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Giochi Olimpici di Berlino 1936 La smorfia di Hitler - ECONOMIA o UMANITA’ ? Qui non c’è perché Ricerca storica degli studenti del Liceo Scientifico A.B.Sabin in collaborazione con il Centro Montanari del Quartiere Navile. Prof.ssa Silvana Castello del Centro Montanari Studenti: Luca Benincasa (5R Scienze Umane), Virginia Boffo (4C Scienze Applicate), Silvia Farina (5R Scienze Umane), Mattia Marchesini (5R Scienze Umane) Prof. Maurizio Mascarà Docente di Storia e Filosofia del Liceo (consulenza storica)

EONOMIA o UMANITA

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Giochi Olimpici di Berlino 1936 – La smorfia di Hitler -

ECONOMIA o UMANITA’ ? Qui non c’è perché

Ricerca storica degli studenti del Liceo Scientifico A.B.Sabin in collaborazione con il Centro Montanari del Quartiere Navile.

Prof.ssa Silvana Castello del Centro Montanari Studenti: Luca Benincasa (5R Scienze Umane), Virginia Boffo (4C Scienze Applicate), Silvia Farina (5R Scienze Umane), Mattia Marchesini (5R Scienze Umane) Prof. Maurizio Mascarà Docente di Storia e Filosofia del Liceo (consulenza storica)

Economia o umanità - Qui non c'è perché –

LE MINORANZE SOCIALI Secondo una classica definizione il termine minoranza designa un gruppo di persone - differenziate da altre all'interno di una data società sulla base di razza, religione, lingua, nazionalità - che vedono se stesse come gruppo dotato di una sua specificità e vengono percepite dall'esterno come tali, con una connotazione negativa. Le caratteristiche che differenziano i membri di una minoranza dal resto della società possono includere, in combinazioni e con accenti variabili, lingua, nazionalità, riferimento a origini comuni, pratiche religiose, usi, costumi, stili di vita peculiari. Anche determinati tratti razziali possono concorrere a identificare una minoranza. In linea generale, tuttavia, il concetto di razza è sempre meno utilizzato nell'analisi dei gruppi minoritari. Ciò dipende non soltanto da considerazioni etico-politiche, ma anche e soprattutto da ragioni scientifiche - ad esempio dall'indeterminatezza della nozione di razza qualora non venga associata ad altri elementi culturali e a sentimenti di appartenenza a specifiche. Questa osservazione ci introduce una seconda caratteristica rilevante. Una minoranza esiste infatti soltanto se agli elementi distintivi appena individuati si associa un peculiare senso di appartenenza. Se, in altre parole, i membri del gruppo minoritario si percepiscono e sono percepiti dall'esterno come portatori di una specifica identità. I tratti culturali diventano allora il criterio con cui tracciare dei confini tra un “noi” e un “loro” identificabile con il gruppo dominante ma anche con altre minoranze nel caso di società più composite. Infine, tale identità si costituisce e assume specificità in riferimento a una situazione di discriminazione. Alle differenze culturali, linguistiche, di origini, ecc., corrisponde infatti un accesso ineguale alle risorse, alle opportunità e alle ricompense sociali (minori opportunità professionali, restrizioni dei diritti civili e politici, stigmatizzazione di certi costumi, ecc.). L' importanza attribuita ai tratti culturali e al ruolo dell'identità avvicina le minoranze da un lato ai gruppi etnici, dall'altro alle subculture. La nozione di minoranza si distacca peraltro in termini analitici da entrambi i concetti per il rilievo assunto da modelli di relazione asimmetrici e fondati sulla disuguaglianza. Essa è pertanto da intendersi in senso qualitativo e non quantitativo. Come il caso sudafricano ha mostrato con chiarezza, non contano infatti le dimensioni del gruppo, bensì la sua collocazione in una posizione subordinata all'interno dei rapporti sociali. In un'accezione ampia la qualifica di minoranza può estendersi anche ai movimenti contro culturali e alle minoranze religiose di tipo settario. Essi presentano una collocazione marginale sulla scala del potere e del prestigio sociale.

In Germania e in Italia Vogliamo focalizzarci in modo particolare sulle minoranze sociali che furono perseguitate durante la Seconda Guerra Mondiale: il programma di Adolf Hitler (esplicitato nell’opera “Mein Kampf”) mirava a “ripulire” il territorio tedesco da tutte quelle minoranze scomode per lo Stato. Nonostante le leggi naziste fossero principalmente dirette contro gli ebrei, altre etnie “non ariane” furono colpite dal rigore della cosiddetta igiene razziale, come gli omosessuali, gli zingari e i disabili. In Italia, l’avvento del fascismo non mette in crisi le comunità ebraiche, anzi inizialmente sembrano pronte a collaborare con il regime di Benito Mussolini. Nella famosa riunione in piazza San Sepolcro a Milano (23 marzo 1919), fra i 119 fondatori del fascismo ci sono anche cinque ebrei, ed è uno di loro (Cesare Goldman) a procurare la sala dell’Associazione Industriale dove Mussolini tiene a battesimo il movimento. Tra i “martiri fascisti” che muoiono negli scontri con i socialisti fra il 1919 e il 1922, figurano tre ebrei: Duilio Sinigaglia, Gino Bolaffi e Bruno Mondolfo. Più di 230 ebrei partecipano alla marcia su Roma nell’ottobre del 1922 e risulta che a quella data gli iscritti al partito fascista o a quello nazionalista (fusi nel 1923) siano ben 746. A Fiume con D’Annunzio ci sono ebrei, fra cui Aldo Finzi che diviene poi sottosegretario agli interni di Mussolini e membro del Gran Consiglio. Ma questo non significa che la comunità ebraica italiana sposi la causa del fascismo. Infatti molti ebrei si opposero alla politica di Mussolini. I primi germi dell’antisemitismo incominciano a manifestarsi dopo la conquista del potere da parte di Hitler in Germania nel 1933. Su diversi giornali fascisti appaiono i primi segni dell’antisemitismo che, raccogliendo le letterature tradizionali, accusano gli ebrei di voler conquistare il potere mondiale. Dal ‘34 è un crescendo di "segnali" antiebraici. La stampa ospita sempre più di frequente articoli razzisti. In quegli anni furono emblematici i Giochi Olimpici di Berlino: “Partendo dalla narrazione di una delle edizioni più controverse dei Giochi olimpici, lo spettacolo racconta una storia di sport e guerra. Berlino, estate 1936: mentre il mondo assiste in colpevole silenzio alla tragedia della guerra civile spagnola e la pace scricchiola sull’asse Roma Berlino Tokyo, Hitler vuole trasformare le Olimpiadi nell’apoteosi della razza ariana. E invece quelle Olimpiadi costruiscono i simboli più luminosi dell’uguaglianza. Il primo giorno due atleti neri sul podio del salto in alto: Cornelius Jonshon e Dave Albritton. Jesse Owens di medaglie ne vince addirittura quattro, due record mondiali e uno olimpico, il tutto documentato in diretta dalle immagini di Leni Riefensthal che regalano alla storia la straordinaria smorfia di disappunto di Hitler al terzo oro di Owens.” ( dallo spettacolo di Federico Buffa “Le olimpiadi del 1936” Ravenna Festival 2016) La situazione va nettamente peggiorando col graduale avvicinamento del governo fascista a quello hitleriano, anche se Mussolini, il 16 febbraio del ’38, con il documento n. 14 dell’Informazione diplomatica, il bollettino semiufficiale adoperato dal regime per comunicare le sue scelte di politica estera, smentisce ufficialmente le voci, sempre più insistenti, provenienti dall’estero, di misure antisemite che il governo italiano andrebbe elaborando. Nel maggio del 1938 Hitler viene a Roma per ricambiare la visita di Mussolini. Storicamente non esiste la prova di un collegamento diretto tra la visita e la svolta razzista del Regime (e secondo molti storici, a partire da De Felice, sarebbe ingiusto scaricare le responsabilità dell’Italia e del fascismo su Hitler). Fatto sta che il mese dopo una delegazione di esperti tedeschi di razzismo viene in Italia per istruire funzionari italiani su questa pseudo-scienza.

