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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE n. 3/2003 Marco Missaglia Paul de Boer Employment programs in Palestine: food-for-work or cash-for-work? UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE

n. 3/2003

Marco Missaglia Paul de Boer

Employment programs in Palestine: food-for-work or cash-for-work?

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE UNIVERSITA’ DI PAVIA ______________________________________________________________________ REDAZIONE Enrica Chiappero Martinetti Dipartimento di Economia Pubblica e Territoriale Università degli Studi di Pavia Corso Strada Nuova 65 27100 PAVIA tel. 0039-382-504401 -504354 fax 0039-382-504402 E-MAIL [email protected] COMITATO SCIENTIFICO Italo Magnani (coordinatore) Luigi Bernardi Renata Targetti Lenti La collana di QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE ha lo scopo di favorire la tempestiva divulgazione, in forma provvisoria o definitiva, di ricerche scientifiche originali. La pubblicazione di lavori nella collana è soggetta, con parere di referees, all’approvazione del Comitato Scientifico. La Redazione ottempera agli obblighi previsti dall’art. 1 del D.L.L 31/8/1945 n. 660 e successive modifiche. Le richieste di copie della presente pubblicazione dovranno essere indirizzate alla Redazione.

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE

n. 3/2003

UNIVERSITÀ DI PAVIA

Marco Missaglia Paul de Boer

Employment programs in Palestine: food-for-work or cash-for-work?

Abstract Using a poverty line of US$2.1 per day the World Bank estimated the poverty in Palestine in 2002 at 60 percent of the population, three times as high as it was in 1998. The unemployment rate that amounted to 16.2% in 1998 rose to 27% in January-February 2002. Two main causes of the Palestinian economic crisis are closure, namely the imposition of restrictions on the movement of goods and people across borders and within Palestine, and the destruction of capital. In September 2000 the Bank estimated the number of Palestinians working in Israel and the settlements at 128,000, while the estimate for end 2002 was about 16,000. The physical damage resulting from the conflict was estimated to be US$305 million at the end of 2001 and to have risen to US$728 million by the end of August 2002. It goes without saying that the provision of emergency assistance to a country whose economy has been hit so hard is urgent. This assistance may take a number of forms: budget support, food assistance, cash transfers, employment programs, etc. In the paper we focus on the latter form of assistance and try to shed some light on a fundamental question: should the workers participating in an employment program be paid in food and other essentials (food-for-work, FFW) or in cash (cash-for-work, CFW)? Based on the (pre-intifada) social accounting matrix (SAM) of 1998, on results from the 1998 household budget survey and on statistics derived from several publications of the World Bank, we build a computable general equilibrium model in order to simulate the economic effects of intifada and to construct a (counterfactual) SAM. In the framework of this counterfactual SAM we try to draw some policy implications concerning FFW versus CFW.

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In essence, this is a general equilibrium choice. Take for instance a FFW program where food is imported. The injection of food assistance from abroad can be thought of as a reduction of the price of imported food relative to the price of locally produced food. This, in turn, will change both the level and the composition of food demand (think of “food” as an Armington composite of imported and domestically produced food): people will switch from domestically produced to imported food. At the same time, however, the overall reduction in the price of the food composite (whose demand is generally income-inelastic) is likely to encourage the consumption of more non-food products. Which products? What are the consequences at the macro level? Who will ultimately enjoy the benefits and bear the burden? The effects of an employment program go far beyond its direct beneficiaries, and our model is intended to understand at least some of the indirect and less straightforward implications of such a program.

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Introduzione Tra il 1960 e il 2000 il reddito reale pro capite nei paesi in via di sviluppo (d’ora in avanti PVS) è cresciuto ad una media annuale del 2.3%. Si tratta di un tasso di crescita di tutto rispetto1 e tuttavia esso non è bastato a produrre convergenza con i paesi ricchi, dal momento che questi ultimi hanno fatto registrare nel medesimo periodo una crescita annua media del 2.7% (Rodrik, 2003). E’ noto che dietro a queste cifre aggregate si nascondono realtà molto differenti tra di loro – ad esempio la spettacolare crescita cinese e la marginalizzazione africana degli ultimi vent’anni. In ogni caso, di fronte al fatto che gli unici PVS in grado di colmare il gap con i paesi ricchi sono stati quelli dell’Asia orientale e sudorientale, è naturale chiedersi a quali meccanismi economici possa ascriversi l’esito della progressiva divergenza osservato negli ultimi 40 anni. Con le parole di Obstfeld e Rogoff (1996):

“..il fallimento del terzo mondo di convergere verso i livelli di reddito del mondo sviluppato è completo e stupefacente. Baumol, Blackman e Wolf (1989) argomentano che se un osservatore guardasse separatamente ai paesi a basso reddito, a medio reddito e a reddito elevato, allora noterebbe convergenza all’interno dei singoli raggruppamenti. Ma ciò non dice nulla circa la grande questione del perché non si osserva convergenza assoluta fra i diversi raggruppamenti” (Obstfeld e Rogoff, 1996, p.456; la traduzione è nostra)

Nella prima parte del lavoro richiameremo le spiegazioni offerte dalla teoria economica tradizionale, quella che, in modo più o meno ortodosso, si può collocare nell’alveo della dottrina neoclassica2. Nella seconda parte analizzeremo invece le spiegazioni della divergenza fra regioni (già) ricche e regioni (ancora) povere offerte dal filone teorico neo-strutturalista e neo-Kaleckiano. Innanzitutto illustreremo i fondamenti analitici di questo punto di vista – i cui “padri nobili” sono autori come Kalecki, Prebisch, Seers, Kaldor, Thirlwall e, più recentemente, Lance Taylor 3– ed in particolare la questione della sua adeguatezza a trattare questioni propriamente di lungo periodo. Entreremo poi nel cuore della spiegazione neo-strutturalista e neo-Kaleckiana (d’ora in poi, per brevità, semplicemente “strutturalista”) della divergenza per concludere con qualche riflessione circa due questioni che rivestono a nostro giudizio una certa importanza in termini di politiche per lo sviluppo: a) possono i PVS, al fine della riduzione dei divari di reddito con le regioni avanzate, pensare a

politiche inclusive, in buona sostanza ad una crescita che non trascuri la domanda interna (una crescita wage-led, nella terminologia strutturalista) invece che ad una crescita perlopiù fondata sulle esportazioni e la competitività internazionale (una crescita profit-led)? Oppure, in epoca di globalizzazione, l'aumento delle diseguaglianze interne (crescita profit-led) è il prezzo da pagare per ridurre quelle con il resto del mondo?

b) se, come ragionevolmente si sostiene, la maggior integrazione dell'economia mondiale favorisce i trasferimenti di tecnologia e l'aumento della produttività del lavoro nei PVS, in che modo la distribuzione di tali incrementi di produttività influenza il processo di convergenza potenzialmente messo in atto dai trasferimenti tecnologici?

1 Per farsi un’idea comparativa: nel periodo in cui affermavano la propria supremazia economica mondiale scavalcando il Regno Unito, ovvero tra il 1870 e la Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti fecero registrare un tasso di crescita annuale medio dell’1.8%. 2 Il lettore interessato ad approfondire le spiegazioni ortodosse della divergenza è rimandato a Missaglia (2001). 3 Come vedremo il padre più nobile di questa tradizione di pensiero è probabilmente lo stesso Keynes.

