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Loretta Fabbri (ed.) EDUCARE GLI AFFETTI Studi in onore di Bruno Rossi ARMANDO EDITORE

EDUCARE GLI AFFETTI - armandoeditore.it · Curare la transizione verso il mondo del lavoro: 108 giovani adulti dopo la laurea vanna boffo ... necessariamente portano con sé. Il possesso

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Loretta Fabbri(ed.)

EDUCARE GLI AFFETTI

Studi in onore di Bruno Rossi

ARMANDO EDITORE

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Sommario

Introduzione 7loretta fabbri

Parte Prima: ITINERARI TEORICI 17

Ragione e affettività 18massimo baldacci

Breve fenomenologia della vita emotiva nella prospettiva 26dell’educazioneantonio bellingreri

“Gli altri siamo noi”. Per un’educazione alla legalità 41gaetano bonetta

Educare alla “pietas”: tra ieri, oggi e… domani 58franco cambi

Imparare l’amore? 66mariagrazia contini

Anna Karenina e l’elogio del Mitsein: 80incontri fra solitudini nel tempo dell’indifferenzamaurizio fabbri

Comprendere la vita affettiva 90luigina mortari

Parte seconda: CONTESTI E AZIONI 107

Curare la transizione verso il mondo del lavoro: 108giovani adulti dopo la laureavanna boffo

Benessere emotivo e ricerca di senso nei contesti lavorativi: 126percorsi di formazione attraverso il cinema daniele bruzzone

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La fragilità: una condizione del nostro tempo. 140Dalle persone alle famigliemichele corsi

Educare gli affetti a scuola 154giuseppe elia

Approcci indiretti alla via emotiva. Transformative Learning 172e Comunità di Praticaloretta fabbri

Un educatore trasformativo: un frutto raro 194monica fedeli, edward w. taylor

Il sentimento dell’abitare: territorio e cittadinanza attiva 201vanna iori

Organizzazioni, cultura emotiva, formazione 219claudio melacarne

La memoria familiare come costrutto pedagogico 246trasformativo e generativoluigi pati

L’esercizio del sentire nella generazione del sapere pratico 257dell’insegnante: analisi e scritturaloredana perla

Leader trasformazionale e consulente clinico-pedagogico: 272figure di una pedagogia delle emozioni al servizio delle organizzazionimaria grazia riva

Affetti senza legami, legami senza affetti? 288domenico simeone

Transformative Learning Theory 301edward w. taylor

Pubblicazioni di Bruno Rossi 321alessandra romano

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Introduzioneloretta fabbri

L’educazione affettiva

Conversazione con Bruno Rossi

Ogni ricercatore nell’arco della sua vita scientifica si occupa di molti argomenti. Talvolta capita che riesca a dare un contributo significativo ad un aspetto che altri ritengono, in quel momento, periferico. Credia-mo che, a proposito degli studi sul ruolo dell’affettività nei diversi con-testi di vita personale, sociale e organizzativa, Bruno Rossi abbia dato un contributo determinante. Di questo ci vogliamo occupare attraverso una conversazione direttiva che “costringa” l’intervistato a concentrarsi su questo tema: come ha contribuito a legittimare e costruire la necessi-tà di una pedagogia degli affetti. Pensati e interpretati come dispositivi trasversali, gli affetti pervadono la scuola, le organizzazioni, i rapporti sociali, la vita quotidiana. Diventano un paradigma per cui ci si chiede se è possibile discutere di processi educativi e formativi nei diversi am-bienti ignorando o rimuovendo il ruolo che l’affettività ricopre.

D – Perché ti sei occupato di educazione degli affetti?R – La cultura contemporanea esprime un interesse sempre maggiore

per l’affettività e nello stesso tempo lascia cogliere un impegno di ricerca appassionato quanto rigoroso intorno a questa componente dell’umanità della persona. Non è troppo lontano il prevalere di un dualismo mente e affetti che ha provocato non poche distorsioni epi-stemologiche e sociolinguistiche. A questo dualismo si accompagna una società prevalentemente alfabetizzata al livello logico formale. La marginalizzazione degli affetti è l’esito di una comparazione e contrapposizione del diverso valore che hanno rispetto alla ragione. La proposta della grande impresa della formazione affettiva cui ho lavorato parte dalla constatazione di un’incapacità crescente delle

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persone di dare voce alle emozioni e ai sentimenti, di ascoltare la propria affettività e di prendersi cura di essa, di rispettarla come racconto dell’oscurità e dell’alterità che sono nella soggettiva inte-riorità, a scuola, in famiglia e al lavoro. L’affettività educata ha una portata umanizzante. Abbiamo bisogno come singoli, come comu-nità, come attori organizzativi di acquisire i dispositivi necessari per esercitare un’affettività tutelata e promossa che consenta di star bene con se stessi e con gli altri, di apprezzare il valore della col-laborazione e dello scambio. Sono sempre stato convinto che una solida sicurezza affettiva permetta di affrontare costruttivamente i conflitti, le ambiguità, le contraddizioni che i rapporti interpersonali necessariamente portano con sé. Il possesso di tale sicurezza è pre-messa fondativa di un genuino quanto originale itinerario esisten-ziale. L’intelligenza affettiva è una competenza trasversale senza la quale ciò che sappiamo o facciamo perde di significato. Per questo ho sempre riconosciuto nell’educazione affettiva una delle imprese formative più importanti e singolari perché capace di dare ad ogni uomo un aiuto reale a superare o attraversare il disagio esistenziale, perché capace di aiutare a risignificare la vita e arricchirla di senso, con ciò contribuendo anche alla rinascita sociale.

D – A proposito di scuola e educazione degli affetti. Secondo te, come si traduce oggi questo legame?

R – Gli studi sull’educazione affettiva sono sicuramente diventati un pa-trimonio consolidato nella società contemporanea. Insegnanti, edu-catori e manager non possono negare l’importanza e la funzionalità di curare le dinamiche affettive, di prendersi cura di quello che io, metaforicamente, ho definito il “cuore”. Si vedano i miei Pedago-gia degli affetti e Avere cura del cuore. L’educazione del sentire. Il distacco emotivo e l’indifferenza sentimentale aumentano i conflitti e non fanno maturare le competenze per governarli. La depersonaliz-zazione del lavoro, l’accentuazione cognitivista della scuola innalza-no il disagio soggettivo, ma anche quello organizzativo e spesso ren-dono nullo ogni processo educativo. Alla consapevolezza di ciò non hanno fatto seguito grossi processi di traduzione. L’affettività fatica a traslarsi dentro le azioni. Potrei dire che ad oggi manca ancora una consapevolezza piena della presenza strutturale e significativa delle variabili affettive nel processo formativo, della correlazione esistente tra funzioni cognitive e funzioni affettive, della relazione che lega

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affettività, motivazione e apprendimento. Con difficoltà oggi si ne-gherebbe l’ineludibilità del sentire nell’esperienza dell’apprendere, ma mancano i processi traduttivi, manca la contaminazione tra mente e affetti nella tematizzazione degli interventi educativi. Nella scuola le numerose situazioni provviste di alta densità e intensità affettiva spesso non sono riconosciute né tanto meno discusse. Nell’affrontare il fenomeno del bullismo, per esempio, l’attenzione a far riconosce-re la dignità e il valore di ognuno o la necessità etica di difendere il diverso non sono sempre questioni di particolare rilevanza. Non poche volte l’affettività rimane marginale rispetto alle competenze dichiarative che gli alunni devono apprendere, ai voti che devono guadagnare. L’importanza della condizione di agio emotivo sul be-nessere della persona-alunno non si è tradotta in curriculi ampi capa-ci di far imparare non solo il sapere, ma anche il saper essere. Ho più volte scritto che a scuola non pochi soggetti scoprono che la cultura e il vissuto esistenziale, la ragione e l’emozione, la mente e il corpo sono, oltre che separati, gerarchicamente organizzati.

D – I titoli dei tuoi libri disegnano una traiettoria di ricerca originale e innovativa. Penso in particolare a Intelligenze per educare. Sull’i-dentità professionale dell’insegnante, dove si delineano le ragioni che giustificano una professione docente caratterizzata da intel-ligenze multiple. Se il docente non dispone di queste, come può gestire la complessità dei processi di apprendimento?

R – La letteratura prodotta in questi anni ha connotato il paradigma affettivo anche come un’istanza critica rispetto ad almeno due tendenze. Innanzitutto, rispetto all’eccessivo accreditamento di ri-chieste di razionalizzazione didattica e di logiche valutative e or-ganizzative di tipo aziendalistico. In secondo luogo, ha rappresen-tato un fattore di contenimento dell’eccessiva rilevanza attribuita alle capacità progettuali e alle abilità programmatorie e valutative dell’insegnante piuttosto che alla sua esemplarità, alla sua maturità socio-affettiva, alla sua volontà-capacità di incontro e aiuto, al suo impegno nella costruzione con gli alunni e gli studenti di una re-lazione intersoggettivamente qualitativa, alimentata da sentimenti positivi. La dimensione affettiva è anche un paradigma di sviluppo trasformativo verso un rapporto ricco di passione e testimonianza, di credibilità e autorevolezza, di partecipazione e premura, di re-sponsabilità affettiva e competenza affettiva.