Appena due mesi dopo, il 14 luglio del 1938, viene pubblicato il "Manifesto della razza" , firmato da un gruppo di professori universitari. Contemporaneamente al "Manifesto della razza" viene lanciata (in data 15 luglio 1938) un’edizione speciale dei "Protocolli"; e per sostenere e diffondere la teoria razziale, nuova per gli italiani, inizia le sue pubblicazioni una rivista: “La difesa della razza” diretta da Telesio Interlandi. Durante l’estate del ‘38 la stampa italiana pubblica articoli diffamatori contro gli ebrei per preparare l’opinione pubblica alla normativa razziale. Il 1° settembre 1938 viene emanata la legge: tutti gli ebrei italiani sono messi al bando dalla vita pubblica; perfino le scuole sono precluse ai bambini ebrei. Il periodo 1938-1943 è tragico per gli ebrei italiani: in questi sei anni vengono assoggettate alla persecuzione circa 51.100 persone, cioè poco più dell’1 per mille della popolazione della penisola; i perseguitati sono in parte (circa 46.600) ebrei effettivi e in parte (circa 4500) non-ebrei classificati "di razza ebraica". L’antisemitismo permea la vita del paese in tutti i suoi comparti. In un solo anno, dei 10 mila ebrei stranieri presenti in Italia, 6480 sono costretti a lasciare il Paese. Riportiamo in seguito qualche testimonianza di ebrei italiani perseguitati.

Mario Teglio

Mario Teglio fu uno dei tanti giovani ebrei bolognesi che aderì alla lotta partigiana. Da Bologna infatti, un folto gruppo di giovani decise individualmente di combattere unendosi ai vari gruppi partigiani che già operavano in varie zone del Nord Italia; alcuni persero la vita ma ci fu anche chi sopravvisse e poté raccontare la propria esperienza, fra questi Mario Teglio. Teglio era consapevole dell’importanza di testimoniare in prima persona il proprio vissuto alle giovani generazioni e lo faceva con grande impegno incontrando regolarmente i ragazzi delle scuole e avendo un rapporto diretto con loro. Il suo racconto iniziava con la storia della sua famiglia, una famiglia ebraica di origine modenese trapiantata in seguito a Bologna, attaccata alle tradizioni ebraiche ma nel contempo sempre inserita nel tessuto sociale e politico del paese. Il padre Attilio fu infatti giornalista della Gazzetta di Torino, poi del Resto del Carlino. Dal 1938 la famiglia subì le conseguenze delle leggi razziali e Mario, allora

quattordicenne, fu costretto a lasciare la scuola pubblica e a frequentare la scuola privata ebraica organizzata dalla Comunità in via Dei Gombruti. Come lui stesso diceva: ho conseguito il diploma di geometra dando ogni anno gli esami da privatista all’’Istituto Pier Crescenzi. I miei voti venivano esposti nel tabellone della scuola con la scritta alunno di razza ebraica. Nel 1942 ottenuto il diploma avrebbe dovuto essere arruolato nell’esercito ma come ebreo aveva perso sia tutti i diritti ed anche i doveri. Venne quindi avviato al lavoro obbligatorio e con la sorella fu destinato come operaio alla ditta Martelli, fino ai primi mesi del 1943. Nel settembre, dopo l’arrivo a Bologna di una divisione tedesca e la requisizione di due camere della propria abitazione, scappò in bicicletta da parenti che abitavano a Sassuolo e da lì si rifugiò nella montagna reggiana a Quara di Villaminozzo, ospitato nella canonica di Don Enzo Bonobaldoni e poi presso una famiglia di montanari in una frazione di Frassinoro. Nei mesi successivi, quando la persecuzione si fece più cruenta e la famiglia dovette trasferirsi prima a Viserba poi in Piemonte, Teglio fu costretto a rifugiarsi in montagna dopodiché si unì a una formazione partigiana, costituita da giovani del posto, aggregata alle Brigate Italia del comandante Gorrieri. Il suo gruppo agiva nella zona dell’alto Dolo al confine fra le province di Modena e Reggio. Nell’estate del 1944 partecipò indirettamente alla formazione della Repubblica partigiana di Montefiorino. Il suo gruppo controllava la parte alta della strada statale delle Radici (che dalla provincia di Reggio Emilia conduceva in Toscana) e intercettava i convogli tedeschi che andavano al fronte, fermo in prossimità del crinale appenninico. Teglio combatté duramente durante i numerosi rastrellamenti che le SS e i battaglioni della R.S.I. fecero in zona. Alcuni amici furono feriti, altri invece morirono. Per circa 20 mesi non ebbe più contatti con la famiglia, che non sapeva dove fosse, né che fine avesse fatto. Alla fine della guerra riuscì ad unirsi a tutti loro. Da quel periodo della mia vita, diceva, ho imparato che la libertà è un bene grandissimo e che per conservarla bisogna rispettare quella degli altri e quando è necessario difenderla.

