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ECOSCIENZA Numero 6 • Anno 2017 EDITORIALE 3 U na delle nuove frontiere della conoscenza in campo ambientale riguarda i contaminanti emergenti, un tema complesso e di grande attualità. Le Agenzie ambientali, su questo come su altri temi problematici, sono in una posizione impegnativa e non propriamente “comoda”: alla conoscenza dei fenomeni devono affiancare aspetti di gestione operativa per dare risposte concrete, immediate e operative. Nel farlo è necessario usare un linguaggio comprensibile a tutti, considerando che spesso si tocca una sfera molto sensibile, quella della vita, della sicurezza e della salute, anche delle generazioni future. L’uso di un linguaggio capace di arrivare a tutti è una delle priorità del sistema delle Agenzie, in particolare quando parliamo di “ambiente e salute”, quando può sussistere il rischio che approcci differenti possano creare aree di incomprensione, che non aiutano la definizione di misure efficaci regolatorie e di intervento, contribuendo ad alimentare la sfiducia e minando l’autorevolezza della scienza. Si tratta di un percorso su cui il Sistema nazionale di protezione ambientale (Snpa) è chiamato a dare un contributo sfidante. Noi analizziamo e quantifichiamo, con l’attività di prelievo e analisi, la presenza nell’ambiente di presunti contaminanti. Occorre però ragionare, anche in termini di comunicazione, su cosa significa rilevare la presenza di sostanze “in tracce” e cosa significa classificarle come realmente “contaminanti”; occorre discutere al nostro interno, per poter essere chiari e credibili verso il pubblico esterno, su cosa significhi trovare e individuare certi composti e cosa significhi trovare concentrazioni delle stesse sostanze oltre la soglia definita da un limite di legge al quale le Agenzie devono evidentemente fare riferimento. I valori limite e di soglia individuati in Europa sono valori di “concentrazione”, non necessariamente di “contaminazione”, da sempre finalizzati alla protezione dell’ambiente e alla tutela della salute in base al “principio di precauzione”; gli elenchi di sostanze prioritarie da analizzare e i relativi valori limite, sono condivisi sulla base di rigorose procedure e i programmi di monitoraggio che le Agenzie effettuano sono fondati su tali principi. Su questi aspetti abbiamo bisogno di una comunicazione chiara e unitaria. Abbiamo bisogno di essere chiari sul significato di “presenza” di sostanze, di “tracce”, di limiti legali, di soglie, di meccanismi dose-effetto, di quale strategia e quale background scientifico ci sia alla base della definizione dei limiti previsti dalle direttive europee e dalle norme in generale. La definizione dei valori “limiti di soglia” ha alle spalle un approccio strategico di “valutazione e gestione del rischio”. Un esempio riguarda la qualità dell’aria. Il riferimento è ai “valori guida” riportati dall’Oms, che sono molto inferiori rispetto ai limiti previsti dalla direttiva europea sulla qualità dell’aria. Se si valutano gli effetti in termini di esposizione al rischio della popolazione europea in funzione di quei valori, i risultati sono significativamente diversi. In mancanza di una comunicazione efficace, è chiaro come diventi sostanzialmente impossibile argomentare che i valori dell’Oms sono di “indirizzo” mentre quelli della Commissione europea sono limiti legali: sotto i riflettori dei media l’effetto è quello di diventare “cattiva notizia”, a prescindere da ciò che sta dietro quei valori. Lo stesso vale per il tema della classificazione delle sostanze. La classificazione di pericolosità in “cancerogeno”, “genotossico” o “distruttore endocrino”, ad esempio – avviene attraverso procedure rigide e scientificamente robuste sulle quali l’Europa è particolarmente solida. La classificazione non può basarsi su una o poche pubblicazioni scientifiche, ma necessita di rigorose procedure. Questo è il perimetro entro il quale noi possiamo esercitare il nostro ruolo. Senza queste premesse, tutte le informazioni, anche pubblicate su riviste peer-reviewed, sono un utile strumento per il progresso scientifico e conoscitivo, ma non per trarne conclusioni utili a supportare decisioni regolatorie. Tutte le componenti del Snpa – la ricerca e la gestione operativa, il settore ambientale e quello della salute – devono dunque “sintonizzarsi” per comunicare meglio al proprio intero e all’esterno. Altrimenti l’effetto non può che essere quello della mamma no-Pfas che, con grande risonanza sui media nazionali, afferma “per noi il limite ai veleni deve essere zero, non zero virgola”. Una posizione emotivamente e umanamente condivisibile, originatasi perché manca una corretta ed efficace informazione, manca la sicurezza e la certezza circa i reali effetti e le dosi/esposizioni a cui questi effetti si manifestano e come possano essere impostate strategie efficaci per gestire il rischio legato a quelle sostanze. Se anche per noi è importante tendere a quell’obiettivo, va evidenziato che occorre definire una gestione della situazione esistente e del periodo transitorio. È dunque importante sviluppare una migliore conoscenza per definire, interpretare e comunicare i limiti e le soglie, l’esposizione, il rapporto dose-effetto. È importante ragionare in termini di gestione del rischio, per affrontare i problemi esistenti con un approccio serio e responsabile. Ed è indispensabile porre la prevenzione, come Snpa sta già facendo, come priorità nella propria strategia d’azione. Se è vero che il regolamento europeo sulla commercializzazione delle sostanze pericolose (Reach) funziona, molto meno sappiamo delle vie di degradazione e di permanenza nell’ambiente delle nuove molecole. Dunque, per non immettere prodotti che contengano sostanze pericolose sul mercato, la priorità è la prevenzione. Va rafforzata la capacità di valutazione ex ante e di tutto il percorso delle sostanze immesse nell’ambiente e vanno potenziate le nostre competenze nello sviluppo di metodologie di valutazione integrata di impatto sull’ambiente e sulla salute. Giuseppe Bortone • Direttore generale Arpae Emilia-Romagna CONOSCENZA, GESTIONE DEL RISCHIO, PREVENZIONE

ECOSCIENZA Numero 6 • Anno 2017 CONOSCENZA, GESTIONE … · DELLE STRUTTURE SANITARIE E AMBIENTALI. TRA GLI AMBITI PRIORITARI: LA FORMAZIONE, LA COMUNICAZIONE DEL RISCHIO, LA VALUTAZIONE

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Una delle nuove frontiere della conoscenza in campo ambientale riguarda i contaminanti

emergenti, un tema complesso e di grande attualità. Le Agenzie ambientali, su questo come su altri temi problematici, sono in una posizione impegnativa e non propriamente “comoda”: alla conoscenza dei fenomeni devono affiancare aspetti di gestione operativa per dare risposte concrete, immediate e operative. Nel farlo è necessario usare un linguaggio comprensibile a tutti, considerando che spesso si tocca una sfera molto sensibile, quella della vita, della sicurezza e della salute, anche delle generazioni future.L’uso di un linguaggio capace di arrivare a tutti è una delle priorità del sistema delle Agenzie, in particolare quando parliamo di “ambiente e salute”, quando può sussistere il rischio che approcci differenti possano creare aree di incomprensione, che non aiutano la definizione di misure efficaci regolatorie e di intervento, contribuendo ad alimentare la sfiducia e minando l’autorevolezza della scienza. Si tratta di un percorso su cui il Sistema nazionale di protezione ambientale (Snpa) è chiamato a dare un contributo sfidante.Noi analizziamo e quantifichiamo, con l’attività di prelievo e analisi, la presenza nell’ambiente di presunti contaminanti. Occorre però ragionare, anche in termini di comunicazione, su cosa significa rilevare la presenza di sostanze “in tracce” e cosa significa classificarle come realmente “contaminanti”; occorre discutere al nostro interno, per poter essere chiari e credibili verso il pubblico esterno, su cosa significhi trovare e individuare certi composti e cosa significhi trovare concentrazioni delle stesse sostanze oltre la soglia definita da un limite di legge al quale le Agenzie devono evidentemente fare riferimento.

I valori limite e di soglia individuati in Europa sono valori di “concentrazione”, non necessariamente di “contaminazione”, da sempre finalizzati alla protezione dell’ambiente e alla tutela della salute in base al “principio

di precauzione”; gli elenchi di sostanze prioritarie da analizzare e i relativi valori limite, sono condivisi sulla base di rigorose procedure e i programmi di monitoraggio che le Agenzie effettuano sono fondati su tali principi.Su questi aspetti abbiamo bisogno di una comunicazione chiara e unitaria. Abbiamo bisogno di essere chiari sul significato di “presenza” di sostanze, di “tracce”, di limiti legali, di soglie, di meccanismi dose-effetto, di quale strategia e quale background scientifico ci sia alla base della definizione dei limiti previsti dalle direttive europee e dalle norme in generale.

La definizione dei valori “limiti di soglia” ha alle spalle un approccio strategico di “valutazione e gestione del rischio”. Un esempio riguarda la qualità dell’aria. Il riferimento è ai “valori guida” riportati dall’Oms, che sono molto inferiori rispetto ai limiti previsti dalla direttiva europea sulla qualità dell’aria. Se si valutano gli effetti in termini di esposizione al rischio della popolazione europea in funzione di quei valori, i risultati sono significativamente diversi. In mancanza di una comunicazione efficace, è chiaro come diventi sostanzialmente impossibile argomentare che i valori dell’Oms sono di “indirizzo” mentre quelli della Commissione europea sono limiti legali: sotto i riflettori dei media l’effetto è quello di diventare “cattiva notizia”, a prescindere da ciò che sta dietro quei valori.Lo stesso vale per il tema della classificazione delle sostanze. La classificazione di pericolosità – in “cancerogeno”, “genotossico” o “distruttore endocrino”, ad esempio – avviene attraverso procedure rigide e scientificamente robuste sulle quali l’Europa è particolarmente solida. La classificazione non può basarsi su una o poche pubblicazioni scientifiche, ma necessita di rigorose procedure. Questo è il perimetro entro il quale noi possiamo esercitare il nostro ruolo. Senza queste premesse, tutte le informazioni, anche pubblicate su riviste peer-reviewed, sono

un utile strumento per il progresso scientifico e conoscitivo, ma non per trarne conclusioni utili a supportare decisioni regolatorie.Tutte le componenti del Snpa – la ricerca e la gestione operativa, il settore ambientale e quello della salute – devono dunque “sintonizzarsi” per comunicare meglio al proprio intero e all’esterno. Altrimenti l’effetto non può che essere quello della mamma no-Pfas che, con grande risonanza sui media nazionali, afferma “per noi il limite ai veleni deve essere zero, non zero virgola”. Una posizione emotivamente e umanamente condivisibile, originatasi perché manca una corretta ed efficace informazione, manca la sicurezza e la certezza circa i reali effetti e le dosi/esposizioni a cui questi effetti si manifestano e come possano essere impostate strategie efficaci per gestire il rischio legato a quelle sostanze. Se anche per noi è importante tendere a quell’obiettivo, va evidenziato che occorre definire una gestione della situazione esistente e del periodo transitorio.

È dunque importante sviluppare una migliore conoscenza per definire, interpretare e comunicare i limiti e le soglie, l’esposizione, il rapporto dose-effetto. È importante ragionare in termini di gestione del rischio, per affrontare i problemi esistenti con un approccio serio e responsabile. Ed è indispensabile porre la prevenzione, come Snpa sta già facendo, come priorità nella propria strategia d’azione. Se è vero che il regolamento europeo sulla commercializzazione delle sostanze pericolose (Reach) funziona, molto meno sappiamo delle vie di degradazione e di permanenza nell’ambiente delle nuove molecole. Dunque, per non immettere prodotti che contengano sostanze pericolose sul mercato, la priorità è la prevenzione. Va rafforzata la capacità di valutazione ex ante e di tutto il percorso delle sostanze immesse nell’ambiente e vanno potenziate le nostre competenze nello sviluppo di metodologie di valutazione integrata di impatto sull’ambiente e sulla salute.

Giuseppe Bortone • Direttore generale Arpae Emilia-Romagna

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Il Piano nazionale della prevenzione 2015/2018 prevede di “ridurre le esposizioni

ambientali potenzialmente dannose per la salute” attraverso la “costruzione di una strategia nazionale per il coordinamento e l ’integrazione delle politiche e delle azioni nazionali e regionali in campo ambientale e sanitario”. Sempre più complesse sono le emergenze che implicano il coinvolgimento di competenze multidisciplinari e multi-professionali, anche nel campo della comunicazione dei rischi ambientali e sanitari.

Diverse sono le iniziative in corso di realizzazione che prendono le mosse dalle indicazioni del Piano; tra queste il progetto EpiAmbNet che, attraverso la Rete nazionale di epidemiologia ambientale, promuove il potenziamentoe la standardizzazione delle esperienze virtuose disponibili sul territorio nazionale, inserendole in modo organico nel contesto istituzionale delle attività del sistema ambientale e della salute. La Rete EpiAmbNet

coinvolge Aziende sanitarie e Agenzie ambientali – tra queste Arpae Emilia-Romagna – nella realizzazione di iniziative congiunte per lo scambio delle esperienze e l’integrazione dei saperi. Il primo incontro nazionale si è svolto a Bologna lo scorso novembre; nelle pagine che seguono i contributi di alcuni relatori illustrano gli strumenti operativi utili a realizzare gli obiettivi di integrazione previsti dal Piano nazionale della prevenzione.

L’individuazione dei contaminanti emergenti – che derivano da sempre nuove sostanze immesse sul mercato – e le attività operative connesse alla loro rimozione impegnano sempre di più il Sistema nazionale di protezione dell’ambiente, costituito da Ispra e Agenzie regionali. Una sessione della recente Summer school AssoArpa (Cagliari 27-29 settembre 2017) era dedicata a questi temi in riferimento alle acque di falda. In questo servizio i contributi dei relatori intervenuti. (DR)

AMBIENTE E SALUTE Costruire sinergie per l’integrazione

dei saperi e per azioni più efficaci

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EPIDEMIOLOGIA AMBIENTALE,LA RETE ITALIANA EPIAMBNET

Le esposizioni ambientali sono tra i principali determinanti dello stato di salute e interagiscono, spesso

in modo sinergico, con i determinanti sociali della salute e con gli stili di vita. L’integrazione delle attività tra il settore ambientale e quello sanitario è dunque importante per proteggere la salute dai rischi derivanti dalla contaminazione ambientale e per garantire luoghi abitativi e di lavoro che tutelino la salute dei residenti e dei lavoratori. Le priorità del tema ambiente e salute vanno ricondotte a quanto suggerito dalla Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nei documenti guida e nella elaborazione del Global Burden of Disease (Gbd). In Italia, il Gbd pone l’inquinamento atmosferico tra i principali determinanti della salute per i suoi effetti cardiorespiratori e cancerogeni, e sottolinea l’importanza della contaminazione da radon negli edifici, fattore eziologico per il tumore polmonare.Esiste in Italia una lunga tradizione nella valutazione degli effetti dei fattori ambientali sulla salute che ha coinvolto gli operatori del Sistema sanitario nazionale (Ssn) e del Sistema nazionale a rete per la protezione dell’ambiente (Snpa) e numerosi strumenti sono disponibili per la valutazione: i dati dei

LARETEEPIAMBNET,NATADALPROGETTONAZIONALEOMONIMO,RAFFORZAILRUOLODELL’EPIDEMIOLOGIASUITEMIAMBIENTEESALUTEATTRAVERSOILCOINVOLGIMENTODELLESTRUTTURESANITARIEEAMBIENTALI.TRAGLIAMBITIPRIORITARI:LAFORMAZIONE,LACOMUNICAZIONEDELRISCHIO,LAVALUTAZIONEDIIMPATTOAMBIENTALEESANITARIO.

sistemi informativi sanitari, dei registri nominativi delle cause di morte, dei registri tumori e dei mesoteliomi, di sistemi di sorveglianza nazionali come quello sugli effetti delle ondate di calore, di indagini ad hoc. Esistono inoltre diversi aspetti metodologici innovativi: lo studio di coorte residenziale, l’utilizzo dei sistemi informativi geografici, gli indicatori di posizione socioeconomica di piccola area, metodi di caratterizzazione e diffusione degli inquinanti. Tutti questi elementi hanno permesso e permettono il monitoraggio degli effetti sulla salute dell’esposizione a diverse fonti di inquinanti, con una particolare attenzione alle possibili diseguaglianze di genere e sociali di tali effetti. La produzione è ricca e le iniziative nazionali su questi temi sono numerose. A livello nazionale esistono inoltre esperienze consolidate nell’ambito di progetti nazionali (come i progetti Ccm sull’inquinamento atmosferico Epiair1 e 2, Viias, Sera sul rumore, Sentieri sui siti contaminati, il progetto nazionale per la prevenzione ondate di calore, Sespir sulla gestione rifiuti solidi urbani). L’Italia ha inoltre partecipato a numerose iniziative europee sui temi ambientali (Medparticles, Escape, Phewe, Phase). A riconoscimento dell’iniziativa

italiana sul tema, a settembre 2016 si è svolto a Roma il congresso mondiale della International Society of Environmental Epidemiology (http://www.isee2016roma.org/).

Il nuovo approccio del Piano nazionale di prevenzione

Non si può ignorare tuttavia che sui temi ambiente e salute si registrino ancora numerosi aspetti critici nell’attribuzione delle competenze tra strutture ambientali e sanitarie, una formazione generale su questi aspetti ancora carente ed eterogenea, e differenze interegionali che rendono necessari programmi di azione e di formazione coordinati, coerenti e non settoriali. L’opportunità per lo sviluppo è rappresentata dal Piano nazionale di prevenzione (Pnp) 2014-2018. Il Pnp presenta il macro obiettivo “8 Ambiente e salute” offrendo, per la prima volta, l’occasione del potenziamento e della standardizzazione a livello nazionale delle esperienze virtuose su questo tema già disponibili a livello di alcune regioni, inserendole in modo organico nel contesto istituzionale delle attività del sistema ambientale e della salute.

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Il Pnp si pone l’obiettivo di aumentare le attività intra e inter-istituzionali per la programmazione e la realizzazione di studi e interventi sul tema. Il Pnp individua tre aree sulle quali è opportuna e necessaria un’attività coordinata a guida centrale di tutte le regioni. Esse riguardano i MO 8.2 (“potenziamento della sorveglianza epidemiologica”), MO 8.4 (“sviluppare modelli, relazioni istituzionali per la valutazione degli impatti sulla salute dei fattori inquinanti”) e MO 8.5 (“sviluppare le conoscenze tra gli operatori della sanità e dell ’ambiente”) e M.O. 8.6 (comunicare il rischio in modo strutturato e sistematico) per i quali la maggior parte delle regioni nei propri Prp (Piani regionali di prevenziobne) fa rifermento a indicazioni centrali.

Il progetto EpiAmbNet

“Ambiente e salute nel Pnp 2014-2018: rete nazionale di epidemiologia ambientale, valutazione di impatto integrato sull ’ambiente e salute, formazione e comunicazione (EpiAmbNet)” è un progetto promosso dal Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ccm) del ministero della Salute.In accordo con le linee indicate dal Piano nazionale della prevenzione, EpiAmbNet rafforza il ruolo dell’epidemiologia sui temi ambiente e salute attraverso il coinvolgimento e il lavoro congiunto delle strutture sanitarie e ambientali in Italia. L’aspirazione comune è che il binomio ambiente e salute sia presente in tutte le politiche nazionali e regionali migliorando il monitoraggio degli inquinanti e rafforzando la sorveglianza epidemiologica. Il progetto ha durata biennale (giugno 2016-giugno 2018) e ha l’obiettivo generale di fornire assistenza

al ministero della Salute e alle Regioni per lo sviluppo del macro obiettivo 8 (Ambiente e Salute) del Pnp 2014-2018.Il progetto coinvolge le seguenti istituzioni: Dipartimento Epidemiologia del Lazio, coordinatore dell’intero programma; Azienda ospedaliera universitaria Città della salute e della scienza di Torino (Cpo Piemonte); Dipartimento tematico Epidemiologia e salute ambientale Arpa Piemonte; Direzione tecnica-Ctr Ambiente e salute Arpae Emilia-Romagna; Azienda Usl della Romagna (Regione Emilia-Romagna); Servizio di epidemiologia ambientale Arpa Marche; Istituto per la prevenzione oncologica in Toscana; Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa; Osservatorio epidemiologico della Regione Sicilia; Dipartimento Ambiente e prevenzione primaria e il Reparto Epidemiologia ambientale dell’Istituto superiore di sanità.Il progetto EpiAmbNet rappresenta dunque l’occasione per il potenziamento e la standardizzazione a livello nazionale delle esperienze virtuose già disponibili a livello di alcune regioni, inserendole in

modo organico nel contesto istituzionale delle attività del sistema ambientale e della salute, con l’obiettivo di aumentare le attività intra e inter-istituzionali per la programmazione e la realizzazione di studi e interventi sul tema. Il progetto ha previsto la costituzione di una rete nazionale di epidemiologia ambientale, come discende dall’obiettivo 8.2 del Pnp (“potenziamento della sorveglianza epidemiologica”).

Quattro sono gli strumenti e le attività: - la comunicazione attraverso un sito web dedicato (v. di seguito) insieme a due incontri nazionali (il primo già realizzato a Bologna il 7-8 novembre 2017; tutti gli interventi sono scaricabili dal sito http://reteambientesalute.epiprev.it; il secondo previsto a Roma nel giugno 2018 - la formazione- la definizione di proposte per Linee guida sulla comunicazione del rischio - la conduzione di esperienze di valutazione di impatto ambientale e sanitario. Di seguito le attività sono illustrate in maggiore dettaglio.

https://reteambientesalute.epiprev.it/

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Censimento delle strutture che si occupano di ambiente e salute e realizzazione di un canale informativo per operatori e i cittadini È disponibile il sito web reteambientesalute.epiprev.it che si alimenta dal censimento di tutte le strutture di epidemiologia ambientale italiane, delle risorse umane a loro disposizione, della loro produzione scientifica e delle collaborazioni instauratesi tra gli enti. Il periodo di osservazione è il quinquennio 2012-2016; sono stati censiti (in progress) 5 centri nazionali (Ispra, Iss, Cnr ecc.), 22 strutture regionali (presenti sia nelle Arpa/Appa sia nel Ssn, Università) 18 strutture locali (Asl, Ats ecc.). Per ciascun centro il sito mostra l’organigramma e la produzione scientifica. Sono riportati sulla mappa (in progress): 141 articoli scientifici, 115 rapporti, 13 studi multicentrici. Per ogni studio è possibile visualizzare sulla mappa le aree coperte dall’indagine, i centri che hanno collaborato per produrlo e scaricare le relative pubblicazioni.

La formazione Il progetto EpiAmbNet risponde alla necessità di soddisfare i bisogni di conoscenza sul tema salute e ambiente. Nell’ambito delle attività progettuali è stato dunque messo a punto un pacchetto formativo con la condivisione di ricercatori italiani attivi sul tema appartenenti all’Associazione italiana di epidemiologia. I destinatari dei corsi sono gli operatori del Servizio sanitario nazionale e del Sistema delle Agenzie per l’ambiente.Tre sono i moduli formativi realizzati:- Salute e ambiente presenta lo stato delle conoscenze sui principali fattori di rischio ambientali- Epidemiologia ambientale offre un quadro complessivo delle applicazioni dell’epidemiologia nello studio del rapporto salute e ambiente

- Valutazione di impatto ambientale e comunicazione del rischio, presenta i princìpi e i metodi della Viias, intesa come Valutazione integrata dell’impatto su ambiente e salute e metodi di comunicazione del rischio sui temi trattati.I corsi del primo modulo sono stati realizzati nel 2017 nelle regioni Lazio, Piemonte, Emilia-Romagna, Toscana, Puglia, e Sicilia; in totale hanno partecipato circa 250 persone. Il secondo e il terzo modulo sono previsti nel primo semestre del 2018. Tutti i corsi sono gratuiti e accreditati Ecm. Il materiale dei corsi sarà disponibile alla fine di giugno 2018.

