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Distrofia facio-scapolo-omerale di Angela Berardinelli* e Maurizio Moggio** La distrofia facio-scapolo-omerale (FSH) è la forma di malattia ereditaria muscolare più frequente dopo la distrofia di Duchenne e la distrofia miotonica di Steinert (DM1). Essa ha una frequenza di un caso su 20.000 nati vivi e il termine con il quale viene designata fa riferimento alla caratteristica distribuzione del difetto di forza. L’FSH è inclusa nell’elenco delle Malattie Rare individuate dal Ministero della Salute per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria. Trasmissione e cause L’FSH è una malattia ereditaria che si trasmette con modalità autosomica dominante. Questo significa che un individuo affetto ha una probabilità del 50% di trasmetterla ai propri figli, indipendentemente dal sesso. La patologia dipende da un particolare errore in una regione sul cromosoma 4 che determina frammenti di DNA in sequenza più piccoli che di norma. C’è una certa relazione tra entità dell’errore genetico e gravità della sintomatologia clinica: in genere, più piccolo è il frammento di DNA più severo e precoce è il quadro clinico. Va anche detto che a differenza di quanto accade in altre patologie, alla riduzione di dimensioni di quella particolare zona del cromosoma 4 non corrisponde l’alterazione/assenza di una qualsiasi proteina, poiché quella regione non codifica, normalmente, per alcuna proteina. E in ogni caso, a causa dell’errore di cui si è detto, si crea una disregolazione di un gran numero di geni diversi e le differenze nel numero e nel tipo dei geni “sregolati” possono giustificare la grande variabilità clinica della malattia. La ricerca sta cercando di individuare quali tra questi geni “impazziti alterati” abbiano un ruolo chiave nel determinismo della malattia. Va anche detto che nei nuclei familiari di persone affette si trovano altri soggetti clinicamente del tutto sani, con il frammento sul cromosoma 4 delle stesse dimensioni degli affetti, mentre nella popolazione generale si trovano persone del tutto sane con frammenti di dimensioni ridotte. Questo naturalmente complica molto l’interpretazione del significato del frammento corto nella patogenesi della malattia Attualmente sono in corso in Italia studi di correlazione clinico-genetica e di approfondimento del difetto molecolare. La diagnosi prenatale è possibile nelle gravidanze da coppie in cui sia stata precedentemente identificata l’anomalia genetica in uno dei due genitori. In questi casi è consigliabile comunque rivolgersi a un competente Centro di Genetica prima di intraprendere la gravidanza. Le considerazioni poco fa accennate sul riscontro di frammenti di ridotte dimensioni in soggetti del tutto sani inducono naturalmente dubbi e la necessità di estrema cautela, indipendentemente dalle convinzioni personali, sulla diagnosi prenatale in questa malattia e sulle eventuali decisioni in merito alla gravidanza. I sintomi L’FSH può essere già ben evidente fin dalla prima infanzia, con sintomatologia completa oppure manifestarsi in età giovane-adulta, con sintomi anche molto sfumati. Infatti – come già detto – si tratta di una malattia estremamente variabile, anche se generalmente con sintomi di moderata entità e discretamente stabili nel tempo. Il difetto di forza e l’ipotrofia muscolare riguardano il cingolo scapolare, determinando l’impossibilità delle scapole a rimanere “fissate” al dorso (anzi esse ne sono “scollate”), impedendo quindi all’articolazione della spalla di sollevare il braccio. Vi saranno perciò difficoltà nel prendere oggetti posti in alto, nell’asciugarsi i capelli, WWW.SUNHOPE.IT

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Distrofia facio-scapolo-omerale di Angela Berardinelli* e Maurizio Moggio**

La distrofia facio-scapolo-omerale (FSH) è la forma di malattia ereditaria muscolare più frequente dopo la distrofia di Duchenne e la distrofia miotonica di Steinert (DM1). Essa ha una frequenza di un caso su 20.000 nati vivi e il termine con il quale viene designata fa riferimento alla caratteristica distribuzione del difetto di forza. L’FSH è inclusa nell’elenco delle Malattie Rare individuate dal Ministero della Salute per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria.

Trasmissione e cause L’FSH è una malattia ereditaria che si trasmette con modalità autosomica dominante. Questo significa che un individuo affetto ha una probabilità del 50% di trasmetterla ai propri figli, indipendentemente dal sesso. La patologia dipende da un particolare errore in una regione sul cromosoma 4 che determina frammenti di DNA in sequenza più piccoli che di norma. C’è una certa relazione tra entità dell’errore genetico e gravità della sintomatologia clinica: in genere, più piccolo è il frammento di DNA più severo e precoce è il quadro clinico. Va anche detto che a differenza di quanto accade in altre patologie, alla riduzione di dimensioni di quella particolare zona del cromosoma 4 non corrisponde l’alterazione/assenza di una qualsiasi proteina, poiché quella regione non codifica, normalmente, per alcuna proteina. E in ogni caso, a causa dell’errore di cui si è detto, si crea una disregolazione di un gran numero di geni diversi e le differenze nel numero e nel tipo dei geni “sregolati” possono giustificare la grande variabilità clinica della malattia. La ricerca sta cercando di individuare quali tra questi geni “impazziti alterati” abbiano un ruolo chiave nel determinismo della malattia. Va anche detto che nei nuclei familiari di persone affette si trovano altri soggetti clinicamente del tutto sani, con il frammento sul cromosoma 4 delle stesse dimensioni degli affetti, mentre nella popolazione generale si trovano persone del tutto sane con frammenti di dimensioni ridotte. Questo naturalmente complica molto l’interpretazione del significato del frammento corto nella patogenesi della malattia Attualmente sono in corso in Italia studi di correlazione clinico-genetica e di approfondimento del difetto molecolare.

La diagnosi prenatale è possibile nelle gravidanze da coppie in cui sia stata precedentemente identificata l’anomalia genetica in uno dei due genitori. In questi casi è consigliabile comunque rivolgersi a un competente Centro di Genetica prima di intraprendere la gravidanza. Le considerazioni poco fa accennate sul riscontro di frammenti di ridotte dimensioni in soggetti del tutto sani inducono naturalmente dubbi e la necessità di estrema cautela, indipendentemente dalle convinzioni personali, sulla diagnosi prenatale in questa malattia e sulle eventuali decisioni in merito alla gravidanza.

I sintomi L’FSH può essere già ben evidente fin dalla prima infanzia, con sintomatologia completa oppure manifestarsi in età giovane-adulta, con sintomi anche molto sfumati. Infatti – come già detto – si tratta di una malattia estremamente variabile, anche se generalmente con sintomi di moderata entità e discretamente stabili nel tempo. Il difetto di forza e l’ipotrofia muscolare riguardano il cingolo scapolare, determinando l’impossibilità delle scapole a rimanere “fissate” al dorso (anzi esse ne sono “scollate”), impedendo quindi all’articolazione della spalla di sollevare il braccio. Vi saranno perciò difficoltà nel prendere oggetti posti in alto, nell’asciugarsi i capelli,

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nel pettinarsi. Caratteristico della malattia è l’interessamento “a mosaico” della muscolatura – con alcuni gruppi muscolari, pur nello stesso distretto, meno coinvolti di altri – e l’asimmetria, ovvero il maggiore coinvolgimento di un emisoma [una metà del corpo, N.d.R.], di solito il destro, rispetto al contro laterale. Per quanto poi riguarda, la muscolatura del volto, essa è coinvolta sia per la componente mimica che per quella masticatoria, mentre quella oculare è colpita solo in rarissimi casi. Ne derivano difficoltà nel masticare, nel soffiare, nell’esprimere le emozioni attraverso la mimica, nell’ammiccare. Viene talora riportato dai familiari che la persona “dorme con gli occhi aperti”, “non ride mai” o “non chiude la bocca”. Quando la malattia si manifesta in maniera conclamata fin dall’infanzia, si crea una severa malocclusione che compromette ulteriormente la masticazione, ma anche l’eloquio. L’intervento ortodontico in questi casi è di fondamentale importanza per correggere tali distorsioni dello scheletro facciale.Un altro problema caratteristico è rappresentato dalla compromissione della muscolatura anteriore distale delle gambe [quella più lontana dall’asse centrale del corpo, N.d.R.], per cui risulta difficile camminare sui talloni o sollevare il piede nel salire le scale. Ne consegue la facilità ad inciampare, con possibilità di cadute. In questo caso l’utilizzo di ortesi può divenire necessario. A volte anche la muscolatura del bacino viene coinvolta in modo clinicamente evidente, cosicché alzarsi da terra e dalla sedia può diventare impossibile, così come il cammino, se non con aiuto.

Altri organi coinvoltiAnche la retina e l’udito possono essere coinvolti nell’FSH, ma spesso con problemi rilevabili con esami strumentali piuttosto che clinicamente significativi. È comunque indicato fare periodicamente controlli oculistici e otorinolaringoiatrici. Il coinvolgimento della retina, che si estrinseca in una retinopatia essudativa, può essere di rilievo clinico soprattutto nelle forme ad esordio in età infantile. Non sembra che il cuore sia specificatamente colpito, sebbene si ipotizzi una maggiore incidenza di disturbi del ritmo cardiaco rispetto alla media della popolazione di pari età.Quando la malattia è conclamata è utile poi il monitoraggio respiratorio periodico in veglia e sonno.Infine, l’FSH non comporta problemi intellettivi, se non nelle forme con più severa alterazione genetica, che abitualmente sono quelle ad esordio più precoce. Va detto per altro che non vi sono molti studi su ampie casistiche di FSH ad esordio precoce: infatti, le forme ad esordio infantile sono rare, nell’ambito di una malattia già rara, e i dati clinici disponibili sono pertanto poco attendibili.

Diagnosi Quando i sintomi clinici sono completi e a caratteristica distribuzione facio-scapolo-omerale – tanto più se vi sono più componenti affetti nella famiglia, distribuiti secondo le regole mendeliane dominanti – la diagnosi clinica è agevole. E tuttavia non è infrequente che la malattia si presenti con una distribuzione prevalente alla muscolatura del bacino e delle spalle con così scarsa o addirittura assente compromissione facciale, da evocare una forma di distrofia dei cingoli, tanto che vari pazienti con quest’ultima diagnosi risultano poi affetti da FSH. Ne deriva che in persone con una forma dominante di distribuzione ai cingoli del difetto di forza va certamente ipotizzata un’FSH e avviato il test genetico diagnostico, a disposizione solo da pochi anni.Data la grande variabilità di compromissione muscolare anche all’interno di diversi componenti affetti di una stessa famiglia, può accadere che vi siano parenti con il

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quadro conclamato della malattia anche nella forma più severa, con perdita del cammino in età adulta e parenti con sintomi molto sfumati e lievi, tanto da non essere riconosciuti come affetti dalla malattia.

Evoluzione dell’FSH L’FSH può evolvere in maniera tale da lasciare l’individuo affetto quasi privo di sintomi visibili o comunque piuttosto stabile anche per tutta la vita. In altri casi può esservi una progressione nel corso degli anni, con possibile perdita del cammino autonomo in età adulta o anziana. In altri casi ancora, quando la malattia è già conclamata e completa fin dalle fasi più precoci della vita, si assiste – con la crescita – a un declino delle funzioni motorie con perdita del cammino autonomo in giovane età. In particolare può verificarsi la tendenza all’estremo inarcamento della schiena all’indietro (iperlordosi), come compenso allo squilibrio muscolare che si viene a creare. Può presentarsi inoltre scoliosi. La malattia generalmente non comporta riduzione delle aspettative di vita, ma naturalmente questo dipende dall’eventuale coinvolgimento della muscolatura respiratoria o dalla presenza o meno di gravi aritmie.

Gli esami utili Una volta sollevato il dubbio diagnostico, devono essere avviati gli esami di accertamento che possono consistere nel dosaggio della CK o CPK (la quale può essere moderatamente elevata, ma anche normale), nell’elettromiografia, nelle tecniche di immagine muscolare (TAC o RMN muscolare), nella biopsia muscolare (spesso con elementi “infiammatori”). In ogni caso l’esame dirimente è l’analisi del DNA, che oggi va considerato il primo esame da effettuarsi nel caso di sospetto clinico, pur considerando gli aspetti problematici sopra accennati.

Trattamenti possibili Non esiste, ad oggi, un trattamento risolutivo per questa malattia. Da un lato occorre dunque attuare strategie riabilitative che limitino i problemi funzionali del paziente. Come già accennato, sono utili le ortesi per il piede cadente, e sono di fondamentale importanza l’intervento ortodontico in caso di malocclusione, il controllo della possibile evoluzione scoliotica del rachide e la sorveglianza delle retrazioni alle caviglie (che tuttavia possono talora rappresentare un utile compenso). Interventi chirurgici tesi a “fissare” le scapole non hanno portato ai risultati sperati. Nei casi – fortunatamente rari – con coinvolgimento severo della muscolatura respiratoria, vengono utilizzati gli ausili per la ventilazione meccanica, come nelle altre malattie neuromuscolari. In particolari casi, potrebbe essere opportuno l’impianto di un pace-maker. Nelle forme ad esordio infantile, infine, alcuni studi riportano la concomitante presenza di ritardo mentale e di crisi epilettiche: se tali aspetti clinici sono presenti, sarà naturalmente necessario supportare adeguatamente l’inserimento scolastico dei bambini e introdurre un’adeguata terapia antiepilettica. Si ribadisce tuttavia l’assenza di studi clinici sufficientemente ampi per dare informazioni davvero attendibili circa l’evoluzione clinica delle forme ad esordio precoce. Dal punto di vista farmacologico è stato tentato il trattamento con un farmaco comunemente usato nell’asma (l’albuterolo, equivalente al salbutamolo in Italia), con un incremento della massa muscolare, ma non proporzionalmente della forza-funzione muscolare nel suo complesso. Altri tentativi di trattamento farmacologico sono risultati inefficaci.

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Distrofia oculo-faringea di Tiziana Mongini*

Nell’ambito dei disturbi neuromuscolari, la distrofia oculo-faringea (OPMD, da Oculo-Pharyngeal Muscular Dystrophy) manifesta una relativa uniformità e tipicità dell’espressione clinica e istologica. Ha carattere autosomico dominante – viene cioè trasmessa in linea diretta da un genitore affetto e ciascun figlio ha un rischio del 50% di ereditare la malattia – ed esordisce in genere nella quinta decade di vita, con abbassamento delle palpebre (ptosi), associato a disturbi della motilità degli occhi (oftalmoparesi) e della deglutizione. Può comparire anche debolezza degli arti, ma raramente la malattia comporta grave invalidità. La diagnosi si basa soprattutto sulla biopsia muscolare, caratterizzata dai tipici vacuoli nelle fibre muscolari e dalle inclusioni filamentose nei nuclei. L’affezione è causata da piccole espansioni trinucleotidiche (sequenza GCG) all’interno dell’esone 1 del gene della proteina poly(A)-binding 2 (PABP2), che ha sede sul braccio lungo del cromosoma 14 (14q11.1). Tale mutazione causa l’allungamento della regione N-terminale della proteina, che precipita nel nucleo e forma così i tipici filamenti intranucleari, insieme ad altri prodotti genici, tra cui abbondante mRNA poliadenilato. La malattia presenta analogie patogenetiche con altre forme neurodegenerative da espansione di sequenze di polialanina o poliglutamina, che producono accumulo di proteine erroneamente configurate (misfolding) ad effetto tossico sulle cellule, come la distrofia miotonica di Steinert e la corea di Huntington.

Storia ed epidemiologia La prima descrizione di una malattia familiare caratterizzata da compromissione dei muscoli della deglutizione associata a ptosi palpebrale risale al 1918 da parte di Taylor. In modo indipendente Amyot, un neurologo franco-canadese, descrisse la medesima affezione nel 1945 e solo nel 1962 Victor e collaboratori a Boston ne caratterizzarono l’espressione clinica e l’ereditarietà autosomica dominante, definendola per la prima volta come “distrofia muscolare oculo-faringea”. Da allora l’OPMD è stata segnalata ubiquitariamente in varie popolazioni mondiali, con una maggiore prevalenza tra le popolazioni franco-canadesi e tra gli Ebrei Bukhara. Infatti, pur trattandosi di una malattia diffusa in tutto il mondo, esistono alcuni aggregati di più alta frequenza, che ne hanno permesso l’identificazione del locus e la caratterizzazione genetica. Grazie ad accurati studi di ricostruzione genealogica, è stato possibile risalire a distinte mutazioni originarie: la più antica sembra essere quella presente nei già citati Ebrei Bukhara, comparsa al tempo degli insediamenti di alcune tribù di Ebrei Persiani nelle oasi di Bukhara e Samarcanda tra il XIII e il XIV secolo, ai tempi di Gengis Khan. Nelle popolazioni franco-canadesi, invece, la mutazione più frequente è stata ricondotta a tre sorelle francesi che nacquero a Niort in Francia nel 1648 e che migrarono poi a Quebec. Mutazioni indipendenti sono state identificate quindi presso il popolo Cajun della Louisiana, nelle popolazioni ispaniche del New Mexico, in Giappone e in varie popolazioni europee. La prevalenza in Europa viene stimata intorno ad un caso ogni 100.000 nati.

Caratteristiche genetico-molecolari La distrofia oculo-faringea è caratterizzata da un peculiare meccanismo genetico-molecolare chiarito solo negli ultimi anni (1998); come già accennato, il gene interessato, il PABP2 (gene della proteina poly(A)-binding 2), presenta normalmente al proprio interno sei ripetizioni del trinucleotide GCG. Nelle persone affette viene osservata un’espansione da otto a tredici sequenze GCG, con un corrispondente allungamento del tratto di polialanine della PABP2, che ne determina un erroneo ripiegamento. L’espansione a sette ripetizioni non produce di per sé la malattia e

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viene osservata nel 2% della popolazione non affetta; quando è presente in omozigosi – ereditata cioè da tutti e due i genitori – si manifesta una forma intermedia della malattia, autosomica recessiva. Quando poi un genitore non affetto trasmette un’espansione a sette ripetizioni e l’altro genitore affetto ne trasmette una di nove o più, la manifestazione clinica (fenotipo) peggiora. La mutazione è stabile nelle varie famiglie e non presenta variabilità di espressione tessutale. Il meccanismo patogenetico dell’OPMD è comune a quello di altre malattie neurodegenerative da espansione con accumulo di sequenze di polialanina (ad esempio la sindrome da ipoventilazione centrale, la displasia cleido-craniale, l’oloprosencefalia e altre sindromi malformative) o di poliglutamina (corea di Huntington, alcune atrofie spinocerebellari, atrofia dentato-pallido-rubro-luysiana) e viene studiato come possibile bersaglio terapeutico. Nel 2004 è stato creato un modello sperimentale animale in un topo transgenico che esprime una PABP2 mutata con tredici copie GCG, che presenta facile affaticabilità, alterazioni istologiche dei muscoli faringei e palpebrali e il tipico riscontro di vacuoli e inclusioni intranucleari.

