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ANDREA DI MAIO ESPLICITI RICHIAMI E TACITI LEGAMI: ANTONIO E FRANCESCO; BONAVENTURA E ANTONIO Sebbene in modo trasversale e fluido, l’Ordine minoritico ha manifestato alcune peculiarità culturali e spirituali grazie ai legami effettivi (a volte inconsapevoli o taciuti) e ai richiami espliciti (a volte fittizi) dei singoli col gruppo e con la sua radice, ossia con Francesco (o a volte con una qualche immagine di lui). Qui si ipotizza che esista un “paradigma” francescano della predicazione e che esso abbia contribuito a formare un Gemeingut caratterizzato dalla riedificazione personale ed ecclesiale mediante le virtù; e che esistano in qualche modo legami e dipendenze testuali di Antonio rispetto a Francesco e di Bonaventura rispetto ad Antonio, dipendenze peraltro taciute sia da Antonio (forse per la riservatezza dettata da una minorità fatta propria), sia da Bonaventura (probabilmente per motivi di opportunità, dovendo sostituire al vecchio un nuovo modello di studio nell’Ordine). In particolare, si prova a rileggere in questa prospettiva nuova alcuni testi emblematici: di France- sco, il biglietto ad Antonio, insieme all’ammonizione ai nescientes litteras e al dettato della perfetta leti- zia; di Antonio, il sermone sui gigli del campo e quello per l’Ottava di Pasqua; di Bonaventura, due pas- saggi della prima e della ventiduesima collazione sui giorni della creazione. Nella consapevolezza della provvisorietà dei risultati, si propone all’attenzione degli studiosi una possibile pista di ricerca, con l’auspicio che in particolare dall’esame comparativo testuale e lessicale dei testi antoniani e bonaventuriani possano emergere interessanti scoperte. Facendo seguito a un progetto di ricerca più ampio 1 , oggetto di questo studio sono i rapporti testuali tra Francesco d’Assisi, Antonio di Lisbona-Padova e Bonaventura di Bagnoregio, nel tentativo di ricostruire (a partire da quelli espliciti di Francesco con la globalità dell’Ordine e con Antonio in particolare) quelli impliciti di Antonio con Fran- cesco e di Bonaventura con Antonio, attraverso testi e contesti consultabili in concor- danze elettroniche ed esaminati con ermeneutica lessicografica 2 . 1 Il presente studio è apparso con il titolo Espliciti richiami e taciti legami: Antonio e Francesco; Bo- naventura e Antonio, in “Il Santo” 2006 (46), p. 7-54, che a sua volta completa Vita spirituale e riflessio- ne filosofico-teologica: Bonaventura e il paradigma francescano e antoniano della riedificazione me- diante le virtù, in “Revista Portuguesa de Filosofia” 2006 (in cui si studia maggiormente il rapporto di Bonaventura con Francesco); entrambi gli articoli sviluppano i contenuti della relazione Le paradigme franciscain de la louange des vertus dans la prédication d’Antoine et de Bonaventure, presentata al XII Medieval Sermon Studies Symposium, tenutosi a Padova dal 14 al 18 luglio del 2000. L’occasione di questo studio e l’impulso ad occuparmi di Antonio mi sono stati offerti da Riccardo Quinto, che ringrazio per le preziose indicazioni, insieme ad Alberto Bartòla (quanto alle possibili fonti antoniane), Felice Accrocca (quanto al francescanesimo primitivo); Antonino Poppi, Luciano Bertazzo e Paul Spilsbury (quanto agli studi antoniani). 2 I testi bonaventuriani sono citati da: Sancti BONAVENTURAEERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFI- NITO. Opera omnia, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1882-1902 (in 10 volumi). Breviloquium, Itinerarium, De reductione e sermoni teologici sono citati dall’editio minor: Opera theologica selecta, vol. 5, Ad Cla- ras Aquas 1964. Le collazioni in Hexaëmeron sono citate per la prima recensione dalla editio maior; per la seconda recensione da Sancti BonaventuraeErrore. Il segnalibro non è definito. Collationes in Hexa- ëmeron et bonaventuriana quaedam selecta, edidit F. Delorme, Ad Claras Aquas 1934. Una nuova edi- ESPLICITI RICHIAMI E TACITI LEGAMI 1

ESPLICITI RICHIAMI E TACITI LEGAMI: ANTONIO E FRANCESCO

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Page 1: ESPLICITI RICHIAMI E TACITI LEGAMI: ANTONIO E FRANCESCO

ANDREA DI MAIO

ESPLICITI RICHIAMI E TACITI LEGAMI: ANTONIO E FRANCESCO; BONAVENTURA E ANTONIO

Sebbene in modo trasversale e fluido, l’Ordine minoritico ha manifestato alcune peculiarità culturali e spirituali grazie ai legami effettivi (a volte inconsapevoli o taciuti) e ai richiami espliciti (a volte fittizi) dei singoli col gruppo e con la sua radice, ossia con Francesco (o a volte con una qualche immagine di lui). Qui si ipotizza che esista un “paradigma” francescano della predicazione e che esso abbia contribuito a formare un Gemeingut caratterizzato dalla riedificazione personale ed ecclesiale mediante le virtù; e che esistano in qualche modo legami e dipendenze testuali di Antonio rispetto a Francesco e di Bonaventura rispetto ad Antonio, dipendenze peraltro taciute sia da Antonio (forse per la riservatezza dettata da una minorità fatta propria), sia da Bonaventura (probabilmente per motivi di opportunità, dovendo sostituire al vecchio un nuovo modello di studio nell’Ordine).

In particolare, si prova a rileggere in questa prospettiva nuova alcuni testi emblematici: di France-sco, il biglietto ad Antonio, insieme all’ammonizione ai nescientes litteras e al dettato della perfetta leti-zia; di Antonio, il sermone sui gigli del campo e quello per l’Ottava di Pasqua; di Bonaventura, due pas-saggi della prima e della ventiduesima collazione sui giorni della creazione.

Nella consapevolezza della provvisorietà dei risultati, si propone all’attenzione degli studiosi una possibile pista di ricerca, con l’auspicio che in particolare dall’esame comparativo testuale e lessicale dei testi antoniani e bonaventuriani possano emergere interessanti scoperte.

Facendo seguito a un progetto di ricerca più ampio 1, oggetto di questo studio sono

i rapporti testuali tra Francesco d’Assisi, Antonio di Lisbona-Padova e Bonaventura di Bagnoregio, nel tentativo di ricostruire (a partire da quelli espliciti di Francesco con la globalità dell’Ordine e con Antonio in particolare) quelli impliciti di Antonio con Fran-cesco e di Bonaventura con Antonio, attraverso testi e contesti consultabili in concor-danze elettroniche ed esaminati con ermeneutica lessicografica 2.

1 Il presente studio è apparso con il titolo Espliciti richiami e taciti legami: Antonio e Francesco; Bo-naventura e Antonio, in “Il Santo” 2006 (46), p. 7-54, che a sua volta completa Vita spirituale e riflessio-ne filosofico-teologica: Bonaventura e il paradigma francescano e antoniano della riedificazione me-diante le virtù, in “Revista Portuguesa de Filosofia” 2006 (in cui si studia maggiormente il rapporto di Bonaventura con Francesco); entrambi gli articoli sviluppano i contenuti della relazione Le paradigme franciscain de la louange des vertus dans la prédication d’Antoine et de Bonaventure, presentata al XII Medieval Sermon Studies Symposium, tenutosi a Padova dal 14 al 18 luglio del 2000.

L’occasione di questo studio e l’impulso ad occuparmi di Antonio mi sono stati offerti da Riccardo Quinto, che ringrazio per le preziose indicazioni, insieme ad Alberto Bartòla (quanto alle possibili fonti antoniane), Felice Accrocca (quanto al francescanesimo primitivo); Antonino Poppi, Luciano Bertazzo e Paul Spilsbury (quanto agli studi antoniani).

2 I testi bonaventuriani sono citati da: Sancti BONAVENTURAEERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFI-NITO. Opera omnia, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1882-1902 (in 10 volumi). Breviloquium, Itinerarium, De reductione e sermoni teologici sono citati dall’editio minor: Opera theologica selecta, vol. 5, Ad Cla-ras Aquas 1964. Le collazioni in Hexaëmeron sono citate per la prima recensione dalla editio maior; per la seconda recensione da Sancti BonaventuraeErrore. Il segnalibro non è definito. Collationes in Hexa-ëmeron et bonaventuriana quaedam selecta, edidit F. Delorme, Ad Claras Aquas 1934. Una nuova edi-

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Già varie ricerche hanno avvalorato il carattere francescano della predicazione an-toniana, e la possibilità di una qualche conoscenza del messaggio antoniano da parte di Bonaventura.

Le ipotesi che qui avanziamo è che esista un “paradigma” francescano della predi-cazione e che esso abbia contribuito a formare un Gemeingut caratterizzato dalla riedifi-cazione personale ed ecclesiale mediante le virtù 3; e che esistano in qualche modo le-gami e dipendenze testuali di Antonio rispetto a Francesco e di Bonaventura rispetto ad Antonio, dipendenze però taciute rispettivamente da Antonio e Bonaventura, probabil-mente per la loro personale percezione della spiritualità minoritica.

L’obiezione a volte mossa a prospettive del genere è che non pare esserci una spe-cificità francescana o domenicana nei sermoni o in altre produzioni culturali. Ad esem-pio, sebbene francescani e domenicani nel medioevo avessero norme diverse sul posses-so di libri (che per i francescani dovevano essere semplici e dozzinali), tuttavia non si riscontra differenza tra i libri posseduti dagli uni e quelli posseduti dagli altri 4; ma pro-prio qui sta il punto: che entrambi possedevano gli stessi libri, ma mentre gli uni non se ne facevano un problema, gli altri sentivano invece di doversene giustificare. Insomma, nella storia culturale, anche i significati dei fatti (con cui sono percepiti da attori e spet-

zione del sermone “Unus est Magister vester Christus” è in Renato RUSSO, La metodologia del sapere nel sermone di san Bonaventura “Unus est Magister vester Christus”. Con nuova edizione critica e tra-duzione italiana, Grottaferrata 1982. Si tengano presenti le seguenti abbreviazioni: Brev (Breviloquium), Don (De donis), Hex (In Hexaëmeron, prima recensione), HexD (In Hexaëmeron, recensione edita da Delorme), LegMa (Legenda Maior); LegMi (Legenda Minor), Itin (Itinerarium mentis in Deum), MyTrin (De Mysterio Trinitatis), PerfEv (De perfectione evangelica), Red (De reductione artium ad theologiam), Sent (In Sententiarum libros), Solil (Soliloquium), TriVia (De triplici via). I testi di Tommaso sono stati esaminati e citati dal CD: Roberto BusaERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO., Sancti Thomae Aqui-natis opera omnia cum hypertextibus in CD-ROM, Milano 1992; 21996; le ubicazioni sono date secondo il metodo del CD stesso (e quindi dell’Index Thomisticus). I testi francescani sono tratti dalla edizione di Kajetan Esser, Gli scritti di san Francesco d’Assisi, EMP, Padova 1982; cf anche Fontes Franciscani, a cura di Enrico Menestò et al., Porziuncola, Assisi 1995, e Fonti Francescane, EMP, Padova 1977, 31980. L’opus antoniano è stato citato da ANTONII PATAVINI Sermones dominicales et festivi ad fidem codicum recogniti curantibus Beniamino Costa, Leonardo Frasson, Ioanne Luisetto coadiuvante Paulo Marangon, EMP, Padova nel 1979, 3 vol.; è stato usato anche il CD delle rispettive concordanze elettroniche; i ser-moni antoniani sono indicati con l’abbreviazione del nome della domenica o della festa a cui si riferisco-no. La Vita prima di Antonio, detta dall’incipit Assidua, è citata nell’edizione di Vergilio Gamboso, Fonti agiografiche antoniane, vol. 1, EMP, Padova 1981. Gli altri testi patristici e medievali citati sono desunti, se non specificato altrimenti, dal CD: CETEDOCERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. Library of Christian Latin Texts [CLCLT-3], Lovanii Novi - Turnhout 1997. Tutti gli accorgimenti grafici sono reda-zionali.

3 La recente storiografia ha cominciato a indagare i motivi e i modi della riorganizzazione della mate-ria morale attorno alle virtù, piuttosto che ai comandamenti: cf Carla CASAGRANDE - Silvana VECCHIO, La classificazione dei peccati tra settenario e decalogo, in “Documenti e Studi sulla tradizione filosofica medievale”, 1994 (5), p. 331-395; ID., I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Tori-no 2000. La questione di una interpretazione unitaria del pensiero francescano delle origini è enunciata da Antonino POPPI, Per una interpretazione critica della filosofia francescana, in “Il Santo” 1995 (35), p. 205-227.

4 Nicoletta GIOVÈ MARCHIOLI, Circolazione libraria e cultura francescana nella Padova del Due e Trecento, in Preaching and Society in the Middle Ages: Ethics, Values, and Social Behaviour – Predica-zione e società nel Medioevo: riflessione etica, valori e modelli di comportamento (Proceedings of the XII Medieval Sermon Studies Symposium), a cura di Laura Gaffuri e Riccardo Quinto, Centro Studi An-toniani, Padova 2002, p. 131-141.

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tatori) sono, a loro modo, fatti: un po’ come i colori (con le loro distinzioni e opposizio-ni), che non sono nella natura fisica delle cose (ché anzi la radiazione luminosa è scala-re), ma nella percezione oculare e cerebrale di esse. Si potrebbe obiettare inoltre che le differenze tra spiritualità cristiane sono convenzionali, in quanto ad esempio la povertà non è esclusiva dei francescani o lo studio non è esclusivo dei domenicani: ma appunto, le differenze nella spiritualità non sono “per esclusione”, ma “per accentuazione”; un po’ come due diverse interpretazioni di uno stesso brano musicale appariranno identiche al profano, diverse all’esperto.

In effetti, le condizioni psicologiche e sociologiche della conoscenza (condividere un orizzonte esperienziale e valoriale, inserirsi in un processo storico, interagire più da vicino con alcuni piuttosto che altri) contribuiscono al formarsi di tradizioni: mai sepa-rate, spesso mescolate, a volte confuse, ma comunque presenti. Se le diversità temporali e spaziali producono differenze culturali in gruppi umani distinti storicamente o geogra-ficamente, analogamente, anche se in modo più trasversale e fluido, le produrranno an-che le diversità di appartenenza o riferimento in gruppi umani uniti dai legami effettivi (a volte non del tutto consapevoli, o persino taciuti) e dai richiami espliciti (a volte fitti-zi) dei singoli col gruppo e con la sua radice, o con l’idea che se ne sono fatta.

Comunque, nella consapevolezza della provvisorietà dei risultati qui presentati, si intende soprattutto proporre all’attenzione degli studiosi una possibile pista di ricerca, con l’auspicio che in particolare dall’esame comparativo testuale e lessicale dei testi an-toniani e bonaventuriani possano emergere interessanti scoperte.

1. LA “RADICALITÀ” DI FRANCESCO E IL SUO MANDATO AD ANTONIO

Per “radicalità” di Francesco intendiamo qui dunque non (soltanto) quella evange-lica, ma il suo essere stato “radice” di tutto il movimento che da lui prende il nome 5. In effetti, sebbene le successive generazioni francescane non avessero sempre una cono-scenza adeguata della spiritualità e degli scritti del fondatore, la sua figura ne costituiva comunque la radice (o anche “l’archetipo” ideale e perfino ideologico 6), sia indiretta-mente, attraverso la tradizione vissuta e quella agiografica, sia direttamente, tramite la lettura della Regola bollata. In particolare, dagli scritti e dalla vita di Francesco pos-siamo esplicitare un triplice paradigma destinato a modellare la tradizione francescana.

5 Per una presentazione del pensiero filosofico e teologico francescano, dal punto di vista stori-

co-filosofico cf José Antonio MERINO, Historia de la filosofía franciscana, BAC, Madrid 1993 (trad. it. di Luca Diego Fiocchi, Storia della Filosofia francescana, Biblioteca Francescana, Milano 1993); dal punto di vista storico-teologico cf Kenan B. OSBORNE (ed.), The history of franciscan theology, The Franciscan Institute Saint Bonaventure University, St. Bonaventure (NY) 1994; dal punto di vista filoso-fico sistematico cf Orlando TODISCO, Lo stupore della ragione. Il pensare francescano e la filosofia mo-derna, EMP, Padova 2003; dal punto di vista teologico sistematico cf José Antonio MERINO - Francisco Martínez FRESNEDA (ed.), Manual de Teologia Franciscana, BAC, Madrid 2003.

6 Cf Grado Giovanni MERLO, Nel nome di San Francesco. Storia dei frati minori e del francescane-simo sino agli inizi del XVI secolo, EFR, Padova 2003, soprattutto p. 4-5.

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1.1 UN PARADIGMA DI VITA EVANGELICA: RIEDIFICAZIONE INTERIORE E “LAUDE” DELLE VIRTÙ

Tra gli scritti di Francesco, colpiscono alcune preghiere che svolgono la funzione di “laude” (ossia di connotazione positiva) “delle virtù”, messe al centro della vita cri-stiana. Accanto alle tre virtù neotestamentarie dette comunemente teologali, ossia fides, spes e caritas, Francesco menziona altre che pur radicate nella tradizione cristiana, ap-paiono enfatizzate quali tipicamente francescane, come ad esempio la humilitas (a cui si aggiungono la simplicitas, la paupertas, la obedientia), ma anche l’intellectus e la sa-pientia, la vera “regina delle virtù”, tutte finalizzate ad osservare i divini praecepta e pertanto solidali tra loro, così che chi ne offendesse anche soltanto una, le perderebbe tutte 7.

Nella presentazione francescana delle virtù, è caratteristica la identificazione delle virtù con Dio stesso, come “bene, ogni bene, sommo bene”, non solo in senso ontologi-co, ma morale 8. Già la tradizione intertestamentaria e neotestamentaria avevano identi-ficato Dio con la sapienza, o con l’amore, e la tradizione neoplatonica cristiana aveva posto le virtù esemplari in Dio (identificato con l’Intelletto plotiniano), ma è abbastanza innovativo attribuire a Dio i nomi delle virtù, e in particolare chiamarlo “umiltà”.