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I. Le teorie tradizionali e la divergenza fra paesi Le spiegazioni della divergenza offerte dalla teoria economica tradizionale poggiano sull’idea di imperfezione o mancato funzionamento dei mercati. Non è il funzionamento dei mercati a produrre divergenza, ma la loro assenza o incompletezza o imperfezione. L’intervento pubblico per lo sviluppo (per la convergenza, se così si può dire) è perciò necessario, ma si deve trattare di intervento non contro il mercato (o, meglio, affiancato al mercato), ma di un intervento “market friendly”, per il mercato. Per rimetterlo propriamente in funzione, per garantire le basi istituzionali ed eventualmente, come vedremo, anche “distributive” del suo buon funzionamento. Il rapporto fra processi di convergenza/divergenza e funzionamento dei mercati è a nostro giudizio molto ben illustrato da tra categorie di modelli apparsi in letteratura4: i modelli con imperfezione del mercato dei capitali (tra questi, a titolo del tutto esemplificativo, Obstfeld-Rogoff,1996 e Gertler e Rogoff, 1990); i modelli di commercio internazionale centrati sull’analisi dei vantaggi comparati dinamici (per esempio Young, 1991); e, infine, i modelli schumpeteriani di crescita economica (Romer, 1990; Grossman-Helpman, 1991 e Helpman, 1993). La ragione per cui riteniamo di dover accomunare queste diversi modelli sotto la comune etichetta di “teoria economica standard” è che in nessuno di essi la domanda gioca un ruolo di rilievo nel lungo periodo. Si tratta infatti di teorie nelle quali la crescita dell’output coincide con la crescita della capacità produttiva e questa si assume essere pienamente utilizzata nel lungo periodo. Per esse vale la legge di Say e se nel lungo periodo un aumento del saggio di risparmio non produce un’accelerazione della crescita reale (come nel pionieristico lavoro di Solow (1956)), ciò si deve esclusivamente ai rendimenti decrescenti del capitale, non certo a problemi di domanda conseguenti alla più elevata propensione a risparmiare. Addirittura un aumento del saggio di risparmio, ben lungi dal creare problemi di domanda, può risolversi in un aumento del tasso di crescita dell’economia laddove si ipotizzi, come in alcuni modelli di crescita endogena, che i rendimenti sociali del capitale siano crescenti. I.I I modelli con imperfezione del mercato dei capitali Nei modelli già citati di Obstfeld-Rogoff (1996) e Gertler-Rogoff (1990) l’imperfezione dei mercati mondiali dei capitali che viene enfatizzata consiste nella assenza di una autorità legale sovranazionale in grado di far rispettare i contratti. E’ questa, infatti, la ragione per cui le operazioni di indebitamento internazionale per ciascun paese sono soggette ad un vincolo di credito che ne fissa l’ammontare massimo ad una certa frazione del reddito prodotto dall’economia in questione: in assenza di un’autorità sovranazionale in grado di far rispettare i contratti il reddito prodotto da un’economia serve da garanzia per i prestatori stranieri5. Si consideri, tenendo a mente l’esistenza di un simile vincolo di credito, un paese in cui il tasso di interesse reale autarchico – quello che prevarrebbe se l’economia fosse chiusa - sia superiore al tasso di interesse reale medio mondiale. Diciamo che un simile paese si può caratterizzare come “povero”: il tasso di interesse reale autarchico, che in equilibrio deve coincidere con il rendimento marginale netto del capitale, è alto perché il capitale è poco. O, se si preferisce, perché c’è un insufficiente volume di risparmio. Si tratta in ogni caso di caratteristiche tipiche di un’economia povera, nella quale, a fronte di rilevanti opportunità di investimento, vi è un volume di risparmio interno insufficiente alla loro realizzazione. Che succede quando un simile paese decide di aprirsi al mercato mondiale? Chiaramente gli individui decideranno di prendere a prestito al tasso di interesse mondiale (r) e di investire all’interno tali risorse ottenendone così un rendimento g > r. Questo processo di reinvestimento all’interno dei fondi presi a prestito dal resto del mondo condurrà infine alla convergenza assoluta? No, o almeno non necessariamente. In un’economia ideale nella quale

4 Per una disamina più approfondita di tali modelli si veda Missaglia (2001) 5 Tecnicamente, l’esistenza di un vincolo di credito viene di norma giustificata da un qualche problema di azzardo morale. Poiché il comportamento del debitore non è osservabile, nell’ottimo il creditore presta meno denaro di quanto non farebbe in un contesto di informazione perfetta.

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non vi fosse alcun vincolo di credito internazionale il processo appena descritto continuerebbe fino a giungere alla convergenza assoluta, ma laddove esiste un vincolo di credito gli individui non riusciranno a prendere a prestito al tasso mondiale nella misura in cui essi lo desiderano. E si noti che è tanto più probabile che ciò accada quanto più un’economia è povera. In tal caso infatti il reddito prodotto dall’economia, la cui funzione è precisamente di garanzia a fronte dei prestiti ricevuti dall’estero, è basso. Non solo: quando l’economia è povera è tanto più probabile che gran parte del (basso) reddito prodotto venga consumata, venendo meno con ciò la funzione di garanzia del reddito stesso (ovviamente il reddito è garanzia soltanto in quanto non venga consumato). In realtà la teoria economica standard, e qui il riferimento è in particolare al modello di Gertler e Rogoff (1990), ci permette di spingerci oltre il punto di vista appena illustrato. Non solo il processo di reinvestimento in un’economia povera dei fondi ottenuti in prestito da un’economia ricca può arrestarsi prima di raggiungere convergenza assoluta; in realtà tale processo può persino rovesciarsi, e i capitali fluire dalle regioni povere verso quelle ricche. Infatti, in un mondo caratterizzato da mercati dei capitali imperfetti, nei quali in particolare il creditore non riesce ad osservare senza costo il comportamento del debitore, il primo non potrà offrire al secondo un contratto di first best, ma soltanto un contratto compatibile negli incentivi: un contratto, cioè, che induca il debitore ad utilizzare integralmente i fondi ricevuti in prestito per effettuare un investimento produttivo, senza distrarne una parte per altri usi (fughe di capitali, consumi, ecc.). Perché ciò accada è necessario che il contratto compatibile negli incentivi preveda un ammontare di prestiti inferiore a quello previsto dal contratto di first best. La logica economica è chiara: una riduzione del prestito provoca una diminuzione dell’investimento produttivo potenzialmente realizzabile dal debitore e perciò, ipotizzando una funzione di produzione con proprietà del tutto standard, ne accresce il prodotto marginale atteso. A questo punto il debitore, dovendo scegliere tra l’investimento produttivo e gli altri usi, troverà relativamente più conveniente la prima opzione. Ma chi è il creditore? E chi il debitore? Tipicamente, il creditore è l’economia ricca, il debitore è l’economia povera (il cui tasso di interesse reale autarchico è superiore a quello mondiale). Dunque: rispetto a una situazione di first best si riducono gli investimenti nell’economia povera e, per ogni dato volume aggregato (mondiale) di investimenti, crescono quelli effettuati nell’economia ricca. A questo punto siamo alla conclusione del nostro ragionamento: è certamente vero che l’economia ricca risparmia più di quella povera, ma è altrettanto vero che in presenza di asimmetrie informative essa investe di più: si apre così la possibilità che il risparmio fluisca dalla regione povera a quella ricca, circostanza che ha effettivamente riguardato molte economie povere nel corso degli anni ’80. Se poi, come accade proprio in quel periodo (e continua ad accadere), la regione povera è anche inizialmente indebitata, questo fenomeno può assumere caratteri ancora più accentuati. In tal caso infatti si potrebbe produrre il cosiddetto effetto di strangolamento del debito (debt overhang): i potenziali investitori del paese indebitato si aspettano che i futuri profitti verranno tassati per permettere il ripagamento del debito, ciò che riduce il saggio di rendimento atteso e perciò, immediatamente, il volume di investimenti produttivi realizzati. E’ opportuno mettere in luce che in presenza di debt overhang sarebbe conveniente per tutti, creditori e debitori, provvedere ad una parziale cancellazione del debito stesso. Per il debitore il discorso è ovvio. Per il creditore basti osservare che, in presenza di debt overhang, una parziale cancellazione farebbe aumentare il ripagamento atteso: essa permetterebbe infatti al debitore di aumentare gli investimenti e dunque di generare risorse per onorare il debito. Perché, se le cose stanno in questi termini, è così raro osservare misure di volontaria cancellazione del debito da parte dei creditori? E’ noto che il problema si trova nella difficoltà di coordinare una molteplicità di creditori: ciascuno vorrebbe che fossero gli altri a cancellare perché, quando esiste debt overhang, la cancellazione è un bene pubblico. Questo classico problema di free-rider potrebbe teoricamente essere risolto se ci fosse un compratore disposto ad acquistare sul mercato tutti i crediti esistenti per poi condonarne una parte, giacché quest’unico creditore internalizzerebbe in tal modo l’esternalità che impedisce ai molti “piccoli” creditori di decidere la cancellazione. Il punto è che si ripresenterebbe in altre vesti il problema del free-rider: perché mai un piccolo creditore dovrebbe