Caratteristiche cliniche La prima descrizione di una famiglia in Italia con distrofia oculo-faringea risale al 1975. Il quadro clinico della malattia è relativamente uniforme. L’esordio – come già detto – avviene di solito tra la quinta e la sesta decade di vita, ma sono segnalati anche casi con meno di trent’anni. Nel 60-70% dei casi il primo segno è l’abbassamento delle palpebre – in genere asimmetrico – associato nel 50% circa dei casi a limitazione dell’escursione dei movimenti oculari senza sdoppiamento della visione, seguito a distanza variabile da disturbi della deglutizione. La compromissione dei muscoli dei cingoli – più spesso degli arti inferiori – è presente in modo variabile e compare più tardivamente; e tuttavia sono stati descritti rari casi esorditi proprio con debolezza prossimale (riguardante cioè i muscoli più vicini alla parte mediana del corpo). La principale diagnosi differenziale è con le malattie della giunzione neuromuscolare (miastenia), con le malattie mitocondriali, con malformazioni vascolari e con altre patologie degenerative croniche del sistema nervoso centrale, con paralisi dei muscoli oculomotori.

Esami strumentali e di laboratorio Il sospetto diagnostico – formulato sulla base della presentazione clinica ed eventualmente della storia familiare – va confermato dalle indagini strumentali, in primo luogo dalla biopsia muscolare. I valori di CK possono essere normali o lievemente aumentati, mentre l’elettromiografia mostra alterazioni miopatiche, associate o meno a componenti neurogene. L’esame istologico evidenzia – accanto ad alterazioni miopatiche aspecifiche in vario grado – fibre contenenti i tipici vacuoli “orlettati” (rimmed vacuoles). Sono anche descritte alterazioni morfologiche dei mitocondri e fibre COX-negative, mentre i dosaggi biochimici degli enzimi mitocondriali sono nella norma. Con l’esame al microscopio elettronico si osservano le tipiche inclusioni dentro ai nuclei, consistenti in filamenti di 8,5 nanometri. L’analisi genetica, infine, può identificare la sequenza di espansione e confermare i casi dubbi.

Trattamento La terapia curativa definitiva potrà derivare dai promettenti studi di terapia genica in corso anche per altre malattie da espansione, che mirano a contrastare gli effetti della poliadenilazione (ad esempio con blocco dell’RNA messaggero). Per ora il principale intervento terapeutico è volto alla prevenzione delle complicazioni maggiori della malattia, cioè la disfagia e la ptosi palpebrale. Per quest’ultima è indicato l’intervento di blefaroplastica con sospensione frontale quando il campo

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visivo è limitato in modo significativo; alcuni pazienti utilizzano con successo piccoli cerotti palpebrali, i medesimi usati dai chirurghi plastici per ragioni estetiche. Per quanto poi riguarda la disfagia – che va documentata con esame videofluorografico – è importante impostare una dieta alimentare di consistenza adeguata, associata ad esercizi specifici di competenza logopedica. Nei casi più avanzati possono essere indicati la miotomia crico-tiroidea in casi selezionati oppure la gastrostomia percutanea (PEG).

Conclusioni La diagnosi di distrofia oculo-faringea dev’essere sospettata in tutti i casi di insorgenza tardiva e lentamente progressiva di riduzione della rima palpebrale, associata o meno a limitazione dei movimenti oculari e/o debolezza in altri distretti, senza importante sdoppiamento della vista, con o senza disturbi della deglutizione. La positività della storia familiare rafforza poi il sospetto diagnostico. Poiché l’esordio avviene in età più avanzata, talvolta patologia acquisite concomitanti possono confondere il quadro clinico e ritardare ulteriormente la diagnosi.

 

Distrofie congenite di Sonia Messina*

Le distrofie muscolari congenite sono un gruppo di malattie clinicamente eterogenee, che esordiscono abitualmente entro il primo anno di vita e sono trasmesse con carattere autosomico recessivo (ovvero ciò che si dice quando l’alterazione del DNA è presente in entrambi gli elementi della coppia di cromosomi). I quadri clinici vanno da forme severe ad altre più lievi, compatibili con una normale aspettativa di vita.

Forme principali Sulla base dell’attuale classificazione, si possono considerare: 1. Forme da alterazione dei geni per la sintesi di proteine strutturali della membrana basale o della matrice extracellulare delle fibre muscolari scheletriche: merosina (laminina alfa-2); collagene 6; integrina alfa-7. 2. Forme legate a difetti genetici riguardanti proteine coinvolte nella glicosilazione (meccanismo biochimico che regola molte attività cellulari e attraverso il quale vengono aggiunti dei gruppi di zuccheri a una proteina) dell’alfa-distroglicano (proteina legata alla distrofina, che fa parte della membrana basale della cellula muscolare): POMT1; POMT2; POMGnT1; fukutina; fukutin-related protein (FKRP); LARGE. 3. Forme da alterazione del gene della selenoproteina 1, che codifica una proteina del reticolo endoplasmatico, la cui funzione non è ancora nota.

Deficit di merosina Le persone che presentano difetto completo di merosina hanno di solito un quadro clinico piuttosto severo e non acquisiscono la deambulazione, sebbene vi possano essere eccezioni. Inoltre, il sistema nervoso centrale è coinvolto, sia pure in forma subclinica: si osservano, ad esempio, alla risonanza magnetica, alterazioni della sostanza bianca con distribuzione caratteristica, ma il livello cognitivo è abitualmente del tutto adeguato e solo in alcuni casi si presentano lievi anomalie nella percezione visuo-spaziale. Poiché la merosina è presente anche nel sistema nervoso periferico, è possibile individuare in queste persone una neuropatia, che però in genere non ha

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rilevanza clinica. Esistono poi molte varianti, con merosina parzialmente ridotta e quadro clinico abitualmente meno severo. La diagnosi molecolare permette di identificare le forme con deficit primario di laminina alfa-2. Il gene responsabile di tali forme è situato sul cromosoma 6q22-23 (gene LAMA 2) e varie mutazioni sono state identificate sia in pazienti con deficit totale che con deficit parziale.

Alterata glicosilazione dell’alfa-distroglicano Sono state finora identificate cinque forme caratterizzate da mutazioni in geni per la sintesi di proteine verosimilmente coinvolte nella glicosilazione: Fukuyama; “Muscle-Eye-Brain Disease” (MEB); Sindrome di Walker-Warburg (WWS); MDC1C; MDC1D. Queste cinque forme – pur evolvendosi in modo comune – hanno una manifestazione clinica molto eterogenea, andando da un quadro clinico assai severo – spesso con alterazioni strutturali cerebrali – sino a forme molto più lievi, che garantiscono un mantenimento della deambulazione autonoma e una normale aspettativa di vita. L’aspetto genetico appare alquanto complesso, in quanto mentre inizialmente ogni forma clinica era stata associata a mutazioni in uno specifico gene, adesso è noto che le forme MEB, WWS e MDC1C possono essere causate da mutazioni nella maggior parte dei geni coinvolti nella glicosilazione dell’alfa-distroglicano.

Fukuyama La distrofia muscolare congenita di Fukuyama è una forma recessiva caratterizzata da distrofia, grave ritardo mentale e alterazioni strutturali cerebrali. Essa sembrava originariamente presente solo nella popolazione giapponese, ma successivamente sono stati segnalati casi in altri Paesi, pur con una frequenza molto bassa. L’esordio è solitamente in utero o alla nascita, con ipotonia e difficoltà nella suzione e debolezza muscolare generalizzata. Lo sviluppo motorio e quello cognitivo sono marcatamente ritardati, e questi bambini generalmente hanno una ridotta sopravvivenza. Nel 60-70% dei casi sono presenti anomalie oculari generalmente lievi (ad esempio miopia). Il gene per questa forma è stato associato al cromosoma 9q31-33 e la proteina chiamata fukutina.

“Muscle-Eye-Brain Disease” (MEB) L’esordio di questa forma è nei primi mesi di vita con ipotonia marcata, debolezza muscolare generalizzata e disturbi della suzione. Lo sviluppo motorio è estremamente ritardato e solo pochi di questi pazienti acquisiscono la deambulazione autonoma. Dopo i primi mesi, l’interessamento del sistema nervoso centrale diventa evidente con ipertonia e ipereflessia, grave ritardo mentale ed epilessia. Lo spettro clinico di questa forma è molto ampio, comprendendo sia forme neonatali con breve sopravvivenza, sia forme più lievi con sopravvivenza fino all’età adulta. Qui sono sempre presenti anomalie oculari, spesso sotto forma di miopia o ipoplasia retinica, ma altri problemi come il glaucoma, il nistagmo o la cataratta sono pure frequenti. La risonanza magnetica può mostrare anomalie strutturali sia a carico della corteccia cerebrale che del cervelletto.

Sindrome di Walker-Warburg (WWS) Anche la sindrome di Walker-Warburg è una forma di distrofia muscolare congenita associata ad anomalie strutturali cerebrali e anomalie oculari, ma, a differenza della forma di Fukuyama – che ha una distribuzione geografica ben definita – essa non

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sembra avere “predilezione” per alcun Paese. La sindrome di Walker-Warburg ha il fenotipo più grave tra tutte le forme di distrofia congenita, con anomalie strutturali del cervello e anomalie oculari e ridotta sopravvivenza media. Spesso sono presenti un ritardo psicomotorio marcato e crisi epilettiche difficili da trattare. La risonanza magnetica mostra gravi alterazioni strutturali di encefalo e cervelletto. Le alterazioni micro e macroscopiche cerebrali sono più gravi di quelle riscontrate nella forma di Fukuyama o nella MEB. Anomalie retiniche, di vario grado, sono presenti nella maggioranza dei pazienti.

MDC1C Questa forma è una delle più frequenti ed è stata classicamente associata a mutazioni del gene FKRP. Essa è caratterizzata da un quadro clinico estremamente ampio che va da forme con insorgenza in utero fino a varianti di distrofie dei cingoli con insorgenza in età adulta e un quadro clinico molto lieve. La forma tipica è caratterizzata da una combinazione di debolezza e ritardo nell’acquisizione delle tappe funzionali, con difficoltà nell’arrivare alla deambulazione autonoma. Una recente revisione di casi ha riportato come altri caratteri distintivi una marcata ipertrofia dei muscoli delle gambe, accompagnata, soprattutto dopo i primi anni di vita, da evidente ipertrofia della lingua. Ipotrofia e debolezza dei muscoli delle spalle e debolezza dei muscoli mimici sono comuni e ci può essere anche la presenza di una cardiomiopatia dilatativa. Mentre nella descrizione iniziale di questo fenotipo veniva riportata una risonanza magnetica normale, associata a normale stato cognitivo, più recentemente sono stati descritti pazienti con mutazioni FKRP e coinvolgimento del sistema nervoso centrale. Questi ultimi quadri – con coinvolgimento centrale, appunto – possono andare da lieve ritardo mentale e anomalie strutturali del cervelletto con cisti cerebellari e anomalie oculari, fino a quadri molto più severi. Mutazioni FKRP sono anche state riscontrate in pazienti con fenotipo più lieve del MDC1C con esordio più tardivo e deambulazione preservata fino all’età adulta. MDC1D Si tratta di una forma rarissima legata a mutazioni nel gene LARGE. Il quadro clinico è caratterizzato da distrofia congenita, grave ritardo mentale, alterazioni della sostanza bianca e lievi alterazioni strutturali alla risonanza magnetica cerebrale.

Diagnosi Per arrivare alla diagnosi è importante iniziare da un’attenta raccolta anamnestica anche riguardo la gravidanza, il parto e i primi mesi di vita. L’esame clinico è fondamentale per identificare presenza di ipotonia, debolezza o segni clinici particolari descritti nelle varie forme. Il dosaggio del CK può evidenziare un sensibile aumento dei livelli ematici. In tutte queste forme è molto utile la biopsia muscolare che mostra alterazioni variabili da modesti segni miopatici a un quadro aperto di distrofia, con degenerazione, necrosi e rigenerazione delle fibre (a volte anche con infiltrati infiammatori). All’esame immunoistochimico della biopsia muscolare, poi, appare molto importante lo studio dell’espressione della merosina e dell’alfa-distroglicano, per orientare gli esami genetici. Altro esame molto utile è la risonanza magnetica cerebrale che può dimostrare alterazioni della sostanza bianca caratteristiche di alcune forme, così come peculiari alterazioni della corteccia dell’encefalo o del cervelletto. Infine l’analisi genetica opportunamente indirizzata da un clinico esperto in queste forme cliniche consente la definizione di una diagnosi precisa.

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Trattamenti L’evoluzione clinica e la prognosi sono molto diverse da forma a forma e da caso a caso, e al momento non esistono terapie risolutive. L’attenzione alle posture, alle retrazioni e a tutto ciò che può facilitare l’autonomia motoria è naturalmente indicata per tutte le forme di distrofia congenita. Inoltre, si dovranno impostare controlli della funzionalità cardiaca e respiratoria in sonno e veglia, determinandone la frequenza sia in base alla situazione clinica del singolo, sia tenendo presente quanto si conosce dell’evoluzione delle singole forme. Quando necessario, dovrà anche essere impostata un’adeguata terapia dell’epilessia che può accompagnarsi all’interessamento del sistema nervoso centrale e andranno anche previste attente valutazioni neuroftalmologiche (studio delle patologie della neuroretina o delle vie ottiche) e ortottiche (strabismo e problemi ad esso connessi), per le forme che abbiano coinvolgimento oculare. Infine, si rendono indispensabili opportuni interventi relativi ai possibili deficit cognitivi presenti in alcune forme. Visto che queste forme sono molto rare e in continua ridefinizione è particolarmente importante affidare lo studio diagnostico e la gestione clinica a un medico esperto in esse.

Distrofie miotoniche di Tiziana Mongini*

Le distrofie miotoniche sono malattie genetiche multisistemiche che colpiscono prevalentemente il muscolo scheletrico e – in varia misura secondo le forme – quello cardiaco (difetti di conduzione, aritmie, cardiomiopatia dilatativa), il corpo vitreo dell’occhio (cataratta), le ghiandole sessuali (atrofia delle gonadi, sterilità), il sistema endocrino (ipotiroidismo, diabete), il muscolo liscio (disturbi gastrici, stitichezza) e il sistema nervoso centrale (ritardo intellettivo, alterazioni comportamentali). Ne sono state caratterizzate due forme: la prima, relativamente frequente, con un’incidenza di 1 caso su 10.000 nati vivi, è definita DM1 o distrofia di Steinert ed è causata dal difetto del gene della miotonina proteina kinasi (DMPK), sito sul cromosoma 19q13.3. La seconda, più rara, è la DM2 o PROMM (PROximal Myotonic Myopathy, miopatia miotonica prossimale), secondaria al difetto del gene della Zinc Finger Protein 9 (ZNF9), codificata dal cromosoma 3q21. Entrambe le forme note sono caratterizzate da un’eccessiva ripetizione (“balbettio”) di una sequenza di nucleotidi (tripletta o quadripletta), che nei soggetti normali si ripete per un limitato numero di volte. In chi manifesta la malattia, queste sequenze di basi (CTG per la DM1 e CCTG per la DM2) possono ripetersi da alcune decine fino a migliaia di volte, compromettendo la funzione del gene. In genere tanto maggiore è l’espansione di nucleotidi, tanto più grave è l’espressione clinica della malattia. L’espansione può variare nei diversi tessuti di uno stesso individuo e ciò spiega le diverse manifestazioni della patologia. È stata inoltre rilevata una maggiore gravità di malattia quando la trasmissione avviene per via materna.

Muscoli coinvolti Nella distrofia miotonica di Steinert il coinvolgimento della muscolatura è evidente soprattutto nei distretti distali (avambraccio, mano, gamba e piede) e nei muscoli mimici del volto, con riduzione dei movimenti dell’espressione del viso e abbassamento delle palpebre (ptosi). È comunque interessata tutta la muscolatura scheletrica, con debolezza generalizzata e facile affaticabilità. Comune è la debolezza

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dei muscoli estensori del collo, con l’atteggiamento della “testa cadente”. Nella PROMM, invece, l’interessamento muscolare prevale nei distretti prossimali degli arti (spalle, braccia, bacino e coscia). Nelle persone affette da questa forma può essere presente un’ipertrofia relativa dei muscoli della gamba (polpaccio) o un’ipotrofia asimmetrica. Sono stati descritti casi con minima espressione clinica, anche con solo aumento della CK sierica (iperCKemia asintomatica). Entrambe le forme sono caratterizzate dal fenomeno miotonico, che è sempre presente nella DM1, ma può passare inosservato nella DM2.

Il fenomeno miotonico Con il termine di miotonia o fenomeno miotonico clinico si definisce una contrazione muscolare che persiste anche dopo la cessazione dello stimolo volontario. In altre parole, i muscoli – oltre ad essere più deboli – si rilasciano con difficoltà dopo la contrazione e il paziente fatica a lasciare la presa dopo avere stretto con forza un oggetto. Tale difficoltà è più evidente “a freddo” e si riduce col ripetersi delle contrazioni. In sostanza è come se il muscolo “non capisse” che il segnale nervoso di attivazione è terminato e che è ora di rilasciarsi. Il difetto è causato dall’alterazione della permeabilità della membrana allo ione cloro, correlata alla mutazione genetica. Il fenomeno miotonico elettrico è evidenziato dall’esame elettromiografico: all’infissione dell’agoelettrodo nel muscolo, compare una scarica di potenziali d’azione involontari causati dall’ipereccitabilità della membrana.

Trasmissione ed età d’esordio Le distrofie miotoniche sono malattie ereditarie che si trasmettono con meccanismo autosomico dominante: vengono cioè colpiti indistintamente maschi e femmine e ogni figlio di una persona affetta ha un rischio del 50% di essere a sua volta colpito dalla malattia. L’età d’esordio e le manifestazioni cliniche sono molto variabili, a seconda del tipo di alterazione genetica, ma si osservano marcate differenze anche nei singoli individui e nei vari membri di una stessa famiglia. Per la DM1 esistono forme congenite gravissime, forme infantili gravi e forme dell’adolescenza e dell’adulto, che sono le più comuni. In un nucleo familiare possono anche coesistere forme senza sintomi evidenti (subcliniche). La DM2 – più rara e non ancora completamente definita – ha in genere esordio giovanile o adulto. Caratteristica delle malattie da espansione è il fenomeno dell’anticipazione: i figli dei soggetti affetti tendono cioè a manifestare la malattia più precocemente e in forma più grave rispetto ai genitori.

Sintomi e decorso Nella DM1 l’esordio della malattia è variabile e può coinvolgere diversi sistemi. Nei casi neonatali il bambino ha gravi problemi motori e respiratori, ha difficoltà ad alimentarsi e spesso necessita dell’aiuto di un respiratore. Se supera i primi mesi critici, lo sviluppo cognitivo e motorio è comunque significativamente compromesso. Nei casi infantili vi è un ritardo dell’acquisizione delle capacità motorie (in genere con inizio della deambulazione oltre i due anni) e psichiche (ritardo della parola, alterazioni comportamentali). Nei casi adulti, infine, il primo segno è in genere la miotonia, evidente soprattutto alle mani: dopo avere afferrato un oggetto, la persona non riesce a lasciare immediatamente la presa. Inoltre possono essere presenti difficoltà a correre, con cadute improvvise e facile stancabilità. In rari casi l’esordio è caratterizzato da disturbi cardiaci e respiratori, soprattutto quando la miotonia è lieve e sottovalutata.