Documento guida di comunicazione sul rischio ambientale per la salute Il documento è rivolto prevalentemente agli operatori del sistema ambientale e sanitario e può essere di interesse anche per operatori degli enti locali impegnati su tematiche ambientali.Il documento presenta in forma sintetica e divulgativa le conoscenze maturate in tema di comunicazione del rischio su ambiente e salute e fornisce indicazioni di supporto alla gestione operativa di processi di comunicazione. Si basa sulla lettura critica di esperienze maturate in Italia, da cui sono tratte le osservazioni e i suggerimenti per la promozione di buone pratiche.La prima parte del documento è articolata in capitoli dedicati ai concetti di pericolo, rischio, percezione del rischio, comunicazione e rapporto con la governance, attori e stakeholder, modelli di comunicazione del rischio.Nella seconda parte viene fornita una descrizione delle diverse fasi del processo comunicativo, inserendo per ciascuna di esse richiami a casi studio che permettono di mettere a fuoco l’argomento trattato e trarre spunti operativi e indicazioni su come gestire le attività comunicative. I casi studio

presentati, descritti nella parte finale, sono stati suddivisi in base alle tre tipologie comunicative individuate: consensus, crisis e care communication. Il documento finale sarà disponibile entro giugno 2018.La Valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario (Viias) La Viias offre a chi è chiamato ad assumere e avviare processi decisionali l’opportunità di tenere nel debito conto le conseguenze delle possibili scelte sulla salute delle popolazioni interessate. Nell’iter di valutazione ha un posto di particolare rilievo la stima quantitativa degli impatti sulla salute dei progetti sottoposti a indagine. Le fasi previste dalla valutazione sono apparentemente semplici da un punto di vista formale ma in realtà risultano complesse e spesso cariche di molte incertezze e lacune informative. Obiettivo della linea progettuale è fornire indicazioni di buone pratiche sui temi sopra esposti, utilizzando cinque casi studio come esempi di applicazione in diverse situazioni caratterizzate da diversi contesti e fattori di rischio ambientali realizzate in diverse regioni. L’attività tiene conto degli strumenti già messi a punto in altri progetti (Vispa, T4Hia, linee guida Snpa, Viias - www.viias.it) e si pone in continuità con tali strumenti, andando a definire le procedure di valutazione su situazioni di impatto accertato o presunto, alla luce di esperienze e documenti prodotti dal sistema ambientale su metodi ed esempi di valutazione quantitativa del rischio secondo le metodiche del risk assessment e dell’health impact assessment. Il documento finale sarà disponibile entro giugno 2018.

Francesco Forastiere

Responsabile del progetto EpiAmbNet

Dipartimento di Epidemiologia, Servizio

sanitario regionale Regione Lazio

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Le attività formative del progetto EpiAmbNet hanno l’obiettivo primario di soddisfare i bisogni di conoscenza sui temi della epidemiologia ambientale nell’ottica del Piano nazionale della prevenzione (Pnp) e dei Piani regionali di prevenzione (Prp) 2014-2018 relativamente al punto 8.5 “Ridurre le esposizioni ambientali potenzialmente dannose per la salute”.

Nell’ambito delle attività progettuali è stato dunque messo a punto un pacchetto formativo in tre moduli, grazie alla collaborazione di ricercatori italiani, attivi su questo tema, appartenenti all’Associazione italiana di epidemiologia. I destinatari principali del pacchetto formativo sono gli operatori del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e del Sistema nazionale a rete per la protezione dell’ambiente (Snpa). Tutti i corsi sono gratuiti e includono argomenti di rilevanza prioritaria in Italia, consentendo di esaminare/esemplificare gli aspetti metodologici dei singoli moduli. I corsi prevedono lavori di gruppo, la lettura di articoli scientifici e la discussione di casi studio. I tre moduli potranno essere fruiti singolarmente o nella sequenza completa. Obiettivo generale del pacchetto formativo è quello di sviluppare le conoscenze e competenze necessarie per permettere la comprensione, la lettura critica e l’applicazione nel contesto locale delle evidenze scientifiche sulla relazione tra esposizioni ambientali e lo stato di salute della popolazione.

Il primo modulo, “Salute e ambiente”, si è svolto nel periodo ottobre-dicembre 2017 in Piemonte, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Puglia e Sicilia. Nelle quattro giornate del corso è stato presentato ai partecipanti il meccanismo attraverso il quale si costruiscono le evidenze sui temi salute e ambiente e le conoscenze più aggiornate sui principali fattori di rischio ambientali: il rumore, l’inquinamento atmosferico, i campi elettromagnetici, i rifiuti solidi urbani, i siti industrialmente contaminati, le acque potabili, il radon e i cambiamenti climatici.Il secondo modulo, “Epidemiologia ambientale”, intende offrire un quadro complessivo delle applicazioni dell’epidemiologia nello studio del complesso rapporto salute e ambiente. L’epidemiologia ambientale studia le relazioni tra le esposizione ad agenti inquinanti presenti nelle matrici ambientali e lo stato di salute delle popolazioni; si occupa delle esposizioni

ai determinati di origine antropica, prodotti ad esempio dalle attività industriali e da quelle inerenti ai processi di smaltimento dei rifiuti, dal traffico veicolare urbano e dai contaminati rilasciati nelle acque e nel suolo; indaga gli effetti sulla salute derivanti dall’esposizione ambientale ai determinati di origine naturale; promuove conoscenze volte a contribuire ai processi decisionali in un’ottica di sanità pubblica, comprendendo gli aspetti della comunicazione del rischio e agli aspetti di equità nella distribuzione dei rischi. L’epidemiologia ambientale è quindi da considerarsi uno strumento di collegamento tra i fattori di rischio ambientali, gli effetti sulla salute e la prevenzione. Il corso si terrà nel secondo trimestre del 2018.Il terzo modulo, “Valutazione di impatto ambientale e comunicazione del rischio”, presenta i principi e i metodi della Viias (Valutazione integrata dell’impatto su ambiente e salute) e della comunicazione del rischio sui temi ambientali. Il corso si terrà nel secondo trimestre del 2018.

Parte integrante del pacchetto formativo è il programma di short-term fellowships, che consentirà lo scambio di 24 giovani ricercatori tra le strutture partecipanti al progetto, offrendo dunque un’occasione di esperienza e formazione sul campo e ulteriore integrazione tra le unità operative coinvolte. La strategia di inclusione dei giovani ricercatori in questo progetto, inclusa la necessità di prevedere short term scientific missions, è coerente con i principali target europei di inclusività dei giovani nei processi formativi e nella ricerca. Importante sottolineare che il progetto di formazione di EpiAmbNet è principalmente dedicato a personale più giovane, sia del Ssn sia del Sistema agenziale, non necessariamente dipendente dalle amministrazioni stesse. Tale sforzo è proprio orientato al rinnovamento generazionale e alla necessità di coinvolgere operatori attualmente precari. Tutte le informazioni sui corsi, inclusi i programmi e le locandine dei moduli sono disponibili sul sito del progetto (www.reteambientesalute.epiprev.it).

Carla Ancona1, Roberta Pirastu2

1. Dipartimento di Epidemiologia, Servizio sanitario regionale Lazio

2. Associazione italiana di epidemiologia

PROGETTO EPIAMBNET

LAFORMAZIONESULTEMASALUTEEAMBIENTEPERGLIOPERATORIDELSERVIZIOSANITARIOEDELSISTEMAAGENZIALE

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LA SFIDA DELL’INTEGRAZIONE PER UNA VISIONE DI SISTEMA

Siamo spesso inclini a considerare che una tematica come ambiente e salute possa essere governata con

norme ad hoc di settore e che il lavoro dei ricercatori sia unicamente finalizzato a dare supporto tecnico di settore a legislatori e decisori.L’esperienza, e non solo in Italia, ci ha insegnato che questo modello di governance, indubbiamente migliorato negli anni, non sempre promuove l’integrazione multidisciplinare e multisettoriale e, soprattutto, non incide sulle potenziali barriere che ne ostacolano il processo. Di contro, nella prassi, è proprio l’integrazione che caratterizza il lavoro dei network scientifici degli esperti di ambiente e sanità. In tema di ambiente e salute (e non solo) il lavoro degli esperti non è quindi solo garanzia dell’uso delle migliori conoscenze: la comunità scientifica, specie quando è “a sistema”, ha un proprio ruolo anche nella promozione dei processi d’integrazione tra discipline scientifiche e settori professionali, e può contribuire al superamento di potenziali barriere organizzative e culturali, se non istituzionali. Nel caso di ambiente e salute può anche facilitare il trasferimento dell’approccio (e dei contenuti) integrato negli altri settori strategici interconnessi. A questa comunità scientifica che fa da ponte, e non da barriera, all’integrazione ambiente e salute, così come per altri temi strategici, appartengono anche le Agenzie ambientali.Il dialogo con altri settori, la struttura di sistema e l’attenzione alla professionalità tecnico scientifica ha da sempre caratterizzato il Sistema agenziale, oggi Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) in forza della legge 132/2016, che al paragrafo 1 dell’articolo 1 così recita: “Al fine di assicurare omogeneità ed efficacia all ’esercizio dell ’azione conoscitiva e di controllo pubblico della qualità dell ’ambiente a supporto delle politiche di sostenibilità ambientale e di prevenzione sanitaria a tutela della salute pubblica, è istituito il Sistema nazionale a rete per la protezione dell ’ambiente”.

ILSISTEMANAZIONALEARETEPERLAPROTEZIONEDELL’AMBIENTE(SNPA),PURNELLEDIVERSITÀTERRITORIALI,VALORIZZALAMULTIDISCIPLINARIETÀEMULTISETTORIALITÀNELLAGOVERNANCEDIAMBIENTEESALUTE.ILMODELLODILAVOROÈSTATOADOTTATOANCHEALIVELLOINTERNAZIONALEEINPARTICOLARENELLAPIANIFICAZIONEEUROPEA.

FIG. 1 - AMBIENTE E SALUTEEsempio di mappa della governance integrata di ambiente e salute. Fonte: Who-Oms .

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Termini come omogeneità ed efficacia ben sintetizzano l’obiettivo di costruire e alimentare un sistema esperto sotto il profilo tecnico scientifico che, attraverso il proprio network, garantisca gli scambi di conoscenze e l’applicazione di strumenti operativi condivisi sul territorio nazionale. Di fatto Snpa, fin dalle sue origini segnate dalla legge istitutiva dell’Anpa e del Sistema delle Agenzie ambientali del 1994, ha sempre investito energie e risorse per la creazione di un sistema multidisciplinare esperto affiancando costantemente, alla gestione di attività ordinarie, la pianificazione di attività di gruppi di lavoro agenziali per la definizione di strumenti: dalla rete dei Ctn (Centri tematici nazionali) che hanno caratterizzato gli anni 90, ai 66 gruppi di lavoro (Gdl) del Piano triennale 2014-16 a cui hanno partecipato circa 1.400 esperti Snpa1. Uno strumento che ha facilitato anche l’integrazione con altri network di esperti, internazionali, europei e nazionali, oltre a promuovere e produrre conoscenza. Un modello di lavoro adottato da varie Agenzie ambientali nazionali e regionali europee e del resto del mondo e che è alla base dei network della rete EIOnet dell’Agenzia europea per l’ambiente che ospita, tra l’altro, anche un network di referenti nazionali delle Agenzie nazionali per la tematica ambiente e salute2.Ma chiunque, per motivi di lavoro, debba confrontarsi con lo studio, l’analisi, l’informazione e la comunicazione su rischi e potenziali impatti dell’ambiente naturale e costruito sulla nostra salute e sul nostro benessere e con le sue complesse interconnessioni socio-economiche, diviene ben presto consapevole che l’integrazione ambiente e salute è questione tecnico-scientifica, ma non solo.È infatti un processo che, nella prassi, riguarda ambiti di lavoro e professionalità diverse, dotate di linguaggi propri, operanti in differenti realtà lavorative, con priorità non sempre coincidenti con gli obiettivi comuni di salute e ambiente, i quali, talora, vengono trattati in modo residuale o isolato dal contesto dei settori implicati. Potenziali barriere culturali e istituzionali che possono permeare anche modelli organizzativi non organici di sanità e ambiente.In Europa il percorso integrato introdotto dalla Strategia europea Ambiente e salute del 2003 e del suo Piano d’azione del 2004, così come la presenza di un Gruppo consultivo ambiente e salute europeo, è stato progressivamente disgregato in attività settoriali delle Dg competenti, pur transitando, in alcuni dei suoi obiettivi prioritari, nel 7°

Programma d’azione ambientale europeo 2020 (“Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta”). Ma pur in assenza di una “casa comune”, la comunità scientifica europea ha continuato a produrre conoscenza per l’area ambiente e salute, dando spessore ai Programmi europei di ricerca e al miglioramento di direttive e strumenti3. Progetti in cui non è mancata la presenza di esperti Snpa e che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi di salute dell’Agenda 2030 dello sviluppo sostenibile (figura 2). In Italia, negli anni passati, la disomogenea applicazione degli obiettivi d’integrazione dell’art. 7 quinquies del Dlgs 229/994, insieme al differimento negli anni di un pieno sviluppo organizzativo di alcune Agenzie, ha probabilmente contribuito a una difforme crescita delle realtà operative ambiente e salute a livello locale. Ma anche qui la comunità scientifica di ambiente (con il proprio Gdl interagenziale Ambiente e salute) e sanità, ha reagito alle avverse condizioni di risorse e strutture organizzative con numerose attività progettuali collaborative, che hanno contribuito sia a costruire un modello di “lavorare insieme”, sia a migliorare gli strumenti di prevenzione e tutela. Esperienze e professionalità scientifiche che hanno concorso alla definizione di obiettivi e priorità del vigente Piano nazionale della prevenzione del ministero della Salute che riprende in modo organico la visione della governance ambiente e salute nel nostro paese e che vede, in Snpa, uno degli interlocutori principali.

Ma le sfide non sono finite, specie quelle scientifiche. Tematiche globali, ambiente costruito, nuove tecnologie, consumo e produzione sostenibile sono solo alcune delle aree in cui anche la comunità scientifica è chiamata a confrontarsi con altri partner e altri percorsi, per continuare a dare il proprio contributo per una tutela integrata della salute e dell’ambiente.

Luciana Sinisi

Istituto superiore per la protezione

e la ricerca ambientale (Ispra)

NOTE1 I Gruppi di lavoro (Gdl) sono una delle caratteristiche espressioni del Sistema agenziale, hanno prodotto e producono rapporti tecnici di valenza nazionale e sono articolati in Piani di lavoro triennali discussi e approvati nel Consiglio federale dei direttori generali (oggi Consiglio Snpa).2 NRCs Environment and Health della rete EIOnet.3 Tra i progetti più recenti: http://ec.europa.eu/research/health/pdf/factsheets/environment_and_health.pdf#view=fit&pagemode=none4 Art. 7-quinquies (Coordinamento con le Agenzie regionali per l’ambiente) “2. Le Regioni individuano le modalità e i livelli di integrazione fra politiche sanitarie e politiche ambientali, prevedendo la stipulazione di accordi di programma e convenzioni tra le Unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere e le Agenzie regionali per la protezione dell ’ambiente per la tutela della popolazione dal rischio ambientale, con particolare riguardo alle attività di sorveglianza epidemiologica e di comunicazione del rischio”.

FIG. 2 - SALUTE E OBIETTIVI DI SVILUPPO SOSTENIBILELa salute negli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Fonte: Who-Oms.

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STUDIO EPIDEMIOLOGICO O VALUTAZIONE DI IMPATTO?

Alla fine del 2016 usciva sulla rivista Epidemiology un commentario di David Savitz dedicato alla

necessità o meno di effettuare nuove ricerche in situazioni caratterizzate dainquinamento ambientale [1]. Savitz parte da uno scenario, diventato familiare agli epidemiologi ambientali e al pubblico, in cui una popolazione “scopre” di essere stata esposta a un inquinante pericoloso e c’è una richiesta pubblica giustificata di avere una risposta appropriata all’episodio, richiamandosi spesso alla ricerca epidemiologica per determinare se l’esposizione in questione abbia causato un danno alla salute.In questo contesto, Savitz mette in risalto i ruoli sia della sanità pubblica nell’assicurare che l’esposizione cessi e nel fornire assistenza sanitaria a chi è colpito, sia dell’autorità giudiziaria nel cercare di individuare e punire il colpevole, a fronte dei limiti dello studio epidemiologico, ritenuto raramente in grado di offrire un vantaggio diretto a coloro che sono colpiti e studiati, mentre esiste la possibilità che provochi danni involontari.Savitz prosegue constatando come lo studio epidemiologico possa non dare indicazioni certe, aumentare l’incertezza a causa di risultati non conclusivi, delle dimensioni limitate o di altri limiti metodologici o, più cinicamente, possa essere usato per acquistare tempo e evitare azioni che avrebbero benefici diretti.Proseguendo nel ragionamento, Savitz asserisce che piuttosto che condurre uno studio epidemiologico, a volte di lunga durata e di qualità limitata, la salute pubblica potrebbe essere meglio promossa fornendo informazioni chiare agli esposti su ciò che noi conosciamo, sull’accesso ai servizi sanitari e, se del caso, “inchiodando” i responsabili alle loro responsabilità. Insistendo sull’aspetto dell’utilità, Savitz diventa ancora più chiaro e diretto quando sostiene che le comunità colpite potrebbero essere meglio aiutate

STUDI EPIDEMIOLOGICI E VIS HANNO PROTOCOLLI METODOLOGICI DIVERSI, RISPONDONO A OBIETTIVI DIVERSI E QUINDI ANCHE IL LORO IMPIEGO È DIFFERENZIATO. I PRIMI SONO ATTIVITÀ DI RICERCA DELLA SANITÀ PUBBLICA, LE VIS SONO ATTIVITÀ MISTE DI RICERCA E SANITÀ PUBBLICA CHE SI AVVALGONO DELLE CONOSCENZE ACQUISITE.

concentrandosi sulle preoccupazioni pratiche e non sulla questione, probabilmente irrisolvibile, di sapere se un determinato individuo o una parte della popolazione ha subito direttamente danni alla salute a causa dell’esposizione.Savitz conclude puntando sulla valutazione dell’impatto sulla salute (Vis) ritenendola un tipo di ricerca applicata che può essere di grande valore in tali circostanze.Evitando di porre sullo stesso piano opzioni che attengono ruoli e compiti diversi, e di assegnare all’epidemiologia responsabilità non commisurate al suo ruolo, mi pare che si possa concordare con Savitz sulla necessità di esaminare attentamene i rischi e i vantaggi di intraprendere uno studio epidemiologico eziologico, per assicurare che ciò che è possibile sia effettivamente utile.Nella primavera del 2017, Corrado Magnani interviene su Epidemiologia & Prevenzione, riportando appropriatamente le riflessioni di Savitz nel dibattito italiano [2].Già il titolo del suo intervento è esplicativo della convinzione dell’autore che a fronte del messaggio di Savitz sul rischio che gli studi epidemiologici possano avere ritardato (e ritardare) le bonifiche, occorra considerare altri aspetti.Magnani ricorda come nel caso di Casale Monferrato, ci sia stata l’opportunità di affiancare la bonifica dentro e fuori lo stabilimento Eternit “con indagini epidemiologiche che hanno consentito di approfondire le conoscenze sulla relazione dose-risposta e sulla relazione temporale tra esposizione e mesotelioma, raccogliendo informazioni... che forniscono ulteriori motivazioni per procedere al bando dell ’esposizione ad amianto e alla bonifica della presenza di amianto in opera”.Magnani, pur richiamando l’attenzione su quando lo studio epidemiologico si può affiancare alla bonifica, non sfugge alla riflessione sui limiti degli studi e sulle possibilità che essi possano provocare ritardi nella bonifica e nella riduzione del

danno, tuttavia conclude: “L’attenzione verso un problema riconosciuto e sentito è un importante volano per produrre studi e aumentare le conoscenze, a vantaggio e non a danno di chi ha subito o sta subendo l ’esposizione”.

Il dibattito è continuato con due interventi sull’ultimo numero di E&P del 2017 [3, 4].Nella prima lettera, Gianicolo e Palmisano ritengono che casi come quello di Casale Monferrato, sebbene ideali per ricerca e contemporanee misure di bonifica, siano raramente riscontrabili nel resto del Paese e concordano con Savitz sul fatto che in taluni casi possa giovare condurre valutazioni integrate di impatto ambientale e sanitario quick and dirty, prendendo come spunto il caso della centrale elettrica a carbone di Brindisi [3]. D’altra parte, gli stessi autori concordano con Magnani sul fatto che “l ’approfondimento degli studi e l ’espansione e il consolidamento delle conoscenze epidemiologiche risultano oltremodo importante, non solo sul piano strettamente scientifico” (in riferimento all’epidemiologia in tribunale, tema al quale dedicano ulteriori riflessioni).Nella seconda lettera da me inviata, rilevo inoltre che gli interventi di risanamento in aree definite per legge come siti da bonificare andrebbero realizzati senza la necessità di studi epidemiologici, proprio perché le motivazioni che hanno giustificato le leggi istitutive di tali siti

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sono basate su informazioni tali da permettere interventi di prevenzione primordiale e prevenzione primaria [4]. Questo ragionamento sposta l’attenzione dagli studi epidemiologici ecologici o eziologici retrospettivi a studi di intervento e valutazioni preventive di impatto.Analogo ragionamento vale per gli interventi di adeguamento impiantistico (ad esempio previsti per l’Aia) che dovrebbero essere realizzati “semplicemente” perché in grado di diminuire le emissioni, quindi i livelli di esposizione della popolazione, un obiettivo di prevenzione in sintonia col principio Alara (As low as reasonably achievable) e ritenuto prioritario dal Piano nazionale di prevenzione 2014-2018 del ministero della Salute [5].La questione chiave se effettuare o evitare nuovi studi dovrebbe essere affrontata coniugando due punti di vista che, seppure distinti, non dovrebbero essere separati o peggio contrapposti come a volte accade: quello di ricerca e quello di sanità pubblica.In altri termini, si tratta di verificare se le conoscenze disponibili sono già sufficienti per decidere azioni di prevenzione e/o per chiarire i nessi causali e i meccanismi patogenetici.Qui entra in gioco una particolarità dell’epidemiologia ambientale spesso smarrita o evitata: si tratta di un campo disciplinare in cui la giusta spinta verso lo sviluppo delle conoscenze scientifiche non può ignorare la valutazione sullo stato delle conoscenze ai fini di intervento di prevenzione.Ne deriva che non si può disconoscere il ruolo degli studi epidemiologici in aree da bonificare, sia come strumento conoscitivo in circostanze – colpevolmente – poco studiate, sia come presidio rafforzativo per interventi da attuare. Il tutto mantenendo la consapevolezza che la prova dell’esistenza di eccessi di morti e malattie associati ai rischi ambientali in un dato territorio comporta tempi che solitamente giocano contro l’intervento.Ciò non significa che in aree contaminate non siano necessari, o quantomeno opportuni, studi epidemiologici, ma che occorre una forte consapevolezza su quale tipo di studio effettuare e su quando esso possa essere effettivamente utile.In questa valutazione entrano in gioco anche gli elementi del tempo e dell’incertezza, ma il come considerarli implica un chiarimento su quando lo studio epidemiologico sia da realizzare per la crescita della conoscenza scientifica e/o per fini di sanità pubblica.A tale proposito, è di estrema rilevanza

l’inclusione dei responsabili delle decisioni e dei portatori di interessi o stakeholder sin dalle fasi iniziali dei processi di studio e di valutazione di impatto. Questo concetto è bene argomentato nelle linee guida Viias e Vis [6, 7]. Infine, nel decidere se e quando proporre gli studi epidemiologici o le Vis, occorre partire dal fatto che essi hanno protocolli metodologici diversi, rispondono a obiettivi diversi, e quindi anche il loro impiego è differenziato.Anche per le valutazioni preventive di impatto sulla salute credo valga quanto concordato dai precedenti autori, seppure con sfumature diverse, sull’importanza del consolidamento e dell’espansione delle conoscenze epidemiologiche, sia sul piano strettamente scientifico che su quello del trasferimento in sanità pubblica.Se la sorveglianza epidemiologica è una attività di sanità pubblica e lo studio epidemiologico è una attività di ricerca finalizzata alla crescita di conoscenze scientifiche e al trasferimento in sanità pubblica, le valutazioni integrate di impatto ambientale sulla salute sono attività miste di ricerca e sanità pubblica, in grado di valutare preventivamente scenari di cambiamento negativo, a causa di interventi dannosi, ma anche positivo a seguito di interventi migliorativi.

