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1 LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO (Lc 10,25-37) Claudio Doglio Fra i testi più noti del terzo evangelista, la parabola del “buon Samaritanoè incastonata all’interno di una disputa tra Gesù e un esperto della legge: all’inizio del grande viaggio essa segue alcuni brani che parlano di vocazione, sottolineando differenti modi di relazione con colui che chiama; subito dopo inoltre il narratore propone l’emblematico episodio dell’ospitalità che Marta e Maria offrono a Gesù. Il contesto dunque invita a considerare il tema dell’accoglienza, che si esprime soprattutto nell’ascoltare la parola del Signore. La questione del precetto Questa parabola è esclusiva di Luca, ma la cornice narrativa in cui è inserita compare anche in Matteo e Marco. Si tratta infatti della controversia sul comandamento principale, che però si trova in un insieme organico di dispute ambientate a Gerusalemme nell’ultima fase del ministero di Gesù. Luca segue lo stesso ordine narrativo, in dipendenza dalla tradizione seguita pure da Marco e Matteo; tuttavia omette questo episodio. Uno schema sinottico ci può aiutare anche visivamente a comprendere il procedimento redazionale adoperato dal terzo evangelista: Marco Luca 11,27-33 disputa: l’autorità di Gesù 20, 1-8 disputa: l’autorità di Gesù 12, 1-12 parabola: i vignaioli omicidi 9-19 parabola: i vignaioli omicidi 13-17 disputa: il tributo a Cesare 20-26 disputa: il tributo a Cesare 18-27 disputa: la risurrezione dei morti 27-40 disputa: la risurrezione dei morti 28-34 disputa: il primo comandamento –– –– 35-37 disputa: su Sal 110,1 41-44 disputa: su Sal 110,1 Luca sposta intenzionalmente questa pericope e la inserisce dove la ritiene più utile per l’insieme del suo racconto, facendola diventare il quadro narrativo di una parabola non riportata dagli altri evangelisti. Un tale procedimento redazionale ci fa comprendere come l’ordine del materiale non voglia anzitutto ricostruire la cronaca dei fatti, quanto piuttosto offrire un insegnamento organico e ben strutturato, frutto della sapiente riflessione del narratore, autore del Vangelo. Tuttavia proprio questo intervento pesante di Luca rispecchia fedelmente il modo storico in cui sono state proposte le parabole di Gesù, in quanto strumenti argomentativi, usati dal maestro per trasmettere un’idea importante (cf. Lc 7,36-50). Il dibattito in cui Luca inserisce la parabola è incentrato sul tema del precetto. Sembra che Marco abbia rielaborato a modo suo l’episodio (Mc 12,28-34), mentre in Matteo riconosciamo molte somiglianze con la versione lucana: diamo un’occhiata “sinottica” ai due testi per cogliere rapidamente ciò che il terzo evangelista ha ricevuto dalle sue fonti e ciò che ha innovato. Mt 22,34-40 Lc 10,25-28 34 Allora i farisei, avendo udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35 e uno di loro, un dottore della legge , lo interrogò per metterlo alla prova : 25 Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: 36 «Maestro , nella legge , qual è il grande comandamento?». «Maestro , che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».

Doglio Samaritano MI 12marzo2014

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LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO (Lc 10,25-37)

Claudio Doglio

Fra i testi più noti del terzo evangelista, la parabola del “buon Samaritano” è incastonata

all’interno di una disputa tra Gesù e un esperto della legge: all’inizio del grande viaggio

essa segue alcuni brani che parlano di vocazione, sottolineando differenti modi di

relazione con colui che chiama; subito dopo inoltre il narratore propone l’emblematico

episodio dell’ospitalità che Marta e Maria offrono a Gesù. Il contesto dunque invita a

considerare il tema dell’accoglienza, che si esprime soprattutto nell’ascoltare la parola

del Signore.