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D – Veniamo ora a Il lavoro educativo. Dieci virtù professionali. Un titolo che mi ha suscitato non poche perplessità. Tanto più il suo indice. Capitoli dedicati alla tenerezza, alla speranza, all’ospita-lità… ho pensato che fosse improprio, che banalizzasse le profes-sioni educative. Poi l’ho adottato al Tirocinio Formativo Attivo, poiché ero interessata a capire il significato che i futuri insegnanti avrebbero dato a questo libro. Ho scoperto che il libro ha provo-cato in loro apprendimenti trasformativi. La virtù della tenerez-za, per esempio, ha posto un dilemma disorientante: cosa c’entra la tenerezza con l’insegnamento? Ha proposto un interrogativo e sorpreso con una prospettiva che suggeriva nuovi significati. Ho pensato che forse avresti dovuto scrivere il volume senza rivolgerti in particolare alle professioni educative, ma anche alle professioni mediche, alle professioni di cura… Anche il professore universi-tario, se non vuole essere un semplice trasmettitore di conoscen-ze generali, ha bisogno di pensare che tenerezza, ospitalità, per richiamare le virtù professionalmente più “disorientanti”, fanno parte della nostra identità. Quali implicazioni hanno queste virtù per le professioni educative?

R – Il libro discute quelle virtù che, pur ritenute insufficienti anche a giudizio di chi scrive, sono indispensabili per dare valore, qua-lità e successo all’atto educativo. Anche se spesso latenti o non ufficialmente avvalorate e codificate, esse partecipano alla con-figurazione della professionalità dell’educatore, della sua iden-tità e alla caratterizzazione dei suoi compiti e delle sue funzio-ni: se possedute e agite, contribuiscono a dare risposte concre-te e valide ai bisogni e alle domande di educazione posti dal-le differenti persone e dai differenti contesti in questo tempo. La labilità delle relazioni affettive mette a rischio “la zona prossi-male di sviluppo”: è assente uno sfondo esistenziale intenzionato ad avvalorare l’orizzonte di senso dell’intersoggettività, non c’è reciprocità di esperienze emozionali e di coinvolgimento affettivo, mancano le condotte rassicuranti, l’attenzione amorevole e la pre-occupazione per l’altro. Non ci sono, in definitiva, le condizioni per ben-apprendere.

D – Anche la famiglia è stata un tuo oggetto di interesse, interpretata come luogo di apprendimenti affettivi e di culture emotive. Ho in mente in particolare il volume Genitori competenti. Hai focalizzato

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la tua attenzione soprattutto sulla portata educativa e/o disedu-cativa delle diverse tipologie di socializzazione emotiva che tutti attraversiamo. Pensando ai genitori, quanto il loro ruolo è condi-zionato dalla capacità di gestire le emozioni e i sentimenti?

R – Ho parlato di genitori competenti proprio per sottolineare che al riguardo c’è bisogno anche di una genitorialità riflessiva, disposta ad apprendere perché la socializzazione delle emozioni e gli stili di socializzazione non solo si diversificano da cultura a cultura ma anche da famiglia a famiglia. Genitori si diventa anche rendendosi consapevoli della storia affettiva che abbiamo attraversato come figli. Una storia in parte inconsapevole, bisognosa di validarsi per-ché talvolta caratterizzata da distorsioni che riproponiamo, nella misura in cui siamo genitori capaci di progettare e gestire i climi affettivi dentro i quali e con i quali vogliamo far crescere i no-stri figli. Il problema oggi non è tanto la famiglia felice quanto la genitorialità competente. Allora ci accorgiamo che l’importan-te è essere in grado, come genitori, di guadagnare un’intelligenza post-razionale, di promuovere scaffolding affettivi. I figli possono essere problematici, difficili, diversi da come li avremmo voluti, ma è attraverso la competenza affettiva che si possono costruire relazioni caratterizzate da un supplemento di ascolto, comprensio-ne, pazienza e dono.

D – Il tema dell’affettività di fatto ti ha condotto dentro oggetti rara-mente indagati dalla ricerca pedagogica, per esempio la vita emo-tiva all’interno delle organizzazioni. Hai iniziato con Pedagogia delle organizzazioni. Il lavoro come formazione. Perché, secondo te, le emozioni sono importanti nei contesti organizzativi?

R – Mi è sembrato fondamentale che la ricerca pedagogica iniziasse a occuparsi delle organizzazioni come luoghi dove si apprende, dove si costruiscono conoscenze, dove ci si forma e ci si educa. Ho guardato alle organizzazioni focalizzandomi sulla vita orga-nizzativa come vita emozionata e emozionante. Nel palcoscenico organizzativo l’emozione ha conquistato una posizione centrale. Il traguardo dello sviluppo organizzativo si lega oggi a processi intensi che coinvolgono la sfera affettiva. Sempre più si è convinti che l’analfabetismo affettivo e l’inabilità emotiva incidono, anche pesantemente, sulla motivazione, sull’utilizzo delle risorse perso-nali e delle competenze tecniche, pertanto sulla qualità dei prodotti

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e dei servizi delle organizzazioni, sulle loro possibilità competitive e sul guadagno di successo. I saperi pedagogici, insieme a quel-li psicologici e sociologici, hanno contribuito a depotenziare un discorso organizzativo enfatizzante la razionalità, a ripensare e riconfigurare il lavoro come attività basata non solo su funzioni razionali ma anche emotive, a ridisegnare le organizzazioni pro-ponendo di considerarle come prodotte e alimentate da una molte-plicità di processi in parte consapevoli e in parte inconsapevoli, a caratterizzare l’azione umana secondo simbolizzazioni operative e simbolizzazioni affettive.

D – Educare alla creatività. Formazione, innovazione, lavoro; Lavo-ro e vita emotiva. La formazione affettiva nelle organizzazioni; L’organizzazione educativa. La formazione nei luoghi di lavoro; Il lavoro felice. Formazione e benessere organizzativo. Ho citato i titoli dei tuoi libri perché consentono di mappare i temi di cui ti sei occupato e soprattutto il livello di spacchettamento da te raggiunto. Hai, per esempio, aperto la strada a contaminazioni con gli studi organizzativi ed economici. Hai creato un network virtuale con i ricercatori preoccupati di implementare beni re-lazionali, di sostenere e facilitare apprendimenti organizzativi trasformativi. Hai consentito alla pedagogia di superare alcune distorsioni epistemologiche. Come sei riuscito ad adottare que-sta logica transdisciplinare?

R – Quando ho iniziato ad occuparmi di organizzazioni mi sono accorto del grande ritardo che caratterizzava la ricerca pedagogica, troppo centrata sulla scuola. Ho preso atto che altri settori prima di noi se ne erano occupati e occupati bene. È stato fondamentale per me con-frontarmi con tali studi e nel contempo capire, come pedagogisti, quale contributo potevamo dare. Potevamo contribuire a costruire nuove letture riguardo all’identità delle organizzazioni. Qualcuno si è chiesto se e come le organizzazioni apprendono e questo, per esempio, è un tema di confine. Noi ci siamo chiesti se le organizza-zioni educano, se le organizzazioni, oltre che essere organizzazioni che apprendono, possono essere organizzazioni che educano. La vita organizzativa non è solamente un contesto di processi produt-tivi, è anche un ambiente di vita dove per le persone è importante trovare la possibilità di ricercarsi, mettersi alla prova, elaborare il senso della propria esistenza professionale, padroneggiarsi e saper

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appartenere. È uno spazio dove saper apprendere dagli altri, saper collaborare e saper apprezzare la diversità di opinioni senza per questo sentirsi minacciati. La qualità dei processi trasformativi che l’appartenenza, anche temporanea ad una organizzazione, promuo-ve non può essere affidata a dinamiche naturali. Tali processi han-no bisogno di essere accompagnati, sostenuti e facilitati. Qui emer-gono termini come cura, coltivazione e sostegno. Quella educativa è una cultura capace di costruire meteorologie organizzative capaci di costruire una nuova cultura organizzativa sostenitrice di una cul-tura dell’apprendimento fondata nell’assunto che, al di là di ogni artificiosa separazione tra la sfera personale e quella professionale, prendersi cura dell’intera personalità degli attori organizzativi e quindi anche della loro vita emotiva ha profonde ricadute positive sulla salute dell’azienda, sulla sua forza concorrenziale, evolutiva e soprattutto innovativa.

D – Dentro un quadro sempre più incerto, con la precarizzazione del lavoro, in una scena organizzativa frequentemente attraversata da smarrimento e disincanto, che spazio può trovare l’idea di un’or-ganizzazione che educa?

R – Forse proprio in ragione di queste traiettorie che chiedono alle per-sone permanenze brevi, l’accettazione dell’incertezza e una mag-giore disposizione al cambiamento, le organizzazioni dovrebbero essere un territorio che, pur in presenza di vincoli e difficoltà, offre curriculi molteplici di incremento, di Bildung personale e dunque opportunità plurali di apprendimento, sviluppo di competenze, self-empowerment e in virtù di ciò contribuire ai processi di inno-vazione e sviluppo dell’azienda. Le emozioni, se coltivate e gestite, concorrono ad aumentare il senso di appartenenza a una comunità. Ciò consente alle persone di lavorare bene, di veder riconosciuto il loro valore di produttrici di conoscenza e di sviluppare un clima collaborativo. La possibilità di educarsi, in fondo, rappresenta il ritorno che le persone possono avere pur dentro un’appartenenza che sanno relativa o determinata. Dal punto di vista organizzativo, non è un caso che le grandi aziende, come dimostrano molti studi, insieme alle capacità intellettuali e all’expertise riconoscono alle capacità emotive, al gusto, allo stile, alla passione, alle doti artisti-che le traiettorie per lo sviluppo della creatività.

