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Istruzione Molto è stato scritto sulla situazione scolastica e culturale della Capitale dopo l’unità d’Italia, mentre invece, per quanto riguarda l’arco di tempo che va dagli anni Venti ai Quaranta, i contributi sono esigui. La causa è da ricercarsi nella «mancanza di un centro regolatore e propulsore che presiedesse a tutte le diverse iniziative», fatto che «rende ardua la ricerca dello studioso per definirne la por- tata e il valore» (Volpicelli 1963, p. 17). Fino al 1847, infatti, non vi era «in Roma una scuola diretta e mantenuta dal Municipio» (eretto da Pio ix soltanto in quell’anno); il clero costituiva «il solo e natu- rale maestro, facendo dell’insegnamento un ufficio esclusivamente suo proprio e privilegiato» (Placidi 1871, p. iii), ad eccezione dei cinquanta maestri laici autorizzati e alcune donne che impartivano l’insegnamento alle bambine. Nello Stato della Chiesa è rilevabile quello che si può definire una «molteplicità di scuole»: mancando «un organo centrale che diriga e coordini», ogni scuola «fa capo a se stessa, e tutte vanno secondo sistemi antiquati, senza che un princi- pio generale le unisca in un organismo unitario, nel quale si attui la funzione educatrice dello Stato» (Montesperelli 1972, p. 346). Per ricostruire la situazione dell’istruzione e della cultura a parti- re da quel «monumento» della «plebe di Roma» (Spagnoletti 1961, lettera 130 a Francesco Spada del 5 ottobre 1831) che costituiscono i testi del Belli, verranno esaminati non soltanto sonetti romaneschi e poesie in lingua italiana ma anche Zibaldone e Lettere al fine di for- nire un panorama integrale e dettagliato della situazione romana.

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Istruzione

Molto è stato scritto sulla situazione scolastica e culturale della Capitale dopo l’unità d’Italia, mentre invece, per quanto riguarda l’arco di tempo che va dagli anni Venti ai Quaranta, i contributi sono esigui. La causa è da ricercarsi nella «mancanza di un centro regolatore e propulsore che presiedesse a tutte le diverse iniziative», fatto che «rende ardua la ricerca dello studioso per de�nirne la por-tata e il valore» (Volpicelli 1963, p. 17). Fino al 1847, infatti, non vi era «in Roma una scuola diretta e mantenuta dal Municipio» (eretto da Pio ix soltanto in quell’anno); il clero costituiva «il solo e natu-rale maestro, facendo dell’insegnamento un u�cio esclusivamente suo proprio e privilegiato» (Placidi 1871, p. iii), ad eccezione dei cinquanta maestri laici autorizzati e alcune donne che impartivano l’insegnamento alle bambine. Nello Stato della Chiesa è rilevabile quello che si può de�nire una «molteplicità di scuole»: mancando «un organo centrale che diriga e coordini», ogni scuola «fa capo a se stessa, e tutte vanno secondo sistemi antiquati, senza che un princi-pio generale le unisca in un organismo unitario, nel quale si attui la funzione educatrice dello Stato» (Montesperelli 1972, p. 346).

Per ricostruire la situazione dell’istruzione e della cultura a parti-re da quel «monumento» della «plebe di Roma» (Spagnoletti 1961, lettera 130 a Francesco Spada del 5 ottobre 1831) che costituiscono i testi del Belli, verranno esaminati non soltanto sonetti romaneschi e poesie in lingua italiana ma anche Zibaldone e Lettere al �ne di for-nire un panorama integrale e dettagliato della situazione romana.

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1. Belli e l’istruzione del �glio Ciro

Per comprendere l’ideale scolastico di Giuseppe Gioachino Belli e l’importanza che la scelta del luogo da deputarsi all’istruzione del !glio Ciro rivestì per il poeta, può essere interessante avvalersi della lettura di alcuni passi tratti dall’Epistolario. Belli, padre premuroso e onnipresente, già dai primi anni di vita del !glio si informa sul luogo più opportuno ove condurre il fanciullo per la sua educazio-ne. È del 30 luglio 1829 (Ciro ha cinque anni) la lettera con cui Belli chiede notizie a tal proposito a un’importante !gura vicina «al centro del governo federale», non ancora identi!cata (Spagnoletti 1961, lettera 97; è riportata e commentata in Gibellini 2012, pp. 320–321):

Pregiabilissimo mio Sig. [...] MicheleHo bisogno di alcune notizie svizzere delle quali niuno meglio di Lei, vici-no come ella è al centro del governo federale, potrebbe favorirmi. […] Mi si suppone essere nella Svizzera varii stabilimenti pubblici dove si prenda a pensione giovinetti anche di tenera età, i quali vi acquistano scienze, lettere, lingue, morale, e ginnastica, qualche ornamento etc. etc. vivendovi possibilmente senza morbi e senza disordini. Vorrei dunque sapere quale fosse nella Svizzera lo stabilimento che fra tutti potesse essere a Suo giudi-zio il più convenire a un fanciullo romano, destinato dal padre a divenire, per quanto le felici sue disposizioni lo consentano, uomo religioso e non superstizioso, amico più dell’onore che della riputazione, coraggioso e non temerario, franco e non impertinente, obbediente e non vile, rispettoso senza adulare, emulatore senza invidia, giusto, leale, vegeto, agile, amabile, dotto, erudito: insomma un uomo da riuscire la compiacenza de’ genitori e l’esempio de’ concittadini.Inoltre quanto e sotto quali condizioni (tutto compreso) sia il carico pecu-niario da sostenersi dalla famiglia.Quali i rudimenti preliminari e l’età, necessari all’ammissione, quale som-mariamente il piano d’istruzione e di educazione morale […].

Nel P.S. della lettera il poeta suggerisce: «L’istituto di Fellem-berg non sarebbe al caso?». Nella scelta Belli si confronta spesso con l’amico Torricelli, anch’esso indeciso sull’istituto presso cui a+dare il !glio Torquatello. Dopo aver vagliato i programmi dell’istituto di Fellemberg, i due padri si orientano verso quello di Hofwill che

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poi viene scartato forse perché giudicato troppo costoso (Ianni

1967, ii, pp. 285–290).