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vendere il suo credito prima della cancellazione quando potrebbe ottenere un prezzo più elevato dopo la cancellazione 6? Ancora una volta è un problema informativo – il problema dei beni pubblici è al fondo di carattere informativo: ciascun agente non conosce la disponibilità a pagare degli altri agenti – ad impedire che il mercato mondiale dei capitali conduca ad un esito socialmente ottimale. Per terminare su questo punto facciamo notare come il problema della cancellazione del debito sia concettualmente assimilabile a quello delle riforme agrarie. In un caso come nell’altro la redistribuzione delle risorse dal soggetto forte (il creditore, il grande proprietario terriero) al soggetto debole può accrescere l’efficienza complessiva dell’economia. Esistono basi non soltanto istituzionali - la metafora dell’autorità sovranazionale in grado di far rispettare i contratti – ma anche distributive per il buon funzionamento dei mercati. I.II I vantaggi comparati dinamici I modelli di commercio internazionale centrati sull’analisi dei vantaggi comparati dinamici, di cui quello di Young (1991) costituisce una utile esemplificazione per chiarezza e rigore analitico, imputano la divergenza fra economie ricche e povere al libero commercio. Esso infatti fa si che, per l’operare del principio dei vantaggi comparati, le economie ricche si specializzino nella produzione di beni per i quali gli spazi di potenziale incremento della produttività sono maggiori (i beni innovativi), mentre le economie povere godono di un vantaggio comparato nella produzione di beni per i quali tali spazi sono ridotti o esauriti (i beni maturi); e naturalmente la crescita della produttività del lavoro è la causa ultima della crescita del reddito pro capite. La ragione per cui ciò avviene sta nel fatto che i paesi ricchi sono quelli nei quali maggiore è lo stock di conoscenze già accumulate e minore, perciò, la distanza tra ciò che ancora non si sa fare perfettamente (i beni innovativi, appunto) e ciò che invece già si sa fare al meglio. Si potrebbe ritenere che un simile modello, a differenza di quanto da noi sostenuto precedentemente, fornisca una buona ragione a favore di interventi contro il mercato (politiche industriali, sostituzione delle importazioni, ecc.). Non sarebbe esatto, o almeno non necessariamente: è bensì vero che il commercio internazionale riduce il tasso di crescita dell’output delle economie povere, ma – date che esse saranno in grado di acquistare i beni innovativi a prezzi più bassi - ragionevolmente ne accresce il welfare. I vantaggi statici del commercio internazionale possono più che compensare gli svantaggi dinamici. Il vero problema è, ancora una volta, l’imperfezione nel funzionamento dei mercati e, nella fattispecie, il loro orizzonte temporale troppo corto. Se così non fosse, se il benessere delle future generazioni fosse scontato a tassi inferiori, sarebbe ottimale reinvestire i guadagni derivanti dai vantaggi statici del commercio internazionale nell’accumulazione di nuove conoscenze. In termini di policy, non si tratta di compromettere i vantaggi statici (intervento contro il mercato), ma di decidere in modo più lungimirante del loro utilizzo (intervento per il mercato). I.III I modelli schumpeteriani di crescita economica L’analisi precedente ci ha inevitabilmente condotti ad evocare la questione dell’accumulazione di nuove conoscenze. I modelli schumpeteriani di crescita economica (per esempio Romer, 1990; Grossman-Helpman, 1991; Helpman 1993) hanno il merito di indagare e far luce sulle motivazioni economiche che inducono le imprese e, più in generale, gli “innovatori”, a destinare risorse alla specifica (ed incerta nei suoi esiti) attività di ricerca e sviluppo (R&S).. Non è possibile in questa sede analizzare i modelli schumpeteriani nella loro completezza, ragion per cui ci limitiamo qui agli aspetti più direttamente rilevanti per i PVS in quanto legati alla questione del catching up tecnologico.

6 Siccome la cancellazione, in regime di debt overhang, aumenta gli investimenti del debitore, è chiaro che essa accresce anche il valore di mercato dei titoli di credito detenuti dai creditori.

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Per accrescere lo stock di conoscenze e dunque sperimentare una crescita sostenuta del reddito pro capite, un paese che già operi sulla frontiera della conoscenza dovrà inventare continuamente nuova conoscenza, mentre ad un paese tecnologicamente arretrato “basterà” copiare tecnologie che già esistono ma che ad esso sono ancora sconosciute. Copiare è di solito meno costoso che inventare e in generale si ritiene perciò che i paesi poveri debbano impegnare le loro risorse nel copiare (reverse engineering) piuttosto che nell’inventare. Le esperienze delle tigri asiatiche (Corea del Sud, Singapore, ecc.) e prima ancora del Giappone vengono spesso citate a sostegno di questo ragionevole punto di vista. Ma da cosa dipende la capacità/possibilità di copiare? Perché le tigri asiatiche sono riuscite ad imitare con successo le tecnologie dei paesi più sviluppati mentre altre nazioni con simili dotazioni iniziali (per esempio il bacino latino-americano) non ci sono riuscite? E ancora: è vero, come una lettura troppo radicale dell’analisi schumpeteriana tenderebbe a far credere, che l’insufficiente protezione dei diritti della proprietà intellettuale (IPRs: Intellectual Property Rights) nei paesi meno avanzati implica che le imprese innovative delle economie ricche riducano i loro sforzi innovativi in quanto impossibilitate ad appropriarsi interamente delle rendite che tali sforzi generano? Ci limitiamo qui, per ragioni di spazio, ad abbozzare una possibile risposta alla seconda domanda, a ragionare perciò sulla possibilità per i PVS di imitare piuttosto che sulla loro capacità di farlo. Il tema è strettamente connesso al dibattito, molto vivace, intorno all’accordo TRIPS (Trade.Related Intellectual Property Rights) firmato in seno al WTO e che permette a ciascun paese di imporre sanzioni commerciali su altri paesi responsabili di aver violato i loro IPRs. Il modello di Helpman (1993), un modello Nord-Sud che sul piano della struttura analitica ricalca sostanzialmente quello di Grossman e Helpman (1991), mette in luce tre distinti effetti che un inasprimento della protezione degli IPRs, cioè di un aumento dei costi di imitazione che il Sud deve sopportare, porta con sé. In primo luogo, l’inasprimento della protezione degli IPRs riduce il tasso di crescita di lungo periodo sia del Nord che del Sud: per il Sud imitare diventa più costoso, dunque il Sud imita di meno, dunque le imprese del Nord hanno meno incentivo ad innovare7. In secondo luogo, sul piano degli effetti statici, si produce una allocazione delle risorse inefficiente a livello mondiale. L’idea formalizzata dal modello è che la protezione degli IPRs – concettualmente null’altro che una tassa sull’attività di imitazione – sia tale per cui alcuni prodotti che potrebbero essere meno costosamente prodotti al Sud continuino invece, artificialmente, ad essere prodotti al Nord. In terzo luogo, la protezione degli IPRs produce un cambiamento nelle ragioni di scambio (terms of trade), ovvero del prezzo relativo dei beni prodotti al Nord. Se infatti, come abbiamo appena visto, la produzione di alcuni beni si sposta al Nord (rispetto a ciò che avverrebbe in assenza di protezione degli IPRs), ciò significa che al Nord (Sud) si registrerà una maggior (minor) domanda di fattori produttivi. Ipotizzando per pura semplicità che essi siano in offerta fissa, il loro prezzo crescerà (diminuirà), ciò che infine si ripercuoterà sul prezzo dei beni finali. Questo è il motivo per cui le ragioni di scambio miglioreranno per il Nord e peggioreranno per il Sud.