La questione del precetto

Questa parabola è esclusiva di Luca, ma la cornice narrativa in cui è inserita compare

anche in Matteo e Marco. Si tratta infatti della controversia sul comandamento

principale, che però si trova in un insieme organico di dispute ambientate a

Gerusalemme nell’ultima fase del ministero di Gesù. Luca segue lo stesso ordine

narrativo, in dipendenza dalla tradizione seguita pure da Marco e Matteo; tuttavia

omette questo episodio. Uno schema sinottico ci può aiutare anche visivamente a

comprendere il procedimento redazionale adoperato dal terzo evangelista:

Marco Luca

11,27-33 disputa: l’autorità di Gesù 20, 1-8 disputa: l’autorità di Gesù

12, 1-12 parabola: i vignaioli omicidi 9-19 parabola: i vignaioli omicidi

13-17 disputa: il tributo a Cesare 20-26 disputa: il tributo a Cesare

18-27 disputa: la risurrezione dei morti 27-40 disputa: la risurrezione dei morti

28-34 disputa: il primo comandamento –– ––

35-37 disputa: su Sal 110,1 41-44 disputa: su Sal 110,1

Luca sposta intenzionalmente questa pericope e la inserisce dove la ritiene più utile per

l’insieme del suo racconto, facendola diventare il quadro narrativo di una parabola non

riportata dagli altri evangelisti. Un tale procedimento redazionale ci fa comprendere

come l’ordine del materiale non voglia anzitutto ricostruire la cronaca dei fatti, quanto

piuttosto offrire un insegnamento organico e ben strutturato, frutto della sapiente

riflessione del narratore, autore del Vangelo. Tuttavia proprio questo intervento pesante

di Luca rispecchia fedelmente il modo storico in cui sono state proposte le parabole di

Gesù, in quanto strumenti argomentativi, usati dal maestro per trasmettere un’idea

importante (cf. Lc 7,36-50).

Il dibattito in cui Luca inserisce la parabola è incentrato sul tema del precetto. Sembra

che Marco abbia rielaborato a modo suo l’episodio (Mc 12,28-34), mentre in Matteo

riconosciamo molte somiglianze con la versione lucana: diamo un’occhiata “sinottica”

ai due testi per cogliere rapidamente ciò che il terzo evangelista ha ricevuto dalle sue

fonti e ciò che ha innovato.

Mt 22,34-40 Lc 10,25-28 34

Allora i farisei, avendo udito che egli aveva

chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme

35

e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò

per metterlo alla prova:

25

Ed ecco, un dottore della legge si alzò per

metterlo alla prova e chiese: 36

«Maestro, nella legge, qual è il grande

comandamento?».

«Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita

eterna?».

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37

Gli rispose: 26

Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella legge?

Come leggi?».

«Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore,

con tutta la tua anima

e con tutta la tua mente.

38

Questo è il grande e primo comandamento.

27

Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con

tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta

la tua forza e con tutta la tua mente,

39

Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo

prossimo come te stesso.

e il tuo prossimo come te stesso».

40

Da questi due comandamenti dipendono tutta la

legge e i Profeti».

28

Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e

vivrai».

Ha conservato la qualifica dell’interlocutore, presentato come un nomikós (= “dottore

della legge”), e ha precisato la sua intenzione come un test di verifica per saggiare le

convinzioni dell’altro; il discorso diretto inizia riconoscendo a Gesù il titolo di

“maestro” (didáskale) e l’attenzione è rivolta a ciò che è contenuto “nella legge”. Luca

però non propone una questione sul “primo comandamento”, forse perché troppo

tecnica e legata a problematiche giudaiche; preferisce invece riprendere la stessa

domanda che la tradizione sinottica ha posto sulle labbra del ricco, relativa al modo di

ottenere la vita eterna1. Inoltre il terzo evangelista interviene a complicare il dialogo,

perché non pone direttamente la risposta in bocca a Gesù, ma lo fa rispondere con due

domande che mirano a coinvolgere personalmente l’interlocutore: non solo egli è

invitato a rispondere su ciò che sta scritto nella legge, ma soprattutto sul suo modo di

leggere, cioè di interpretare le norme. Tale metodo dialogico esprime molto bene il

contesto di una parabola, che serve proprio a far progredire il dialogo e approfondire

l’interpretazione del precetto.

L’esperto di legge non ha chiesto per sapere ciò che ignorava, ma ha domandato per

verificare l’opinione di Gesù; ma il maestro gli ha rigirato la questione, portandolo ad

esplicitare il proprio pensiero. Così egli cita due passi della legge, cioè del Pentateuco.