Due anni dopo, nel 1831, quando ormai si avvicina il momento

della scelta, il Belli si reca a Osimo per raccogliere notizie sul collegio

presente in questa città, denominato Campana. Pur non esistendo

bibliogra$a, si può ricavare qualche notizia dalle vite di alcuni allievi.

Vi studiarono, tra gli altri: Annibale della Genga Sermattei, il futuro

ponte$ce Leone xii; Francesco Saverio Maria Felice Castiglioni, fu-

turo papa Pio viii; Bellino Briganti-Bellini; Adolfo De Bosis; Luigi

Martorelli; Aurelio Sa*; Pietro Quatrini; Giuseppe Lavinj.

Il poeta, però, nutre molte riserve poiché «tutti i lumi» che pos-

siede «intorno al collegio in quistione si riducono all’aver esso dato

ne’ passati tempi de’ bravi preti, abilità che forse non ha oggi per-

duta. I professori saranno eccellenti, ma di oscuro nome son certo.

Le risorse poi di Osimo in fatto di scienza e di ornamenti fanno

aggricciare le carni a pensarle» (Spagnoletti 1961, lettera 129).

Evidentemente, quindi, il livello di modernità di questo istituto

non è all’altezza di quello che il Belli avrebbe auspicato per il $glio.

Dalla lettera alla moglie, la «cara Mariuccia», in cui Belli descrive

le proprie impressioni sul collegio osimano, traspare l’importanza

che rivestiva per il poeta «passare del tempo onde assistere alle le-

zioni, conversare co’ maestri ed acquistare l’esperienza necessaria a

conoscere l’abilità di questi e la e*cacia de’ loro metodi»: una scelta

oculata e ben ponderata, non basata soltanto sui nomi più in voga

o sui consigli altrui. Belli de$nisce la decisione «un punto di tanta

importanza» che fa discutere i coniugi per lungo tempo, come si

evince dalle numerose lettere a riguardo.

La conclusione della lettera in cui Belli relaziona alla moglie sulla

visita al collegio, ci permette di comprendere già in quale direzione

si dirigerà la scelta del premuroso padre: «Però ti prevengo del molto

mio dubbio circa alla preferenza che questo vecchio Collegio Vesco-

vile possa meritare sul rinnovato di Perugia che ha una celebre uni-

versità, un gabinetto, una specola e un museo, a contatto ed aiuto».

Sappiamo che vi era un altro collegio dove «i teneri Padri» romani

spesso inviavano a studiare i $gli: il Collegio Felice di Spello guidato

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dal moderno pedagogista Vitale Rosi (1782–1851) (cfr. Castellano 1840, p. 365).

Balza agli occhi, anche dalla lettura dell’intera lettera, il ricorre-re dell’aggettivo «vecchio» per descrivere il collegio osimano, a cui Belli preferisce il Collegio della Sapienza o Pio di Perugia, «rinnova-to»: e, nonostante la moglie del Belli accordasse la sua preferenza al Collegio osimano, sarà proprio l’istituto di Perugia ad ospitare per sei anni l’amato Ciro.

L’importanza attribuita dal Belli agli studi svolti secondo metodi moderni si ritrova anche nelle poesie in lingua: ne è un esempio l’epistola La educazione indirizzata al padre Alessandro Checcu-ci delle Scuole Pie, rettore del Collegio Nazareno in Roma (Vighi 1975a, iii, pp. 126–131):

Quasi, Padre, per voi me ne vergognoche andiate a rinforzir certi vecchiumioggi che il mondo non n’ha più bisogno.

Nell’era beatissima dei lumi!nel secolo–model per eccellenza!nel tempo del purismo de’ costumi!

Nol sapete qual sia la conseguenzadi questa arti$zial pedagogia?spegnere od inceppar l’intelligenza

[…]

io mai non capirò come e a chi giovitutta quella fummèa, tutto quel mucchiodi sguaiati precetti o vecchi o nuovi

E conclude aspramente: «Ben dunque a ragion v’odia e vi sprez-za, o gotici imbecilli educatori, chi del secolo suo giugne all’altez-za». E simile argomento è trattato nell’epistola in terzine La donna (ivi, pp. 144–150) indirizzata a Rosa Taddei Mozzidol$, poetessa e scrittrice che, divenuta educatrice, dava lezioni di letteratura, storia sacra e profana e declamazione alle fanciulle di buona famiglia. Il Belli ne esalta il metodo educativo, in contrasto con il sistema inval-

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so «d’ogni ubbìa, d’ogni go"o pregiudizio / sino alla strozza empir gli alunni suoi, / de’ pedagoghi nostri eccolo il vizio».

2. Letture ed educazione della piccola Matilde Perozzi

Belli si preoccupa a#nché il %glio riceva un’educazione quali%-cata ma, soprattutto, moderna: anche nella lettera a Cencia, la mar-chesa Vincenza Perozzi Roberti, in cui la donna chiede consiglio al poeta sulle letture più appropriate per la %glia Matilde, Giuseppe Gioachino consiglia testi recenti o, addirittura, in fase di pubblica-zione (Mazzocchi Alemanni 1974, pp. 49–50):

l’Atlante universale in 18 carte, piuttosto grandicello, tradotto dall’origi-nale tedesco pubblicato in Gotha da Reichard e Stieler il 1829. Contiene le recenti scoperte […]. Per la geogra%a descrittiva il miglior libro mi pare quello del Letronne, e ve lo provvederò. Il Démoustier riunisce in tante lettere, la eleganza, l’ordine, e la concisione; ma è francese. Ve n’è la tradu-zione italiana, ma, per quanto io la cerco, qui ancora non la trovo.

Per gli studi di mnemonica, dato che questo studio in Italia non è di"uso, cita il sistema recente del francese Du Roux (il Belli nutri-va un forte interesse per la mnemotecnica: pubblicò alcuni saggi a riguardo sul «Giornale scienti%co–letterario di Perugia» nel gennaio 1834 e su «Lo Spigolatore» nel 1835).

Qualche anno più tardi, all’amica che chiede nuovamente consi-glio sulle letture appropriate per la %glia, Belli risponde

Che può leggere Matilde? La eccellente Storia universale del tedesco Gio-vanni de Müller, recata in italiano dal prof. Barbieri. La storia d’Italia del prof. Luigi Bossi di Milano. Le crociate di Michaud. Le opere di Bu"on... non saprei. Donna, in età pericolosa... veramente mi trovo imbrogliato. Attualmente si stampa la grande Storia universale di Cesare Cantù; ma, dico, si stampa. Intraprendere una lettura che poi fosse ritardata dalla pe-riodicità delle pubblicazioni!