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D – In che senso parli della pedagogia come sapere per la persona-al-lavoro?

R – È in questione un oggetto di studio sfidante riguardo al compito di contribuire a quel cambiamento di significato che invita a pensa-re al soggetto lavorativo non come soggetto che ha un lavoro ma come soggetto competente e su questo allineare le culture organiz-zative. La sperimentazione di una libertà di confronto che premia la differenza, la dialettica che libera da unanimismi improduttivi frutto in genere di autoritarismi sterili, rendono la persona potente, ossia cosciente di essere e di valere, di contare all’interno di un contesto lavorativo, di contribuire al raggiungimento di obiettivi organizzativi. Il sentimento identitario si struttura, si definisce e si rafforza anche nelle relazioni interpersonali e nella vicenda lavora-tiva, al di là di itinerari formativi formali. Il lavoro è così pensabile come significativa attività formativa, nonché come esperienza di educazione sentimentale.

D – A proposito della pedagogia si può dire che i tuoi studi si sono aperti a confronti e contributi con settori non tradizionalmente in-tercettati. Per esempio, discutendo dell’affettività nei diversi con-testi sociali e organizzativi, hai fatto riferimento alla psicologia, ma soprattutto alla psicologia delle organizzazioni, hai dialogato con le scienze economiche e con gli studi organizzativi, nonché con le neuroscienze. Inoltre hai portato dentro il territorio pedago-gico temi come il benessere e la felicità, che, tolti dall’astrattezza, hanno significato interrogarsi su come educare a una vita felice e a un lavoro felice. Quale impatto hanno avuto queste contamina-zioni sul tuo lavoro di ricercatore?

R – Ho sentito il bisogno di aprire la mia ricerca a percorsi non tradi-zionali, a confronti e colloqui che talvolta la pedagogia ha evita-to. Si può dire che chiunque si occupi di felicità, di benessere, di vita emotiva, di fatto si occupa di educazione. Ho discusso questo tema in Pedagogia della felicità e in Pedagogia dell’arte di vivere. In altre parole, si chiede come e a quali condizioni si può contri-buire ad elevare la qualità della vita personale, familiare, sociale e organizzativa. Noi pedagogisti rischiavamo di rimanere ancora alla pedagogia della scuola, ad autori importanti ma più legati al passato che non ad un presente così imprevedibile e incerto. Mi sono accorto che gli sguardi epistemologici si arricchiscono e si

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definiscono tanto più osano perdersi in altre prospettive per poi tornare alla propria avendo guadagnato maggior capacità inclusi-va e critica. Interrogando differenti saperi disciplinari, mi è stato consentito di constatare il progressivo superamento delle antino-mie pensare/sentire, mente/affetti, cognitivo/affettivo, razionale/emotivo così da pervenire alla conciliazione di tali polarità dopo un lungo periodo in cui la cultura occidentale le ha viste separate e contrapposte, semmai gerarchicamente.

D – Per concludere, puoi compiere una breve riflessione sulla funzione culturale del pedagogista?

R – Nella costruzione della sua teoria il pedagogista è aiutato non poco dal principio della creatività grazie al quale assumere la postura del “visionario” realista, farsi “alfiere” del nuovo utile, accostarsi rea-listicamente ai problemi e rispondere con un atteggiamento di sfida alla complessità, distaccarsi dal già-dato, guardare avanti oltre l’at-tuale e verso il non-ancora, disporsi ad andare al di là della prassi consueta per incontrare il possibile e il nuovo, inoltrarsi concreta-mente con un “pensiero avventuroso” nei territori e nei percorsi del possibile educativo ragionevole, sapendo peraltro che il futuro non è prefigurabile mediante il prolungamento del presente in quanto la storia si compone inevitabilmente dell’imprevisto e dell’igno-to. La sua è una proposta culturale aperta, permeabile, sprovvista di certezze assolutizzanti, contingente, criticamente alimentata. In questo senso, il pedagogista è da guardare come un creativo cultu-rale, uno scienziato creatore di nuova cultura.

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Parte Prima

ITINERARI TEORICI

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Ragione e affettivitàmassimo baldacci

Uno dei contributi più cospicui di Bruno Rossi è relativo alla peda-gogia della sfera affettiva, rispetto alla quale egli ha prodotto un’elabo-razione teorica contrassegnata da grande sensibilità e impareggiabile finezza. In questo intervento, ci proponiamo di affrontare il problema dell’educazione affettiva secondo la prospettiva del problematicismo pedagogico.

In questa prospettiva, la nostra scelta teorica è di considerare l’edu-cazione affettiva nella cornice di un’educazione alla ragione.

In generale, la ragione indica l’esigenza di integrazione razionale dell’esperienza, e come tale implica il superamento di prospettive par-ziali e/o unilaterali che possono determinare un impoverimento e un restringimento dell’esperienza stessa. Una educazione orientata alla ragione ricercherà perciò l’integrazione tra l’esperienza intellettiva e quella affettiva, promovendo il loro sviluppo armonico ed equilibrato. L’affettività non sarà perciò trattata come qualcosa d’irrazionale da do-mare o estirpare, ma come una dimensione fondamentale dell’essere-nel-mondo. Il valore educativo ed esistenziale della dimensione affetti-va trova però equilibrio solo nella loro integrazione con la dimensione intellettiva, secondo un processo di compenetrazione reciproca.

In modo più specifico, la ragione consiste nella capacità di pensare in maniera autonoma e razionale, ponendosi come un principio sovraordi-nato alle attività intellettive. In questa prospettiva, educare alla ragione significa formare la capacità di pensare in modo riflessivo, coerente e ragionevole, libero da pregiudizi, dogmatismi e impulsività.

Nel senso più ampio, l’educazione alla ragione consiste nella sintesi di queste due posizioni e implica l’educare a pensare in modo riflessivo e ragionevole secondo un processo d’integrazione tra l’ambito intellet-tivo e quello affettivo. In altre parole, la ragione deve pervadere anche

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l’esperienza affettiva e la passione deve innervare la ragione. Non è pensabile un essere umano ridotto solo a gelida razionalità o al fuoco delle passioni. La separazione di ragione ed emozione e/o il loro squili-brio impoverisce l’umanità dell’uomo ed è talvolta responsabile di vere tragedie morali.

Se occorre garantire un’esperienza affettiva ricca e vitale, è però ne-cessario impregnare tale esperienza con la ragione.

Per Bertin il ruolo della ragione consiste nell’esercitare la funzio-ne chiarificatrice del pensiero sui contenuti irriflessivi dell’esperienza affettiva: tali contenuti devono essere resi consapevoli e sottoposti ad un’adeguata riflessione razionale.

Per non ledere l’esperienza emotiva, il ruolo dell’esame razionale del vissuto affettivo va però delimitato. Non sarebbe opportuno in-terrompere continuamente il flusso dell’esperienza con richiami alla valutazione riflessiva. In questo modo, si finirebbe per provocare uno sdoppiamento del soggetto tra una parte che agisce e una che giudica, intralciando la spontaneità e l’immediatezza del sentire. L’emozione appartiene in primo luogo all’ambito del processo vissuto, non si tratta di sovrapporle costantemente la conoscenza; la vitalità affettiva ne sa-rebbe mortificata.

La questione è d’integrare la riflessione nell’esperienza affettiva, senza impoverirla o deformarla. In primo luogo, l’analisi critica deve essere dosata: l’eccesso può produrre ipervigilanza, l’incapacità di “la-sciarsi andare”; mentre il difetto può portare alla carenza di autocon-trollo, all’impulsività. In secondo luogo, l’esame razionale deve essere opportunamente situato: quando la corrente emozionale scorre fluida-mente, la riflessione pare inessenziale; viceversa, quando si producono turbamenti eccessivi, che creano disagio, è il momento di promuovere la riflessione, per evitare il predominio di pensieri irragionevoli. Quest’ul-tima considerazione vale in particolare se il disagio non si estingue ra-pidamente, ma continua a tormentare il soggetto.

Per chiarire, è opportuno distinguere tra emozioni “appropriate” o “sane”, sia positive che negative, e “inappropriate” o “tossiche”, di norma negative ed eccessive e spesso prolungate. Le emozioni “sane”, pure quando sono spiacevoli, ci informano sul nostro modo di sentire e ci aiutano a decidere come agire. Le emozioni inappropriate, invece, tendono a determinare un malessere interiore prolungato.

Questa distinzione tra emozioni sane ed insane può essere connessa a quella tra esperienze educative e diseducative. Secondo il principio

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deweyano della continuità dell’esperienza, ogni esperienza è influenza-ta da quelle precedenti e condiziona quelle successive. Una esperienza è educativa se dilata ed arricchisce le possibilità e la qualità delle esperienze successive, mentre è diseducativa se le restringe e le impoverisce. In base a questo, una esperienza emotiva “sana”, positiva o negativa, è educativa poiché tende a migliorare la qualità delle esperienze che seguiranno (per-mette di conoscersi più profondamente, affina la capacità di calibrare la relazione con l’altro ecc.). Viceversa, un’esperienza emotiva “tossica” è diseducativa, perché tende a impoverire le esperienze successive: a bloc-care il rapporto con se stessi nella forma di una ruminazione sui propri malesseri, ad ostacolare la crescita della relazione con gli altri ecc.