Ancora più interessante è il Saluto a Maria 9: Francesco la chiama «virgo ecclesia facta», “vergine fatta Chiesa”; la denominazione è talmente innovativa che nella tradi-zione manoscritta è stata trasformata per lectio facilior in “sempre vergine”; dopo un’articolata apostrofe a Maria, Francesco conclude salutando “tutte [le] sante virtù, in-fuse per grazia e lume dello Spirito Santo nei cuori dei fedeli, per renderle da infedeli, fedeli a Dio” («ut de infidelibus fideles Deo faciatis»). Dunque sono le virtù a rendere la singola persona “ecclesiale”, ossia in comunità con Dio e gli altri fedeli. L’idea che la Chiesa cominci già da una singola persona perfettamente riedificata dalle virtù sembra essere una rielaborazione spirituale dell’esperienza iniziale di Francesco come ricostrut-tore di chiese 10.

7 Cf Oratio ante crucifixum dicta [di autenticità discussa, ma forse composta nel 1206 a San Damia-

no]: «O alto e glorioso Dio, | illumina el core mio. | Dame fede diricta, | speranza certa, | carità perfecta, | humiltà profonda, | senno e cognoscemento | che io servi li toi comandamenti. Amen»; cf anche la Salu-tatio virtutum: «Ave, regina sapientia, Dominus te salvet cum tua sorore sancta pura simplicitate. Domina sancta paupertas, Dominus te salvet cum tua sorore sancta humilitate. Domina sancta caritas, Dominus te salvet cum tua sorore sancta obedientia. Sanctissimae virtutes, omnes vos salvet Dominus, a quo venitis et proceditis. Nullus homo est penitus in toto mundo, qui unam ex vobis possit habere, nisi prius moria-tur. Qui unam habet et alias non offendit, omnes habet. Et qui unam offendit, nullam habet et omnes of-fendit. Et unaquaque confundit vitia et peccata». La dottrina della solidarietà delle virtù si collega all’affermazione di Giacomo secondo cui la fede senza la carità è morta [cf Iac 2,10].

8 Cf Laudes Dei Altissimi: «Tu es sanctus Dominus […]; tu es bonum, omne bonum, summum bo-num, Dominus Deus vivus et verus. Tu es amor, caritas; tu es sapientia, tu es humilitas, tu es patientia [Ps 70,5], tu es pulchritudo, tu es mansuetudo, tu es securitas, tu es quietas, tu es gaudium, tu es spes no-stra et laetitia, tu es iustitia, tu es temperantia, tu es omnia divitia nostra ad sufficientiam».

9 Cf Salutatio Beatae Mariae Virginis: «Ave […] Maria, quae es virgo ecclesia facta […] et vos om-nes sanctae virtutes, quae per gratiam et illuminationem Spiritus sancti infundimini in corda fidelium, ut de infidelibus fideles Deo faciatis».

10 Cf TOMMASO DA CELANO, Vita prima, 1.8-9; LegMa 2.

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In fondo, la riedificazione ecclesiale va a coincidere con la “vita secondo la forma del santo Vangelo”, il cui frutto è la “pace” [cf Testamentum, 17 e 27; Regula non bul-lata, 0 e Regula bullata, 1].

1.2 UN PARADIGMA DI EVANGELIZZAZIONE: LE NORME SULLA MISSIONE E SULLA PREDICAZIONE

Nata per la riedificazione interiore tramite le virtù, l’esperienza francescana si è preoccupata innanzitutto di essere evangelica, e di conseguenza, attuando la vita secon-do la “forma del santo vangelo” propria dei primi discepoli, anche evangelizzatrice. In-dicativa di un nuovo atteggiamento anche culturale è la normativa di Francesco sulla predicazione; nella Regula non bullata del 1221 Francesco ne distingue due forme: DE EUNTIBUS INTER SARACENOS ET ALIOS INFIDELES

DE PRAEDICATORIBUS [= INTER FIDELES]

Quicumque frater voluerit ire inter saracenos et a-lios infideles, vadat de licentia sui ministri […]. Fratres vero qui vadunt, duobus modis inter eos possunt spiritualiter conversari.

Nullus frater praedicet contra formam et institu-tionem sanctae Ecclesiae et nisi concessum sibi fue-rit a ministro suo. […]. Omnes tamen fratres operibus praedicent. Et nullus minister vel praedicator appropriet sibi ministerium fratrum vel officium praedicationis.

[1] Unus modus est, quod NON faciant lites neque contentiones, SED sint subditi omni humanae crea-turae propter Deum [1 Pt 2,13] et confiteantur se esse christianos.

[2] Alius modus est, quod, cum viderint placere Domino, annuntient verbum Dei,

UT credant Deum omnipotentem Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, creatorem omnium, redem-ptorem et salvatorem Filium, et ut baptizentur et efficiantur christiani.

[Regula non bullata (1221), 16] [Regula non bullata (1221), 17]

Secondo il primitivo linguaggio francescano i missionari (“euntes”) tra i non cri-stiani vanno dunque distinti dai predicatori (“praedicatores”) a quanti almeno esterior-mente sono cristiani. La differenza terminologica è importante e spiega perché nella lo-ro predicazione Bonaventura [cf Hex 1.1-2] e Antonio [cf IX post Pent., 1; Prol. II] ri-badiranno di voler parlare soltanto alla Chiesa, anche se poi Bonaventura si rivolgerà precipuamente ai “frati” e agli “uomini spirituali”, mentre Antonio preparerà i predica-tori destinati all’intero popolo cristiano, spesso vivente in condizione di non piena prati-ca cristiana (in fondo erano questi gli “eretici” a cui, secondo le vite era rivolta spesso la predicazione antoniana). Il fatto che nella Regula non bullata la missione agli infedeli venga trattata per prima segnala l’aspirazione iniziale di Francesco.

Le cautele con cui Francesco norma le due modalità di annuncio si spiegano alla luce delle difficoltà concretamente riscontrate nei precedenti anni: quanto all’annuncio ai “saraceni”, lui stesso aveva sperimentato il fallimento nella sua missione al Sultano

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d’Egitto nel 1219 a Damiata 11; e poi nel 1220 i missionari francescani in Marocco era-no stati martirizzati; quanto alla predicazione ai fedeli, bisognava stare attenti a non di-ventare o apparire eretici, andando “contro la forma e l’istituzione della Santa Chiesa”: il discrimine tra ortodossia ed eresia si manifestava infatti proprio nella predicazione 12.

Per questo la predicazione è strettamente legata alla “licentia” dei superiori e dell’autorità della Chiesa: una preoccupazione che Francesco ribadirà iperbolicamente anche nel suo Testamento [9], asserendo che nemmeno con la sapienza di Salomone a-vrebbe voluto predicare in una parrocchia senza il consenso del parroco. È importante l’affermazione che tutti i frati debbano predicare con le opere, ossia con la testimonian-za, e che la predicazione verbale sia un semplice servizio, di cui nessuno possa appro-priarsi.

Due anni dopo, nella Regula bullata, missione e predicazione non sono più trattate simmetricamente: la missione è considerata quasi come caso particolare all’interno della vocazione minoritica; sono inoltre omesse le raccomandazioni pratiche; si affronta l’officium praedicationis che si riceve dal ministro generale e che non può essere eserci-tato senza il consenso del vescovo diocesano; il divieto a fare lites vel dissensiones vie-ne riproposto in generale a tutti i frati, intendendo escludere ogni disputa verbale: que-sto porrà nuove sfide ai teologi abituati alla prassi della disputatio (di qui probabilmente deriva il primato che Bonaventura attribuirà alla testimonianza dei miracoli, rispetto all’argomentazione teologica).

In compenso, nella Regula bullata viene aggiunta una interessante disposizione di medodo della predicazione, finalizzata alla edificazione interiore mediante le virtù (cui corrisponde la gloria) e la lotta ai vizi (a cui corrisponde la pena), ma il tutto in relazio-ne al ‘verbum abbreviatum’:

Moneo quoque et exhortor eosdem fratres, ut in praedicatione, quam faciunt, sint “exami-nata et casta” eorum eloquia, ad utilitatem et aedificationem populi, annuntiando eis vitia et virtutes, poenam et gloriam cum BREVITATE sermonis; quia “VERBUM ABBREVIATUM fecit Dominus super terram” [Regula bullata (1223), 9].

È importante riconoscere che «examinata et casta» è reminiscenza salmica [cf Psal 11,7 e 17,31]: la parola “provata e pura” è quindi fondamentalmente quella di Dio, il quale opera quello che annuncia; i frati, perlopiù indocti, che predicano in semplicità, devono di conseguenza presentare, né più né meno, la parola divina, senza aggiungervi nulla di proprio. Questa raccomandazione si potrebbe spiegare anche per la preoccupa-zione che i frati, allora ancora poco istruiti nelle materie teologiche, nel parlare troppo liberamente incorreressero in errori dottrinali.

11 Secondo Bonaventura, Francesco avrebbe rifiutato di entrare in una disputa dottrinale richiestagli dal Sultano, ma gli avrebbe proposto di accendere un rogo per entrarvi con gli avversari, ma stavolta sarebbe stato il Sultano a rifiutare [cf LegMa 9.8; Hex 19.14. Sul senso paradigmatico dell’episodio, cf Jan HOE-BERICHTS, Franciscus en de Islam; trad. it., Francesco e l’Islam, EMP, Padova 2002]. Ma le prime testi-monianze sull’episodio [cf TOMMASO DA CELANO, Vita prima, 1.20 (57); e soprattutto GIACOMO DA VITRY, Lettera da Damiata (del 1220), 2] dicono semplicemente che Francesco, dopo essere stato ini-zialmente maltrattato dai soldati saraceni, fu invece ben accolto dal Sultano, che lo ascoltò senza però convertirsi.

12 Cf Grado Giovanni MERLO, Contro gli eretici. La coercizione all’ortodossia prima dell’Inquisizio-ne, Il Mulino, Bologna 1996; ID., Nel nome…, cit., p. 26-28.

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L’ultima frase è invece la citazione in traduzione latina di un passo paolino [Rom 9,28], a sua volta citazione di un passo isaiano [Is 10,23]: ma mentre il senso originario del testo era che “Dio avrebbe compiuto in breve (ossia rapidamente) la sua parola sulla terra”, poi, secondo una tradizione interpretativa che si sviluppa nel dodicesimo secolo, il “verbo abbreviato” 13 è passato a significare il vangelo stesso, o anche il suo compen-dio dottrinale e pratico e la sua predicazione, o più concretamente l’esempio evangelico di Gesù e addirittura la sua stessa persona, Verbo di Dio fatto carne.

Alla luce delle notizie biografiche di Francesco, comprendiamo che la brevità di sermone da lui richiesta non è soltanto un suggerimento retorico, ma anche una esorta-zione alla “predica dei fatti” e alla imitazione di Cristo, come i biografi ampiamente il-lustrano 14. Altrove viene specificato il fine edificante, penitenziale ed eucaristico, della predicazione:

Et in omni praedicatione, quam facitis, de poenitentia populum moneatis, et quod nemo potest salvari, nisi qui recipit sanctissimum corpus et sanguinem Domini [cf Ioa 6,54] [Epi-stola ad custodes, 1].

Tale indicazione si spiega alla luce di tre novità che si presentavano nella predica-zione al principio del XIII secolo: la prima era la definitiva affermazione della celebra-zione privata della penitenza sacramentale (mentre nella Chiesa antica l’assoluzione se-guiva la penitenza, che durava spesso anni, invece il Concilio Lateranense IV nel 1215 aveva sancito la confessione segreta e privata: sia quella “medicinale”, necessaria in ca-so di peccato mortale per riaccedere alla comunione eucaristica e agli altri sacramenti, sia quella “di devozione”, consigliata regolarmente come pratica ascetica) 15; la seconda novità fu che i nuovi ordini mendicanti (e in particolare i frati minori) si presentarono e furono conosciuti come “penitenti”, il che modificava la connotazione negativa del ter-mine, che precedentemente era attribuito ai pubblici peccatori 16; la terza novità era la centralità del popolo nel contesto delle città: questo porterà ad una diffusione di una vita “penitenziale” tra gli stessi laici 17.

13 Così il sintagma è usato da Bernardo, Aelredo, Giovanni di Forda, Gualtiero di San Vittore, secon-

do il CLCLT-3. In Bernardo, il verbo abbreviato è il condensato del messaggio cristiano, sia in senso dot-trinale che pratico: «verbum abbreviatum fecerunt ei, Symbolum fidei tradentes» [Sermones super Canti-ca Canticorum, 79.2]; «Iusti […] sunt, qui […] cauti sunt […], verbum abbreviatum et abbrevians eligen-tes, non cupere quaecumque vident, sed vendere magis quae possident et dare pauperibus» [De diligendo Deo, 21.3]. Con il trattato Verbum abbreviatum di Pietro Cantore ci troviamo direttamente nel tema della predicazione.

14 Cf CELANO, Vita prima, 10.23, e Vita secunda, 2.157; fino ai tardivi Actus Francisci et sociorum eius, 60.29 («Sic fructificavit sancta simplicitas illorum fratrum, non de Aristotile vel philosophis prae-dicans, sed de poenis inferni et gloria paradisi cum brevitate sermonis, sicut in sancta regula dicitur»).

15 Cf Philippe ROUILLARD, Histoire de la pénitence des origines à nos jours, trad. it., Storia della pe-nitenza dalle origini ai nostri giorni, Queriniana, Brescia 1999.

16 Cf Legenda trium sociorum, 10 (37): prima che la fraternità venisse riconosciuta come “Religio”, ossia ordine religioso, i frati erano chiamati “penitenti oriundi di Assisi”.

17 Il carattere penitenziale del movimento francescano si sviluppò tra i laici e ricevette la sua istitu-zione canonica da Niccolò IV come “Ordine della Penitenza” (detto poi “Terz’Ordine”) nel 1289: cf Gio-vanna CASAGRANDE, Un ordine per i laici. Penitenza e penitenti nel Duecento, nel volume collettivo Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, Einaudi, Torino 1997, p. 237-255.

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Possiamo finalmente riassumere in uno schema quanto detto Francesco sulla predi-cazione: il Verbo abbreviato, che è Cristo, deve essere annunciato con una predicazione concisa e vissuta, incentrata su vizi (e pene) e virtù (e premi), funzionale alla riparazio-ne penitenziale delle anime degli ascoltatori e finalizzata alla “pace”.

VERBUM ABBREVIATUM:

praedicatio ut sermo brevis annuntiatio vitiorum et poenarum annuntiatio virtutum et praemiorum

ad utilitatem ad aedificationem REPARATIO ECCLESIAE IN ANIMA AUDIENTIUM

per poenitentiam ad pacem

1.3 UN PARADIGMA DI STUDIO PER LA VITA EVANGELICA ED EVANGELIZZATRICE: IL BIGLIETTO AD ANTONIO

La fraternità dei minori era sorta in uno spirito di semplicità e senza alcun pro-gramma di studi: solo chi vi entrava essendo già chierico aveva un’istruzione teologica; gli altri rimanevano indotti.

Tuttavia tra il 1223 e il 1226 Francesco scrisse (come ormai è comunemente accet-tato) il famoso biglietto ad Antonio, per autorizzarlo ad insegnare teologia ai frati in vi-sta dell’evangelizzazione: si trattava di una istruzione (per così dire) pastorale, e non ancora universitaria, come quella che l’Ordine intraprenderà dopo la morte di France-sco, costituendo una ulteriore svolta, che allora fu intesa da alcuni come un naturale svi-luppo della precedente, e da altri come invece uno snaturamento dell’intuizione minori-tica originaria.

Prescindiamo qui da quali siano stati i motivi (tuttora discussi) che indussero Fran-cesco ad ammettere gli studi 18, e di conseguenza su quale sia stato il suo atteggiamento al riguardo, se «rispetto o rassegnazione, fiducia o amarezza, apertura […] o delusio-ne» 19, e cioè se l’abbia propriamente e direttamente desiderato, o al contrario se l’abbia solo accettato come inevitabile, dato lo sviluppo imprevisto della piccola fraternità ini-ziale in un Ordine molto numeroso e istituzionalizzato.

18 Nel recente dibattito storiografico, c’è chi ha affermato l’esplicita e positiva volontà di Francesco

in favore degli studi, come Lorenzo DI FONZO, L’apostolato intellettuale componente essenziale del cari-sma francescano-conventuale, “Miscellanea Francescana”, 94 (1994), p. 525-609; cf in particolare p. 530-539 sulla “svolta” compiuta da Francesco stesso con un’intenzione che si svilupperà naturalmente nell’ambito universitario. C’è però anche chi ha mostrato la problematicità della questione, come Pietro MARANESI, San Francesco e gli studi: analisi del “nescientes litteras” del X capitolo della Regola bolla-ta, “Collectanea Franciscana”, 69 (1999), p. 7-40; ripreso e ampliato in ID., Nescientes litteras. L’ammo-nizione della Regola francescana e la questione degli studi nell’Ordine (secc. XIII-XVI), Istituto Storico dei Cappuccini (Bibliotheca seraphico-cappuccina 61), Roma 2000; cf in particolare p. 39-40 per la criti-ca alla posizione di Di Fonzo, e p. 63-66 e 69 per la riformulazione del problema in base all’interpre-tazione da dare all’ammonimento di Francesco: «non curent nescientes litteras, litteras discere» [Regula bullata, 10], di cui si dirà dopo. Per il contesto in cui è maturata la controversa accettazione degli studi cf Pietro MARANESI, La minorità e lo studio sulle tensioni ideali degli inizi dell’Ordine francescano, “Lau-rentianum”, 2003 (44), p. 25-61; Antonio RIGON, Dal libro alla folla. Antonio di Padova e il francesca-nesimo medievale, Viella, Roma 2002, p. 52-54 (sul biglietto di Francesco ad Antonio).

19 MARANESI, Nescientes litteras…, cit., p. 69.

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Comunque siano andate le cose, Francesco ha effettivamente voluto che Antonio insegnasse la teologia ai frati, e che tale novità fosse però accolta in continuità con il ca-risma originario, come si evince dal biglietto da lui scritto, in cui fa riferimento a un passo della Regola bollata che conviene leggere in sinossi al biglietto stesso.

Regula bullata Epistola ad Antonium

De modo LABORANDI. Fratres illi, Fratri Antonio quibus gratiam dedit Dominus LABORANDI, episcopo meo frater Franciscus salutem.