Sei pillole per concludere: - il problema del fare bonifiche e interventi tesi a diminuire rilasci ed esposizione di larghe fasce di popolazione rimane irrinunciabile

[1] Savitz D.A., “Response to Environmental Pollution: More Research May Not Be Needed”, Epidemiol, 2016; 27(6): 919-20.

[2] Magnani C., “Inquinamento ambientale: l’indagine epidemiologica è sempre utile, anche quando l’esposizione e le sue conseguenze sono ben note”, Epidemiol Prev, 2017; 41(2):78-79.

[3] Gianicolo E.A.L., Palmisano S., “Studi eziologici, valutazioni di impatto ed epidemiologia in tribunale”, Epidemiol Prev, 2017, 41(5-6):217.

[4] Bianchi F., “Studi epidemiologici e valutazioni preventive di impatto in aree contaminate”, Epidemiol Prev, 2017; 41(5-6): 2017-19.

[5] Ministero della Salute, Piano nazionale della prevenzione 2014-2018, www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2285_allegato.pdf

[6] Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa), Linee guida per la valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario (Viias) nelle procedure di autorizzazione ambientale (Vas, Via e Aia), Manuali e linee guida 133/2016, www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/manuali-e-linee-guida/lineeguida- per-la-valutazione-integrata-di-impatto-ambientale-e-sanitario-viias-nelle-procedure-di-autorizzazioneambientale-vas-via-e-aia

[7] Di Benedetto A., La Sala L., Ballarini A. et al (eds), Valutazione di impatto sulla salute: linee guida per proponenti e valutatori, CCM-Ministero della Salute, 2016, www.isprambiente.gov.it/fi les/viavas/Linea_Guida_VIS.pdf

[8] Decreto legislativo n. 104 del 16.06.2017, Gazzetta Uffi ciale Serie Generale n.156 del 06.07.2017, www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2017-07-06&atto.codiceRedazionale=17G00117

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

- in Italia il progetto “Sentieri” si è sviluppato per accrescere le conoscenze a anche per dare informazioni utili per definire priorità di intervento nei siti contaminati- numerosi studi eziologici condotti di recente offrono risultati rilevanti per decisioni di sanità pubblica- una questione chiave da affrontare è che in assenza di cambiamenti positivi (riduzione dell’esposizione), non solo gli studi, ma anche la sorveglianza rischiano di avere l’unica funzione di registrare la permanenza di rischi e danni- in assenza di scenari di cambiamento, anche le Vis soffrono dello stesso problema- quando la Vis offre previsioni di cambiamento positivo, cambia lo scenario del pensare e dell’agire, rafforzando le prospettive di prevenzione.

Per i motivi tratteggiati, in accordo con i richiami di Savitz [1], la valutazione di impatto sulla salute è una procedura in grado di integrare le migliori conoscenze derivate da studi tossicologici ed epidemiologici e di trasferirle in modo partecipato sul piano delle decisioni di sanità pubblica.

Fabrizio Bianchi

Responsabile Unità di Epidemiologia

ambientale e registri di patologia, Istituto di

fisiologia clinica del Cnr, Pisa

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AUTORIZZAZIONI AMBIENTALI E ASPETTI SANITARI

In un mio articolo pubblicato sul numero 2/2014 della rivista Questione Giustizia dal titolo “Il caso

Taranto e il rapporto ambiente-salute nelle autorizzazioni ambientali” spiegavo che il limite dei limiti emissivi autorizzati nelle Aia è legato al fatto che spesso non sono health-based, e quindi non in grado di tutelare adeguatamente la salute dei cittadini esposti. Citavo in proposito la sentenza della Corte costituzionale n.127 del 16 marzo 1990 (relatore Ettore Gallo) che così recitava: “si intende che il giudice presume, in linea generale, che i limiti massimi di emissione fissati dalle autorità siano rispettosi della tollerabilità per la salute dell ’uomo e dell ’ambiente. In ipotesi, però, che seri dubbi sorgano particolarmente in relazione al verificarsi nella zona di manifestazioni morbose attribuibili all ’inquinamento atmosferico egli ben può disporre indagini scientifiche atte a stabilire la compatibilità del limite massimo delle emissioni con la loro tollerabilità, traendone le conseguenze giuridiche del caso”. Ciò significa, inequivocabilmente, che la persistente policy del ministero dell’Ambiente di considerare la tematica sanitaria estranea al procedimento dell’autorizzazione integrata ambientale (Aia) rende inevitabile la funzione di supplenza della Magistratura.

Nella vicenda dell’Ilva questa problematica ha assunto un rilievo centrale. Infatti, a meno di un anno di distanza dalla concessione dell’Aia del 2 agosto 2011, nel febbraio 2012, avendo acquisito la perizia epidemiologica che dimostrava eccessi per alcune patologie fino all’8% per variazioni di esposizione pari a 10mcg/mc di PM10, la Procura scrisse al sindaco di Taranto invitandolo ad assumere con urgenza decisioni a tutela della salute dei cittadini. Ottenuta una nuova relazione ambientale da Arpa Puglia, il sindaco il 25 febbraio 2012 emise un’ ordinanza contingibile e urgente come Autorità sanitaria in

LAVICENDAILVADITARANTOÈPARADIGMATICARISPETTOALTEMADELCOMEVALUTAREGLIASPETTISANITARIEDEPIDEMIOLOGICINELFISSAREVALORILIMITENELL’AMBITODELLEAUTORIZZAZIONIAMBIENTALI,ADESEMPIOL’AUTORIZZAZIONEINTEGRATAAMBIENTALE(AIA).SUPERAREIDISSENSIINTERPRETATIVISAREBBEUNPASSOIMPORTANTEPERTUTTI.

base agli art. 216 e 217 del RD 27 luglio 1934 n.1265 con la quale obbligava con urgenza Ilva ad attivare misure idonee a scongiurare pericolo alla sanità pubblica. Ilva fece ricorso al Tar di Lecce chiedendo l’annullamento dell’ordinanza sindacale. Con la sentenza del 19 settembre 2012 n.1550, la richiesta di Ilva fu accolta. Nella sentenza del Tar si afferma che “nella specie, il Collegio ritiene che l ’ordinanza sindacale non risponde agli indefettibili presupposti per la sua emanazione, non essendo diretta a fronteggiare un’emergenza sanitaria,ma piuttosto a imporre l ’esecuzione di obblighi che trovano la loro sede nelle prescrizioni che devono accompagnare l ’Autorizzazione Integrata Ambientale”. Secondo il Tar, il sindaco non avrebbe dovuto emettere un’ordinanza ma avrebbe dovuto chiedere il riesame dell’Aia sulla base dell’art. 29-quater comma 7 del Dlgs 152/06.Un’ulteriore paradossale situazione causata dalla discutibile decisione del ministero dell’Ambiente di escludere dal procedimento dell’Aia la valutazione di impatto e di rischio sanitario si verificò pochi mesi dopo, sempre in riferimento al caso Ilva. Nell’ottobre 2012 si tenne la conferenza decisoria che approvò, con la firma del ministero della Salute, l’ Aia di Ilva dopo il riesame successivo

all’intervento della Magistratura (cosiddetta “Aia Clini”) che fu poi pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 26 ottobre 2012.

Il 22 ottobre il ministro della Salute Balduzzi e il top management del Ministero e dell’Istituto superiore di sanità tennero una conferenza stampa nell’aula dell’Ospedale S.S. Annunziata di Taranto in cui fu presentato un dettagliato rapporto su Taranto. Nel capitolo redatto da Giovanni Marsili, Maria Eleonora Soggiu e Maria Bastone si chiarisce che “l ’approccio valutativo proposto in questa nota intende inoltre colmare una lacuna metodologica della procedura di Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia) di cui al DLgs.152/2006, che limita il suo orizzonte prescrittivo alla riduzione delle emissioni finalizzata al miglioramento della qualità ambientale e trascura gli aspetti più specificamente sanitari… Le cause che determinano queste emissioni rendono difficile la loro gestione tecnologica e pongono il problema della prossimità tra sorgente di emissione ed aree urbanizzate. In questo contesto, la riduzione della capacità produttiva o la sua delocalizzazione, anche scaglionata nel tempo, appaiono al momento come le più

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efficaci misure di mitigazione del rischio sanitario nell ’area di Tamburi”.Per affrontare la questione la Regione Puglia approvò la legge 21 del 24 luglio 2012 che istituì la cosiddetta valutazione del danno sanitario (VDS), una procedura che si attiva ex post nel monitoraggio successivo al rilascio dell’Aia finalizzata a un possibile riesame della stessa Autorizzazione. Il relativo regolamento prevede due distinte procedure, fondate rispettivamente sulla valutazione di epidemiologia descrittiva (secondo il paradigma del progetto Sentieri) e di risk assessment. In caso di risultato concordante (positivo o negativo) il procedimento procede, mentre in caso di risultato discordante è prevista l’esecuzione di uno studio analitico a coorte retrospettiva secondo il modello dello studio realizzato da Forastiere nella perizia epidemiologica presentata al Gip del Tribunale di Taranto. La VDS pugliese fu dapprima inserita nella legge che approvò l’Aia di Ilva, ma fu poi sostituita da una procedura omonima ma completamente differente stabilita col decreto del ministero della Salute del 24 aprile 2013. Le differenze fondamentali sono due: la valutazione epidemiologica completamente ininfluente ai fini del possibile riesame dell’Aia possibile soltanto a valle del risk assessment¸ la cui procedura però si arrestava all’inizio in presenza di dati della qualità dell’aria territoriale sotto la soglia prevista per ciascun inquinante. In questo modo, rientrava in gioco il vituperato principio basato sul mero rispetto dei limiti ambientali, in questo caso di tipo immissivo. Per risolvere l’impasse, nel 2015 il Consiglio federale Ispra/Arpa/Appa approvò le linee-guida Viias (valutazione integrata dell ’impatto ambientale e sanitario) relative alle varie autorizzazione ambientali (Vas, Via, Aia, Aua) indicando gli adempimenti previsti sia per i gestori sia per le autorità di controllo, linee guida allo stato non operative, a causa dell’opposizione ideologica del Mattm.

A distanza di cinque anni, la vexata quaestio non è affatto risolta. Lo dimostra la vicenda verificatasi nel corso del recente riesame dell’Aia statale per la megacentrale a carbone dell’Enel di Cerano (Brindisi).Nella conferenza di servizi del 26 luglio 2016 il ministero della Salute espresse il suo “assenso a condizione che il parere istruttorio conclusivo trasmesso dalla commissione Ippc sia integrato con le analisi relative agli impatti sulla

salute sia all ’interno (lavoratori) che all ’esterno (abitanti delle zone limitrofe)”. Nella successiva conferenza di servizi dell’8 febbraio 2017 il presidente della conferenza fece presente che la Direzione generale per le valutazioni e autorizzazioni ambientali del Mattm con nota del 5 maggio 2016 n.12257 aveva chiarito che “l ’Aia si configura come un’autorizzazione esclusivamente ambientale” (...) “L’Aia, pertanto, non richiede la conduzione di analisi e valutazioni di impatto sanitario connesse all ’esercizio dell ’installazione”.Dato il dissenso del ministero della Salute, il Mattm chiamò in causa l’ufficio della Presidenza del Consiglio dei ministri preposto a risolvere i contrasti tra i Ministeri, l’ufficio per la concertazione amministrativa e il monitoraggio del Dipartimento per il coordinamento amministrativo della Presidenza del Consiglio dei ministri che convocò le parti a una riunione istruttoria il 20 aprile 2017. Il direttore generale della Prevenzione sanitaria del ministero della Salute aveva inviato all’Ufficio una nota il 13 aprile nella quale non reiterava la richiesta di valutazione di impatto sanitario sui lavoratori e sulla popolazione residente, limitandosi a proporre riduzioni ulteriori delle emissioni senza alcuna motivazione di carattere sanitario, alcune delle quali furono accolte nella successiva riunione del 19 maggio con cui ufficialmente veniva dichiarato che “le prescrizioni date consentono il superamento del dissenso insorto nel procedimento oggetto della rimessione”. Nella riunione del Consiglio dei ministri del 24 maggio 2017 fu approvata una delibera firmata dal premier Gentiloni in cui si prendeva atto “del superamento del dissenso”.

Il dissenso fu quindi superato, non attraverso una dichiarazione formale di intesa rispetto alla nota del Mattm con cui si escludeva la tematica sanitaria dall’Aia, ma attraverso una rinuncia del ministero della Salute a porre il problema di principio della necessità di effettuare una valutazione di impatto sanitario nell’Aia a fronte di concessioni sulle prescrizioni ambientali, peraltro non sostenute in alcun modo da motivazioni di tipo sanitario: una soluzione pasticciata all’italiana. Ma il pasticcio si trasforma in un vero e proprio “comma 22” in un’intervista rilasciata dal direttore generale per le Valutazioni e le autorizzazioni ambientali ad ArpatNews, il notiziario di Arpa Toscana. In essa si afferma che l’Aia disciplina i presidi ambientali minimi, che nei casi di

accertata criticità sanitaria, possono essere implementati con determinazione delle Autorità sanitarie (sindaco e ministero della Salute). Si riconosce quindi la facoltà delle Autorità sanitarie di disporre riduzioni delle emissioni basate su accertate criticità sanitarie, ma sulla base della nota dello stesso direttore del 5 maggio 2016 la tematica sanitaria è esclusa dall’Aia e non si comprende come si possano accertare criticità sanitarie quando il procedimento dell’Aia non prevede che l’attività istruttoria includa le tematiche sanitarie.

La querelle si può risolvere riconoscendo alle Autorità sanitarie e al Sistema nazionale di protezione ambientale il compito di disciplinare i criteri attraverso i quali si definisce la criticità sanitaria delle emissioni da autorizzare, ma in questo senso occorre una formale integrazione operativa tra Istituto superiore di sanità e Ispra/Arpa/Appa definita da un mandato specifico da parte dei due Ministeri e dalle Regioni. Definiti i criteri, le Autorità sanitarie potrebbero svolgere un’attività istruttoria parallela a quella della Commissione Ippc riportando le proprie determinazioni nelle conferenze di servizi delle Aia.In un intervento al convegno del Sistema nazionale di protezione ambientale tenuto a Brindisi il 31 marzo 2014 il procuratore capo di Brindisi, Marco Dinapoli, auspicava che in fase amministrativa tutti i problemi (anche sanitari) legati alle emissioni fossero risolti, lasciando quindi un ruolo meramente marginale alla Magistratura.

Purtroppo, le “lacune metodologiche”, riconosciute dall’Istituto superiore di sanità nel rapporto presentato a Taranto il 22 ottobre 2012, permangono tutte ed è necessario che le massime istituzioni ambientali e sanitarie le risolvano, possibilmente integrando le Viias del Sistema agenziale con le linee-guida Istisa 2016 sulle Via dei grandi impianti energetici e petrolchimici: un risultato che dovrebbe interessare tutti, dalle istituzioni alle associazioni ambientaliste e a quelle imprenditoriali, per fornire certezze operative agli stakeholder e garanzie ai cittadini.

Giorgio Assennato

Epidemiologo occupazionale e ambientale

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COME COMUNICARE IL RISCHIO AMBIENTALE PER LA SALUTE

Il contesto in cui operano Agenzie ambientali e Servizi sanitari nell’ambito di ambiente e salute è

quanto mai complesso, contraddistinto da una maggiore sensibilità dei cittadini nei confronti dell’ambiente, delle fonti di pressione e delle ricadute sulla salute, ma anche da una crescente sfiducia nella pubblica amministrazione e da una diffusa conflittualità al verificarsi di emergenze ambientali e sanitarie, vere o presunte. A questo si aggiunge la difficoltà, più volte evidenziata, di comunicare in modo integrato tra Agenzie ambientali e Servizi sanitari e di trasferire al pubblico informazioni e conoscenze sui rischi per la salute, coniugando rigore scientifico e semplicità.Questa situazione è probabilmente il riflesso di ciò che accade nel nostro paese, in cui stenta ancora a crescere una cultura della trasparenza e condivisione di dati e informazioni, nonostante siano stati promossi strumenti come la Strategia di Lisbona (2000) per trasformare l’Europa in una società della conoscenza e la Convenzione Onu di Aarhus, ratificata in Italia nel 2001, sull’accesso alle informazioni, alla giustizia ambientale e sulla partecipazione dei cittadini al processo decisionale. Le istituzioni pubbliche hanno spesso reagito opponendo rigidità burocratiche e ostacoli all’accesso ai dati che riguardano la salute delle persone che si mobilitano in caso di rischi ambientali. Pertanto è quanto mai urgente valorizzare le esperienze di scambio, condivisione e comunicazione a livello locale per compiere un passo in avanti nella direzione di una migliore governance dei rischi.

Informazione, comunicazione e partecipazione si collocano in una sequenza ideale che procede verso una sempre maggiore definizione delle domande e aspettative di chi prende parte ai processi che si realizzano nella vita reale. Per condurre una buona

INFORMARE IN MODO TRASPARENTE E USARE AL MEGLIO GLI STRUMENTI CON CUI COMUNICANO LE PERSONE È SEMPRE PIÙ IMPORTANTE PER STABILIRE TERRENI COMUNI DI DIALOGO E ALIMENTARE UN CLIMA DI FIDUCIA. UNO DEI RISULTATI DEL PROGETTO EPIAMBNET SARÀ UNA GUIDA OPERATIVA PER COMUNICARE IL RISCHIO AMBIENTALE PER LA SALUTE.

comunicazione bisogna avere realizzato una buona informazione e, per garantire la partecipazione, le informazioni devono giungere a proposito e i percorsi comunicativi devono essere attivati in modo consapevole.Ma il dialogo con le comunità e il pubblico in generale passa anche attraverso la promozione della cittadinanza scientifica, ovvero l’essere in grado di comprendere e utilizzare informazioni scientifiche, elaborarle e trasformarle in conoscenze, e infine poter accedere a spazi di consultazione e confronto sulle scelte pubbliche. E, se da un lato l’Europa richiede decisioni pubbliche fondate sulle evidenze scientifiche, dall’altro è necessario, quando si parla di rischi per la salute, tenere in debito conto anche la loro percezione e quindi utilizzare conoscenze sviluppate nei campi della sociologia, antropologia, psicologia, nonché prodotte dalla comunità. Il rischio è infatti un fenomeno costantemente costruito e negoziato in quanto elemento di una rete di interazione sociale e di produzione di senso sia nel contesto scientifico sia al suo esterno. Un fattore chiave da

considerare nell’analisi della percezione del rischio è l’outrage, il senso di oltraggio e indignazione provocato dal rischio, strettamente collegato alla fiducia nelle persone/enti di controllo e alla familiarità del contesto.

Altro aspetto da tenere presente è la trasformazione dei media: le fonti informative si sono moltiplicate, i soggetti influenti cambiano, le dinamiche, i ruoli e i rapporti di potere sono resi più complicati dalla velocità e flessibilità dei flussi informativi. Diventa sempre più strategica la capacità di comprendere le percezioni dei singoli e della collettività, conoscere gli strumenti con cui comunicano le persone per raggiungerle e stabilire terreni di scambio.In questo quadro si inserisce la messa a punto di strumenti che facilitino l’integrazione tra istituzioni sul tema ambiente e salute, per supportare le amministrazioni nella valutazione degli impatti sulla salute e nella comunicazione del rischio. Lo stesso Piano nazionale della prevenzione (PNP 2014-2018) definisce strategiche quelle azioni che permettono di ridurre le esposizioni ambientali potenzialmente dannose per

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la salute e pone l’accento su un obiettivo centrale teso a comunicare il rischio in modo strutturato e sistematico.

Nella guida EpiAmbNet le esperienze di care communication, consensus e crisis communication

Per supportare le indicazioni del PNP il Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ccm) del ministero della Salute ha finanziato il progetto EpiAmbNet che prevede, tra i diversi obiettivi specifici, la stesura del documento guida di comunicazione del rischio ambientale per la salute allo scopo di presentare in forma sintetica le conoscenze maturate sul tema e di fornire, soprattutto, indicazioni di supporto alla gestione operativa di processi di comunicazione. Il documento si rivolge principalmente a personale del Servizio sanitario nazionale e del Sistema nazionale della protezione ambientale, ma può essere di interesse, in generale, anche per chi è impegnato su tematiche ambientali.Si avvale della lettura critica di esperienze maturate in Italia, da cui sono tratte le osservazioni e i suggerimenti per la promozione di buone pratiche. Queste esperienze sono catalogate in riferimento a tre tipologie comunicative definite da Lundgren e McMakin (1998) come care communication, consensus e crisis communication.

Nel caso di care communication il rischio è spesso ben conosciuto e si sa come affrontarlo, diventa quindi essenziale informare i riceventi rispetto a un possibile esito negativo derivato dall’esposizione a un determinato pericolo e motivarli ad adottare opportuni comportamenti o precauzioni. Questa attività di comunicazione bene si applica a interventi di prevenzione dei fattori di rischio individuale per la salute, ma anche a studi sull’esposizione a fattori di rischio ambientale.Con consensus communication si intende quel tipo di comunicazione che incoraggia i diversi attori sociali a lavorare insieme per ricercare una decisione condivisa su come gestire un determinato rischio. Per fare qualche esempio, pensiamo alla costruzione di un inceneritore o all’ampliamento di uno stabilimento industriale, casi in cui è frequente il verificarsi di situazioni di conflitto sociale.La definizione di crisis communication si applica a quelle forme di comunicazione volte ad allertare i destinatari in caso di pericolo improvviso e a sensibilizzarli nell’adozione di comportamenti di protezione della salute e sicurezza personale. È quindi specifica e centrata su determinati eventi che hanno caratteristiche di straordinarietà, con l’obiettivo di fornire informazioni chiare e tempestive a tutela della popolazione.