Educare alla ragione significa, pertanto, cercare di promuovere espe-rienze emotive sane, lasciando loro libero corso, e favorire una rifles-sione critica su quelle “tossiche”, che se lasciate a se stesse potrebbero avere effetti diseducativi.

La finalità generale inerente a questa direzione educativa consiste perciò nell’espansione dell’esperienza emotiva e nella promozione del-la vitalità affettiva in forme integrate con la ragione. Sul piano persona-le, tale finalità può essere articolata nella capacità di vivere le proprie emozioni nella loro immediatezza; nel riconoscere le proprie emozioni nel comprenderne il grado di ragionevolezza; nella capacità di riflettere criticamente sulle proprie emozioni. Sul piano interpersonale, invece, comporta: la capacità d’autenticità nel rapporto con l’altro; comprende-re le sue emozioni, saperne ragionare con disponibilità ecc.

Per essere maggiormente concreti, trasferiamo il discorso all’educa-zione affettiva nella scuola.

Come istituzione educativa “formale”, la scuola ha una duplice fina-lità: l’istruzione – che attiene alla formazione intellettuale mediata dai saperi – e la socializzazione, che riguarda invece l’educazione sociale ed affettiva. La scuola cerca di realizzare queste finalità attraverso il pro-prio percorso formativo, il cui disegno complessivo è detto curricolo.

Altrove, abbiamo proposto una distinzione tra curricolo di primo or-dine e curricolo di secondo ordine. Il curricolo 1 è basato sull’apprendi-mento di conoscenze e abilità, per lo più legate ai saperi disciplinari, ma anche di tipo trasversale; il curricolo 2 riguarda invece la strutturazione di abiti mentali, che contraddistinguono il funzionamento cognitivo di un soggetto. Il primo concerne acquisizioni dirette e di breve-medio termine; il secondo è relativo ad apprendimenti collaterali, di natura indiretta, che si compiono nel medio-lungo termine. Il curricolo 1 è

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l’oggetto diretto del lavoro scolastico; il curricolo 2 è un prodotto col-laterale delle pratiche formative attuate in funzione del curricolo 1. A livello del primo si possono formulare veri e propri obiettivi formativi specifici; per il secondo è invece più appropriato il riferimento a finali-tà educative generali. Si deve inoltre precisare che rispetto al dominio cognitivo in senso stretto gli abiti mentali sviluppati dal curricolo 2 riguardano le formae mentis (la mentalità da matematico, da storico ecc.) o gli stili cognitivi; relativamente al dominio emotivo concerno-no invece quelle che siamo soliti denominare come qualità personali o tratti di carattere: l’essere riflessivi o impulsivi, flemmatici o irascibili, ragionevoli o dissennati, coraggiosi o pavidi ecc.

Questa distinzione, a rigore, non coincide con quella tra curricolo esplicito – consapevole e intenzionale – e curricolo implicito, solo par-zialmente o scarsamente tale. Da un punto di vista logico, niente vieta che certi elementi del curricolo 1 restino in una dimensione implicita, e che alcuni aspetti del curricolo 2 siano tematizzati in forma esplici-ta, che ci si proponga cioè intenzionalmente di strutturare certi abiti mentali. Tuttavia, da un punto di vista empirico, il curricolo 1 tenderà maggiormente ad essere esplicito, mentre il curricolo 2 a rimanere in una dimensione prevalentemente implicita.

La distinzione proposta non corrisponde neppure a quella tra dominio cognitivo in senso stretto e dominio emotivo. A rigore, si hanno appren-dimenti di primo e di secondo ordine tanto in ambito cognitivo quanto in campo affettivo. Perciò, si possono distinguere due livelli della forma-zione affettiva. Il primo è relativo all’acquisizione di abilità emozionali quali: comprendere i propri stati d’animo e quelli degli altri, esprimere i propri sentimenti, controllare le proprie reazioni emotive, saper influ-ire sulle proprie emozioni e su quelle altrui ecc. Il secondo riguarda lo sviluppo di abiti emozionali che si strutturano parallelamente ad altre esperienze di primo livello (cognitive o emotive); si acquisiscono cioè determinati tratti di carattere o qualità personali, tra le quali si deve col-locare anche l’atteggiamento riflessivo verso le proprie emozioni. Que-sti due livelli sono tra loro collegati: se certe esperienze stimolano la formazione di date abilità emozionali, la reiterazione sistematica di tali esperienze, a lungo andare, tenderà a strutturare abiti durevoli.

Nel caso dell’educazione affettiva, e particolarmente in ambito scolastico, non sarebbe però appropriato legare il primo livello a una dimensione diretta e il secondo livello a quella indiretta. La scuola, pur avendo una duplice finalità di istruzione e di socializzazione, ha

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un compito formativo specifico che attiene all’istruzione e all’educa-zione intellettuale. La socializzazione si compie nell’ambito dell’intero sistema formativo, sia nelle agenzie non formali (la famiglia, l’associa-zionismo ecc.) sia in quelle informali (il gruppo dei pari, i vari contesti sociali ecc.). Ciò non toglie che la scuola debba fare la propria parte anche relativamente alla socializzazione e, dunque, all’educazione af-fettiva, anzi, come si è detto, un’educazione alla ragione è realizzabile solo nel quadro di un’integrazione tra la dimensione cognitiva e quella emozionale. Data la specificità della scuola nella formazione intellet-tuale, in questa sede la dimensione emotiva tende ad accompagnare le attività d’istruzione, ponendosi come un loro ingrediente; di conse-guenza, l’educazione affettiva è incline a svolgersi complessivamente in forme indirette e collaterali all’istruzione. In altri termini, a scuola è l’istruzione che è educativa, sia tramite il suo contenuto, sia attraverso le sue forme organizzative e didattiche (che hanno implicazioni connes-se all’educazione affettiva, e non solo). Per fare un esempio banale, è la stessa attività dello studio a richiedere una “disciplina del carattere”, che si deve plasmare secondo i tratti della volontà, perseveranza, rigore, sistematicità ecc. (tutte qualità che non potrebbero essere classificate meramente né come intellettuali, né etico-affettive); per cui la forma-zione del carattere non si attua, per così dire, “a vuoto”, consumandosi in forme moralistiche e predicatorie, ma scaturisce da un’esigenza in-terna allo studio e si compie nello studio stesso.

Questo non significa che l’educazione affettiva scolastica si debba necessariamente collocare nella dimensione del curricolo implicito, es-sere rimessa alle consuetudini scolastiche e ai comportamenti “istinti-vi” dei docenti. Vuol dire, invece, che la sua intenzionalità si manifesta in termini di finalità educative generali, più che di obiettivi formativi specifici. Le finalità esprimono preoccupazioni educative che devono informare costantemente l’agire scolastico (anche quando è diretto ad obiettivi d’istruzione), e hanno perciò il valore di criteri educativi ge-nerali a cui ispirarsi, indipendentemente dal traguardo specifico che si persegue in un certo momento. Perciò, anche se l’attività scolastica sarà di norma indirizzata al raggiungimento di specifici obiettivi d’istruzio-ne, essa sarà nondimeno guidata anche da finalità educative più ampie, sia di natura intellettuale sia affettiva.

Avanziamo inoltre l’ipotesi, argomentata in altra sede, che cerca-re di fissare obiettivi specifici per il campo etico-affettivo rischierebbe di risultare ideologico e manipolatorio; perciò, pensare l’educazione

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affettiva in relazione a finalità generali appare in ogni caso più appro-priato alla sua natura, connessa con le scelte esistenziali del soggetto.

Da un punto di vista progettuale, le finalità educative hanno la funzio-ne di agire da vincoli circa le modalità di raggiungimento degli obiettivi d’istruzione, e da criteri d’organizzazione dei contesti educativi. In altre parole, i modi d’insegnamento e il clima del contesto educativo devono risultare complessivamente coerenti con i significati espressi dalle fina-lità; se si pone una finalità come l’educazione allo spirito democratico, questo dovrà informare costantemente l’attività scolastica: l’insegna-mento e la relazione dovranno essere complessivamente ispirati a signi-ficati democratici. Le cose stanno in maniera analoga se si pone una fina-lità come l’educazione alla ragionevolezza: la riflessività, il buon senso, la pacatezza, dovranno diventare i criteri a cui rifarsi costantemente.

Se le modalità d’istruzione e il suo contesto di svolgimento sono coerenti con le finalità, a lungo andare tenderanno a svilupparsi abiti corrispondenti. L’educazione affettiva scolastica consisterà perciò es-senzialmente in questo: nell’adozione di modalità didattiche e contesti educativi tali da promuovere, a lungo andare, abiti emozionali in linea con un’educazione alla ragione.

Il ragionamento che stiamo sviluppando porta a considerare criti-camente una educazione affettiva scolastica indirizzata verso obiettivi specifici e a cui siano deputati tempi ad hoc. Si tratta dell’ipotesi della cosiddetta “alfabetizzazione emozionale”, affidata a veri e propri corsi specifici collocati in momenti appositi dell’orario scolastico. Si tratta di corsi che mirano a sviluppare le conoscenze e le abilità emozionali del soggetto, facendo “delle emozioni e della vita sociale vere e proprie materie di insegnamento”. Concentrandosi sulla formazione affettiva di primo livello, tale ipotesi perde di vista il sottostante livello dell’ap-prendimento di abiti emozionali, che si svolge in modo collaterale a tutte le attività scolastiche. Proprio per il suo carattere permanente e pervasivo, a lungo andare, questo secondo livello tende ad essere deci-sivo per la formazione di abiti emozionali durevoli.