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Nella DM2, invece, il fenomeno miotonico può essere solo elettrico e pertanto prevale la debolezza dei muscoli prossimali. Per quanto poi riguarda il decorso della malattia, nella DM1 congenita il neonato – spesso prematuro – è gravemente ipotonico, con importanti difficoltà di suzione e deglutizione, problemi respiratori e talora anche deformità scheletriche (piede equino e varo). La grave compromissione delle condizioni generali è spesso fatale, in particolare per le complicanze respiratorie. Se si supera questa fase, generalmente l’ipotonia muscolare diminuisce nel tempo e i bambini acquisiscono, seppure in ritardo, le tappe motorie, mentre rimane grave il deficit intellettivo. Quasi sempre la forma congenita è trasmessa dalla madre. Nella forma infantile i sintomi sono ipotonia, debolezza della muscolatura mimica facciale e deficit cognitivo, mentre il decorso è simile a quello delle forme adolescenziali e adulte. In queste ultime gli aspetti salienti sono il coinvolgimento multisistemico, il lento progredire del coinvolgimento muscolare scheletrico e la variabile compromissione delle capacità cognitive. Molto importanti sono le complicazioni cardiache: generalmente, infatti, il decesso avviene per arresto cardiaco improvviso o per scompenso cardiaco grave.

Diagnosi Per una corretta diagnosi di distrofia miotonica sono importanti un’accurata valutazione clinica neurologica, con la raccolta dei dati della storia familiare e l’esame obiettivo; quindi si procede all’esame elettromiografico e all’indagine genetica sul DNA estratto dai linfociti del sangue. La biopsia muscolare è utile nella PROMM, mentre per la distrofia miotonica di Steinert non è di per sé necessaria per la diagnosi.

Parlando poi di diagnosi prenatale, essa è possibile quando uno dei genitori è affetto e la diagnosi genetica è stata confermata. Si effettua un prelievo di villi coriali (frammenti di tessuto destinato a diventare placenta) alla decima-undicesima settimana di gravidanza. Tale indagine evidenzia la presenza dell’anomala espansione di nucleotidi nel feto, con risultati affidabili che permettono di dire se il bimbo sarà affetto o no. Valutando poi l’entità dell’espansione, si possono avere anche indicazioni generali sulla gravità clinica. E tuttavia – essendo l’espansione diversa nei vari tessuti – si tratta di un dato che non permette previsioni certe in questo senso. Nel caso infine vi sia in famiglia un parente consanguineo affetto da una distrofia miotonica (sia DM1 che DM2), è importante eseguire una visita neurologica presso un Centro Specializzato. Il neurologo deciderà nei singoli casi se eseguire o meno test più approfonditi (elettromiografia, analisi del DNA). In ogni caso è importante effettuare questo controllo prima di iniziare una gravidanza, sia per le donne che per gli uomini.

Trattamenti Ad oggi non esiste una terapia risolutiva per la malattia, anche se sono in fase di studio avanzato varie strategie molto promettenti. Tuttavia è molto importante intervenire precocemente con terapie preventive e conservative cardiologiche, endocrinologiche, respiratorie, ortopediche, fisiatriche, foniatriche e dietologiche, al fine di migliorare le prestazioni e la qualità della vita. Il fenomeno miotonico, quando significativamente invalidante, può migliorare in alcuni soggetti con l’uso di farmaci come la mexiletina; altri farmaci utilizzati soprattutto in passato sono il chinino, la difenilidantoina oppure la procainamide; e tuttavia, poiché queste sostanze possono produrre effetti collaterali, l’opportunità di impiego va valutata caso per caso in relazione all’effettiva gravità del fenomeno

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miotonico. A livello cardiologico, si utilizzano farmaci antiaritmici, inotropi, antipertensivi e diuretici; è molto importante valutare in ogni singolo caso il rischio di comparsa di bradicardia o di aritmie ventricolari, che vanno trattate con l’impianto di pace-maker o di defibrillatori intracardiaci. La cataratta può essere rimossa con un semplice intervento chirurgico. L’alimentazione va ottimizzata al fine di evitare sovraccarichi di peso; non è controindicata una regolare attività fisica, ma essa non dev’essere affaticante. Infine è indicata la terapia ventilatoria di supporto, quando compaiono aumenti dell’anidride carbonica e ipossie diurne e/o notturne per ridotta forza dei muscoli respiratori. Chi è colpito da distrofia miotonica e non ha complicazioni significative deve sottoporsi a controlli annuali neurologici e cardiologici, con visita specialistica, elettrocardiogramma, ECG Holter ed ecocardiogramma. Indispensabili sono anche i controlli periodici della funzionalità respiratoria in veglia (spirometria, meccanica respiratoria) e durante il sonno (saturimetria notturna, poligrafia). È proprio nel sonno, infatti, che possono verificarsi apnee di vario tipo, tali da richiedere l’impiego di ventilazione meccanica notturna. Sono inoltre necessarie la valutazione oculistica ed endocrinologica, con un periodico profilo glicemico e controllo degli ormoni tiroidei. In molti casi è utile un supporto psicologico, anche per la famiglia. Non sono controindicati in modo assoluto i farmaci antidepressivi, come gli SSRI, mentre grande cautela dev’essere impiegata nella prescrizione di statine o fibrati, con attenta valutazione del rapporto rischio/beneficio in ogni singolo caso.

Amiotrofie spinali (o atrofie muscolari spinali) di Angela Berardinelli*

Le amiotrofie spinali o atrofie muscolari spinali (SMA) sono un gruppo di patologie dovute alla degenerazione delle cellule delle corna anteriori del midollo spinale, cellule deputate all’innervazione motoria della muscolatura scheletrica. Ne esistono diverse forme che vengono classificate innanzitutto in relazione al difetto molecolare sottostante: si parla quindi di amiotrofie Spinale legate al gene SMN1, sito sul braccio lungo del cromosoma 5, dette globalmente SMA 5q e di amiotrofie spinali non legate a questo gene (SMA non 5q). La classificazione può anche derivare dalla sede prevalente del difetto di forza. Qui si parla dunque di amiotrofie spinali prossimali o distali. In questa sede tratteremo solo delle SMA 5q. In termini generali si tratta di un gruppo di malattie ereditarie, piuttosto frequenti nell’età evolutiva, caratterizzate da ipotonia muscolare (riduzione del tono muscolare ed eccessivo rilasciamento del tessuto), difetto di forza – nelle forme più diffuse – generalizzato, ma prevalente a carico della muscolatura prossimale degli arti (quella più vicina al tronco), e riduzione/assenza dei riflessi osteotendinei.

Forme e classificazioni Come già detto, una prima, grande divisione, va fatta tra forme legate al cromosoma 5, ovvero al gene SMN1 e forme non legate ad esso. Generalmente, quando si parla di amiotrofia spinale, ci si riferisce al primo gruppo e tuttavia il secondo gruppo comprende:

° forme con difetto di forza a prevalente distribuzione distale (i muscoli più lontani dal tronco); ° forme con difetto di forza a distribuzione scapolo-peroneale; ° forme legate al cromosoma X; ° forme associate ad anomalie a carico del sistema nervoso centrale (SNC).

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Non per tutte queste forme è stato individuato il gene responsabile, ma per molte di esse oggi è noto ed è diverso dal gene SMN1. Tornando al gruppo legato al cromosoma 5, esiste una grande variabilità clinica, che va dalla forma gravissima, con esordio in genere molto precoce (primi giorni o mesi di vita, a volte addirittura nella vita intrauterina), a forme molto più lievi, con esordio più tardivo. Il difetto genetico è il medesimo per tutte queste forme. Va segnalata inoltre la presenza di una forma ad esordio abitualmente in età adulta e prognosi favorevole, la cosiddetta forma IV, che può non presentare la classica delezione del gene SMN1.

La classificazione tradizionale prevede la distinzione in tre grandi gruppi:

°SMA I o malattia di Werdnig-Hoffman; °SMA II o forma intermedia; ° SMA III o malattia di Kugelberg-Welander. Recentemente si è aggiunta la forma 0, con esordio nella vita intrauterina.

Va ricordato per altro che le varie forme non sono sempre nettamente distinguibili, ma si tratta di un continuum dalla forma più grave a quelle più lievi e proprio in base all’estrema eterogeneità clinica è stata proposta una revisione della classificazione, organizzandola su base decimale: ad esempio, dalla SMA 1.0 (cioè la “classica” forma I) alla forma 1.9, più lieve, che sta al limite tra la I e la II e così via. Un recente documento di Consenso sullo Standard di Cure per le SMA (Consensus Statement for Standard of Care in Spinal Muscular Atrophy, in «Journal of Child Neurology», vol. 22, n. 8, agosto 2007, pp. 1027-1049) ha sottolineato infine l’importanza di utilizzare una classificazione basata sulle condizioni funzionali dei pazienti, dividendoli nelle grandi categorie di:

° “non sitters”, ovvero le forme più gravi, nelle quali i pazienti non acquisiscono la capacità di stare seduti da soli; ° “sitters”, vale a dire quei pazienti che invece possono stare seduti da soli; ° “walkers”, cioè le forme lievi, che consentono l’acquisizione della deambulazione autonoma.

A queste grandi categorie sono comuni le principali problematiche cliniche, declinate in varia gravità e reciproca importanza per ciascun paziente.

Caratteristiche delle varie forme Caratteristica comune è la compromissione generalizzata e simmetrica della muscolatura, maggiore però a carico degli arti inferiori e in particolare dei muscoli prossimali (quelli – come detto – più vicini al tronco). La muscolatura mimica del volto è generalmente indenne, così come quella che determina il movimento degli occhi. Nelle forme più severe – ad esordio precoce e maggiore estensione del danno motoneuronale – si può osservare un mento piccolo e abitualmente arretrato rispetto all’arcata dentaria superiore. La sensibilità è sempre conservata (la persona sente il caldo, il freddo e il dolore, percepisce la posizione del suo corpo nello spazio ecc.), il sistema nervoso centrale non è interessato, il livello intellettivo e lo sviluppo del linguaggio sono del tutto normali. I riflessi osteotendinei sono generalmente assenti nelle forme più gravi, mentre in quelle più lievi sono molto ridotti e successivamente assenti. Come già accennato, la gravità del deficit di forza e conseguentemente le abilità motorie raggiunte (la capacità di stare seduti e di deambulare) consentono di distinguere tra le varie forme, insieme all’età di esordio. Globalmente si può dire che i problemi respiratori possono essere rilevanti, mentre

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il cuore non è mai interessato. Nelle forme più gravi possono associarsi problemi di deglutizione e di reflusso gastroesofageo.

I problemi respiratori Sono in realtà proprio i problemi respiratori a condizionare la prognosi di questi pazienti. A seconda della gravità della forma, infatti, essi saranno presenti con diversa entità: gravissimi e precoci nella SMA I, molto meno gravi e più tardivi nella II, di solito rari o assenti nella III. Si tratta di situazioni legate al deficit di forza a carico dei muscoli respiratori. In poche parole, durante la respirazione utilizziamo il muscolo diaframma e i muscoli intercostali. In generale nelle SMA il diaframma – di per sé molto forte – è relativamente risparmiato, ciò che permette una discreta espansione del torace e tuttavia quando i muscoli intercostali sono gravemente interessati (ciò che di solito è correlato alla precocità di esordio della patologia) o se la situazione è aggravata dall’insorgenza della scoliosi – aspetto spesso molto importante nelle SMA – si possono avere problemi respiratori gravi, tali da richiedere l’assistenza ventilatoria meccanica. La risposta a quest’ultima è abitualmente buona nelle forme intermedie. Sul quadro cronico si instaurano poi problemi acuti, legati ad eventuali episodi infettivi, che richiedono un’adeguata gestione.

SMA di tipo 0 Se ne è già accennato in precedenza: si tratta di una forma recentemente inclusa nella classificazione, ad esordio nella vita intrauterina e a decorso rapidamente fatale. La scarsa motilità nella vita intrauterina può causare la presenza di retrazioni articolari già alla nascita (artrogriposi multipla congenita) ed è importante ricordarlo perché fino ad alcuni anni fa la presenza di artrogriposi alla nascita era invece considerato un criterio di esclusione per la diagnosi di SMA.

SMA X linked Per completezza di informazione va detto poi che esiste un’ulteriore forma di malattia determinata dalla degenerazione delle corna anteriori del midollo spinale, a esordio neonatale o nella prima infanzia, con artrogriposi multipla congenita e prognosi infausta, legata tuttavia a un gene sul braccio corto del cromosoma X. Essa si chiama appunto amiotrofia spinale X linked (legata all’X) con atrogriposi multipla congenita e non va confusa con la SMA 5q di tipo 0.

SMA I Nella SMA I (malattia di Werdnig-Hoffman), il deficit è generalizzato e gravissimo. Il bambino giace immobile e anche la muscolatura respiratoria è compromessa, quasi sempre in modo così grave da risultare fatale entro il primo anno di vita, sebbene esistano rari casi con sopravvivenza più lunga. La vivacità dell’espressione del volto contrasta per altro con questa globale immobilità. A questa forma possono associarsi difficoltà nella deglutizione e reflusso gastroesofageo che, insieme, possono ulteriormente contribuire alle difficoltà respiratorie.

SMA II Nella SMA II (forma intermedia), per definizione il bambino acquisisce la capacità di stare seduto autonomamente, sebbene ciò possa avvenire un po’ tardivamente o in modo imperfetto rispetto a quanto accade per un bimbo sano. L’esordio si colloca in genere dopo i sei mesi di vita e il deficit di forza è grave, ma non come nella forma I. Rimane tuttavia impossibile la deambulazione autonoma. La sopravvivenza è maggiore, spesso normale e comunque legata alla funzionalità

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respiratoria, giacché la muscolatura respiratoria non è compromessa allo stesso modo in tutti i soggetti. Abitualmente, tanto più precoce è l’esordio dei sintomi, tanto più probabile è che nel tempo si presentino problemi respiratori.

SMA III La SMA III (malattia di Kugelberg-Welander) si manifesta quando la deambulazione autonoma è già stata acquisita. Il difetto della forza muscolare, prossimale (muscoli più vicini al tronco), simmetrico e prevalentemente a carico degli arti inferiori determina la tipica andatura dondolante detta anserina (letteralmente “a mo’ di papera”), oltre a difficoltà nell’alzarsi da terra e nel fare le scale. L’età di esordio è variabile e la progressione è lenta, costringendo i pazienti alla carrozzina circa dieci anni dopo l’esordio stesso. La sopravvivenza è generalmente pari a quella delle persone non affette dalla malattia e comunque sempre legata all’eventuale comparsa di problemi respiratori.

Genetica delle SMA Le amiotrofie spinali legate al cromosoma 5 sono malattie genetiche ereditarie, con una trasmissione di tipo autosomico recessivo: non sono cioè legate al sesso, ma colpiscono indistintamente maschi e femmine. Di solito entrambi i genitori di un bambino affetto sono portatori (la condizione di portatore non comporta alcun sintomo) e il rischio di ricorrenza è del 25% ad ogni gravidanza. In genere in uno stesso nucleo familiare la patologia si manifesta con il medesimo grado di gravità, ma sono stati anche descritti casi di fratelli affetti da forme diverse. L’alterazione genetica correlata alle amiotrofie spinali è situata – si è detto – sul cromosoma 5 ed esattamente nella regione 5q11.2-13.3. Il “responsabile” è il gene SMN, presente in due copie, l’una detta SMN1, l’altra SMN2. Solo l’assenza (delezione) della copia SMN1 determina la malattia. Le due copie sono uguali in tutto tranne che per cinque aminoacidi e questa piccola differenza fa sì che esse costruiscano due proteine – dette anch’esse SMN – un po’ diverse: solo il gene SMN1 è in grado di sintetizzare una proteina SMN completa, presente non solo nelle cellule delle corna anteriori del midollo, ma anche in molti altri tessuti e attiva nel metabolismo di uno degli acidi nucleici delle cellule, l’RNA. Per quanto poi riguarda la funzione del gene SMN2, esso produce una proteina SMN completa in minima quantità, e prevalentemente una proteina SMN ridotta, non funzionale. Il gene SMN2 può essere presente in un numero variabile di copie (da 1 a 4) da individuo a individuo e almeno una copia è sempre conservata, anche nei soggetti affetti dalle forme severe. Sembra che esso contribuisca a determinare la gravità clinica della malattia: tanto maggiore è il numero di copie, tanto più lieve è la manifestazione, per quanto questa regola non sia universalmente valida e non sia nemmeno l’unica spiegazione delle differenze tra le varie forme. In realtà il ruolo effettivo della proteina SMN non è ancora del tutto chiaro: a tutt’oggi non si sa bene né quando inizi effettivamente il processo patologico né perché esso determini forme di gravità tanto diversa tra di loro. Resta inoltre da capire perché l’assenza di una proteina normalmente presente in diversi tessuti causi una malattia caratterizzata in realtà solo dal difetto a carico delle corna anteriori del midollo spinale: probabilmente la proteina SMN è particolarmente importante proprio in queste cellule. Recentemente, infine, è stato scoperto che la proteina SMN interviene anche nel promuovere e guidare la crescita dell’assone, cioè del prolungamento della cellula nervosa che si metterà poi in contatto anatomico e funzionale con la fibra muscolare. Una carenza della forma di proteina SMN “assonale” sembra essere correlata con una riduzione della crescita assonale, con una sua aberrante e anomala

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ramificazione ovvero, semplificando molto, con un’alterata funzione dell’assone stesso.

La diagnosi prenatale è possibile, in presenza di un altro figlio affetto. Nel caso che il piccolo paziente sia deceduto, si può recuperare il materiale genetico dalla biopsia muscolare (se era stata fatta e conservata) o da altri campioni di tessuto, e determinare la presenza del gene SMN, sia nel primo figlio che nel nascituro. L’esame da svolgere è la villocentesi, possibile a partire dalla decima settimana di gravidanza.

Diagnosi È importante innanzitutto la valutazione clinica: il quadro descritto sopra è infatti molto caratteristico e consente spesso, soprattutto nella forma I, di ipotizzare la diagnosi. Il recente citato documento di Consenso sullo Standard di Cure per le SMA ha definitivamente suggerito di passare immediatamente all’analisi molecolare del gene SMN, se il sospetto clinico è molto importante, senza effettuare esami più invasivi. Se tale analisi risultasse negativa, si dovrà rivalutare il bambino dal punto di vista clinico ed eventualmente procedere ad altri test strumentali. Va ricordato poi che nell’1-2% dei casi la malattia è dovuta a mutazioni puntiformi e non a delezioni e questo spiega un primo risultato negativo dell’analisi molecolare. In questi casi il gene andrà sequenziato, lavoro molto lungo e impegnativo. Nella valutazione iniziale – là dove possibile – si può includere anche un’ecografia muscolare, esame non invasivo, non dannoso e molto veloce, che pur non dando una certezza, può fornire indicazioni utili per confermare il sospetto clinico. Non è comunque indispensabile e viene effettuato solo in pochi Centri. Da dire infine che nel sospetto è sempre utile inviare il paziente a un Centro Specializzato di riferimento, affinché sia l’iter diagnostico, sia la successiva comunicazione diagnostica e le indicazioni per la gestione siano date da persone che conoscono bene la malattia.