E, a proposito dell’opera di Bu"on, aggiunge: «Sta un po’ in-dietro ai nuovi lumi; ma pure beato chi tenesse a mente tutte le sue

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belle ed eloquenti descrizioni!» (ivi, pp. 49–50): una formazione

non basata su testi superati e stantii ma bibliogra�camente aggior-

nata e al passo con le novità editoriali. La madre di Matilde avreb-

be poi desiderato che Belli stesso si occupasse dell’educazione della

�glia; nonostante l’insistenza della stessa, Belli non volle assumersi

l’incarico perché già troppo oberato dagli impegni: Matilde svolgerà

i suoi studi presso il collegio di religiose a Macerata (Vighi 1975a,

ii, p. 539n).

Per comprendere l’importanza che Belli attribuiva all’istruzione

femminile è utile rimandare all’epistola La donna citata preceden-

temente. All’educatrice Taddei Mozzidol� «del tempo socïale una

colonna […] dacché la cura già vi assumeste di educar la donna»

Belli raccomanda di porre �ne a «lo intollerabil zelo» «di foggiar

donne taî che per destino / s’avesser tutte a imbacuccar nel velo. /

La cittadina è pari al cittadino, / che deve usar la Ragïon su tutto /

appena al suo cervel fa capolino». Anzi, Belli invita la poetessa a fare

tesoro del consiglio e aprire «le �nestre della mente» alle ragazze dal

momento che «sapete ben che per la via terrestre / tai che vanno �n

qui scolare e �glie / un giorno vi andran poi madri e maestre» (Vighi

1975a, iii, pp. 144–150).

3. Scuola e cultura nei Sonetti romaneschi e nelle poesie del Belli

Verranno ora passati in rassegna i sonetti in lingua e romaneschi,

«i due fuochi sacri dell’ellisse linguistica di Belli» (Vigolo 1963, i,

p. 77), rappresentativi dello stato della scuola a Roma: i sonetti ro-

maneschi, dal momento che ritraggono pensieri, idee e parlata dei

«popolani» romani che «non hanno arte alcuna: non di oratoria,

non di poetica, come nessun popolaccio n’ebbe mai» (Spagnolet-

ti 1961, lettera 130) forniscono una visione dell’istruzione e della

cultura �ltrata dall’ignoranza della plebe: spesso avversata e sentita

come addirittura dannosa.

Nonostante nel 1976 Sante Bucci rilevasse che «quasi tutti gli

studi esistenti sulla scuola italiana del secolo scorso riguardano il

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periodo post–unitario» (Bucci 1976, p. 11), esistono testi che for-

niscono documentazione utile alla ricostruzione della situazione

scolastica nello Stato della Chiesa come La scuola primaria a Roma

dal secolo XVI al XIX, la Storia della scuola elementare a Roma, e anco-

ra Scuola e itinerari formativi dallo Stato Ponti!cio a Roma capitale.

L’istruzione primaria.

Bucci, nel lavoro precedentemente citato, sottolineava anche

la mancanza di studi relativi alle istituzioni educative del periodo

napoleonico. Su questo tema ha fatto luce il testo Educazione e isti-

tuzioni scolastiche nell’Italia moderna, che permette di comprendere

gli sforzi compiuti a !ne Settecento per mettere ordine nel campo dell’istruzione pubblica assicurando, ad esempio con il Progetto per

le Scuole Primarie della Repubblica Romana (Roma 1798), l’istruzio-ne di base per maschi e femmine. Purtroppo, il terremoto giacobino del 1798–1799 non ebbe conseguenza durature in campo educa-tivo e le riforme proposte in questi anni vennero cancellate con la Restaurazione, lasciando per quasi un altro mezzo secolo l’ambito scolastico senza una guida.

Per facilitarne il commento, si raggrupperanno le poesie com-poste dal Belli secondo tre macro–tematiche: quelle che ritraggono la situazione scolastica dei !gli dei padroni raccontata attraverso i commenti dei servitori; le poesie che ci permettono di ricostruire il tipo di istruzione che veniva impartita alle classi meno agiate e quelle che trattano della situazione scolastica femminile.

3.1. L’istruzione dei signorini

Come si può evincere anche dalla lettura dell’epistolario bellia-

no, i romani benestanti o assumevano precettori privati oppure in-

viavano i !gli in collegi di alto livello a Roma o ex Urbe. Vi erano

poi scuole fondate dalle famiglie principesche, come i Borghese, i

Patrizi, i Torlonia, a volte ubicate nei loro lussuosi palazzi; Volpicelli

de!nisce come «molto attiva» la scuola aperta nel 1820 dal marche-

se Carlo Massimo in Trastevere (Volpicelli 1963, p. 20).

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Riporto alcuni sonetti utili per comprendere come la gente del popolo giudicasse l’istruzione ad un livello elevato. Ne Er maestro de li signorini (2194) il servitore deforma l’a!ermazione di Socrate, se-condo la quale più si conosce più si comprende di essere ignoranti, in un incentivo a non perdere tempo nello studio:

Ma cquer maestro è un gran omo seccantecor dí ssempre a sti bbravi siggnorini:«Raponzoli, studiate li latini,invesce de ruzzà ccor cavarcante.

Fijji, le cose da sapé ssò ttante,c’un omo che le studia, ar +n de +ni,piú ss’arrampica su ppe li rampinie ppiú arriva a ccapí dd’èsse iggnorante».

Ma sto discorzo che jje tiè l’abbatefa ttanta bbreccia ne li su’ scolaricome si jje discessi nun studiate.

Defatti, co sta predica curiosa,nun è piú mmejjo de restà ssomaripe ccrede d’èsse ar monno quarche ccosa?

Li studi der padroncino (1489)Si er padroncino studia!? È una faccennad’arimane intontiti, d’arimane.Tira a schiattasse: fa un studià da cane:apprica tanto, ch’è una cosa orrenna.

Nun c’è antro pe llui che llibbro e ppenna,come si ar monno j’amancassi er pane.Sta a ttavolino le ggiornate sane;e ss’è ccopiato ggià Pparis e Vvienna.