Placet mihi quod LABORENT fideliter et devote, sacram theologiam LEGAS fratribus, ita quod, dummodo excluso otio animae inimico, inter huius STUDIUM

sanctae orationis et devotionis spiritum non exstinguant,

orationis et devotionis spiritum non exstinguas,

cui debent CETERA TEMPORALIA deservire. sicut in Regula continetur.

[Regula Bullata (1223), 5] [Epistola ad Antonium (1223 - 1226)] Il biglietto di Francesco ad Antonio appare come una risposta ad una richiesta spe-

cifica, o perlomeno ad una implicita sollecitazione: infatti, propriamente Francesco non dispone che d’ora in poi i frati studino teologia, ma autorizza Antonio ad insegnarla ai frati. La richiesta era partita da Antonio stesso di sua propria iniziativa? Forse no, cono-scendo il carattere schivo di Antonio, che aveva iniziato la sua attività di predicatore so-lo per obbedienza e che avrebbe poi intrapreso la stesura del sermonario su richiesta de-gli altri frati 20: ma su chi possa essere stato allora l’ispiratore della richiesta torneremo alla fine del paragrafo.

20 Cf Assidua, 8 e 11.2, secondo cui Antonio venne incaricato di predicare stabilmente dopo che per

un caso era stato scoperto il suo valore; e fu poi esonerato dal governo provinciale per attendere a predi-care e comporre sermoni; per il motivo della composizione del Sermonario cf soprattutto Prol., 5: «preci-bus et caritate fratrum, qui me ad hoc compellebant, devictus» (sebbene questa frase sia citazione dal pro-logo delle Sentenze di Pietro Lombardo).

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Pur trattandosi di una innovazione nell’impianto originario della fraternità france-scana, Francesco assimila l’insegnamento teologico ad una realtà già acquisita nella Re-gola, ossia al lavoro dei frati.

Com’è noto, a differenza degli ordini monastici, i nuovi ordini francescano e do-menicano non si sostentavano col loro lavoro, ma con le elemosine (originariamente so-lo in natura per i francescani), ragion per cui furono detti “mendicanti”: questo serviva loro a concentrarsi sulla preghiera e la predicazione, ma soprattutto per testimoniare più efficacemente la povertà evangelica, secondo l’esempio dei primi apostoli. Tuttavia nel-la Regula bullata Francesco ammetteva che alcuni dei suoi frati potessero dedicarsi al lavoro (perlopiù manuale), ma metteva come condizione che esso, come tutte le cose temporali, fosse finalizzato allo spirito di orazione e devozione.

In questo senso, Antonio era autorizzato a insegnare teologia, così come altri erano autorizzati a coltivare i campi o a fare altri lavori. Allo stesso modo, i frati erano impli-citamente autorizzati a studiare teologia; come vedremo, nella riformulazione bonaven-turina del contenuto del biglietto, apparirà invece che i frati siano esplicitamente tenuti a studiare. Nella cautela di Francesco (che anche per questo non aveva voluto accedere al presbiterato, fermandosi al diaconato) è evidente la sua preoccupazione di non per-mettere la formazione di differenze strutturali tra docti e indocti e tra clerici e laici nella fraternità: con quale esito, dopo la sua morte, si sa.

Il titolo di ‘episcopus’ attribuito ad Antonio (che in realtà era semplice prete) ha fatto discutere ed è normalmente inteso come una iperbole 21, e senz’altro ha un senso affettuoso e un po’ spiritoso. Tuttavia, esso ci sembra rivelare la grande sensibilità bi-blica e spirituale di Francesco, che qui usa il termine in un senso più ampio, che pos-siamo provare a ricostruire.

Il lemma ‘episcopus’ è infatti usato negli scritti di Francesco altre 5 volte, di cui 4 in riferimento ai vescovi della Chiesa, e una volta in una citazione dalla prima lettera di Pietro [2,25] nella Regula non bullata del 1221 [22.33] (e nel frammento corrispondente rimastoci della precedente regola), all’interno del capitolo sull’esortazione dei frati, e quindi sullo stile di governo della fraternità: Cristo vi è presentato come “pastor et epi-scopus” delle anime (in greco: «tòn poiména kaì epískopon tôn psuchôn humôn»), di fronte al quale nella fraternità sono egualmente “tutti fratelli” e pertanto non devono chiamarsi tra loro “maestri” o “padri” [Regula non bullata, 22.35; cf Mt 23,8-10].

Francesco non contesta il ruolo del papa, dei vescovi e dei sacerdotes ordinati, né quello dei maestri nella Chiesa, e neppure contesta l’applicazione di titoli quali ‘pater’, ‘dominus’, ‘pastor’, ‘magister’ a semplici uomini, i quali esercitano la loro autorità in nome di Dio 22, ma sembra voler sottolineare il carattere profetico della fraternità da lui fondata, in cui i superiori (‘praelati’) non sono chiamati, come nell’uso degli altri reli-giosi, ‘magistri’, ‘priores’ o ‘abbates’, ma al contrario, con un linguaggio di forte ri-chiamo neotestamentario, ‘ministri’, ‘custodes’ e ‘guardiani’ (e per gli eremitaggi addi-

21 André VAUCHEZ lo ha inteso come una ironica iperbole, quasi a dire: «tu che sai tutto meglio di me perché sei un intellettuale» [Conclusioni, in «Vite» e Vita di Antonio da Padova, a c. di Bertazzo, Padova 1997; = “Il Santo”, 1996 (36), p. 377].

22 Cf i prologhi delle Regole, o Testamentum, 8-10. Bernardo aveva applicato per estensione la de-nominazione di “pastore e vescovo delle anime” anche al papa e ai vescovi della Chiesa [cf De conside-ratione, 1.5; Epistulae, 329]. Francesco chiama suoi “Domini” il papa, il cardinale protettore, i vescovi e i preti.

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rittura ‘matres’): i ‘ministri’ (sia quello generale o di tutto l’Ordine, sia gli “altri”, pro-vinciali o locali) sono tali nel senso latino, ossia servitori, a immagine di Cristo venuto «non […] ministrari, sed ministrare» (“non per essere servito, ma per servire”); in posi-zione ad essi subordinata, ci sono i ‘custodes’ e infine i ‘guardiani’ 23.

Ma che voleva dire “vescovo” (in endiadi con “pastore”)? Nel linguaggio neote-stamentario faceva riferimento alla funzione esercitata da uno dei ministeri della Chiesa primitiva, quella di “supervisione” sulla comunità (era questo il significato etimologico del termine), cui in particolare competeva “esortare con la sana dottrina e confutare co-loro che contraddicono” [Tt 1,7], in un servizio che era definito “buon lavoro” [1Tm 3,2] (in latino «bonum opus»).

Tornando al biglietto ad Antonio, allora, l’uso inconsueto del lemma ‘episcopus’ (al posto del più appropriato ‘sacerdos’) potrebbe essere interpretato in vari modi, anche in relazione all’aggettivo possessivo che l’accompagna.

Secondo l’interpretazione più comune, ‘episcopus’ andrebbe inteso come una iper-bole, dettata o da umiltà o scherzosità, oppure anche come una metafora (quasi a dire: come il vescovo ha un magistero dottrinale nella Chiesa, così Antonio lo avrebbe tra i frati minori). Del resto, poiché il “buon lavoro” del vescovo consisteva (per l’Apostolo) nell’esortare alla buona dottrina [cf 1Tm 3,2], e quindi (per la Chiesa del tempo) anche nel formare i predicatori 24, non è strano che Francesco (per cui l’insegnamento teologi-co era uno dei tanti lavori che i frati potevano svolgere) chiamasse Antonio ‘episcopus’ in questo senso. Più arduo (ma forse non impossibile) arrischiare l’ipotesi che ‘episco-pus’ vada inteso in senso etimologico e come parola volutamente ricercata e dotta (in-somma, come un grecismo), al posto di una parola volgare, ma equivalente, che era ‘guardianus’ (titolo che probabilmente si confaceva ad Antonio, e che Francesco, sa-pendolo erudito e appassionato di etimologie, gli rivolgeva in forma dotta, un po’ per affetto e un po’ per scherzo, e quasi facendogli il verso, in spirito di semplicità e leti-zia) 25.

C’è un’altra parola il cui senso, nonostante le apparenze, non è chiaro, ed è l’agget-tivo possessivo ‘meus’ riferito ad ‘episcopus’. Ma il senso cambia a seconda della sua funzione sintattica. Per intenderci, “mio vescovo” suonerà diversamente in bocca a un fedele e in bocca al papa (come pure, ad esempio, “mio vincitore” in bocca a un vinto e in bocca a un sostenitore). Ebbene, comunemente si dà per scontato che ‘meus’ valga nel primo senso, come se Antonio avesse un ruolo di autorità verso Francesco, il che pe-

23 Cf Epistola toti ordini missa, 47 (58-59); Testamentum, 33-39; Regula pro Eremitoriis. La citazio-ne di Mt 20,28 è in Regula non bullata, 4.5, e Admonitiones, 4. Bonaventura [cf LegMa 6.5] insiste sull’intenzionalità della scelta dei nomi di ‘minores’ e ‘ministri’ da parte di Francesco.

24 L’analogia poteva riferirsi in particolare al ruolo che il Concilio Lateranense IV del 1215 aveva nella decima decretale attribuito ai vescovi nella formazione dei predicatori («Episcopi viros idoneos ad sanctae praedicationis officium salubriter exequendum assumant […]»).

25 L’etimologia di ‘episcopus’ come ‘superintendens’ o ‘speculator’ era ben nota ai medievali, a par-tire da Isidoro, tramite raccolte canoniche e liturgiche [cf Collectio canonum in V libris, 1.1; 1.5; Liber Quare, app. 2, add. 23] fino a Pietro LOMBARDO: «Episcopatus autem uocabulum inde dictum est, quod ille qui episcopus efficitur superintendat, curam scilicet subditorum gerens. […]. Episcopi autem graece, latine speculatores interpretantur: Nam speculator est praepositus in ecclesia dictus, eo quod speculetur atque prospiciat populorum infra se positorum mores et uitam» [Sententiae, 4.24.15]. Il Lombardo aveva addirittura istituito un parallelismo fra la «custodia» degli angeli verso gli uomini con quella di vescovi, abati e signori verso i loro sottoposti [cf Sententiae, 2.11.1].

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rò non era vero: ma non è neppure logico. ‘Meus’ va dunque inteso qui nell’altro senso, il che lascia pensare che Francesco stia parlando con autorevolezza di Fondatore e quin-di con uno sguardo anche al futuro 26.

Un terzo senso di ‘meus’ potrebbe equivalere a “per me”, all’interno di una equa-zione metaforica. Così, ad esempio, Francesco che aveva ottenuto nel 1220 da papa O-norio III il cardinale ostiense Ugolino quale protettore della fraternità, chiamava meta-foricamente quest’ultimo “suo papa” 27, sottintendendo la seguente similitudine: “come il papa sta a tutta la Chiesa, vigilando su di essa, così il cardinale Ostiense sta a me, vi-gilando sulla fraternità”, ovvero “rappresenta il papa per le faccende della fraternità”. Chiamando Ugolino “mio papa” Francesco avrebbe dato all’aggettivo possessivo en-trambi i sensi sopra descritti: infatti, secondo i biografi, Francesco riconosceva autorità ad Ugolino, ma parimenti esprimeva anche una certa autorevolezza su di lui.

Ebbene, secondo una suggestiva ipotesi 28, l’espressione “mio vescovo” riferita ad Antonio andrebbe intesa per duplice analogia a “mio papa” riferita ad Ugolino: ovvero, come ogni vescovo vigila sulla predicazione nella propria diocesi, così Antonio avrebbe duvuto vigilare sulla predicazione dei frati minori.

L’ipotesi avrebbe anche il vantaggio di permettere una chiarificazione unitaria di vari aspetti altrimenti frammentari e problematici del biglietto di Francesco: il suo “pla-cet” sarebbe riferito ad una richiesta che almeno in ultima istanza era di Ugolino, “suo papa”, e che sarebbe riecheggiata nella destinazione ad Antonio “suo vescovo”; proprio per tale analogia fra le due espressioni, il termine “vescovo” può essere inteso in tutta la varietà, sopra descritta, dei suoi sensi (metaforico o analogico, o addirittura etimologi-co) e delle sue sfumature (spirituale, affettuosa, e un pochino scherzosa) e l’aggettivo possessivo “mio” può simultaneamente esprimere sia l’ambito di applicazione dell’analogia (“quanto a me”), sia l’autorità spirituale di Francesco come fondatore, sia l’autorità dottrinale che egli riconosce ad Antonio.

1.4 PRIMA CONCLUSIONE: LA MINORITÀ COMPLESSA Vedremo presto se e come la norma della Regola e il biglietto personale di France-

sco abbiano concretamente influito sulla predicazione di Antonio. Ma Antonio ha a sua volta influito su Francesco? È presumibile di sì, e che Fran-

cesco, dopo aver pensato a lungo sull’opportunità di una formazione teologica, si sia persuaso della bontà della proposta proprio perché vedeva realizzato in Antonio (come forse pure in altri chierici istruiti entrati nell’Ordine) la convergenza di scienza, orazio-ne e predicazione.

26 Dal punto di vista linguistico, quando Francesco scrive “miei ministri” o “miei sacerdoti” o “miei

frati” sembra generalmente parlare da Fondatore; quando invece scrive da semplice frate, professa la sua obbedienza al «ministro generali huius fraternitatis» e al «guardiano, quem sibi placuerit mihi dare» [Te-stamentum, 27; cf Epistola toti ordini missa, 2, 5 e 7].

27 GIORDANO DI GIANO, Chronica, 14; cf anche TOMMASO DA CELANO, Vita Prima, 1.27; 2.5; Vita Secunda, 1.17.

28 Cf Paul SPILSBURY, The Concordance of Scripture: The homiletic and exegetical methods of St An-tony of Padua (consultabile in Internet: www.franciscan-archive.org), cap. 1; pubblicato in sintesi come: Concordantia in the Sermones dominicales of Antony of Padua, “Il Santo” 1999 (39), p. 71-83; e osser-vazioni trasmessemi personalmente dall’autore.

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In effetti, la famiglia linguistica caratterizzata dal tema ‘theolog-’ compare negli scritti di Francesco solo due volte: la prima (con ‘theologia’), proprio nel biglietto ad Antonio; e la successiva (con il plurale di ‘theologus’), nel Testamento del 1226, in cui alla progressiva valorizzazione della lectio biblica si aggiunge l’elogio non solo dei pre-dicatori, ma anche dei teologi (tra cui dunque anche Antonio) «sicut qui ministrant no-bis spiritum et vitam».

Eppure l’evoluzione della posizione di Francesco e dell’Ordine rispetto agli studi fu fino all’ultimo un po’ travagliata, e mette in luce un aspetto di quello che più in gene-rale potremmo definire il problema della minorità complessa (per le varie tendenze convergenti comprese nel carisma francescano e nella sua istituzionalizzazione), che pe-rò dopo la morte di Francesco diventerà spesso una minorità contesa (tra le varie ten-denze sviluppatesi come divergenti nell’Ordine).

Ebbene, proprio per quanto riguarda lo studio, nel Testamento Francesco, pur elo-giando i teologi, presentava sé e i primi frati come «idiotae» 29, che proprio per la loro semplicità avevano potuto essere «subditi omnibus» [cf 1Pt 2,13], e ricordava quella primitiva condizione se non proprio con nostalgia, perlomeno assumendola come esem-plare. In precedenza egli aveva anche ammonito i frati (se prima o dopo la sua accetta-zione degli studi, si discute):

«non curent nescientes litteras, litteras discere» 30.

Siamo davanti ad una perplessità generale sugli studi (che nel caso fosse un’aggiunta posteriore alla Regola avrebbe il peso di una diffidenza maturata e persi-stente)? Ma potrebbe invece trattarsi più semplicemente di un ammonimento rivolto ai frati entrati illetterati nell’Ordine perché non pretendano di emulare i frati letterati…

In questo secondo caso, l’ammonimento riecheggerebbe l’invito apostolico a “ri-manere ciascuno nella condizione in cui è stato chiamato” e a rallegrarsene [cf 1Cor 7,17-24; Gc 1,9-10], invito che era già stato ripreso e riattualizzato dalla tradizione mo-nastica, ed è attestato ad esempio anche nella Regula ad servos Dei [1.4-7] di Agostino, che stigmatizzava le pretese di chi proprio entrando in monastero ambiva ad una posi-zione sociale che nel mondo non aveva avuto.

Oltre a ciò, forse Francesco attribuiva ai suoi frati illetterati un compito importante (al pari di quello dei dotti) di cui rallegrarsi e da cui non sfuggire: quello cioè di rendere presente e ravvivare lo spirito originario di semplicità vissuto da lui stesso e dai primi frati.

Insomma, l’accettazione degli studi non doveva far disperdere il valore della sem-plicità, patrimonio di tutti i frati sì 31, ma custodito e testimoniato in particolare dai “ne-scientes litteras”, che di tale compito dovevano essere lieti.

29 Sul senso di ‘idiota’ a quei tempi si tornerà tra poco. Nel caso di Francesco si trattava di mancanza di istruzione superiore istituzionalizzata, e non di totale mancanza di istruzione e cultura riflessa.

30 Regula bullata, 10. Studiando il significato e il contesto dell’ammonimento, Maranesi ritiene che si tratti di una «inserzione» posteriore e «interpolazione» dello stesso Francesco [MARANESI, Nescientes litteras, cit., p. 64 e passim]: in tal caso, l’ammonimento non esprimerebbe tanto una previa resistenza di Francesco, poi superata dal biglietto ad Antonio, quanto piuttosto una persistente perplessità di Francesco di fronte alla, sia pur inevitabile, trasformazione dell’Ordine.

31 In modo analogo, fin dalla Regula non bullata [17.3], Francesco aveva notato che sebbene solo al-cuni frati predicassero con le parole, tutti dovevano predicare con le opere.