Arpad Weisz

Arpad Weisz, allenatore ebreo del Bologna FC, fu costretto a lasciare la squadra. L'allenatore del Bologna calcio Arpad Weisz, ebreo, vincitore di due scudetti e del Torneo di Parigi, è costretto a lasciare la squadra e la città a seguito delle leggi razziali. Ungherese di nascita, Weisz era stato calciatore e poi allenatore dell'Inter, prima di essere ingaggiato nel febbraio 1935 dal presidente Dall'Ara per risollevare le sorti della squadra rossoblù. Dopo essere fuggito in Francia e in Olanda, dove allenerà la squadra di Dordrecht, Weisz e la sua famiglia scompariranno nel campo di sterminio di Auschwitz.

FATTORI ECONOMICI che favorirono l’avvento del nazismo e del fascismo

In Germania Quando ci furono le lezioni del 1924 i nazisti avevano ottenuto uno scarso risultato: il 3% dei voti. Addirittura quattro anni dopo, a maggio, ottennero un risultato ancora inferiore, il 2,5%. Nel 1930 con la grande crisi economica il partito nazista ottenne una grossa impennata. Come mai? Quasi tutta la popolazione tedesca immiserita o ridotta alla fame, aveva perso qualsiasi tipo di fiducia nelle istituzioni della Repubblica di Weimar e nei partiti tradizionali che l’avevano voluta e sostenuta. Ciò fu un vantaggio per il nazismo che così potè uscire dal suo isolamento. Facendo leva sulla paura dell’alta borghesia, sulla mortificazione del ceto medio, sulla rabbia di chi il lavoro non l’aveva Hitler offriva non solo la riconquista del prestigio da parte del popolo tedesco, non solo l’indicazione dei colpevoli a cui attribuire la responsabilità della sfortuna della Germania, ma poteva dare l’immagine di un partito politico che fosse capace di ristabilire l’ordine contro traditori e nemici interni: partiti di sinistra ed ebrei. Nelle elezioni che si tennero tra il 1930 e il 1932 il partito nazista divenne il primo partito tedesco. Nel gennaio del 1933 Hitler fu chiamato dal presidente Hinbemburg a guidare il governo. Ci chiediamo ancora: come fu possibile ciò ?

Tanti furono i motivi. In questo momento a noi preme segnalare importanza della ripresa economica che fu resa possibile mediante una fortissima politica di riarmo ed una notevole incentivazione dei lavori pubblici. Ciò portò, in un breve lasso di tempo, al raggiungimento della piena occupazione accompagnato ad un miglioramento dei servizi sociali. Dal 1933 al 1936 i disoccupati divennero da 6milioni 500.000. Nel 1939 , alla vigilia dell’inizio della guerra era stata raggiunta la piena occupazione.

In Italia In Italia il sistema economico del fascismo aveva previsto la creazione delle Corporazioni che vennero ufficialmente istituite il 15 febbraio del 1934: erano 22 di cui 16 fondate sui singoli settori produttivi ( “metallurgico”, “meccanico”, “tessile”, “abbigliamento” ……) e 6 sulle professioni svolte ( “professioni ed arti”, “spettacolo”, …..). L’economia, inoltre, passò da una politica liberista (1925) ad una politica protezionistica che prevedeva un maggior intervento statale. La “battaglia del grano” servì a raggiungere l’autosufficienza cerealicola, mentre la rivalutazione della lira (“quota 90” per una sterlina) aveva il compito di dare all’Italia una buona stabilità monetaria. Anche di fronte alla crisi del 1929 il fascismo reagì mediante una buona politica dei lavori pubblici (bonifica delle paludi Pontine) e con l’intervento diretto dello Stato in campo industriale e bancario. Con l’ IRI lo Stato diventò proprietario di alcune fra le maggiori imprese italiane. Superato questo momento l’economia fu indirizzata verso la produzione bellica. Questi miglioramenti furono però pagati a caro prezzo al momento dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

EXCURSUS STORICO SUL POPOLO EBRAICO

Mattia Marchesini

Gli ebrei all’inizio erano soltanto delle tribù nomadi dedite alla pastorizia, stanziate nella Mesopotamia. La Bibbia racconta che nel 1800 a.C. il loro capo Abramo li guidò verso la terra di Canaan cioè l’odierna Palestina, tra il Sinai e la Fenicia (attuale Libano), poi si spostarono in Egitto dove furono fatti schiavi. Con Mosè ritornarono nella terra di Canaan. Intorno al 1000 a.C., sotto il regno di Davide, creano uno stato con capitale Gerusalemme. La storia degli ebrei è segnata da momenti drammatici. Nel 587 a.C. vengono deportati dagli assiri in Babilonia; ritornati non riescono a creare uno stato unitario e nel 64 a.C. la Palestina divenne provincia romana. Nel 70 d.C. Tito distrugge Gerusalemme sterminando molti ebrei. Alcuni restano in Palestina, altri emigrano lungo la costa del Nord Africa e nel VII-VIII sec. dei gruppi si spostano in Europa al seguito degli emiri arabi. Quelli che si dirigono verso l'Europa cristiana conoscono ben presto le prime persecuzioni. Durante i secoli del Medioevo, i cristiani accusano gli ebrei di essere il popolo “deicida”, responsabile cioè dell’uccisione di Gesù. Nell’Europa cristiana, si proibisce agli ebrei di coltivare e di possedere la terra e sono costretti a fare solo i banchieri, gli usurai, un ruolo considerato peccaminoso dal mondo cristiano, gli artigiani o altri lavori che non prevedano la proprietà fondiaria. Un diverso destino attende invece gli ebrei nordafricani. Qui, pur pagando una speciale imposta, la “Jiza”, le comunità ebraiche sono rispettate e coperte dalla protezione dei Califfi. In Spagna , fra il X e il XIII secolo, si sviluppa una grande cultura arabo-giudaica. Filosofi ebrei e musulmani discutono fra loro di scienza e fede, scrivendo indifferentemente in ebraico e in arabo. Nel Cinquecento termina il periodo fiorente del giudaismo spagnolo, poiché la penisola iberica viene "riconquistata" dai cristiani. I re cattolicissimi Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia impongono il battesimo forzato ad arabi ed ebrei sotto la minaccia della confisca dei beni e della morte, chi non si piega è costretto all’esilio. Comincia, dunque, una nuova fase della diaspora, gli ebrei vanno nel nord Africa, in Turchia, alcuni in Palestina e molti nell’Europa centrale e orientale. Coloro che scelsero l’Europa cristiana si trovarono nel pieno delle persecuzioni. In Europa troveranno una situazione favorevole solo in Inghilterra e nell’Italia meridionale, poiché