7 Vale però la pena soffermarsi più a fondo sulla logica di questo risultato per indebolirlo lievemente. L’attività di imitazione da parte delle imprese del Sud produce in realtà due effetti sugli incentivi ad innovare delle imprese del Nord, uno diretto e negativo e l’altro indiretto e positivo. Da un lato si riduce l’incentivo ad innovare poiché l’attività di imitazione accorcia la durata attesa del potere monopolistico di cui il potenziale innovatore del Nord potrà usufruire (effetto diretto e negativo). Dall’altro l’attività di imitazione da parte delle imprese del Sud provoca l’uscita dal mercato delle imprese “imitate” del Nord; ne segue che le imprese del Nord che restano sul mercato (non ancora imitate) potranno impiegare lavoro a costi inferiori, produrre più output e realizzare più extra-profitti; ne segue, infine, che l’incentivo ad innovare, cioè a produrre varietà non ancora imitate, risulta accresciuto (effetto indiretto e positivo). Nel modello di Helpman discusso nel testo l’effetto positivo e indiretto è più potente di quello negativo e diretto, ragion per cui l’attività di imitazione intrapresa nel Sud stimola l’attività innovativa e la crescita del Nord. In un modello più generale, però, non si può scommettere su quale dei due effetti sia dominante e, di conseguenza, sugli impatti provocati da un inasprimento della protezione degli IPRs. E’ ragionevole pensare che, in un modello più generale, esista un qualche grado ottimo di protezione dei diritti della proprietà intellettuale. Sugli ingredienti che dovrebbero costituire un modello più generale si vedano gli stessi Grossman e Helpman (1991, capitolo 12).

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I primi due effetti sono negativi per entrambe le regioni, il terzo lo è solo per il Sud, mentre per il Nord è di segno positivo: il Sud (Nord) dovrà esportare una maggiore (minore) quantità di merci in cambio della medesima quantità di merci importate. Nel complesso è senz’altro possibile affermare che il Sud è svantaggiato da una più severa protezione degli IPRs, mentre non è possibile sostenere, come voci non sempre disinteressate pretendono, che il Nord sia svantaggiato da una regolamentazione troppo lassista dei diritti della proprietà intellettuale. Per completezza occorre aggiungere che la teoria tradizionale fornisce molti altri argomenti contro la protezione degli IPRs. Senza alcuna pretesa di completezza, eccone alcuni8. L’innovatore, anche senza alcun brevetto, può comunque usufruire di sostanziali vantaggi monetari derivanti dall’invenzione. Primo, esiste comunque un “lag da innovazione”, ovvero occorre del tempo prima che altri imitino il prodotto innovativo. Secondo, l’innovatore parte per primo nella corsa a chi scende più velocemente lungo la curva di apprendimento e dunque, in ogni dato momento nel tempo, esso potrà coeteris paribus produrre a costi più bassi degli imitatori-concorrenti. Il sistema dei brevetti genera inoltre spreco di risorse, dal momento che il fenomeno noto come “corsa ai brevetti” produce una duplicazione di sforzi del tutto simili. Ancora, la protezione degli IPRs può persino costituire un freno al progresso tecnologico per il semplice fatto che molte tecnologie sono interdipendenti. La brevettazione di una tecnologia di nuova invenzione accresce i costi necessari alla produzione di una nuova, ancora inesistente tecnologia che richieda la prima come input. Per riassumere: è ancora una volta il non perfetto funzionamento dei mercati – qui, in particolare, i presunti vantaggi dinamici derivanti dall’imposizione di monopoli legali sulle innovazioni – a favorire processi di divergenza fra paesi ricchi (innovatori) e paesi poveri (imitatori). II La teoria strutturalista e la divergenza fra paesi II.I Le caratteristiche salienti dell’economia strutturalista A costo di una eccessiva semplificazione – e d’altra parte non è certo questa la sede per una esposizione completa della teoria strutturalista9 - i tratti analitici essenziali del punto di vista strutturalista sono due. Il primo è un tratto keynesiano: la domanda conta e, si badi, conta anche nel lungo periodo. Il secondo è un tratto kaleckiano: i prezzi, almeno in alcuni mercati, sono fissati dalle imprese secondo il loro grado di monopolio ed eventualmente il loro tasso di crescita dipende dal conflitto tra lavoratori e capitalisti circa la distribuzione del prodotto totale. Fermiamoci sul primo punto, ed in particolare sul ruolo della domanda nell’influenzare il processo di crescita di lungo periodo10. Analiticamente, ciò avviene per due ragioni. In primo luogo perché nei modelli strutturalisti esiste una funzione autonoma degli investimenti tra i cui argomenti compare invariabilmente, nelle diverse versioni, il grado di utilizzo della capacità produttiva; in secondo luogo perché a sua volta il grado di utilizzo della capacità produttiva è determinato, nel breve periodo, dalla domanda effettiva. La catena causale rilevante è perciò la seguente: la domanda effettiva determina nel breve periodo il grado di utilizzo della capacità produttiva, e questo concorre a determinare le scelte di accumulazione compiute dalle imprese e dunque il tasso di crescita di lungo periodo dell’economia. Questo nesso tra breve e lungo periodo ha anch’esso, in realtà, un sapore chiaramente kaleckiano che risulta evidente non appena si ricordi la massima kaleckiana

8 Per una esposizione più completa si vedano i lavori di Chang (2001 e 2003) che, oltre ai punti analitici riportati nel testo, contengono una disnima storica interessantissima circa il rapporto fra sviluppo dei paesi oggi avanzati e tutela della proprietà intellettuale. 9 Il lettore interessato è rimandato a Taylor (1983) e Dutt e Ros (2003) 10 Su questo punto specifico si veda Setterfield (2002)

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secondo cui il lungo periodo non è che “a slowly changing component of a chain of short-period situations; it has not an independent entity” (Kalecki, 1971, p.7) Affinché un simile schema interpretativo sia sensato occorre naturalmente che non vi sia necessariamente pieno utilizzo della capacità produttiva, perché altrimenti non si capisce in che senso questo possa dirsi “determinato” dal livello della domanda effettiva. Ma, e questo è un punto analiticamente molto importante, è certamente possibile che nei modelli strutturalisti la capacità produttiva risulti essere pienamente utilizzata. Questo fatto, che tra un momento cercheremo di chiarire, conferisce alla teoria strutturalista un certo grado di generalità: ben lungi dal costituire un “caso particolare” (accusa che sarebbe facile rivolgerle in quanto “costola” dell’analisi keynesiana), essa può invece dar luogo a equilibri di natura assai diversa: equilibri con capacità produttiva sottoutilizzata, nei quali investimenti e consumi possono crescere simultaneamente; ed equilibri con capacità produttiva pienamente utilizzata, nei quali la crescita degli investimenti non può che avvenire in seguito a maggiori risparmi (minori consumi). La ragione per cui nei modelli strutturalisti si possono dare equilibri con pieno utilizzo della capacità produttiva, illustrata con rigore analitico da Cassetti (2002 e 2003), può essere qui raccontata in questi termini. Immaginiamo un’economia il cui funzionamento sia descritto dal seguente sistema di equazioni:

(1) bsrg s −=

(4) 21 uzzm += L’equazione (1) descrive il tasso di crescita dell’economia reso possibile dalla disponibilità di risparmio, ovvero il tasso di crescita effettivo dell’economia. La (1), dove r indica il tasso di profitto e b il rapporto tra spesa pubblica netta e stock di capitale, è stata evidentemente scritta ipotizzando che i lavoratori non risparmino e i capitalisti risparmino invece una frazione s del loro reddito. L’equazione (2) esprime invece il tasso di crescita desiderato dell’economia, ovvero il rapporto fra investimenti desiderati e stock di capitale. Esso, in questa tipica funzione di investimento dei modelli strutturalisti, dipende positivamente dal tasso di profitto atteso, re (che in equilibrio coincide con il tasso di profitto realizzato, ovvero re = r) e dal grado di utilizzo della capacità produttiva, u (e anche qui, in equilibrio, non vi è differenza tra livello atteso e livello effettivamente realizzato). Torniamo a sottolineare come la dipendenza degli investimenti desiderati dal grado di utilizzo della capacità produttiva costituisca, insieme alla regola di aggiustamento di breve periodo che tra poco introdurremo, la ragione per cui nei modelli strutturalisti la domanda conta anche nel lungo periodo. La (3) è una equazione di tipo contabile. Essa ci dice che il tasso di profitto si può sempre esprimere come prodotto di tre fattori: la quota dei profitti sul reddito nazionale, m; il grado di utilizzo della capacità produttiva (ovvero il rapporto tra output effettivo ed output potenziale) e, infine, il rapporto, tra output potenziale e stock di capitale, k, che tipicamente si assume essere costante11. La (4) costituisce invece, e sia pure in questa formulazione apparentemente semplice in base alla quale la quota dei profitti sarebbe una funzione lineare del grado di utilizzo della capacità produttiva, il cuore della teoria strutturalista della distribuzione del reddito che, come vedremo immediatamente, è una teoria di natura conflittuale. In base ad essa l’aumento del grado di utilizzo della capacità produce due effetti di segno opposto. Da un lato esso rafforza il potere contrattuale dei lavoratori e perciò, da questo punto di vista (che è quello di più diretta derivazione marxiana ed evoca l’idea dell’esercito industriale di riserva), tende a ridurre la quota dei profitti. Dall’altro, l’aumento dell’utilizzo della capacità produttiva implica che la domanda sia alta rispetto alla stessa 11 La costanza di k è uno dei “fatti stilizzati” dello sviluppo economico messo in luce da Kaldor. Sul punto si veda Valdés (1999).

(2) 0 e 0con >>++= ηδηδγ urg d

(3) mukr =

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capacità produttiva e perciò le imprese, dotate in questo schema di un qualche potere monopolistico, cercheranno di trarre vantaggio dalla minor concorrenza sul mercato dei prodotti aumentando il markup applicato sui costi. Da questo punto di vista, perciò, l’aumento nell’utilizzo della capacità produttiva tende a generare un aumento della quota dei profitti. Quale dei due effetti prevarrà? A priori non lo si può dire; quel che si può dire è che se i lavoratori sono forti rispetto alle imprese prevarrà il primo effetto e perciò nella (4) avremo z2 < 0. Nel caso opposto – imprese più forti dei lavoratori – avremo z2 > 0. La quota dei profitti sul prodotto totale dipende dalla forza relativa delle classi sociali12. Sostituendo la (4) nella (3) è chiaro che il tasso di profitto si può esprimere come funzione del solo grado di utilizzo della capacità produttiva e che, sostituendo l’espressione così ottenuta nelle (1) e (2), il tasso di crescita effettivo dell’economia e quello desiderato dalle imprese possono anch’essi essere espressi in funzione della sola variabile u. E’ a questo punto che si rende necessario introdurre un meccanismo di aggiustamento di breve periodo che descriva quali meccanismi si mettano in moto nell’economia qualora sg sia diverso da dg . La classica regola di aggiustamento keynesiana vuole che:

)5()( sds ggg −= α& in cui come di consueto il punto sopra una variabile ne indica la derivata rispetto al tempo e 0>α . La (5), come già accennato, di per sé descrive il meccanismo di aggiustamento keynesiano di breve periodo: qualora per esempio gli investimenti desiderati dovessero essere superiori ai risparmi disponibili ( sd gg > ), ovvero in presenza di un eccesso di domanda sul mercato dei beni, le imprese reagiscono aumentando la produzione (il grado di utilizzo della capacità produttiva), ciò che determina un aumento del risparmio aggregato e dunque, per un dato livello dello stock di capitale, di sg . Ma, e ancora una volta si ritrova la visione kaleckiana del lungo periodo, il modello (1)-(5) descrive compiutamente l’evoluzione di lungo periodo dell’economia: l’eguaglianza fra

dg e sg determina il valore di equilibrio del grado di utilizzo della capacità produttiva, u*, e, inserendo u* indifferentemente nella (1) o nella (2), si ottiene il tasso di crescita di equilibrio di lungo periodo dell’economia, g* 13. Il modello (1)-(5) possiede molti equilibri, alcuni stabili ed altri instabili, alcuni con capacità produttiva sottoutilizzata ed altri con capacità produttiva pienamente utilizzata. Qui – con lo scopo di mettere in chiaro che la teoria strutturalista non è un “caso particolare” (non più di quanto lo sia qualsiasi teoria) – ci limitiamo a mostrare un paio di equilibri con capacità produttiva pienamente utilizzata. Un primo caso, illustrato nella Figura 1, è quello in cui 0 infine, e, ; 0; 2 ><+< zbs γδ . A parole: si tratta di un’economia in cui i capitalisti risparmiano poco (gli investimenti sono molto sensibili al tasso di profitto), il tasso di crescita autonomo è basso (se b = 0, come è ragionevole assumere in un equilibrio di lungo periodo, il tasso di crescita autonomo è negativo: al di sotto di un certo livello di utilizzo della capacità produttiva gli investitori desiderano decumulare capacità) e le imprese sono forti rispetto ai lavoratori. 12 E’ chiaro che una simile teoria presuppone che le imprese vivano in un ambiente oligopolistico/monopolistico e dispongano di un potere di fissazione del prezzo. Tuttavia la teoria della distribuzione strutturalista è ben diversa da quella tipicamente associabile ai tradizionali modelli di oligopolio. In questi ultimi il tasso di markup è univocamente determinato dall’elasticità della domanda rispetto al prezzo; nei modelli strutturalisti, come abbiamo appena visto, esso è influenzato anche dalla forza contrattuale dei lavoratori e dall’esito del conflitto distributivo fra questi e le imprese. 13 Data l’ipotesi di costanza di k e dato u*, g* misura non solo il tasso di crescita dello stock di capitale, ma anche dell’output dell’economia.

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g gd gs

B A u* u=1 u Figura 1: equilibrio con pieno utilizzo della capacità produttiva. Il caso classico Dal grafico, in cui la posizione e la forma delle curve sono di facile derivazione date le nostre ipotesi, risulta chiaro che l’equilibrio A, con capacità produttiva sottoutilizzata, è instabile: se per una qualsiasi ragione l’economia dovesse scostarsi da questo equilibrio ed essere temporaneamente caratterizzata da un grado di utilizzo compreso tra u* ed 1, essa – data la (5) – tenderà a collocarsi nell’equilibrio con capacità produttiva pienamente utilizzata, B. La configurazione parametrica che caratterizza l’economia rappresentata nella Figura 1 potrebbe tuttavia ritenersi assai improbabile, dal momento che se mai dovesse temporaneamente trovarsi con u < u*, l’economia scomparirebbe. Ma esistono altri, “meno improbabili” equilibri con pieno utilizzo della capacità produttiva. Si consideri il caso, del tutto speculare al precedente, in cui δ>s , 0>+ γb e 02 <z . Questa volta, come si vede dalla Figura 2 e come può essere facilmente verificato analiticamente, le curve sg e

dg sono entrambe prima crescenti e poi decrescenti. La ragione sta nell’effetto che un incremento della capacità produttiva produce sul tasso di profitto (cfr. la (3)). Un simile incremento ha certamente un impatto diretto e positivo sul tasso di profitto, ma anche – per via della forza contrattuale dei lavoratori ( 02 <z ) – un impatto indiretto e negativo che agisce attraverso la riduzione della quota dei profitti (equazione (4)). Fino a che il primo effetto è più importante del secondo, le curve sg e dg sono crescenti, poi diventano decrescenti.