Quarche vvorta er Perfetto der Colleggioje sciarríva a llevà li frutti e ’r vino.E llui s’incoccia e vvò studià ppiú ppeggio.

Je lo dico pur’io quanno je portola mutatura: «È mmejjo, siggnorino,’n asino vivo c’un dottore morto».

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Il detto popolare è calzante e ri"ette perfettamente il pensiero del popolo. Tema a#ne si trova anche nel sonetto in italiano Lo studio (Vighi 1975a, ii, p. 369) del 21 novembre 1838:

E cacciateli via questi importuniche, quasi in piena età foste bambini,v’intuonano: studiate; e spaccian &niaforismi, ossian poi luoghi comuni.

I lor classici omai, greci o latini,che già a tanti costâr veglie e digiuni,sono cartacce ch’uom prudente adunia pascolo di stufe o di cammini.

Dimostrarono al&n gli oltramontanicome pur senza Omeri e Ciceronitutti abbiam dieci dita nelle mani.

E il secol di scoperte e d’invenzioni,grazie a’ bei metodi anglo-americani,c’insegna or tutto in dodici lezioni.

Riguardo al latino, il Belli, pur ottimo latinista, ne disappro-va l’uso nelle prediche, come si legge ad esempio ne Er predicatore (788): «Pe pperzuade a ttutti ch’er peccato / nun è una cosa bbona, Ggiuacchino, / sto bbon zervo de Ddio parla latino / e sse smazza che ppare un spiritato» in cui il &ne della predica «pe pperzuade a ttutti» è palesemente ironico e anche nella storpiatura aratore/ora-tore «che aratore, per dio! che omo dotto!» del v. 13 sembra esserci un intento di dileggio.

Riguardo all’ostilità verso i preti, che (assieme agli avvocati) erano coloro che più facevano uso di questa lingua incomprensibile, per-cepita dalla plebe non soltanto come vano sfoggio di erudizione ma anche come un modo per circuire il popolo, si veda anche il sonetto Li preti a ddifenne (483) e, in particolare, Er mistiere indi!scile (1465) con l’emblematica ingiunzione brigantesca &nale «la borsa o la vita»:

Io conosco un abbate che ttiè in testade &ní Ppapa: ebbè, ssu li latinice suda nott’e ggiorno e inzin de festa.

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E mmó studia li su’ Scisceroncinipe imparà la ppiú $àscile ch’è cquestade dí in latino: Alò, ppelle o cquadrini.

Tra le note ai sonetti indicative del pensiero di Belli riguardo all’uso del latino vi sono Un gastigo de la Madonna (602) dove per ippisifatto Belli annota «ipso–facto. Non è infrequente in una Roma l’uso di modi latini, dove tutta la vita si conduce all’uopo di adagi, accomodati ad ogni specie di avvenimenti»: le forme latine ven-gono deformate dai popolani, adattate a seconda delle esigenze e utilizzate come sentenze, proverbi, massime; vi è poi in Er cazzetto de ggiudizzio (7775) brevi–e–sverbi «Brevis verbis. Roma formico-la di modi latineschi come di romaneschi; Un’opera de misericordia (1285) Semprigrazzia «Exempli gratia. Roma ridonda di modi latini, che precipitano sino alla plebe»; Er dispetto (885) justa-solito «juxta solitum: ipso facto: ex abrupto. L’esempio continuo delle tante frasi latine delle quali in Roma si fa tanto sciupinio, seduce e addottrina anche i plebei».

E la «seduzione» prodotta dall’utilizzo del latino spesso travalica i con*ni dell’ironia come ne Er brav’omo (884) «sa vventitré pparole de latino»; La Messa in copia (1838) «E bbisoggna sentí ccome s’im-becca / queli ssciroppi de lingua latina»; Una di!cortà indi!scile (975) «Quelle quattro parole de latino / hanno, dico, d’avé ttanto valore / de mutà mmezzo càlisce de vino / ner zangue che sverzò Nnostro Siggnore!».

Tornando a come la plebe interpreta gli studi dei rampolli dei padroni, in questo sonetto il servitore non capisce che cosa signi*-chi lo studio della lingua. Come ricorre spesso in Belli, non a caso ne La lezzione der padroncino (1172) sono accostati i termini «frag-gello» e «zovrano»:

Mó hanno messo er piú *jjo granniscelloa la lingua itajjana. Oh ddi’, Bbastiano,si nun ze chiama avé pperzo er cervellod’imparà l’itajjano a un itajjano.

Lo sento sempre co un libbraccio in manodí: er fraggello, ar fraggello, cor fraggello,

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der zovrano, er zovrano, dar zovrano:e ’ggnisempre sta storia, poverello!

Sarà una bella cosa, e cquer che vvòi;ma a mmé me pare a mmé cche ste parolesò cquell’istesse che ddiscémo noi.

Si %ussino indi&scile uguarmentecome che ll’antri studi de le scòle,io nu ne capirebbe un accidente.

In realtà i maestri erano tenuti in scarsa considerazione: lo di-mostrano Er collera moribbus 5 (1753), in cui Silvestro, il malato di colera, dice di volersi comportare come se nulla fosse, continuando a godersi la vita, annegando nei vizi (e non può mancare a riguardo il riferimento al comportamento del «zovrano») e stimando come poca cosa la malattia da cui è a%etto:

Chi è ssuddito fedele e bbon cristiano,s’ha da lassà ddirigge, e %à ssortantoquello che vvede praticà ar zovrano.

Te ggiuro da quer povero Sirvestroche ssò, cch’io stimo st’infruenza quantoer padroncino mio stima er maestro.

e Le riformazzione (1021) in cui la prima cosa di cui i marchesi caduti in disgrazia si privano è proprio il maestro per il +glio:

Perza ch’ebbe la lite, er zor Marchesedisse a la mojje: «Cqua, Mmarchesa mia,bbisogna fà un po’ ppiú de colomia,mette ggiudizzio, e arisegà le spese».

De fatti, cominciorno a ccaccià vviali maestri der +jjo: poi s’intesech’aveveno calato un tant’er mesea le paghe de sala e scuderia.

Doppo de questo scassorno dar rollo tutti li famijjari ggiubbilati,ch’uno s’annò a bbuttà da ponte-mollo.

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Inzomma, poverelli, e striggni e strozza,de tanti sfarzi nun ze sò llassati ch’er casino, er teatro e la carrozza.