avevano perso il monopolio delle loro antiche attività economiche, dovute allo sviluppo capitalistico. I più emigrarono nell'Europa orientale. In Polonia, in Lituania e in Ucraina, si forma la più grossa concentrazione di ebrei. Lo stato polacco li protegge, e permette loro di svolgere il ruolo economico-sociale che li aveva da sempre caratterizzati. Ma alla fine del Settecento arriva un nuovo dominatore, l’impero russo, e con esso nuove persecuzioni, i pogrom, e gli ebrei dovettero riprendere a emigrare, questa volta verso l’Europa occidentale e gli Stati Uniti. In questi paesi, dall’inizio del XIX secolo, la situazione è cambiata. La rivoluzione francese e poi Napoleone hanno abolito i ghetti, hanno emancipato gli ebrei e dato loro la cittadinanza. Molti ebrei accettano di essere “assimilati”, e cioè di diventare francesi, italiani, inglesi ecc. Una minoranza, costituita dai più legati alla fede e alle tradizioni, non vede di buon occhio questa rottura della comunità. L’assimilazione non è un processo che si è verificato tranquillamente senza tensioni. Non è morto il vecchio odio antiebraico e accanto ad esso sta nascendo un antisemitismo “moderno”, che pretende di fondarsi su assurdi argomenti “scientifici” derivati dal Positivismo. In Francia nel 1894, un ufficiale ebreo, Alfred Dreyfus, viene accusato ingiustamente di tradimento e tenuto in galera sull’isola del Diavolo per cinque anni. Il caso fa discutere tutta la Francia. IL SIONISMO E fu proprio l’affare Dreyfus a far pensare all’ebreo ungherese Theodor Herzl di restituire un’identità nazionale alle popolazioni israelite sparse per il mondo fondando, nel 1896, il movimento sionista. Il sionismo è un movimento per la riunificazione degli ebrei della diaspora in uno stato ebraico in Palestina. Sorto nel XIX secolo culminò nel 1948 con la nascita dello stato di Israele. Il nome del movimento deriva da Sion, la collina su cui era edificato il tempio di Gerusalemme. Nato alla fine dell’ottocento, il suo scopo era il ritorno degli ebrei a Gerusalemme perché potessero avere una patria e governarsi da sé. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo iniziarono a migrare in Palestina alcune migliaia di ebrei, grazie all’aiuto finanziario di facoltose personalità delle precedenti diaspore, come il banchiere tedesco Rothschild. IL FOCOLARE NAZIONALE EBRAICO Nel 1917 il ministro degli esteri inglese Arthur James Balfour, con la sua dichiarazione ("dichiarazione Balfour"), appoggiò il movimento sionista nella nascita di un “focolare nazionale ebraico in Palestina”. Dopo la prima guerra mondiale il flusso degli ebrei provenienti dalla Russia fu interrotto dal nuovo stato sovietico. L'insediamento ebraico in Palestina, dal 1920 al 1948, crebbe da 50.000 a 600.000 coloni. La causa di questo aumento del flusso fu dovuta alle persecuzioni del nazismo. Intanto tra gli immigrati ebrei e gli arabi palestinesi cominciano ad avvertirsi delle tensioni. Poco prima della Seconda Guerra Mondiale, per accaparrarsi l’appoggio del mondo arabo, il governo inglese cambiò l’atteggiamento politico nei confronti dei palestinesi. Nel Libro bianco del 1939 si pensava di creare uno stato palestinese con maggioranza araba e si fissavano dei limiti all'immigrazione ebraica. Ma fu la Shoah, lo sterminio ebraico da parte dei nazisti, a dare l’impulso agli ebrei europei per creare un forte stato ebraico. Nel 1944, un gruppo di resistenza sionista paramilitare di destra, l'Irgun Zvai Leumi, comandata da Menachem Begin, futuro premier israeliano, portò a segno diversi attentati contro inglesi, arabi ed ebrei. LO STATO D’ISRAELE Al termine del mandato britannico in Palestina (1948), gli ebrei proclamarono l'indipendenza del nuovo stato d'Israele, grazie all’appoggio europeo, degli Stati Uniti e al

consenso sovietico. Nei primi anni il sionismo fece in modo di rendere abbastanza stabile e sicuro il nuovo stato d’Israele. Tra gli anni Settanta e Ottanta il sionismo si occupò degli ebrei nell’Unione Sovietica, a cui successivamente fu concesso di emigrare, e del trasferimento in Israele dei falascià dell’Etiopia. Il sionismo è stato molte volte accusato di essere uno strumento dell'imperialismo occidentale. Nel 1975 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite dichiarò il sionismo assimilabile al razzismo, ma la risoluzione fu ritirata nel 1991. Oggi il sionismo è basato su due principi fondamentali: la sicurezza dello stato d'Israele e il diritto di ogni ebreo a stabilirvisi (la “legge del ritorno “).