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g B C

A gd gs u=1 u Figura 2: equilibrio con pieno utilizzo della capacità produttiva. Il caso strutturalista Nel modello ci sono evidentemente due equilibri con capacità produttiva sottoutilizzata (A e B) e un equilibrio con piena capacità produttiva (C). Ma, data la (5), è altrettanto chiaro che gli equilibri stabili sono soltanto due, A e C14. Il modello di Cassetti (2002), che qui abbiamo semplificato cercando di ridurlo alla sua struttura teorica essenziale, possiede molti altri equilibri e quelli qui presentati non esauriscono certo la ricchezza – ripetiamolo: la generalità - dell’approccio strutturalista. Essi però ci servono a introdurre la distinzione analitica che gli economisti strutturalisti sono usi fare tra “Nord” (i paesi ricchi) e “Sud” (i paesi poveri). Il Nord, come vedremo nel prossimo paragrafo, è generalmente descritto come un’economia keynesiana-kaleckiana, che cresce con capacità produttiva in eccesso, prezzi fissati in base alla regola del markup e output determinato dalla domanda. In un certo senso potremmo dire che l’economia del Nord descritta nei modelli strutturalisti è caratterizzata da un equilibrio come quello descritto dal punto A della Figura 2. Il Sud, al contrario, viene rappresentato come un’economia “classica”, che cresce con piena utilizzazione della (minor) capacità produttiva, prezzi flessibili e output determinato dal lato dell’offerta. In questo caso si può dire che l’equilibrio di lungo periodo rilevante è costituito dal punto B della Figura 115. II.II La divergenza nei modelli strutturalisti I modelli “Nord-Sud” di matrice strutturalista – tra di essi vanno certamente menzionati quelli di Taylor (1981, 1983, 1986) e di Dutt (1989, 2003) – sono modelli di equilibrio generale in cui le economie dei paesi ricchi, collettivamente chiamate Nord, e quelle dei paesi poveri, collettivamente

14 Nella Figura 2 la linea della piena capacità produttiva interseca la curva gd nel suo tratto decrescente. Ciò deriva dall’ipotesi che z2 sia “fortemente” negativo (il potere contrattuale dei lavoratori particolarmente rilevante). In ogni caso le conclusioni cui giungiamo non sarebbero influenzate se rimuovessimo questa ipotesi. 15 In quel punto la quota dei profitti è data, ed eguale a z1 + z2. Nei modelli strutturalisti Nord-Sud si usa spesso assumere che il salario reale sia dato al Sud (si veda per esempio il modello di Dutt evocato nel paragrafo seguente) e vale forse la pena di far notare che ciò, per dati requisisti unitari di lavoro, equivale ad assumere che sia data la quota dei profitti. Il nostro ragionamento ci permette di precisare perciò che l’ipotesi di salario reale dato al Sud non implica affatto che esso coincida col salario di sussistenza. Esso, in modo più generale, è determinato dalla forza relativa di lavoro e capitale.

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chiamate Sud, vengono descritte come casi particolari dello schema generale illustrato nella sezione precedente. Come abbiamo già accennato, e qui il riferimento è al recente lavoro di Dutt (2003), si assume che il Nord sia caratterizzato da una struttura à la Keynes-Kalecki ovvero, come già sappiamo, che cresca con eccesso di capacità produttiva, prezzi fissati tramite la regola del markup e output determinato dalla domanda; e che invece il Sud, in cui la composizione dell’output è più orientata alla produzione di merci scambiate in mercati tendenzialmente più concorrenziali (beni primari e beni manufatti "maturi"), sia caratterizzato da una struttura classica. Più precisamente, da una struttura à la Marx-Lewis, con lavoro sovrabbondante, salario reale rigido e prezzi flessibili. In realtà, come abbiamo cercato di chiarire in precedenza, l’ipotesi di salario reale rigido non implica necessariamente che il Sud sia un’economia à la Lewis con lavoro sovrabbondante (nota 17). In modo molto approssimativo, ma crediamo utile alla comprensione del lettore, si può dire che nei modelli strutturalisti Nord-Sud la storia comincia, per il Sud, dal punto B della Figura 1 e, per il Nord, dal punto A della Figura 2.

I risultati da enfatizzare di questi modelli, in cui sia Nord che Sud producono un solo bene che può essere consumato o investito, sono due. E’ noto che alcuni eminenti studiosi dello sviluppo economico come Prebisch, Seers, Singer, Kaldor e Thrlwall hanno individuato nelle differenti elasticità rispetto al reddito delle importazioni di Nord e Sud una delle ragioni cruciali della progressiva divergenza tra regioni. Il gap tra Nord e Sud secondo questo punto di vista cresce perché, coeteris paribus, l’elasticità di reddito della domanda di beni prodotti al Nord è maggiore di quella dei beni prodotti al Sud. Bene, il primo risultato di rilievo consiste proprio nella conferma di questa ipotesi, conferma ottenuta, però, nel contesto di un modello di equilibrio generale con bilancia commerciale in pareggio, a significare con ciò la validità di questo risultato anche nel lungo periodo. Il meccanismo in virtù del quale l'economia mondiale arriva ad un equilibrio con tassi di crescita divergenti può essere intuitivamente raccontato come segue. Immaginiamo che inizialmente Nord e Sud crescano allo stesso tasso. Date le differenze nell'elasticità rispetto al reddito, la domanda per i prodotti del Nord crescerà più velocemente di quella per i prodotti del Sud. Si produrrà quindi un peggioramento delle ragioni di scambio per il Sud. La crescita del Nord non ne sarà influenzata16, mentre il Sud, che per ipotesi importa una certa quota di beni di investimento dal Nord, vedrà ridursi il proprio tasso di crescita in ragione dell'aumento del prezzo medio dei beni di investimento. Quando, in equilibrio di lungo periodo, le ragioni di scambio si saranno stabilizzate il Sud crescerà perciò a tassi inferiori a quelli del Nord. Il secondo risultato che vogliamo enfatizzare è che, sotto condizioni molto plausibili, le differenze nell'elasticità di reddito producono divergenza anche quando il Sud riesce, indebitandosi, a beneficiare dei flussi di capitale provenienti dal Nord17. E' utile soffermarsi sulla ratio economica di questo risultato, giacché essa ci consentirà di mettere in luce alcune importanti differenze tra l'approccio strutturalista e quello tradizionale. Le esportazioni del Nord (importazioni del Sud) e del Sud (importazioni del Nord) siano date rispettivamente da

(6) Y SSεµSPX NN Θ=

(7) NN

NSS YPX εµ−Θ= , in cui P indica le ragioni di scambio (P = Ps/Pn, ipotizzando per semplicità che il tasso di cambio sia unitario); iµ > 0 indica il valore assoluto dell’elasticità rispetto al prezzo delle importazioni nella regione i (i = N, S); iε è il valore dell’elasticità rispetto al reddito delle importazioni del paese i; 16 Questo non è un risultato necessario, ma deriva dalle assunzioni specifiche del mo dello di Dutt. Se nel modello, seguendo quanto illustrato nel paragrafo II.I, la quota dei profitti sul reddito nazionale venisse endogenizzata, la variazione delle ragioni di scambio non sarebbe senza conseguenze sul tasso di crescita del Nord. 17 Nel già citato lavoro di Dutt (2003) si presenta anche evidenza empirica preliminare sulla base della quale è possibile dire che le elasticità di reddito delle importazioni di Nord e Sud sono effettivamente tali da produrre divergenza.