Il documento fornisce anche una descrizione dei passaggi fondamentali

per elaborare un piano di comunicazione del rischio, con richiami ai casi studio per “visualizzare” meglio l’argomento e trarre spunti operativi. Pianificare una strategia comunicativa significa infatti definire i ruoli e le responsabilità del gruppo di lavoro, analizzare il contesto socioculturale e comunicativo, identificare i destinatari, elaborare il messaggio, scegliere i canali di informazione e infine valutare, nelle diverse fasi del processo, l’efficacia delle azioni intraprese.E dunque, una conoscenza critica e approfondita dei temi relativi ad ambiente e salute passa anche attraverso una buona comunicazione dei rischi perché essa “è ben più che la mera divulgazione di informazioni, e una sua funzione centrale è la realizzazione di un processo grazie al quale vengono incorporate nelle decisioni le informazioni e le opinioni essenziali ad una efficace gestione del rischio” (Bennett e Calman, 1999).

Paola Angelini

Servizio Prevenzione collettiva e Sanità

pubblica, Regione Emilia-Romagna

NOTE BIBLIOGRAFICHE Bennett P.G., Calman K.C., Risk Communication and Public Health: Policy, Science and Participation, Oxford, Oxford University Press, 1999.Lundgren R.E., McMakin A.H., Risk communication. A Handbook for Communicating Environmental, Safety, and Health Risks, Colombus, Battelle Press, II Edition, 1998.

È disponibile “Dati ambientali 2016. La qualità dell’ambiente in Emilia-Romagna”, quindicesima edizione dell’annuario che raccoglie e riassume i principali dati relativi all’ambiente in regione. “La conoscenza e l’analisi dell’ambiente in cui viviamo – spiega nell’Introduzione Giuseppe Bortone, direttore generale di Arpae Emilia-Romagna – sono una precondizione essenziale per una corretta pianificazione, per il governo del territorio e per la prevenzione e la difesa della salute dei cittadini, obiettivo ultimo di ogni forma di tutela ambientale. Rigore scientifico, facilità di reperimento e leggibilità sono alcune delle caratteristiche fondamentali che devono avere i dati ambientali. Questa pubblicazione annuale, una sorta di veloce ‘viaggio’ nell’ambiente della regione Emilia-Romagna, vuole rispondere a questi requisiti, proponendo un percorso di lettura comprensibile non solo a esperti e tecnici, ma a un pubblico molto più ampio, cercando di tradurre in modo visivamente immediato una profonda conoscenza dei fenomeni”.Il documento, disponibile sul sito web Arpae all’indirizzo http://bit.ly/annuario2016, presenta un resoconto sintetico del contesto ambientale dell’Emilia-Romagna e integra le diverse forme di presentazione di dati ambientali (open data, portale Dati ambientali dell’Emilia-Romagna, sito web Arpae, rapporti tematici ecc.).

Alla presentazione dei dati, spesso effettuata con infografiche per una migliore chiarezza e leggibilità, si affianca anche la descrizione e spiegazione di alcune tematiche ambientali particolarmente attuali e sentite dai cittadini, illustrandone processi e contenuti, ulteriore contributo alla comprensione e alla conoscenza dell’ambiente in cui viviamo.

DATI AMBIENTALI 2016

LAQUALITÀDELL’AMBIENTEINEMILIA-ROMAGNA

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PREVENZIONE E SALVAGUARDIA DELLE ACQUE POTABILI

Ogni giorno in Italia la fornitura affidabile di acqua potabile sicura per la popolazione

richiede la captazione di oltre 25 miliardi di litri di acqua, prelevati per la gran parte (ca. 84,3%) da acquiferi sotterranei (57% da pozzi e 43% da sorgenti) e superficiali (ca. 15,6 %) e, in minima parte (0,1%), da acque salmastre o marine sottoposte a processi di dissalazione. Il volume, la diffusione e la numerosità dei siti di prelievi dipendono soprattutto dalle caratteristiche idrogeologiche e dalle richieste locali ma anche da determinanti infrastrutturali di impianti e reti. Si stima che attualmente siano più di 50.000 le captazioni utilizzate per scopi idro-potabili, tenendo conto che i punti di prelievo, soprattutto nel Centro-Sud, sono spesso distanti dalle utenze finali e hanno portato allo sviluppo di distribuzioni particolarmente complesse, anche con acquedotti interregionali1. La gran parte delle risorse idriche da destinare al consumo umano è di qualità buona o eccellente all’origine e naturalmente protetta, tanto che solo un terzo delle acque distribuite in Italia necessita di trattamenti di potabilizzazione diversi dalla semplice disinfezione, per la rimozione selettiva di elementi chimici contaminanti sia di origine naturale – per lo più relativi alle caratteristiche geochimiche delle litologie e degli acquiferi interessati (in particolare in relazione agli elementi: arsenico, boro, fluoro, uranio) – che antropici. In questo ultimo caso, le alterazioni della qualità delle acque sono sempre più la risultante di complessi fenomeni climatici e ambientali che, in primis nei corpi idrici superficiali, ma anche in falde profonde, accentuano il degrado di ecosistemi e acquiferi storicamente compromessi, come accade nei siti in cui la concentrazione di attività industriali e agro-zootecniche intensive ha causato una significativa quantità e pericolosità di inquinanti presenti in falda.

ALCUNIEPISODIDIINQUINAMENTIDIFILIEREIDRO-POTABILIRICHIAMANOL’URGENZADIRAFFORZAREICRITERIDIPREVENZIONESUIPERICOLICHIMICICHEPREGIUDICANOLASICUREZZADELL’USOUMANODELLEACQUE.IPIANIDISICUREZZADELL’ACQUACOSTITUISCONOL’APPROCCIODIELEZIONEPERASSICURARENELTEMPOLAQUALITÀDELL’ACQUADISTRIBUITA.

La recente emergenza idro-potabile del Veneto in cui sostanze antropiche di straordinaria persistenza e mobilità ambientale hanno contaminato irreversibilmente le risorse idriche di una vasta area del territorio, con possibili impatti sanitari sulla popolazione esposta, è un caso emblematico di mancanza di prevenzione e controllo sulle risorse idriche ambientali, da cui occorre ripartire per rivedere i nostri modelli di sviluppo con una decisa advocacy di salute-ambiente (figura 1 e 2).

Le aree di salvaguardia

Le azioni di protezione ambientale delle risorse idro-potabili sono state da tempo definite da una legislazione consolidata che, più di recente, nel Dlgs 152/2006 e s.m.i., disciplina le “aree di salvaguardia” delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano al fine di mantenere e migliorare le caratteristiche qualitative delle acque distribuite, nonché per tutelare lo stato quantitativo e il prelievo sostenibile delle risorse. Spetta

FIG. 1PFAS IN VENETO

Alcuni fattori determinanti e concomitanti per la diffusione dei fenomeni di contaminazione da Pfas in diverse province del Veneto.

Fonte: Regione Veneto, Arpav - Dipartimento regionale per la sicurezza del territorio, “Monitoraggio delle sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) nella rete di sorveglianza delle acque sotterranee anni 2015-2016”, Nota tecnica n. 02/17.

FIG. 2PFAS IN VENETO

Rappresentazione schematica del sistema idrogeologico della pianura pedemontana veneta.

Fonte: Regione Veneto, Arpav - Dipartimento regionale per la sicurezza del territorio, “Monitoraggio delle sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) nella rete di sorveglianza delle acque sotterranee anni 2015-2016”, Nota tecnica n. 02/17.

A sinistra, gli acquiferi in roccia dei rilievi in connessione idraulica diretta con i potenti acquiferi alluvionali della pianura pedemontana. È in questa zona di alta pianura che avviene, attraverso le piogge, la dispersione dei fiumi e l’irrigazione, la ricarica dell’intero sistema idrogeologico. In rosso viene evidenziato il settore di pianura interessato dall’inquinamento, comprendente l’acquifero indifferenziato della media-bassa valle dell’Agno, il dominio degli acquiferi di media e bassa pianura delle province di Padova e Verona.

Presenza del sito inquinante nell’area di ricarica della falda utilizzata a scopo idro-potabile

Emissione pluridecennale e continua nel tempo di inquinanti in acque sotterranee e superficiali contigue

al sito e, attraverso fognatura, in diversi corpi idrici ricettori anche distanti

Caratteristiche chimico-fisiche dei Pfas

Straordinaria persistenza e mobilità delle sostanze nel suolo e nelle acque

Vulnerabilità idrogeologica-strutturale del territorio

Sistema idrogeologico caratterizzato da elevata idrodinamica sotterranea e interazione tra corpi idrici

superficiali e sotterranei

Storicità e continuità dei fenomeni inquinanti

Possibile origine del fenomeno stimata tra la fine del 1966 e l’inizio del 1967

Carenze normative sul monitoraggio ambientale dei Pfas

Prima dell’emergenza dei fenomeni non sono definiti limiti nelle acque,

né obblighi di monitoraggio

Continuità delle emissioni anche dopo l’emergenza dei fenomeni

Alcune sostanze, come nel caso dei Pfas a catena corta, sono autorizzati dal regolamento Reach e

l’utilizzo e il rilascio in ambiente è preseguito anche a contaminazione conclamata

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alle Regioni individuare sulla base delle circostanze territoriali specifiche le aree di salvaguardia degli acquiferi, distinte come segue:- zona di tutela assoluta, costituita dall’area immediatamente circostante le captazioni o derivazioni- zona di rispetto, costituita dalla porzione di territorio circostante la zona di tutela assoluta da sottoporre a vincoli e destinazioni d’uso tali da tutelare qualitativamente e quantitativamente la risorsa idrica captata; può essere suddivisa in zona di rispetto ristretta e zona di rispetto allargata, in relazione alla tipologia dell’opera di presa o captazione e alla situazione locale di vulnerabilità e rischio per la risorsa- zona di protezione: si tratta di aree strategiche per la prevenzione di contaminazioni di acquiferi sotterranei, individuate idealmente sulla base di modelli di circolazione idrica sotterranea, e nelle quali viene controllato l’impatto di ogni sorgente di pressione del territorio interessato attraverso limitazioni e prescrizioni per gli insediamenti civili, produttivi, turistici, agro-forestali e zootecnici, da inserire negli strumenti urbanistici territoriali. Di fondamentale importanza ai fini della protezione delle acque sotterranee, le Regioni e le Province autonome sono chiamate a individuare e disciplinare, all’interno delle zone di protezione: a) aree di ricarica della faldab) emergenze naturali e artificiali della faldac) zone di riserva, nonché altre zone di protezione all’interno dei bacini imbriferi e delle aree di ricarica della falda.

Nell’assetto generale della definizione delle aree di salvaguardia degli acquiferi idro-potabili sono stati senz’altro registrati notevoli progressi, passando da criteri di protezione semplicemente geometrici a stime temporali sulla migrazione dei potenziali contaminanti nell’acquifero, sino ai modelli più avanzati di analisi di vulnerabilità delle falde. L’evoluzione ha riguardato soprattutto la conoscenza e definizione accurata della struttura idrogeologica delle falde utilizzate per captazioni e i rapporti tra gli acquiferi, nonché il progresso della modellistica a supporto dell’analisi di rischio idrogeologico che, sia a livello delle istituzioni regionali e territoriali che nelle aziende di gestione idrica, può oggi contare su un consistente bagaglio di conoscenze geologiche e idrogeologiche, e, in alcuni casi, su risorse specializzate nel trattamento e nell’analisi delle informazioni ambientali. In tale contesto,

lo studio e la definizione delle aree di salvaguardia si integra in una più vasta funzione proattiva in campo geologico a supporto di ogni scelta gestionale del sistema idro-potabile attraverso un’analisi multidimensionale di dati geologici e idro-geologici tramite Gis, elaborazioni statistiche/geostatistiche, interpretazione quantitativa e modellistica. In particolare, la generazione di molteplici piani sovrapponibili, geologici/idrogeologici, geofisici; idrogeochimici, isotopici e modellistico-numerici, in scenari di breve e lungo-termine anche con diverse variabili in chiave di cambiamenti climatici, sta potenziando significativamente l’efficienza delle operazioni effettuate dalle water utilities, in chiave sia strategica e progettuale che preventiva e gestionale.A fronte di un generale progresso nello sviluppo delle tecnologie a supporto della definizione e controllo delle aree di salvaguardia, permangono comunque dei deficit importanti nel territorio nazionale, soprattutto, ma non solo, per quanto riguarda le fonti di minore rilevanza e gli approvvigionamenti autonomi. È abbastanza diffusa, infatti, in molte circostanze territoriali, l’inadeguata individuazione delle aree di salvaguardia e l’applicazione dei necessari vincoli sul territorio, come risulta ridotto il rispetto di questi ultimi. In molti casi si sconta il retaggio di sviluppi industriali pregressi che non hanno tenuto conto delle pressioni di molte attività sulle risorse idriche, ma, in ogni caso, queste situazioni pongono le autorità sanitarie preposte al giudizio di idoneità al consumo delle acque in una difficile analisi di rischio, che spesso finisce per assicurare la qualità delle acque consumate solo in base a un monitoraggio retrospettivo e

limitatamente significativo rispetto ai molteplici agenti contaminanti – anche non oggetto di ordinario monitoraggio – di potenziale impatto sulla risorsa idrica.

Tali criticità non sono certo derivate dalla procedura per l’individuazione delle aree di salvaguardia, ben normata, chiara e definita. È invece fortemente diverso sul piano regionale il livello di attività e efficienza gestionale e amministrativa per l’adozione delle aree di salvaguardia, la definizione e il rispetto dei vincoli ambientali nel territorio. E, d’altro canto, una notevole difficoltà è nel fatto che i vincoli non prevedono alcun indennizzo a favore dei Comuni interessati e dei proprietari delle aree coinvolte in ottemperanza al principio di prevalenza di interesse pubblico sul privato in materia ambientale. Oggettivamente, specie in situazioni in cui i vincoli vanno ad incidere su realtà economiche depresse e quindi tendono a peggiorare situazioni già critiche, per garantire benefici ambientali a vantaggio di soggetti terzi rispetto a coloro che subiscono danni economici, potrebbero essere identificate delle misure di negoziazione trasparenti con i soggetti cui fanno capo attività potenzialmente critiche, che possano garantire l’efficienza della protezione del bene acqua. In questo, certamente l’attuazione di modelli analitici di prevenzione quali i Piani di sicurezza dell’acqua2, introdotti di recente nella normativa nazionale3, attraverso l’adozione di misure di controllo specifiche a protezione degli ambienti di captazione possono definire con precisione, trasparenza e dovuta diligenza, gli interventi dei gestori idro-potabili, delle istituzioni territoriali e delle comunità locali finalizzati alla tutela del bene ecosistemico “acqua”, nel tempo.

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La pericolosità intrinseca delle sostanze per gli approvvigionamenti

C’è da evidenziare come le misure di protezione delle risorse idriche, anche nel senso di definire e controllare le aree di salvaguardia, devono essere oltre che prettamente sito-specifiche, decisamente correlate alla natura delle sostanze chimiche potenzialmente contaminanti. Affinché una sostanza chimica emessa nell’ambiente possa costituire un pericolo concreto per le fonti di acqua potabile, devono infatti sussistere una serie di condizioni ed eventi pericolosi determinanti nel “destino ambientale” della sostanza, quali, tra l’altro, il trasporto dal punto di emissione attraverso i diversi comparti del suolo e lungo i corpi d’acqua, le falde acquifere e altre barriere naturali o artificiali, nell’arco temporale di settimane, mesi o anche anni (figura 3). Le sostanze persistenti e mobili nell’ambiente rappresentano quindi delle elevate priorità di rischio per la sicurezza del ciclo dell’acqua, raggiungendo livelli nelle risorse idriche naturali in grado di pregiudicare la salute degli ecosistemi e degli uomini, in particolare se presentano tossicità a basse concentrazioni4.

Nell’esperienza Pfas del Veneto si è osservato il paradosso di un continuo utilizzo e scarico autorizzato di molti composti (in particolare Pfas a catena corta) in una situazione ambientale fortemente compromessa e con potenziali ricadute sanitarie; tali sostanze, infatti, ancorché dotate di persistenza e mobilità straordinaria nel suolo e negli ambienti acquatici e, inoltre, scarsamente controllabili in potabilizzazione mediante le tecnologie di trattamento anche più avanzate (filtrazione su carboni attivi) sfuggono alle restrizioni del regolamento Reach rispetto al quale sono autorizzate. Attualmente, infatti, il regolamento Reach5 definisce come “Substances of very high concern” (Svhc) sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche (Pbt) o molto persistenti e molto bioaccumulabili (vPvB).

Diverse istituzioni nazionali tra cui l’Istituto superiore di sanità, il ministero della Salute e il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare hanno quindi di recente sollevato la preoccupazione di una limitata protezione del regolamento Reach rispetto a sostanze a elevata persistenza e mobilità ambientale. Nella stessa direzione si è decisamente orientata l’Agenzia tedesca per l’ambiente

(Uba) che ha di recente formulato un’importante proposta a livello europeo6: il primo obiettivo della proposta è quello di raggiungere un consenso sulla necessità di evitare emissioni indebite nell’ambiente da parte di sostanze, registrate ai sensi della normativa chimica dell’Ue sul Reach, che, in forza delle proprietà intrinseche della sostanza, in particolare la mobilità ambientale, possono essere un pericolo per gli approvvigionamenti di acque potabili. Il secondo obiettivo è stabilire persistenza, mobilità e tossicità (Pmt) e elevata persistenza e mobilità (vPvM) delle sostanze mediante una procedura di valutazione finalizzata a prevenire il pericolo di contaminazione per le fonti di acque potabili. Il terzo obiettivo è ridurre al minimo le emissioni ambientali di sostanze Pmt/vPvM incoraggiando i produttori a implementare misure di riduzione del rischio, simili agli obblighi esistenti in Reach per sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche/molto persistenti e molto bioaccumulabili (Pbt/vPvB) al fine di proteggere gli approvvigionamenti di acque a destinazione umana per la nostra generazione e quelle che seguiranno.

Azioni di prevenzione integrate e Piani di sicurezza dell’acqua

L’evoluzione delle conoscenze tecnico-scientifiche e il progresso nella conoscenza idrogeologica e nella modellizzazione può

garantire un’evoluzione sostanziale nella protezione delle sorgenti idro-potabili da fonti di contaminazioni geogeniche e industriali su base sito-specifica; d’altro canto il rafforzamento del regolamento Reach, con l’integrazione di criteri correlati alla persistenza e mobilità ambientale, può costituire un presupposto generale di precauzione, prevenendo la circolazione in falda di sostanze pericolose per la sicurezza delle risorse idriche da destinare a uso umano. Si tratta, in ogni caso, di strumenti potenti, ma che, di per sé, potrebbero anche essere non adeguatamente protettivi nella pratica, tenendo conto delle storiche inefficienze nella definizione e gestione delle aree di salvaguardia sul territorio, e, ancor più, nel controllo nell’applicazione dei vincoli. Sistemi integrati di analisi di rischio applicati alle filiere idro-potabili, quali i Piani di sicurezza dell ’acqua (Dm 14/06/2017), rappresentano in questo contesto gli strumenti di elezione per l’applicazione di criteri estensivi di precauzione applicati alle aree di rispetto e protezione. Nel breve periodo, infatti, attraverso il piano sono individuati i portatori di conoscenza più qualificati (in primo luogo le Arpa) sulle pressioni e contaminazione e sono applicati gli strumenti più idonei per attuare misure di controllo rafforzate (ad esempio sonde multiparametriche e sistemi early-warning, piezometri di monitoraggio che intercettino la contaminazione in falda prima dell’approvvigionamento), in caso di incertezze delle conoscenze; sono

FIG. 3AMBIENTE, ACQUA E SALUTE

Alcune caratteristiche delle sostanze chimiche emesse nell’ambiente determinanti per esercitare un pericolo concreto per le captazioni di acque destinate al consumo umano e per l’esposizione umana.

AMBIENTE, ACQUA E SALUTE Pericoli, rischi ambientali ed esposizione umana

Pericolosità intrinseca, presenza nell’ambiente, concentrazione, attività biologica, destino ambientale

Miscelazione e diluizione

Volatilizzazione

Adsorbimento

Mobilità del contaminante e ambiente chimico

Degradazione biologica

Vulnerabilità suolo

Captazione

Trattamenti di potabilizzazione e distribuzione

Distribuzione

Esposizione umana:- Consumo · Igiene personale e domestica · Uso potabile- Usi agricoli, zootecnia, produzione alimentare- Usi ricreazionali, esposizione professionale ecc.

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nel contempo implementate le azioni che presiedono alla salvaguardia delle captazioni attraverso una prioritizzazione dei centri di pericolo (non solo impianti in regime di Aia, industrie e emissioni attuali, ma anche siti produttivi pregressi, discariche illecite o interramenti, altre fonti inquinanti come siti di stoccaggio di prodotti, laboratori artigianali non connessi in passato a pubbliche fognature ecc.), anche rispetto alle sostanze potenzialmente in circolo. Le fonti di conoscenza su tali pressioni, essenziali ai fini dell’analisi di rischio, possono essere le più diverse: autorizzazioni Aia, censimento delle attività produttive in sede Arpa, imprese non allacciate in passato a fognatura/depurazione, ma anche ricerche ambientali per diversi fini o rapporti dalla Medicina del lavoro con conoscenza dei siti produttivi e delle sostanze utilizzate nei cicli di lavorazione. Nel medio-lungo periodo, il piano di sicurezza dell’acqua individua i soggetti responsabili, per dovuta diligenza, e le modalità attuative delle norme per assicurare adeguate aree di salvaguardia e vincoli ambientali a protezione delle captazioni: si tratta di strumenti flessibili che possono andare dalla negoziazione per la restrizione d’uso di fitofarmaci in aziende agricole intensive alla riconversione di siti produttivi incompatibili, fino a procedure di esproprio.

Le azioni dei piani di sicurezza, adeguatamente comunicate, possono anche assicurare informazioni alle comunità sulle azioni e i risultati in merito alla protezione delle risorse ecosistemiche che la comunità remunera, oggi indifferenziatamente, in fattura. Questo è il presupposto per valorizzare e potenziare le diverse azioni per la sostenibilità d’uso delle risorse, oggi improcrastinabile necessità anche per i cambiamenti climatici e ambientali in atto che stanno mettendo in crisi il conseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile.