Nella scuola, l’educazione affettiva tende a risultare annidata nei processi d’istruzione, che rappresentano l’oggetto specifico dell’attività scolastica. Occorre, perciò, cogliere e tematizzare esplicitamente – al-meno nei suoi esiti di lungo termine – questa dimensione emozionale implicita nei percorsi d’istruzione, traducendola in criteri d’organizza-zione dei contesti formativi. È questa la strada per dare efficacia all’e-ducazione affettiva. Collocare l’educazione affettiva nello spazio di un

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corso specifico, di una materia che si aggiunge alle altre materie del curricolo, darebbe luogo con tutta probabilità ad una serie di controin-dicazioni. In primo luogo, distoglierebbe l’attenzione dalla dimensione pervasiva e collaterale dell’affettività, col rischio di sminuirne la cura. Dal momento che l’alfabetizzazione emozionale sarebbe una materia equiparata alle altre, queste sarebbero dispensate dal farsi carico della dimensione affettiva. L’esistenza dei processi affettivi, per altro, non sarebbe per questo soppressa durante le ore delle altre materie; sem-plicemente, sarebbe riassorbita totalmente nella dimensione implicita, affidata al mero “istinto” dei docenti, con evidenti rischi per la qualità dell’educazione affettiva. In secondo luogo, dal momento che l’inse-gnamento di una materia chiama in causa una preparazione specifica, è evidente che – invece di basarsi su un buon senso raffinato in dire-zione pedagogica – si porrebbe la questione di affidare l’alfabetizza-zione emotiva ad uno “specialista”, psicologo o altro, invece che ad un “comune” insegnante. Da qui deriverebbero innegabili rischi di delega allo specialista del problema dell’educazione affettiva, con conseguente deresponsabilizzazione degli altri docenti.

Certamente, si potrebbe sostenere che questi rischi non si devono tradurre necessariamente in realtà: è possibile affiancare un’alfabetiz-zazione emotiva specifica ad una più complessiva attenzione per le di-namiche affettive dell’attività scolastica. Tuttavia, il piano si incline-rebbe verso questi rischi, e sarebbe necessaria una vigilanza costante per scongiurarli. Inoltre, resterebbe in ogni caso il pericolo che l’inse-rimento di questa nuova “materia” possa aumentare la frammentazione del curricolo, sottraendo tempi alle altre discipline.

Senza per questo escludere in modo categorico l’opportunità di per-corsi formativi ad hoc per l’educazione affettiva, laddove la situazione educativa sembra richiederli (progetti per il bullismo, per esempio), il vero problema ci sembra quello di assicurarne una costante cura nell’in-sieme dell’attività scolastica, così da favorire – a lungo andare – la for-mazione di adeguati abiti emozionali. Tale cura non deve andare a detri-mento della qualità dei processi d’istruzione, ma deve radicarsi in que-sti e porsi come un ulteriore fattore di tutela della loro qualità, poiché il disagio affettivo può interferire negativamente con l’acquisizione dei saperi, mentre un atteggiamento positivo verso l’attività scolastica ren-de più probabile l’apprendimento. Questo genere di cura, inoltre, non deve tanto basarsi su teorie psicologiche, ma su un “sano” buon senso raffinato in direzione pedagogica.

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Così concepita, come dimensione formativa collaterale ai processi d’istruzione, l’educazione affettiva scolastica va pensata in relazione tanto al curricolo in senso stretto (i percorsi relativi alle varie discipli-ne), quanto alle forme dell’organizzazione scolastica nel suo comples-so. L’affettività è una dimensione fondamentale della vita personale, averne cura è doveroso. Questa è una delle lezioni di cui dobbiamo essere grati a Bruno.

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Breve fenomenologia della vita emotiva nella prospettiva dell’educazione antonio bellingreri

Nella cultura pedagogica ed educativa più recente è cresciuta la con-sapevolezza di un’angustia, una strettoia, che ha segnato la storia della scuola nell’età moderna e contemporanea e che potremmo chiamare li-mite intellettualistico. Consiste nella presupposizione, assunta come ov-via, che nella crescita educativa della persona la determinante in ultima istanza sia costituita dall’educazione e dalla formazione intellettuale. È indicatore piccolo ma degno d’interesse di questa convinzione il fatto che quasi sempre il termine alfabetizzazione è stato impiegato senza ag-giungere altra specificazione, intendendo, in modo reputato per se stesso evidente, che di apprendimenti e di competenze cognitive debba trattarsi.

L’alfabetizzazione emotiva

Molte cose vanno cambiando nella coscienza comune contempora-nea, muta sensibilmente la percezione che i soggetti hanno di se stessi; in particolare, sembra crescere l’interesse per il vasto universo emotivo, per le sensazioni gli affetti i sentimenti1. È un dato che si registra so-prattutto all’interno di esperienze educative significative e consultando la letteratura pedagogica più avvertita: è avvalorata l’azione formativa che dia spazio alla patosfera, da più parti s’inizia a parlare della neces-sità di una vera e propria alfabetizzazione affettiva2.

Chi ha consuetudine con la storia dell’educazione e della pedagogia sa che non si tratta di una novità, che il tema e i problemi connessi

1 Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2014, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 179-203.

2 Rossi B., Pedagogia degli affetti. Orizzonti culturali e percorsi formativi, Roma-Bari, Laterza, 2002; e Id., Aver cura del cuore. L’educazione del sentire, Roma, Carocci, 2008.

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hanno avuto molto spazio; basti pensare a don Bosco, che parlava dell’educazione come «cosa del cuore» o all’«amor pensoso», suggesti-va definizione che Pestalozzi dava dell’educazione stessa. Qualcosa di nuovo però rispetto al passato oggi si sta verificando: si stanno tentando innovazioni, si sottopongono a verifica pratiche educative in tal senso, si svolge una riflessione critica e sistematica. A tratti appare come uno dei compiti prioritari offerti al nostro tempo, e che chiede di essere as-sunto nelle sue molteplici dimensioni.

Mi propongo qui di svolgere qualche riflessione fenomenologica sulla vita emotiva, sulla sua struttura dunque e sul senso che riveste nell’esistenza del soggetto; onde evidenziare il rilievo che essa assu-me nella prospettiva dell’educazione. Secondo il mio angolo visuale, si tratta di rilievi che interessano innanzitutto l’antropologia pedago-gica, scienza di confine come è noto tra la pedagogia fondamentale e la filosofia della persona. Alla pedagogia fondamentale essa può offrire una chiarificazione critica delle presupposizioni antropologiche che la segnano; mentre dalla filosofia della persona può ricevere un’adeguata «fondazione strutturale»3. Infatti, per l’antropologia pedagogica, da un lato, si tratta di giustificare, ossia rendere evidente l’imprescindibilità di un’educazione «del cuore» per l’educazione integrale della persona; dall’altro lato, di cogliere il significato del «diventar sensibili» per il farsi persona della persona.

Nei paragrafi che seguono l’analisi fenomenologica descrive le emo-zioni come linguaggio originario del corpo; ne mette in evidenza la por-tata referenziale; esplora «l’ordine del cuore» (che implica anche un ca-ratteristico «disordine»), costituito dalle nostre preferenze; rileva infine il ruolo centrale dell’empatia come porta d’accesso nell’universo affetti-vo dell’altro. Noteremo come l’empatia presenti, nella sua struttura, una forza evocatrice, un carattere appellativo che desta la persona dell’em-patizzato a se stesso. Con essa, infine, si rivela un bisogno della persona che subito appare fondamentale, che propongo di denotare bisogno di riconoscimento: bisogno, per essere, d’essere riconosciuti e d’appren-dere a riconoscere. È il bisogno che esprime la verità, se così ci si può esprimere, di tutta la vita emotiva del soggetto: alla radice d’ogni sua manifestazione c’è il desiderio di essere voluti stimati amati, per esistere come persona; fa tutt’uno col desiderio di riconoscere la realtà nella sua proprietà e in seno alla globalità, per abitare umanamente il mondo.

3 Per quanto contenuto in questo periodo, cfr. Bellingreri A., La famiglia come esistenziale. Saggio di antropologia pedagogica, Brescia, La Scuola, 2014, pp. 211-252.

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Anche si tratta di una riflessione ulteriore a quella contenuta in que-sto contributo, noto subito che, tenendo insieme questi rilievi fenome-nologici sulla vita emotiva, conquista spazio gradualmente l’ipotesi in-terpretativa che tutte le stratificazioni della vita emotiva vanno intese come aspetti polimorfi di un desiderio d’essere, in pienezza di vita e di senso, che appare costitutivo per la vita personale. Ora, come in tutte le manifestazioni della vita personale, in ogni singola tensione desiderante emerge e viene a parola una singolare prensione globale dell’essere e dell’esistenza propria del soggetto, la percezione che egli ha del suo modo di abitare il mondo. Ipotesi suggestiva nella prospettiva dell’e-ducazione, che consente di vedere l’alfabetizzazione affettiva come un impegno volto, in primo luogo, a decifrare la configurazione singolare del desiderio/dei desideri; e in secondo luogo, a formare l’orientamen-to affettivo globale della persona come retto sentire: percezione quasi spontanea del nome proprio del desiderio, termine della ricerca singo-lare di felicità e di senso.