Il primo – tratto da Deuteronomio 6,5 – appartiene alla classica preghiera giudaica che

costituisce una fondamentale professione di fede (“Ascolta Israele”: Dt 6,4-9)2; il

secondo testo invece – preso da Levitico 19,18 – deriva da una ricca antologia di

precetti all’interno del “Codice sacerdotale di santità” (Lv 17–26). L’accostamento di

questi due precetti (enfatizzato da Mt 22,38-39) è frutto della tradizione cristiana, ma

Luca li pone tranquillamente in bocca al dottore giudeo con l’intento di mostrare la sua

competenza teorica. La reazione di Gesù è un commento positivo, che approva quella

“lettura” biblica, ma aggiunge un importante imperativo pratico: «Fa’ questo e vivrai»3.

Per ereditare la vita eterna non basta sapere la teoria normativa, ma è necessario

eseguirla con costanza e sempre.

1 L’episodio di triplice tradizione conserva sostanzialmente la stessa domanda: «Maestro, che

cosa devo fare per ereditare (avere) vita eterna?» (cf. Mt 19,16 // Mc 10,17 // Lc 18,18).

2 Rispetto al testo originale del Dt, in Lc è aggiunto un quarto modo («con tutta la tua forza»),

che è presente anche nella stessa citazione in Mc 12,30 seppure spostata in fondo.

3 In greco viene adoperato un imperativo presente (póiei), che esprime una continuità abituale

dell’azione: il “fare” è dunque un comportamento costante e necessario.

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La questione del prossimo

A questo punto il racconto potrebbe essere finito e infatti negli altri sinottici termina

così. Invece Luca lo fa proseguire con una nuova domanda del nomikós, esplicitando di

nuovo la sua intenzione recondita: come prima aveva detto che intendeva “mettere alla

prova” Gesù, ora spiega che vuole “giustificare” se stesso4. Dal tenore del racconto

infatti sembra che questo maestro della legge abbia fatto una brutta figura, ponendo una

domanda elementare di cui conosceva bene la risposta; perciò la sua precisazione mira a

sottolineare la complessità della domanda e focalizza l’attenzione sulla questione del

“prossimo”.

Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?» (10,29).

In italiano il termine “prossimo” ha perso la sua valenza originale di superlativo che si

riconosce nel latino proximus (= “vicinissimo”), derivando dall’avverbio prope, che

significa “vicino”. Con questo vocabolo traduciamo il greco plēsíon, che corrisponde

bene al termine latino e designa semplicemente il “vicino”. Il riferimento però è

all’interpretazione della normativa citata da Lv 19,18: in ebraico il precetto usa il

termine rea~ che ha il significato più pregnante di “amico, compagno, collega”,

designando in genere colui che appartiene allo stesso ambiente ed è legato da vincoli e

relazioni positive. Non si tratta quindi di oggettiva vicinanza, ma piuttosto di soggettiva

relazione di amicizia: così si comprende meglio la questione ermeneutica posta a Gesù.

Il passaggio dalla prima alla seconda questione risulta perciò significativo: si passa

infatti dal fare all’essere. Su questo punto insiste l’insegnamento di Luca: non si tratta

solo di fare qualcosa di buono, quanto piuttosto di essere prossimo, cioè vicino, attento

e solidale. Nella prospettiva del fariseo, legato ad un ambiente sociale e religioso

distinto dagli altri, è un’autentica questione interpretativa stabilire chi sia il “vicino”: il

giurista infatti chiede a Gesù chi si merita di essere amato.

Il racconto parabolico invece lo porta ad una conclusione paradossale, per cui constata

di dover capovolgere la prospettiva. Una parabola in genere ha lo scopo di coinvolgere

il destinatario, portandolo a formulare un giudizio in cui sia personalmente coinvolto,

anche senza rendersene conto. Anzi, proprio perché non se ne rende conto, è più libero

nel formulare una valutazione e così il parabolista può concludere la propria

argomentazione, mostrando i legami col caso concreto in questione. Gesù dunque

racconta una vicenda esemplare con personaggi diversi che mettono in scena reazioni

differenti; termina quindi con una domanda di valutazione:

Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?