Luca Lucentini1, Stefano Polesello2, Sara Valsecchi2, Maurizio Gorla3, Marco Petitta4, Stefano Tersigni5, Marina Vazzoler6, Filippo Mion7

1. Istituto superiore sanità, Iss, Roma

2. Istituto di ricerca sulle acque, Consiglio

nazionale delle ricerche, Irsa-Cnr, Brugherio

3. Consorzio per l’acqua potabile, Cap

Holding Spa, Milano

4. Università La Sapienza, Roma

5. Istituto nazionale di statistica, Istat, Roma

6. Regione Veneto

7. Arpa Veneto

NOTE1 Istat, Censimento delle acque per uso civile, anno 2015, 14 dicembre 2017, www.istat.it/it/archivio/207497.2 a) World Health Organization, Guidelines

for drinking-water quality. Volume 1. Recommendations, 3rd Edition, Geneva, 2004. b) World Health Organization, Water safety plan manual: Step-by-step risk management for drinking-water suppliers. 3rd edition .Vol. 1, Geneva, 2008. c) Linee guida per la valutazione e gestione del rischio nella filiera delle acque destinate al consumo umano secondo il modello dei Water Safety Plans, a cura di Luca Lucentini, Laura Achene, Valentina Fuscoletti, Federica Nigro Di Gregorio e Paola Pettine, 2014, xi, 89 p. Rapporti Istisan 14/20.3 Decreto del ministero della Salute 14 giugno 2017, Recepimento della direttiva (UE) 2015/1787 che modifica gli allegati II e III della direttiva 98/83/CE sulla qualità delle acque destinate al consumo umano. Modifica degli allegati II e III del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 31, Gazzetta ufficiale del 18 agosto 2017, n. 192.4 Liu J., Kattel G., Arp H.P.H., Yang H., 2015, “Towards threshold-based management of freshwater ecosystems in the context of climate change”, Ecological Modelling, 318, 265-274.5 Regolamento (CE) n. 1907/2006 relativo alla registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche (Reach) e che istituisce un’Agenzia europea per le sostanze chimiche.6 Uba (German Environmental Agency), 2017, Protecting the sources of our drinking water. A revised proposal for implementing criteria and an assessment procedure to identify Persistent, Mobile and Toxic (PMT) and very Persistent, very Mobile (vPvM) substances registered under Reach, www.umweltbundesamt.de/publikationen/protecting-the-sources-of-our-drinking-water-from.

“Pensare l’acqua” sia a livello locale che planetario e “fantasticare l’acqua”, sul suo ciclo e le sue metamorfosi: in occasione della Giornata mondiale dell´acqua, dal 21 al 24 marzo 2018 il Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci (Strada Masone 121, Fontanellato, Parma) organizza il summit internazionale Labirinto d’Acque 2018, punto focale italiano delle celebrazioni. Quattro giornate in cui importanti protagonisti della scena mondiale, non solo scientifica, si succedono in convegni e incontri per fare il punto sulla situazione della risorsa idrica e sul futuro delle acque del pianeta.

I lavori sono inaugurati mercoledì 21 marzo dalla conferenza internazionale con esposizione The virtuous path: from water scarcity to water efficiency. La conferenza, in lingua inglese, è l’edizione zero di un appuntamento che verrà ripetuto nel Labirinto ogni due anni, in cui i principali attori internazionali faranno periodicamente il punto sulle sfide del secolo: la crisi idrica globale nelle sue connessioni con i cambiamenti climatici, la sostenibilità, l’innovazione.Oltre al Centro acque dell’Università di Parma, all’organizzazione della conferenza collaborano: United Nations Commission for Hydrology della World Meteorological Organization (Wmo), World Water Assessment Programme (Wwap) dell’Unesco, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), Autorità di bacino distrettuale del fiume Po, Agenzia interregionale per il fiume Po (Aipo) e Arpae Emilia-Romagna.

L’evento è no-profit e non sponsorizzato, ai partecipanti è richiesto un piccolo contributo per le spese organizzative.Gli abstract dei convenuti sul tema “innovazione per l’efficienza idrica”, riscritti come brevi articoli, comporranno gli atti della conferenza che saranno pubblicati su una rivista indicizzata. Programma completo nel sito Labirinto d’Acque 2018 (www.labirintodacque.it).

“LABIRINTO D’ACQUE 2018”, QUATTRO GIORNI DI EVENTI A FONTANELLATO (PR)

“DALLA SCARSITÀ ALL’EFFICIENZA IDRICA” CONFERENZA INTERNAZIONALE AL LABIRINTO DI FRANCO MARIA RICCI

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Qualità dell’aria, accesso all’acqua potabile, minimizzare l’impatto delle sostanze chimiche, ridurre gli effetti sanitari e ambientali dei rifiuti, rafforzare le azioni di adattamento e di resilienza ai cambiamenti climatici, rendere le citta più sane, migliorare la sostenibilità ambientale dei servizi sanitari sono le priorità di intervento individuate nella Dichiarazione finale della Sesta Conferenza interministeriale su ambiente e salute (Ostrava, Repubblica Ceca, 13-15 giugno 2017).

“Una salute migliore, un ambiente più salubre, scelte sostenibili”. Queste le tre parole d’ordine con cui Zsuzsanna Jakab, direttore regionale dell’Ufficio europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha aperto la Sesta Conferenza interministeriale su ambiente e salute che si è tenuta a Ostrava, nella Repubblica Ceca, dal 13 al 15 giugno 2017. Una sede non casuale, con il centro congressi inserito all’interno delle acciaierie Dolní Vítkovice, chiuse nel 1998, e successivamente riqualificate come grande spazio pubblico, vero centro culturale della città, e museo industriale. Un’ambientazione suggestiva, adatto al concetto di una “Agenda per lo sviluppo sostenibile” che punti alla protezione dell’ambiente e della salute.

A partire da quanto realizzato dopo la precedente conferenza, che si era tenuta a Parma nel 2010, i rappresentanti dei 53 Stati membri della Regione europea dell’Oms e delle organizzazioni internazionali e non governative si sono incontrati per discutere gli sviluppi nei campi prioritari.La Dichiarazione finale ha identificato 7 priorità sul tema ambiente e salute:a) qualità dell’aria indoor e outdoor, confermata quale uno dei più importanti fattori ambientali di rischio nella Regione europea, con invito a intraprendere azioni per il rispetto dei parametri di qualità dell’aria previsti dalle linee guida OMS;b) richiamo all’accesso universale, equo e sostenibile all’acqua potabile sicura e a servizi igienici per tutti, attraverso una gestione integrata delle risorse idriche;c) minimizzazione degli effetti avversi dei prodotti chimici sulla salute umana e sull’ambiente attraverso l’uso di alternative più sicure, la riduzione dell’esposizione soprattutto per i gruppi vulnerabili, il rafforzamento della competenza in materia di valutazione del rischio, l’ applicazione del principio di precauzione quando appropriato;d) gestione dei rifiuti e i siti contaminati, per la riduzione degli effetti ambientali e sanitari avversi, dei costi e delle diseguaglianze, in un contesto di transizione verso una economia circolare;

e) cambiamenti climatici, con il rafforzamento di adattamento e resilienza nei confronti dei rischi per la salute, e supporto alle misure di mitigazione previste dall’Accordo di Parigi;f) pianificazione territoriale e urbanistica, finalizzata a rendere le città più sane, inclusive e sicure, attraverso un approccio integrato, intelligente e di promozione della salute per la pianificazione urbanistica e territoriale e la gestione della mobilità;g) sostenibilità ambientale dei sistemi sanitari, chiamati a una riduzione degli impatti ambientali attraverso l’uso efficiente di energia e risorse, una buona gestione dei presidi medici e dei prodotti chimici, la riduzione dell’inquinamento con una gestione sicura dei rifiuti e delle acque reflue, senza mettere in discussione l’igiene dei servizi per la salute.Le priorità individuate toccano settori che interessano anche il nostro Paese, assieme a temi trasversali e comuni a tutti gli argomenti, quali la valutazione di impatto ambientale e sulla salute, oggetto di confronto nazionale per l’attuazione della nuova Direttiva europea sulla Via, che rafforza l’inclusione di indicatori di salute nelle valutazioni di nuovi impianti o nel rinnovo delle autorizzazioni.Il documento conclusivo (disponibile all’indirizzo http://bit.ly/2sO5LY4) contiene anche le azioni che i 53 paesi membri si impegnano a sviluppare, attraverso documenti nazionali che identifichino le azioni più appropriate. (AR, AC)

LE 7 PRIORITÀ DI OMS EUROPA

AMBIENTE E SALUTE, LA CONFERENZA DI OSTRAVA (13-15 GIUGNO 2017)

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Il tema dei contaminanti emergenti è certamente complesso e di grande attualità, come dimostra il caso Pfas nel Veneto. L’impatto dei nuovi contaminanti – in particolare la loro diffusione nelle risorse idriche, la trasformazione che possono subire dopo la loro immissione nell ’ambiente e gli effetti conseguenti – costituisce una nuova frontiera delle conoscenze. Su questi temi si concentrerà una parte importante delle attività delle Agenzie e del Sistema nazionale di protezione dell ’ambiente (Snpa). Questi i temi discussi anche nella sessione tematica “Acque sotterranee e inquinamento delle falde, il caso dei contaminanti emergenti” proposta alla Summer school AssoArpa di Cagliari (27-29 settembre 2017) i cui contributi sono in queste pagine; Giuseppe Bortone, direttore generale di Arpae, ha introdotto la sessione con riflessioni e spunti per la discussione riproposti nell ’editoriale in questo numero di Ecoscienza (pag. 3). (DR)

CONTAMINANTI EMERGENTI, UNA SFIDA CONTINUA PER IL SISTEMA DELLE AGENZIE AMBIENTALI

Contaminazione da Pfas, l’esperienza del Veneto

Nel 2013 uno studio [18] dell’Istituto di ricerca sulle acque del Centro nazionale di ricerca rilevava la presenza, nelle acque potabili e in diversi corpi idrici superficiali, di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) in un’estesa area del Veneto. Lo studio nasceva da una convenzione Irsa-Mattm1 per indagare il rischio ambientale e sanitario associato alla contaminazione da Pfas nel bacino del Po e nei principali bacini italiani. Nel giugno del 2013 lo studio, trasmesso ad Arpa Veneto (Arpav), ha dato avvio alle prime indagini per delimitare l’area interessata e individuare la sorgente. Questa attività si è sviluppata contemporaneamente e a supporto delle iniziative di tutela della salute pubblica degli enti coinvolti attraverso il coordinamento della Direzione prevenzione e della Direzione tutela ambiente della Regione del Veneto.

Cosa sono i PfasI contaminanti emergenti hanno assunto un interesse crescente da parte della comunità scientifica internazionale per la loro persistenza ambientale, per essere bioaccumulabili, per la loro tossicità e distribuzione globale [12, 13, 21]. Si tratta di sostanze artificiali non esistenti in natura la cui presenza è stata rilevata nel biota, negli animali, in suoli, sedimenti, acqua e aria [1, 9, 13]. I Pfas rappresentano una famiglia di composti chimici costituiti da catene di atomi di carbonio a lunghezza variabile da 4 a 12, lineari o ramificate, legate ad atomi di

fluoro e ad altri gruppi funzionali. Il forte legame covalente esistente tra carbonio e fluoro conferisce una straordinaria inerzia chimica a queste sostanze, rendendole uniche e molto apprezzate dal settore produttivo [12, 21]. I Pfas infatti sono molto resistenti all’idrolisi, alla fotolisi, alla termolisi e alla degradazione microbica e quindi particolarmente persistenti nell’ambiente [16].I principali usi sono funzionali a rendere resistenti ai grassi e all’acqua materiali quali tessuti come giacche impermeabili, tappeti, pelli, carta, circuiti, rivestimenti di contenitori per alimenti,pentole antiaderenti. Si usano inoltre nelle schiume antincendio, nelle pitture e vernici [12]. Oltre che negli stabilimenti di sintesi queste sostanze possono essere impiegate nei processi produttivi di diversi settori: tessile, conciario, galvanico, cartario. Di particolare interesse sono i composti a catena lunga che hanno dimostrato di essere più bioaccumulabili e più tossici per gli esseri umani rispetto agli omologhi a catena corta. Il Pfos (acido perfluoroottansolfonico) e il Pfoa (acido perfluoroottanoico) sono i due

acidi perfluoroalchilici a catena lunga maggiormente studiati e discussi nella letteratura scientifica (figura 1).

Le indagini ambientali condotte da Arpav hanno permesso di individuare l’origine dell’inquinamento in un’area di pertinenza di uno storico stabilimento chimico nella media valle dell’Agno in comune di Trissino. Il sottosuolo, in questa zona, è caratterizzato da un potente acquifero alluvionale indifferenziato spesso fino a 100 m [4] e sede della falda freatica che alimenta gli acquiferi della media e bassa pianura occidentale di Vicenza da cui traggono alimentazione numerosi pozzi pubblici di approvvigionamento potabile. Dal sito sorgente la propagazione è avvenuta verso valle attraverso le acque sotterranee che rappresentano il più importante vettore di diffusione4 nell’ambiente; dall’area sorgente, la propagazione si sviluppa in una stretta fascia a ridosso del versante orientale della valle dell’Agno3 verso sud (figura 2) per poi aprirsi in due lobi divergenti: uno con direzione est mentre l’altro, molto più esteso, verso sud.La presenza di più fattori predisponenti, combinati con un prolungato periodo di diffusione nell’ambiente, ha determinato la contaminazione di un vastissimo territorio a valle del sito sorgente. In sintesi i fattori sono: - un sistema idrogeologico nell’area sorgente particolarmente vulnerabile, area

La contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) scoperta nel 2013 in un’area vasta del Veneto impegna costantemente Arpav in indagini ambientali sempre più complesse e integrate con informazioni sanitarie. In mancanza di specifiche normative queste sostanze erano escluse dai monitoraggi abituali.

FIG. 1 - STRUTTURA CHIMICA DEI PFAS PIÙ CONOSCIUTI. Il Pfoa (acido perfluoroottanoico) e il Pfos (acido perfluoroottansolfonico). In grigio: atomi di carbonio; in azzurro: fluoro; in rosso: ossigeno; in bianco: idrogeno; in giallo: zolfo.

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FIG. 2 PFAS, CASO VENETO

Rappresentazione dell’area della media-bassa valle dell’Agno, in giallo il plume inquinante, in azzurro il deflusso idrico sotterraneo della valle.

FIG. 3PFAS, CASO VENETO

Delimitazione dell’inquinamento da Pfas nelle acque sotterranee. La concentrazione rilevata varia da valori nulli a valori superiori a 60.000 ng/l di Pfas totali.

TAB. 1PFAS, CASO VENETO

I limiti di performance introdotti nel 2017 dalla Regione Veneto

Sostanza Livelli performance tecnologica (ng/l)

PFOS e isomeri ramificati 30

PFOA + PFOS e isomeri ramificati 90

Altri PFAS 300

di ricarica degli acquiferi, caratterizzata da un’elevata idrodinamica sotterranea – velocità anche superiore a 10 m/giorno [17] – con strettissimi rapporti di interdipendenza tra acque superficiali e sotterranee- le caratteristiche chimico-fisiche dei Pfas che ne permettono l’estrema diffusione nell’ambiente: l’estensione longitudinale dell’inquinamento nelle acque sotterranee a sud ha superato i 35 km. Per le specifiche proprietà di persistenza e bassa/nulla biodegradabilità i Pfas possono essere considerati formidabili traccianti dei deflussi idrici sotterranei e superficiali; circa la dimensione temporale dell’inquinamento, secondo lo studio sui tempi di propagazione dell’inquinamento di Arpav [15], la possibile origine è stimata tra fine 1966 e inizio 1967. A occultare la presenza dei Pfas nell’ambiente così a lungo hanno influito le loro caratteristiche organolettiche in soluzione acquosa (incolori, inodori e insapori), oltre a non presentare alcuna tossicità immediata nelle concentrazioni riscontrate. Sul piano normativo, è utile ricordare che prima del 2013 queste sostanze non venivano ricercate nei controlli e monitoraggi ambientali in quanto non esistevano specifiche norme nazionali.Le falde idriche sotterranee si sono rivelate la matrice ambientale più compromessa, con un’estensione del plume inquinante superiore a 190 km2. L’estensione dell’inquinamento è tale da comprendere sia l’acquifero intravallivo indifferenziato della media-bassa valle dell’Agno, sia gli acquiferi di media e bassa pianura tra le province di Padova e Verona (figura 3). La compromissione dei sistemi di risorgiva della media pianura e dei relativi corsi d’acqua afferenti ha comportato la contaminazione di una parte considerevole della rete idrografica collegata (Agno-Guà-Frassine; Togna-Fratta-Gorzone; Retrone; Bacchiglione) conferendo al fenomeno una rilevanza internazionale.

La messa in sicurezza d’emergenza La progressiva propagazione dell’inquinamento attraverso le acque sotterranee ha determinato la compromissione delle fonti di approvvigionamento pubbliche idropotabili presenti nell’area, in particolare del campo pozzi di Almisano. Questo campo serve 21 comuni, molti dei quali in territori non interessati dalla contaminazione. Complessivamente, attraverso la filiera idropotabile sono state esposte a queste sostanze più di 126.000 persone. A seguito della scoperta dell’inquinamento le autorità competenti,

come misura di messa in sicurezza di emergenza, hanno installato efficaci sistemi di filtrazione a carbone attivo granulale (GAC) nei pozzi vulnerati dall’inquinamento per rispettare i “limiti di performance” stabiliti in emergenza dall’Istituto superiore di sanità. Nel 2017 la Regione Veneto, su indicazione della Commissione ambiente e salute, ha drasticamente ridotto tali limiti (tabella 1) con l’obiettivo di azzerare

le concentrazioni di Pfas nelle acque distribuite dagli acquedotti. Le azioni attuate dalle autorità sanitarie per affrontare l’emergenza sono state la predisposizione di un Piano di sorveglianza sanitaria della popolazione più esposta ai Pfas (85.000 persone nella fascia 14-65 anni nei comuni della zona rossa) e un Piano di monitoraggio degli alimenti che riguarda 793 alimenti di origine vegetale e 611 di origine animale. A oggi sono più di

EdificiLimiti comunaliLimiti provincialiLimite superiore fascia delle risorgiveIdrografia principaleIsofreaticaPaleostrutture deposizionali del fume Agnò-GuàPlume provvisorio PFASs (>= 500 ng/l Tot)Rete viaria principaleZona con indagini in corso

LEGENDA

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8.400 le analisi di matrice sanitaria (acque potabili, siero, alimenti ecc.) eseguite dai laboratori Arpav.A quattro anni dalla scoperta della contaminazione le indagini ambientali sono tuttora in corso e hanno assunto una complessità tale da impegnare notevoli risorse dell’Agenzia. L’area d’indagine è di oltre 700 km2 tra le province di Vicenza, Verona e Padova. L’indagine per rilevare la presenza dei Pfas si è estesa sull’intera regione, individuando alcune criticità minori. Sono state inoltre predisposte reti di monitoraggio sia per le acque sotterrane che superficiali per controllare l’evoluzione spazio-temporale dell’inquinamento. I laboratori Arpav hanno analizzato più di 3.700 campioni delle diverse matrici ambientali e oltre 8.400 per la matrice sanitaria per un totale di oltre 12.100 analisi4. Oltre alle frenetiche attività di indagine della prima fase, si sono sviluppate altre più articolate indagini ambientali che hanno l’obiettivo di definire tutti i fattori naturali e artificiali che possono concorrere alla diffusione dell’inquinamento e l’insieme dei processi chimico-fisici che possono determinarne la variazione di concentrazione nelle acque. A questo scopo è in fase di implementazione la modellistica idrogeologica che permetterà di quantificare

i processi chimico-fisici connessi alla propagazione dell’inquinamento e rappresenterà un strumento importante di “supporto alle decisioni” future. L’esperienza maturata da Arpa Veneto suggerisce un aspetto innovativo delle indagini ambientali: la necessità di una forte integrazione tra informazioni ambientali e sanitarie. Studi interdisciplinari specifici infatti potrebbero aumentare notevolmente il quadro informativo generale attraverso una mutua sinergia.

Nicola dell’Acqua1, Massimo Mazzola2

1. Direttore generale Arpa Veneto

2. Dipartimento regionale Sicurezza del

territorio Arpa Veneto

NOTE1 Nel 2006 il progetto europeo Perforce avviò un’indagine per valutare la presenza di Pfas nelle acque e sedimenti dei maggiori fiumi europei; tra questi, il Po risultò il fiume con le più alte concentrazioni di Pfoa.2 Questo in relazione al fatto che il torrente Poscola (il corso d’acqua che defluisce accanto al sito sorgente e usato come ricettore degli scarichi) presenta un regime idrologico effimero. 3 La stessa direttrice coincide con una paleostruttura deposizionale (paleoalveo) ricondotta da varia studi al torrente Poscola.[8, 17]4 Dati aggiornati a luglio del 2017.

FIG. 4PFAS, CASO VENETO

Aree di esposizione sanitaria definite dalla Regione Veneto attraverso un’analisi integrata preliminare e la definizione del grading di rischio.

1. Ahrens, L., Yeung, L., Taniyasu, S., Lam, P., e Yamashita, N., 2011a. Partitioning of perfluorooctanoate (PFOA), perfluorooctane sulfonate (PFOS) and perfluorooctane sulfonamide (PFOSA) between water and sediment. Chemosphere, 85(5), 731-7372. Altissimo L., Arca F., Dal Prà A., Ferronato A., Fumagalli F., Marangoni L., Mussato A., Zangheri P. Processi di inquinamento chimico industriale delle acque sotterranee nella media e alta pianura veneta”, GNDCI, Linea ricerca VAZAR, Mem. Sci. Geol. V. 47, Padova 19953. Antonelli R., Dal Prà A. Carta dei deflussi freatici dell’alta pianura veneta con note illustrative, Quad. Irsa-Cnr n. 51, Roma 19804. Antonelli R., Dazzi R, Gatto G., Mari G.M., Mozzi G., Zambon G., Correlazioni litostratigrafiche e idrostrutturali nel complesso alluvionale della bassa valle del fiume Agno-Guà e nell’antistante pianura vicentina. (M. Lessini orientali, Vicenza), Boll. Serv. Geol. d’Italia, Roma 19935. Antonelli R., Mari G.M., “Carta della vulnerabilità naturale con note illustrative - scala 1:25.000”. Gruppo nazionale, Venezia 19936. Antonelli R., Mari G.M., Considerazioni su uno studio idrogeologico di base per la realizzazione della carta della vulnerabilità nella pare basa della valle del fiume Agno-Guà, Atti Conv. Naz. Prot. E Gest. delle acque sotterranee, Modena 19907. Antonelli R., Stella L., Il chimismo delle acque freatiche della media e bassa valle del fiume Agno-Guà (Vicenza). St. Tren. Sc. Nat., vol. 56, Trento 19798. Bartolomei G., Il deflusso delle falde acquifere nella conoide Agno-Chiampo in base a due traccianti chimici, Mem. acc. olimpica di Vicenza 1983-1986. 9. Butt, C., Berger, U., Bossi, R., e Tomy, G., 2010. Levels and trends of poly- and perfluorinated compounds in the arctic environment. Science of The Total Environment, 408(15), 2936-2965.