La prima traccia

La prima traccia per avviare la nostra riflessione sull’universo emo-tivo è offerta da una fenomenologia dell’incontro interpersonale, il qua-le originariamente si presenta come incontro intercorporale. Un dato appare subito con evidenza: il linguaggio originario col quale il nostro corpo “registra” la presenza di un’altra persona nel proprio mondo è quello delle emozioni. Quando l’altro entra nel nostro campo visivo, il nostro corpo subito si pronuncia con una reazione emotiva favorevo-le (di tipo simpatetico e accogliente) o con una reazione sfavorevole (chiaramente antipatetica e respingente)4.

Se seguiamo il destino di queste reazioni emotive, notiamo che esse, proprio come tali, hanno per lo più vita breve. Possono però appro-fondirsi, acquisire un qualche spessore; e subito ce ne accorgiamo, in primo luogo perché della loro genesi in noi e del loro configurarsi con-quistiamo consapevolezza crescente; in secondo luogo, perché notia-mo che alcune tendono a permanere, saldandosi con altri aspetti della

4 Riferimenti costanti, in questo primo paragrafo, alla fenomenologia della corporeità articolata da Husserl E., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino, Einaudi, 1965, § 41, pp. 551 ss. e § 36, pp. 538 ss.; e da Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione, 1945, Milano, Bompiani, 2005, pp. 144-145.

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nostra vita personale. Si verifica allora che le emozioni acquistano una nuova forma di esistenza, diventano più che emozioni, si trasformano in affetti. Il processo non si è così concluso, perché anche gli affetti – que-ste nostre emozioni che hanno conquistato spazio e tempo – possono avere una storia di sublimazione, dando forza e forma ai sentimenti; accade quando gli affetti diventano motore delle nostre azioni, motivi conduttori e linee guida dei nostri progetti di vita.

Tenendo sempre fermo lo sguardo sullo spunto iniziale, possiamo fare avanzare la nostra analisi. Mettiamo subito tra parentesi convinci-menti che possono presentarsi nel nostro sapere spontaneo, come quelli relativi a una (presunta) superficialità o (mera) soggettività delle emo-zioni; notiamo piuttosto quanto appare: che è proprio questo linguaggio originario del nostro essere persone «in carne ed ossa» a rendere l’im-patto con l’altro non anonimo. Sentire l’altro significa già per se stesso che il nostro incontro è una relazione vivente, capace di legare la nostra vita intra-soggettiva alla vita dell’altro; quanto sembra costituisca la base del dialogo inter-soggettivo5.

Certo, i convincimenti della comprensione spontanea sulle emozioni come conoscenza di superficie e soggettiva una qualche ragione po-trebbero averla; e questo sembra valere in particolare studiando la cosa come si pone oggi, nell’epoca e nelle società della tardo-modernità. Oggi infatti sembra prevalente la considerazione delle emozioni (de-gli affetti e dei sentimenti) quasi esclusivamente per il loro spessore espressivo; esse non avrebbero in buona sostanza nessuna referenza ontologica, non intenderebbero altre realtà oltre le reazioni del soggetto che le patisce e che in tal modo farebbe solo esperienza di sé. Per desi-gnare questo fenomeno, alcuni autori parlano di culto delle emozioni; e, a parere di altri critici, così intese esse diventano solo passioni tristi, opaco senso di indifferenza che ci chiude in noi stessi. Le emozioni vengono allora intese alla stregua di forze che al più il soggetto deve apprendere a gestire, per quanto possa riuscirgli; si presentano come un dato di fatto perentorio e il solo carattere che s’impone è la loro impel-lenza che chiede solo d’essere soddisfatta6.

Se restiamo sul piano di un’analisi fenomenologica, avvertiamo però un limite in questa posizione. Della realtà delle emozioni vien infatti misconosciuto proprio quell’aspetto che pure già si è mostrato in modo

5 Cfr. De Monticelli R., L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Milano, Garzanti, 2003.6 Riferimenti, in questo passaggio, a due testi: Lacroix M., Il culto dell’emozione, Milano, Vita e

Pensiero, 2002; e Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2004.

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evidente con l’avvio della descrizione. Se noi diciamo infatti che le emozioni registrano la presenza dell’altro, percepito «in carne ed ossa», noi subito ne affermiamo il carattere intenzionale: quanto le rende piut-tosto apertura o relazione del soggetto alla realtà che rivela il suo senso.

Costitutivo carattere intenzionale

M. Scheler, come è noto, ha dedicato alcuni saggi a questa proprietà delle emozioni, sostenendone la portata referenziale: come tutti gli atti coscienziali, anche le emozioni sono segnate da intenzionalità, colgono secondo determinate angolature un senso delle persone, delle cose e degli eventi, così esso come si offre7; non è pertanto errato affermare che esse ci portano una conoscenza del reale o che sono oggettive. Con l’avvertenza di chiarire subito che esse presentano una specificità che le differenzia essenzialmente dalla conoscenza razionale e dalla oggettivi-tà dei giudizi teoretici. Le emozioni simpatetiche o antipatetiche infatti si presentano sempre, nella loro struttura propria, come forme di attra-zione o di repulsione: attivate, ad esempio, da un aspetto della realtà personale che ci si fa incontro o anche solo da un evento naturale. Non è pertanto fuori luogo, in ragione di ciò, scrivere che esse devono già da sempre essere forme di amore o di odio; anche se pare chiaro che si trat-ta ancora di forme aurorali, di un amore e di un odio allo stato sorgivo.

Limitiamo in questa sede la nostra analisi alle sole emozioni simpa-tetiche; la notazione appena svolta è del massimo interesse perché ci permette di cogliere meglio quale sia una tale specificità della portata referenziale. Proprio le qualità speciali della simpatia, l’effervescenza e la sua tensione fusionale, possono valere come una sorta di fecondante dell’intelligenza; questa allora, in ragione di ciò, è resa capace di una conoscenza del singolare: ecco, a ben vedere, il termine reale adeguato dell’attrazione e dell’amore. Traluce qui una verità che intuiamo già da subito determinante per la pedagogia fondamentale delle emozioni: è in quanto si ama che si può conoscere un aspetto singolare di una realtà personale8.

7 Cfr. Scheler M., Essenza e forme della simpatia, 1923, Roma, Città Nuova, 1980; e Id., Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, 1927, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1996.

8 Scheler M., Amore e conoscenza, 1915, Brescia, Morcelliana, 2009.

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Notiamo intanto che la veduta di Scheler si differenzia su questo punto da quella del fondatore della fenomenologia, E. Husserl. Per Scheler infatti il «sentire valoriale» ha una struttura intenzionale pro-pria, riconducibile solo per analogia a quella della conoscenza raziona-le; in modo identico ad ogni altra forma di conoscenza, ma insieme se-condo una modalità originale, il sentire coglie una realtà con evidenza: con la precisazione che la realtà intesa è colta come un valore oppure in quanto è buona. Ora, i valori e i beni di una persona sono realtà non riconducibili ad altre, perché sono qualità sempre uniche, singolari ed irriducibili. E poiché con il sentire valoriale si tratta di una forma di conoscenza oggettiva, possiamo concludere che esse portano una qual-che visione dell’essenza; colgono, nella forma dell’immediatezza, una manifestazione della persona, un fenomeno del suo universo originale9.

I valori colti emozionalmente dunque, senza cessare di restare sog-gettivi, sono oggettivi, ché portano in sé notizia di un mondo personale; questo è sempre costituito da un’originale prensione situata del mondo, nella quale viene a parola l’ordine affettivo di una persona. Con una espressione più adeguata al fenomeno, si può anche dire che le emo-zioni non intendono mai un “puro oggetto”: un mondo singolare sfugge alla comprensione della sola intelligenza e della pura ragione; solo un atto d’amore lo intende e grazie alla speciale luce che la stessa efferve-scenza emotiva e la forza fusionale possono portare. Di nuovo, sinte-ticamente, una realtà personale chiede originariamente d’essere amata perché solo a questa condizione può essere anche compresa.

«Ordo amoris»

Cambiamo ora registro e ricordiamo una delle tesi di fondo della psicoanalisi: tutto ciò in cui ci imbattiamo, anche quando siamo distratti o non presenti a noi stessi, proprio tutto lascia una traccia dentro di noi, rimane conficcato in qualche fessura della nostra carne. Probabilmente è questa la ragione per cui A. Manzoni, nei Promessi sposi, parlando del nostro cuore, lo definisce un «guazzabuglio»; pur se, riferendoci a questo immenso contenitore delle nostre esperienze, a ben vedere non

9 Scheler, nella seconda delle opere citate sopra alla nota 7, propone a ragione di definire i valori aggiungendo la qualifica «materiali». Parla infatti di «valori materiali» (e di «beni materiali»); questa dizione serve a denotare il carattere di qualità «contenutisticamente determinate», che è loro propria e che li specifica. Vedi Scheler M., Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, cit., pp. 30-31, 34-37.

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dovrebbe ancora trattarsi del cuore, del centro o motore delle nostre esistenze. In effetti, gli eventi o le persone con le quali c’incontriamo o ci scontriamo, vanno acquistando, volta a volta, un significato partico-larissimo e ciascuno un proprio caratteristico peso specifico, a seconda dell’importanza che ogni soggetto, per il tipo di uomo che è e vuole essere, ad essi conferisce; a seconda appunto di come essi gli “stanno a cuore” o di come ne “tengono” il cuore.