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infine, iΘ > 0 è un parametro il cui valore, in equilibrio generale, dipende da altri parametri che qui per brevità omettiamo. La bilancia dei pagamenti si può scrivere come

,NNNSS XPFPXP =+ dove F rappresenta il flusso netto di capitale da Nord a Sud espresso in termini di bene prodotto al Nord; dividendo per PN si ottiene

(8) NS XFPX =+ . Indicando con le lettere minuscole il tasso di crescita di una variabile (ad esempio, il tasso di crescita di F è f = (dF/dt)/F), differenziando in logaritmi la (6) e la (7) e ricordando che in equilibrio di lungo periodo le ragioni di scambio sono stabili, la (8) può essere riscritta come

(9) )()1(

+−= f

XF

yXF

yN

NNN

SS εε

A partire da questa condizione analitica che, ricordiamolo, vale nel lungo periodo, chiediamoci quale debba essere l’evoluzione del debito del Sud affinché possa esservi convergenza, ovvero

NS yy > . Se 1 < (F/XN) < 0 (il che è senz’altro vero se le esportazioni di entrambe le regioni e i flussi di capitale da Nord a Sud sono positivi), allora SS yε è una media ponderata fra NN yε e f. Assumendo che NS εε > - che è il cuore stesso dell’argomento delle elasticità – e ricordando che la convergenza implica NS yy > , allora dovrà essere NNSS yyf εε >> . Poiché, con ragioni di scambio stabili, la (6) e la (7) implicano che iii yx ε= (i =N, S), ne segue che SN xxf >> . Poiché in equilibrio di lungo periodo è ragionevole assumere che il tasso di crescita del debito sia eguale al tasso di crescita dei flussi di capitale da Nord a Sud 18, ne dobbiamo dedurre che condizione necessaria affinché si produca convergenza è che il debito del Sud cresca più velocemente delle sue esportazioni ( Sxf > ) e, ipotizzando che 1>Sε (altra ipotesi del tutto ragionevole che semplicemente riflette la cosiddetta legge di Engel), del suo output ( Syf > ). Si tratta evidentemente di una opzione non disponibile per i paesi del Sud e, questo il punto qui più rilevante, di una condizione del tutto implausibile per un equilibrio di lungo periodo, giacché essa condurrebbe all’esplosione dei rapporti debito/pil e debito/esportazioni, ovvero all’insostenibilità del debito. Nessun mercato dei capitali, neppure il più perfetto, presterebbe mai danaro ad una economia con simili caratteristiche. Sta qui, a nostro giudizio, la differenza di analisi più rilevante tra l’approccio strutturalista e l’approccio tradizionale: si produce divergenza non a causa dell’imperfetto funzionamento del mercato dei capitali, ma perché in un sia pur ipotetico mondo in cui questo mercato sia privo di imperfezioni, l’elasticità rispetto al reddito della domanda di beni prodotti al Sud è inferiore all’elasticità rispetto al reddito della domanda di beni prodotti al Nord.

18 Infatti, indicando con D lo stock di debito del Sud, avremo per definizione dD/dt = F + iD, dove i indica il tasso di interesse. Il tasso di crescita del debito sarà perciò pari a d = (F/D) + i. Assumendo che in equilibrio di lungo periodo sia i che d siano costanti, dovrà necessariamente essere f = d.

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II.III Progresso tecnico e politiche redistributive E’ noto che uno dei temi che attirò maggiormente l’interesse dei primi strutturalisti – grandi economisti dello sviluppo come Lewis, Prebisch, Singer, Nurske, ed altri ancora – fu l’effetto del progresso tecnico nel Sud e, in particolare, il rischio che esso potesse infine beneficiare soltanto le economie già avanzate per via del peggioramento delle ragioni di scambio che esso avrebbe comportato. E’ forse meno noto che i nuovi strutturalisti hanno cercato di interrogarsi sulle condizioni che rendono un’economia “stagnationist” piuttosto che “exhilarationist”19. Un’economia è stagnationist quando il tasso di profitto e il tasso di crescita crescono soltanto insieme al salario reale e alla quota del lavoro sul reddito nazionale. In una simile economia il tentativo dei detentori di capitale di accrescere la propria quota di reddito nazionale ridurrebbe la domanda aggregata al punto che la diminuzione del grado di utilizzo della capacità produttiva più che compenserebbe l’aumento della quota dei profitti. Ne seguirebbe perciò una caduta del tasso di profitto (si veda l’equazione (3)). Queste caratteristiche renderebbero facile un “patto fra classi”, per intendersi una sorta di compromesso socialdemocratico in cui i lavoratori riescono a guadagnare un salario reale più elevato e più posti di lavoro, mentre i capitalisti realizzano maggiori profitti ed un’accumulazione più sostenuta. E’ altresì ragionevole immaginare che in una simile economia la componente di domanda più rilevante sia il mercato interno 20. Un’economia è invece exhilarationist se valgono le condizioni contrarie: la crescita in questo caso è, più tradizionalmente, profit-led e, soprattutto quando si tratta di economie relativamente povere, la componente trainante della domanda di beni di consumo sono le esportazioni. Come messo in luce da Rowthorn (1982) e Taylor (1991), una volta che le economie dovessero raggiungere la piena utilizzazione della capacità produttiva, esse sono molto probabilmente destinate a diventare exhilarationist. In questa sezione conclusiva vogliamo tentare, in via del tutto preliminare, di riprendere questi temi della tradizione strutturalista collocandoli tuttavia nel quadro Nord-Sud del modello di Dutt illustrato nel paragrafo precedente. In quel modello – in cui, ricordiamolo, il Sud opera con piena utilizzazione della capacità produttiva - .il tasso di crescita del Sud si può esprimere come

(10) ssss aPsg σε= dove sσ rappresenta la quota dei profitti sul reddito nazionale, P (come prima) le ragioni di scambio, as il rapporto output/capitale e ss il tasso di risparmio dei capitalisti (i lavoratori non risparmiano). Il significato della (10) è già noto non appena si rilevi che essa è assolutamente identica alla (3), con la sola, rilevante differenza del termine εP (nel modello di Dutt il governo non è considerato esplicitamente, ragion per cui il parametro b non è da considerare). La ragione sta nel fatto che una parte dei beni di investimento utilizzati nel Sud vengono acquistati dal Nord: quanto maggiore il parametro ε tanto maggiore la quota importata di beni di investimento. Con

0=ε la (10) coincide con la (3). Indicando con bs il coefficiente (fisso) unitario di lavoro nel Sud e con V il dato salario reale al Sud, la quota dei profitti si può scrivere come

(11) 1 Vbss −=σ

19 Una illuminante sintesi di questa tematica è contenuta in Blecker (2002). 20 La ragione per cui una simile economia è definita stagnationist sta nel fatto che il simultaneo miglioramento delle condizioni di benessere di lavoratori e capitalisti non si potrebbe dare se la capacità produttiva fosse pienamente utilizzata. E', in un certo senso, la stagnazione dell'economia al di sotto del suo potenziale che rende pensabili situazioni di tipo win-win. Nel paragrafo II.III vedremo che in realtà, per via del ruolo giocato dalle ragioni di scambio internazionali, può accadere che in una economia con capacità produttiva pienamente utilizzata, la crescita dei salari reali si accompagni ad un aumento dei profitti ed una più rapida accumulazione.

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La quota dei profitti, dunque, dipende dal coefficiente unitario di lavoro (l’inverso della produttività del lavoro) e dal salario reale. Le ragioni di scambio di equilibrio, a loro volta, dipendono tra l’altro dalla quota dei profitti. La forma funzionale di tale dipendenza è, nel modello di Dutt, piuttosto complicata, ma la ragione di tale dipendenza è invece assai chiara. Lavoratori e capitalisti non importano dal Nord nella stessa proporzione, e l’ipotesi di Dutt è che i capitalisti importino più dei lavoratori. Ne segue che un aumento (diminuzione) della quota dei profitti farà aumentare (diminuire) le importazioni del Sud e dunque, coeteris paribus, peggiorare (migliorare) le ragioni di scambio. A questo punto possiamo tornare alle due questioni al centro dell’analisi strutturalista, il progresso tecnico e, per intendersi, la fattibilità del “patto socialdemocratico”. Il progresso tecnico, che qui consideriamo esogeno, è rappresentato da un aumento della produttività del lavoro, ovvero da una riduzione di bs. La redistribuzione è simulata attraverso variazioni di V, il salario reale. Cominciamo dal progresso tecnico. E’ immediatamente evidente che il suo effetto sul tasso di crescita del Sud è di segno ambiguo. Esso, si veda la (11), aumenta la quota dei profitti e per questa via il tasso di crescita. Tuttavia, l’aumento della quota dei profitti peggiora le ragioni di scambio e dunque esercita una pressione negativa sul tasso di crescita. Quale dei due effetti dominerà? Con semplici calcoli è facile verificare che il progresso tecnico farà aumentare il tasso di crescita se

(12) 11

<−+ SN

S

µµεε

.