***

RAZZISMO

Silvia Farina

I pregiudizi razziali in senso stretto, come coscienza della superiorità "biologica" della propria "razza", si sono sviluppati nell'epoca moderna, alla fine del XVIII sec., per giustificare una politica nazionalistica e colonialistica. Nei confronti degli schiavi negri, nei primi tempi del colonialismo, gli europei avevano un disprezzo legato alla condizione sociale e non al sangue. Il nero non veniva considerato di per sé inferiore al bianco, anche se l'arretratezza scientifica e tecnologica veniva usata per sottomettere le popolazioni non-europee. Una prima giustificazione delle differenze "razziali" venne avanzata quando cominciarono a farsi strada delle posizioni favorevoli all'emancipazione degli schiavi negri (vedi ad es. la Rivoluzione Francese e il cosiddetto mito del "buon selvaggio", contrapposto all'uomo civilizzato ma disumano, perché avido e prepotente). Nei tempi antichi gli uomini potevano essere perseguitati per motivi religiosi, politici, sociali, culturali... ma non lo sono mai stati per motivi biologici. E' vero che in Grecia Aristotele giustificava la schiavitù dicendo che "per natura" alcuni comandavano e altri obbedivano (schiavi cioè si nasce non si diventa), ma questa differenza era -secondo lui- determinata dal "caso" e comunque non comportava l'eliminazione fisica dello schiavo, né si riteneva che, in via del tutto eccezionale, uno schiavo non potesse, una volta affrancato dal padrone, arrivare ai livelli di una persona libera. Aristotele credeva che l'attitudine fisica a comandare o a servire dipendesse dall'inclinazione del carattere: in tal modo non si rendeva conto di quali differenze sociali potevano impedire a uno schiavo di comandare o comunque di far valere le sue reali potenzialità (da notare che molti schiavi, almeno all'inizio, furono popolazioni libere vinte in guerra). I "barbari" erano considerati tali, dai greci e dai romani, per motivi culturali non biologici (anzi, sul piano biologico, molti li consideravano superiori, perché più robusti fisicamente dei latini). Il disprezzo che si aveva per la loro arretratezza culturale, tecnica, scientifica, militare ci ha sempre impedito di cogliere gli aspetti positivi del loro stile di vita e dei loro valori tribali. I greci e i romani, più che legare il sangue alla razza, legavano il concetto di cittadinanza (che rendeva giuridicamente liberi) a quello di civiltà (che rendeva superiori nello "spirito"). La cittadinanza (cioè il privilegio di appartenere a un popolo evoluto) veniva concessa soltanto a chi accettava i valori della civiltà greco-romana e da questa civiltà veniva riconosciuto idoneo. Era un privilegio sociale, politico e giuridico, non certo biologico. In virtù di questo privilegio il cittadino poteva guardare con disprezzo le altre culture e civiltà. Nel Medioevo i cattolici europei si consideravano superiori a tutte le altre popolazioni del mondo non solo per motivi culturali ma anche e soprattutto per motivi religiosi: di qui il disprezzo e le persecuzioni di ebrei, musulmani, eretici, pagani (incluse le guerre all'interno dello stesso cristianesimo, fra cattolici e ortodossi e , però in epoca moderna, fra cattolici e protestanti). Naturalmente vi furono anche dei cattolici - come ad esempio il frate domenicano Bartolomeo de Las Casas - che sostennero l'uguaglianza degli uomini, a prescindere dalle loro differenze etniche o religiose. D'altra parte gli stessi vangeli erano chiaramente orientati verso l'uguaglianza universale degli uomini.

Il disprezzo biologico non è che una sofisticazione usata per giustificare meglio quello culturale. Nel XVIII sec. si formò una vera e propria ideologia razzista. Essa partiva dalla differenza dei tratti somatici e del colore della pelle per affermare una differenza di carattere biologico ereditario e quindi una inferiorità intellettuale e morale, oltre che genetica. Nel XIX sec. si passa a interpretare la storia come una competizione tra razze forti e razze deboli. La decadenza delle grandi civiltà viene spiegata con l'incrocio delle razze che impoverirebbe la purezza del sangue. Queste tesi furono adottate dal nazismo, che mirò all'eliminazione fisica delle cosiddette "razze inferiori", ivi incluse alcune categorie sociali (ebrei, slavi, zingari, pazzi, handicappati, omosessuali...). Ciò però non vuol dire che il nazismo credesse (nei suoi ranghi intellettuali) nel valore scientifico di queste tesi, che peraltro è indimostrabile, in quanto non siamo in grado di risalire alla formazione originaria delle presunte "razze". Il nazismo si era appropriato di queste tesi perché gli tornavano utili per sconvolgere l'assetto del mondo, determinato a ovest dal potere di Gran Bretagna e Francia; a est dal potere dell'URSS; oltre oceano dal potere degli USA. La Germania, convinta di avere grandi potenzialità inespresse, si sentiva tagliata fuori dalla possibilità di dominare una parte del mondo (essa ad es. non aveva potuto partecipare alla spartizione delle colonie se non in maniera marginale). Per quanto riguarda il fascismo italiano, Mussolini non solo non ha mai creduto al concetto biologico di "razza" (né lo riteneva utile per affermare il proprio nazionalismo), ma era anche convinto che proprio dalla fusione delle razze potevano nascere individui migliori. Questo tuttavia non gli impedì di considerare gli slavi e i neri come dei popoli sottosviluppati da sottomettere, né di perseguitare gli ebrei, dopo l'alleanza con la Germania. Dobbiamo ancora usare il concetto di "razza"? Sì, se lo usiamo in maniera puramente convenzionale, per indicare il colore della pelle. Per il resto tutti gli uomini appartengono alla stessa specie, tutti sono derivati da uno stesso ceppo ancestrale, tutti hanno in comune lo stesso patrimonio genetico. Se vogliamo distinguere le popolazioni sul piano culturale, dobbiamo parlare di gruppi etnici (eventualmente "misti"), nel senso che l'uomo è un "prodotto culturale". Oggi tuttavia appare chiaro che il pregiudizio razziale è determinato da fattori di carattere socio-economico (come i conflitti fra le classi sociali). Prendiamo ad es. i matrimoni misti. Là dove i matrimoni misti sono molto osteggiati e dove gli individui vengono giudicati in base alla loro appartenenza al gruppo, lì esiste una differenza di classe o di casta. Le classi più elevate danno più importanza all'estrazione sociale, alla nascita, alla buona famiglia, al parentado... e non vogliono, di solito, matrimoni con individui di classi inferiori. L'uomo di classe elevata innalza alla propria classe la donna che sposa; l'uomo di classe inferiore la abbassa. Nel mondo occidentale la stratificazione delle classi sono determinate, tendenzialmente, per linea paterna. Se però l'uomo bianco sposa una donna nera, facilmente i figli vengono relegati alla casta della madre. Le prime teorie razziste, basate sulla superiorità biologica e culturale di una razza sull'altra, comparsero e si svilupparono nel '500, col sorgere dei grandi imperi coloniali cioè quando spagnoli e portoghesi iniziarono il traffico degli schiavi africani da utilizzare nelle miniere e nelle piantagioni americane di cotone. La teoria dell'inferiorità razziale era stata creata per giustificare lo sfruttamento dei neri da parte dei bianchi. Fu solo nell'Ottocento che gli schiavisti cominciarono a perdere le loro