10. Conder, J., Hoke, R., Wolf, W., Russell, M., e Buck, R., 2008. Are PFCAs bioaccumulative? A critical review and comparison with regulatory criteria and persistent lipophilic compounds. Environmental Science & Technology, 42(4), 995-1003.11. ECHA, Support document for identification PFOA, giugno 201312. Giesy, J., e Kannan, K., 2001. Global distribution of perfluorooctane sulfonate in wildlife. Environmental Science & Technology, 35(7), 1339-1342. 13. Giesy, J., e Kannan, K., 2002. Perfluorochemical surfactants in the environment. Environmental Science & Technology, 36(7), 146A-152A.14. Mari G.M., Carta isofreatica, Santa Maria di Sala (Ve) 1985 15. Mazzola M., Stima dei tempi di propagazione dell’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) nelle acque sotterranee in provincia di Vicenza, Padova e Verona”, Arpav Nota tecnica 0516/201616. Milinovic, J., Lacorte, S., Vidal, M., e Rigol, A., 2015. Sorption behaviour of perfluoroalkyl substances in soils. Science of The Total Environment, 511, 63-71.17. Pilotto. E, Ghezzi G., Marchetti M., Perin G., Sandri G., Stevanato S., Studio geologico e chimico dell’inquinamento della falda acquifera nei Comuni di Montecchio M., Creazzo, Sovizzo E Altavilla V.”, Irsev, Venezia 1979 (inedito)18. Polesello. S.Valsecchi S.,Rischio associato alla presenza di sostanze perfluoro-alchiliche (PFAS) nelle acque potabili e nei corpi idrici recettori di aree industriali nella Provincia di Vicenza e aree limitrofe, Irsa-Cnr, Roma, 25 marzo 2013. 19. Regione del Veneto, Carta delle unità geomorfologiche, Selca, Firenze 198720. Regione del Veneto, Servizio geologico d’Italia, Univ. studi di Padova, Carta geologica del Veneto, Selca, Firenze 198821. Schuetze, A., Heberer, T., Effkemann, S., e Juergensen, S., 2010. Occurrence and assessment of perfluorinated chemicals in wild fish from Northern Germany. Chemosphere, 78(6), 647-652.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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L’articolo 239, c.3 del Dlgs 152/06 demanda alle Regioni la disciplina, degli interventi di bonifica e ripristino ambientale per le aree caratterizzate da inquinamento diffuso, fatte salve le competenze e le procedure previste per i siti oggetto di bonifica di interesse nazionale (SIN) e, comunque, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal decreto in materia di bonifica. All’interno dei SIN per i quali la titolarità dei procedimenti di bonifica è attribuita al Mattm (art. 252 Dlgs 152/06), ricadono aree potenzialmente interessate da fenomeni di inquinamento diffuso, che interessano:• il suolo e in particolare:- aree agricole- giardini pubblici in aree urbane;- arenili• le acque sotterranee, in particolare a causa di:- presenza diffusa di superamenti delle concentrazioni soglia di contaminazione per composti organici (es. organoclorurati)- presenza diffusa di superamenti dei valori di fondo per composti inorganici (es: arsenico, boro, solfati, in vari SIN).A fronte delle richieste di supporto tecnico di alcune Regioni e per garantire omogeneità di approccio, il Mattm ha istituito un Tavolo tecnico con lo scopo di raccogliere le esperienze maturate in campo nazionale e definire Linee di indirizzo tecnico omogenee e generali, senza interferire nelle competenze regionali in materia di programmazione e pianificazione.

Il Tavolo tecnico, organizzazione e obiettivi Il Tavolo tecnico è attivo dal 23 novembre 2016 e i resoconti delle riunioni sono pubblicati sul sito web del Mattm al link: http://www.bonifiche.minambiente.it/. Al Tavolo partecipano i rappresentanti designati dalle Regioni e dalle Arpa/Appa, oltre a rappresentanti di Ispra e Iss. L’indice degli argomenti da sviluppare nelle Linee di indirizzo, condiviso dai partecipanti, è così articolato:1. definizione dell’ambito di applicazione dell’inquinamento diffuso, chiara separazione dell’inquinamento diffuso dall’art. 242: coerenza e chiarezza nell’uso dei termini (es. nella definizione di sito contaminato e di inquinamento diffuso; modalità di valutazione del rischio sanitario-ambientale associato all’inquinamento diffuso)2. determinazione del fondo (antropico o naturale): procedure amministrative e operative, criteri e linee guida per l’elaborazione dei Piani di gestione dell’inquinamento diffuso3. criteri per l’identificazione/delimitazione delle aree a inquinamento diffuso4. rapporti tra le attività indicate dai Criteri per l ’elaborazione dei piani per l ’inquinamento diffuso del Snpa al par. 4.1.2 “Esame delle evidenze dello stato di inquinamento” e le indagini da eseguire ai sensi dell’art. 244 del Tua5. rapporti tra piani di gestione dell’inquinamento diffuso e piani di tutela delle acque sotterranee6. ruolo delle Asl, anche nell’ambito della valutazione di rischio7. trasparenza (diritto di accesso alle informazioni ambientali) e corretta gestione dell’informazione ai cittadini, comunicazione del rischio8. aspetti finanziari e risorse per l’esecuzione delle attività.

Gli argomenti da sviluppare in via prioritaria sono i seguenti:• aspetti sanitari: i temi 6 (valutazione del rischio sanitario, ruolo delle Asl) e 7 (corretta gestione dell’informazione ai cittadini, comunicazione del rischio) con il coordinamento di Iss• aspetti normativi: i temi 1 (definizione dell’ambito di applicazione) e 4 (rapporti fra l’esame delle evidenze dello stato di inquinamento (par. 4.1.2 Linee guida

Snpa) e le indagini di cui all’art. 244 con il coordinamento del Mattm• aspetti tecnico-applicativi: i temi 2 “determinazione del fondo ambientale (antropico o naturale): criteri/procedure operative” e 3 “criteri per la delimitazione dell’area” con il coordinamento del Sistema nazionale protezione ambientale.Nel pieno rispetto dell’autonomia regionale in materia di pianificazione, i temi 5 (rapporti tra Piano di gestione e Piano di Tutela) e 8 (aspetti finanziari per l’esecuzione delle attività) sono stati affidati al tavolo interregionale costituitosi nell’ambito della Conferenza unificata.

Aspetti sanitari: valutazione e gestione dell’impattoL’Istituto superiore di sanità ha presentato una prima proposta di valutazione e gestione del possibile impatto sanitario connesso alle situazioni di inquinamento diffuso nei suoli. In particolare, per la valutazione e gestione del rischio sanitario secondo Iss è fondamentale:• individuare la tipologia di utilizzo del suolo, lo scenario di esposizione della popolazione (suolo urbano a uso verde/residenziale, suolo agricolo, arenili)• definire inquinanti indice sulla base dei seguenti parametri:- entità del superamento delle CSC (o dei valori di fondo naturale)- livelli di tossicità- grado di mobilità e persistenza nelle varie matrici ambientali- correlabilità ad attività, anche pregresse, svolte nel sito- frequenza di rilevamento dei superamenti delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) o valori di fondo naturali (VFN).Iss individua le seguenti 3 fasi comuni a tutti gli ipotetici utilizzi:I fase: individuazione di zone geograficamente separate o sub-aree in cui la presenza di particolari elementi geomorfologici possa essere indicativa di apporto alla contaminazione II fase: determinazione di un ordine di priorità nella definizione delle modalità di valutazione e di intervento, in funzione dei seguenti parametri:- caratteristiche chimico-fisiche-tossicologiche degli inquinanti indice- entità e frequenza dei superamenti delle CSC- reale utilizzo e fruibilità delle aree;- quantità e tipologia di popolazione fruitrice delle aree.III fase: individuazione delle vie di esposizione (ingestione, inalazione e

“Inquinamento diffuso”, gli orientamenti del MinisteroIl tema dell ’inquinamento diffuso è di particolare interesse sotto il profilo tecnico e giuridico. Un tavolo tecnico istituito nell ’ambito del ministero dell ’Ambiente (Mattm) ha discusso e condiviso alcuni orientamenti con i soggetti coinvolti, tra cui il Sistema nazionale di protezione dell ’ambiente (Snpa).

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contatto dermico) ed eventuale stima quantitativa del rischio (effetti tossici e/o cancerogeni) con idonee formule di calcolo.L’approccio valutativo e gestionale del rischio sanitario ha come obiettivo l’individuazione di idonee misure di intervento/mitigazione, da attuare nel breve termine (es. sostituzione strato superficiale di terreno) e nel medio-lungo termine (es. tecniche di fito-bioremediation) nell’ambito dei Piani di gestione. Parte integrante dei Piani di gestione sono i Piani di monitoraggio stabiliti per valutare nel tempo l’efficacia delle misure di intervento. Le modalità di gestione del rischio prevedono anche la restrizione d’uso delle aree attraverso le ordinanze sindacali.Sulla proposta di Iss, nel corso della riunione del 25 ottobre 2017, Snpa e Regioni hanno formulato osservazioni sostanzialmente convergenti, sulla base delle quali è stato chiesto di:- includere nella trattazione sia la matrice acque sotterranee sia i siti a destinazione d’uso industriale - fornire indicazioni sugli elementi essenziali da inserire nella comunicazione del rischio- fornire indicazioni tecnico-operative di maggior dettaglio sia sui criteri di valutazione (definizione di inquinanti indice, parametri di intervento per la determinazione delle priorità, valutazione dell’esposizione), comprese le modalità di campionamento e analisi, sia sulle modalità di elaborazione dei dati (procedura di calcolo diversa dalla AdR sito specifica di cui all’all.1, Parte quarta del Tua). È stata inoltre ribadita la necessità di differenziare condizioni, terminologia e strumenti (es CSC, AdR) già disciplinati nell’ambito dell’art. 242 del Tua. A tal proposito il Mattm si è impegnato a presentare una proposta di definizione e ambito di applicazione dell’inquinamento diffuso, che integri le Linee guida Snpa alla luce della recente giurisprudenza e degli orientamenti degli organi amministrativi. La proposta sarà pertanto integrata dall’Iss sulla base delle indicazioni pervenute.

Aspetti normativi: definizione di inquinamento diffuso e disciplina delle bonifiche La definizione di “inquinamento diffuso” è contenuta nell’art. 240, comma 1, lett. r) del Dlgs 152/06: “la contaminazione o le alterazioni chimiche, fisiche o biologiche delle matrici ambientali determinate da fonti diffuse e non imputabili ad una singola origine”. Questa definizione ha originato molte interpretazioni di “inquinamento

diffiuso”, non sempre condivisibili: da alcuni è stato inteso come inquinamento “vasto”, “esteso”, “distribuito su ampia scala”; da altri, attraverso la lettura meramente letterale della norma, come inquinamento derivante “da più sorgenti puntuali” in relazione alle quali non sia possibile determinare il contributo delle singole fonti. Prima dell’entrata in vigore del Dlgs 152/06, una definizione di “inquinamento diffuso” era contenuta nel Dm 471 del 25/10/1999 che all’art. 2, j), lo definiva come “contaminazione o alterazioni chimiche, fisiche o biologiche del suolo o del sottosuolo o delle acque superficiali o delle acque sotterranee imputabili alla collettività indifferenziata e determinate da fonti diffuse”.L’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) definisce l’inquinamento diffuso come “inquinamento derivante da attività diffuse senza alcuna fonte distinguibile, ad es. piogge acide, pesticidi, ruscellamento urbano,...” [“diffuse pollution: pollution from widespread activities with no one discrete source, e.g. acid rain, pesticides, urban run-off, ...”, http://glossary.eea.europa.eu/].Tutte le definizioni fanno riferimento alla “origine” dell’inquinamento diffuso che è di tipo “indifferenziato”, “non distinguibile”, come quella riconducibile a eventi quali la contaminazione derivante dalle piogge acide, dalle emissioni dei centri urbani, dal traffico veicolare, dal ruscellamento urbano, o quella derivante da fenomeni di tipo calamitoso (frane, inondazioni ecc.).L’origine del fenomeno di contaminazione può essere individuata mediante il ricorso ad analisi (tipologia dei contaminanti riscontrati, concentrazione degli inquinanti, caratteristiche geologiche e idrogeologiche dell’area di interesse, estensione e localizzazione della contaminazione) o a particolari tecniche di indagine (es. isotopia, fingerprint).In questa prospettiva deve essere letta anche la definizione contenuta nell’art. 240, comma 1, lett. r) citato, nel quale l’inciso “non imputabili ad una singola origine” va riferito alla tipologia dell’evento che ha dato origine al fenomeno di contaminazione e non all’impossibilità di “determinare il contributo delle singole fonti” o di individuare un “responsabile della contaminazione” (tabella 1).Per stabilire se c’è una correlazione, un nesso causale, fra attività e inquinamento, la pubblica amministrazione può avvalersi anche di presunzioni semplici ex art. 2727 c.c., prendendo in considerazione elementi di fatto da cui si traggano indizi gravi, precisi e concordanti: sulla base

di tali indizi deve risultare verosimile che si sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori (Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 16 giugno 2009, n. 3885). L’imputazione del danno ambientale si fonda, infatti, su un criterio probabilistico, che fa necessariamente propendere per l’ipotesi della responsabilità quando il rapporto di causalità tra l’azione (o l’omissione) e l’evento riveli un alto indice di verosimiglianza, secondo i principi di comune esperienza1.Nell’ambito delle attività di verifica e di indagine svolte dalla pubblica amministrazione, trova infatti applicazione la regola probatoria del “più probabile che non”, secondo la quale “per affermare il legame causale non è necessario raggiungere un livello di probabilità (logica) prossimo a uno (cioè la certezza), bensì è sufficiente dimostrare un grado di probabilità maggiore della metà (cioè del 50%). La Corte di Giustizia Europea (C-188/07), nell’interpretare il principio “chi inquina paga” (che consiste nell’addossare ai soggetti responsabili i costi cui occorre far fronte per prevenire, ridurre o eliminare l’inquinamento prodotto), fornisce una nozione di causa in termini di aumento del rischio, ovvero come contribuzione da parte del produttore al rischio del verificarsi dell’inquinamento.”2.L’inquinamento diffuso è caratterizzato dall’assenza di nesso causale, nel senso che, ove fosse possibile individuare tale nesso sulla base dei principi richiamati, l’inquinamento riscontrato uscirebbe dalla sfera dell’inquinamento diffuso per rientrare in quella dell’inquinamento puntuale in relazione al quale è applicabile la disciplina in materia di bonifica di siti contaminati e di danno ambientale. Tale impostazione è pienamente coerente anche con la disciplina in materia di danno ambientale.L’art. 303, comma 1, h) del Dlgs 152/06, stabilisce, infatti che la parte sesta del decreto, contenente la disciplina in materia di risarcimento del danno ambientale “non si applica al danno

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ambientale o alla minaccia imminente di tale danno causati da inquinamento di carattere diffuso, se non sia stato possibile accertare in alcun modo un nesso causale tra il danno e l ’attività di singoli operatori”.Il testo del corrispondente articolo 4, comma 5, della direttiva 2004/35/CE è ancora più chiaro: “La presente direttiva si applica al danno ambientale o alla minaccia imminente di tale danno causati da inquinamento di carattere diffuso unicamente quando sia possibile accertare un nesso causale tra il danno e le attività di singoli operatori.”. Pertanto, ogni volta in cui sia possibile stabilire – anche sulla scorta di presunzioni semplici, della regola del ‘più probabile che non’ o delle linee di evidenza – un collegamento causale tra l’inquinamento riscontrato e l’attività di singoli operatori, saranno applicabili le norme in materia di bonifica di siti contaminati e di danno ambientale, fra le quali anche quelle che regolano i casi in cui l’operatore responsabile non sia in concreto individuabile, non provveda o

non sia solvibile (artt. 244, 250, 252, 253, 304 e 313 e ss. del Dlgs 152/06).In tal senso si è recentemente espresso anche il giudice amministrativo che ha “di fatto escluso la tesi dell ’inquinamento diffuso (ed ha) piuttosto ricondotto l ’origine della contaminazione alla presenza in loco di un cumulo di rifiuti interrati, individuato come ‘sorgente primaria’ dello stato di inquinamento.”3

Alla luce di tali approfondimenti e considerazioni, i cui esiti saranno portati al Tavolo tecnico, si ritiene che i criteri per definire la contaminazione diffusa siano i seguenti:- origine: non puntuale- dimensioni: interessa area vasta- responsabilità: non riconducibile a uno o più soggetti né come nesso causale né come linee di evidenza (“più probabile che non”) con l’uso delle migliori tecniche applicabili allo stato di conoscenze scientifiche del fenomeno, indipendentemente dalla risalenza.

A tal fine, le attività tecniche dovranno essere volte a:- individuare l’origine della contaminazione- delimitare la contaminazione- stabilire nessi causali o linee di evidenza al fine di individuare eventuali responsabilità anche pregresse.Dette attività tecniche richiedono l’apporto significativo del Sistema nazionale di protezione dell’ambiente (Snpa) a supporto degli enti che detengono la competenza amministrativa.

L’interesse e la partecipazione suscitata dal Tavolo tecnico istituito dal Mattm attestano l’attenzione sul tema dell’inquinamento diffuso. Il contributo tecnico-scientifico del Snpa è fondamentale per lo sviluppo della tematica, ma occorre garantire un’omogeneità di approccio e di effettiva applicabilità su tutto il territorio nazionale. L’indirizzo tecnico del Snpa e degli istituti scientifici nazionali è funzionale all’attività di indirizzo propria del Mattm, che deve garantire l’omogeneità e il coordinamento delle procedure applicate a livello nazionale.Il tema dell’inquinamento diffuso è di particolare interesse sotto il profilo tecnico e giuridico anche per le conseguenze di eventuali interpretazioni non corrette del dettato normativo che potrebbero portare la pubblica amministrazione a intervenire impropriamente su situazioni non ben analizzate sotto il profilo tecnico e dell’individuazione delle responsabilità.Il ministero dell’Ambiente lavora in stretta sinergia con il Tavolo interregionale affinché l’azione delle pubbliche amministrazioni coinvolte possa risultare rafforzata.

Laura D’Aprile1, Linda Rado2, Valentina Stefutti3, Francesca Benedetti3

1. Ministero dell’ambiente e della tutela del

territorio e del mare (Mattm)

2. Unità di assistenza tecnica Sogesid presso

il Mattm

3. Avvocato in Roma

NOTE1 Cass. civile, Sez. Un., n. 581/08; Tar Marche n. 81/17; Tar Lazio n. 998/14; Tar Veneto n. 255/14, Tar Abruzzo, sez. di Pescara, n. 204/14 e n. 318/11; Tar Piemonte n. 1575/10; in tal senso si è espressa anche la Corte di giustizia con le sentenze C-378/08, C-379/08 e 380/08 del 9 marzo 20102 Così Tar Emilia Romagna, sez. di Bologna, n. 125/17.3 Tar Friuli Venezia Giulia, sent. n. 215/15, confermata da Cons. Stato, sent. n. 1489/2016.

TAB. 1INQUINAMENTO DIFFUSO

Tipologie e modalità di intervento.

Sorgente/Fontedi tipo puntuale Origine diffusa

Contaminazione/Inquinamentodi tipo puntuale

Contaminazione/Inquinamentodi tipo diffuso

Ascrivibile/Imputabile (anche in astratto)a uno o più soggetti

Ascrivibile/Imputabilea una “collettività indifferenziata”

C’è riconducibilità/correlazione (anche in via presuntiva) fra l’attività di uno o più soggetti

e l’inquinamento riscontrato

Non c’è riconducibilità/correlazione (anche in via presuntiva) fra l’attività di uno o più

soggetti e l’inquinamento riscontrato

Sussistenza del nesso causale (anche in via presuntiva)

fra l’attività e l’inquinamento riscontrato

Assenza di nesso causale (anche in via presuntiva)

fra l’attività e l’inquinamento riscontrato

C’è responsabilità (giuridicamente intesa) Non c’è responsabilità (giuridicamente intesa)

Disciplina in materia di bonifica di siticontaminati e di danno ambientale

Piani di gestione regionali

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I processi per la rimozione dei contaminanti emergenti

Negli ultimi anni è aumentata, nei corpi idrici, la presenza di composti xenobiotici che persistono a lungo in ambiente. Tali numerose e diverse sostanze, accomunate nella definizione di microinquinanti organici, sono presenti in concentrazioni molto basse (< ng/l - μg/l), in grado di determinare effetti negativi, accertati o presunti. Tra questi, pesticidi, prodotti chimici industriali, prodotti farmaceutici, ormoni steroidei ecc. [1].In ambito europeo esiste la lista delle sostanze prioritarie, per le quali sono già definiti a livello europeo degli standard di qualità ambientale (SQA). A fianco di queste, vi è poi la classe dei contaminanti emergenti, sostanze non ancora regolamentate, ma che potrebbero diventarlo, in base a studi e indagini circa la loro presenza, persistenza, l’(eco)tossicità e gli effetti sulla salute umana. Nella lista di sostanze prioritarie, di cui alla Dir 2013/39/EU, sono comprese 45 sostanze, alcune delle quali riportate in tabella 1. Per quanto attiene agli emergenti, la Watch List della decisione UE 2015/495 contiene 10 contaminati tra i quali farmaci (diclofenac), ormoni (17a-etinilestradiolo e 17b-estradiolo), insetticidi ed erbicidi.La quantificazione e previsione dei rendimenti conseguibili con le tecnologie oggi disponibili risulta un tema complesso e contraddittorio. In questo articolo si inquadrano, in estrema sintesi, gli elementi fondamentali che determinano la rimozione di microinquinanti organici negli impianti di potabilizzazione e depurazione e si riportano tre casi di specie, a scala reale o pilota, riferiti ad acque di approvvigionamento, reflue e fanghi.

Meccanismi di rimozione e criticitàL’efficacia dei trattamenti dipende in primo luogo da caratteristiche e proprietà dei microinquinanti (peso molecolare, solubilità, volatilità, polarità, adsorbibilità e biodegradabilità) e dalle condizioni operative dei processi, che possono essere di tipo fisico, chimico e biodegradativo, oltre che da effetti sinergici o antagonistici dovuti alla compresenza di altri inquinanti. Solo i trattamenti di biodegradazione e di ossidazione possono portare, in teoria, alla mineralizzazione

completa dei contaminanti. Nella realtà, possono esservi situazioni di degradazione incompleta e formazione di prodotti intermedi. Gli altri meccanismi di trattamento portano, invece, al trasferimento dei contaminanti da una fase ad un’altra (ad es. per adsorbimento su carbone attivo) o la loro separazione/concentrazione (ad es. i retentati dei trattamenti a membrane o il materiale separato per sedimentazione). Il comportamento dei microinquinanti negli impianti di trattamento è caratterizzato da ampi margini di incertezza dovuti a: - presenza in matrici complesse e multicomponenti - concentrazioni dei contaminanti variabili nel tempo - risultati pubblicati ottenuti in condizioni controllate o poco rappresentative delle condizioni impiantistiche - difficoltà di studio, per le basse concentrazioni, compresenza in più fasi e limitata accuratezza analitica.