Non sorprendentemente la (12) - in cui la positività del denominatore del lato sinistro equivale alla validità della nota condizione di Marshall-Lerner - ci dice che se la frazione di beni di investimento importati dal Sud è alta ( 0>>ε ), è improbabile che il progresso tecnico aumenti il tasso di crescita del Sud; in tal caso infatti un dato peggioramento delle ragioni di scambio, come si vede bene dalla (10), tenderà a più che compensare l’aumento della quota dei profitti. La (12) ci dice anche che se l’elasticità rispetto al reddito della domanda di beni prodotti al Nord (importati dal Sud; Sε ) è elevata, è verosimile che l’aumento della produttività del lavoro al Sud non giovi al tasso di crescita del Sud, poiché questa volta sarà particolarmente rilevante il peggioramento delle ragioni di scambio indotto dalla crescita della quota dei profitti. Prima di commentare ulteriormente questi risultati, ragioniamo sulla seconda delle questioni tipicamente analizzate dagli strutturalisti, quella della fattibilità del patto socialdemocratico al Sud. E’ ragionevole aspettarsi che un più alto salario reale induca, come nelle versioni stagnationist dei modelli strutturalisti, un più alto tasso di crescita dell’economia? Ragionando come prima (si osservi dalla (11) che il coefficiente unitario di lavoro e il salario reale giocano un ruo lo del tutto speculare) si evince che condizione necessaria e sufficiente affinché un aumento del salario reale, V, aumenti il tasso di crescita dell’economia del Sud è che

(13) 11

>−+ SN

S

µµεε

,

ovvero esattamente il rovescio della (12). Dunque: se le economie del Sud sono stilizzate con sufficiente precisione dal modello di Dutt, delle due l’una. O l’aumento della produttività del lavoro favorisce la crescita dell’economia, ma in tal caso qualsiasi politica che accresca il salario reale senza corrispondenti incrementi di produttività sarebbe dannosa; o, al contrario, la crescita dell’economia è favorita da incrementi del salario reale, ma in tal caso sarebbe il progresso tecnico a rallentare la crescita. In questa circostanza gli aumenti del salario reale davvero benefici sarebbero soltanto quelli slegati dalla crescita della produttività; che si realizzano, in altri termini, a spese dei detentori di capitale. In un caso come nell’altro sembra non esserci spazio alcuno per un qualche

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tipo di compromesso socialdemocratico: le caratteristiche proprie del Sud - un’economia classica che opera al limite della (scarsa) capacità produttiva - unitamente al tipo di relazione economica che lo lega alle economie del Nord - keynesiane e kaleckiane – e che si manifesta essenzialmente attraverso le variazioni delle ragioni di scambio, impediscono che quel patto possa stabilirsi. Si tratta evidentemente di una conclusione tanto interessante quanto forte. Essa certamente aggiunge qualcosa al punto di vista classico secondo cui nelle fasi iniziali del processo di sviluppo economico è necessario concentrare la ricchezza nelle mani di chi la può risparmiare e destinare all’investimento, giacché come abbiamo visto può accadere, sotto certe condizioni, che l’aumento del tasso di crescita richieda un aumento della quota di reddito spettante ai lavoratori. E’ nostra convinzione tuttavia che questa non possa essere la fine del discorso. Restano due osservazioni da fare e, sia pure in modo del tutto evocativo ed incompleto, è con queste che vorremmo concludere. Il primo punto è che nei modelli strutturalisti à la Dutt l’assenza di spazio per una politica di stampo progressiva non è assoluta. Lo si vede bene non appena si rimuova l’ipotesi di salario reale dato e costante e la si rimpiazzi invece con l’assunzione secondo cui

(14) λ−= SbVV ovvero che una frazione λ , con 10 << λ , degli incrementi di produttività del lavoro sia riconosciuta ai lavoratori (espressa in tassi di crescita la (14) diventa infatti SbV

))λ−= ), le

condizioni (12) e (13), come è facile verificare, continuerebbero a valere, ma cambierebbe il loro significato. Immaginiamo infatti che valga la (12): in questo caso il progresso tecnico, i cui frutti per ipotesi andrebbero in parte a beneficiare i salariati, aumenterebbe il tasso di crescita, ciò che, data la (10), implica che crescano anche i profitti. Come dire, in modo in fondo ovvio: in presenza di progresso tecnico una politica distributiva più egua litaria è sempre possibile. Se invece dovesse valere la (13) allora gli aumenti di produttività beneficerebbero bensì i lavoratori salariati, ma a danno del monte profitti e del tasso di crescita dell’economia. Gli incentivi all’introduzione del progresso tecnico sarebbero in tal caso assai deboli, ed è proprio questo il messaggio che qui vorremmo enfatizzare: quando la frazione di beni di investimento che il Sud importa dal Nord e l’elasticità rispetto al reddito delle importazioni di beni di consumo sono elevate, è improbabile che vengano adottate tecnologie in grado di aumentare la produttività del lavoro. La seconda osservazione riguarda l’ipotesi che il Sud sia rappresentabile come un’economia con piena utilizzazione della capacità produttiva. Si tratta di una ipotesi assai diffusa, in fondo tutta la teoria della crescita neoclassica – il modello di Solow così come la teoria della crescita endogena – si fonda su questa ipotesi. E, al di là delle teorie economiche, si tratta di una ipotesi che pare dettata dal buon senso: se il tal paese è così povero, il problema non è tanto l’incompleto utilizzo, ma la pochezza della sua capacità produttiva. Equivalentemente: se oggi siamo più ricchi dei nostri bisnonni (per chi lo è), ciò non si deve certo ad un migliore e più completo utilizzo di una data capacità produttiva, ma alla sua continua espansione nel tempo. Eppure la tirannia del buon senso a volte può essere perniciosa. Vi sono “Sud”, per esempio l’America Latina e anche l’Africa degli ultimi vent’anni, nei quali la pessima performance di crescita non si riesce a spiegare con i tradizionali modelli di accumulazione dei fattori. Usando le parole di Barro riferite agli anni ’80 (1991, p.437. La traduzione è nostra), “[I] risultati [dei modelli di accumulazione dei fattori, n.d.a.] non spiegano buona parte della debole performance di crescita dei paesi dell’Africa sub-sahariana e dell’America Latina”. Si è perciò sviluppata una categoria di modelli, i cosiddetti gap models21, che cercano di spiegare così lunghi periodo di deficit di domanda e per quali ragioni il tradizionale management macroeconomico non ha potuto rimuoverli. Si tratta evidentemente di una linea di ricerca di massimo interesse e se qui non se ne è discusso è perché tali modelli sono sin qui stati applicati a singoli paesi e non sono ad oggi stati inseriti in una struttura analitica che, come i più

21 Si vedano per esempio i lavori di Taylor (1991) e Ros (2002)

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tradizionali modelli Nord-Sud di matrice strutturalista, possa ambire a spiegare la divergenza fra paesi. A noi pare che questa sia una utile direzione verso cui orientare la ricerca futura.

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ELENCO DEI QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE PUBBLICATI n. 1/2003 Giorgio Panella, La gestione delle aree protette: il finanziamento dei parchi regionali n. 2/2003 Marco Stella, A Ban on Child Labour: the Basu and Van’s Model Applied to the Indian “Carpet-Belt” Industry n. 3/2003 Marco Missaglia e Paul de Boer, Employment programs in Palesatine: food-for-work or cash-for-work?

Dicembre 2003