battaglie: col Congresso di Vienna venne sottoscritta l’8 febbraio del 1815 la “Dichiarazione contro la tratta dei negri” anche se in Inghilterra la schiavitù era stata abolita nel 1808, la norma sarà recepita in Francia nel 1848 e in Olanda nel 1863. Lo schiavismo aveva trovato i suoi più accaniti sostenitori tra gli aristocratici possidenti del sud degli Stati Uniti. Qui la schiavitù venne abolita da Abramo Lincoln nel 1861. Il razzismo contemporaneo nacque in Europa nella seconda metà del sec. XIX. Il suo fondatore fu il conte de Gobineau, che scrisse un libro sull'ineguaglianza delle razze umane. Alla fine del secolo scorso l'inglese Chamberlain, forte ammiratore dei tedeschi, riprese le teorie di de Gobineau, sostenendo che ogni uomo, solo per il fatto di appartenere a una certa razza, possiede delle qualità destinate a realizzare determinati fini. Per quanto riguarda i tedeschi il loro fine particolare è il dominio del mondo. Con Chamberlain nasce anche la giustificazione teorica dell'antisemitismo e la valorizzazione del concetto di "razza ariana". Tutte le sue idee vennero accettate dal nazismo. Hitler, nel libro Mein Kampf, affermò che l'incrocio delle razze determina il decadimento fisico e spirituale della razza superiore. E' inutile ricercare -diceva Hitler- quale sia la razza originaria portatrice della cultura umana: ciò che conta sono i risultati attuali, nel senso che la razza superiore è quella che riesce a dimostrare d'essere la più forte e la migliore in ogni campo. E quella tedesca coincide con la razza ariana. Le accuse di Hitler agli ebrei furono molto pesanti. Egli sosteneva che l'ebreo, una volta arricchitosi, è in grado di influenzare il potere politico contro gli interessi della stessa nazione; se invece l'ebreo non si arricchiva diventava un comunista, per cui in entrambi i casi egli aspirava al dominio del mondo. Hitler chiedeva allo Stato tedesco di porre al centro della politica demografica il concetto di razza, per spopolare l'Europa e creare lo "spazio vitale" indispensabile all'espansione del popolo tedesco. Inoltre per impedire che nascano bambini malati o difettosi, divenne sostenitore dell’eugenetica. A tale scopo occorreva realizzare dei lager di sterminio, di campi di lavoro delle razze inferiori e di sperimentazione scientifica (trapianti, operazioni senza anestesia, inoculazione di malattie, ecc.). Le razze da sterminare erano principalmente quella slava, ebraica, zingara, e tutti gli uomini deboli o malati. Da tempo l'antropologia ha abbandonato il concetto di razza come legato ad esigenze pratiche di classificazione scientifica. Lo si usava per distinguere i vari gruppi umani sulla base di caratteristiche fisiche che si trasmettono ereditariamente. Ora invece si ammette che non esistono particolari attitudini esclusive di una determinata razza, che la rendono superiore a un'altra. Le maggiori capacità di un gruppo sono da attribuire a circostanze storiche, geografiche, sociologiche, non certamente a congenite differenze intellettuali e morali. Il concetto di razza andrebbe quindi sostituito con quello di gruppo culturale. Da questo punto di vista sarebbe opportuno valutare anzi rivalutare tutte le civiltà, in rapporto alla storia di ciascuna di esse, e non sul modello arbitrario di una sola civiltà (ad es. quella occidentale). Una civiltà è il frutto di quelle condizioni di vita (materiali, sociali e culturali) che si sono presentate durante il corso degli eventi. Cinquemila anni fa, p.es., gli egiziani avrebbero potuto considerare gli europei degli esseri inferiori o incivili. Il tempo non può essere il metro per misurare lo sviluppo di una civiltà. Mutamenti culturali, che per alcuni popoli hanno richiesto dei secoli, per altri possono realizzarsi nel giro di pochi anni. Semmai è un altro l'aspetto da considerare, se si vuole parlare di sviluppo di una civiltà: la capacità di adattamento al mutare delle condizioni di vita e dei fattori ambientali. E' questa capacità, innata in ogni essere umano, che permette a una civiltà di svilupparsi più o meno

in fretta, modificandosi. Si potrebbe qui aggiungere che i popoli le cui civiltà hanno camminato più lentamente sono quelli vissuti nell'isolamento, cioè con pochi contatti con i popoli vicini. Lo scambio delle esperienze, delle conoscenze, delle abilità tecniche ed operative è sempre stata la molla che ha fatto scattare l'esigenza di un mutamento. Il razzismo è una sorta di autodifesa rozza e primitiva contro la perdita di identità e di valori, ma anche contro l'insicurezza sociale, il peggioramento dei propri standard vitali, che sono causati dallo strapotere dei monopoli e che nelle società capitalistiche determinano gli stessi disvalori che si vivono nella dimensione sovrastrutturale. Li determinano ovviamente non in maniera totalizzante, altrimenti sarebbe impossibile una qualunque contestazione del sistema, ma in maniera relativa, poiché è il denaro il principale dio cui occorre dedicare ogni attenzione. La manipolazione della coscienza ha questo preciso limite, oltre il quale non riesce ad andare. Col razzismo si addebitano ai più deboli, ai diversi, ai marginali, che subiscono le medesime contraddizioni delle masse in generale, le cause del malessere collettivo. Tali categorie, peraltro, essendo già abituate all'emarginazione, possono anche soffrire gli antagonismi sociali con meno tensione di quelle che, abituate invece a certi standard di vita, si vedono progressivamente declassare a livelli ritenuti assolutamente inaccettabili. Il razzismo non emerge nelle classi molto agiate, poiché esse sono già razziste per definizione e non hanno bisogno di avvalersene per arrivare in cima alla scala del successo personale. Il razzismo emerge sempre in quelle classi sociali che non vogliono perdere un livello medio di benessere, oppure in quelle classi che pensano di emanciparsi socialmente aggregandosi a quei partiti e movimenti che predicano dichiaratamente il razzismo.