3.2. Le scuole regionarie

Per le classi meno agiate che non potevano permettersi un pre-cettore privato o il mantenimento dei !gli in collegio vi erano a disposizione le scuole regionarie: le istituzioni dedite all’educazio-ne pubblica sia maschile che femminile più antiche della città. La Roma ponti!cia ereditò l’istituzione dei maestri “regionari” dalla Roma imperiale, in cui i maestri venivano così de!niti poiché distri-buiti in singulis Urbis regionibus; da regio, regionis si passerà a “rione” e da maestro “regionale” a “rionale” (Covato–Venzo 2007, p. 191).

Inizialmente queste scuole dipendevano dal Senato, che pagava i maestri un paolo al giorno, cui i ragazzi aggiungevano un baiocco a settimana. Verso la !ne del xviii secolo il Senato non si fece più ca-rico dello stipendio degli insegnanti, che venivano compensati con «una tenue mensilità tra i cinque e i dieci paoli» (Morichini 1832, p. 194) corrisposta dalle famiglie dei fanciulli. I maestri passarono, quindi, sotto la giurisdizione del Rettore della Sapienza, che aveva anche il compito di attestare l’idoneità degli insegnanti. Con la bol-la del 5 settembre 1824 Quod Divina Sapientia, «che lasciava piena libertà alle scuole rette dalle congregazioni e disciplinava le private, che davano minor garanzia» (Volpicelli 1963, p. 18), l’incarico di compilare i regolamenti scolastici venne a/dato alla Sacra Congre-gazione degli studi: in questo modo, anche le scuole regionarie ven-nero a dipendere dal Cardinal vicario, a cui fu riservato il diritto di rilasciare la certi!cazione d’idoneità all’insegnamento, per garantire l’uniformità e la centralizzazione del sistema scolastico.

I bambini, di età compresa tra i cinque e i dodici anni, dovevano apprendere i primi rudimenti «nel leggere, nello scrivere e nell’arit-metica, ed alcuni anche nelle lingue latina e francese, nella storia e geogra!a» (Morichini 1832, p. 194). Le scuole, collocate nelle abitazioni dei maestri medesimi (Galassi Paluzzi 1935), venivano «sorvegliate da una deputazion d’ecclesiastici, che le visita[va] in

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95Istruzione

nome del card. Vicario, e d[ov]eono l’una e l’altra distare di cento canne architettoniche. [Erano] esse negli ultimi anni salite al nu-mero di sessanta, e più ve ne sarebbero [state] senza la suddetta legge di distanza. Il numero de’ fanciulli che vi s’istruivano [era] circa duemila» (Morichini 1963, p. 194). Come si evince da questo passo, nei primi anni dell’Ottocento crebbe, infatti, il bisogno di nuove scuole, anche in seguito alla lieve crescita demogra"ca che contraddistinse gli anni successivi al 1814, anno in cui terminò la fase di grave declino demogra"co cominciata nel 1797. Dal 1815 al 1837, la crescita media annua fu dello 0,94%, e la popolazione passò da 127.400 individui a 156.500, arrivando nel 1848 a toccare i 179.000 abitanti (Sonnino 1998, pp. 96–97).

Nonostante l’accresciuta domanda d’istruzione e scolarizzazione registrata a Roma, le scuole regionarie videro un incremento mo-desto anche in seguito all’emanazione del Regolamento delle scuole private elementari del 26 settembre 1825, che toglieva ai maestri regionari «il tradizionale privilegio di impartire anche l’istruzione di tipo secondario "no al ciclo dell’umanità e della retorica» (Covato–Venzo 2007, pp. 21–23).

Accanto alla rete scolastica a pagamento, esisteva quella istituita da clero e ordini religiosi, completamente gratuita, come viene per-fettamente rappresentata nel sonetto La vedova co ssette !jji (311):

È un mese ch’er più *jjo piccininolo manno a scôla cquì a l’Iggnorantellie ggià pprincipia a ;à li bbastoncellie a rrescità all’ammente l’abbichino.

Uno a Ttatagiuvanni fa l’ombrelli,un antro a Sammicchele è scarpellino,e ar piú ggranne ch’è entrato all’Orfanelli j’impareno li studi de latino.

Le tre ;emmine, Nina se n’annette,Nannarella se l’è ppresa la nonna,e Nnunziatina sta a le Zoccolette.

E io la strappo via, povera donna,cor rimette le pèzze a le carzette,sin che nun me provede la Madonna.

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96 Voci per un’enciclopedia belliana

Il primo �glio della povera donna viene mandato alle Scuole Cristiane o Ignorantelli, dove impara a scrivere (fare le asticelle con la penna) e a far di conto (l’abbaco). L’istituzione venne fondata da San J–B. De La Salle (1651–1719) con lo scopo di dare un’istruzio-ne ai �gli dei poveri (esistevano due scuole in Piazza Barberina e alla Trinità, cui si aggiunsero nel 1828 una sede a Madonna de’ Monti, una nel rione Trastevere e un’altra nella Parrocchia dei SS. Quirico e Giulitta alla Suburra). Guidate da frati laici, vi si insegnava lettura, calligra�a, aritmetica e catechismo. Dal momento che questa scuo-la doveva servire per avviare i giovani alle arti e ai mestieri, ne era escluso l’insegnamento del latino, cui era preferito lo studio della lingua materna: per questo ai Fratelli delle Scuole Cristiane venne dato il nome di “Ignorantelli”. Le Scuole Cristiane contribuirono in maniera preponderante alla di�usione dell’istruzione popolare a Roma: dai 700 alunni registrati nel 1824 si passò a 1400 nel 1850, �no a giungere i 1570 nel 1870.

Troviamo l’attestazione della presenza degli Ignorantelli in Roma anche nel sonetto Er �jjo tirat’avanti (1482), in cui l’orgoglioso pa-dre nutre tante aspettative nello studio e nella realizzazione profes-sionale del �glio, sperando nel futuro di esserne ripagato pecunia-riamente e di «poté �à er vappo»:

Tra er negozzio de stracci e ll’osteriapsè, aringrazziam’Iddio, tanto la strappo.Co cquer c’abbusco a Rripa, e cquer c’acchiappotra�canno cqua e llà, se tira via.

Lasseme intanto vení ssú cquer tappo,quer mi’ raponzoletto de Mattia,e allora poi, deo grazzia, a ccasa miac’entrerà ttanto da poté �à er vappo.