Intanto però, così ragionando, sul cuore appare con una certa eviden-za una verità, che forse già ne permette una prima definizione minima-mente adeguata: questo centro propulsore della vita personale è costi-tuito dai nostri amori, dalle preferenze che precedono e quasi fondano scelte e decisioni. Anche se è pure evidente che tale sequenza, l’ordine degli amori e del cuore, non è poi affatto tale: meglio, è tale solo a condizione di essere anche un disordine. In esso, in effetti, insieme alle cose che affermiamo di amare, vi dimorano altre che diciamo invece di odiare; il nostro cuore alberga nel suo seno gli amori ma anche gli odi. Ecco la verità che va emergendo e s’impone: l’identità della persona che incontriamo nei mondi della nostra vita, il suo volto e il segreto che sembra custodire nel suo sguardo, sono costituiti dall’ordine o, nel senso appena chiarito, dal disordine dei suoi amori10.

Tuttavia, nel momento in cui sembra possiamo venire a capo del cuore, intuendo che forse una porta d’accesso in qualche modo po-tremmo averla trovata, le cose immediatamente riappaiono complicate. Emerge infatti un altro dato, che la cultura diffusa del nostro tempo pare enfatizzi: dei nostri amori e degli odi noi non siamo originaria-mente i soggetti, tanto che forse non sempre possiamo dircene davvero pienamente responsabili. Stiamo ragionando della prensione globale del senso delle nostre esistenze, della percezione del modo con cui noi prendiamo dimora nel mondo; ciascuno appartiene ad una storia, coin-volto in un contesto umano formato da persone e da sistemi valoriali che non ha scelto; da tale contesto ciascuno è piuttosto scelto. Quanto ci consta della realtà così come immediatamente si presenta, è definito nell’orizzonte di una comprensione che ci è data all’interno della situa-zione cui siamo consegnati; si presenta nella forma di una unità di sen-so «passiva», che rende subito complessa quanto chiamiamo la nostra esperienza, un testo di non facile decifrazione.

10 Proprio ordo amoris lo definivano i latini e ogni persona ne presenta sempre uno inconfondibile; rimando principale è il testo di Scheler M., Ordo amoris, Brescia, Morcelliana, 2008.

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Ci è data una qualche conoscenza attendibile di questo puzzle enigma-tico che configura l’ordine e il disordine del nostro cuore? Il problema ci si presenta con una certa gravità e quasi s’impone, se vogliamo applicare la nostra analisi preliminare delle emozioni e del loro statuto referenziale ai mondi dell’educazione. Per assumerlo, mi pare utile ripartire, ancora e di nuovo, dal reperto fenomenologico valso come prima traccia per la riflessione. Le emozioni, lo abbiamo visto, aiutano a percepire con una qualche oggettività gli aspetti singolari delle persone con le quali ci im-battiamo nei mondi della nostra vita; ma quale speciale emozione può avere come termine inteso «questo guazzabuglio del cuore umano»?

L’empatia come virtù

Ho dedicato altre mie ricerche allo studio dell’empatia, emozione sim-patetica fortemente attrattiva, grazie alla quale il semplice incontro con l’altro può diventare esperienza di riconoscimento11. Nel sentire empa-tico, l’altro è percepito ed è tenuto come un altro da sé, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri e i suoi sentimenti non coincidono coi nostri; scorgendolo, anche solo per qualche istante, possiamo intuire che si tratta davvero di un guazzabuglio, fondo senza fondo in ultima istanza insonda-bile. Solo che, accostandoci a lui simpateticamente, amandolo con la vo-lontà di condividerne pensieri e sentimenti, riusciamo a dimorare, anche solo per qualche istante, nel suo mondo: vediamo il mondo come appare dalla sua prospettiva, quasi avessimo parte al suo essere singolare.

Non si tratta – è un dato che emerge dalla fenomenologia dell’empatia nella sua forma autentica – di dote spontanea. Certo il comportamento empatico è dotazione connaturale per ogni soggetto umano; quella che però gli psicologi chiamano empatia «matura», sensibilità affinata a per-cepire l’altro, è l’esito di un processo formativo. Ma l’empatia autentica di cui parla la fenomenologia non è tanto la riuscita di questa opera di for-mazione del soggetto, ne costituisce piuttosto il criterio interno di senso: consente di distinguerne le forme vere e proprie da quelle spurie, grazie ad una riduzione del fenomeno a se stesso e grazie ad una riflessione tra-scendentale sulle condizioni che lo rendono possibile nella sua proprietà.

È veramente interessante allora trovare che la prima di queste con-dizioni è una diposizione contemplante della persona che ci sta di

11 Bellingreri A., Per una pedagogia dell’empatia, Milano, Vita e Pensiero, 2005; e Id., L’empatia come virtù. Senso e metodo del dialogo educativo, Trapani, il Pozzo di Giacobbe, 2013.

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fronte e che per noi è il nostro altro, il tu per l’io. Faccia a faccia con il suo volto, l’empatia non è definita dall’istanza di venire a capace del suo segreto, per riuscire a gestire o controllare il cuore. È definita da un desiderio veritativo, vuole lasciar essere l’altro per quello che è e che vuole essere; ed è attraversata da benevolenza, è carica di ammirazione: quasi lo sguardo empatizzante volesse piuttosto custo-dire quel segreto personale. Con evidenza qui l’attrazione simpate-tica si rivela una forma d’amore; è per questo allora che essa riesce a comprendere qualche cantuccio del cuore dell’empatizzato: quasi divinando che le porte e le finestre di una tale dimora possano aprirsi solo dall’interno, e che questo bisogna saperlo chiedere, forse un po’ anche meritarselo12.

Col linguaggio di Scheler, la si può definire figura etica della simpa-tia: l’intenzionalità che la segna è voler ri-vivere il vissuto dell’altro per poterlo condividere; non ci sono altri fini, non è per desiderio di posses-so o tentativo di dominio. Insisterei però nell’impiegare in proposito il termine amore per intendere questa sua speciale attenzione rivolta alla persona, per la ragione che l’altro è percepito ed appare semplicemente per il suo essere-persona: l’altro vale per il solo fatto di essere e di esse-re un volto o un’effige dell’essere, senza altre condizioni. Il suo essere una persona fa dell’altro un fine in sé, rivelandone il destino buono: per quello che la persona è e per quello che può essere, quando s’impegna a diventare se stessa.

L’empatia infine ha questa qualità speciale: essa vede l’altro come un altro; ma riesce in ciò vedendo anche quanto lui stesso di sé mai riuscirebbe a vedere: il punto zero o asse della sua prospettiva, dunque la sua stessa visione, l’angolatura singolare che la definisce e la ren-de situata13. È l’aspetto forse più interessante, veramente nuovo che emerge da questa riflessione fenomenologica: pur segnata dall’istanza d’immedesimazione, la coscienza empatica non riesce mai semplice-mente a vedere l’altro solo per quello che è concretamente, senza insie-me scorgerne altri profili dati nel rinvio, quasi delle sporgenze o delle eccedenze, rispetto a quanto dell’altro attualmente s’offre ed è inteso.

12 Bellingreri A., L’empatia come virtù. Senso e metodo del dialogo educativo, cit., pp. 123-140.13 Cfr. Melchiorre V., Metacritica dell’eros, Milano, Vita e Pensiero, 1977; e Id., Corpo e persona,

Genova, Marietti, 1987.

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Il destarsi della coscienza

L’analisi trascendentale dell’empatia autentica non sarebbe però completa se ne definissimo solo le intenzionalità dianoetica ed etica, se ne parlassimo solo come disposizione contemplante e attitudine morale. Emerge infatti e si presenta alla descrizione un’intenzionalità ulteriore che subito appare quella fondamentale; ho proposto di denotarla inten-zionalità dialogale in senso eminente, è quella che fa dell’empatia una virtù spirituale14. In effetti, come atto d’amore e di conoscenza, essa desta la coscienza personale dell’altro, del soggetto empatizzato; questi trova accanto a sé, e in qualche modo dentro di sé, una persona che sta facendo esperienza della sua stessa esperienza di vita, che ri-vive il suo vissuto. Tra l’empatizzante e l’empatizzato si tratta di condivisione; ma è questione anche, lo abbiamo appena visto, di una nuova conoscenza che chi scopre d’essere amato e conosciuto acquisisce di sé. Può essere, per lui, nell’itinerario della scoperta di sé, una nuova tappa; così come può darsi sia una novità in qualche modo assoluta.

In entrambi i casi, comunque, a veder bene la cosa, per il soggetto empatizzato un tale riconoscimento personale s’offre alla stregua di un dono; diventa chiaro e s’impone con evidenza il fatto che questa sua speciale conoscenza di sé in nessun modo può accadere come esito di un processo solitario. Ora, proprio prendendo atto con gratitudine di quanto riceve, la coscienza personale dell’empatizzato si può destare come di fronte ad un appello, ad una chiamata: nell’atto stesso in cui si pone come risposta d’amore e di conoscenza all’empatizzante. Nota-zione del massimo interesse: significa che il sé può essere destato solo da un atto d’amore; oppure, ed è lo stesso, è la scoperta e il riconosci-mento che l’originaria declinazione della persona nel suo divenir perso-na è piuttosto un noi, una relazione vivente di un io con un tu.

