale e formare personale competenti per alberghi, ristoranti e agenzie turistiche. Per ora, è solo ad Addis Abeba che le peco-re per strada sembrano fuori luogo: in ogni altra parte, sono le strade ad essere le in-truse nel paesaggio, e giustamente vengono ignorate dalle greggi e dalle mandrie, e usa-te come canali preferenziali dai muli vaganti, oltre che dagli asinelli stracarichi di legna da ardere, di sacchi di granaglie e di farina e d’ogni altra merce.La strada è un fiume di animali e di gente. Sono tanti gli etiopi, più di settanta milioni. Intorno ai numerosi palazzi a cui stanno la-vorando, le impalcature sono di pali di legno. Le barre di acciaio delle armature puntano speranzose in alto, aspettando un ulteriore piano, come dappertutto in Africa. L’intero continente è in costruzione, al momento. For-se un giorno scoprirà anche la manutenzio-ne dell’esistente. Forse le ragazze del tavolo vicino, mentre noi finiamo il nostro supersuc-co, stanno parlando della scuola per chef, di una laurea in letteratura, e la più bella, quella col corpetto pastello, della nuova versione di Windows. Sorridono perché il lavoro certo non mancherà. C’è così tanto da fare in Etio-pia: occorre solo dar tempo al tempo.

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