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A conferma, possiamo anche citare un passaggio del de vera et perfecta laetitia: se da una parte, dettando a frate Leone, Francesco aveva escluso che potesse essere “vera letizia” [cf Gc 1,2] l’eventualità che entrassero nell’Ordine i maestri parigini, e cioè non solo teologi in senso lato, ma professori universitari di teologia, tuttavia (e proprio que-sto è per noi significativo) non aveva affatto escluso una tale eventualità, che, sia pure a livello individuale e non di massa, si è poi effettivamente verificata. La preoccupazione di Francesco (espressa più chiaramente nella quinta Ammonizione) era che l’Ordine non avesse a gloriarsi della scienza e intelligenza, ma solo della Croce di Cristo [cf 1Cor 13,1-4; 2Cor 12,5].

In conclusione, la questione sulla reale volontà di Francesco quanto alla istituzio-nalizzazione dell’Ordine e dei suoi studi è complessa e non semplificabile, e sembre-rebbe pertanto da impostare non tanto nei termini di un “aut aut” (accettazione versus volizione; semplicità originaria versus studio…, per cui l’evoluzione acquisisce il carat-tere di una svolta radicale, interpretabile o come provvidenziale arricchimento o, al ro-vescio, come inevitabile scadimento); ma in qualche modo di un “et et”, ossia di una tensione (forse in parte irrisolta) ma sempre nella continuità.

2. IL LEGAME TACIUTO DI ANTONIO CON FRANCESCO: LA RISERVATEZZA DOVUTA

Antonio 32 (Fernando di Martino), nato intorno al 1195 a Lisbona e divenuto cano-nico regolare agostiniano, colpito dall’esempio dei primi martiri francescani missionari in Marocco entrò tra i frati minori nel 1220; andata delusa la sua aspirazione al martirio in Africa, dopo varie traversie giunse ad Assisi nel 1221 e fu inviato dai superiori in Romagna, dove l’anno successivo cominciò per caso la sua fortunata attività di predica-tore e formatore di predicatori, la cui traccia è nell’ opus o sermonario 33.

Se Francesco ha scritto ad Antonio il biglietto sugli studi tra il 1223 (data della Re-gula bollata che vi è citata) e il 1226 (data della morte di Francesco) e se, come pare 34, Antonio ha atteso alla stesura del sermonario dal 1224 (dopo che i francescani ebbero adottato il breviario della curia romana, il cui uso è supposto dai sermoni) al 1231 (anno della sua morte), è ragionevole pensare che il sermonario contenga le tracce delle pre-scrizioni di Francesco: ma come rintracciarle?

Se ad una lettura superficiale l’opus di Antonio sembra riflettere solo la sua forma-zione canonicale, ad una lettura più attenta, e grazie soprattutto allo studio lessicografi-co, rivela tracce importanti della spiritualità della “minoritas” francescana, ma anche della visione che Antonio poteva avere di Francesco e del suo ideale di predicazione e laude delle virtù. Anzi, nel suo sermonario Antonio opera una mediazione e una ripro-posizione originale del paradigma francescano delle virtù in funzione della confessione sacramentale.

32 Cf RIGON, Dal libro alla folla, cit., in particolare p. 22-67 sul minoritismo di Antonio. Per quanto

riguarda il legame di Antonio con la precedente esperienza canonicale e lusitana, cf Maria Cândida Mon-teiro PACHECO, Santo António de Lisboa. Da Ciência da Escritura ao Livro da Natureza, Lisboa 1997.

33 Cf MERLO, Nel nome di San Francesco…, cit., p. 99-104. 34 Cf Francesco COSTA, Sulla natura e la cronologia dei sermoni di Sant’Antonio da Padova, in “Il

Santo” 1999, p. 29-69 (in particolare, p. 42).

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2.1 LA “MINORITAS” ANTONIANA Si può dire che la figura e la spiritualità di Francesco trovi nel sermonario antonia-

no una “presenza per assenza”: mai nominata esplicitamente (tanto da indurre a dubitare che Antonio avesse «strumenti culturali» adeguati a tradurre in teologia la «novità di Francesco» 35), essa risulta comunque presente attraverso metafore e riferimenti biblici e spirituali.

Ad esempio, Antonio, interpretando Paolo, afferma che sono ministri adatti del Nuovo Testamento quelli che «minores se […] reputant» [XII post Pent., 14].

Commentando poi il versetto evangelico “Considerate ergo lilia agri, quomodo cre-scunt: non laborant neque nent” [Mt 6,26, in XV post Pent., 12], Antonio fornisce una interpretazione tropologica interessantissima 36: i gigli sarebbero i penitenti (termine che per Antonio indica perlopiù i fedeli, che devono sempre praticare la penitenza sa-cramentale, ma che qui indica invece chiaramente i frati di Francesco, che nell’uso pri-mitivo venivano chiamati i “penitenti di Assisi”): ebbene i gigli del campo (a differenza di quelli del deserto, che sarebbero gli eremiti, e di quelli dell’orto, che sarebbero i mo-naci della vita claustrale tradizionale) fioriscono nel mondo, imitando la stessa vita nel mondo che fu di Gesù e Maria; tali penitenti «non laborant» (in senso spirituale, ossia non si affaticano nelle cose del mondo; ma è evidente l’allusione alla innovativa, e con-testatissima, prassi degli ordini mendicanti di vivere d’elemosina, ossia non del lavoro delle proprie mani); tuttavia tali penitenti «crescunt», e Antonio aggiunge, citando il salmo [83,8] reinterpretato, «de virtute in virtutem». L’espressione, peraltro già usata dalla tradizione (ad esempio da Bernardo 17 volte), sembra qui però acquisire un senso legato al paradigma francescano della laude delle virtù, che sarà ripreso, come vedre-mo, da Bonaventura [Hex 1.32]. E Antonio conclude: “e questo si avvera quando chi è umile ai propri occhi viene innalzato alla perfezione”: nella citazione finale della profe-zia isaiana del “piccolo divenuto migliaio” a causa della sua “minorità” spirituale è faci-le vedere una allusione alla rapida espansione dell’ordine minoritico.

35 Cf Claudio LEONARDI¸ Il Vangelo di Francesco e la Bibbia di Antonio, in Le fonti e la teologia dei Sermoni antoniani, Atti del Congresso internazionale di studio sui «Sermones» di S. Antonio di Padova, a c. di Antonino Poppi, “Il Santo” 1982 (22), p. 315 (e in generale p. 308-315): Antonio, dovendo media-re fra «il Vangelo sine-glossa di Francesco» e «il Vangelo tutto-glossa degli Scolastici» glossò la Bibbia con la Bibbia stessa [cf RIGON, Dal libro…, cit., p. 54].

36 Cf XV post Pent., 12 (v. 2, p. 238-239): «[Lilia] significant poenitentes, spiritu pauperes, membra sua cum vitiis et concupiscentiis crucifigentes, qui habent humilitatem in corde, […] candorem castitatis in corpore, odorem bonae famae. Isti dicuntur lilia agri, non deserti, non horti. “Ager est mundus” [Mt 13,38], in quo florem permanere quam difficile tam gloriosum est. Florent in deserto EREMITAE, qui ab humana cavent frequentia. Florent in horto clauso CLAUSTRALES, quibus humana cavet custodia. Sed glo-riosius est POENITENTIBUS florere in agro, idest mundo […]. Unde se esse florem campi Christus gloria-tur, cum dicit in Canticis [2,1]: “Ego flos campi”. Ita et beata Maria, eius mater, quae in mundo florem non perdidit, cum tamen nec reclusa nec monialis fuit, gloriosius reputans florere in mundo, quam in hor-to vel deserto. […]. Nota ista tria: “crescunt”, “non laborant”, “neque nent”. Ideo iusti crescunt “de virtu-te in virtutem” [Psal 83,8], quia non laborant neque nent, quod est fila torquere, idest filare. Non laborant in Aegypti lateribus, idest carnis voluptatibus; neque nent, idest diversa fila cogitationum torquent, in temporalibus. Vis crescere? Noli in te laborare nec in mundo nere, et sic eris pauper. […] In terra pau-pertatis, idest humilitate cordis, crescit iustus: cum in se decrescit, in illo Deus crescit. […] Cum minuis te, Deus crescit in te. Unde Isaias: “Erit minimus in mille, et parvulus in gentem fortissimam” [Is 60,22]». Il testo originale del versetto salmico [Psal 83,8] andrebbe in realtà inteso così: “Cresce lungo il cammino il suo vigore finché compare davanti a Dio in Sion”.

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Altrove, Antonio nota (riflettendo sicuramente la situazione dell’ordine minoritico del tempo, che qualora «in religione» (ossia nell’ordine religioso) ci siano sapienti, essi vi sono chiamati in quanto semplici [II post Nat., 14].

Il silenzio di Antonio su Francesco potrebbe essere dovuto dunque a tre motivi: da una parte la sua formazione canonicale già strutturata; dall’altra lo spirito di minorità, per cui il carattere singolare della fraternità doveva essere vissuto e non proclamato; in-fine la critica verso i religiosi («quilibet monachus, vel canonicus») orgogliosi più delle loro regole che della «regula Iesu Christi omnibus regulis, institutionibus, traditionibus, adinventionibus praeferenda», ché anzi «parum aut nihil custodiunt» [II Quadrag., 2].

Tuttavia, sembrano esserci alcuni temi che per quanto radicati nella tradizione, po-trebbero alludere alla vita e alla dottrina di Francesco: così, ad esempio, l’invito attri-buito a Gesù, a seguire spoglio lui spoglio 37: «Sequere me, nudus nudum, expeditus expeditum» [S. Io. Ev., 2]. Meno probante, ma significativo è il riferimento antoniano al Tau [cf I post Nat., 12; IX post Pent., 7].

2.2 LA RIPARAZIONE SACRAMENTALE DELLA “FABRICA VIRTUTUM” Ma probabilmente il carattere della predicazione antoniana più rispondente al pro-

getto francescano è l’adozione, non ripetitiva ma innovativa, del paradigma francescano della laude delle virtù e della riedificazione interiore.

Citando testi biblici e interpretazioni tradizionali, Antonio definisce il Cristo come il costruttore che edifica la sua Chiesa (intesa proprio come edificio), che è non solo la comunità dei redenti in via e in patria, ma è anche la singola anima fedele [cf Cath. Petr., 7; cf Mt 16,18; Am 7,7; Beda, In Cantica, 3.4].

A proposito della festa di Pentecoste, in cui i discepoli ricevettero lo Spirito mentre erano «pariter […] in eodem loco», Antonio giocando sul valore simbolico del numero 50 (prodotto di 5, simbolo dell’uomo con i suoi cinque sensi, e di 10, simbolo della leg-ge di Dio nel decalogo), dice:

Illae mentis cogitationes pariter sunt quae, sub aequali regula rationis, ordinate componun-tur et discrete procedunt, ut una non altior altera, nec alia inferior alia in mente appareat; quod si fieret, ipsa inaequalitas esset occasio ruinae virtutum fabricae [In Pent. I, 9 (v.1, p. 376)].

Le virtù formano in effetti un insieme compatto, anche se variamente elencate nei sermoni; esse tuttavia sono ristabilite nell’anima peccatrice mediante la penitenza sa-cramentale, ossia la contrizione, confessione e soddisfazione 38.

37 Cf GIROLAMO, Homilia de Lazaro et divite; Epistula 125.20: «Nudus nudum Christum sequitur»; «nudum Christum nudus sequere»; ma si potrebbe anche alludere a Francesco denudatosi davanti al padre [Anonymus PERUSINUS, De inceptione ordinis minorum, 1.8]. Del resto GIACOMO DI VITRY [nella Histo-ria Occidentalis, 2.32.5] è tra il 1220 e il 1221 il primo a descrivere i frati minori come i “poveri” che “seguono nudi Cristo nudo”.

38 Cf XIX post Pent., 9-10 (v. 2, p. 318-319), in cui commenta Mc 2,3-4: «Humilitas et paupertas, patientia et obedientia sunt illi quattuor qui offerunt Iesu animam iacentem, in carnis voluptate dissolu-tam. Et quia prae turba, idest turbatione carnalium desideriorum, offerre non possunt, tectum nudant et patefaciunt, et grabatum cum paralytico ante Iesum submittunt. […]. Hoc tectum, tegens et obscurans fa-ciem animae, ne videat lumen iustitiae, quattuor supradictae virtutes nudant in cordis contritione, patefa-ciunt in oris confessione, et sic submittunt ante Iesum, de misericordia Iesu confidentes, animam et cor-pus in poenitentiae satisfactione. Nemo enim potest venire ad Iesum, nisi his quattuor virtutibus asporte-

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Proprio questo ci porta a scoprire due differenze della predicazione di Antonio ri-spetto a quella di Francesco, ossia una maggiore insistenza sulla confessione e una mi-nore insistenza sulla pace.

Quanto alla prima differenza, è ben noto come Antonio abbia valorizzato il ruolo della confessione sacramentale, che a partire dal Concilio Lateranense IV, nel 1215, as-sumeva definitivamente la forma celebrativa che conosciamo ancor oggi. Possiamo no-tare nei sermoni di Antonio una dipendenza spesso letterale dai testi del Concilio, ma in qualche caso si nota anche qualche generica corrispondenza con le norme date da Fran-cesco sulla “confessio” non solo medicinale ma anche di devozione 39.

Quanto alla seconda differenza, c’è chi ha notato come in Antonio manchi il tipico messaggio francescano della pace, e chi ha replicato che però proprio alla pace è dedi-cato un suo intero sermone 40; la verità sta probabilmente nel mezzo: Antonio dà impor-tanza alla pace, ma la intende perlopiù nel senso agostiniano della requies escatologica, più che in quello francescano della pace messianica e mistica. Lo stesso impianto del Sermonario antoniano è una rilettura teologica agostiniana della storia della salvezza: segue infatti il ciclo dell’anno liturgico non a partire dal suo inizio effettivo, cioè dalla prima domenica d’Avvento, ma a partire dalla domenica di Settuagesima, in cui si leg-geva il racconto della creazione del mondo, per poi concludersi con una riflessione sulla requies, in cui si compie ogni ricerca, sempre in senso agostiniano.

Analogamente, Antonio intende agostinianamente la settima (e per lui ultima) bea-titudine, quella dei pacifici [cf XIII post Pent., 20], così cara alla spiritualità francesca-na: infatti riferisce la pace del cuore alla dilectio (intesa come “duos lego”) [fine del Sermonario: III post Epiph., 5]; similmente accentua unità e concordia (che sono poi agostiniane), assieme all’umiltà: “come lo straniero in questo mondo ha il segno distin-tivo della povertà, la fede in Gesù lo farà salvo” [XIV post Pent., 17].

Certo, non tutta la ricchezza del messaggio di Francesco viene dunque sviluppata da Antonio; tuttavia proprio questa sua rilettura agostiniana di istanze francescane segna l’inizio del fortunato connubio tra agostinismo e francescanesimo che si svilupperà nei seguenti decenni.

tur. “Velut, ibi dicit GLOSSA, a quattuor portatur, qui quattuor virtutibus ad Deum fiducia mentis erigitur. De quibus in libro Sapientiae [Sap 8,7]: Sobrietatem et sapientiam docet et iustitiam et virtutem. Quas alii prudentiam, fortitudinem, temperantiam et iustitiam nuncupant”». Cf anche II post Pascha, 15 (v. 1, p. 277): «In capite, “idest mente animae”, debet esse “corona stellarum”, idest virtutum, “duodecim”. In fronte tres, idest fides, spes et caritas; a dextris tres: temperantia, prudentia, fortitudo; in posteriori, mor-tis memoria, iudicii dies amara, indeficiens inferni poena; a sinistris patientia, obedientia et finalis per-severantia». Per la solidarietà tra le virtù nella carità, cf X post Pent., 6.

39 Antonio recepisce [cf I Quadr., 5-6 e 17; Pascha, 1; XII post Pent., 10; IV post Pent., 10] le norme del Concilio Lateranense IV [cap. 21; DS 812-813]; e forse pure quelle di Francesco [Regula non bullata, 20; Admonitiones, 23, de humilitate].

40 Da una parte LEONARDI [Il Vangelo di Francesco e la Bibbia di Antonio, cit., p. 299-318] aveva notato che in Antonio mancava il tipico annuncio francescano della pace, dall’altra, Giuseppina DE SAN-DRE GASPERINI [La pace in Antonio e nella “devotio” dei mendicanti del 1233, in “Studia Patavina” 1981, p. 503-508, cit. da Rigon, Dal libro…, cit., p. 52 e 63] ha messo in luce il sermone della domenica dell’ottava di Pasqua tutto dedicato alla pace: tuttavia, come vedremo, quella trattazione è, tramite la Glossa, da ricondurre ad Alano.

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2.3 LA REALIZZAZIONE DEL “MANDATO” DI FRANCESCO Con una sensibilità che dalle precedenti considerazioni è stata resa più attenta alle

sfumature, possiamo riconoscere nell’enunciazione del programma antoniano, ossia nel prologo del suo sermonario, espressioni che riecheggiano la Regola pur nel tessuto di affermazioni tradizionali e convenzionali:

FRANCISCUS

ANTONIUS Moneo quoque et exhortor eosdem fratres, ut in praedicatione, quam faciunt, sint examinata et casta eorum eloquia, ad UTILITATEM et aedificationem populi,

«Ad Dei ergo honorem et animarum aedificationem».

[Prol., 5]annuntiando eis vitia et virtutes, poenam et gloriam cum BREVITATE SERMONIS;

quia “verbum abbreviatum fecit Dominus super terram”.

«cum provehit “de virtute in virtutem” […] in proficientibus».

[Prol. 3, cf Psal 83,8]«prolixam materiam BREVI et UTILI SERMONI comprehendere».

[Prol., 5]

[Regula bullata (1223), 9]

Ritroviamo nel prologo antoniano la reinterpretazione del versetto del salmo 83, che si riferiva alla crescita di vigore dei pellegrini nel corso del loro avvicinarsi a Geru-salemme, e che viene moralmente riferito alla crescita nelle virtù nel percorso della vita cristiana: tale crescita è in qualche modo il motivo conduttore dell’opus antoniano.

Altri spunti interessanti, in sintonia con le indicazioni espresse da Francesco nella Regola o nel biglietto (se non proprio in dipendenza da esse), si ritrovano nei singoli sermoni, soprattutto nei “prothemata”, rivolti solitamente ai predicatori stessi.

Così, il predicatore deve attenersi soprattutto al “senso morale” della Scrittura, che «mores instruit» (nel senso di “istruisce”, o meglio “costruisce dentro”), più che a quel-lo allegorico, che «fidem instruit», dato che questa è già diffusa [IX post Pent., 1], se-condo quella che per la Regola era la predicazione ai fedeli.