Mó adesso studia e vva a l’Iggnorantellia �àsse omo; e ggià ssur cartolareco la penna sce fa ssino l’uscelli.

Le lettre lavorate se le spiferaco ’na lestezza e bbravità, cche ppareMonziggnor Zegretario de la Zífera.

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97Istruzione

Il secondo !glio della vedova (per tornare al sonetto 311) è inve-

ce a#dato alle cure dell’istituto professionale fondato nel 1784 da

un certo Giovanni, operaio che si dedicava alla carità verso i ragazzi

orfani e disagiati e che i fanciulli chiamavano “Tata” (padre) (Mori-

chini 1842, ii, p. 56 ss.).

L’altro !glio è a#dato all’ospizio di San Michele a Ripa Gran-

de. Con Antonio Tosti nel 1829 questo istituto divenne un istitu-

to politecnico con scuole professionali per tipogra!, legatori, sarti,

calzolai, cappellai, sellai, falegnami, ebanisti, ferrai, metallurgici,

intagliatori, scultori, pittori e incisori. Morichini ci informa che

«cinque ospizi erano aperti agli Orfanelli ed ai fanciulli poveri cioè

S. Michele, S. Maria degli Angeli, S. Maria in Aquiro, Tatagiovanni

e S. Maria della Misericordia» (Morichini 1842, ii, p. 166) oltre

alle scuole serali e notturne per apprendisti, avviate nel 1816 da

Giacomo Casoglio, un umile intagliatore di legno, e dall’avvoca-

to Michele Gigli. In questa scuola, che si apriva un’ora dopo l’Ave

Maria, venivano insegnati, assieme all’immancabile dottrina cristia-

na, lettura, scrittura, calcolo elementare, lettura del latino, disegno

applicato alle arti e mestieri. Nel 1836 sei maestri istruivano 140

giovani; nel 1870 il numero degli apprendisti era arrivato a 1700

(Pelliccia 1985, pp. 232–233).

E proprio a S. Maria in Aquiro, agli Orfanelli, studia latino il !-

glio più grande. Diversi istituti religiosi insegnavano questa lingua:

vi era le scuole scolopiche di S. Pantaleo (la prima scuola gratuita

fondata in Roma sul cader del secolo xvi da S. Giuseppe Calasan-

zio) e di S. Lorenzo in Borgo. S. Maria in Ponticelli alla Regola e

S. Agata in Trastevere erano rette dai Padri Dottrinari, instituiti dal

venerabile Cesare di Bus.

Giuseppe Calasanzio (1557–1648), che Belli nomina nel sonet-

to Nino e Peppe a le logge (1747), aprì proprio a Roma, nel 1597, la

prima scuola popolare gratuita d’Europa, riunendo un centinaio di

bambini poveri e fornendoli di istruzione, vitto, alloggio e vesti.

Per la formazione dei maestri fondò la comunità religiosa ricono-

sciuta da Pio v con il nome di Congregazione delle Scuole Pie, da

cui derivò il nome di Scolopi. Queste scuole, in cui inizialmente

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98 Voci per un’enciclopedia belliana

lo studio del latino cominciava dal Salterio, fornendo quindi un insegnamento di base, pian piano si ampliarono entrando in con-correnza addirittura con i Gesuiti e diventando scuole di umanità e di retorica. Dal momento che, con il Regolamento del 1825 le scuole regionarie venivano relegate a elementari, infatti, quelle istituite da Scolopi e Dottrinari erano le uniche che impartivano sia l’istruzio-ne primaria che quella secondaria !no alla “grammatica superiore”, permettendo così l’accesso ai corsi superiori anche a chi non poteva pagare le scuole per i !gli.

A tal proposito riporto alcuni passi tratti dall’epistola al padre Nicola Borrelli delle Scuole Pie: «Che vi faceste mai, Padre Nicola, / con quel venirci a disturbar le feste / delle vacanze e rimenarci a scuola! / In giornate di brio, come son queste, / di vulgare abborrar-ci e di latino! / Padre Nicola mio, che vi faceste!»; e ancora: «Pöesia non è roba necessaria: / piuttosto, a trarvi l’ùzzolo di stampa, / scri-vete un libro de re culinaria […] Che vi state a imbrattar d’egloghe e idilli / stiracchiandone i metri a modo vostro / a furia di so!smi e di cavilli?» (Vighi 1975a, iii, pp. 120–125).

L’atteggiamento con cui il popolo si accosta alle istituzioni sco-lastiche è altalenante: nel sonetto citato precedentemente Er !jjo tirat’avanti il padre investe molto nello studio del !glio così come ne Er talentaccio de casa (2079); lo stesso tema del genitore che nu-tre per l’unico !glio «speranze di promozione culturale e sociale» (Gibellini 2006, p. 158) si trova ne Er carzolaro ar ca"è 4 (740): «Io nun tiengo de !jji antro che cquesto: / duncue vojjo ch’impari a llegge e a scrive; / e accusí mmai j’amancherà dda vive, / e averà in culo er monno e ttutt’er resto»: soltanto dopo aver «provisto er !jjo» il padre potrà vivere la vecchiaia e riposare in pace. E anche in Vent’ora e un quarto (1429):

Su, cciocchi, monci, mascine da mola:lesti, ché ggià è <nita la campana.Ch’edè? Vv’amanca una facciata sana?È ppoco male; la farete a scola.

Via, sbrigàmose, alò, cch’er tempo vola;mommó ddiluvia e la scola è llontana.

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99Istruzione

Nun è vvaganza, no: sta sittimanadon Pio nun dà cc’una vaganza sola.

Dico eh, nun zeminamo cartolari:nun c’incantamo pe le strade: annamosodi, e a scola nun famo li somari.

Scola santa! e cchi è cche tt’ha inventato!Quadrini bbenedetti ch’io ve chiamo!Che rriposo de ddio! che ggran ri$ato!

In altri sonetti, invece, la scuola viene vista come negativa come ne La vita dell’omo (781): «Poi comincia er tormento de la scola, / l’abbeccè, le frustate». Il tema delle pene corporali utilizzate dagli insegnanti ricorre anche nel sonetto Li studi (1122) dove il “Corret-tor”, cioè l’addetto ad amministrare le sferzate a scuola, raccomanda al ragazzo di imparare qualche cosa e in S.P.Q.R. (944):

Quell’esse, pe, ccú, erre, inarberatesur portone de guasi oggni palazzo,quelle sò cquattro lettere der cazzo,che nun vonno dí ggnente, compitate.