Nelle filiere standard degli impianti di potabilizzazione da acque superficiali sono presenti processi potenzialmente adeguati per rimuovere microinquinanti. Le fasi di chiariflocculazione e filtrazione

(CFC) rimuovono solidi colloidali e sospesi e possono quindi rimuovere anche microinquinati su essi adsorbiti.Tanto i trattamenti ossidativi (O3, AOP ecc.), che i trattamenti di adsorbimento su carbone attivo rappresentano soluzioni di ampia efficacia sui microinquinanti. La resa di entrambi i processi dipende da aspetti progettuali, quali tipo/dose e tempo di contatto per gli agenti ossidanti e tipo/porosità per i carboni attivi, e dalle condizioni operative, tra cui la presenza di altri composti. Rimozioni molto elevate sono conseguibili con trattamenti a membrana, in ragione del peso molecolare della sostanza di interesse. Rese prossime al 100% possono essere generalmente ottenute con membrane di nanofiltrazione (NF) o osmosi inversa (OI), grazie a meccanismi di stacciatura dimensionale, repulsione elettrica e adsorbimento. Gli attuali impianti di depurazione dei reflui non sono progettati come barriera completa per rimuovere microinquinanti organici, pur ottenendo per alcuni di questi delle significative rimozioni. Nei processi biologici, corpo centrale di un impianto di depurazione, i meccanismi di rimozione sono:- la biodegradazione, con mineralizzazione completa o parziale della sostanza- la rimozione per via fisica o fisico-chimica, per inglobamento nelle matrici solide e/o adsorbimento, ad es. nei/sui fiocchi di fango attivo allontanati dal processo biologico. La biodegradabilità di alcune sostanze organiche prioritarie è dimostrata [2] per condizioni operative tuttavia non

Esistono tecnologie, o sequenze di tecnologie, che consentono di ridurre le concentrazioni di contaminanti emergenti e delle sostanze prioritarie (Dir 2013/39/EU) a livelli inferiori a 1 ng/l. Si richiedono però sempre verifiche sperimentali e studi ad hoc per i contaminanti molto recalcitranti.

TAB. 1CONTAMINANTI EMERGENTI

Esempi di sostanze prioritarie e relativo SQA.AA: media annua; CMA: concentrazione massima ammissibile.

FIG. 1CONTAMINANTI EMERGENTI

Biodegradabilità di alcuni contaminanti emergenti [3].

SostanzePrioritarie

SQA-AA(μg/L)

SQA-CMA(μg/L)

Identificata come sostanza

pericolosa

4-Nonilfenolo 0,3 2,0 X

Ottilfenoli 0,1 Non applicabile

Benzo(a)pirene 1,7 x 10-4 0,27 X

PFOS e derivati 6,5 x 10-4 36 X

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confrontabili con quelle di un impianto di depurazione municipale (elevate concentrazioni, colture batteriche selezionate). La figura 1 riporta la costante di biodegradazione di farmaci, ormoni e fragranze, ottenuta su fanghi attivi provenienti da un impianto di depurazione di acque reflue municipali [3].Le sostanze sono suddivise in: non biodegradabili (kbiol < 0,1 l/gSS/d, parzialmente biodegradabili (0,1 < kbiol < 10 l/gSS/d) e biodegradabili (kbiol > 10 l/gSS/d). Si può osservare tanto la diversa entità di biodegradazione nell’ambito dei farmaci, che la presenza di sostanze non biodegradabili o per le quali i risultati non siano significativi.

Casi di studioRimozione di Pfas da acque potabiliLe sostanze perfluoroalchiliche (Pfas, acronimo di Per and Poly-Fluorinated Alkyl Substances) sono caratterizzate da stabilità termica, chimica e biologica che le rende altamente persistenti in ambiente, con concentrazioni nelle acque superficiali e sotterranee tra 0,7 e 200 ng/l [4]. Queste sostanze si distribuiscono sulla fase solida, con entità dipendente dal composto e via via minore per Pfos, Pfoa, Pfhxa e Pfab. Grazie a questa loro caratteristica, come citato, si può osservare una rimozione di queste sostanze nell’ambito dei trattamenti di CFC su acque superficiali. Xiao et al. (2013) hanno ottenuto rimozioni massime intorno al 40% di Pfos (C0 = 100 μg/l), dosando solfato di alluminio (110 mg/l) in acqua superficiale sintetica [5]. Alcuni studi su acque superficiali hanno analizzato la rimozione di Pfas per adsorbimento su GAC (Granular Activated Carbon). Questo processo,

nell’impianto di potabilizzazione a piena scala di Leiduin, ha dimostrato un’elevata rimozione per Pfoa e Pfos, maggiore per quest’ultimo la cui concentrazione influente (10 ng/l) è stata ridotta a valori inferiori a 1 ng/l, con due stadi in serie [6]. Diversi studi sulla rimozione di Pfas in acque potabili a piena scala dimostrano che i processi di ossidazione basati su ozono non sono molto efficaci. Con trattamenti a membrana, si sono rilevate rese del 94-99% su Pfos (Cin = 100 μg/l) con NF ed efficienze maggiori del 99% con OI, come nella linea di impianto di potabilizzazione di Barcellona (figura 2), raggiungendo concentrazioni inferiori a 1 ng/l [8].

Rimozione di farmaci da acque municipali L’uso di farmaci determina l’escrezione con le urine di una frazione di essi, o dei loro metaboliti. La rimozione dei farmaci all’interno degli impianti di depurazione municipali convenzionali è molto variabile. Una lunga

sperimentazione condotta presso l’impianto di depurazione di Milano Nosedo nell’ambito del progetto europeo MBR-Train (periodo 2007-2009), ha confrontato le rimozioni ottenute sull’impianto a piena scala, dotato di filtrazione terziaria e disinfezione con acido peracetico e un impianto pilota MBR (Membrane Bio Reactor). Per alcune sostanze non è stata osservata alcuna rimozione (tra queste carbamazepina, eritromicina). Al contrario, è stata riscontrata una rimozione totale per alcuni composti (ad esempio amoxicillina, estrone e ibuprofene) o un’efficienza di rimozione simile per CAS e MBR (superiore al 50%, con una differenza tra le tecnologie inferiore al 10%: atenololo, bezafibrato, diclofenac e altre) [9]. Infine, la tecnologia MBR ha dimostrato una maggiore rimozione di demethyl-diazepam, diazepam, dehydroerythromycin e furosemide (rimozione compresa tra il 23 e 83%) per effetto della completa ritenzione della biomassa [2, 9].

FIG. 2CONTAMINANTI EMERGENTI

Efficienza di rimozione di Pfos e Pfoa della linea di impianto di potabilizzazione di Barcellona [8].

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1. Mailler R., Gasperi J., Coquet Y., Buleté A., Vulliet E., Deshayes S., & Caupos E. Removal of a wide range of emerging pollutants from wastewater treatment plant discharges by micro-grain activated carbon in fluidized bed as tertiary treatment at large pilot scale. Science of the Total Environment, 542, 983-996 (2016).

2. Conti F., Lanciotti E., Malpei F., Mancini G., Pirozzi F., Vismara R. Salvaguardia dei corpi idrici dalla contaminazione da composti xenobiotici: nuovi strumenti per l’analisi, il controllo ed il trattamento delle acque reflue civili e industriali.

3. Joss A., Zabczynski S., Göbel A., Hoffmann B., Löffler D., McArdell C. S., & Siegrist H. Biological degradation of pharmaceuticals in municipal wastewater treatment: proposing a classification scheme. Water research, 40(8), 1686-1696 (2006).

4. Loos R., Locoro G., Comero S., Contini S., Schwesig D., Werres F., & Bolchi, M. Pan-European survey on the occurrence of selected polar organic persistent pollutants in ground water. Water research, 44(14), 4115-4126 (2010).

5. Xiao F., Simcik M. F., & Gulliver J. S. Mechanisms for removal of perfluorooctane sulfonate (PFOS) and perfluorooctanoate (PFOA) from drinking water by conventional and enhanced coagulation. Water research, 47(1), 49-56 (2013).

6. Eschauzier C., Beerendonk E., Scholte-Veenendaal P., & De Voogt P. Impact of treatment processes on the removal of perfluoroalkyl acids from the drinking water production chain. Environmental science & technology, 46(3), 1708-1715 (2012).

7. Takagi S., Adachi F., Miyano K., Koizumi Y., Tanaka H., Watanabe I., & Kannan K. Fate of perfluorooctanesulfonate and perfluorooctanoate in drinking water treatment processes. Water research, 45(13), 3925-3932 (2011).

8. Flores C., Ventura F., Martin-Alonso J., & Caixach J. Occurrence of perfluorooctane sulfonate (PFOS) and perfluorooctanoate (PFOA) in NE Spanish surface waters and their removal in a drinking water treatment plant that combines conventional and advanced treatments in parallel lines. Science of the Total environment, 461, 618-626 (2013).

9. Bouju H., Buttiglieri G. and Malpei F. Are MBRs really more efficient in removing pharmaceuticals? Comparison of a full scale conventional activated sludge process and a MBR pilot plant. 2nd International Conference on Occurrence, Fate, Effects, and Analysis of Emerging Contaminants in the Environment, 4-7 August 2009, Fort Collins, US.

10. Carballa M., Manterola G., Larrea L., Ternes T., Omil F., & Lema J. M. Influence of ozone pre-treatment on sludge anaerobic digestion: removal of pharmaceutical and personal care products. Chemosphere, 67(7), 1444-1452 (2007).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Controllo dei contaminanti nei fanghi di depurazioneParte dei contaminanti emergenti, anche se non biodegradabili, sono rimossi negli impianti di depurazione perché adsorbiti sui fanghi generati. Questo è il caso di alcuni farmaci, estrogeni, Pfas e tensioattivi anionici (Las). Questi ultimi hanno la proprietà di essere degradabili in condizioni aerobiche, ma non anaerobiche. Ciò comporta, come osservato nel corso di una ricerca condotta dal Gruppo Hera con il supporto del Politecnico di Milano Dica, una concentrazione di Las nei fanghi primari ben superiore a quella riscontrabile nei fanghi di supero biologico. La rimozione di contaminanti emergenti in digestione anaerobica è riportata in figura 3, dove le barre nere indicano le rimozioni raggiunte nel caso di pre-trattamento dei fanghi con ozonolisi.

La sola digestione anaerobica (barre bianche) riesce a operare una rimozione parziale di tutte le sostanze analizzate, eccetto la carbamazepina (CBZ), su cui l’ozonolisi ha degli effetti migliorativi.

FIG. 3CONTAMINANTI EMERGENTI

Rimozione contaminanti nei fanghi con ozonolisi e digestione anaerobica in mesofilia (a) e termofilia (b) [19].

In conclusione, esistono tecnologie che consentono di ridurre le concentrazioni di contaminanti emergenti e sostanze prioritarie a livelli inferiori a 1 ng/l. Per alcune combinazioni tecnologia/contaminante si dispone di esperienze e di una road-map di trattamento definita, che tuttavia necessita sempre di verifica sperimentale. Per altri processi, è necessario ancora lavoro scientifico per comprenderne

l’applicabilità e definirne le idonee condizioni operative, tenendo in considerazione la complessità del trattamento di queste sostanze.

Beatrice Cantoni, Francesca Malpei

Dipartimento di Ingegneria civile e

ambientale (Dica), Politecnico di Milano

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Dovremmo iniziare questo articolo dicendo che negli ultimi anni la questione della dose-soglia è stato argomento di grande dibattito scientifico. Ciò facendo, maschereremmo la verità, perché in realtà la questione della dose-soglia è argomento di acceso contrasto, di quel tipo di litigio che trova botta e risposta in autorevoli articoli, scritti da autorevoli scienziati e pubblicati in altrettanto autorevoli riviste scientifiche. La ragione del contendere, tuttavia, non è tanto se la dose-soglia esiste o meno, quanto su quel che accade alle dosi basse o molto basse.

Il concetto di dose-sogliaLa dose-soglia (threshold) tossicologica è definita come il livello di dose al quale si evidenzia per la prima volta un effetto tossico. La dose-soglia è calcolata sulla base di studi osservazionali che comprendono studi clinici, studi sperimentali negli animali o in sistemi di colture cellulari in vitro da cui sia possibile ricavare una relazione dose-risposta. La conoscenza della relazione dose-risposta è fondamentale per stabilire la relazione di causalità tra l’effetto osservato e il composto chimico a cui è avvenuta l’esposizione, stabilire la dose più bassa a cui si è osservato l’effetto (soglia di effetto) e determinare la velocità e l’incidenza dell’effetto (slope). La curva dose-risposta ha generalmente una forma sigmoidale, con un tratto lineare alle dosi più alte. Per la maggior parte degli effetti tossici si può stabilire, almeno sperimentalmente, una dose-soglia al di sotto della quale non c’è effetto. L’effetto ricercato è una risposta dell’organismo a uno stimolo esterno (esposizione). Bisogna precisare, tuttavia, che, nel campo della tossicologia ed epidemiologia ambientale, l’effetto a cui ci si riferisce è un effetto avverso, capace di alterare l’omeostasi dell’organismo. In quest’ottica, la dose-soglia può essere definita come il punto in cui l’abilità dell’organismo nel sostenere processi di detossificazione e di riparo è compromessa. Per definire la dose-soglia vengono utilizzati alcuni indici. Noael (No observed adverse effect level) e Loael (Lowest observed adverse effect level)

FIG. 1DOSE-SOGLIA

Rappresentazione grafica degli indici utilizzati per definire la dose-soglia.

Dose-soglia, prevenzione e principio di precauzione

La questione dell ’effetto tossico dell ’esposizione a dosi basse di un composto chimico è al centro di un dibattito molto acceso. Le nuove tecnologie e i nuovi metodi di ricerca hanno permesso un’evoluzione nello studio della complessa interazione tra un organismo e le sostanze estranee con cui entra in contatto.

sono i più comuni indici per gli effetti tossici, comparabili alla reference dose (RfD), utilizzata in ambito regolatorio statunitense. Noel (No observed effect level) e Loel (Low observed effect level) si riferiscono invece a effetti non necessariamente avversi, quali per esempio la dose efficace di un farmaco. Questi indici costituiscono il punto di partenza per calcolare la dose accettabile di esposizione dell’uomo, e in particolare dei soggetti sensibili (figura 1).La definizione della relazione dose-risposta potrebbe, quindi, sembrare un semplice esercizio di rappresentazione grafica di dati osservati e non quello che in realtà è: la rappresentazione grafica di una relazione complessa tra un organismo vivente e una o più sostanze estranee a questo organismo e con cui l’organismo viene in contatto.

Le origini della tossicologia e la cancerogenesi genotossicaAbbiamo già accennato alla forma della curva dose-risposta, dicendo che generalmente questa relazione è rappresentata da una curva sigmoide. Questa asserzione è uno degli argomenti più dibattuti. La curva dose-risposta linearizzata per le cosiddette sostanze cancerogene è stato uno dei dogmi della tossicologia (e dell’epidemiologia) che ha indirizzato tutti i modelli di predizione

di rischio a una valutazione di rischio basata su eventi iniziali genotossici e irreversibili: le mutazioni. Abbiamo già descritto, in queste pagine (Ecoscienza 1/2017), la prospettiva storica che ha fatto da cornice a questa interpretazione degli eventi chiave legati all’effetto avverso più complesso: il tumore. L’intera storia dell’epidemiologia e della tossicologia è legata alla prima osservazione di tumori professionali, e in particolare il tumore dello scroto negli spazzacamini, descritto nel 1778 (illuminismo), alla descrizione delle patologie professionali nel XVIII secolo (rivoluzione industriale), alla identificazione delle aberrazioni cromosomiche nelle lesioni tumorali nel 1908 (inizio dell’era della genetica applicata) e alla conferma sperimentale degli effetti indotti dalla fuliggine nel 1918 (inizio della tossicologia sperimentale). Questa succinta descrizione degli eventi, rende evidente la concatenazione tra la scoperta delle aberrazioni cromosomiche nei tumori e l’identificazione dei composti che erano in grado di determinarle e l’inizio di un postulato, quello della cancerogenesi genotossica, che diventerà (e rimarrà) una verità indiscussa (e indiscutibile) fino al primo decennio di questo nuovo millennio. Nel modello di cancerogenesi genotossica non c’è dose-soglia. L’evento iniziale, sostenuto dalla mutazione, è un one-hit, un danno che da solo è in grado di innescare eventi successivi o di predisporre all’insorgenza di eventi successivi che sfoceranno ineluttabilmente in un tumore o in un’altra patologia cronico-degenerativa. Questa ipotesi è stata (maldestramente) contestata dai ricercatori che sostengono

100

50

00 5 10 15 20 25 30 35

Dose (mg/kg)

Ris

post

a (%

)

ADI / RfD / DNEL

LD50 = Lethal Dose 50. Dose che uccide il 50% degli organismi esposti LOAEL = Lowest Observed Adverse Effect level. Dose più bassa a cui si osserva un effetto avverso NOAEL = No Observed Adverse Effect level. Dose a cui non si osserva alcun effetto avverso ADI = Acceptable daily intake. Dose accettabile di esposizione umana giornaliera RfD = Reference dose. Dose di riferimento per l’esposizione umana DNEL = Derived No Effect Level. Dose soglia di esposizione umana. ADI, RfD e DNEL sono calcolati partendo da NOAEL o LOAEL, che costituiscono il punto di partenza per identificare il livello di dose massimo a cui l’uomo può essere esposto senza riportare conseguenze (“safe” dose)

NOAELLOAEL

LD50

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RIDURRE L’INQUINAMENTO DA PLASTICHE, LA STATEGIA EUROPEA

l’esistenza del fenomeno dell’ormesi, già descritto da Ippocrate, e ripreso in radiobiologia, fenomeno per il quale i sistemi biologici possono rispondere in maniera differente alle basse dosi, che avrebbero un effetto benefico, rispetto alle alte dosi che inducono effetti avversi. Il concetto di ormesi è stato poi utilizzato a sostegno delle basi scientifiche dell’omeopatia, innescando, di fatto, una discussione, che dura tutt’ora, tra opposte fazioni, e che ha contribuito a rallentare un processo di revisione del concetto di dose-soglia.

L’era genomica e l’introduzione della dose-sogliaÈ solo con l’avvento dell’era genomica che ci si può, finalmente, munire di quegli strumenti che consentono di iniziare un percorso tutto nuovo alla comprensione degli eventi biologici, in risposta alle esposizioni ad agenti fisici, chimici e biologici.Sulla base degli studi che hanno contrassegnato questi primi anni del nuovo millennio, possiamo stabilire che la risposta di un organismo vivente a un’esposizione è mediata da un evento chiave iniziale a livello molecolare, che dà origine a una reazione a catena di eventi chiave che si susseguono a livello molecolare, cellulare, tissutale, d’organo, d’organismo e di popolazione e che si manifestano a dosi crescenti. L’esito finale sarà una conseguenza della concentrazione di esposizione e della capacità dell’organismo di contrastare gli eventi avversi, a ogni livello in cui questi eventi si realizzano. Per la maggior parte degli organi c’è una riserva funzionale, per cui la perdita di alcune

funzioni non determina una diminuzione delle prestazioni. Questa capacità di ripristinare l’omeostasi è ancora più efficiente ai livelli molecolari e cellulari, dove vengono innescati meccanismi di detossificazione e di adattamento. Possiamo, dunque, ipotizzare che a ogni livello esiste una dose-soglia e che solo il superamento di questa consente di progredire verso la malattia e, tuttavia, c’è una dose-soglia e un livello di esposizione che segnano un punto di non ritorno nella progressione verso l’esito finale avverso. È verosimile supporre che questo livello di dose sia correlato con il superamento dei meccanismi di adattamento e di riparo a livello di organo. Le nuove tecnologie e i metodi integrati

basati sull’uso di quest’ultime permettono di identificare dosi-soglia sperimentali a livello cellulare e molecolare e di comprendere se gli effetti correlati a queste dosi siano da considerarsi una risposta adattiva della cellula o un evento chiave correlato con un esito finale avverso. Su queste basi è, dunque, possibile derivare la dose di esposizione umana che sia coerente con un approccio al principio di precauzione che poggi su solide basi scientifiche e che non sia solo di protezione della salute umana, ma anche di prevenzione.

Annamaria Colacci

Arpae Emilia-Romagna

La Commissione europea fissa nuovi obiettivi che rendono l’Europa capofila nella lotta alla plastica; entro il 2030, tutti gli imballaggi di plastica dovranno poter essere riciclati o riutilizzati, l’uso dei sacchetti di plastica monouso sarà ridotto e l’impiego di microplastiche sarà limitato. I punti chiave della strategia approvata a Strasburgo lo scorso 16 gennaio: - rendere il riciclaggio redditizio per le imprese - ridurre i rifiuti di plastica, in particolare quello di sacchetti di plastica monouso e di limitare l´uso delle microplastiche nei prodotti - fermare la dispersione di rifiuti in mare - orientare gli investimenti e l´innovazione tecnologica - stimolare il cambiamento in tutto il mondo, proponendo soluzioni globali e sviluppando standard internazionali.

Ogni anno gli europei generano 25 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, ma meno del 30% è raccolta per essere riciclata. Nel mondo, le materie plastiche rappresentano l’85 % dei rifiuti sulle spiagge. Si tratta di sostanze che possono raggiungere anche i polmoni e le tavole dei cittadini europei, con la presenza di microplastiche nell’aria, nell’acqua e nel cibo i cui effetti sulla salute umana sono ancora sconosciuti.

La Commissione europea ha aperto contestualmente una consultazione pubblica aperta a tutti per raccogliere contributi utili a indirizzare gli sviluppi della strategia sulla plastica in relazione ai rifiuti marini. Maggiori informazioni sul sito della Commissione europea

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GLIFOSATE, LO STUDIO DELL’ISTITUTO RAMAZZINI

In occasione della conferenza DiMoPEx1 svoltasi il 30 e 31 ottobre scorsi a Bentivoglio presso il Centro

di ricerca sul cancro Cesare Maltoni (Crccm) dell’Istituto Ramazzini (IR), proprio per le importanti ricadute degli studi sperimentali del Centro, è stato richiesto all’IR di presentare in anteprima i risultati relativi allo studio pilota di tossicità sub-cronica sugli effetti della somministrazione (in acqua da bere) di glifosate e Roundup® in ratti Sprague Dawley (SD). Per la conduzione dello studio l’IR si è avvalso di un’autorevole rete di partner, quali l’Università di Bologna (Facoltà di Agraria, Veterinaria e Biostatistica), l’Istituto tumori di Genova, l’Istituto superiore di sanità, la Mount Sinai School of Medicine e la George Washington University. Il tema dell’esposizione ambientale e occupazionale a glifosate e ai suoi formulati commerciali, come il Roundup®, rimane di estrema attualità e interesse, sia politico che scientifico, alla

L’ISTITUTO RAMAZZINI STA CONDUCENDO UNO STUDIO SUGLI EFFETTI DELLA SOMMINISTRAZIONE ORALE DI GLIFOSATE E ROUNDUP, ALLA DOSE RITENUTA SICURA PER L’UOMO, IN RATTI SPRAGUE-DAWLEY. I PRIMI RISULTATI, GIÀ PRESENTATI IN PUBBLICO, MOSTRANO EFFETTI CHE GIUSTIFICANO LA PROSECUZIONE DELL’INDAGINE A LUNGO TERMINE.

TAB. 1 - GLIFOSATE. Piano dello studio sperimentale sul glifosate condotto dall’Istituto Ramazzini (Bentivoglio, BO).

BT 5009_ generazione parentale (F0) BT 5009_figli (F1)Trattamentob Fine dell’esperimento

Gruppo

Animali

Gruppo

Animalia

Sex N. Sex

Coorte

Composto Dosec Età all’iniziod

Coorte

6- settimane

(N.)

13- settimane

(N.)