Il penitente (ma qui si tratta perlopiù del frate) deve spiritualmente “partorire il Si-gnore per sé, nella contrizione, e per gli altri, nella predicazione”, nutrendosi dal punto di vista affettivo con la “dolcezza della vita” e dal punto di vista intellettivo con la “dol-cezza della scienza”, sicché i veri “poveri”, cioè gli “umili” (e anche qui si tratta perlo-più dei frati) cominceranno col nutrirsi “nell’intelletto”, ma finiranno col saziarsi “nell’affetto” [Convers. B. Pauli, 11]. Similmente, il predicatore deve conoscere Dio non solo “per scienza”, ma “per esperienza”, altrimenti cade nella corruzione [III post Pent., 1]; deve pertanto sedere sulla “cattedra dell’umiltà” [IV post Pent., 1] e deve al-ternare l’“esercizio della predicazione”, che lo porta “a valle”, con quello “della con-templazione”, che lo riporta “a monte” [V post Pent., 1].

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2.4 CARATTERI FRANCESCANI EMERGENTI DALLE PRIME TESTIMONIANZE Degno di nota è che ancora vivente Antonio, Tommaso da Celano [nella Vita prima

di Francesco, 1.18 (48), composta tra il 1228 e il 1229] narri la prodigiosa apparizione di Francesco benedicente, che un frate avrebbe visto al capitolo provinciale dei frati ad Arles nel 1224 mentre Antonio predicava sul tema del cartello della croce: segno che la generazione francescana a lui contemporanea era persuasa della sintonia tra spiritualità francescana e predicazione antoniana, sintonia che i biografi delle generazioni successi-ve accentuarono con alcuni parallelismi agiografici 41.

Dopo la morte di Antonio nel 1231 e la sua repentina canonizzazione nel 1232, si sviluppò l’agiografia che ne divulgò, e in parte trasformò, la figura 42.

La prima biografia di Antonio, scritta probabilmente proprio nel 1232 a Padova e denominata, dall’incipit, Assidua.

Motivo di stupore è «l’assenza di Francesco nell’Assidua, benché quest’ultima fos-se costruita secondo lo schema agiografico celaniano», cosa che può essere spiegata for-se in parte per lo stadio ancora iniziale della devozione a Francesco, e in parte per la centralità di Antonio nella devozione patavina 43.

Ebbene, proprio perché scritta a caldo e senza alcun intento di celebrazione dell’Ordine, possiamo ritenere tale biografia come estremamente attendibile per valuta-re l’effettiva incidenza dello spirito e delle indicazioni di Francesco sulla predicazione antoniana.

Il biografo introduce così l’incontro di Antonio nel 1220, già prete e canonico, con la fraternità francescana: vicino alla città di Coimbra c’erano frati minori

litteras quidem nescientes, sed virtutem littere operibus edocentes [Assidua, 5.3].

Se per insegnare si richiede in generale (secondo la classica opinione aristotelica) la perfezione della scienza, occorre però distinguere fra scienza delle lettere e virtù delle lettere: la prima si impara a parole e si insegna a parole; la seconda si impara (secondo un’espressione giovannea ripresa dalla tradizione monastica e in seguito consacrata in senso francescano da Bonaventura) con l’unzione e si insegna con le opere. In questo già si vede la radice dell’approccio pratico alla teologia tipico dei francescani. In effetti, la caratterizzazione dei frati come “litteras nescientes” riecheggia, come sappiamo, la Regula bullata [10].

Incontratosi per la prima volta con Francesco ad Assisi nel 1221, Antonio veniva spedito in Romagna, a Rimini, in un territorio popolato oltre che da cattolici, anche da non meglio precisati eretici: ebbene,

qui phylosophorum non novit argutias, versuta hereticorum dogmata sole lucidius confu-tavit. Ita demum VERBUM virtutis eius et DOCTRINA SALUTARIS in cordibus audientium ra-

41 I biografi non tardarono a stabilire tali parallelismi: alla predica di Francesco agli uccelli [cf CE-

LANO, Vita prima, 1.21] corrispose quella di Antonio ai pesci [cf Rigaldina, 9.25-28]; alla predica di Francesco al cospetto di papa Onorio III [cf CELANO, Vita prima, 1.27] corrispose quella di Antonio alla curia di Gregorio IX [cf Rigaldina, 9.3].

42 Cf «Vite» e vita…, cit., che ne traccia lo status quaestionis. 43 Cf Andrea TILATTI¸ L’«Assidua»: ispirazione francescana e funzionalità patavina, in «Vite» e vi-

ta…, a c. di Bertazzo, cit., p. 45-69, in particolare 59-60.

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dices fixit ut, eliminata erroris spurcitia, non parva credentium turba Domino fideliter adhe-reret [Assidua, 9.4-5].

Qui si può intravvedere l’accordo, còlto forse inconsapevolmente dal biografo, tra il dettato della Regola francescana sulla predicazione («verbum virtutis» è la parola do-tata di potenza, ma un po’ anche la predicazione della virtù), e l’intento del sermonario antoniano.

La fama della predicazione di Antonio, che gli avrebbe valso l’appellativo di «Ar-cha Testamenti» 44, è così descritta dalla Vita:

Mirabantur maiores virum pubetenus, ydiotam, “spiritalia spiritalibus” subtiliter comparantem; stupebant minores peccati causas et occasiones vellentem, et virtutum mores cautius inserentem [Assidua,

10.4].

«Putebenus» si riferisce alla giovane età di Antonio (intorno ai 26 o 27 anni), e «ydiota» si riferisce alla mancanza di studi universitari specifici (e secondo alcuni, an-che alla ritiratezza di vita 45).

Può sembrare strano che qui venga considerato ignorante uno che pochi anni prima era sta-to incaricato di insegnare la teologia e nel 1230 era stato inviato con altri importanti clerici dell’Ordine a chiedere chiarimenti a papa Gregorio IX sul valore del Testamento di Francesco; tuttavia, la cosa si spiega facilmente in un momento in cui l’Università aveva acquisito tutto il suo valore istituzionale: perciò, chi come Antonio (figlio di una generazione anteriore) non ave-va conseguito una licentia non era riconosciuto pubblicamente come maestro.

In effetti nel 1244, Tommaso Gallo, che aveva insegnato a Parigi ed era divenuto abate di Sant’Andrea di Vercelli (e noto perciò come Abbas Vercellensis), e che aveva conosciuto Anto-nio, ne tracciò un breve profilo nella Explanatio in hierarchiam ecclesiasticam, dicendo che la sua apprezzabile competenza nella “teologia mistica” compensava la minore abbondanza di i-struzione nelle “discipline secolari”, tanto da sembrare come il Battista una lampada che “arden-do illumina”, ossia illumina non per il sapere della mente, ma per l’ardore del cuore 46.

Questa osservazione getta luce sul resto del passo dell’Assidua: i “maggiori”, ossia teologi e pastori della Chiesa, riconoscevano in Antonio una “sapienza mistica”, a cui si riferisce la citazione della prima lettera ai Corinzi [2,13]; i “minori”, ossia il popolo dei fedeli (nel cui novero si ponevano gli stessi frati minori), percepivano il carattere mora-le e pedagogico di tutta la predicazione antoniana: svellere le cause e le occasioni di peccato e seminare i comportamenti delle virtù. Ma qui il biografo, forse senza render-sene conto, espone proprio il dettato della Regola francescana sulla predicazione.

44 A chiamarlo (secondo l’agiografo) così sarebbe stato papa Gregorio IX nel 1230 [Assidua, 10.2]. 45 Così Anselmo MATTIOLI, “Idiota”. Mancanza di cultura o amore di ritiratezza?, “Il Santo” 1987

(27), p. 121-144 (in particolare, su questa descrizione di Antonio, cf p. 142): secondo questa prospettiva, il lemma ‘idiota’ avrebbe mantenuto il significato antico di “persona privata” (ossia senza ruoli pubblici) e quello derivato di “persona ritirata dalle cure esteriori”, oltre a quello nuovo di persona senza specifica istruzione. La mancanza di istruzione poteva essere espressa da lemmi come ‘simplex’ o da locuzioni come ‘litteras nesciens’, come è attestato anche nell’uso francescano [cf Regula bullata, 10]. Nel Testa-mento [19-21] Francesco presenta sé e i suoi primi compagni come «idiotae et subditi omnibus», sebbene lui stesso avesse comunque ricevuto un’istruzione.

46 Cf «Vite» e vita…, a c. di Bertazzo, cit., p. 154, n. 67; RIGON, Dal libro…, cit., p. 54 e 64-65, n. 58-59.

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Si noti che nel testo non c’è simmetria fra peccato e virtù: i comportamenti virtuosi sono infatti frutti e non cause di virtù; viceversa, i peccati sono causa dei vizi. L’educazione alle virtù poi, era realizzata «cautius», ossia con quella “discretio” che era la virtù più lodata da Antonio nei suoi sermoni: essa non deve essere confusa con la cautela della nostra diplomazia, ché anzi

Nulla prorsus flectebat eum personarum acceptio; […] sed iuxta Prophete vocem: quasi plaustrum triturans, rostra habens serrantia, montes comminuit et colles sicut pulverem po-suit [Assidua, 10.6].

Insomma, la prima agiografia presenta Antonio come una trebbiatrice, e non (come farà l’agiografia successiva, che si ispirerà a quella di San Martino) come “malleus hae-reticorum”, martello degli eretici: tale interpretazione della sua figura è posteriore (do-vuta probabilmente alla neutralizzazione in senso istituzionale della tipologia effettiva-mente calzante e originaria del plaustrum triturans, che alludeva alla critica sociale di tipo profetico già intrapresa dal Battista [cf Mt 3,12].

Ma come va intesa allora quella “haeretica pravitas” [Prol., 3] da cui Antonio di-chiarava di voler purificare i destinatari dei sermoni? Se mettiamo a confronto le affer-mazioni dei biografi con quelle del sermonario 47, capiamo che tra queste e quelle c’è stato uno slittamento semantico dal piano dell’ortoprassi a quello dell’ortodossia: quelli a cui si rivolgeva Antonio non erano infatti eretici in senso stretto (ossia negatori della dottrina della Chiesa), ma fedeli solo di nome e non di fatto (poco praticanti e poco cre-denti), come del resto la storiografia recente ha ben dimostrato 48.

Ebbene, ancor oggi il sermonario di Antonio stupisce per la forza, anche estrema, della sua critica sociale e morale, e non solo nei confronti dei potenti della società, ma anche e soprattutto contro i “cattivi prelati” della Chiesa: elemento completamente as-sente nella predicazione di Francesco, che con ferma delicatezza si rivolgeva ai chierici e ai governanti non solo a voce, ma anche nelle due lettere ad essi globalmente indiriz-zate. D’altra parte, Antonio poteva liberamente esprimersi in questo senso proprio gra-zie alla sua comprovata ortodossia e fedeltà all’autorità della Chiesa e per la solidità del suo ministero presbiterale. Ma questa parresia sembra un fenomeno isolato.

2.5 SECONDA CONCLUSIONE: LA MINORITÀ ESERCITATA Insomma, da un lato Antonio non usa un linguaggio specificamente francescano,

d’altro lato è profondamente francescano, ma da persona già formata spiritualmente e intellettualmente al momento del suo ingresso nella fraternità, e che comunque aveva compreso e preso sul serio lo spirito di minorità, nascondendolo sotto un velo di riserva-tezza. Dunque, nel sermonario di Antonio vi è un doppio livello: in superficie, egli adot-ta un linguaggio tradizionale, ma l’insieme, e soprattutto qualche affermazione, rivela l’influenza di Francesco; nondimeno, egli tralascia la preoccupazione francescana per la conversione degli infedeli. Certamente, la teologia antoniana non esaurisce la novità

47 Antonio dice che la via della Parola è “negata dal Saraceno, bestemmiata dal Giudeo, profanata

dall’Eretico, disonorata dal Falso Cristiano che vive disonestamente” [cf In Fest. Phil. et Iac., 4]. 48 Cf Grado Giovanni MERLO, La santità di Antonio e il problema degli eretici, in «Vite» e vita…, a

c. di Bertazzo, cit., p. 187-202, che a sua volta rimanda al decisivo contributo di Mariano D’ALATRI, An-tonio, martello degli eretici?, in “Il Santo”, 1965 (5), p. 123-130.

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francescana (né avrebbe potuto farlo), ma ne costituisce comunque una fondamentale mediazione.

In particolare, Antonio traduce il paradigma della lode delle virtù nel contesto della “confessione sacramentale” non solo “medicinale”, ma anche “di devozione” del Conci-lio Lateranense IV e quindi del nuovo senso della penitenza; imposta poi la predicazio-ne come interpretazione non solamente comprensiva ma soprattutto esecutiva della Scrittura: non tanto verso il passato (alla ricerca del compimento dell’allegoria); né tan-to verso il futuro (alla ricerca del compimento mistico ed escatologico); ma verso il pre-sente, secondo l’esegesi del senso morale e con una severa critica sociale.

Infine, Antonio rilegge l’esperienza francescana alla luce della tradizione agosti-niana e canonicale in cui si era formato. Così, coniugando “requies” agostiniana e “pax” francescana, “confessio” agostiniana e confessione sacramentale nel senso del Concilio Lateranense IV, l’unzione mistica vittorina e la devozione francescana, Antonio sarà il punto di avvio (non sempre riconosciuto) di una fortunata e ricca tradizione teologica.

3. IL LEGAME TACIUTO DI BONAVENTURA CON ANTONIO: IL DEBITO SEGRETO

Il generalato di Bonaventura, dal 1256 al 1274, fu dal punto di vista dell’azione ca-ratterizzato dalla “liquidazione” delle tendenze gioachimite interne all’ordine e dalla so-stituzione della “legenda” ufficiale alle varie biografie di Francesco 49. Che posto ebbe la figura di Antonio in questa vicenda?

Oggi si è messa in luce una complessa trama di legami tra il mondo di Antonio e quello dei teologi parigini, così riassunta da Antonio Rigon: a parte la testimonianza di Tommaso Gallo, che aveva lasciato un profilo di Antonio, almeno fino al 1245, grazie soprattutto al maestro Giovanni de la Rochelle la “magna domus” parigina dei frati mi-nori «propagandava la figura» di Antonio che, «in quanto capace di assommare in sé santità e cultura, forniva una risposta implicita a quei frati che vedevano con preoccupa-zione l’affermarsi degli studi all’interno dell’Ordine»; e sebbene l’opera di Antonio sia rapidamente stata superata da quella sistematica di Bonaventura, tuttavia la sua influen-za, pur «meno immediatamente percepibile», non è cessata: infatti «le citazioni antonia-ne nei testi dei predicatori sono più frequenti di ciò che si potrebbe pensare» 50.

Bonaventura conosceva gli scritti di Tommaso Gallo [cf Hex 22.24], ma soprattutto era stato studente di teologia nella domus parigina dal 1243 al 1248, nei primi due anni alla presenza di Giovanni de la Rochelle: come potrebbe non essere venuto a contatto con il messaggio antoniano? Inoltre, Bonaventura, come Generale dell’Ordine dei frati minori ha presieduto alla traslazione del corpo di Sant’Antonio nel 1263: possibile che sia rimasto estraneo alla figura e all’opera di un tale santo?

Eppure a prima vista sembrerebbe il contrario. Il rapporto di Bonaventura con An-tonio sembra infatti caratterizzato da tre aspetti: accentuazione sul predicatore, oblio del mistico e taumaturgo, reticenza sul dottore.

49 Cf Giovanni MICCOLI, Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino 1991, cap. 8, p. 281-302. 50 RIGON, Dal libro alla folla, cit., p. 54; 58; 118-119; 221-223; 241-243. Cf l’introduzione di Vergi-

lio Gamboso a GIULIANO DA SPIRA, Officio ritmico e vita seconda, (Fonti agiografiche antoniane), EMP, Padova 1985, in particolare p. 100 e 115 sull’immagine agiografica antoniana.

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3.1 L’ENFASI SU ANTONIO PREDICATORE Di Antonio, Bonaventura innanzitutto accentua il ruolo di predicatore, approvato

da Francesco e canonizzato dalla Chiesa: nell’unica occasione in cui Bonaventura lo nomina 51, lo fa solo per riferire della prodigiosa apparizione di Francesco benedicente vista da un frate durante il capitolo di Arles (mentre appunto vi predicava Antonio):

Vir sacer Antonius TUNC quidem praedicator egregius, NUNC autem confessor Christi pra-eclarus [LegMin 4.4].

Ebbene,

omnipotens Dei virtus […] servum suum Franciscum praedicationi praesentavit veracis sui praeconis Antonii ut approbaret veritatis eloquia [LegMa 4.10; cf 13.10].

La parola ‘eloquia’ ci richiama alla norma della Regola relativa alla predicazione, che peraltro è implicitamente citato da Bonaventura nei suoi Sermoni. Proviamo ad e-saminarne sinotticamente i testi. FRANCISCUS BONAVENTURA Moneo quoque et exhortor eosdem fratres, ut in praedicatione, quam faciunt, sint

Tria […] sunt necessaria cuilibet volenti propone-re Verbum Dei.

Examinata et casta eorum eloquia,

ad UTILITATEM et aedificationem populi,

Et primum est animi liberalitas, secundum est modi brevitas, tertium est voti UTILITAS. […].

Brevitas in modo notatur […], quia quaedam occa-sio datur audienti

annuntiando eis vitia et virtutes, poenam et gloriam cum BREVITATE SERMONIS; quia “VERBUM ABBREVIATUM fecit Dominus super terram”.

cum annuntiantur “vitia et virtutes –– cum BREVITATE SERMONIS, quia VERBUM ABBREVIATUM fecit Dominus super terram”.

[Regula bullata (1223), 9] [Sermones dominicales, 13.1]

La citazione bonaventuriana presenta due piccole variazioni: menziona solo i temi morali (vizi e virtù), tralasciando quelli escatologici (premi e pene), e sostituisce la “pu-rezza e ponderatezza”, già reminiscenza salmica [cf Psal 11,7 e 17,31], con la liberali-tas, reminiscenza piuttosto sapienziale [cf Sap 7,13]. Quella di cui tratta Bonaventura non è più la predicazione di frati semplici e indotti a un popolo tiepido e ignorante, da scuotere con richiami forti; ma è la predicazione di frati dotti che devono condividere la loro scienza con fedeli già comunque sensibili alla Parola divina.