M’aricordo però cche dda regazzo,cuanno leggevo a +orza de frustate,me le trovavo sempre appiccicatedrent’in dell’abbeccé ttutte in un mazzo.

Un giorno ar$ne me te venne l’estrode dimannanne un po’ la spiegazzionea ddon Furgenzio ch’era er mi’ maestro

Ecco che mm’arispose don Furgenzio:«Ste lettre vonno dí, ssor zomarone,Soli preti qui rreggneno: e ssilenzio».

La terzina $nale, ovviamente, è il vero fulcro del sonetto: il po-tere temporale della Chiesa ha fatto proprio quello del Senato e del Popolo Romano, appropriandosi del loro antico emblema.

Ne Er maestro de l’urione (1171) comprendiamo l’ostilità del padre di uno degli alunni verso un’istruzione che, a suo parere, fa

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100 Voci per un’enciclopedia belliana

perdere tempo e prestanza �sica ai ragazzi. In particolare, il frain-tendimento del signi�cato del termine “radice” è alla base di questa irata invettiva contro il maestro e, di ri�esso, contro il «Zovrano» (cfr. anche La lezzione der padroncino):

Dimme cojjone a mmannà ppiú F�lisceda quer zomaro llà dde don Nicola,che mme l’ha #atto addiventà un’alisce,e intanto m’arimane una bbestiola.

V’abbasti mó sta bbuggiarata solader zor maestro, che mmi’ �jjo disceche ccert’antri regazzi de la scòlalui l’ha mmessi a studià ssu le radisce.

Ma cche ddiavolo, cristo!, sce s’imparada ’na radisce, o rrossa, o nnera, o bbianca?che ppizzica e #a #à la pisscia chiara.

Io me fo mmaravijja der Zovrano,che mmanna a #à la scòla un faccia-francanat’e ccreato pe mmorí ortolano.

Sulla scarsa considerazione di cui godevano i maestri, si può con-frontare anche il sonetto La Ru!nella (1454) in cui il «maestro de scòla de Frascati» viene de�nito «cquer zomaro».

Oltre alla condanna della scuola in sé per sé, in questo sonetto anti-gesuita, Le scôle (459), si biasima non soltanto l’operato e il tipo di educazione rigida e �ne a se stessa imposta dai «vorponi gge-suiti» ma anche il Papa per aver permesso all’Ordine di riprendere il potere di cui era stato privato con la soppressione del 1773. Pio vii, infatti, con la bolla Sollicitudo omnium ecclesiarum del 30 luglio 1814, ripristinò la Compagnia di Gesù in tutto il mondo. A Roma venne nuovamente a;dato ad essi il prestigioso Collegio Romano, dove Belli aveva compiuto gli studi liceali. Questo sonetto potrebbe rispondere alla volontà del poeta di schernire i suoi vecchi insegnan-ti e i metodi gesuitici:

Sai cuant’è mmejjo a llavorà lluminie a #rabbicà le cannéle de segó,

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o annà a le quarant’ore a "à cquadrinico le diasille e ccor devoto prego;

che de mette li #jji a li latinie a bbiastimà ccor paternostro grego,tra cquella frega de Scisceronciniindove in cammio d’io c’è scritto Diego?

Causa de sti vorponi ggesuitiche sfotteno e ss’inzogneno la nottecome potecce fà ttutti aruditi.

Pe li mi’ #jji a sti fratacci fessiè ddègheta, e sse vadino a "à fotteloro e cquer Papa che cce l’ha arimessi.

Per sottolineare l’ostilità nei confronti dei gesuiti, è interessante la nota 2 del sonetto Li galoppini (397):

I Secolari, che vogliono istruzione pubblica, debbono tutti andare alle scuole della Compagnia di Gesù. Al liceo de’ preti intervengono solamente que’ fanciulli che si destinano a stato sacerdotale; dimodoché molti padri, per isfuggire la disciplina gesuitica, vestendo i loro #gliuoli in abito eccle-siastico, fanno impegno per procacciar loro quella de’ preti, lo che ancora con di*coltà si ottiene, conosciutosi il giuoco, che terminato il corso di studi, svanisce la vocazione dell’ordinarsi.

Riguardo alla di*denza con cui il popolo del Belli si accosta alla cultura e ai libri in particolare, è interessante leggere il sonetto Er mercato de piazza Navona (1121) in cui la cultura non soltanto viene dipinta come inutile ma, addirittura, dannosa, tanto che il prete in chiesa durante la predica esorta i fedeli a tenersi lontano dai libri:

Ch’er mercordí a mmercato, ggente mie,sce siino ferravecchi e scatolari,rigattieri, spazzini, bbicchierari,stracciaroli e ttant’antre marcanzie,

nun c’è ggnente da dí. Ma ste scanzìeda libbri, e sti libbracci, e sti libbrari,

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102 Voci per un’enciclopedia belliana

che cce vienghen’a �à? ccosa sc’imparida tanti libbri e ttante libbrarie?

Tu ppijja un libbro a ppanza vòta, e ddoppoche ll’hai tienuto pe cquarc’ora in mano,dimme s’hai fame o ss’hai maggnato troppo.

Che ppredicava a la Missione er prete?«Li libbri nun zò rrobba da cristiano:�jji, pe ccarità, nnu li leggete».

Molti sono i sonetti di scherno dei letterati: Li dottori (180) in cui le persone colte sono de�nite «Sta somaraja che ssa scrive e lleg-ge, / sti teòlichi e st’antre ggente dotte, / saria mejjo s’annassino a �à fotte / co li su’ libbri a ssôno de scorregge», Una dimanna lescit’ e onesta (1076), La luna (1293), L’anima (950).

Vi sono poi i sonetti che o�rono esempi di “pedagogia popolare domestica”, come Li conzijji de mamma (56), L’aducazzione (57), La lingua tajjana (287) e Er coco (1312):

Voi, �jjo caro, ne sapete poco.che mme parlate de lingua latina,Mattamatica, Lègge, Mediscina!...sò ttutte ssciaparie: studi pe ggioco.