Un argomento delicato e controverso è quello riguardante l’opportunità di fare la diagnosi genetica dei figli sani, in un nucleo familiare ove ve ne sia uno clinicamente affetto dalla malattia. Tecnicamente l’analisi è possibile e va anche detto che in letteratura sono descritti casi – sia pur rari – di soggetti sani con la delezione omozigote del gene SMN1 (cioè la stessa presente nei pazienti). Proprio in relazione a ciò, in linea di massima si seguono le indicazioni della Società di Genetica Umana, che suggeriscono – particolarmente in caso di minori non ancora in grado di esprimere un parere consapevole e di fronte a malattie per le quali non sia disponibile una terapia risolutiva o la possibilità di prevenirle – di non effettuare l’indagine, perché a un eventuale riscontro della delezione in un soggetto ancora sano, non si saprebbe né come intervenire, né quali previsioni fare per il futuro. E tuttavia, proprio nel recente documento di Consenso sullo Standard per le cure nella SMA, si propone che questa regola possa non essere seguita in questa specifica patologia, in quanto è teoricamente possibile pensare che quelle sostanze risultate valide in laboratorio e che non si sono dimostrate efficaci nei trial fatti con persone affette – perché somministrate quando la malattia era già manifesta e quindi a danno motoneuronale già avvenuto – potrebbero avere un diverso esito se somministrate quando ancora la patologia non è manifesta. Si tratta tuttavia di una questione non risolta e non è abitudine fare la diagnosi molecolare su fratelli sani di soggetti affetti, soprattutto se in età tale da non potere esprimere appieno il loro assenso.

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Infine va segnalata la presenza della delezione omozigote del gene SMN1 – quella cioè che determina la malattia – in soggetti clinicamente sani, solo di sesso femminile. Non è noto, ed è ovviamente oggetto di interesse, se e quale sia l’elemento protettivo in questi casi. Qualora la delezione omozigote si riscontri in un soggetto sano nei primi anni di vita, non è possibile prevedere se e quando la malattia potrà eventualmente svilupparsi.

Trattamenti Globalmente i punti cardine del trattamento delle persone affette da un’amiotrofia spinale consistono in:

° sorveglianza delle complicanze respiratorie, intese sia come gestione degli aspetti respiratori, sia come monitoraggio della funzionalità respiratoria in veglia e della possibile insorgenza di disturbi respiratori in sonno, sia del drenaggio delle secrezioni bronchiali (anche con ausili) e, quando necessario, con l’impostazione della ventilazione meccanica non invasiva; ° gestione delle problematiche nutrizionali, sia e soprattutto della disfagia nelle forme più gravi, sia di un adeguato supporto nutrizionale in corso di infezioni respiratorie; ° contenimento/correzione della scoliosi e delle retrazioni, con gestione e supporto della funzionalità motoria residua al fine di garantire la maggiore autonomia funzionale possibile; ° presa in carico del paziente e del nucleo familiare nella sua globalità, con particolare attenzione agli aspetti emotivo-relazionali.

I vari interventi vanno “modellati” sulle esigenze del singolo caso e della specifica situazione. Meno importanti sono, in genere, i controlli cardiologici, perché – come detto – la malattia non determina interessamento cardiaco.

Ad oggi non esistono terapie risolutive. Se infatti la comprensione dei meccanismi patogenetici alla base della malattia ha indotto a sperimentare sostanze in grado di “costringere” il gene SMN2 a produrre una maggiore quantità di proteina SMN completa, nessuna delle sostanze impiegate – e pure apparentemente utili dagli studi in laboratorio – ha dato finora risultati pienamente soddisfacenti. Si può tuttavia annotare che l’impiego del salbutamolo e del valproato – sotto controllo medico e dopo ampia discussione con le famiglie e, quando possibile, con i pazienti – ha dato qualche lieve miglioramento funzionale. Mancano per altro – soprattutto per il salbutamolo – studi in doppio cieco randomizzato, che cioè confrontino due popolazioni di soggetti affetti, a una delle quali viene somministrato il farmaco e all’altra no, in modo casuale, senza che né il paziente né il medico ne siano a conoscenza. Da segnalare poi che proprio in questo periodo sta iniziando uno studio sull’impiego di una molecola (TRO19622) con azione neuroprotettrice e neurorigenerativa. TRO19622 si è dimostrata ben tollerata su volontari sani. Naturalmente non sono ancora disponibili i risultati della sperimentazione, che viene condotto su persone non deambulanti, affette da SMA II e SMA III, in più Centri italiani. Al momento non ci sono risultati di trial clinici con cellule staminali, ma in varie strutture – anche italiane – si sta studiando in merito.

Anche nelle SMA, infine, la ricerca clinica si sta concentrando sulla ricerca di scale di valutazione e sull’individuazione di misure di outcome - così come accade ad esempio per le distrofinopatie – che consentano di disegnare e valutare al meglio eventuali trial sperimentali.

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Atassia di Friedreich di Filippo Maria Santorelli*

L’atassia di Friedreich (AF) è una malattia ereditaria a trasmissione autosomica recessiva (alterazione del DNA presente in entrambi gli elementi di una coppia di cromosomi), che provoca appunto atassia (cioè mancanza di coordinazione nei movimenti), dovuta a degenerazione del midollo spinale e del cervelletto (un’importante “centralina di controllo” del movimento). La AF si manifesta generalmente prima dei 25 anni di età, più raramente (in circa il 15% dei casi) oltre quell’età. Si tratta della più comune eredoatassia recessiva, con una prevalenza di circa 1 persona su 50.000 in Europa, senza distinzione di sesso e con una frequenza dei portatori sani di circa un individuo su 100.

Come e quando si manifesta La malattia si manifesta con disturbi della coordinazione della posizione eretta (atassia del tronco), dei movimenti (atassia delle estremità), dell’articolazione della parola (disartria), associati ad altri segni neurologici (abolizione dei riflessi, disturbi della sensibilità profonda, segno di Babinski, piede cavo e scoliosi). Importanti complicazioni extra-neurologiche sono rappresentate da diabete mellito e cardiomiopatia ipertrofica che talora rappresenta la manifestazione all’esordio, specie nei bambini più piccoli, anche quando i segni neurologici sono più sfumati. Nella maggioranza dei casi, il sintomo iniziale è l’atassia alla deambulazione: entrambe le gambe sono colpite e la marcia è progressivamente lenta e goffa, fenomeno che spesso si manifesta dopo che si è sviluppata una normale capacità di camminare. L’atassia può essere associata con difficoltà alla stazione eretta e nella corsa. La malattia si evolve progressivamente e dopo dieci/vent’anni la persona non è più in grado di camminare autonomamente. Circa il 10% dei pazienti sono diabetici e nella maggior parte dei casi richiedono terapia insulinica. La cardiomiopatia, invece, è evidente in due terzi circa dei pazienti ed è primariamente una forma ipertrofica concentrica simmetrica, anche se in alcuni casi vi è l’ipertrofia del setto interventricolare. L’elettrocardiogramma illustra ampie inversioni dell’onda T e segni di ipertrofia ventricolare si osservano all’ecocardiogramma.

Responsabile è la fratassina La causa dell’AF è la mutazione del gene FXN localizzato sul cromosoma 9q13 e codificante la proteina fratassina. La diagnosi è possibile mediante analisi genetica con l’individuazione, nel 97% dei casi, di un’espansione anomala e instabile di una tripletta GAA nell’introne 1 del gene. Nel restante 3% dei casi, si osservano invece mutazioni puntiformi del gene su un allele, in associazione con un’espansione patologica della tripletta GAA sull’altro allele. È stata rilevata una correlazione tra la gravita dei deficit neurologici e l’entità della ripetizione della tripletta GAA, tra cui la relazione inversa tra il numero di triplette e l’età di inizio della malattia o l’età della perdita della deambulazione e in una certa misura la gravita della cardiomiopatia. È stato anche descritto che nei pazienti con mutazione composta possono essere prevalenti caratteristiche cliniche meno canoniche come la neuropatia ottica, altrimenti più rare nell’AF classica, proprio per una minore quota di fratassina residua funzionante. La malattia è dovuta dunque alla diminuzione e al malfunzionamento della fratassina, proteina mitocondriale implicata in numerosi processi cellulari, che vanno dall’apporto del ferro all’assemblaggio degli ISC (complessi proteici contenenti

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gruppi ferro-zolfo, facenti parte della catena respiratoria mitocondriale), al deposito del ferro in condizioni di eccesso, fino alla funzione di controllore per lo stress ossidativo intracellulare. Secondo un recente studio si ipotizza la funzione di “sensore del ferro”, ossia di regolatore nella formazione dei gruppi ferro-zolfo, ciò che condiziona la formazione di stress ossidativo e conduce infine alla morte cellulare mediata da eccesso di radicali liberi. I tessuti dell’organismo sono sensibili in modo diverso al deficit di fratassina: le cellule ad alto metabolismo energetico (cuore, nervo ottico, cellule nervose responsabili della percezione della posizione nello spazio) normalmente richiedono e producono le maggiori quantità di fratassina e quindi necessitano di una maggiore produzione di energia per via ossidativa aerobia. Sono queste che tendono ad essere le più colpite nella malattia. Altrettanto intrigante è la linea di ricerca che vede nell’evento mutazione il la per alterare la funzione dell’RNA codificante e della proteina attraverso modifiche della cromatina (epigenetiche).

Ricerche e trattamenti Strategie moderne che usano “spazzini molecolari” dei radicali liberi offrono la speranza almeno di rallentare la progressione della cardiopatia. Modelli animali di AF – per lo più nel topo, ma anche nel lievito – sono stati poi sviluppati mediante manipolazione molecolare, per offrire sistemi sperimentali su cui testare potenziali terapie. Oggi, in assenza di trattamenti curativi, è necessario porre l’accento su quelli sintomatici, mirati ad evitare le complicanze, in particolare quelle cardiache (utilità dell’assunzione dell’idebenone, farmaco antiossidante analogo al coenzima Q10) e a mantenere la miglior qualità di vita possibile. L’idebenone, del resto, è già stato approvato in Italia come farmaco cruciale nell’atassia di Friedreich, con l’esclusiva indicazione del trattamento della miocardiopatia. Promettenti risultati sono stati osservati in piccole sperimentazioni con l’interferone Gamma-1b e l’eritropoietina (che aumentano i livelli cellulari di fratassina), il deferiprone (che agisce chelando il ferro), e la vitamina B3 (che agisce sul meccanismo epigenetico come farmaco che facilità la produzione dell’RNA messaggero). Altrettanto utili sono una presa in carico con sedute di fisioterapia, ortofonia ed ergoterapia che permettano di sfruttare al meglio i potenziali esistenti nel paziente. Combattere la scoliosi è indispensabile per preservare la posizione seduta e la funzione respiratoria. E ancora, alcuni trattamenti farmacologici (miorilassanti) e la fisioterapia permettono di combattere le contratture. Carrozzina elettrica, verticalizzazione appropriata e apparecchi per la comunicazione assistita rappresentano infine ausili tecnici utili per garantire una certa autonomia.

Consulenza genetica Per le coppie riconosciute a rischio di AF e che desiderano avere un bambino, può essere proposta la diagnosi prenatale. Il rischio di ricorrenza di AF è – come in tutte le malattie a trasmissione autosomica recessiva – del 25% a ogni nuova gravidanza, per le coppie che hanno avuto un bambino colpito dalla malattia. Il test genetico prenatale è erogabile presso centri diagnostici di terzo livello del Sistema Sanitario Nazionale. Anche quando una persona viene riconosciuta portatrice dell’alterazione genetica, tenendo conto della trasmissione recessiva, è eccezionale la manifestazione della malattia in due generazioni successive, fatte salve le unioni tra consanguinei.

Atrofia muscolare spino-bulbare (o Malattia di Kennedy) di Gianni Sorarù*

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Cos’è e come si manifesta L’atrofia muscolare spino-bulbare (Spinal and Bulbar Muscular Atrophy, SBMA), nota anche come Malattia di Kennedy, è un disordine genetico legato al cromosoma X e caratterizzato dalla neurodegenerazione dei motoneuroni spinali e del tronco encefalico. La Malattia di Kennedy, che colpisce soggetti maschi adulti (le donne sono portatrici sane o paucisintomatiche), si manifesta inizialmente con crampi e affaticabilità e quindi con debolezza ingravescente della muscolatura degli arti ed anomalie delle funzioni bulbari (disartria e disfagia).

La mutazione Il gene mutato codifica per la proteina che funziona da recettore degli androgeni (ormoni sessuali maschili ovvero testosterone e diidrotestosterone). La mutazione consiste nell’espansione di una tripletta CAG che viene tradotta a livello proteico in una catena poliglutaminica (poli-Q). Nei soggetti sani si riscontra un numero di ripetizioni variabile da 5 a 36; nei pazienti con KD invece il numero di ripetizioni è maggiore di 38. In ragione di tale tipo di difetto genetico, la malattia di Kennedy fa parte della famiglia delle malattie da espansione poli-Q che include, tra gli altri, alcuni tipi di atassia spinocerebellare, l’atrofia dentato-rubro-pallido-luisiana e la malattia di Huntington. Anche se il funzionamento del recettore per gli androgeni è ben conosciuto, il meccanismo attraverso il quale la mutazione poli-Q responsabile della malattia determina il processo neurodegenerativo non è ancora stato chiarito. Sicuramente tale processo è sostenuto dalla stimolazione ormonale androgenica, motivo per il quale le femmine portatrici sono risparmiate o appena sintomatiche. E’ pur vero, tuttavia, che l’ablazione farmacologica dell’attività testosteronica non ha prodotto i risultati attesi in due studi clinici condotti in pazienti con malattia di Kennedy.

Altre manifestazioni della malattia Oltre al quadro neurologico, la malattia di Kennedy è caratterizzata anche da segni e sintomi imputabili più probabilmente ad una insufficienza androgenica come ginecomastia e disordini nella sfera sessuale. Recenti evidenze, inoltre, indicano come l’azione patologica della proteina mutata si esprima anche al di fuori del sistema nervoso come ad esempio nel muscolo scheletrico, tessuto cui è attribuito sempre più un ruolo centrale nella espressione clinica della malattia.

Ricerca e cura Nonostante gli avanzamenti della ricerca su questa malattia, dopo più di 20 anni dalla scoperta del difetto genetico sottostante, non è ancora stata individuata una cura efficace.

Disferlinopatie di Luisa Politano*

Le disferlinopatie (Limb Girdle Muscular Dystrophy 2B o LGMD2B) appartengono al vasto ed eterogeneo gruppo delle distrofie muscolari dei cingoli ad ereditarietà autosomica recessiva, trasmesse cioè da un’alterazione del DNA presente in entrambi gli elementi della coppia di cromosomi. A tali patologie abbiamo già dedicato un ampio approfondimento generale in DM 170 (pp. 41-44) al quale rimandiamo.

Per quanto poi riguarda il termine disferlinopatia, esso deriva dal fatto che la malattia è provocata da mutazioni nel gene della disferlina, posto sul braccio corto del cromosoma 2 (2p12-14), che ha un proprio omologo nel fattore spermatogenetico fer-1, nella Caenorhabditiselegans, piccolissimo organismo

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animale, molto usato negli studi biomolecolari. Il corrispondente prodotto proteico – anch’esso chiamato disferlina – è una proteina transmembrana di 230 Kb [il Kb è il chilo coppia-base, unità dimisura usata in genetica, pari a mille nucleotidi, N.d.R.], coinvolta nei processi di riparazione delle membrane, nella differenziazione dei mioblasti e nella tubulogenesi.

Quadro clinico

Dal punto di vista fenotipico, la disferlinopatia può presentarsi con differenti quadri clinici:

distrofia muscolare dei cingoli (LGMD2B); miopatia di Miyoshi (MM); miopatia distale con iniziale coinvolgimento del muscolo tibiale anteriore (il muscolo della faccia anteriore della gamba)

(DMAT); iperCKemia isolata; sindrome da spina rigida (RSS).

La LGMD2B è caratterizzata dalla prevalente debolezza e atrofia muscolare di entrambi i cingoli (pelvico e scapolare), che di solito insorge nella seconda decade di vita, più raramente nella terza e nella quarta. La MM è una distrofia distale ad esordio nell’età adulta, caratterizzata dal prevalente interessamento dei muscoli del polpaccio. La DMAT è anch’essa una distrofia distale, caratterizzata però dal prevalente interessamento dei muscoli del compartimento anteriore degli arti inferiori. L’iperCKemia isolata è di frequente riscontro nei cosiddetti “casi preclinici”, ove il dato emerge in età precoce, quasi sempre su base occasionale. Infine, la RSS è una distrofia congenita caratterizzata da rigidità della colonna vertebrale, debolezza muscolare e problemi respiratori. La LGMD2B è la forma più frequente di distrofia dei cingoli nei Paesi occidentali e in Giappone, subito dopo la calpainopatia. Di solito i pazienti riferiscono un normale sviluppo delle tappe motorie. I sintomi all’esordio consistono in difficoltà nel correre e nel salire le scale ed è presente un’andatura particolare, caratterizzata dal precoce coinvolgimento dei muscoli della faccia posteriore delle cosce e delle gambe (adduttori, gastrocnemi e soleo). I muscoli del cingolo superiore (spalla e braccio) vengono invece coinvolti più tardivamente, specialmente il sopra e sottospinato e il bicipite.

Nelle fasi iniziali della malattia, i pazienti possono presentare solo una lieve debolezza prossimale del cingolo superiore (scapoloomerale), anche se tecniche di risonanza magnetica nucleare muscolare sono in grado di evidenziare precocemente anche il coinvolgimento del cingolo pelvico. Nell’ambito di un’ampia variabilità fenotipica, sono state segnalate anche forme ad esordio congenito, forme insorte dopo i settant’anni e casi di portatori sintomatici. Da segnalare inoltre che la diagnosi di disferlinopatia può riguardare pazienti che fino a pochi mesi prima dell’insorgenza della debolezza muscolare avevano praticato attività sportiva, spesso a livello agonistico.

Tale pregressa attività – così come la presenza di un quadro infiammatorio a livello di biopsia muscolare – influenza negativamente il decorso e l’evoluzione della patologia.

La malattia progredisce velocemente dopo i vent’anni, portando alla perdita dell’autonomia motoria e alla seduta in carrozzina. I livelli di creatinchinasi (CK)

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sono molto elevati (fino a cinquanta volte il valore massimo normale), paragonabili a quelli che si osservano nelle distrofinopatie, ma a differenza di queste ultime, essi permangono elevati per lungo tempo negli anni. Il coinvolgimento cardiaco è raro, mentre circa il 50% dei pazienti va incontro a problemi respiratori, di grado variabile.

Genetica

Il gene della disferlina è composto da cinquantacinque esoni. La maggior parte delle mutazioni riscontrate consistono in piccole sostituzioni o piccole inserzioni/delezioni (indels), che rendono necessaria un’analisi dell’intera sequenza genica per essere identificate. Da ciò si evince come l’indagine molecolare del gene della distrofina, per confermare un sospetto diagnostico, sia piuttosto lunga, complessa e non sempre fruttuosa. Dall’analisi di ampie casistiche di pazienti, si è infatti capito che entrambe le mutazioni causa di malattia sono identificate nel 70-80% dei casi, una sola mutazione nel 10-20% dei pazienti e nessuna mutazione in circa il 5-10% dei pazienti.

Questi dati possono essere spiegati con l’inadeguatezza delle tecniche impiegate per evidenziare mutazioni introniche nascoste, con la presenza di mutazioni in altri geni, con ampi riarrangiamenti intragenici oppure ancora con condizioni di eterozigosità sintomatica. Contrariamente a quanto dimostrato nel gene della distrofina, non esistono “punti caldi” (hotspots) di mutazione, ma tutti gli esoni (tranne 1bis, 5a e 40a) possono essere coinvolti. Mutazioni particolari, causa di un “effetto fondatore”, sono presenti solo in poche piccole comunità.

Lo screening genetico effettuato con regolarità è un passaggio di particolare importanza, sia per l’accuratezza diagnostica, sia per la consulenza genetica e per approntare un trattamento “personalizzato”.