A questo proposito, è interessante ricordare che Bonaventura (coerentemente col dettato della Regola francescana) concepisce il suo compendio di teologia come «brevi-loquium», in cui trattare «breviter» «non omnia», ma «aliqua magis opportuna» per la

51 Viceversa, l’‘Antonius’ nominato in Hex 1.24 e HexD 1.1.24 è il Padre del deserto.

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fede, sebbene (e qui c’è la novità bonaventuriana) aggiungendovi «rationem aliquam ad intelligendum», secondo le esigenze del tempo [Brev 0.6.5].

Se confrontiamo poi la citazione bonaventuriana con le probabili reminiscenze del passo della Regola nei sermoni di Antonio, prima esaminate, ci rendiamo conto di una certa sintonia sul carattere dottrinale e morale della predicazione; forse anche per questo Bonaventura enfatizza Antonio come esemplare predicatore francescano.

3.2 L’OBLIO SU ANTONIO TAUMATURGO E MISTICO Al contrario, Bonaventura omette di menzionare i caratteri agiografici più straordi-

nari attribuiti all’epoca alla figura di Antonio, quale taumaturgo o mistico, in un paralle-lismo che lo poteva addirittura presentare come “alter Franciscus”. Possiamo provare a immaginare quali fossero le motivazioni di un tale deliberato oblio.

Poiché Bonaventura doveva guidare un Ordine attraversato da tensioni, possono aver influito alcune preoccupazioni relative alla situazione dell’Ordine ad intra: ad e-sempio, il desiderio di porre l’accento piuttosto su Francesco, presentato come Alter Christus e angelo del Sesto Sigillo 52 (e dunque la necessità di “cancellare” le altre vi-sioni del francescanesimo primitivo); forse anche il timore che Antonio venisse visto come alter Franciscus, come effettivamente poi faranno gli “spirituali” dell’Ordine [cf Fioretti, n. 39-40], anche se all’epoca di Bonaventura era difficile che la figura di Anto-nio venisse strumentalizzata dalle minoranze nell’Ordine, dato che egli era stato uno dei maggiori clerici della fraternità.

Ma poiché Bonaventura in occasione della traslazione del corpo di Antonio aveva potuto constatare l’enorme popolarità del santo, forse possono aver giocato anche alcu-ne preoccupazioni relative all’immagine dell’Ordine ad extra: e cioè il timore che la devozione antoniana oscurasse quella per Francesco (come di fatto è avvenuto); e per-tanto il desiderio di tenere basso il profilo agiografico antoniano.

3.3 LA RETICENZA SU ANTONIO “DOTTORE” A questo punto siamo arrivati a un tema cruciale, quello del senso degli studi

nell’ordine minoritico, e ad un confronto altrettanto cruciale di Bonaventura con Fran-cesco, ma anche con Antonio. A giustificazione della trasformazione della primitiva fra-ternità in un ordine di clerici e docti, in una delle conferenze che stava tenendo ai frati minori dell’università di Parigi e di cui abbiamo la reportatio, il Ministro Generale Bo-naventura citò ad sensum (o così lo riferisce il reportator) il biglietto di Francesco ad Antonio 53; ma se leggiamo in sinossi i due testi, scopriamo interessanti differenze che forse ci rivelano qualcosa del rapporto di Bonaventura sia con il fondatore, sia con il primo “dottore” dell’ordine:

52 Cf STANISLAO DA CAMPAGNOLA, L’angelo del sesto sigillo e l’“Alter Christus”, Roma 1971. 53 Di tali conferenze possediamo due reportationes, edite rispettivamente nell’editio maior di Qua-

racchi e da Delorme. Il passo in questione è attestato solo nella prima e per di più in discorso indiretto (come solitamente il reportator faceva per riportare i commenti quasi confidenziali “pro hic et nunc” ag-giunti da Bonaventura nella collatio), ma non c’è ragione di dubitare della sua attendibilità.

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FRANCISCUS BONAVENTURA

Fratri Antonio episcopo meo FRATER Franciscus salutem. Placet mihi quod sacram theologiam legas fratribus, dummodo inter huius studium orationis et devotionis spiritum non exstinguas, sicut in Regula continetur.

[Epistula ad Antonium (1223 - 1226)]

Et [Bonaventura] addebat quod – – – BEATUS Franciscus dixerat, quod volebat, quod fratres sui studerent, dummodo facerent prius, quam docerent. – – –

[Hex 22.21 (1273)]

Ebbene, una prima differenza l’abbiamo sulla presentazione di mittente e destinata-rio del testo: Francesco è chiamato non più «frater», ma «beatus»; ma di Antonio è del tutto omessa la menzione: qui a Bonaventura interessava sottolinerare il carattere per-manente, e non solo contingente, dell’intenzione del fondatore, senza legarla a uno stile teologico, quello antoniano, ormai superato; ma i motivi più profondi della reticenza bonaventuriana riguardo Antonio saranno indagati fra poco.

In secondo luogo, il «placet» (ossia “mi sta bene”, “non ho nulla in contrario”) del biglietto viene trasformato in un ben più impegnativo «volebat»: mentre Francesco ave-va acconsentito ad una richiesta, qui sembra aver preso l’iniziativa; inoltre, mentre Francesco si era limitato ad una permissione (esplicita ad insegnare, implicita a studia-re), qui sembra aver formulato una esplicita prescrizione a studiare.

Come conseguenza, mentre Francesco si rivolgeva a chi insegnava, qui sembra ri-volgersi ai destinatari dell’insegnamento, cioè ai frati. In effetti, l’insegnamento (più che lo studio) poteva essere assimilato al lavoro, secondo il rimando al quinto capitolo della Regola bollata (“De modo laborandi”), che Bonaventura omette forse intenzio-nalmente, dato che per lui lo studio, più che un lavoro tra i tanti possibili, era una vera e propria pratica ascetica [cf Sermo de Sancto Dominico; Hex 19].

In terzo luogo, mentre nel biglietto si parlava di “lezioni di sacra teologia”, nel rac-conto bonaventuriano si parla genericamente di “studi”. Qui, la sfumatura non è indiffe-rente. In effetti, tre erano le posizioni che si erano sviluppate nell’Ordine riguardo agli studi: da una parte, l’ostilità di quanti vedevano un’opposizione radicale tra Assisi e Pa-rigi 54, e questo era un atteggiamento che Bonaventura come Generale e come teologo doveva tenere a bada; all’estremo opposto, la dedizione a tutte le scienze anche profane, e questa potrebbe essere stata la posizione di quei teologi che passavano talmente tanto tempo nel labirinto delle scienze profane da perdere la strada di casa, che è la Sacra Scrittura 55, ed era questo il rischio paventato e stigmatizzato da Bonaventura; in mezzo

54 Così dirà Iacopone: «Mal vedemo Parisi, che àne destrutt’Assisi: | co la lor lettoria messo l’ò en mala via» [Iacopone da Todi, Laude, 91, v. 2-3].

55 «In […] consideratione [scientiarum] est periculum […] nimis longe recedere a Scripturae domo […]. Sic periculum est in scientiis, quod tantum diffundant se per considerationes harum scientiarum, ut

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c’era l’atteggiamento di ammissione degli studi ai fini della contemplazione e della pre-dicazione, e questo era l’atteggiamento che accomunava Antonio e Bonaventura: ma mentre nella primitiva impostazione, quella antoniana, gli studi non erano formali, uni-versitari, “scientifici”, ma biblico-spirituali, per Bonaventura gli studi dovevano essere quelli normalmente chiesti dall’università, compresi dunque gli studi filosofici previ a quelli teologici. L’atteggiamento di Bonaventura, quindi, fu quello di “zelo per la scien-za”, ma anche di “condanna per ogni curiosità” [cf De tribus Quaestionibus, 12 + 2].

Da ultimo c’è da notare la trasformazione del criterio francescano degli studi nel dettato originale e nella sua rilettura bonaventuriana: “non estinguere lo spirito di ora-zione e devozione”, secondo Francesco; oppure, “fare prima che predicare”, secondo Bonaventura. Quest’ultimo motto è la traduzione della frase neotestamentaria «coepit facere et docere» [Act 1,1], che caratterizzava Gesù: tale versetto era come una parola d’ordine della predicazione domenicana, e anche Tommaso la cita programmaticamente [cf Summa, III, 81.1 co]. In effetti, il contesto delle collationes in Hexaëmeron da cui è tratto il racconto, è la descrizione delle differenze fra i vari ordini religiosi: lì Minori e Predicatori venivano appaiati, secondo un modulo interpretativo caro a Bonaventura; in effetti, al suo Generalato si deve l’introiezione nell’Ordine minoritico della spiritualità dello studio e dell’impegno pastorale di tipo domenicano.

Insomma, nella citazione bonaventuriana del biglietto di Francesco, l’omissione del nome del destinatario e del riferimento alla Regola è facilmente comprensibile: sia nel caso che siano stati sottintesi perché scontati per l’uditorio, sia nel caso che siano sfug-giti al reportator, sia nel caso che siano stati volutamente omessi da Bonaventura per dare alla citazione un valore più universale e consono al discorso…, comunque ne risul-ta una reinterpretazione dell’ideale primitivo alla luce degli sviluppi dell’Ordine.

Ma il problema è più generale: da che dipende la reticenza su Antonio, il cui ruolo di “dottore” e autore (o addirittura di “episcopus”, nel senso che sappiamo) non emerge mai nell’opera bonaventuriana? È vero che all’epoca non era uso menzionare gli autori contemporanei o recenti, che pure venivano citati (e tutt’al più identificati come “qui-dam”): ma Antonio era stato canonizzato, e poteva ben essere un’auctoritas.

Possiamo allora ipotizzare che tale reticenza sia stata dettata in parte da un certo pudore o imbarazzo, e in parte da esigenze di opportunità.

L’imbarazzo potrebbe essere quello provato da un professore e predicatore univer-sitario della seconda metà del Duecento di fronte alla cultura teologica preuniversitaria (che gli doveva inevitabilmente apparire demodée e un po’ naïve) del canonico autodi-datta e predicatore popolare; tra l’altro, Bonaventura aveva redatto un sermonario in qualche modo alternativo a quello di Antonio; del resto un tale imbarazzo si avvertiva già nei primi anni dopo la morte di Antonio, come attestano le testimonianze, sopra ac-cennate, di Tommaso Gallo e della Assidua 56.

Invece, sono probabilmente altri i motivi di opportunità che avevano indotto Bona-ventura alla reticenza sull’insegnamento antoniano: in particolare il suo desiderio di

postea ad domum Scripturae redire non possint» [Hex 17.25]. Dietro questa corrente scientista ci sarebbe (secondo Bérubé) Ruggero Bacone: cf Camille BÉRUBÉ, De la Philosophie à la Sagesse chez Saint Bona-venture et Roger Bacon, Istituto Storico dei Cappuccini, Roma 1976.

56 Cf l’Assidua (del 1232 circa) che lo descrive come «virum pubetenus, ydiotam, spiritalia spiritali-bus subtiliter comparantem» [10.4].

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mantenere una via mediana tra le tendenze contrastanti interne all’Ordine, soprattutto in riferimento alla questione degli studi: così l’ammissione degli studi universitari della teologia (sebbene finalizzati a che “diventiamo buoni”), e perfino delle altre scienze (ma solo in quanto ordinate alla teologia) 57, andava ben oltre la teologia insegnata da Antonio ai frati destinati alla predicazione.

Per una analoga reticenza – vedremo – Bonaventura eviterà di citare Antonio come fonte anche quando è molto probabile la sua dipendenza dai sermoni antoniani.

In effetti, i paralleli tematici e testuali tra Antonio e Bonaventura sono tanti e tali che è sorprendente che non siano stati notati e indagati.

Possiamo catalogare le comunanze riscontrate tra Antonio e Bonaventura in vari gradi: un “grado minimale” è costituito da citazioni comuni, segno di una comunanza di letture (cosa abbastanza facile); un “grado intermedio” è quello delle citazioni implicite comuni; un “grado forte” è quello di estese somiglianze testuali senza però che si sia trovata finora alcuna fonte comune nota.

La Bibbia, la Glossa, le principali auctoritates di Agostino, Gregorio Magno, Ber-nardo (con le opere di Guglielmo di Saint-Thierry che passavano sotto il nome di Ber-nardo), Ugo e Riccardo di San Vittore, i documenti del Concilio Lateranense IV, l’ere-dità di Francesco d’Assisi: tutti questi testi costituiscono il patrimonio intellettuale e spirituale comune ai due dottori.

3.4 ESPRESSIONI RICONDUCIBILI AL COMUNE ORIZZONTE SIMBOLICO E DOTTRINALE

Meno probante, ma comunque interessante, è la comunanza tra Antonio e Bona-ventura di alcuni temi simbolici. Alcuni sono propri della cultura medievale: quello che però colpisce non è la compresenza di uno o l’altro di questi temi, ma di tutti insieme, quasi ci fosse una sintonia di “stile teologico”. I principali sono

– il settenario virtuoso: tre settenari della grazia (doni, petizioni, beatitudini) in Antonio [Nat. Bapt., 3] e sette settenari in Bonaventura [Don];

– la corona di dodici stelle intorno alla mente contemplativa, ossia i misteri oggetto di contemplazione [II post Pascha, 15; Hex 22.40];

– il cerchio salvifico, per cui Cristo è “uscito dal Padre e venuto al mondo” e infine “lasciato il mondo è tornato al Padre” [cf Io 16,28]: descritto come anello [cf l’“anello alle narici” di Is 37,39] per Antonio [IV post Pascha, 3; Ascens., 10; X post Pent., 1], che ne trae l’ordine stesso del sermonario e come “cerchio intelligibile” in Bonaventura [cf ad esempio Sent 1.45.2.1 co; Brev 5.1.6] 58;

57 È un Leitmotiv, ripetuto da Bonaventura all’inizio del Commento alle Sentenze e del Breviloquium e nelle Collationes.

58 Come si è detto, Antonio nel suo sermonario non comincia, con l’anno liturgico, dalla prima do-menica d’Avvento, ma dalla domenica di Settuagesima, in cui si leggeva il primo capitolo della Genesi. Bonaventura attinge alla tradizione neoplatonica cristiana mediata da Dionigi (manenza, exitus, reditus); da qui il senso di una teologia la cui prima regola è “sentire altissimamente e piissimamente di Dio” [MyTrin 1.2 co; Brev 1.2; Don 3.5; Hex 9.24]; una teologia essenzialmente trinitaria, equilibratamente patriversa, cristocentrica e spirituale: discendente dal Padre, mediante il Figlio, nello Spirito e ascendente nello Spirito mediante il Figlio al Padre, realizzando come un cerchio intelligibile che dal Padre per mez-zo di Cristo ritorna al Padre: “essere illuminati dai raggi spirituali ed essere ricondotti al sommo” [Hex 1.17]: cf BOUGEROL, Introduzione a S. Bonaventura, cit., p.33; Bonaventura cita il testo di DIONIGI, De

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– la settimana primordiale come metafora degli stadi della vita cristiana: si tratta del progetto iniziale tanto del sermonario di Antonio [cf Septuag., 2-3] quanto delle Collationes in Hexaëmeron di Bonaventura [cf Hex 3.24];

– le tre forme dell’esistere: il “da cui, per cui, in cui” siamo, che rinvia alla trinità (tema peraltro già agostiniano) [cf VI post Pascha, 3; Itin 4 e Hex 2];

– la coincidenza di primità e ultimità in Gesù Cristo, (in particolare “primo” e “ul-timo”) in Antonio [I de Adventu, 4] e in Bonaventura [Hex 3.13; cf Itin 6.5], che ne trae la dottrina poi denominata (ante litteram) della “coincidentia oppositorum” 59, ossia della unione ipostatica in Cristo di qualità altrimenti incompatibili nelle singole nature;

– il microcosmo, “Minor mundus” [Ascens., 4-5; Itin 1 e 3-4], che però è un tema talmente diffuso al tempo perché si possa parlare di comunanza specifica;

– Dio come luogo naturale a cui tende la ricerca dell’uomo, tema peraltro agosti-niano [Ascens., 5; cf Don 3.5];

– la limitatezza come nihilitas costitutiva di ogni cosa creata e il peccato come “nulla” (ossia come volizione fallita), tema peraltro agostiniano, sviluppato da Eriugena e diffuso dalla Glossa [Ascens., 5; De perfectione evangelica, 1.1];

– i sensi spirituali e la connessione dell’ispirazione all’olfatto spirituale [Pent., I, 4-9; Itin 5 e Brev 5];

– l’esercizio dei doni dello Spirito come un far rimanere lo Spirito su quelli su cui è disceso [XX post Pent., 8 e I Adv., 6; e Don 1];

– il sommo vero e bene come Sole che sorge e brucia i monti “tre volte tanto” [cf Lc 1,78 e Eccli 43,4], ossia per Antonio Cristo che risplende attraverso la contrizione, confessione e riparazione dei penitenti [XI post Pent., 2]; e per Bonaventura il Verbo in quanto uomo [Hex 1.19] ma anche in quanto luce della triplex veritas creatrice da cui derivano tutte le scienze filosofiche [Hex 4.2];

– dita della mano, indicanti i misteri di Cristo [XII post Pent., 11] o i numeri sim-boleggianti i premi [Sermones dominicales, 13.10], anche se il paragone è vago;

– le quattro virtù che potremmo definire radicali: per Antonio, le virtù “portanti” (che portano l’anima a Cristo), ossia umiltà e povertà, pazienza e obbedienza [XIX post Pent., 9-11]; per Bonaventura le quattro virtù evangeliche (la castità è inserita al posto della pazienza) [PerfEv];

– la stella dei Magi come luce che guida filosofi e peccatori [Epiph., 2-3; Sermo de modo inveniendi Christum];

– la conoscenza come illuminazione divina: ma in Antonio senza distinzione tra il-luminazione e rivelazione [“Quanto credi, tanto vedi”; cf Cath. Petr., 5; Sept.], mentre in Bonaventura con la distinzione tra illuminazione naturale e razionale e quella so-vrannaturale e rivelata [cf Hex 1; 4; 7];

divinis nominibus, 4.14: “Divinus amor est quidam cyclus aeternus, ex optimo, per optimum et in opti-mum”.