Cqui è ddove l’omo se conossce: ar foco.Cqui ar fornello un talento se scutrina.La prima scòla in terra è la cuscinaer piú stimato perzonaggio è er coco.

3.3 Educazione e cultura femminile

Il tema dell’avversione alla cultura compare anche nel sonetto Er legge e scrive (1598), dal quale sembra che gli e�etti peggiori «de ste penne e sti libbri mmaledetti» nascano quando sono le ragazze a farne uso:

E a cche tte serve poi sto scrive e llegge?Làsselo fà a li preti, a li dottori,

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103Istruzione

a li frati, a li Re, all’Imperatori,e a cquelli che jje l’obbriga la Lègge.

Io vedo che cce sò ttanti siggnoriche Ccristo l’arricchissce e li protegge,e nnun zann’antro che rròtti, scorregge,sbavijji, e strapazzà li servitori.

Bbuggiarà ssi in ner cor de le famijjel’imparàssino ar piú li %jji maschi;ma lo scànnolo grosso è nne le %jje.

Da ste penne e sti libbri mmaledettice vò ttanto a ccapí ccosa ne naschi?Grilli in testa e un diluvio de bbijjetti.

Analogamente al precedente, anche nel sonetto La mi’ nora (1294) la cultura della donna viene percepita con molto fastidio dalla suocera ignorante: anche da quest’ultima i libri vengono di-sprezzati:

Mi’ %jjo, sí, cquel’animaccia fessache *u pposcritto e annò a la grann’armataè ttornato u+zziale e ha rriportata,azzecca un po’! una mojje dottoressa.

Si ttu la senti! «È un libbro ch’interressa...Ggira la terra... La luna è abbitata...Ir tale ha scritto un’opera stampata...La tal’antra è una bbrava povetessa...».

Fuss’omo, bbuggiarà! mma una ssciacquettaha da vienicce a smove li sbavijjia *uria de libbracci e pparoloni!

Fili, %li: lavori la carzetta:abbadi a ccasa sua: facci li %jji,l’allatti, e nun ce scocci li cojjoni.

Toni più smorzati ma a+ni troviamo nel sonetto in lingua Le dottoresse in cui, escludendo la prima quartina, la conclusione del sonetto è analoga a quella de La mi’ nora:

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104 Voci per un’enciclopedia belliana

Piaccionmi, sì, le generose donne che sappian ragionar con garbo e senno, né ignorino chi fu Cesare o Brenno,o prendano i pilastri per colonne.

Non però quelle pläudir si dennoche in zimarre cangiar vogliono le gonne,e vi spiegano il cappa e l’ipsolonne ciarlando un’ora dove basti un cenno.

Son del mondo costor noia e sciagura quando toltesi al naspo e a la famiglia tradiscono il voler della natura.

Colle grazie del cuore e delle ciglia trïonfar dee la donna, e prender curadi parer buona madre e buona �glia.

Mentre nel sonetto Le �jje ozziose (1198) il genitore vorrebbe che le �glie si dedicassero alla lettura: «Ecchele! sempre co le man’in

mano! / Se le maggna l’accidia: le vedete? / Nun ze pò llavorà? ddun-

que leggete / quarche ccosa struttiva da cristiano».

Non deve meravigliare il fatto che una ragazza sapesse leggere e

scrivere, dato che «per quello che riguarda la frequenza delle scuo-

le da parte delle femmine in paragone coi maschi, la provincia di

Roma è la prima d’Italia»: il numero delle fanciulle supera, infatti,

quello dei maschi dal momento che le monache «godono la �ducia

delle famiglie e attirano facilemente le ragazze» (Gabelli 1878, p.

158).

Oltretutto, il numero di scuole regionarie femminili era doppio

rispetto al numero delle maschili, 80 contro 40 (cfr. Morichini 1842,

i, p. 305 ss.). Anch’esse erano a pagamento ma gli insegnamenti

che venivano impartiti erano diversi rispetto a quelli dei coetanei

maschi (Venerini 1837, p. 42). Può risultare interessante leggere le

Regole per le Maestre Pie, in cui si prescrive di insegnare a tutte le

ragazze a leggere e «ad alcune più capaci, purché siano poche […]»

a scrivere. A tutte i vari lavori domestici, tranne quelli che, per il ru-

more che producono nell’essere eseguiti o per il molto impegno che

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105Istruzione

richiedono «impedirebbero apprendere la Dottrina cristiana, che le

maestre insegnano coi lavori» (Covato–Venzo 2007, pp. 27–31) e

infatti le letture e l’insegnamento scolastico sono sempre connessi

con nozioni di carattere religioso, come nel sonetto precedente de

Le !jje ozziose e Er zo"raggio (574).

Molti erano gli istituti deputati all’istruzione femminile: le

scuole elementari annesse agli antichi monasteri delle Orsoline di

via Vittoria, quelle delle Oblate di Tor de’ Specchi e delle Serve di

Maria alla Lagunara; in particolare le autorità romane istituirono

diverse scuole nelle zone più popolose della città che a#darono

alla direzione delle Maestre Pie (queste religiose disponevano di

undici scuole già all’inizio degli anni Trenta frequentate da circa

1740 fanciulle povere).

Nuove congregazioni insegnanti sorsero a Roma dopo la Restau-

razione, come le Figlie della divina provvidenza, le Suore dell’apo-

stolato cattolico, le Suore mariane, le Oblate agostiniane.

L’analisi dei testi belliani ha permesso di esplorare la situazione

della cultura e dell’istruzione a Roma: escludendo le classi elevate,

tra il popolo romano l’ignoranza era dilagante; si rinvia per appro-

fondire questa tematica ai sonetti Peppe er pollarolo ar zor Dime-

nico Scianca (10), Li dottori (180), L’arte moderne (1585), Le vite

(1960), Er letteroso (839) Er zegretario de piazza Montanara (629) e

La lettra de la Commare (121). Tuttavia, mi pare sia stato messo in

luce lo sforzo che, già molto prima della legge Casati, le varie isti-

tuzioni, religiose e non, avevano compiuto per favorire la di$usione

dell’istruzione di base.

Veronica Toso

Bibliogra�a

Bartoccini 1985 = Bartoccini, Fiorella, Roma nell’Ottocento, Cappelli, Bologna 1985.

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106 Voci per un’enciclopedia belliana

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108 Voci per un’enciclopedia belliana

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