Diagnosi

La diagnosi – sospettata su base clinica, guardando alle caratteristiche del coinvolgimento dei gruppi muscolari di cui si è detto in precedenza – si fonda sul riscontro dell’assenza completa o parziale di disferlina a livello del muscolo, ottenuto mediante biopsia muscolare e dimostrabile con metodiche di immunofluorescenza (IF) o di Western Blotting (WB).

Quest’ultima si è dimostrata più affidabile nel cogliere le variazioni quantitative della proteina, essendo in grado di identificare quantità minori o uguali al 50%, rispetto all’IF. È stato inoltre dimostrato che esiste una correlazione inversa tra quantità di disferlina al WB e tasso di successo nell’identificazione delle mutazioni.

Infatti, l’assenza completa di disferlina più facilmente correla con la possibilità di identificare entrambe le mutazioni nel gene della disferlina.

Recentemente, un gruppo di ricerca coordinato da Noemi De Luna ha dimostrato la presenza di disferlina anche nei monociti [cellule delsangue che fanno parte dei globuli bianchi,N.d.R.], e messo a punto una metodica non invasiva per lo studio di tale proteina. Questo sistema consente di giungere a una diagnosi anche nei casi in cui il paziente rifiuti la biopsia muscolare, oppure quando l’atrofia muscolare, negli stadi avanzati della malattia, non consenta il prelievo.

Da segnalare infine che le disferlinopatie sono le uniche patologie primitive del muscolo a mostrare a livello di biopsia la presenza di un quadro infiammatorio. Tuttavia, a differenza delle forme infiammatorie pure (polimiositi, dermatomiositi),

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esse non presentano un incremento dell’espressione di MHC-I, complesso di istocompatibilità tipico dell’infiammazione.

Trattamenti e ricerche

Come per tutte le malattie muscolari di origine genetica, purtroppo non esiste ancora, al momento, un trattamento causativo. Tuttavia, numerosi tentativi terapeutici sono stati effettuati sui pazienti con alterni risultati. Il trattamento con il corticosteroide Deflazacort, condotto in Germania su venticinque pazienti deambulanti, non ha mostrato dopo un anno alcun miglioramento nella forza e nella funzione muscolare. Invece, il trattamento con l’immunosoppressore Rituximab ha avuto un effetto favorevole in due pazienti pazienti trattati. Analogamente un aumento dell’espressione della disferlina è stato riscontrato nei monociti di pazienti con disferlinopatia trattati per 1 anno con vitamina D3OH, verosimilmente ascrivibile al legame del recettore della vitamina 3 con il promotore della disferlina. Entrambe queste terapie necessitano di essere validate su un numero maggiore di pazienti prima di un’applicazione clinica su larga scala.

Progetti clinici sono attualmente in corso, allo scopo di censire il numero di pazienti con tale patologia nel mondo, di conoscere meglio la progressione della malattia nel tempo e di chiarirne la patogenesi. Altri progetti, poi, si basano su tentativi di terapia genica, mediante l’uso di AVV (virus adeno-associati) o di un gene più piccolo dell’originale (minidisferlina) o anche di tecniche di exon-skipping, sulla scia di quanto si sta facendo per la distrofia di Duchenne.

IperCKemia di Luisa Politano*

Per iperCKemia si intende un aumento nel sangue dei valori della creatinkinasi (CK), nota anche come creatin-fosfokinasi (CPK). Quest’ultima è un enzima fondamentale nel metabolismo energetico della cellula, in quanto ha la proprietà di formare ATP (adenosintrifosfato) – la molecola energetica più importante per la cellula -, partendo dal creatin-fosfato e ADP (adenosindifosfato). La reversibilità della reazione permette una rapida produzione, utilizzazione e rilascio di energia.

L’enzima si trova in quantità elevata nei muscoli scheletrici, nel miocardio e nel cervello; in minori quantità, nella muscolatura liscia, nella tiroide, nel rene e nel fegato. I globuli rossi non contengono CK, per cui i suoi livelli non sono influenzati dall’emolisi [l’emolisi è la rottura della membrana dei globuli rossi, con conseguente rilascio di emoglobina, necessaria per il trasporto di ossigeno ai diversi tessuti, N.d.R.].

La localizzazione intracellulare dell’enzima è prevalentemente citoplasmatica e solo in piccola parte mitocondriale. La molecola del CK è dal punto di vista strutturale piuttosto semplice: ha una forma allungata e risulta costituita da due subunità facilmente dissociabili: M (Muscle) e B (Brain). Le due subunità si combinano tra loro, dando luogo a tre differenti molecole (dimeri), identificabili come:

– CK-MM, o tipo muscolare, che rappresenta circa il 95% di tutta la CK totale; – CK-MB, o tipo cardiaco, che rappresenta circa il 5% di tutta la CK normale; – CK-BB, o tipo cerebrale, che di solito non si riscontra mai nei soggetti normali, in quanto la barriera emato-encefalica ne impedisce il passaggio in circolo.

I valori normali sono espressi in Unità per Litro (U/L) e variano a seconda delle metodiche utilizzate e della temperatura alla quale viene effettuato il dosaggio

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(temperatura ambiente o 37 gradi), per cui si preferisce attualmente indicare l’iperCKemia in base a quante volte il valore osservato è superiore al limite massimo normale (ad esempio: 2x, 10x, 50x ecc.). Di solito i valori nelle femmine sono il 50% di quelli osservati nei maschi. I neonati presentano livelli elevati di CK totale, probabilmente legati allo stress fisiologico del parto. Tale dato va tenuto presente nella diagnosi di patologia muscolare, nei primi sei mesi di vita.

Cause “parafisiologiche” dell’aumento di CK Un aumento dei valori di CK può verificarsi in condizioni “parafisiologiche”, quali ad esempio: – Temperatura esterna: durante il periodo estivo, con temperature superiori ai 28 gradi, i valori del CK sono normalmente all’incirca doppi rispetto a quelli osservati nel periodo invernale. – Sforzi fisici: dopo uno sforzo fisico, anche in persone allenate o atleti dopo un esercizio sportivo, può verificarsi un aumento dei valori di CK. – Attività sportive: alcuni tipi di attività sportiva intensa, quali ad esempio body building, sollevamento pesi, attrezzi, possono indurre un aumento dei valori di CK, che rientrano nei valori normali, dopo la sospensione dell’attività. – Iniezioni intramuscolari: date le alte concentrazioni di CK nei muscoli, è sufficiente una singola iniezione muscolare perché si abbia un incremento dell’attività enzimatica, per azione diretta dell’ago sulla muscolatura striata o per effetto del farmaco iniettato. Particolarmente muscolo-lesivi appaiono alcuni farmaci antinfiammatori, tipo il Diclofenac (Voltaren) e alcuni antibiotici, quali il Ceftriaxone (Rocefin). – Traumi Muscolari – Interventi chirurgici – Alterazioni del rachide: in tutti i casi nei quali è presente un insulto primitivo o secondario della muscolatura scheletrica, si assiste a un incremento dei valori totali di CK. – Provenienza da Paesi equatoriali: gli individui provenienti da Paesi equatoriali o comunque maggiormente esposti all’irraggiamento solare presentano valori di CK maggiori rispetto a quelli osservati nei Paesi occidentali.

Prima di parlare quindi di iperCKemia, è necessario avere conferma del dato, ripetendo il dosaggio per almeno tre volte, a distanza di un mese l’una dall’altra.

Condizioni patologiche associate a IperCKemia I primi cinque gruppi con tali caratteristiche sono i seguenti: 1. Alterata funzione della tiroide: è sempre più frequente il riscontro di valori elevati di CK legati a un cattivo funzionamento della ghiandola tiroide, spesso coinvolta in processi autoimmuni (tiroidite di Hashimoto). Tale patologia può essere diagnosticata attraverso il dosaggio sia degli ormoni tiroidei (TSH, T3, T4), che – e soprattutto – degli anticorpi antitireoglobulina e antiperossidasi. Sia l’ipofunzione (ipotiroidismo) che l’iperfunzione tiroidea (ipertiroidismo) possono accompagnarsi a valori elevati di CK. Questa condizione può essere facilmente trattata farmacologicamente, con ripristino della funzione tiroidea e normalizzazione dei valori dell’enzima.

2. Trattamento con statine: è stato dimostrato che una certa percentuale di soggetti trattati con le statine per ottenere la normalizzazione dei valori di colesterolemia, presentano un aumento dei valori di CK, che di solito regrediscono fino ai valori

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normali, dopo la sospensione del farmaco. In una minoranza di casi, tali farmaci sono in grado di indurre un danno muscolare permanente.

3. Squilibri elettrolitici: alterazioni dell’equilibrio elettrolitico – in particolare di potassio e magnesio - possono accompagnarsi ad aumenti del valore totale della CK, che rientrano nella norma, una volta corretto lo squilibrio.

4. Predisposizione all’ipertermia maligna: l’ipertermia maligna è una patologia farmacogenetica, potenzialmente letale, nella quale anestetici volatili e miorilassanti quali il suxametonio, alterano l’omeostasi del calcio a livello muscolare scheletrico, sviluppando una condizione di elevata temperatura corporea. I soggetti predisposti non manifestano di solito alcuna sintomatologia, ma possono presentare iperCKemia. Per tale motivo, il dosaggio della CK è stato reso obbligatorio prima di ogni intervento chirurgico, in anestesia generale. Il riscontro di valori elevati del suddetto enzima non significa che il soggetto non possa essere operato, ma che dev’essere sottoposto a un protocollo di anestesia sicura. Tale protocollo è stato redatto in accordo tra l’AIM (Associazione Italiana di Miologia) e la SIARTI (Società Italiana di Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) e pubblicato sui siti web di entrambe le Associazioni (http://www.miologia.it/; www.siarti.it).5. Infarto acuto del miocardio: tale condizione è di solito accompagnata da una sintomatologia evidente (dolore precordiale, sudorazione ecc.). L’aumento del CK totale in questi casi è dovuto ad un precoce aumento del CK-MB che si riscontra in circolo, già dopo 4-6 ore dall’insorgenza della sintomatologia dolorosa, raggiunge il massimo tra le 16 e le 20 ore, e di solito rientra nei limiti entro le 48 ore, a meno che non vi sia un aumento dell’area infartuata.

Malattie muscolari associate a IperCKemia Infine un aumento dei valori della CK può essere presente sia nelle forme acquisite di malattie muscolari (miositi, polimiositi) che nelle forme genetiche (distrofie muscolari, amiotrofie spinali ecc.). L’aumento dei valori è variabile, da 2-3 volte il valore massimo normale, come può verificarsi in corso di miopatie congenite, fino a 50-100 volte, come si osserva nelle diverse forme di distrofia muscolare, la più grave e diffusa delle quali è la distrofia muscolare progressiva di Duchenne. In questi casi il rilievo di iperCKemia è accompagnato da una sintomatologia muscolare tipica, che orienta lo specialista verso la diagnosi. Una flow-chart (“diagramma di flusso”) sul comportamento da seguire in caso di riscontro di iperCKemia è stata elaborata da un gruppo di esperti dell’AIM e pubblicata sul già citato sito web di tale Associazione (www.miologia.it). Da segnalare inoltre che il riscontro di valori modicamente elevati di CK può essere indicativo – nelle donne – della condizione di portatrice di distrofia di Duchenne. In questi casi è consigliabile rivolgersi presso Centri Specializzati, ove esistano consultori genetici ad hoc per l’accertamento dello stato di portatrice.

Malattia di Charcot-Marie-Tooth di Filippo Maria Santorelli*

La malattia di Charcot-Marie-Tooth (d’ora in poi CMT) è una neuropatia genetica che colpisce il sistema nervoso periferico, e dovuta all’alterazione di uno

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dei numerosi geni – alcuni dei quali non ancora noti – che determinano la formazione del nervo. Le neuropatie possono interessare un solo nervo (mononeuropatie) oppure essere diffuse e coinvolgere le fibre più lunghe, cioè quelle destinate ai segmenti distali degli arti (polineuropatie). Queste ultime possono essere dovute a svariate cause, tra cui quelle genetiche (degenerative o metaboliche), tossiche, carenziali, infiammatorie, infettive, ecc. La CMT è caratterizzata da debolezza e atrofia dei muscoli, che appaiono come “dimagriti”, e da ridotta sensibilità. I sintomi partono dai piedi e si diffondono progressivamente verso le gambe, parte delle cosce e le mani. Sono frequenti anche, in. La malattia esordisce di solito prima dei 20 anni ed è progressiva, ossia peggiora con il tempo, potendo portare ad esiti completamente diversi tra loro: da insignificanti variazioni nelle capacità motorie, all’atrofia degli arti – che arrivano ad assumere una caratteristica forma assottigliata – con una serie di effetti correlati, da difficoltà di deambulazione, deformazioni dello scheletro, in particolare dei piedi che si presentano cavi e dolori muscolari, fino – in rari casi – alla necessità permanente della carrozzina. La frequenza – probabilmente sottostimata – è di un caso ogni 2.500 persone e l’esordio di solito prima dei 20 anni. La gravità è variabile non solo tra famiglie differenti, ma anche all’interno di una stessa famiglia: si riscontrano infatti casi lievissimi, in cui l’unica alterazione è il piede cavo e rari casi in cui la capacità di camminare è persa o molto ridotta. La progressione, per lo più, è molto lenta e vi possono essere lunghi periodi di stazionamento.

Trasmissione e forme Sono noti quasi 70 geni malattia, ma molti sono ancora da scoprire. La trasmissione avviene più spesso con modalità autosomica dominante (basta cioè ereditare una copia alterata del gene da uno dei genitori per manifestare la malattia), ma sono note anche alcune forme a trasmissione autosomica recessiva (i genitori sono portatori sani e ciascuno dei figli ha il 25% di probabilità di essere affetto) o legate al cromosoma X (le donne sono colpite in forma lieve e ciascuno dei loro figli maschi ha il 50% di probabilità di ereditare la malattia, che manifesterà però in forma più grave). Di seguito sono i maggiori sottotipi:

- Tipo 1: sono le forme demielinizzanti, in cui la guaina che riveste il nervo, detta mielina, si consuma lentamente, alterando la conduzione nervosa. Infatti, nell’elettromiografia (EMG), la velocità di conduzione motoria (VCM) è inferiore a 38 metri/sec. L’ereditarietà autosomica è dominante (nella maggioranza dei casi) o recessiva o legata al sesso. Tra queste forme, si riconoscono la CMT1A, che è la più frequente (circa 80% dei casi di CMT) e il cui difetto genetico è una duplicazione del gene PMP22(della proteina mielinica periferica) sul cromosoma 17. Nella forma HNPP, neuropatia ereditaria con predisposizione all’addormentamento degli arti in certe posizioni, c’è nella maggioranza dei casi una delezione (assenza) dello stesso genePMP22. Nella forma CMTX, con una mutazione del gene della connessina 32, vi è ereditarietà legata al cromosoma X.

- Tipo 2: sono le forme assonali, in cui viene compromesso il “core” del nervo, cioè l’assone. La VCM è uguale o maggiore a 38 metri/sec. Se ne distinguono anche qui diverse forme.

Gli esordi L’inizio della CMT avviene per lo più in maniera lenta e spesso i primi sintomi vengono riferiti a cause non neurologiche, guardando cioè in prevalenza all’indebolimento dei muscoli, che consegue alla degenerazione delle fibre nervose

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motorie. Solo in pochi casi la malattia colpisce abbastanza rapidamente la muscolatura dei piedi e delle gambe, per poi rimanere stazionaria per qualche decennio. I primi sintomi sono: inciampo sull’avampiede o per piccoli gradini (più frequente a piedi nudi), distorsioni di caviglia, goffaggine nel camminare, crampi ai polpacci. Spesso il paziente migliora spontaneamente il cammino, utilizzando scarpe con il tacco e facendo rialzare dal calzolaio la parte laterale della suola, ove si consuma di più. Con il passare del tempo, l’indebolimento della flessione dorsale dei piedi si accentua e il paziente è costretto a sollevare le ginocchia più del normale, per evitare di inciampare con la punta dei piedi: questo cammino – che ricorda quello del cavallo – è detto deambulazione “steppante” o equina, ed è piuttosto stancante. Raramente la malattia si diffonde ai muscoli delle cosce; quando questo avviene le conseguente scarso controllo del ginocchio e cadute, che possono portare alla decisione di utilizzare la carrozzina. Per quanto riguarda le mani, l’inizio dei sintomi è più tardivo e spesso l’indebolimento è talmente lieve che non determina un deficit funzionale. I disturbi più frequentemente lamentati sono difficoltà ad abbottonarsi e a sbottonarsi, a usare chiusure lampo, a cucire, a scrivere calcando, a girare la chiave, a svitare tappi e coperchi di barattoli. Questi problemi si accentuano con il freddo, che comporta anche una sensazione molesta alle gambe, un peggioramento dell’equilibrio e della sensibilità fine. L’alcool e alcuni farmaci possono causare peggioramento. Il dolore non è frequente e, a parte i crampi, non è dovuto alla neuropatia, ma alle sue conseguenze sull’apparato osteoarticolare (deformità dei piedi e delle ginocchia, artrosi, esiti di traumatismi). Sebbene dopo i 50 anni di età si verifichi un lento peggioramento, nella maggior parte dei casi la disabilità non è grave. La malattia non riduce la durata della vita ma ne peggiora sensibilmente la qualità. L’indebolimento dei muscoli si accompagna al loro assottigliamento (atrofia muscolare). Una deformità tipica, ma non esclusiva della CMT, è il già citato piede cavo, presente nella maggioranza dei casi. Nel 10% dei casi vi è cifoscoliosi. Esistono infine forme rarissime in cui si indeboliscono anche i muscoli respiratori e quelli della fonazione, con paralisi delle corde vocali, come pure forme in cui sono compromessi altri organi e apparati (specie l’orecchio, con sordità neurosensoriale e l’occhio con atrofia ottica). Certamente la ricerca dovrà percorrere ancora molta strada per avere un quadro completo e certo delle caratteristiche sintomatologiche della CMT, ma in ogni caso si può dire che essa solo in poche situazioni presenti una disabilità grave, tanto da costringere all’uso della carrozzina.

Esami e diagnosi La diagnosi di sospetta CMT parte dall’osservazione clinica e si avvale dell’esame elettrofisiologico ai quattro arti e, sempre meno, della biopsia del nervo. È ormai fondamentale il test genetico dopo un semplice prelievo del sangue, con la ricerca di mutazioni nei numerosi geni coinvolti, che consente la diagnosi precisa in oltre il 60% dei casi. Tuttavia, la lista dei geni è destinata ad allungarsi nel tempo e metodiche di indagine di analisi del DNA di nuova generazione permettono l’analisi contemporanea di molteplici geni. La biopsia del nervo dovrebbe essere sempre l’ultima indagine, da considerarsi solo in casi particolari e quando gli esami precedenti non abbiano identificato alcuna delle forme di CMT rilevabili con i test a disposizione. Va detto per altro che quasi tutti i casi gravi noti sono figli di persone che, al momento del concepimento, non avevano ancora manifestato alcun sintomo oppure i cui genitori erano portatori sani (forme recessive). Identificare le basi genetiche permette comunque al paziente sia di pianificare il proprio futuro,

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decidendo ad esempio per un’interruzione di gravidanza con maggiore consapevolezza e gestendo meglio il trattamento riabilitativo, sia di beneficiare prontamente dei risultati della ricerca.