59 Cf Ewart COUSINS, Bonaventure and the Coincidence of opposites, Franciscan Herald Press, Chi-cago, 1977. Questo è un tema che viene dall’Apocalisse [Ap 1,17] e in parte dalla tradizione dionisiana. Possiamo ragionevolmente ipotizzare che però dietro ci sia indirettamente Francesco, che aveva molto insistito sul mistero del Natale.

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– la Croce manifestativa, ossia come rivelazione con cui Gesù svela l’uomo a se stesso tanto per Antonio [Cath. Petr., 13; Inv. Cr., 7], quanto per Bonaventura [Hex 1.24; De triplici via 3.5];

– il Trisagio cantato dai due serafini della visione di Isaia [6,2-3] come sintesi della professione di fede: ma Antonio intende il primo serafino come figura del Cristo (le sue sei ali starebbero per le sei proprietà del Verbo incarnato, di cui diremo dopo), e il se-condo come figura dello Spirito [cf XII post Pent., 12], mentre Bonaventura [in Hex 8.8-19] riferisce il primo serafino alla trinità delle persone in Dio e ai sei articoli di fede trinitaria e il secondo serafino alla trinità delle nature in Cristo e ai sei articoli di fede cristologica;

– le quattro fasi della storia umana, intese da Antonio come “fioritura” nell’Eden, “sfioritura” dopo il peccato, “rifioritura” nella resurrezione di Cristo e “superfioritura” nella resurrezione finale [Resurrect., II, 11], e da Bonaventura come “formazione per natura”, “deformazione per colpa”, “riformazione per grazia” e “dei-formazione per glo-ria” [cf struttura di Brev; Don 3.4-5 e Hex 21.17];

– Dio come Bene essenziale [S. Phil. et Iac., 8; Itin 6], tema in realtà per un verso dionisiano e, per un altro, francescano;

– l’albero edenico della vita, identificato con la vera conoscenza: ma in Antonio essa è la discretio [Inv. Cr., 10]; in Bonaventura [cf Hex 1.15 e 23.31] è la sapienza.

Un ultimo tema simbolico comune è l’ideale del “seguire nudo Cristo nudo” 60; mentre in Antonio, come abbiamo visto, questo è citato in riferimento all’appello di Ge-sù a Pietro e con parole simili a quelle di Girolamo, invece in Bonaventura è citato in riferimento a Francesco, spogliatosi di tutti i beni paterni davanti al vescovo di Assisi: «nudus relictus est ut nudum sequeretur crucifixum Dominum quem amabat» [LegMa 2.4].

Invece, la simbolica nuziale, già bernardiana, e poi antoniana [XX post Pent., 3 e 8], in Bonaventura sembra essersi perduta 61.

3.5 PARALLELI TESTUALI RICONDUCIBILI A FONTI COMUNI Proviamo adesso ad esaminare in sinossi alcuni testi antoniani e bonaventuriani, le

cui comunanze sono riconducibili a una fonte comune (anche se alle volte con una ulte-riore somiglianza).

Le “sex proprietates Verbi Incarnati” Come esempio, leggiamo questa elencazione delle sei proprietà del Verbo incarna-

to, in base alla celebre profezia isaiana [Is 9,5]:

BERNARDUS ANTONIUS BONAVENTURA

60 Cf Jacques-Guy BOUGEROL, Introduction à Saint Bonaventure, trad. it. di Abele Calufetti, Introdu-

zione a San Bonaventura, LIEF, Vicenza 1988, p. 27; J. CHATILLON, Nudum Christum nudus sequere. Note sur les origines et la signification du thème de la nudité spirituelle dans les écrits spirituels de saint Bonaventure, in S. Bonaventura 1274-1974, a cura di Jacques-Guy Bougerol, Collegio San Bonaventura, Grottaferrata 1974, vol. 4, p. 719-772. Come s’è detto, la prima applicazione del tema ai frati minori è nella Historia Occidentalis [2.32.5] di Giacomo di Vitry.

61 Cf BOUGEROL, Introduzione a S. Bonaventura, cit.

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Verbum Dei [incarnatum] ut Reparator […] hierarca debuit esse […]

“ADMIRABILIS” est in nativita-te,

“ADMIRABILIS” fuit in nativita-te […];

praecelsus potentia […] [prop-ter] miraculum miraculorum, scilicet multiformitatem natu-rarum [in incarnatione] […]; et hoc est quod dicit “ADMIRABILI-S”. […]

“CONSILIARIUS” in praedica-tione,

“CONSILIARIUS”, in praedica-tione […];

sensatus iuxta triplicem sapien-tiam […] innatam[…], infusam, aeternam; […] ideo dicitur “CONSILIARIUS”. […]

“DEUS” in operatione, “DEUS”, in miraculorum ope-ratione […];

Deo acceptus […] propter mul-titudinem gratiarum […] non solum quia deiformis, sed quia “DEUS”. […]

“FORTIS” in passione, “FORTIS”, in passione […]. Et quae tanta potest esse fortitudo, quam manibus ligatis proprium de vincere inimicum?

Victoriosissimus propter multi-tudinem triumphi [in passione et resurrectione…] et ideo dici-tur “FORTIS”. […]

“PATER FUTURI SAECULI” in re-surrectione,

“PATER FUTURI SAECULI”, in re-surrectione […];

largifluus propter magnitudinem influentiae [in ascensione et ef-fusione Spiritus Sancti…] unde dicitur “PATER FUTURI SAECULI”. […]

“PRINCEPS PACIS” in perpetua beatitudine Haec etiam nomina possunt ei congrue assignari in opere no-strae salutis.

“PRINCEPS PACIS” erit nobis in aeterna beatitudine.

Summe iustus, propter multitu-dinem iustitiae [in iudicio fina-li…], et ideo dicitur “PRINCEPS PACIS”.

[Sermones de diversis, 53.1] [XII post Pent., 12 (v. 2, p. 98)] [Hex 3.12-21] Qui la fonte comune a cui sia Antonio sia Bonaventura hanno attinto è Bernardo 62:

mentre Antonio comincia a espandere il testo bernardiano, Bonaventura lo sviluppa in base all’idea del Verbo incarnato come “gerarca”, secondo la lettera agli Ebrei riletta dionisianamente.

La “Trinitas personarum in Deo et naturarum in Christo” Un tema tipico bonaventuriano è quello della simmetria fra i due dogmi principali

della fede: la trinità delle persone e unità della natura in Dio e la trinità delle nature e unità delle persone in Cristo: questo va a costituire come la struttura originaria e origi-nante della realtà, ossia la chiave del sistema teologico e filosofico: in base a tale strut-tura tutta la realtà è ordinata su tre piani (quello esteriore dei corpi, nel macrocosmo;

62 Lo stesso testo si trova in ERMANNO DI RUNA (pure lui vissuto tra la fine dell’XI e il principio del

XII secolo), Sermones festivales [Ed. E. Mikkers, I. Theuws, R. Demeulenaere, Continuatio Mediaevalis 64, 1986], 79, 130: «Admirabilis in natiuitate, consiliarius in praedicatione, Deus in operatione, fortis in passione, Pater futuri saeculi in resurrectione, princeps pacis in perpetua beatitudine».

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quello interiore degli spiriti, in cui ognuno è un microcosmo; e quello trascendente della divinità) e secondo un triplice ordine (secondo il principio, il medio e il fine).

BERNARDUS ANTONIUS BONAVENTURA Decuit […] ut […] quomodo ibi [= in Deo] tres personae una essentia,

Sicut in divinitate tres sunt personae et una SUBSTANTIA,

Secut in Deo aeterno est trinitas personarum cum unitate essentiae,

ita hic [= in Christo] convenien-tissima quadam contrarietate tres essentiae sint una persona.

[De consideratione, 5.9.20]

SIC in Christi humanitate tres sunt SUBSTANTIAE et una persona. Iesus Christus est Deus et homo, qui ex anima et carne consistit.

[XX post Pent., 1 (v. 2, p. 328)]

ita etiam in Deo humanato sunt tres NATURAE cum unitate personae […]

ut CORPUS, anima, DIVINITAS.

[Hex 8.9; cf Itin 6.6]

Dei Patris brachium [= Christus] fuit propter nos in duabus partibus fractum, cum scilicet in PASSIONE anima, separata a carne, descendit ad liberandum eos qui erant in inferno, et caro requievit in sepulcro. Sed in die Resurrec-tionis consolidavit Pater bra-chium suum. [III de Adventu, 3 (v. 2, p. 498)]

In MORTE Christi sic facta est divisio animae a carne ut tamen salva esset unitas personae et unio tam carnis quam animae cum deitate.

[Brev 4.10]

Facendo una ricerca lessicale sui testi patristici e medievali di cui abbiamo concor-

danza elettronica, la fonte plausibile di questa specularità fra mistero trinitario e mistero cristologico è Bernardo, anche se il tema è presente anche in Abelardo 63. Sia in Anto-nio che in Bonaventura, la dottrina delle tre (e non semplicemente due) nature di Cristo si riconnette con il problema teologico, particolarmente dibattuto nel tredicesimo seco-lo, del Christus in triduo (ossia tra la morte e la resurrezione: unico momento in cui le

63 L’unico altro testo similare riscontrabile con il CLCLT-3 (ma che difficilmente avrebbe potuto esse-re fonte di Antonio e Bonaventura) è Abelardo, Theologia scholarium, 3.74, linea 998 e 3.78, linea 1067: «Sed in illa unione persone Christi – in qua simul diuinitas uerbi et anima et caro, tres iste nature, co-nueniunt – ita unaqueque harum trium substantiarum ibi propriam retinet naturam, ut nulla earum in a-liam commutetur, ut nec diuinitas que humanitati coniuncta est, aut anima fiat aut caro sicut nec anima umquam potest fieri caro, quamuis in singulis hominibus una persona sint anima et caro»; «Sicut enim in uno deo tres persone sunt et una substantia, ita econtrario in Christo due substantie sunt, humana scili-cet ac diuina, sed una in duabus substantiis uel naturis persona». Alla base c’è la bipartizione dei misteri trinitario e cristologico (senza però simmetria fra i due) nella professione di fede del simbolo Quicumque, falsamente attribuito ad Atanasio [cf DS 75-76].

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sue due nature, corporea e spirituale, sarebbero state tra loro separate, sebbene entrambe unite alla persona e natura divina del Verbo).

La “Triplex Ierusalem” Il tema del triplice tempio e della “triplex Ierusalem” è tradizionale, e sia Antonio

sia Bonaventura sembrano trarlo da un testo di Beda, rileggendolo perà con una insi-stenza sul tema tipicamente francescano della edificazione interiore mediante le virtù e della gerarchizzazione – o comunitarizzazione trinitaria – della persona del fedele; in questo, si riallacciano, forse senza neanche saperlo, al tema francescano della “vergine fatta Chiesa”.

ANTONIUS

BONAVENTURA Nota quod triplex est templum, scilicet uterus virginalis, anima fidelis et Ierusalem caelestis, in quorum quolibet sunt candelabrum, altare in-censorum et mensa.

[XX post Pent., 1 (v.2, p. 327)]

Verbum… est in sinu Patris increatum, incarnatum in utero virginis, inspiratum in corde tuo per fidem; illabitur mentes angelicas et humanas […].

[Hex 3.32]

Nota quod “triplex est Ierusalem spiritualis: pri-ma militans Ecclesia, secunda fidelis anima, tertia caelestis patria”.

[Septuagesima, 2] Triplex est Ierusalem: allegorica, idest Ecclesia militans; moralis, idest anima fidelis; anagogica, idest Ecclesia triumphans.

[XV post Pent., 15 (v. 2, p. 242); cf Beda, In Cantica, 3.4]

Sumam ergo in nomine Domini laterem, idest cor cuiuslibet auditoris, et scribam in eo civitatem tri-plicem, idest articulos Ecclesiae, virtutes anima-e, praemia caelestis patriae, sub septenario nume-ro ex utroque Testamento auctoritates inducendo et easdem exponendo.

[Septuagesima, 2 (v. 1, p. 7)]

[…] Visio [intelligentiae per contemplationem su-spensae] est principaliter circa tria: circa luculen-tam considerationis caelestis hierarchiae [= Trinitatis et beatorum], […] militantis Ecclesiae, […] mentis humanae hierarchizatae.

[Hex 20.3: non cita Beda]. Anima… sic hierarchizata est civitas in qua Deus habitat et videtur: […] “Vidi sanctam civitatem, Ierusalem novam” [Ap 21,2.10]. Quando enim mens est ordinata sicut Ecclesia […] tunc est tem-plum Dei.

[Hex 22.38]

“Aedificabo”, inquit, “Ecclesiam meam” [Mt 16,18]. Nota quod, Ecclesia dicitur triumphans et militans Ecclesia et fidelis anima. Primam aedifi-cat beatis spiritibus, secundam fidelibus, tertiam virtutibus; et ideo dicitur “caementarius” [Am 7,7].

[Cath. Petri (v. 3, p. 127)]

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Ma se andiamo all’auctoritas di Beda 64, notiamo che non rende ragione delle so-

miglianze tra Bonaventura e Antonio. Quindi, o c’è un’ulteriore fonte comune ancora non trovata, oppure c’è dipendenza almeno indiretta di Bonaventura da Antonio. La tri-partizione di mente, chiesa militante, gerarchia celeste è bonaventuriana, ma improntata alla Gerarchia celeste dionisiana letta tramite la rispettiva Expositio [cf 1.3] di Ugo di San Vittore [cf Hex 2.16].

La “Duplex absolutio” Ai frati minori ordinati preti il papa Gregorio IX con una bolla del 1237 affidava

oltre che il compito di predicare, anche quello di confessare 65: evidentemente però que-sto sanciva un’attenzione già presente nell’esperienza dell’ordine, e di cui il sermonario di Antonio è testimonianza esauriente.

Ebbene, nell’enfasi che la confessione veniva ad assumere nel tredicesimo secolo si ponevano alcuni problemi, e in particolare quello del rapporto fra assoluzione sacra-mentale da parte del confessore e assoluzione spirituale da parte di Dio stesso in caso di impossibilità di accedere a un confessore. Certamente, il tema apparteneva già alla teo-logia e alla spiritualità 66, ma non così espresso ad litteram.

ANTONIUS BONAVENTURA

Mortaliter quis peccat: statim aedificat sibi ad ge-hennam […]; postea vero conteritur;

Et quia licet mediante ministerio sacerdotis pecca-ta remittuntur tamen quia solus Deus est qui effec-tive potest remittere peccata ideo […] “Dixi: Con-fitebor” [Ps 31,5],

vere contritus proponit confiteri.

id est statim cum proposui confiteri et si deest tempus et locus ut homo non possit recurrere ad confessionem, eo quod in sola contritione remit-tuntur peccata […] tunc in tali casu “tu”, Deus, et non alius, “remisisti iniquitatem peccati mei” [Ps 31,5].

Statim Unde statim, eum cum homo proponit confiteri antequam confitea-

tur, Dominus absolvit a culpa et a morte aeterna, quae transit per contritionem in poenam purgatoriam. […].

Deus dimittit peccata. […].

Accedit ad sacerdotem; confitetur; iniungit ei poe-nitentiam temporalem, per quam purgatoria transit in temporalem.

[Octava, 9 (v. 1, p. 239)]

Unde ad confessionem contritus non tenetur prop-ter deletionem peccati, sed tantummodo propter obligationem praecepti.

[Sermones Dominicales, 48.9]

64 «Iuxta allegoriam Hierusalem ecclesia Christi est toto orbe diffusa; item iuxta tropologiam, id est moralem sensum, anima quaeque sancta Hierusalem recte uocatur; item iuxta anagogen, id est intellegen-tiam ad superiora ducentem, Hierusalem habitatio est patriae caelestis quae ex angelis sanctis et homini-bus constat» [BEDA, In Cantica, 3.4].

65 Cf BOUGEROL, Introduzione a S. Bonaventura, cit., p. 20-21 e note. 66 Cf PIETRO LOMBARDO, Sententiae, 4.18 (p. 857-865); 8.3: «Ecce enim quis […] nondum tamen

uere et humiliter poenitet, nec confiteri proponit»; o anche GUERRICO D’IGNY, In quadragesima, 2.

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Il “Vir desideriorum” ‘Vir desideriorum’ è un’espressione delle scritture ebraiche [Dan 9,23], tradotta a

calco in latino da San Girolamo, con un conseguente fraintendimento: significa in realtà “uomo oggetto della predilezione di Dio”. Invece, col senso di “uomo dotato di grandi desideri”, ovvero di “mistico”, l’espressione faceva parte del vocabolario spirituale e anche della tradizione francescana, ma finora non abbiamo trovato altrove la combina-zione (attestata sia in Antonio che in Bonaventura) di ‘vir desideriorum’ con ‘suspen-sio’ e con la descrizione degli effetti corporali dell’estasi (che i francescani potevano ri-condurre all’esperienza stessa di Francesco) 67.

ANTONIUS BONAVENTURA DANIEL, VIR DESIDERIORUM, est contemplativus, qui solus tunc relinquitur, cum omnia exteriora postponit, et fune amoris in dulcedine contempla-tionis se SUSPENDIT, et tunc, mente illuminata, visionem grandem videt, quam ipse etiam capere non potest, quia “per speculum et in aenigmate, non adhuc facie ad faciem” contemplatur.

Non enim dispositus est aliquo modo ad contem-plationes divinas quae ad mentales ducunt exces-sus nisi cum DANIELE sit VIR DESIDERIORUM.

[Itin 0.3]

Nunc dicendum est de quarta [visione], scilicet intelligentiae per contemplationem SUSPENSAE. Sed intelligendum, quod hanc visionem nullus habet, nisi sit VIR DESIDERIORUM [Dan 9,23], nec potest eam habere nisi per magnum desiderium.

[Hex 20.1] Quantum ad susceptionem tria requiruntur, scili-cet vivacitas desiderii, sine qua nullo modo est VIR DESIDERIORUM contemplativus per quam est susceptio luminum a supremis per desiderium.

[HexD 4.4.28]

Cum anima sic illuminatur, sic SUSPENDITUR, FORTITUDO CORPORIS DEFICIT, species vultus pal-lescit, caro emarcescit, et sic de corporis et prae-sentis temporis delectatione desperat, in qua ne-quaquam ultra, sicut solebat, vivere curat, quia “iam non ipse vivit, sed vivit in eo vita Christi”.