(10,36).

Il dottore della legge deve compromettersi e giudicare. Ma la domanda posta da Gesù ha

capovolto il modo di vedere la questione e lo ha condotto ad ammettere che l’importante

è essere capace di amare. La questione non è: «Chi si merita di essere amato da me? Chi

mi è amico?». Deve invece essere riformulata così: «Di chi io sono prossimo? Chi sono

capace di amare? A chi mi faccio vicino? Chi tratto da amico?». In base al racconto

4 Il verbo greco dikaiōsai appartiene al linguaggio tipico di Paolo e richiama la decisiva

questione teologica della “giustificazione” affrontata dalla prima comunità cristiana. Una

sfumatura negativa deriva dal fatto di avere come complemento oggetto “se stesso”; Luca

adopera la stessa formula in un aspro rimprovero contro di farisei: «Voi siete quelli che si

ritengono giusti (hoi dikaiountes heautous) davanti agli uomini» (Lc 16,15).

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proposto e alla domanda che gli è stata rivolta, anche se non apprezza il personaggio del

Samaritano, il giurista è costretto ad ammettere che è lui il modello positivo.

Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui» (10,37a).

Letteralmente bisognerebbe tradurre: «Colui che ha fatto (ho poiēsas) la misericordia

(tò éleos) con lui (met’ autoû)». L’espressione non è corretta in greco, ma costituisce un

calco semitizzante usato talvolta dai LXX per rendere alla lettera l’espressione ebraica

“fare misericordia con”, nel senso concreto di dimostrare affetto agendo in modo

benevolo5.

Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così» (10,37b).

L’obiettivo della parabola è stato raggiunto: il destinatario ha compreso e condiviso il

messaggio di Gesù. Si ritorna perciò al verbo iniziale («che cosa devo fare?») e alla

conclusione della prima parte («fa’ questo e vivrai»). L’imperativo presente di “fare”

(póiei) segue però l’imperativo presente di “camminare” (poréuou): proprio nel contesto

narrativo del viaggio, Gesù invita il dottore a mettersi anch’egli in cammino in modo

abituale, per divenire capace di vedere nell’altro un amico da amare.

Un racconto esemplare

Nell’originale greco l’ultima parola del testo è l’avverbio “ugualmente” (homóiōs): esso

sta a significare che il racconto inserito nella disputa ha una valenza esemplare, offre

cioè un modello buono da imitare.

Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei

briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo

mezzo morto (10,30).

L’ambientazione del racconto è geograficamente precisa: la strada che porta da

Gerusalemme a Gerico attraverso il deserto di Giuda è un itinerario ben noto ai

pellegrini e – nella direzione inversa – sarà la strada percorsa da Gesù stesso alla fine

del suo viaggio (cf. Lc 19,1.28). La vicenda narrata riguarda diverse persone che si

incontrano casualmente: tutti sono caratterizzati dal fatto di essere in cammino. Il

personaggio principale, presente in tutto il racconto, è assolutamente passivo e

silenzioso: è «un uomo» generico (ánthrōpos tis), vittima di un’aggressione, spogliato

dei vestiti e di ciò che possedeva, gravemente ferito e abbandonato sulla strada fra la

vita e la morte.

Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre.

Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre (10,31-32).

Due altri personaggi compaiono sulla medesima strada e casualmente si imbattono in

quell’uomo. A differenza di lui, questi sono qualificati in modo preciso: entrambi

appartengono alla classe sacerdotale e sono quindi identificati certamente come Israeliti.

In tutti e due i casi il narratore descrive le loro azioni, ripetendo gli stessi verbi: vedono,

ma passano oltre6; percepiscono cioè la situazione problematica, ma non si avvicinano e

non entrano in relazione.

5 Cf. Gen 24,12; Es 20,6; Gs 2,12.14; Gdc 1,24; 8,35; Rt 1,8.

6 In greco il verbo adoperato due volte è un composto significativo: anti-par-érchomai indica

infatti un movimento “a fianco” (pará), ma “dall’altra parte” (antí). Gli passano accanto, ma

dall’altro lato della strada, per non entrare in contratto.

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Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione.

Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua

cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due

denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo

pagherò al mio ritorno”» (10,33-35).

Con una forte contrapposizione compare finalmente il personaggio positivo, che è

espressamente indicato come appartenente al gruppo dei Samaritani, ben distinti dai

Giudei e da questi disprezzati come eretici e considerati estranei al popolo eletto.

Sembra chiaro che un tale personaggio sia introdotto volutamente con una motivazione

provocatoria: il racconto non cerca semplicemente di evidenziare un contrasto fra chi è

generoso e chi resta insensibile; tende piuttosto a rimarcare in modo problematico una

distinzione socio-religiosa.

Il narratore si dilunga a descrivere molti particolari di per sé inutili, ma che vogliono

sottolineare con grande enfasi il ritratto positivo di una persona che, secondo il normale

punto di vista del giurista, avrebbe dovuto essere valutato come un “cattivo”. Anzitutto

di lui si dice che «era in viaggio»: il participio presente hodéuōn richiama il sostantivo

hodós (= “via”) e indica propriamente uno che è per strada, che compie un cammino.

Fin dall’inizio il personaggio è dunque presentato in forte sintonia con il Cristo stesso

che ha iniziato il suo viaggio decisivo. Giunto sul posto, il Samaritano «vide» il ferito,

esattamente come era successo al sacerdote e al levita; ma la reazione che ne segue è

ben diversa. Luca adopera al proposito un’espressione molto significativa:

esplanchnísthē (= “si commosse in modo viscerale”). Tale verbo deriva dal sostantivo

splánchna che designa propriamente le “viscere” (cf. Lc 1,78) e indica quindi una forte

emozione affettiva, un profondo e appassionato coinvolgimento “materno”. Il terzo

evangelista adopera lo stesso verbo solo altre due volte, attribuendolo a Gesù quando

incontra la vedova di Nain (7,13) e al padre della parabola quando può riabbracciare il

figlio minore che torna a casa (15,20)7. Tale sentimento di misericordia si concretizza in

tutte le azioni seguenti, descritte con cura. Anzitutto «si avvicinò»8 e medicò le ferite

con mezzi di fortuna che poteva aveva con sé; quindi si fece carico di quell’uomo,

prendendosi cura di lui in modo ancor più coinvolgente, pensando ad un intervento che

potesse portare lo sconosciuto alla piena guarigione.

Entra così in scena un albergo: in greco è detto pan-dochéion, termine che letteralmente

significa “il luogo che accoglie tutti”; analogamente l’albergatore (pandochéus) è

indicato come l’onni-accogliente. A lui il Samaritano, pagando di persona, affida il

compito di continuare a curarsi9 di quell’uomo e promette di passare di nuovo

10,

impegnandosi a pagare ogni ulteriore spesa.

7 Ricorre anche negli altri Sinottici ed è usato sempre per indicare una reazione di Gesù (cf.

Mt 9,36; 14,14; 15,32; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22). In Mt 18,27 è detto del padrone che

si commuove per la supplica del servo debitore.

8 Questa volta il verbo érchomai (= “andare”) è adoperato in composizione con pros (=

“verso”): infatti prosérchomai significa “farsi vicino” ed è scelto per contrastare il

precedente doppio uso del verbo “passare a fianco dall’altra parte”.

9 Viene ripetuto come imperativo (v. 35) il verbo epimeléomai già usato all’indicativo (v. 34)

per descrivere il primo intervento del Samaritano: tale forma verbale non è tipica del medico

che dà una terapia, ma esprime il senso comune di “prendersi cura”.

10 Questo è un altro interessante verbo di movimento, composto di érchomai: ep-an-érchomai

esprime il cammino di chi ritorna alla stesso punto.