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LA TOLLERANZA Luca Benincasa

La tolleranza. A volte noi diamo per scontato cose che non lo sono come proprio la tolleranza. Essa è venuta clamorosamente a mancare nel XX secolo e a dimostrarlo sono migliaia di episodi di guerre,discriminazioni,omicidi attuati per la mancanza di tolleranza. Di solito tolleranza è sinonimo di sopportazione. Si dice per esempio :"per fortuna che ti sopporto" oppure " io sono abbastanza tollerante ", lo si dice ma a quale scopo ? lo si dice nei confronti di persone che si comportano in maniera ostile verso di noi oppure verso una comunità, lo si dice quando qualcosa o qualcuno inizia "a premere" contro di noi. La tolleranza nel '900 è venuta meno perché sempre più si era insinuata nell'opinione pubblica, l'idea che le persone "diverse" da noi, con caratteri somatici o psicosomatici differenti fossero da tollerare. La diversità tra uomini non era motivo di incontro e comunione ma era un atto di tolleranza. Ed ecco spiegato perché ad un certo punto questa tolleranza è venuta meno e discriminazione, conflitti ed emarginazione hanno preso piede. L’intolleranza sociale è una tipologia di intolleranza, forse la più comune e la più dilagante nella storia del mondo e che nel '900 ha conosciuto i macabri fatti delle dittature naziste e comuniste. Prestiamo attenzione al termine tolleranza in antitesi a quello di ambizione o prepotenza spesso però erroneamente assimilati insieme. L'intolleranza è la reazione di un soggetto passivo in risposta ad un torto subìto, mentre l'ambizione e la prepotenza sono comportamenti originali attivi. Voglio dire: l'intollerante lo è solamente quando viene lesa la sua immaginaria sfera di libertà, mentre l'ambizioso e il prepotente sono loro ad attaccare per primi, senza necessariamente che siano stati provocati. A volte l'intolleranza sorge da un bisogno di identificazione o meglio di affermazione. L'uomo ha per istinto il bisogno di sentirsi attorniato da persone a lui simili e con le stesse tendenze, cioè di identificarsi costantemente con il proprio gruppo sociale d'appartenenza, ma nella nostra società europea, invece, piccole e grandi differenze tra gli individui che la compongono e i gruppi sociali, salvo casi particolari, non sono più così evidenti e disponibili. Infatti ci sono differenze riscontrabili nei caratteri somatici, negli idiomi, nei vestiti, nelle religioni, nelle usanze, nei gusti e negli stili di vita. A causa di questa moltitudine di modelli che ci circondano le intolleranze si possono facilmente manifestare fino alle forme più gravi di razzismo organizzato.

L’AFFARE DREYFUS Virginia Boffo

In relazione ad atti di assenza democratica e dimostrazioni antisemitiche, anche in questo contesto, si può richiamare alla mente l’Affare Dreyfus. L’Affare fu fra i primi casi clamorosi politico-giudiziari francesi della Terza Repubblica che fece capire il declino della posizione repubblicana e laica, venutasi a consolidare dagli anni Settanta, delle istituzioni. Nel 1894 un ufficiale dell’esercito francese, ebreo nato in Alsazia l’8 ottobre del 1859, venne accusato di tradimento per aver mandato dei documenti dell’artiglieria francese ai tedeschi, tramite l’ambasciata tedesca di Parigi. Tutto iniziò il 6 ottobre 1894. In quel periodo l’Alsazia era sotto il controllo tedesco e venne scoperto un biglietto anonimo in cui venivano elencati documenti riguardanti l’organizzazione militare francese. Al tempo all’ambasciata tedesca a Parigi, era presente una domestica che lavorava per il servizio di controspionaggio francese, e dalle carte dei cestini raccoglieva ciò che potesse rivelarsi importante. Essa trovò questi documenti dell’artiglieria e con una modesta perizia grafologica la centrale di spionaggio francese incolpò Alfred Dreyfus. L’evento non fu una sorpresa fra i ranghi militari, poiché era da tempo che si cercava una motivazione per la sconfitta subita contro la Prussia a Sèdan. La Francia era in pessimi rapporti con le maggiori potenze dell’epoca e stava attraversando un periodo di crisi economica. Nel 1886 il libro antisemita di Eduard Drumon, La France Juive, aveva avuto successo e per di più negli anni ’90 si stava radicalizzando il nazionalismo. Il 19 dicembre si tenne il processo a porte chiuse, la stampa favorevole ad una condanna iniziò a denigrare Dreyfus, condannato nonostante che i vari interrogatori e le innumerevoli perquisizioni non avessero portato a nulla. A Dreyfus dopo che furono strappati i gradi, spezzata la spada di onoranza venne comminata la pena ai lavori forzati nell’Isola del Diavolo dal tribunale militare il 22 dicembre 1894. Ma il suo vecchio insegnante della Scuola di Guerra, nominato capo dell’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore, Picquart, riesaminando il dossier che incolpava Dreyfus, notò come la grafia dell’elenco fosse somigliante a quella di un altro ufficiale, Esterhazy; giocatore indebitato e frequentatore di cattive compagnie. Picquart scoprì così uno scambio di comunicazioni fra Esterhazy e un

militare tedesco e riuscì con difficoltà a riaprire il dossier Dreyfus. Ciò portò i quotidiani dell’epoca a pubblicare articoli che scatenarono la presa di difesa, da parte di molti intellettuali, di Dreyfus. Il 16 novembre 1896 Picquart venne allontanato da Parigi con la scusa di una missione nel nord Africa e fu in questo periodo che Emile Zola pubblicherà il pamphlet “J’accuse”, scritto per cui verrà processato e condannato perché questo testo esprimeva un attacco diretto alla gerarchia militare e politica, con tanto di nomi e cognomi. Ciò portò alla richiesta di un appello, da parte di un gruppo di intellettuali, che chiedeva una revisione del processo. Il 27 ottobre 1898 la Corte di Cassazione accetta di revisionare il caso e nel giugno del 1899 venne annullata la sentenza del 1894. Nel 1906 Dreyfus verrà finalmente reintegrato nell’esercito francese morendo nel 1935. (Una sua nipote, Madeleine, verrà deportata ad Aushwitz). L’affare Dreyfus segna il parossismo del malessere politico e morale sullo fondo di un antisemitismo e di un nazionalismo esasperato. Nella Francia degli anni ‘70 erano molti gli ufficiali di origine ebrea nell’esercito e ciò poteva far scaturire anche una sorta di invidia da parte degli altri ufficiali. Per concludere si può ricordare che Indro Montanelli riteneva che il caso Dreyfus fosse “il prodromo di Auschwitz perché portò alla superficie quei rigurgiti razzisti e antisemiti di cui tutta l’Europa, e non soltanto la Germania, era inquinata”.