Le possibilità di cura attualmente disponibili Attualmente non esiste una terapia farmacologica efficace, e, per la forma più comune (CMT1A) numerosi trial clinici che hanno studiato la terapia con acido ascorbico (vitamina C) sono stati completati, purtroppo con esito negativo. In particolare, uno studio italiano con acido ascorbico ha mostrato buona tolleranza, ma nessuna differenza significativa per i pazienti, né in termini di velocità di conduzione, né di forza muscolare, tempo di marcia o qualità della vita.Vi sono, tuttavia, numerosi sforzi per disegnare sperimentazioni più efficaci e la ricerca continua su una serie di farmaci tra cui lonaprisan, curcuma e nuovi farmaci inibitori dell’istone deacetilasi, tuuti con buona efficacia nei modelli animali di CMT. Al momento, quindi, i pazienti possono convivere meglio con la CMT, grazie alla riabilitazione che ha dato ottimi risultati. Anche in questo campo, per altro, le conoscenze sono insufficienti a individuare percorsi mirati e utili a impedire l’eventuale progressione del male ed è necessaria una maggiore ricerca clinica. È importante, ad esempio, non sottovalutare i problemi legati all’equilibrio ed evitare di cadere perché lunghi periodi di immobilizzazione possono essere deleteri per i pazienti. L’utilizzo di scarpe adatte, opportunamente modificate, di plantari ben confezionati ed eventualmente di tutori di caviglia (molle) migliora notevolmente l’equilibrio e il cammino. Una moderata attività fisica può essere utile, mentre l’esercizio intenso può accelerare l’indebolimento muscolare. Un’oculata chirurgia del piede può migliorare l’equilibrio e il cammino.

Miastenia grave di Angela Berardinelli*

La miastenia grave è una patologia motoria che interessa la placca neuromuscolare (la regione di contatto tra nervo e muscolo), in cui risulta alterata la trasmissione dell’impulso nervoso e difficile la contrazione muscolare, in misura maggiore quanto più essa viene ripetuta (fenomeno dell’esauribilità). La malattia è caratterizzata dunque da un’anomala esauribilità muscolare dopo un’attività intensa o ripetuta, che migliora con il riposo. Essa è frequente in età giovane-adulta, ma può presentarsi anche nell’infanzia o negli uomini e donne in tarda età (associata in questo caso a timoma). Può essere interessato qualsiasi distretto muscolare: dai muscoli della motilità oculare a quelli del collo, del volto, del tronco e degli arti, compresi i muscoli della deglutizione e della respirazione. Non sono invece coinvolti né il muscolo cardiaco né la muscolatura liscia.

Cause e trasmissione La miastenia grave appartiene al gruppo delle malattie autoimmuni, in cui cioè l’organismo produce anticorpi rivolti contro proprie strutture. In essa gli anticorpi agiscono contro il recettore dell’acetilcolina situato nella membrana della fibra muscolare. L’acetilcolina è la sostanza che trasmette l’impulso dal motoneurone al muscolo. Normalmente l’acetilcolina, legandosi al suo recettore, attiva la contrazione muscolare, per poi essere scissa da particolari enzimi. In caso di malattia, invece, gli autoanticorpi interferiscono con questi processi fisiologici, impedendo all’acetilcolina di legarsi al recettore e soprattutto causando la distruzione di quest’ultimo. Spesso, soprattutto negli adulti, la malattia è legata all’ingrossamento (iperplasia) di una particolare ghiandola detta timo o alla presenza di un tumore a carico della

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stessa (timoma). Tale ghiandola normalmente è attiva nei bambini in un’area del torace detta mediastino, determinando la funzione dei linfociti T, cellule del sangue coinvolte nei meccanismi immunitari. Altre malattie autoimmuni (tiroiditi ecc.) possono associarsi alla miastenia, proprio perché alla base vi è un generico difetto nei meccanismi immunitari. La forma autoimmune non è pertanto una malattia genetica, ma è una malattia acquisita, anche se non si sa ancora bene che cosa la scateni; si pensa comunque che per essa esista una predisposizione genetica. Altre sono invece le miastenie congenite ad esordio in età infantile, le quali possono essere dovute a mutazioni di canali ionici su base ereditarie. Queste ultime, tuttavia, sono patologie rare.

È possibile che una madre affetta trasmetta la malattia al neonato. In questo caso gli anticorpi antirecettori della madre vengono trasmessi attraverso la placenta al figlio/a. La miastenia grave sarà quindi presente nel neonato, ma si risolverà poi spontaneamente a mano a mano che gli anticorpi materni verranno eliminati, come accade fisiologicamente con tutti gli anticorpi trasmessi dalla madre al feto. Importante è fare la diagnosi rapidamente, per garantire le misure di supporto necessarie a superare i momenti critici.

Le varie forme e i sintomi In base all’età di insorgenza, possiamo distinguere: - una forma neonatale transitoria di cui si è già detto (figli di madri affette); - una forma a esordio infantile senza malattia della madre; - una forma giovanile-adulta. Diverse forme si possono distinguere anche in base ai muscoli interessati e alla gravità. La forma oculare pura compromette solo i muscoli oculari: il paziente presenta palpebre abbassate (ptosi), vede doppio (diplopia) e sviluppa strabismo. La forma generalizzata coinvolge tutta la muscolatura, determinando affaticabilità nei movimenti di varia entità. Nella forma generalizzata con interessamento della muscolatura bulbare e respiratoria compaiono invece modificazioni del timbro di voce, difficoltà nella deglutizione e nella respirazione. In genere tutti questi sintomi sono più evidenti di sera – o comunque quando il soggetto è molto affaticato – e migliorano con il riposo.

Gli esami necessari Sono importanti l’esame clinico e la raccolta anamnestica. Di aiuto è anche l’elettromiografia. Se questi esami non danno risultati certi, si ricorre anche a test farmacologici, impiegando per via endovenosa o intramuscolare farmaci che procurano un transitorio miglioramento della sintomatologia miastenica. Se, nonostante tutto, non si hanno dati evidenti per una diagnosi certa, sarà allora importante l’osservazione clinica. Inoltre, possono venir dosati nel sangue gli anticorpi antirecettore, anche se in certi casi questo esame risulta negativo (miastenia sieronegativa: circa 15% dei casi). Una volta stabilita la diagnosi, sarà opportuna anche una risonanza magnetica del mediastino, per verificare l’eventuale esistenza di un’iperplasia del timo o di un timoma. Sono effettuabili anche esami del sangue per verificare la situazione della tiroide o altri indici di malattie autoimmuni, che possono associarsi.

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Cure e trattamenti Una terapia per la miastenia grave esiste e prevede l’impiego di vari farmaci. Tra questi gli anticolinesterasici, che bloccano il naturale processo di scissione dell’acetilcolina e facilitano il contatto di essa con il recettore. Spesso, però, questi farmaci di primo approccio non sono sufficienti a controllare la sintomatologia. Si associano allora farmaci immunosoppressori (cortisone, azatioprina ecc.), che agiscono sul sistema immunitario. Talora (più frequentemente negli adulti) in presenza di iperplasia del timo o di timoma, può essere necessario un intervento di asportazione di questa ghiandola.

Le forme più lievi (più spesso le oculari pure) possono guarire anche spontaneamente, senza terapia. Più in generale è possibile che il paziente, dopo un periodo di tempo non definibile a priori, possa sospendere l’impiego dei farmaci e condurre una vita normale. Ma ciò non accade sempre, mentre è frequente che la terapia farmacologica sia richiesta per molto tempo, a volte anche per tutta la vita. Inoltre, la malattia ha un andamento “capriccioso”: stress emotivi, episodi infettivi anche banali o il concomitante impiego di altri farmaci possono peggiorare improvvisamente la sintomatologia o determinarne la ricomparsa in soggetti che stavano bene. Spesso, comunque, con la terapia farmacologica si ottiene un buon controllo della sintomatologia. L’eventualità che la patologia possa risultare fatale – teoricamente possibile per l’interessamento dei muscoli respiratori e della deglutizione – è per la verità oggi rara e il rischio ovviamente aumenta in assenza di diagnosi e dunque di adeguata terapia.

Miastenie congenite di Angela Berardinelli*

Le miastenie congenite sono un gruppo eterogeneo di malattie geneticamente determinate, dovute ad alterazioni di diverse componenti di quella struttura altamente specializzata che si chiama placca neuromuscolare e che consente la trasmissione tra nervo e muscolo. Il malfunzionamento della placca neuromuscolare provoca debolezza muscolare – accentuata dall’esercizio – che abitualmente esordisce in età infantile. La prevalenza, cioè il numero di casi nella popolazione in un dato momento, è stimata intorno a 1 su 500.000 in Europa (Hantai D. et al., Congenital Myasthenic Syndroms, in «Current Opinion in Neurology», 2004, 17, pp. 539-551) e si tratta di malattie molto più rare delle miastenie su base autoimmune, vale a dire quelle in cui si ha un’alterazione della placca neuromuscolare dovuta al sistema immunitario. La placca – che come detto è il punto di interazione tra nervo e muscolo – è costituita dalla terminazione dell’assone nervoso (parte pre-sinaptica), da uno spazio detto intersinaptico e dalla fibra muscolare (spazio post-sinaptico). La trasmissione neuromuscolare avviene grazie al rilascio, in conseguenza della stimolazione nervosa, di molecole di acetilolina (ACh), abitualmente contenute in vescicole poste nella terminazione assonale. Tali molecole, una volta rilasciate nello spazio intersinaptico, si legano quindi ai recettori per l’acetilcolina (AChR), situati nella parte corrispondente della membrana muscolare, attivando in tal modo l’apertura di canali ionici (cioè per ioni, quali il sodio e il potassio), che a propria volta attivano una serie di reazioni, fino a portare alla contrazione muscolare. Naturalmente l’attivazione deve avere un termine e così le molecole di acetilcolina vengono rapidamente eliminate dallo spazio intersinaptico da un enzima chiamato acetilcolinesterasi, per poi essere ricaptate a livello presinaptico e ricostituite nelle vescicole, fino a ridar vita a successive stimolazioni.

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Classificazione Questa breve e molto semplificata premessa è certamente utile per capire come vengano classificate oggi le miastenie congenite, ovvero essenzialmente in: – Forme dovute a difetti presinaptici (difetti nella resintesi di acetilcolina [la resintesi è sostanzialmente il ritorno a una sintesi precedentemente esistente, N.d.R.] – scarsità di vescicole presinaptiche – miastenie congenite simil-sindrome di Lambert-Eaton). – Forme dovute a difetti sinaptici (deficit di acetilcolinesterasi di placca, trasmessa con meccanismo autosomico recessivo). – Difetti post sinaptici (anomalie cinetiche dei recettori di acetilcolina – sindrome del canale lento, autosomica dominante – sindrome del canale veloce, autosomica recessiva – deficit di recettori per l’acetilcolina – anomalie delle sub-unità dei canali del sodio). – Forme non completamente caratterizzate (deficit di plectina – miastenia dei cingoli familiare – miastenia congenita con aggregati tubulari). – Difetti non identificati.

Caratteristiche cliniche Nell’impossibilità di ampliare troppo il tema, per ovvie ragioni di spazio, ma anche per la stessa estrema complessità dell’argomento, ci limitiamo a dare qui di seguito alcune indicazioni generali su questo vasto gruppo di patologie, oggetto di studio e di recenti scoperte. Le varie forme di miastenie congenite (d’ora in poi CMS) hanno aspetti clinici comuni. L’esordio, infatti, è generalmente precoce e solo rari casi sono stati riportati con un esordio più tardivo (adolescenza o perfino in età adulta). I sintomi principali sono l’oftalmoplegia (paralisi della muscolatura oculare), la ptosi palpebrale (palpebre “abbassate”), la disfonia (alterazione della voce), le difficoltà di deglutizione, la paralisi della muscolatura facciale e l’affaticabilità muscolare. Nella prima infanzia il quadro è dominato dall’ipotonia, dalla scarsa mimica del volto, da difficoltà di suzione e da pianto debole. In realtà questi sintomi sono comuni a molte malattie neuromuscolari che si manifestano nella prima infanzia (ad esempio le miopatie congenite), ma caratteristici delle CMS sono gli improvvisi peggioramenti, legati all’esercizio o ad episodi febbrili. Come conseguenza, poi, del difetto di forza e della scarsa motilità, si associano anche retrazioni tendinee, atrofia muscolare, aspetto peculiare del volto e scoliosi. La severità delle CMS è molto variabile e il principale fattore di rischio è costituito naturalmente dalle crisi respiratorie che possono essere scatenate da infezioni anche banali e che sono particolarmente frequenti nei primi mesi di vita. Se non adeguatamente trattati con il necessario supporto respiratorio, tali episodi possono condurre anche alla morte. Come è poi intuibile dall’elenco sopra riportato, solo alcune delle varie forme di CMS sono attualmente caratterizzate geneticamente. La maggior parte di esse è trasmessa con meccanismo autosomico recessivo (quando cioè l’alterazione è presente in entrambi gli elementi della coppia di cromosomi), ma alcune anche con meccanismo autosomico dominante (quando invece l’alterazione è presente in un solo elemento della coppia di cromosomi). L’andamento di tali malattie è variabile anche nel singolo caso, da periodo a periodo, con possibile aggravamento in età adulta avanzata e un miglioramento in genere dopo i primi mesi di vita.

Diagnosi e trattamenti La diagnosi – oltre che sul sospetto clinico – si basa sull’esame elettromiografico e, là dove sia possibile, sulla caratterizzazione genetica. La

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biopsia muscolare può essere utile nella diagnosi differenziale rispetto a forme miopatiche di altra natura, oltre che a rivelare alcune alterazioni suggestive delle CMS. Per quanto riguarda poi la terapia, va detto innanzitutto che essa è estremamente complessa e molto specialistica; varie forme rispondono alla somministrazione di anticolinesterasici, ma nella sindrome del canale lento, ad esempio, queste stesse sostanze possono determinare addirittura un aggravamento dei sintomi. Altri farmaci possono pure essere utili, mentre non ha ovviamente senso introdurre una terapia immunosoppressiva, come si fa nella miastenia grave. Infine, per tutto quanto già detto, un elemento essenziale del trattamento è naturalmente il supporto respiratorio e quello della deglutizione, quando sia necessario.

Miopatia sarcotubulare di Angela Berardinelli*

La miopatia sarcotubulare (MS) è stata descritta per la prima volta nel 1973 da Felix Jerusalem e collaboratori (Rochester, Minnesota, USA), in due fratelli hutteriti – i cosiddetti “tirolesi d’America”, un centinaio dei quali sbarcò a New York nell’Ottocento, proveniente dall’originario ceppo anabattista della Moravia – rispettivamente di 11 e 15 anni. Entrambi presentavano ipotrofia e deficit di forza muscolare di entità lieve-moderata, con distribuzione prossimale (sui muscoli più vicini alla parte mediana del corpo) e simmetrica e riferivano difficoltà di modesta entità nell’attività fisica intensa. Poiché i genitori erano consanguinei, nonostante fossero sani, si ipotizzò che la malattia venisse trasmessa come carattere autosomico recessivo (presente cioè in entrambi gli elementi della coppia di cromosomi). La patologia venne inquadrata come nuova entità sulla base delle peculiari caratteristiche strutturali: la biopsia muscolare evidenziò infatti modeste anomalie di tipo miopatico alla microscopia ottica, mentre quella elettronica consentì di individuare all’interno delle fibre dei vacuoli che non contenevano né materiale lipidico, né glicogeno, né anomale reazioni enzimatiche.

Altri due casi in Germania e Canada Il problema venne dunque inquadrato nell’ambito delle miopatie congenite di tipo strutturale, ovvero affezioni della fibra muscolare nelle quali mentre la microscopia elettronica evidenziava anomalie di alcune componenti “strutturali” del muscolo, al tempo stesso non si ravvisavano, in microscopia ottica, fenomeni di necrosi-degenerazione e di rigenerazione delle fibre. Non a caso le miopatie congenite sono state a lungo – e in parte lo sono ancora oggi – classificate e conosciute in base a reperti definiti “ultrastrutturali”, come appunto la microscopia elettronica. Successivamente vennero descritti altri due fratelli in età adulta (33 e 35 anni), nel sud della Germania, con analoghi aspetti alla biopsia muscolare e un quadro clinico caratterizzato da lieve deficit di forza muscolare iniziato intorno agli 8 anni. Ancora funzionalmente autonomi, il loro andamento clinico era però leggermente diverso: uno dei due presentava infatti un difetto di forza in sede prossimale con difficoltà a rialzarsi da terra, dolori muscolari correlati all’attività fisica, scapole alate e una modesta ipertrofia dei polpacci, mentre il quadro dell’altro era più lieve, con mialgie da sforzo di scarsa entità e modesto difetto di forza muscolare. La diversa severità clinica – pur nell’ambito di deficit modesti – era inversamente correlata all’età (più lieve il quadro del fratello più anziano). Una nuova segnalazione risale poi al 1976: un gruppo di undici soggetti appartenenti alla comunità hutterita canadese, con una miopatia lentamente

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progressiva a sede prossimale (sui muscoli – ricordiamo ancora – più vicini alla parte mediana del corpo) e il coinvolgimento della muscolatura del volto. In questi pazienti le caratteristiche bioptiche e cliniche dei casi precedentemente riportati si associavano a tratti clinici che ricordavano la distrofia facio-scapolo-omerale e a un moderato aumento delle CK.

Individuazione del gene Successivamente, però, studiando altri casi e l’evoluzione di uno di quelli descritti originariamente, da un lato emerse che l’interessamento del volto non era una caratteristica comune, dall’altro venne dimostrato il coinvolgimento di un locus sul braccio lungo del cromosoma 9 (9q31-33). A questa entità clinica venne dato il nome di LGMD2H, ovvero distrofia dei cingoli (LGMD) autosomica recessiva (2) di tipo H. Approfondendo ulteriormente le indagini su altri soggetti, è stato infine individuato il gene TRIM32 come responsabile di tale forma e la mutazione nel medesimo gene è stata individuata finora in un gruppo di quarantasette soggetti provenienti da due sottogruppi degli hutteriti. È interessante notare anche che un’altra mutazione nel gene FKRP è stata invece individuata in ventuno pazienti provenienti da tutte e tre le suddivisioni degli hutteriti ed è associata al fenotipo clinico LGMD2I.

Caratteristiche cliniche sovrapponibili Sulla base della provenienza hutterita dei soggetti nei quali è stata individuata la mutazione TRIM32 e del fatto che la miopatia sarcotubulare fosse stata descritta proprio in soggetti hutteriti, nel 2005 Schoser e altri (Friedrich-Baur-Institut di Monaco in Germania) hanno ipotizzato e dimostrato in quattro pazienti di quella comunità – con diagnosi di miopatia sarcotubulare – la mutazione TRIM32, suggerendo quindi che l’MS e l’LGMD2H fossero in realtà la stessa patologia, con espressione clinica un po’ diversa (varianti alleliche) e che quindi fosse la mutazione stessa a dare origine a quadri clinici molto differenti tra di loro (fino ad arrivare al confinamento in carrozzina). È stato inoltre suggerito che il gene TRIM32 sia coinvolto nella generazione del reticolo sarcoplasmico o nel mantenimento della sua integrità strutturale nel muscolo scheletrico.