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Un esempio di “triangolo drammatico”

Il racconto che Gesù ha proposto al dottore della legge termina con una domanda, che

porta inevitabilmente alla conclusione voluta. Possiamo così osservare – utilizzando il

metodo dell’analisi narrativa – che questa parabola è strutturata secondo uno schema

che è stato definito “triangolo drammatico”11

: lo si riconosce nei racconti in cui

compaiono tre personaggi, significativamente correlati fra di loro. In genere due

personaggi stanno sullo stesso piano, ma esercitano una funzione differente: sono

denominati rispondenti, in quanto rappresentano risposte contrastanti al tema centrale

proposto dal racconto. Invece il terzo personaggio sta su un piano diverso, spesso ha

una funzione di prestigio e – soprattutto – gioca il ruolo dell’arbitro: perciò viene

chiamato determinante (o sovrano dell’azione). Applicando tale schema narrativo alla

nostra parabola per scoprirne il contenuto teologico, dobbiamo riconoscere che il

personaggio determinante è paradossalmente l’uomo ferito: egli è a tutti gli effetti

“arbitro” della situazione, perché la valutazione degli altri personaggi è determinata dal

confronto con lui.

Sacerdote e levita sono strettamente accomunati e rappresentano quindi un’unica

posizione; l’altra risposta invece è impersonata dal Samaritano. Ma ci dobbiamo

domandare: perché Gesù ha scelto come esemplari proprio questo tipo di personaggi?

Non essendoci nel testo indicazioni precise, le risposte restano ipotetiche. Una potrebbe

essere questa: secondo le norme di purità rituale i membri della classe sacerdotale erano

tenuti ad evitare assolutamente il contatto coi cadaveri e coi moribondi; il loro

comportamento si spiegherebbe quindi non come pigrizia o cattiveria, bensì come

intenzione di osservare con scrupolo la legge. Paradossalmente invece un fuori-legge

come il Samaritano compie un gesto di misericordia e così realizza veramente

l’essenziale della legge. La nota critica sarebbe dunque verso la mentalità legalista che,

osservando la lettera, rischia di tradirne lo spirito: il punto di vista di Gesù invece

induce l’ascoltatore (e il lettore) a scoprire una prospettiva diversa e migliore.

Un’altra spiegazione risulta ancora più convincente. Nel racconto è evidente il contrasto

fra i leviti appartenenti al popolo di Israele e il Samaritano che ne è escluso:

l’appartenenza religiosa sembra quindi discriminante nel caratterizzare i personaggi. Il

dottore della legge, che ha sollevato la questione del prossimo, si trova di fronte ad una

storia con persone diverse da lui, appartenenti ad altri partiti e movimenti: nella

prospettiva di chi vede l’altro come potenziale nemico da cui distanziarsi e difendersi, il

giurista (molto probabilmente fariseo) si trova spiazzato nel dover interpretare i

differenti comportamenti. Comprendiamo così che l’impianto narrativo della parabola

risulta un valido stratagemma per indurre l’ascoltatore a valutare i personaggi,

rimodellando il proprio punto di vista sulla visuale del narratore stesso. In tal modo

Gesù ha guidato il dottore della legge a cambiare prospettiva, riconoscendo che proprio

quel “bastardo” di Samaritano è stato prossimo, cioè capace di superare le barriere

ideologiche, facendosi vicino a chi aveva bisogno, senza pregiudizi.

11 Un pregevole studio su tale metodologia è stato condotto da M. CRIMELLA, Marta, Marta!

Quattro esempi di “triangolo drammatico” nel “grande viaggio” di Luca, Cittadella, Assisi

2009. L’esegesi della parabola del buon Samaritano occupa le pp. 59-133.

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L’interpretazione cristologica

Gli antichi lettori cristiani, oltre all’orientamento etico, hanno riconosciuto in questa

parabola anche una componente cristologica: il personaggio del Samaritano infatti

potrebbe essere un’immagine di Gesù stesso che, mosso da misericordia, si prende cura

dell’umanità, realizzando così il divino progetto della salvezza.

La più antica testimonianza di questa lettura si trova in Ireneo di Lione che, verso il 180

d.C., a proposito dello Spirito Santo afferma:

Il Signore affidò allo Spirito Santo il suo uomo, che era caduto in potere dei briganti: ne

ebbe compassione, gli fasciò le ferite, dando due denari regali affinché, ricevendo mediante

lo Spirito l’immagine e la scritta del Padre e del Figlio, facciamo fruttificare il denaro a noi

affidato e lo riconsegniamo al Signore moltiplicato (Adversus haereses III,17,3)12

In questa interpretazione il Cristo si prende cura del genere umano – il “bene proprio di

Dio” (suum hominem) – affidandolo all’albergatore che è lo Spirito Santo, il quale porta

a compimento l’opera del Cristo, in quanto rende l’uomo capace di far fruttificare i doni

di Dio.