Nessuno, dunque, perviene a conoscersi se non gli viene portato amore e conoscenza, la coscienza di sé è il dono della relazione ricono-scente; questo è il senso dell’intenzionalità dialogale. Il termine spiri-tuale prima proposto intende e significa una tale realtà essenzialmente ed eminentemente relazionale: dice dell’empatia come di un appello che attiva una risposta, in un dinamismo diadico che fa ritrovare l’altro piuttosto dentro di sé; divenuto a sé intimo, come il primo interlocutore privilegiato del proprio cuore15.

14 Bellingreri A., Pedagogia dell’attenzione, Brescia, La Scuola, 2011, pp. 73-80.15 Ivi, pp. 19-25.

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Il senso di questa analisi fenomenologica del processo di riconosci-mento personale può essere ritrovato ed approfondito, paragonandola ad una riflessione su quanto, nella prospettiva dell’educazione e della pedagogia, viene chiamato un incontro significativo con quella persona che ha il potere di farci amare quanto lei stessa ama. Noi allora diciamo che una tale persona diviene per noi un educatore: la sua presenza e il fascino che emana ci attrae in modo convincente; ora, anche qui, è questione per noi di un appello: l’attenzione personalizzata alla nostra persona ha la forza evocatrice di una chiamata. Per noi questo amore può valere quale causa finale16, attiva e sostiene la coscienza la quale, di fronte ad essa si sente e si sceglie come responsabile.

Di nuovo, è l’atto che coincide col sorgere stesso della coscienza, col suo istituirsi; ed è una novità, d’essere e di senso. La coscienza si desta a se stessa quando sceglie, con consapevolezza e con libertà, un ordine di cose che non ha semplicemente trovato o al quale è stata già da sempre consegnata. Il soggetto va oltre la situazione data, edificando un mondo personale del quale si percepisce ora attore e in quale modo – nel modo della responsabilità – autore. È della massima importanza notare che con questo momento sorgivo si tratta per il soggetto di un atto che ha il potere di mutarlo quasi nella sua sostanza. Proporrei di chiamarlo evento o avvenimento dell’esistenza personale: trattandosi dell’atto libero e consapevole di sé che edifica o impianta la persona. E va osservato anche che si attivano così nel soggetto le sue forze più potenti, quelle che lo rendono capace di realizzare da sé il progetto di vita che egli liberamente elabora e sceglie17.

Il bisogno di riconoscimento

Dalla riflessione sull’empatia, sull’amore necessario perché il mon-do dell’altro e le sue stanze si dischiudano alle persone che lo incontra-no e vogliono così riconoscerlo, emerge con evidenza una verità della vita emotiva, che si mostra essenziale per intendere l’essere e l’esisten-za personale. La si può formulare dicendo che con la comprensione em-patica si rivela uno speciale bisogno del soggetto; e ciò accade proprio mentre ad esso si sta cercando, più o meno consapevolmente, di portare

16 Termine impiegato da Corallo G., Pedagogia. I: L’educazione. Problemi di pedagogia generale, Torino, SEI, 1960.

17 Cfr. Bellingreri A., Pedagogia dell’attenzione, cit., pp. 137-144.

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una qualche risposta. È bisogno d’amore e di conoscenza, segnato dalla certezza che solo col suo soddisfacimento si possa uscire dalla propria solitudine e da una certa irrealtà che segnerebbe altrimenti l’esistenza del singolo. Ho proposto di denotarlo con la dizione bisogno di ricono-scimento, a significare subito che di questo in ultima istanza si tratta; e che se ne può venire a capo in una relazione di reciprocità e di riflessi-vità, di massima presenza a se stessi dei soggetti coinvolti18.

Una traccia molto utile per la sua descrizione fenomenologica viene dalla psicologia dello sviluppo applicata allo studio del bisogno di ac-cudimento, bisogno originario nella costituzione psichica del soggetto. La qualità dell’accudimento di una madre e, accanto a lei, del padre è la condizione che rende possibile nel bambino una maturazione emo-tiva equilibrata; le ricerche empiriche evidenziano l’influenza che una relazione di qualità ha sulla crescita fisica; sulla maturazione culturale come ricerca e conferimento di senso all’esistenza; sulla creazione di un universo personale ricco e significativo19.

Ora, ecco il nodo di questo aspetto della vita personale: l’originario nella costituzione psichica del soggetto aiuta a cogliere e ad esplicita-re una dimensione essenziale nell’esistenza personale. Quanto dunque, col linguaggio proprio della psicologia e sul piano dello sviluppo psi-chico, denotiamo accudimento empatico, rivela una struttura essenziale dell’esistenza: col linguaggio dell’antropologia pedagogica e sul piano educativo che riguarda il divenir persona della persona, possiamo chia-marla riconoscimento personale. È un’affermazione che compendia ed esprime la verità semplice che la persona, per esistere come persona, ha bisogno, da un lato, di essere riconosciuta nell’essere; e, dall’altro lato, di riconoscere l’essere20.

Una riflessione su quei fenomeni educativi la cui positività assiolo-gica ed etica percepiamo già con una certa nettezza a livello di sapere spontaneo, permette d’intendere il senso di questa affermazione antro-pologica fondamentale. Le buone pratiche infatti, le azioni educative efficaci, implicano, in primo luogo, un’accoglienza e una stima della persona con la quale si è coinvolti in una relazione che per ciò stesso si

18 Cfr. Bellingreri A., La cura dell’anima. Profili di una pedagogia del sé, Milano, Vita e Pensiero, 2010, pp. 49-94.

19 Cfr. Weil J.L., Early Deprivation of Empathic Care, Madison/Co, International Universities Press, 1992, pp. IX-XIII. Rimando qui anche a due volumi divenuti dei classici su questo tema: Bowlby J., Attaccamento e perdita. I: L’attaccamento alla madre, Torino, Bollati Boringhieri, 1989; Kohut H., La ricerca del sé, Torino, Bollati Boringhieri, 1982.

20 Cfr. Bellingreri A., La cura dell’anima. Profili di una pedagogia del sé, cit., pp. 90ss.

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rivela viva e significativa. Possiamo definire questo aspetto della realtà che stiamo analizzando il lato affettivo o relazionale del riconoscimento personale; la tesi che propongo è che si tratta di un bisogno fondamen-tale della persona: bisogno di essere voluti, accolti, stimati, amati, ma anche – è giusto aggiungere questa precisazione – abbracciati e baciati.

C’è però un secondo significato secondo il quale va articolata que-sta categoria; proporrei di chiamarlo lato etico o culturale del bisogno di riconoscimento. Mentre il primo, l’essere riconosciuti nell’essere, appare all’inizio un significato passivo; quest’altro sin dall’origine si mostra come lato attivo: riconoscere l’essere e introdursi nella realtà, la quale per il soggetto è soprattutto una realtà umana nella storia, un de-terminato universo simbolico al quale sin da sempre si ha parte. Il lato affettivo del bisogno di riconoscimento può essere anche definito biso-gno di intimità; questo secondo va definito invece bisogno di dignità: riconoscere la realtà significa infatti cogliere il senso di quanto ci viene incontro e trovare per esso una configurazione adeguata: apprendere a leggere il grande libro del mondo, attraverso la conoscenza l’esplora-zione la progettazione.

È preferibile qui impiegare il termine bisogno, per significarne il ca-rattere d’impellenza: se esso non viene soddisfatto ne va della persona stessa – del divenir persona della persona; questa in qualche modo vie-ne a mancare a se stessa o comunque è segnata da caratteristiche ferite che configurano un vero e proprio danno antropologico per il soggetto. Così come mi pare sia corretto parlarne come di bisogno fondamentale, perché si tratta di un’istanza che sta alla base di altri aspetti della vita della persona21. Ora risulta evidente che il riempimento intuitivo del bisogno di riconoscimento non è solo nell’accudimento empatico della nostra infanzia. È la persona come tale che, per un verso, ha bisogno di essere riconosciuta nell’essere: di essere accolta perché la sua presenza è un dono unico; e che, per un altro verso, ha bisogno di riconoscere l’essere: perché è custode e in qualche modo fonte del senso.

Bisogno educativo dunque e bisogno di riconoscimento coincido-no e noi descriviamo in modo idoneo i fenomeni educativi se teniamo insieme tutti e due i lati qui distinti. È una prospettiva pedagogica che consente di definire l’educazione come un’esigenza iscritta nell’onto-logia stessa della persona: la coscienza di essere segnati dal bisogno d’amore e di conoscenza è parte essenziale dell’esser persona della

21 Riferimento a Nuttin J., Psicanalisi e personalità, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1995.

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persona, è la radice delle sue capacità d’amare e di conferire significato alla realtà. Si tratta poi, a mio modo di vedere, di una concezione par-ticolarmente attuale, permette di fare una diagnosi adeguata delle feri-te educative che pare segnino i giovani «all’inizio del nuovo secolo». L’«ipossigenazione emotiva» e il grave «disorientamento esistenziale e culturale», sino a quell’opaco senso d’indifferenza, intendono da un lato le ferite del cuore, dall’altro quelle dell’intelligenza: un vero e pro-prio danno antropologico che la persona può ricevere in ragione di una concezione distorta dell’educazione o di un suo sostanziale deficit22.

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22 Le metafore sono presenti nel testo di Kohut H., La guarigione del sé, Torino, Bollati Boringhieri, 1980. Ho presenti qui le ultime indagini psico-sociali dell’istituto IARD: Buzzi C., Cavalli A., De Lillo A., a cura di, Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, il Mulino, 2002; e Id., a cura di, Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, il Mulino, 2007.

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