Malattie rare e senza cura In sintesi si può dire quindi che la miopatia sarcotubulare è la variante allelica lieve dell’LGMD2H, che viene trasmessa con carattere autosomico recessivo (alterazione del DNA presente in entrambi gli elementi di una coppia di cromosomi). La sua definizione nosografica deriva dalle peculiari caratteristiche del muscolo riscontrabili alla microscopia elettronica. Clinicamente l’esordio si colloca abitualmente in età infantile, ma è possibile anche alla nascita o viceversa in età adulta. Si tratta di una forma complessivamente benigna, con difetto di forza lieve, abitualmente prossimale e simmetrico e scarsa tolleranza allo sforzo fisico con comparsa di mialgie. Ispettivamente i pazienti presentano tendenza all’atrofia prossimale e all’ipertrofia dei polpacci. In alcuni casi è stato descritto anche un lieve interessamento della muscolatura mimica del volto e scapole alate. I riflessi sono normali o ridotti. Le CK possono essere poco mosse. Nella forma LGMD2H, invece, si ha ugualmente un fenotipo clinico variabile, con esordio tra l’età infantile (8-9 anni) e l’età giovane adulta. Alcuni pazienti sono asintomatici pure in età adulta. Clinicamente è presente uno sfumato deficit di forza prossimale, affaticabilità e difficoltà nel cammino di entità variabile. Nel tempo questa forma tende a progredire lentamente e di solito la deambulazione è conservata anche oltre i cinquant’ anni. Le CK possono essere poco mosse, ma anche nell’ordine delle migliaia e all’esame

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bioptico del muscolo si osservano pure alterazioni di tipo più propriamente distrofico (degenerazione, necrosi e rigenerazione) delle fibre muscolari. Non vengono descritti coinvolgimento cardiaco e/o respiratorio. Si tratta comunque di forme molto rare per le quali al momento non esistono terapie risolutive.

Miopatie congenite di Sonia Messina* e Maria Elena Lombardo**

Le miopatie congenite (MC) sono un gruppo di malattie ereditarie rare che colpiscono primitivamente il muscolo scheletrico in seguito a mutazioni genetiche nelle proteine strutturali del muscolo. Generalmente le MC esordiscono nel bambino molto piccolo, tuttavia è possibile l’esordio anche nell’età adulta. La precisa epidemiologia delle malattie congenite non è nota, ma si stima un’incidenza intorno a 1/25.000, rappresentando circa il 14% di tutti i casi di ipotonia congenita. Recenti studi hanno stimato una prevalenza tra 1/22.480 in Svezia e 1/135.000 nell’Inghilterra del Nord. La trasmissione genetica può avvenire in modalità autosomica dominate (alterazione del DNA rappresentata in un solo elemento della coppia di cromosomi), autosomica recessiva (alterazione del DNA rappresentata in entrambi i cromosomi) o X-linked (quando l’alterazione genetica si trova nel cromosoma X). Le recenti tecnologie genetiche hanno identificato più di 20 geni associati alle MC, anche se in circa 1/3 dei pazienti non è possibile arrivare ad una precisa definizione a livello del DNA. La caratteristica comune di questo gruppo di patologie è l’eterogeneità sul piano clinico, genetico ed alla biopsia muscolare. Mutazioni di un singolo gene possono condurre a quadri clinici e istologici differenti, e viceversa lo stesso quadro clinico/istologico può essere associato a mutazioni in geni diversi. La classificazione delle MC sta evolvendo verso l’uso delle anomalie riscontrate nei vari geni ma tuttora si basa sulle caratteristiche osservate alla biopsia, distinguendo le:

miopatie con rods (nemaliniche) miopatie con core (miopatia central core e multiminicore) miopatie con nuclei centralizzati (miotubulare e centronucleare) miopatie con di sproporzione del tipo fibrale (dall’inglese, congenital fiber type

disporoportion, CFTD)

Ulteriori rare forme di MC possono presentare altre caratteristiche morfologiche alla biopsia (miopatie con alterazione di miosina associate a mutazioni del gene MYH7 con ereditarietà autosomica dominante, miopatie con “cap”associate alla mutazione dei geni ACTA1, TPM2 e TPM3, miopatie con corpi riducenti associate al gene FHL1 localizzato sul cromosoma X e miopatie con aggregati tubulari associate a mutazioni nel gene STIM1).

Caratteristiche cliniche generali I fenotipi clinici delle MC possono presentare una gamma molto variabile, da forme gravi neonatali con artrogriposi congenita a forme lievi con ipostenia e ipotonia muscolare non progressiva ad esordio nell’infanzia. Nei casi ad esordio precoce la sintomatologia è in genere più marcata con ipotonia già alla nascita (floppy baby), difficoltà di suzione e insufficienza respiratoria. Altre manifestazioni tipiche dell’infanzia sono la displasia dell’anca, e ipostenia dei muscoli mimici del volto (facies miopatica). Con l’accrescimento l’ipostenia muscolare rimane relativamente stabile ma può essere presente un ritardo dell’acquisizione delle tappe motorie. Comune è una significativa perdita della massa muscolare con scarso peso corporeo

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e ipotrofia muscolare. Possono comparire deformità osteo-scheletriche (contratture articolari, scoliosi, spina rigida come nel caso da mutazione del gene SEPN1) o essere presenti dismorfismi secondari all’ipostenia muscolare del volto come il palato ogivale o la micrograzia, oppure quella dei muscoli della gabbia toracica come pectuscarinatum o excavatum. Alterazione della motilità oculare estrinseca possono non essere presenti alla nascita, ma manifestarsi successivamente con ptosi, oftalmoparesi e strabismo. Altre forme di MC si presentano invece con scarsi sintomi nei primi anni di vita e vengono diagnosticate solo in età avanzata. I casi più lievi possono rimanere asintomatici fino all’età adulta quando il paziente può presentare una globale debolezza muscolare prevalentemente prossimale, ipotrofia muscolare, lieve scoliosi e riduzione dei riflessi osteotendinei. Il valore sierico dell’enzima creatinchinasi (CPK) è solitamente normale o lievemente aumentato. Raramente è presente coinvolgimento cardiaco, tranne in forme specifiche. Alterazioni strutturali del sistema nervoso centrale e dei nervi periferici sono assenti in gran parte dei casi e non sono descritti disturbi di apprendimento o cognitivi.

Le principali miopatie congenite

Miopatia Nemalinica Questa malattia è definita dalla presenza nel citoplasma delle fibre muscolari scheletriche di piccole strutture “bastoncellari” (nema in greco significa“bastoncello”), costituite da aggregati di proteine (alfa-actinina, actina e altri filamenti), ben visibili con l’esame in microscopia elettronica. Le forme genetiche più frequenti sono dovute ad alterazioni del gene NEB (oltre il 50%)che codifica per la nebulina e sono trasmesse con eredità autosomica recessiva ed a mutazioni del gene ACTA1 (circa 20% dei casi), per lo più con trasmissione autosomica dominante. Meno frequenti sono le mutazioni nei geni dell’alfa-tropomiosina3 (TPM3), della beta-tropomiosina2 (TPM2), della troponina T tipo 1 (TNNT1) e della cofillina2 (CFL2). Grazie allo sviluppo di nuove tecnologie genetiche (Next Generation Sequencing) negli ultimi anni si sono identificati ulteriori geni (KBTBD13, KLHL40, KLHL41, LMOD3) singolarmente più rari. L’età d’esordio delle miopatie nemaliniche varia dalla nascita fino all’età adulta. Le principali manifestazioni cliniche comprendono debolezza muscolare (di solito più grave nel viso, nei flessori del collo e nei muscoli prossimali degli arti), ipotonia e riflessi tendinei assenti o ridotti. La miopatia nemalinica si divide a seconda dell’esordio e della gravità del coinvolgimento motorio e respiratorio in forma congenita severa, forma congenita intermedia, forma tipica, forma infantile, forma dell’adulto e altre forme atipiche associate a oftalmoplegia e cardiomiopatia. Nelle forme gravi ad esordio neonatale (il 16% di tutti i casi), i bambini sono deboli dalla nascita e possono manifestare artrogriposi, problemi di alimentazione, respiratori e cardiaci che generalmente conducono al decesso entro i primi mesi di vita. La forma più comune è una patologia infantile lentamente progressiva, ove la debolezza si presenta a livello degli arti, del tronco e dei muscoli facciali. L’ipotonia muscolare è sempre presente durante il primo anno di vita. La debolezza facciale comporta difficoltà di linguaggio e di deglutizione. Possono essere presenti un aspetto allungato del viso, palato alto e arcuato, bocca “a forma di tenda”, cardiopatia, cifoscoliosi, torace “a petto di piccione” e piedi cavo. Molti bambini affetti da questa forma non perdono la capacità di camminare. Infine, la forma ad esordio nell’età adulta colpisce il 4% di tutti i casi di miopatia

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nemalinica ed ha una maggiore variabilità clinica con debolezza respiratoria, debolezza generale degli arti e occasionalmente dolori articolari.

Miopatia con cores: miopatia central core e minicore (o multi-minicore) Le miopatie con “cores” sono un gruppo di miopatie definite per la presenza all’interno delle cellule muscolari di zone ovalari, cores, con ridotta o assente attività enzimatica. A seconda della dimensione di queste aree e alla loro distribuzione (singoli, centrali o multipli) visibili alla biopsia muscolare, distinguiamo: la miopatia central core e la miopatia minicoreo multi-minicore.

La Miopatia “central core” è definita per la presenza di core centrali e singoli nelle fibre muscolari di tipo I, con disorganizzazione della struttura miofibrillare e assenza di mitocondri. Si tratta di una tra le forme più frequenti di MC. Il gene affetto, RYR1, codifica il recettore rianodinico del canale dello ione calcio, sito sul reticolo sarcoplasmatico. La maggior parte delle mutazioni sono puntiformi e l’ereditarietà è nella maggior parte dei casi autosomica dominante. Nella stessa famiglia possono essere presenti individui con diversa gravità clinica che può variare con l’età. Laddove l’ereditarietà sia autosomica recessiva il quadro clinico è generalmente più grave e sono stati descritti esordio intrauterino e artrogriposi congenita. Con l’eccezione delle forme ad esordio molto precoce, l’evoluzione è relativamente benigna. Dal punto di vista clinico, la forma classica è caratterizzata da ritardo nell’inizio della deambulazione, occasionale interessamento dei muscoli del volto e possibile presenza di limitazione della motilità oculare, ipotonia e debolezza dei muscoli prossimali, dislocazione dell’anca, cifoscoliosi o possibile presenza di rigidità del rachide. La funzione respiratoria è solitamente ben conservata. La forma neonatale può avere un quadro clinico più severo, con insufficienza respiratoria precoce. Alcuni pazienti, infine, presentano esclusivamente aumento dei livelli di CK sierici ed una suscettibilità all’ipertermia maligna.

La Miopatia “minicore” (o “multi-minicore”) è definita dalla presenza di cores tipicamente centrali e di piccole dimensioni nelle fibre muscolari di tipo I, con disorganizzazione della struttura miofibrillare e assenza di mitocondri. Dal punto di vista genetico sono molto eterogenee: possono essere causate sia da mutazioni del gene RYR1 con ereditarietà autosomica recessiva, sia da mutazioni del gene codificante la selenoproteina N1 (SEPN1), entrambi con importante ruolo antiossidante e un ruolo nell’omeostasi del calcio. Le caratteristiche cliniche di questa forma variano a seconda del gene coinvolto. Sono state descritte 4 forme accomunate da un esordio in genere precoce e da livelli di CK normali o lievemente aumentati. La forma classica si presenta con una lenta progressione di grave ipostenia assiale, scoliosi o rigidità del rachide, torcicollo ed un interessamento respiratorio sproporzionato rispetto alla debolezza muscolare globale. La forma con oftalmoplegia esterna (parziale o completa), oltre al coinvolgimento muscolare, è in genere dovuta a mutazioni in RYR1. Una forma con artrogriposi e ipostenia dei cingoli, è per lo più associata a mutazioni in RYR1 (cingolo pelvico) oppure SEPN1 (cingolo scapolare). Infine è descritta una forma grave neonatale in genere associate a mutazioni recessive del gene RYR1. Recentemente mutazioni dominanti del gene MYH7 sono state associate a miopatia con minicore, ipostenia variabile sia distale che prossimale, e talora insufficienza cardiorespiratoria o morte improvvisa.

Miopatie con nuclei centralizzati: miopatia miotubulare e centronucleare Queste forme sono definite dalla presenza di nuclei di dimensioni aumentati e di aspetto vescicoloso o circondati da un alone chiaro, localizzati all’interno della fibra

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muscolare, spesso esattamente al centro della stessa, ricordando pertanto i miotubi, cioè le fibre muscolari nelle prime fasi dello sviluppo maturativo. I termini di miopatia miotubulare e centronucleare erano usati indistintamente e la precedente classificazione era basata sull’età d’esordio e la gravità clinica. Al momento attuale si considera più esatto utilizzare il termine di miopatia miotubulare per la forma legata al cromosoma X (XLMTM) ed il termine centronucleare per la forma a trasmissione dominante o più raramente recessiva.

La miopatia miotubulare è causata da mutazioni del gene MTM1 sul cromosoma X, che codifica per la miotubularina, una proteina nucleare ubiquitaria probabilmente correlata alla maturazione e differenziazione cellulare. Colpisce solo i maschi (raro che una bambina abbia questa forma di MC) ed è caratterizzata da esordio neonatale con ipotonia, insufficienza respiratoria e difficoltà di suzione necessitando di utilizzo di sondino naso-gastrico per l’alimentazione. Inoltre possono essere presenti artrogriposi multipla, deformità del rachide e della gabbia toracica. Sono sintomi comuni la limitazione della motilità oculare con ptosi palpebrale. I pazienti affetti possono presentare macrosomia e malformazioni come stenosi pilorica, ernie inguinali e criptorchidismo. Di solito il decesso avviene entro il primo anno di vita per insufficienza respiratoria o polmonite ab ingestis. L’incidenza della miopatia centronucleare è stimata in circa 2 casi su 100.000 nati maschi.

Le miopatie centronucleari sono associate ad una maggiore variabilità genetica e sono caratterizzate da un esordio più tardivo, nell’infanzia o in età adulta. L’esordio infantile è caratterizzato da ipotonia, debolezza prossimale/distale, deformità della gabbia toracica con eventuale insufficienza respiratoria, ptosi palpebrale, oftalmoparesi e debolezza della muscolatura del volto con conseguenti dismorfismi facciale. Ci può essere un ritardo delle acquisizioni motorie. Nelle forme ad insorgenza in età adulta è presente debolezza cingolare e meno costante è l’interessamento dei muscoli mimici. L’ipostenia è moderata e la progressione è lenta non compromettendo l’aspettativa di vita. E’ tuttavia possibile la perdita della deambulazione dopo i 50 anni. L’ereditarietà può essere autosomica dominante (mutazioni nel gene DNM2 che codifica dinamina 2) oppure recessiva (mutazioni nel gene BIN1che codifica amfifisina 2). Occasionali mutazioni sono state identificate nei geni RYR1, TTN, SPEG, MYF6 e CCDC78.

Miopatia da congenita disproporzione del tipo fibrale (CFTD) Questa forma è così definita dall’evidenza alla biopsia muscolare di disproporzione del calibro delle fibre, per cui le fibre del tipo 1 (le fibre lente) sono significativamente più piccole delle fibre di tipo 2 (fibre veloci). Caratteristiche cliniche sono ipotonia e debolezza muscolare da lieve a grave alla nascita o entro il primo anno di vita, e ritardo nell’acquisizione delle tappe motorie raggiungendo in ritardo la deambulazione. La debolezza muscolare è più marcata a livello cingolare (scapolare e pelvico) e a livello facciale. Di solito l’evoluzione è lentamente progressiva ed i pazienti conservano la deambulazione fino all’età adulta. Nel 30% dei casi vi è una compromissione dei muscoli respiratori con deficit del mantice respiratorio. Tuttavia tale dato non è sempre correlato all’insufficienza respiratoria che si può manifestare in maniera variabile in varie fasi della vita. Nel 30% dei casi è presente disfagia e possono essere presenti affollamento dentale e palato ogivale rendendo difficile la masticazione. Nel 25% dei casi i bambini sviluppano deformità muscolo-scheletriche come contratture osteo-articolari a livello dei gomiti, dita, anche, ginocchia e caviglia e a livello della colonna vertebrale con scoliosi. Tali deformità possono non correlare con la gravità del quadro clinico. La causa più frequente è rappresentata da mutazioni dominanti o recessive del gene TPM3, codificante l’alfa tropomiosina3. La seconda causa più comune (20%) è dovuta a

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mutazioni recessive del gene RYR1. Altri geni causa di CFTD sono SEPN1 (con modalità autosomica recessiva) ed ACTA1, TPM2 e MYH7 (autosomica dominante).

Diagnosi Data l’estrema eterogeneità sul piano clinico, genetico e istologico non sempre è possibile giungere ad una precisa definizione a livello del DNA nelle MC e la diagnosi si basa essenzialmente sugli elementi clinici e sui reperti istologici alla biopsia muscolare. Tuttavia cercare di giungere ad una definizione molecolare è sempre importante in termini di prognosi, prevenzione e cura. A tal proposito, negli ultimi anni, l’utilizzo della Risonanza Magnetica (RMN) Muscolare nella diagnostica delle malattie neuromuscolari ha permesso l’identificazione di alcuni pattern di coinvolgimento specifici di alcune forme di miopatia congenita. La combinazione di analisi genetiche di NGS con dati clinici e morfologici e con la RMN rende oggi più ottimistica la possibilità di giungere ad una diagnosi precisa.

Prognosi e terapia L’evoluzione clinica e la prognosi delle miopatie congenite sono generalmente abbastanza benigne ad eccezione delle forme aggressive ad esordio molto precoce. Al momento non esistono terapie risolutive per cui per tutte le forme di miopatia congenita è necessario impostare un’adeguata presa in carico riabilitativa del paziente ed un corretto management cardiologico, respiratorio e della deglutizione al fine di mantenere le funzioni motorie, contrastare le complicanze ed assicurare una buona qualità della vita.

Presa in carico riabilitativa: la fisioterapia deve essere mirata a contrastare le retrazioni osteo-tendinee dei vari distretti articolari e va promosso, quando è possibile, l’esercizio aerobico. Nei casi più compromessi, oltre la fisioterapia, potrebbe essere necessario l’utilizzo di eventuali ortesi come tutori e plantari per favorire la deambulazione. Nei bambini che presentano ritardo di acquisizione delle tappe motorie può essere utile il trattamento psicomotorio mirato al rinforzo del tono e degli schemi motori promuovendo i passaggi posturali. Un approccio chirurgico di tipo ortopedico è previsto nei casi di contratture osteo-articolare fisse e scarsamente riducibili con allungamento dei tendini al fine di assicurare il mantenimento delle autonomie motorie. È stato infatti dimostrato come la conservazione della deambulazione e della stazione eretta sia un fattore protettivo dall’insorgenza di scoliosi. Un approccio chirurgico è indicato anche nei casi di scoliosi grave per conservare al meglio la funzione respiratoria.

Management respiratorio: l’insufficienza respiratoria si può presentare sia per il coinvolgimento dei muscoli respiratori che per la presenza di scoliosi e di segni bulbari anche in un contesto funzionale motorio ben conservato. Pertanto è necessario che i parametri di funzionalità respiratoria e la respirazione notturna vengano monitorati periodicamente in tutti i pazienti con MC ed almeno ogni 6 mesi nei casi più compromessi per valutare l’eventuale impiego di assistenza respiratoria, utilizzo di macchina della tosse ed attivazione di riabilitazione respiratoria. Una sorveglianza respiratoria è particolarmente indicata nei bambini in cui si siano identificate mutazioni in NEB, ACTA1, oppure SEPN1.