Un’esegesi completa della parabola in chiave di allegoria cristologica è condotta da

Origene nelle sue Omelie su Luca, composte verso il 230; ma ancora più interessante è

la sua sintesi in un prezioso frammento conservato nell’originale greco, che traduco

letteralmente13

:

Descriviamo dunque con un discorso sintetico il significato della parabola. L’uomo “può

essere ricondotto” (anágetai) ad Adamo ovvero al discorso sull’uomo e sulla sua vita in

precedenza e sulla caduta dovuta alla disobbedienza. Gerusalemme [rimanda] al paradiso

ovvero alla Gerusalemme di lassù; Gerico invece al mondo. I briganti [rinviano] alle forze

avverse, sia i demoni sia i falsi maestri che vengono al posto di Cristo: le ferite

[richiamano] la disobbedienza e i peccati; mentre lo spogliamento delle vesti [allude] al

fatto di essere denudato dell’incorruttibilità e dell’immortalità e di essere stato privato

dell’intera virtù; il fatto che lascino l’uomo mezzo morto dimostra che la morte raggiunge

metà della natura, giacché l’anima è immortale. Il sacerdote [rimanda] alla legge, il levita al

discorso profetico, il Samaritano a Cristo, che ha preso la carne da Maria; l’animale da

soma [rinvia] al corpo di Cristo, il vino alla parola che istruisce e corregge, l’olio alla

parola della bontà e misericordia ovvero della carità viscerale. L’albergo [richiama] la

Chiesa; l’albergatore [allude] agli apostoli e ai loro successori, vescovi e maestri delle

Chiese, ovvero agli angeli che presiedono alla Chiesa. I due denari [richiamano] i due

testamenti, l’antico e il nuovo, ovvero l’amore verso Dio e quello verso il prossimo, oppure

la conoscenza relativa al Padre e al Figlio. Infine il ritorno del Samaritano [si riferisce] alla

seconda manifestazione di Cristo.

Seguita pure da Agostino (Quest. Ev. 2,19), questa interpretazione divenne comune in

Occidente e in tutto il Medioevo influenzò anche la produzione artistica. Ne sono

esempio due splendide vetrate gotiche nelle cattedrali di Chartres e Bourges in cui i

quadri della parabola sono accompagnati (e interpretati) dalle scene del peccato

originale e della passione di Cristo, per evidenziare il ferimento dell’uomo e le cure

prestate dalla misericordia divina.

12 IRENEO DI LIONE, Contro le eresie e gli altri scritti (Introduzione e traduzione di Enzo

Bellini), Jaca Book, Milano 1981, 272.

13 ORIGENE, Homélies sur s. Luc (SC 87), Paris 1962. L’Omelia 34 dedicata al buon

Samaritano è conservata nel testo latino tradotto da Girolamo (pp. 400-411). Il testo greco

del Frammento greco 71 (Rauer 168) su Lc 10,30 è a p. 520.

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L’esegesi moderna, seguendo il metodo storico-critico, ha rigettato assolutamente una

simile interpretazione; tuttavia un approccio più moderato può riconoscervi degli

elementi di valore, senza voler esagerare nella spiegazione allegorica dei particolari. «Il

Samaritano adotta in realtà i sentimenti e riprende i gesti di Cristo stesso»14

: infatti il

modello positivo che il racconto lucano intende proporre è proprio Gesù Cristo, che col

suo cammino storico si è fatto effettivamente vicino all’uomo e se ne è preso cura,

offrendogli la possibilità di guarire. In questa linea si colloca anche la tradizione

liturgica che nella nuova edizione italiana del Messale propone un Prefazio (comune

VIII), intitolandolo “Gesù, buon Samaritano”:

Nella sua vita mortale egli passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri

del male. Ancor oggi come buon Samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo

e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza. Per

questo dono della tua grazia, anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale del tuo

Figlio crocifisso e risorto.

14 F. BOVON, Vangelo di Luca, II, Paideia, Brescia 2007, 120.