[In resurrectione Domini (v. 3, p. 187)]

Hic enim est maxima difficultas, scilicet in sur-sumactione, quia totum CORPUS ENERVATUR, et nisi esset aliqua consolatio Spiritus sancti non su-stineret.

[Hex 22.22]

Il binomio di “unctio” e “speculatio” Il termine ‘unctio’, proveniente dalla versione latina della prima lettera di Giovan-

ni, era comunque patrimonio della tradizione spirituale, in particolare bernardiana, e francescana: attestato ad esempio nella Regula di Santa Chiara [12.8]; sarà ripreso negli Actus Francisci et sociorum eius [20.9 e 52.3]. Ma la cooccorrenza di ‘unctio’ e ‘spe-culatio’, attestata in Antonio e Bonaventura non ha paralleli accertati nelle concordanze elettroniche disponibili.

67 Cf TOMMASO DA CELANO, Legenda ad usum chori, prologus (fratri Benedicto): «Feci quod potui et

quia vir desideriorum es devote licet minus digne tuo beneplacito satisfeci». Il CLCLT-3 censisce del sin-tagma 51 occorrenze nei “Padri” e 33 nei “Medievali” (di cui ben 5 bonaventuriane), ma nessuna in rela-zione alla famiglia linguistica di ‘contemplor’ o ‘suspendo’.

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ANTONIUS

BONAVENTURA

“Quaerite, et invenietis”. Unde Sponsa in Canti-cis… [3,2]: “Surgam, et circuibo civitatem; per vicos et plateas quaeram quem diligit anima mea”. Civitas est caelestis patria, in qua sunt vici et pla-teae, ‘idest minores et maiores ordines’ [cf Glossa int.], quos anima surgens, idest a terrenis se eri-gens, circuit, dum seraphim ardoris amorem in Deum miratur, dum cherubim in Dei sapientiam speculatur, et sic de ceteris, inter quos sponsum suum quaerit; sed, quia ipse est omnibus altior, eum non invenit, et ideo oportet ipsam vigiles, i-dest spiritus caelestes, transire in mentis specula-tione, ad hoc quod possit dilectum invenire.

[In Litaniis, 4 (v. 3, p. 226)]

[ I- Ordo laicus – vita activa II- Ordo clericalis – vita permixta III- Ordo monasticus – vita contemplativa

(1) per modum supplicatorium | Throni - Ordines Monastici + Canonici regulares (2) per modum speculatorium | Cherubim - Fratres Praedicatores et Minores (3) per modum sursumactivum | Ordo Sera-phicus - Franciscus ]

Secundus [ordo] est […] speculativum […]. Huic respondet Cherubim. Hi sunt Praedicatores et Mi-nores. Alii [= Praedicatores] principaliter intendunt spe-culationi, a quo etiam nomen acceperunt, et postea unctioni. Alii [= Minores] principaliter unctioni et postea speculationi. […]. Et [Bonaventura] addebat quod beatus Franciscus dixerat, quod volebat, quod fratres sui studerent, dummodo facerent prius, quam docerent.

[Hex 22.21] Dicit Ioannes in sua Canonica [1Jo 2,27]: “Unctio eius docet vos de omnibus”. Nota quod duplex est unctio. “PRIMA est gratiae infusio” [cf Glossa ord.], de qua dicit Propheta: “Unxit te Deus, Deus tuus, o-leo laetitiae” [Ps 44,8] […] idest dono septiformis gratiae […]. SECUNDA unctio est divini verbi praedicatio […]. Iustitia bonae vitae et donum gratiae, idest verbum praedicationis dominicae, inungunt peccatorem, per confessionem Deo reconciliatum, […] ut, pec-catis et temporalibus denudatus, cum diabolo luc-tetur. Cum PRIMA unctio mentem interius ungit, SECUN-DA valde proficit. […] Unctio ergo internae inspirationis, vel dominicae praedicationis, docet nos de omnibus, quae spec-tant ad animae salutem, quae sunt: contemnere mundum, humiliare seipsum, caeleste appetere gaudium.

[V post Pascha, 1 (v. 1, p. 331-332)]

Lectorem invito ne forte credat quod sibi sufficiat lectio sine unctione, speculatio sine devotione, investigatio sine admiratione, circumspectio sine exsultatione, industria sine pietate, scientia sine caritate, intelligentia sine humilitate, studium ab-sque divina gratia, speculum absque sapientia di-vinitus inspirata.

[Itin 0.4]

3.6 PROBABILI DIPENDENZE TESTUALI: IL “CHRISTUS IN MEDIO” Il tema che accomuna Bonaventura ad Antonio più d’ogni altro è il cristocentrismo:

nella prima collatio in Hexaëmeron Bonaventura sviluppa il tema di Cristo centro di tut-

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te le scienze, esaminando come Cristo sia visto al centro in ciascuno dei suoi misteri 68. Ma tale tema era stato trattato, anche se non in riferimento alle scienze, da Antonio nel sermone per la domenica in Albis. Curiosamente, Bonaventura aveva inizato a tenere le sue collationes in Hexaëmeron nello stesso periodo liturgico, a partire da Pasqua.

La somiglianza tra i due testi è talmente ampia e non spiegabile (almeno per ora) da alcuna fonte comune, da indurci ad ammettere con buona probabilità la dipendenza di Bonaventura dal sermonario di Antonio.

ANTONIUS

BONAVENTURA

6. In hoc evangelio ter dicitur “Pax vobis” [Io 20,19-21], propter triplicem pacem, quam Christus reformavit: in-ter Deum et hominem, ipsum Deo Patri in sanguine suo reconciliando; inter angelum et hominem, naturam hu-manam assumendo et ipsam super choros angelorum elevando; inter hominem et hominem, iudaicum scilicet et gentilem populum, in se, lapide angulari, copulando.

Nota etiam quod in hoc nomine Pax sunt tres litterae et una syllaba, in quo Trinitas et Unitas designatur. In P Pater; in A, prima vocali, Filius, qui est vox Patris; in X, duplici consonante, Spiritus Sanctus ab utroque proce-dens intelligitur. Cum ergo dixit: “Pax vobis”, Trinitatis et Unitatis fidem nobis commendavit.

“Venit ergo Iesus et stetit in medio”. Proprius lo-cus Iesu est medium, scilicet

[Christus] est medium omnium scientiarum. Est autem septiforme medium, scilicet

[1] in caelo, [2a] in Virginis utero, [2b] in pecoris praesepio, [3] in crucis patibulo. [4– in cenaculo].

[1] essentiae […], in aeterna generatione […], [2] naturae […], in incarnatione […],

[3] distantiae […], in passione […], [4] doctrinae […], in resurrectione […], [5] modestiae […], in ascensione […], [6] iustitiae […], in futuro examine […], [7] concordiae […], in […] beatificatione [Hex 1.11].

[1] In caelo, unde in Apocalypsi [7,17]: “Agnus qui est in medio throni”, idest “in sinu Patris” [Io 1], “reget illos, et deducet eos ad vitae fontes aqua-rum”, idest satietatem caelestium gaudiorum.

Verbum […] “in sinu Patris” [HexD 0.3.32]. “Agnus, qui in medio throni est, reget illos, et de-ducet eos ad vitae fontes aquarum”. Agnus […] est Filius Dei, […] qui est media persona, a quo omnis beatitudo [Hex 1.38: de septimo medio].

[2a] In utero Virginis, unde Isaias [12,6]: “Exulta et lauda, habitatio Sion, quia magnus in medio tui Sanctus Israel” […]. [2b] In praesepio pecoris, unde Habacuc [3,2 iuxta LXX]: “In medio duum animalium cognosceris” […].

Verbum […] in utero Virginis [HexD 0.3.32]. Hoc medium fuit Christus in incarnatione: […] ip-se enim est medium duorum animalium ut cor; un-de in Habacuc: “In medio duum animalium co-gnosceris” […]. [Hex 1.20].

[3] In crucis patibulo, unde Ioannes [19,18]: “Crucifixerunt cum eo alios duos, hinc et inde, medium autem Iesum”.

Hoc medium fuit Christus in crucifixione [Hex 1.21: cf Sermones Dominicales, 4.6: «Christus crucifixus in medio latronum»].

68 Il Delorme nella sua edizione della seconda recensione delle Collationes in Hexaëmeron bonaven-

turiane segnala come parallelo il De Sacrae Scripturae mysterio [5] di Pietro di Giovanni Olivi 68, il che potrebbe avvalorare la tesi della dipendenza da Antonio.

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[4] “Venit” ergo “Iesus et stetit in medio”. “Ego sum”, inquit in Luca [22,27], “in medio vestrum sicut qui ministrat”. Stat in medio omnis cordis. Stat in medio, ut ab ipso, tamquam a centro, om-nes lineae gratiarum ad nos, qui sumus in circum-ferentia, qui circumvolvimur et in circuitu ambu-lamus, protendantur. […].

De hoc medio [dicitur…]: “Stetit Iesus in medio discipulorum” […] [Hex 1.29].

Et hoc ostendit Salvator: “Ego in medio vestrum sum, sicut qui ministrat” [Hex 1.23: de tertio me-dio]. Verbum […] est […] per fidem habitans in cordi-bus nostris [HexD 0.3.32].

Medium […], cum amissum est in circulo, non potest inveniri nisi per duas lineas se orthogonali-ter intersecantes [Hex 1.24].

7. “Venit” ergo “Iesus et dixit eis: Pax vobis”. No-ta quod triplex est pax: temporis […]; pectoris; […] aeternitatis.

[De secunda pace dicitur:] “Ecclesia per totam Iu-daeam et Galilaeam et Samariam habebat pacem; et aedificabatur ambulans in timore Domini, et consolatione Spiritus Sancti replebatur” [Act 9,31]. Ecclesia ergo, idest fidelis anima, in his tri-bus habet pacem, scilicet in confessione, de vitiis ad virtutes transmigratione, in divini mandati et gratiae perceptae custodia; et sic aedificatur, am-bulans “de virtute in virtutem” [Ps 83,8] in timo-re Domini, non servili sed filiali; et consolatione Sancti Spiritus in omni tribulatione repletur.

Sic Christianus debet “ascendere de virtute in vir-tutem”, non statuendo terminum virtutis, quia ex hoc facto desineret esse virtuosus [Hex 1.32: de quinto medio; cf Psal 83,8].

Primam [pacem, scilicet temporalem] debes habere cum proximo, secundam [scilicet pectoris] cum te ipso; et sic habebis, in octava resurrectionis, ter-tiam [scilicet aeternam] cum Deo in caelo. Sta ergo in medio et habebis pacem cum proximo. Si in medio non steteris, pacem habere non poteris. In circumferentiis enim non est pax neque tranquilli-tas, immo motus et volubilitas.

8. “Stetit ergo Iesus in medio discipulorum, et dixit eis: Pax vobis”. Et cum hoc dixisset ostendit eis manus et latus. […] Dominus quattuor de causis […] manus, latus et pedes ostendit apostolis. Pri-mo, ut se vere resurrexisse ostenderet et omnem dubietatem nobis auferret. Secundo, ut “columba”, idest Ecclesia vel fidelis anima in illius plagis, quasi “quibusdam foramini-bus, nidificaret” [Ct 2,14 !], et a facie accipitris, ipsam rapere machinantis, “se absconderet” [Ps 54,7]. Tertio, ut suae Passionis signa insignia cor-dibus nostris imprimeret. Quarto ostendit rogans, ut, ipsi compatientes, clavis peccatorum ne ipsum iterum crucifigamus.

Et duo ibi ostendit, scilicet gloriae sublimitatem, eo quod […] intravit tamquam Deus […]: haec fuit maior [propositio]; deinde minorem propositionem assumit, cum “ostendit eis manus et latus”; tertio conclusionem extorsit, ut confiteretur Thomas: “Dominus meus et Deus meus” [Hex 1.29: de quarto medio].

[In octava, 6-8 (v. 1, p. 235-238)]

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Ebbene non sono state rintracciate fonti comuni ai due testi 69; peraltro (come gen-tilmente mi hanno segnalato Riccardo Quinto e Alberto Bartola) si può ricondurre ad Alano (con la mediazione della Glossa) le distinzioni che Antonio fa di ‘pax’ e, in misu-ra minore e parziale, di ‘medius’ 70.

3.7 TERZA CONCLUSIONE: LA MINORITÀ REINTERPRETATA Abbiamo riscontrato nell’opera di Bonaventura comunanze tematiche e paralleli te-

stuali con quella di Antonio, che si presentano già dalle opere magisteriali, si accentua-no nelle opere composte da Generale (l’Itinerarium è stato concepito durante il pelle-grinaggio alla Verna nel 1259) e si fanno più stringenti nelle collationes, soprattutto in Hexaëmeron. Sarebbe utile a questo punto analizzare più a fondo queste corrispondenze anche dal punto di vista dottrinale, ma qui non ne abbiamo la possibilità. L’ipotesi che formuliamo è che Bonaventura, che già poteva aver conosciuto indirettamente a Parigi alcuni temi antoniani, abbia preso contatto diretto con l’opus di Antonio in occasione della traslazione del corpo nel 1263. Che un teologo come Bonaventura, essendo Mini-stro Generale dell’ordine, non abbia provato la curiosità di entrare in contatto con l’opera del santo tanto venerato sarebbe infatti inverosimile.

Un parallelo interessante è quello con Chiara, morta nel 1253 e canonizzata l’anno seguente, mentre Bonaventura era baccelliere francescano a Parigi; alla solenne trasla-zione del suo corpo Bonaventura era poi intervenuto nel 1260 come Ministro Generale dell’Ordine: ebbene, è stata notata nell’opera bonaventuriana anche qualche possibile influenza clariana 71.

69 Non solo non sono state segnalate dagli editori, ma ad una prima verifica nemmeno si riscontrano perlomeno nei testi censiti nel CLCLT-3.

70 Cf ALANO DI LILLA, Distinctiones dictionum theologalium, PL 210, p. 895: «Pax aliquando notat pacem temporis, unde in Evangelio: Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Aliquando aeternitatis, unde Apostolus: Et pax Dei quae exsuperat [0895B] etc.; et alibi: Pacem meam do vobis. Pax individuae Trinitatis, unde Paulus: Et pax Dei quae exsuperat. Pax rationis et sensualitatis, un-de Apostolus: Gratia vobis et pax in Jesu Christo. Dicitur pax simulationis, unde Dominus in Evangelio: Non veni mittere pacem in terram, sed gladium. Dicitur pax charitatis, unde David: Fiat pax in virtute tua»; ibid., p. 853: «Medius, proprie, mediator; unde de Christo in Evangelio: Medius vestrum stat quem vos nescitis, id est Christus mediator vestri et Dei. Eleganter autem medius; quia, sicut quod medium est habet participium cum extremis, sic oportet mediatorem habere aliquam habitudinem cum illis quos ad concordiam vult reducere. Dicitur etiam praesens, quia quod medium est magis apparet quam extrema, quia se extremis praesentat; unde sic potest exponi: Medius vestrum, id est praesens inter vos. Dicitur communis; quia quod medium est communiter se habet ad extrema, medium sumitur pro communi, ut centrum a parte circumferentiae; unde sic potest [0853D] exponi quod dictum est: Medius vestrum, id est communis vobiscum, id est communem naturam vobiscum habens. Dicitur vilis; quia sicut medium dici-tur commune, ita vile, quia omne commune vile, et quanto communius, tanto vilius, sicut omne rarum pretiosum, et quanto rarius, tanto pretiosius; unde et Judaei vilia et immunda vocabant communia. Est er-go sensus: Medius vestrum, id est quem vos vilem reputatis, stat. Dicitur medium quod est oppositum medio, unde in Evangelio: Ambulabat Jesus per medios fines Decapoleos, id est per viam quae erat oppo-sita mediis finibus illius regionis quae continebat in se decem civitates; decas enim decem, polis civitas dicitur. Dicitur concordia, unde Habac.: In medio duorum animalium cognosceris, id est [0854A] in con-cordia duorum testimoniorum; et in Psalmo: Si dormiatis inter medios cleros. Dicitur etiam rectus, unde in lege Dominus praecepit ut media via incedamus, non declinantes ad dexteram vel ad sinistram».

71 Si è notato ad esempio che due citazioni bibliche («a quo omne datum optimum et omne donum perfectum» [Iac 1,17] e «flecto genua mea ad Patrem» [Eph 3,14-19]) centrali e programmatiche per Bo-naventura [che le cita a capo di Soliloquium (entrambe), Brev (la seconda) e Red (la prima)] lo erano già

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In sostanza, filosofia, teologia e spiritualità (sia genericamente cristiana, sia speci-ficamente francescana) sono connesse in Bonaventura tanto dal punto di vista sistemati-co, quanto dal punto di vista concreto, per l’assunzione, perlopiù implicita, ma decisiva, di temi e testi francescani e antoniani. In particolare, ad Antonio Bonaventura deve lo spunto per quella che è la sua tesi più suggestiva (e, nonostante tutto, originale), ossia il cristocentrismo di tutte le scienze e le cose. In questa nuova sintesi culturale e teologica Bonaventura ha reinterpretato la minorità francescana alla luce dello sviluppo istituzio-nale assunto dall’Ordine.

Ma gli ascoltatori delle collationes bonaventuriane erano in grado di riconoscervi gli echi antoniani? Probabilmente non più: difatti nessuno dei reportatores lo segnala. L’eredità dottrinale antoniana era già stata rimossa (e in buona parte lo rimane tuttora) dalla memoria dell’ordine minoritico, sostituita da quella popolare della potenza tauma-turgica e da quella simbolica di una purezza primitiva dell’ordine.

Insomma, a distanza di secoli, la rinnovata attenzione degli studiosi può contribuire a rendere giustizia a tutti questi debiti taciuti, e così aiutare a valorizzare sempre me-glio, non solo storicamente ma anche spiritualmente, l’eredità francescana in tutta la sua ricca complessità (ed anche con la sua mediazione antoniana e la sua tematizzazione bonaventuriana), per continuare a proporne nell’oggi il messaggio di pace spirituale e di edificazione interiore mediante le virtù.

per CHIARA D’ASSISI [rispettivamente in Epistula ad beatam Agnetem, 2 e Testamentum, 23: cf Convegno internazionale di studi clariani “Clara claris praeclara”, tenutosi ad Assisi nel 2003.

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