6- settimane

(PND)

13- settimane

(PND)

I

F 8

I

F 8 10

Acqua da bere 0 GD6 70e 120fM 8 M 8 10

F+M 16 M+F 16 20

II

F 8

II

F 8 10

Glifosate USA ADI GD6 70e 120fM 8 M 8 10

F+M 16 M+F 16 20

III

F 8

III

F 8 10

Roundup®USA ADI Glifosate

equivalenteGD6 70e 120fM 8 M 8 10

F+M 16 F+M 16 20

TOTALE M+F 48 M+F 48 60

a Non più di 2 fratelli e sorelle per nidiatab Le sostanze test sono state sommistrate ad libitum nell’acqua da berec Le dosi sono state calcolate considerando la ADI di Glifosate (1.75 mg/kg bw/day) degli Stati Unitid Le soluzioni sono state somministrate alle madri a partire dal sesto giorno di gestazione (GD = giorno di gestazione)

e Gli animali sono stati trattati fino al raggiungimento dello sviluppo sessuale corrispondente a circa 70 giorni dalla nascita (PND 70)f Gli animali sono stati trattati a partire dalla vita embrionale (GD 6) indirettamente tramite latte materno, fino allo svezzamento

corrispondente circa al PND 28. Successivamente il trattamento è prosegito per 90 giorni, corrispondenti a circa 120 giorni dalla nascita (PND 120)

luce della recente decisione (novembre 2017) degli Stati membri dell’Unione europea di rinnovare per 5 anni la licenza per l’uso del glifosate come sostanza attiva negli erbicidi. In Italia resta comunque il divieto, introdotto dal ministero della Salute ad agosto 2016, “di uso del glifosate nelle aree frequentate dalla popolazione o da gruppi vulnerabili, quali parchi, giardini, campi sportivi e zone ricreative, aree gioco per bambini, cortili ed aree verdi interne a complessi scolastici e strutture sanitarie, ma anche in campagna in pre-raccolta al solo scopo di ottimizzare il raccolto o la trebbiatura”.

Disegno sperimentale dello studio sul glifosate

L’industria e le autorità regolatorie affermano che siamo esposti solo a livelli “sicuri” di glifosate e Roundup, e che questi non causano effetti tossici.

Si afferma che i livelli di sicurezza sono stati determinati da test di tossicità su animali da laboratorio. Un crescente numero di studi indipendenti indica però che i test svolti finora non sono adeguati per determinare gli effetti tossici dei residui (basse e bassissime dosi) di glifosate e di Roundup nel cibo e nell’acqua da bere e che il consumo di questi residui può comportare un rischio per la salute. L’industria e le autorità regolatorie affermano inoltre che gli effetti tossici del glifosate e Roundup rilevati con dosi medio-alte negli studi su animali, anche se indicassero un potenziale rischio, non sarebbero rilevanti per l’uomo perché la popolazione umana è esposta solo a livelli molto bassi e “sicuri”, che non possono quindi comportare alcun pericolo per la salute umana. Dobbiamo però considerare che le autorità regolatorie stabiliscono a tavolino i limiti di sicurezza per tutte le sostanze chimiche, basandosi quasi esclusivamente su dati provenienti da

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studi di tossicità su animali, eseguiti dall’industria produttrice; di solito il limite stabilito per l’uomo è 100 volte inferiore alla dose senza effetti nell’animale di laboratorio. Ne deriva che i limiti per l’uomo sono stabiliti senza che esistano prove sperimentali. Proprio per rispondere alla domanda: “le concentrazioni di glifosate ammesse come residuo nell ’acqua e negli alimenti, e quindi come dose giornaliera nell ’uomo, sono davvero sicure?”, l’Istituto Ramazzini ha condotto uno studio “pilota”, propedeutico a uno studio a lungo termine già da tempo programmato per i prossimi 5 anni. La dose utilizzata nello studio pilota è la dose giornaliera ammessa negli Stati Uniti per l’uomo, e cioè l’acceptable daily intake (ADI) di 1,75 mg/kg p.c./giorno. L’ADI viene definita come stima della quantità di una sostanza, presente nel cibo o nell’acqua da bere, espressa in base alla massa corporea, che può essere ingerita quotidianamente per tutta la vita da parte degli esseri umani senza comportare rischi rilevanti per la salute. Quindi la ADI è una dose considerata sicura.Nello studio pilota il trattamento degli animali (ratti) è iniziato dal sesto giorno di gestazione tramite somministrazione della sostanza test alla madre (generazione F0) nell’acqua da bere ad libitum, tenendo in considerazione il peso dell’animale e la quantità di acqua bevuta individualmente. Alla nascita, i neonati (generazione F1) hanno continuano il trattamento attraverso il latte materno e successivamente, dopo lo svezzamento, il trattamento degli animali è proseguito in maniera individuale fino a 70 giorni dopo la nascita (PND 70) oppure fino a 120 giorni dalla nascita (PND 120). Questo periodo nel ratto corrisponde a un’esposizione nell’uomo dalla vita fetale fino a circa 18 anni. Nello studio sono stati approfonditi i seguenti aspetti scientifici: − effetti sui parametri rilevabili in vivo (comportamento, accrescimento corporeo, consumo di acqua, consumo di cibo ecc.)− effetti sullo sviluppo− effetti sul sistema endocrino in relazione all’esposizione precoce nelle finestre di maggiore suscettibilità biologica, durante la vita fetale e la gestazione, per via indiretta attraverso la placenta con il latte materno, e quindi con esposizione diretta durante la crescita − identificazione di possibili bio-marker espositivi nei tessuti o nei fluidi biologici− lesioni istopatologiche negli organi bersaglio− cambiamenti biomolecolari negli organi bersaglio

− cambiamenti nella composizione del microbioma intestinale.Il piano sperimentale è presentato nella tabella 1. Nella tabella 2 sono riassunti i principali parametri valutati e il gruppo di animali su cui sono effettuati.

Risultati finora disponibili I risultati più rilevanti finora disponibili sono i seguenti:- incremento statisticamente significativo della distanza ano-genitale nei maschi e nelle femmine trattati con Roundup® e nei maschi trattati con glifosate- ritardo statisticamente significativo della prima ovulazione (corrispondente al menarca nella donna) nelle femmine trattate con Roundup®- incremento statisticamente significativo della frequenza di micronuclei negli animali esposti a Roundup®- variazioni del microbioma negli animali trattati con glifosate o con Roundup®

nella finestra di sviluppo corrispondente al periodo pre-puberale.Questi dati sono già presentati e accettati per la pubblicazione su un’importante rivista del settore e dovrebbero essere disponibili per la fruizione pubblica con l’inizio del nuovo anno. Intanto, lo studio di altri parametri importanti –  come la trascrittomica per la ghiandola mammaria, l’esame istopatologico di organi target (rene e fegato), lo studio dell’assetto ormonale nel sangue e le alterazioni cromosomiche dello sperma – sono ancora in corso.

Conclusioni e sviluppi di ricerca

Lo studio “pilota”, proprio per le sue caratteristiche e finalità, non può chiarire le incertezze relative alla cancerogenicità del glifosate/Roundup® sollevate dalle diverse Agenzie (Iarc, Efsa, Echa) [1-4];

TAB. 2GLIFOSATE

Parametri valutati nel corso dell’esperimento nelle diverse generazioni di animali sperimentali.

Fonte: Istituto Ramazzini

1. IARC Working Group, “Glyphosate”, in Some organophosphate insecticides and herbicides: diazinon, glyphosate, malathion, parathion, and tetrachlorvinphos, Vol 112 IARC Monogr Prog, 2015:1–92.

2. European Food Safety Authority, Conclusion on the peer review of the pesticide risk assessment of the active substance glyphosate, EFSA J 2015;13:4302.

3. European Food Safety Authority, Final Addendum to the Renewal Assessment Report 2015, http://registerofquestions.efsa.europa.eu/roqFrontend/outputLoader?output=ON-4302

4. European Chemicals Agency, Global 2000’s report on glyphosate, July 2017, https://echa.europa.eu/-/echa-s-opinion-on-classification-of-glyphosate-published.

5. Manservisi F., Babot C.M., Buscaroli A., Huff J., Lauriola M., Mandrioli D., Manservigi M., Panzacchi S., Silbergeld E.K., Belpoggi F., “An Integrated Experimental Design for the Assessment of Multiple Toxicological End Points in Rat Bioassays”, Environ Health Perspect., 2017, Mar; 125(3): 289-295.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

PARAMETRI F0F1

PND 70F1

PND 120

Pesi e consumi acqua e cibo X X X

Indici riproduttivi X — —

Valutazione delle nidiate — X X

Distanza ano-genitale (AGD) — X X

Età e peso alla maturazione sessuale (VO/BPS) — X X

Età al primo estro — X —

Valutazione dell’andamento ciclo estrale — — X

Analisi spermatica e aneuploidia — X X

Istopatologia completa — X X

Istopatologia parziale X — —

Valutazione dei micronuclei — X X

Analisi emato-biochimiche — X X

Urinanalisi — X X

Analisi di espressione genica organi target (ghiandole mammarie, fegato, reni) X X X

Analisi del microbioma X X X

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tuttavia mette sicuramente in evidenza effetti sulla salute altrettanto importanti, che potrebbero manifestarsi anche con patologie croniche a lungo termine e che, considerando anche la diffusione planetaria di questo erbicida, potrebbero affliggere un numero enorme di persone. Visti i risultati dello studio pilota che, sebbene parziali, non sono trascurabili, l’IR sta pianificando uno studio integrato [5], nel quale sarà utilizzato un modello “uomo equivalente”, sia per i livelli di dose somministrati che per la durata dell’esposizione. Sarà testato non solo il glifosate, ma anche il suo formulato Roundup®. Saranno valutati nel dettaglio gli effetti tossici, anche in termini di espressione genica e i parametri relativi alla fertilità, ai difetti dello sviluppo, effetti sul sistema nervoso, oltre che le eventuali differenze dell’incidenza dei diversi tumori correlabili al trattamento. Il nostro sarà il primo studio sistematico e integrato sul glifosate e i suoi formulati; lo studio sarà finanziato attraverso una campagna di raccolta fondi su internet (www.glyphosatestudy.org), che garantirà nel contempo l’indipendenza e l’impatto a livello planetario dei risultati. Inoltre, qualunque sia il risultato dello studio condotto dall’Istituto Ramazzini, le agenzie regolatorie e i policy-maker avranno finalmente a disposizione risultati solidi e indipendenti su cui basare

un’adeguata valutazione del rischio. Entro 5 anni i risultati dello studio a lungo termine saranno disponibili e, anche in caso di risultati negativi, permetteranno di sciogliere tutte le incertezze, le discussioni e le polemiche attorno a questo composto così importante per la salute pubblica, ma anche per il mercato globale. Questi 5 anni di proroga dell’autorizzazione dovrebbero essere utilizzati per approfondire in maniera indipendente le conoscenze sui potenziali rischi per la popolazione; questo periodo di proroga costituisce inoltre un’occasione unica e importante per rivedere e ottimizzare il sistema regolatorio europeo, alla luce delle nuove conoscenze sugli effetti delle basse dosi delle sostanze chimiche, in particolare dei pesticidi.

Nel contempo, attraverso strategie adeguate di revisione delle regole più trasparenti, esiste l’opportunità di recuperare la fiducia dei consumatori per quelle istituzioni preposte alla salvaguardia della salute che sono apparse invece tanto lontane dai bisogni dell’opinione pubblica di chiarezza e trasparenza.

Fiorella Belpoggi

Direttrice Area Ricerca, Istituto Ramazzini

Cooperativa sociale onlus, Bologna

NOTE1 “COST Action: DiMoPEx” (DiMoPEx: Diagnosis, Monitoring and Prevention of Exposure-Related Noncommunicable Diseases), http://dimopex.eu/contact-us/

La molecola del glifosate è stata sviluppata negli anni 50, ma solo negli anni 70 ne sono state evidenziate le proprietà di erbicida ed è iniziata la produzione industriale da parte di Monsanto, in un formulato chiamato Roundup. Per circa venti anni la produzione di glifosate è stata molto limitata, fin quando il formulato originale è stato sostituito da un nuovo preparato (Roundup Ready) con più ampie possibilitià di impiego e di utilizzo per molte specie di piante infestanti.Esistono molti studi tossicologici sia sulla molecola del glifosate che sui formulati. Sulla base dei risultati di questi studi, il glifosate è stato inserito nel 2002 nell’Annex 1 della normativa sui pesticidi, autorizzandone l’uso nell’ambito del territorio della Ue.

Tra il 2012 e il 2015, il glifosate è stato sottoposto a una completa rivalutazione da parte degli stati membri, inclusa l’Italia, e dall’Efsa (European food safety authority) nell’ambito di una riclassificazione di tutti i pesticidi, in accordo ai nuovi

criteri di classificazione, incorporati nella nuova normativa europea sui pesticidi emanata nel 2009. Questa rivalutazione ha ribadito le conclusioni raggiunte già nel 2002 e cioè che “il glifosate non è ritenuto porre un pericolo di cancerogenicità per l’uomo” (ottobre 2015).Nel 2016, la Commissione europea ha ritenuto di richiedere un parere anche all’Echa (European Chemicals Agency). Anche la valutazione condotta da questa Agenzia conclude che “non c’è alcuna evidenza che leghi il glifosate al tumore nell’uomo” e che il glifosate non debba essere classificato come mutageno o tossico per la riproduzione (giugno 2016). Questa valutazione è condivisa da tutte le altre Agenzie regolatorie ed è basata sulla valutazione di tutte le informazioni disponibili. Il glifosate è stato tuttavia classificato come cancerogeno dalla International agency for research on cancer (Iarc), nel marzo 2015, sulla base di un numero limitato di studi (la Iarc non è un’Agenzia regolatoria e, quindi, non ha accesso a tutti gli studi disponibili, né può condurre audit di questi studi o verificare i dati grezzi, prima dell’elaborazione). Per ovviare a questa limitazione, che potrebbe essere la causa principale nella discrepanza della valutazione della Iarc, tutti gli studi sul glifosate sono stati resi disponibili al gruppo di lavoro Iarc.A novembre 2017 l’Unione europea ha rinnovato per 5 anni l’autorizzazione all’utilizzo (a fronte della richiesta della Commissione europea di un rinnovo per 10 anni). (AC)

LE CONCLUSIONI DI EFSA, ECHA E IARC

LACONTROVERSACLASSIFICAZIONEDELGLIFOSATEDAPARTEDEGLIORGANISMIINTERNAZIONALI

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IL CONTROLLO DELLE UVE EGIZIANE, ESEMPIO DI SINERGIA

Il regolamento europeo 882/2004/CE stabilisce un quadro armonizzato di regole generali per l’organizzazione di

controlli ufficiali a livello comunitario, tra cui i controlli ufficiali sull’introduzione dei mangimi e degli alimenti provenienti da paesi terzi. Il regolamento stabilisce inoltre la compilazione di un elenco dei mangimi e degli alimenti di origine non animale che, sulla base dei rischi noti o emergenti, deve essere oggetto di un livello accresciuto di controlli ufficiali nel punto di entrata nei territori dell’Unione europea. Il livello accresciuto di controlli dovrebbe consentire da un lato di contenere in modo più efficace il rischio noto o emergente e, dall’altro, di raccogliere dati accurati relativi al monitoraggio riguardanti la presenza o la prevalenza di risultati sfavorevoli derivanti dalle analisi di laboratorio. Sono attualmente in vigore livelli accresciuti di controllo per i mangimi e gli alimenti di origine non animale indicati nel regolamento 669/2009/CE e nel regolamento 884/2014/UE.

Il controllo dei residui di fitofarmaci sulle uve egiziane

In base alla normativa “Regolamento di esecuzione (UE) 2107/2016 della commissione del 1 dicembre 2016, che modifica l’allegato I del regolamento (CE) n. 669/2009 per quanto riguarda l’elenco dei mangimi e degli alimenti di origine non animale soggetti a un livello accresciuto di controlli ufficiali sulle importazioni”, l’Ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera (Usmaf-Sasn) di Toscana ed Emilia-Romagna, ha stabilito di eseguire i controlli per i residui di fitofarmaci su matrici uve, provenienti dall’Egitto, affidando la parte tecnico analitica alla Sede secondaria del Laboratorio multisito Sezione provinciale di Ferrara (Sslm).

DAL22MAGGIOAL25LUGLIO2017L’UFFICIODISANITÀMARITTIMA,AEREAEDIFRONTIERADITOSCANAEDEMILIA-ROMAGNAHACONTROLLATO,INCOLLABORAZIONECONARPAE,522UVEPROVENIENTIDALL’EGITTO.GRAZIEALLASINERGIACREATASI,L’ATTIVITÀSIÈSVOLTACONSUCCESSO,NEITEMPIENEIMODIPIANIFICATI,ATUTELADELLASICUREZZAALIMENTARE.

Il regolamento prevede l’obbligo del controllo di almeno il 20% delle partite in ingresso. L’attività si è svolta in un periodo di 10 settimane, dal 22 maggio al 25 luglio 2017. L’arrivo delle partite ha seguito un flusso a gaussiana, con un picco nella quarta e quinta settimana corrispondente al periodo compreso tra il 12 e il 24 giugno. La consegna dei campioni è stata in linea con quanto previsto, con aumento graduale dopo il 15 di maggio, il picco durante il mese di giugno e diminuzione graduale fino al 24 di luglio. Nel periodo di massimo afflusso sono stati consegnati fino a 24 campioni la settimana.

L’organizzazione dei prelievi al porto e la consegna al corriere per il trasporto a Ferrara, in carico ai tecnici di Usmaf, è stata efficace a garantire l’arrivo presso il laboratorio nei tempi previsti a far sì che i risultati dell’analisi fossero a disposizione entro le 24 ore in tutti i casi. È stato predisposto il trasporto dei campioni con navetta dedicata, direttamente dal porto di Ravenna al laboratorio Arpae e la consegna è avvenuta sempre il giorno stesso del prelievo, questo ha consentito di ottimizzare i tempi richiesti all’analisi. Nonostante l’aumento dell’attività analitica, soprattutto nel periodo di picco massimo di consegne, è stata garantita una tempistica di analisi puntuale; pari a un tempo compreso tra le 24 e 48 ore. Analoga performance viene da sempre mantenuta per tutti i campioni in vincolo sanitario pervenuti negli anni presso il laboratorio Sslm di Arpae Ferrara. Tale efficienza si è potuta mantenere grazie a una sinergica collaborazione tra il personale del laboratorio per garantire le fasi di accettazione/refertazione, estrazione ed analisi strumentale.

I tempi di comunicazione tra gli enti interessati sono stati ridotti al minimo creando una rete informatica preferenziale, prendendo come esempio il portale comunitario del Rasff (Rapid

Alert System for Food and Feed). Le comunicazioni tra le parti sono avvenute tra personale scelto come riferimento, per mezzi informatici o telefonici, con chiarezza e puntualità che ha garantito la celerità sia nelle operazioni di analisi per il laboratorio, che di rilascio del certificato finale da parte di Usmaf, Unità territoriale di Ravenna.Il numero di partite coinvolte, per la richiesta di rilascio del Documento comune di entrata, sono state 522, le partite in ingresso hanno rappresentato 45 produttori egiziani distribuiti su tutto il territorio caratterizzato da tale attività agricola. Le ditte importatrici sono state 53 di cui 7 italiane per un totale di 74 partite importate distribuite sul territorio nazionale: 41 a Ferrara, 21 a Pavia, 10 a Bari, 1 a Cuneo, 1 a Milano. Le rimanenti 448 partite si sono distribuite all’interno della comunità europea tra i paesi di Germania, Gran Bretagna, Olanda, Francia e Danimarca. Dalla totalità delle partite sono stati eseguiti 122 campioni pari al 23,3% della merce in ingresso, percentuale

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ECOSCIENZA Numero 6 • Anno 2017

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FIG. 1CONTROLLI ALLA FRONTIERA, UVE EGIZIANE

Il flusso dei campioni di uve egiziane prelevati e controllati al porto di Ravenna nel periodo 22 maggio-25 luglio 2017.

superiore rispetto a quanto previsto dal regolamento 669/2009/CE.

Il laboratorio multisito (Sslm) di Arpae Ferrara, accreditato UNI CEI ISO/IEC 17025:2005, dalla sua istituzione presidia le competenze, le attività e i processi analitici in campo di residui di fitofarmaci su matrici vegetali e ambientali, promuovendo l’evoluzione della normativa e dei riferimenti tecnici a livello comunitario e nazionale. Grazie alla collaborazione con partner sia istituzionali che privati promuove la ricerca, l’innovazione tecnologica, l’attività e i progetti di interesse comune, relativamente alle analisi di competenza. Il laboratorio ha applicato il protocollo di routine, ricavato dal Reg 662/2016 Programma coordinato comunitario, integrato con una selezione di sostanze attive presenti nel documento Sanco 12745/2013, con particolare riguardo al paragrafo riguardante i casi di superamento di limite o di notifica nel Rassf. I campioni sono risultati tutti conformi alla normativa comunitaria vigente, ed anche per questo si è potuta mantenere una tempistica ridotta nel rilascio della documentazione necessaria.

Il Rapid Alert System for Food and Feed (Rasff)

Uno strumento fondamentale per garantire il flusso di informazioni per consentire una reazione rapida quando i rischi per la salute pubblica sono rilevati nella catena alimentare è proprio il Rapid Alert System for Food and Feed (Rasff ), sistema di allarme rapido per alimenti e mangimi.La Commissione europea ha creato il database Rasff per mantenere le sue informazioni il più trasparenti possibile ai consumatori, operatori e autorità del mondo. Cercando, tuttavia, di trovare un equilibrio tra apertura e protezione delle informazioni, che potrebbero portare a danni economici sproporzionati.Per notificare in tempo reale i rischi diretti o indiretti per la salute pubblica connessi al consumo di alimenti o mangimi è stato istituito il sistema rapido di allerta comunitario, sotto forma di rete, a cui partecipano la Commissione europea, l’Efsa (Autorità per la sicurezza alimentare) e gli Stati membri dell’Unione.Il portale dei consumatori Rasff è stato disponibile e utilizzabile a partire da giugno 2014 e fornisce le ultime informazioni in tema di cibo e di salute pubblica in tutti i paesi dell’Ue.

Il meccanismo delle comunicazioni rapide, sempre più numerose negli ultimi anni, è uno strumento essenziale per la valutazione di eventuali rischi e per la tutela del consumatore.Qualora le informazioni raccolte dalle indagini descritte relative ai controlli accresciuti rappresentassero rischi per la salute pubblica verrebbero notificate e condivise tra gli Stati membri della Comunità europea via rete, in tempo reale.

La consapevolezza che in Europa vige una delle normative più rigorose al mondo in termini di salute e sicurezza alimentare fa sì che anche paesi extra europei, come nel caso dell’Egitto, producano merce idonea a essere commercializzata nei confini comunitari.La garanzia che le attività di controllo possano essere svolte nel modo più celere possibile consente che la merce non perda le sue caratteristiche fisiche e

organolettiche, in modo da non arrecare danni economici agli importatori.I controlli sono stati eseguiti a tutela di cittadini di tutt’ Europa, poiché l’86% delle uve non si sono fermate nel nostro paese.

L’attività svolta ha quindi avuto un’ottima riuscita grazie alla sinergia creatasi tra Usmaf-Sasn e Sslm Arpae Ferrara e la collaborazione potrà senz’altro essere estesa anche a progetti futuri volti alla tutela e alla garanzia della sicurezza alimentare dei cittadini.

Marco Morelli1, Linda Graziadei2

1. Laboratorio multisito Arpae Emilia-

Romagna, Sezione di Ferrara

2. Ufficio sanità marittima, aerea e di frontiera

della Toscana e dell’Emilia-Romagna (Usmaf-

Sasn)

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