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CONCLUSIONE

Attualmente in riferimento al fenomeno dell'immigrazione, gli atteggiamenti dei cittadini europei nei confronti dei gruppi di minoranza etnica e degli immigrati hanno seguito una via contraddittoria. Da una parte, molti cittadini europei favoriscono le politiche di integrazione per permettere la coesistenza di minoranze etniche e di cittadini comunitari. Dall’altra, una consistente percentuale degli europei teme le minoranze per il problema del lavoro e per la tutela degli standard educazionali. È anche dimostrato che il nord Europa si dimostra "intollerante" adducendo delle motivazioni diverse rispetto al sud. Tra i 15 Paesi europei, il Belgio è quello che mantiene l’atteggiamento più negativo, tanto che possiede la percentuale più alta di persone classificate come "intolleranti" (25%). Francia e Germania sono al secondo posto, 19% e 18%, ma in Francia la popolazione è spaventata per il possibile scoppio di conflitti sociali, mentre la Germania non accetta gli immigrati che desiderano lavorare in Europa perché temono una concorrenza sleale. La Spagna e il Portogallo sono molto vicini all’Italia, quindi hanno un basso numero di intolleranti e un alto numero di "tolleranti passivi". Entrambi i Paesi non concordano nell’assimilare la cultura dei gruppi di minoranza, ma accettano di arricchirsi con la conoscenza di nuove tradizioni e stili di vita. Atteggiamento negativo, rispetto al resto d'Europa, si registra in Austria. D'altra parte, qui le politiche sociali nei confronti degli immigrati e delle minoranze etniche sono notoriamente restrittive e chiuse. Nella ricerca veniva posta anche una domanda sul grado di "disturbo" causato ai cittadini europei dalla "altre religioni". Il paese che riporta la più alta percentuale di "sì, mi disturba" è la Danimarca (31,7 %), seguita dal Belgio (25,6%) e dalla Grecia (20,1%). In Italia sono 11,7 persone su 100 ad essere disturbate, un valore più o meno nella media. La più tollerante da questo punto di vista è la Spagna (5,6%). Dal 1997 al 2000: cosa segna il barometro europeo della tolleranza nei confronti delle minoranze etniche e degli immigrati? Alla domanda cerca di dare una risposta una ricerca svolta dall'Osservatorio europeo sul razzismo e la xenofobia, da cui si deduce che nel giro di tre anni gli europei sono diventati più tolleranti e rispettosi nei confronti degli stranieri. Bando ad un eccessivo ottimismo: tra i Quindici l'atteggiamento culturale cambia e può arrivare ad eccessi opposti. Dunque, ancora molta strada c'è da fare per poter parlare di vera integrazione. E il nostro Paese, come si comporta? Stando ai dati della ricerca, in Italia manca un vero consenso civile verso le politiche sociali di integrazione, anche se qualcosa è cambiato in meglio rispetto al 1997. Ma il dato più preoccupante che salta agli occhi è che gli italiani sono il popolo europeo più restio ad accettare il concetto di multiculturalità e di integrazione delle culture delle minoranze. Le statistiche parlano chiaro: la percentuale maggiore, il 54% della popolazione (che è anche la più alta in Europa), si definisce "tollerante passiva", cioè con un atteggiamento positivo (in teoria) nei confronti delle minoranze, ma poco "generoso" nella pratica. Il 21% è definita "ambivalente", ovvero non si considera minacciata dai gruppi di minoranza, ma a volte manifesta forti riserve sul fatto che gli immigrati rimangano nel Paese di accoglienza. Le percentuali più basse sono riferite alla "tolleranza attiva"(15%) e alla intolleranza (11%). Nella prima categoria si inseriscono i cittadini che non sono affatto disturbati dai gruppi di minoranza e che anzi considerano positivi la contaminazione di culture e tradizioni. Gli intolleranti sono invece "gli irriducibili", convinti fermamente che la convivenza fra popoli non abbia effetti positivi sulla società.

Dal punto di vista economico anche oggi possono registrarsi tentativi di isolamento ed emarginazione messi in atto contro Israele che in medio oriente rappresenta l’unica vera democrazia modellata sull’occidente. Il boicottaggio contro i prodotti israeliani avallato dalla Commissione di Bruxelles ha instaurato un trattamento che mira a fomentare nell’opinione pubblica internazionale l’isolamento di Israele. Tutto questo comporta un danno simbolico che va oltre al danno economico che può forse considerarsi limitato. A ciò possiamo aggiungere che questo boicottaggio risulta essere un ulteriore quanto pericoloso ostacolo per l’auspicato raggiungimento di una pace stabile e duratura tra israeliani e palestinesi. Per questo riteniamo che tutte le persone che hanno a cuore il ricordo della Shoah dovrebbero mobilitarsi contro questo vergognoso boicottaggio.

DEMOCRAZIA e GERMI La democrazia è quella forma di governo in cui il potere risiede nel popolo, che esercita la sua sovranità attraverso istituti politici diversi; in particolare, forma di governo che si basa sulla sovranità popolare. Essa si fonda sulla garanzia della libertà e dell’uguaglianza di tutti i cittadini. La democrazia è figlia della civiltà greca, come ci indica il nome stesso: da demos, “popolo”, e kratos, “potere”= “il governo del popolo”. Più in particolare, la democrazia nacque ad Atene nel 508 a.C. con Clistene, è però molto utile notare, per esempio, che gli stessi ateniesi usavano con molta parsimonia la parola “democrazia”, preferendo parlare di isonomìa (uguaglianza di diritti e doveri di fronte alla legge) e che gli avversari della democrazia ateniese sostenevano che in essa non si realizzava la piena libertà, ma l’esatto contrario, perché lo strapotere del demos, il popolo, guidato da abili e spregiudicati “capipopolo”, i demagoghi (da demos e ághein, “condurre”) finiva per esercitare una sorta di tirannia. La ricerca di questa forma di Governo avviene da secoli, ma con scarsi risultati, non riuscendola ad ottenere a pieno, nonostante uno Stato si definisca teoricamente democratico; Possiamo definire come ‘’germi’’ della democrazia la censura, l’ostruzionismo mediatico, l’intolleranza, l’ignoranza e l’analfabetismo.

BIBLIOGRAFIA:

Giardina-Sabbatucci-Vidotto “Nuovi profili storici” ed- Laterza Gentile-Ronga-Rossi “Stroia & geostoria” AA.VV. “Enciclopedia storica Zanichelli” AA.VV. “Atlante storico e cronologia della storia universale” ed. Garzanti Cappelli “Cronologia-cronografia e calendario perpetuo” ed. Hoepli Programma del Ravenna Festival 2016 www.wikipedia www.storiaxxisecolo.it>fascismo18 Valerio Marchetti "Applicazione della legislazione antisemita in Emilia

Romagna" ** Si ringrazia l’ Ing. Lucio Pardo per la squisita disponibilità nel fornirci indicazioni sul clima di quel periodo da lui vissuto in prima persona.