Management cardiologico: anche se il coinvolgimento cardiaco è raro in tutti i casi senza una precisa definizione genetica, può essere prudente eseguire esame cardiologico con ecocardiogramma ed elettrocardiogramma ogni 2-3 anni durante l’infanzia ed ogni 3-5 anni in età adulta. Un monitoraggio cardiologico più attento è necessario nelle forme con mutazioni in MYH7, TTN o TPM2.

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Management disfagia: il coinvolgimento dei muscoli orofacciali e bulbari può determinare problematiche di suzione nei casi gravi ad esordio precoce (per cui è necessario l’utilizzo di sondino naso-gastrico o PEG), e più in generale problematiche di masticazione e deglutizione nell’infanzia. Pertanto è necessario impostare valutazioni nutrizionali periodiche per controllare il peso e la crescita ed valutazioni della disfagia mediante video fluoroscopia della deglutizione per identificare possibili problematiche di inalazione/penetrazione di cibo. In tali casi risultano importanti specifiche raccomandazioni dietetiche ed il trattamento logopedico mirato alla disfagia o ai problemi di articolazione del linguaggio.

Miopatie infiammatorie di Tiziana Mongini* e Chiara Fiorillo**

Le miopatie infiammatorie rappresentano il gruppo più numeroso di affezioni muscolari acquisite e potenzialmente trattabili. Le prime descrizioni cliniche di queste malattie risalgono alla fine dell’Ottocento e già a quel tempo erano state definite le due forme principali, con e senza interessamento cutaneo. Si tratta spesso di affezioni causate da una disfunzione del sistema immunitario (sono anche definite disimmuni o autoimmuni) e hanno meccanismi patogenetici simili a quelli che determinano più comuni e note malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide o il lupus eritematoso sistemico. Se ne differenziano perché colpiscono specificamente il tessuto muscolare e per il tipo di danno causato. Clinicamente possono essere difficilmente distinguibili dalle forme di miopatie e distrofie genetiche, ma la diagnosi differenziale è fondamentale per la scelta della terapia.

Forme principali Sulla base delle caratteristiche cliniche, immunologiche e istopatologiche, si riconoscono attualmente tre gruppi principali di miopatie infiammatorie: – le polimiositi (PM), che colpiscono solo il muscolo; tra queste si distingue una forma particolare chiamata miopatia necrotizzante autoimmune (NAM); – le dermatomiositi (DM), ed in particolare la dermatomiosite giovanile (DMG) che interessano cute e muscolo; – le miositi a corpi inclusi (IBM, da inclusion body myositis), cosiddette per una particolare caratteristica istologica, in quanto presentano deposito di proteine degradate all’interno delle fibre muscolari. Recentemente stanno emergendo diverse descrizioni in letteratura di forme overlap, cioè di sovrapposizione tra queste categorie in associazione con altre malattie autoimmuni del connettivo (connettivopatie). Vanno inoltre annoverate tra le miopatie infiammatorie alcune forme che non hanno sempre una vera patogenesi autoimmune come le miositi focali, le miofasciti, le miositi granulomatose e le miositi negli individui sottoposti a trapianto.

Incidenza delle miopatie infiammatorie L’attuale incidenza delle miopatie infiammatorie viene calcolata intorno a 5-10 casi ogni 100.000 individui, senza differenze nelle varie etnie, con un decorso medio di malattia di due anni nei casi privi di complicazioni, Circa il 20-30% dei pazienti globalmente considerati ha una completa guarigione (in genere i soggetti più giovani), mentre il tasso di mortalità a 10 anni è di circa l’85-89%. Questa percentuale comprende le forme con precoce interessamento cardiaco e quelle correlate a neoplasie maligne con conseguente prognosi negativa. Le donne sono più colpite degli uomini, mentre i due gruppi di età più frequentemente affetti sono quelli tra i 4 e i 15 anni e tra i 40 e i 70, con alcune differenze tra le varie forme.

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Cause Nelle polimiositi è stato identificato un processo citotossico (cioè di aggressione alla cellula muscolare) attuato da linfociti T che si rivolgono erroneamente contro componenti della superficie della fibra (antigeni di istocompatibilità o MHC) o contro altri organelli intracellulari (nucleo, nucleolo, RNA ecc.), scatenando una cascata di fenomeni distruttivi, che portano a necrosi del tessuto. I fattori che scatenano questa errata risposta infiammatoria non sono noti. In alcuni casi è stata descritta una predisposizione genetica come la presenza di alcuni istotipi di HLA. È possibile che il sistema immunitario venga tratto in errore dalla presenza di virus (ad esempio coxsackie o retrovirus), ma il meccanismo esatto non è noto, come per quasi tutte le malattie disimmuni. Una sottoclasse di polimiositi è rappresentata dalle forme associate a neoplasie, in particolare le seguenti neoplasie possono essere associate a polimiosite, in ordine di frequenza: ovaie> mammella> polmone> pancreas> linfoma non Hodgkin> stomaco> retto e melanoma.

Le dermatomiositi, invece, sono caratterizzate dall’interessamento primario dei piccoli vasi arteriosi e dei capillari del muscolo, che vengono attaccati al loro interno da piccole molecole (fattori del complemento, in particolare il complesso C5-b9) che scatenano la distruzione del vaso attraverso i linfociti B e CD4. Ne consegue una sofferenza del tessuto muscolare per carenza di apporto sanguigno, con microinfarti, atrofia e necrosi per contiguità. Per quanto riguarda infine le miositi a corpi inclusi, le alterazioni necrotiche delle fibre muscolari e gli infiltrati infiammatori si associano alla presenza di vacuoli degenerativi all’interno delle fibre muscolari che contengono proteine filamentose e granulari, le quali sono indice di un processo di degradazione delle componenti muscolari che si aggiunge alla componente autoimmune per meccanismi ancora non noti.

Manifestazioni cliniche Queste malattie hanno in genere un esordio subacuto, con progressione in alcune settimane o mesi, prima di arrivare alla forma conclamata. Il sintomo caratterizzante è la sensazione di stanchezza con debolezza muscolare, che all’inizio della malattia prevale nei distretti prossimali degli arti (quelli vicini all’asse mediano del corpo), ad esempio nel sollevare le braccia, pettinarsi, salire le scale, rialzarsi da terra o da seduti. Nelle forme più gravi, poi, può essere presente debolezza generalizzata, soprattutto dei muscoli del collo e del tronco e di quelli distali (lontani dall’asse mediano del corpo). I muscoli oculari sono sempre risparmiati e solo raramente sono coinvolti i muscoli facciali. L’insufficienza respiratoria associata ad altri sintomi bulbari è presente solo nelle forme più gravi. Possono esserci infine dolori muscolari, di tipo mialgico. Questi sono in genere subdoli e continui, mai particolarmente acuti. Infatti nel caso di dolore molto intenso e localizzato è opportuno considerare forme di miofascite.

Le dermatomiositi sono caratterizzate, oltre che dai sintomi muscolari descritto, anche dalla comparsa di un eritema cutaneo che coinvolge il viso e il tronco superiore, le mani (soprattutto le nocche delle dita, con i tipici noduli ispessiti) e altre grandi articolazioni (ginocchia, gomiti). Inoltre, in queste forme – più spesso che nelle polimiositi – si ritrovano febbricola, problemi cardiaci, disturbi gastrointestinali e polmonari (interstiziopatie). Nelle forme giovanili un sintomo caratteristico è la modificazione del carattere che può manifestarsi con particolare svogliatezza nelle attività quotidiane, ritiro sociale, irritabilità e scarsa accettazione delle frustrazioni. Nei bambini queste manifestazioni possono anche precedere la comparsa della malattia.

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Infine, nella miosite a corpi inclusi, che colpisce in genere individui maschi di età più avanzata, oltre i 50 anni, la debolezza muscolare inizia caratteristicamente nei distretti distali degli arti superiori, con difficoltà ad estendere la mano, e in quelli prossimali degli arti inferiori, coinvolgendo più precocemente rispetto alle polimiositi i muscoli del tronco e della deglutizione. La disfagia infatti può essere un sintomo frequente (50%) e anche la debolezza del collo e della schiena con tendenza a piegarsi in avanti (camptocormia). Purtroppo questa forma risponde meno alla terapia e tende a cronicizzare.

Diagnosi La diagnosi di miopatia infiammatoria deve essere formulata il più precocemente possibile, per poter iniziare la terapia prima che il danno muscolare sia troppo avanzato. Il riconoscimento delle dermatomiositi è più rapido e immediato, per la presenza delle caratteristiche lesioni cutanee. Le forme muscolari pure, invece – soprattutto quelle a decorso più lento – possono essere difficili da distinguere da numerose altre malattie muscolari, come ad esempio alcune forme di distrofia con componente infiammatoria o alcune miopatie metaboliche. La diagnosi precisa, quindi, può richiedere più tempo e un più alto numero di indagini strumentali. Gli esami di laboratorio in genere evidenziano un aumento dei parametri infiammatori (VES, proteina C reattiva, immunoglobuline) e degli enzimi muscolari (CK, LDH). L’elettromiografia (EMG), permette di escludere l’interessamento del nervo periferico o del motoneurone, evidenziando inoltre la caratteristica attività “irritativa” delle forme infiammatorie.

L’esame diagnostico più importante è comunque la biopsia muscolare, che va eseguita prima dell’inizio della terapia poiché quest’ultima può mascherare il quadro istologico e fuorviare la diagnosi. La biopsia muscolare consente anche una diagnosi differenziale tra le varie forme per la presenza di alterazioni specifiche di tipo necrotico nelle polimiositi, di una tipica degenerazione alla periferia del muscolo nelle dermatomiositi e di inclusioni all’interno della fibra muscolare nelle miositi a corpi inclusi. Inoltre con specifiche colorazioni è possibile differenziare i diversi sottotipi di cellule infiammatorie presenti nel muscolo e la loro localizzazione, ad esempio nei vasi o nel tessuto che circonda il muscolo o tra le fibre. Queste informazioni possono essere utili per decidere la terapia più efficace.

Negli ultimi anni si stanno rendendo disponibili anche dei test per dosare specifici auto-anticorpi nel siero dei pazienti . La presenza di questi auto-anticorpi permette da un lato di confermare la patogenesi autoimmune (sono infatti assenti nelle distrofie e miopatie genetiche) e dall’altro distinguere le varie forme, fornendo cosi indicazioni prognostiche e terapeutiche specifiche. Si riconosco infatti auto-anticorpi specifici per le polimiositi (anti Jo), le miositi necrotizzanti (anti SRP), le dermatomiositi (anti Mi2), diversi dagli auto-anticorpi associati invece alle forme di sovrapposizione con altre connettiviti e a tumori (anti-TIF-1γ anti-NXP-2).

Infine la risonanza magnetica (RMN) con specifiche sequenze dedicate al muscolo può essere utilizzata per identificare la presenza di edema e infiammazione nei ventri muscolari. Può anche essere utile per capire la gravità ad esempio se le alterazioni muscolari sono iniziali o avanzate (sostituzione fibrosa) e per definire i muscoli più colpiti (ad esempio i muscoli distali nella miosite a corpi inclusi). Nei casi più difficili da diagnosticare la RMN può guidare la scelta del muscolo per la biopsia,

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selezionando il muscolo con il maggior grado di infiammazione ma non in fase avanzata di atrofia.

Diagnosi differenziale In primo luogo va posta con le forme secondarie ad altre malattie internistiche (collagenopatie, endocrinopatie, sindromi da malassorbimento, sarcoidosi, alcolismo, vasculiti) o all’assunzione di farmaci o sostanze tossiche (chemioterapici, penicillamina, farmaci ipocolesterolemizzanti). Forme di distrofia muscolare geneticamente determinate possono presentare sintomi simili alle miositi infiammatorie e va ricordato che nelle biopsie muscolari di alcune distrofie genetiche non è raro trovare segni di infiammazione.

Terapia Il farmaco di prima scelta per le polimiositi e le dermatomiositi è il prednisone, che va prescritto ad alto dosaggio (1-1,5 mg/Kg/die) in un’unica somministrazione al mattino dopo colazione. Esistono vari schemi terapeutici ed è opportuno disegnare per ogni paziente un programma individualizzato sulla base della risposta e della comparsa di eventuali effetti collaterali. In genere il dosaggio va mantenuto per sei – otto settimane, seguito da una lenta diminuzione a scalare che può durare alcuni mesi. Il passaggio alla terapia a giorni alterni riduce di solito, almeno in parte gli effetti collaterali. In ogni caso è necessaria una monitorizzazione clinica e dei valori del CK, che coadiuvano la scelta terapeutica. Va sottolineato che nelle polimiositi e nelle dermatomiositi gli effetti benefici dello steroide sopravanzano di larga misura gli effetti avversi.

I casi che non rispondono allo steroide o che presentano controindicazioni serie possono essere trattati con cicli di immunoglobuline umane per via endovenosa. Questi emoderivati presentano un minor numero di effetti collaterali, ma non è ancora stata dimostrata la loro superiorità rispetto agli steroidi nelle polimiositi e dermatomiositi dell’adulto. Nelle miositi a corpi inclusi e nelle dermatomiositi infantili, invece essi possono essere considerati farmaci di prima scelta.

I farmaci immunosoppressori sono considerati di terza scelta, e tra essi i più utili sono il metotrexate, l’azatioprina, la ciclosporina. Recentemente anche il micofenolato mofetile sembra essere ben tollerato e molto efficace, mentre la ciclofosfamide può essere usata nei casi gravi con interessamento polmonare. Questi farmaci possono essere anche usati in associazione al cortisone per ridurne le dosi e gli effetti collaterali. Nei pazienti refrattari a tutti i trattamenti si stanno mettendo a punto nuovi approcci terapeutici con molecole dirette contro i principali mediatori della infiammazione come i linfociti b (rituximab) e alcune citochine (IL6). In tutti i casi e con qualsiasi farmaco, i controlli devono essere frequenti e mirati a monitorare attentamente ogni eventuale complicazione della malattia, oltre agli effetti avversi della terapia.

Miopatie metaboliche di Gabriele Siciliano*, Elena Caldarazzo Ienco* e Caterina Tramonti*

Le miopatie metaboliche sono malattie muscolari caratterizzate da un deficit a carico di una o più reazioni biochimiche lungo quelle vie metaboliche che sono implicate nella produzione di energia all’interno delle cellule muscolari. Tali patologie possono essere classificate in: - ereditarie e/o congenite

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- acquisite – di incerta classificazione.

Gruppi di malattie metaboliche Le miopatie metaboliche ereditarie e/o congenite sono dovute a disordini della produzione di energia, a livello del muscolo scheletrico, correlabili a un preciso difetto metabolico e che possono risultare in un abnorme accumulo del substrato relativo alla reazione biochimica interessata o in un deficit del prodotto finale. Ne consegue un inadeguato rifornimento di substrati al muscolo oppure il blocco della loro utilizzazione durante l’esercizio fisico. Nelle miopatie metaboliche acquisite, invece, il difetto biochimico muscolare è correlabile ad altre patologie, di tipo endocrino (patologie della tiroide; delle paratiroidi; dell’ipofisi e delle ghiandole surrenali; di natura esogena, tossica o farmacologica).

Manifestazione e diagnosi Le miopatie metaboliche si manifestano clinicamente con deficit di forza, variazione della massa muscolare (ipo-atrofia; peseudoipertrofia), ma soprattutto con intolleranza allo sforzo, evidenziata da precoce affaticabilità, mialgie, contratture ed episodi di mioglobinuria [mioglobina nelle urine, N.d.R.]. La diagnosi richiede innanzitutto un’accurata valutazione clinica, volta a documentare un’eventuale familiarità, l’assunzione di farmaci e la presenza di sintomi tipici (affaticamento muscolare e intolleranza all’esercizio; mialgie; contratture e irrigidimento muscolare; più raramente deficit di forza e variazioni della massa muscolare). Il medico si avvale, inoltre, di indagini di laboratorio, elettrofisiologiche, biochimiche e genetiche.

Le indagini Gli esami di laboratorio comprendono, in una prima fase, il dosaggio plasmatico di enzimi muscolari, indice di eventuale danno della fibra muscolare e di alcuni metaboliti espressione della contrazione muscolare, quali lattato, piruvato, corpi chetonici, ammonio e trigliceridi. A questi fanno seguito esami più specifici: curva di lattato e ammonio, in presenza di uno sforzo aerobico e anaerobico; dosaggio degli acidi organici urinari e della carnitina libera e/o esterificata su sangue e biopsia del muscolo.

Il test da sforzo ischemico all’avambraccio per la valutazione della produzione di acido lattico e ammonio è utile per l’identificazione dei difetti del metabolismo muscolare. Durante l’esecuzione del test, il paziente deve stringere un dinamometro in modo intermittente per un minuto. La condizione di ischemia viene creata da uno sfigmomanometro posizionato al braccio e gonfiato a valori superiori alla pressione arteriosa sistolica del paziente. Dalla vena anticubitale dell’avambraccio che ha compiuto lo sforzo e dove è stata indotta l’ischemia, vengono poi eseguiti dei prelievi venosi, in condizioni basali e dopo uno, tre e dieci minuti dalla fine dell’esercizio, in modo da determinare i livelli plasmatici del lattato e ammonio. Nei soggetti normali il lattato mostra un incremento da due a cinque volte superiore ai valori misurati a riposo nei primi due-tre minuti, per poi tornare ai livelli basali dopo la fase di recupero. Nei difetti del metabolismo del glicogeno, i livelli di lattato plasmatici non aumentano significativamente, mentre si può riscontrare un incremento dell’ammonio da due a cinque volte superiore rispetto ai valori basali. L’assenza di un incremento dell’ammonio in presenza di una normale curva del lattato, invece, indica un deficit di mioadenilato deaminasi.

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Il test da sforzo aerobico per la valutazione della produzione dell’acido lattico è un test nel quale il paziente esegue un esercizio prolungato – di circa venti minuti – al cicloergometro e viene quindi sottoposto a una serie di prelievi di sangue seriali, per determinare la soglia anaerobica lattacidemica.

Le indagini elettrofisiologiche sono in grado di fornire ulteriori informazioni nel vasto spettro delle miopatie metaboliche. L’applicazione delle indagini strumentali (ecografia, imaging e spettroscopia in risonanza magnetica) nella diagnostica clinica delle patologie muscolari, consentendo la valutazione della massa muscolare normale o anormale, della diversa intensità di segnale nei singoli muscoli e del loro variabile coinvolgimento, può permettere l’identificazione di pattern [“indicatori”, N.d.R.] specifici di coinvolgimento muscolare nella patologia oggetto di studio. Per un ulteriore approfondimento diagnostico, inoltre, si può ricorrere, in casi selezionati, alla risonanza magnetica muscolare spettroscopica per il fosforo 31-P, esame non invasivo che permette di studiare la concentrazione dei metaboliti muscolari (ATP, fosfocreatina, fosforo inorganico) e del pH intracellulare in pazienti con malattie muscolari, sia a riposo sia durante esercizio. Questo test è attuabile, eventualmente, prima e dopo trattamenti terapeutici. Il vero punto di forza della risonanza magnetica muscolare spettroscopica per il fosforo 31-P nello studio del metabolismo muscolare sta tuttavia nella possibilità di rivelare il segnale dei metaboliti fosforici anche durante un esercizio effettuato all’interno del magnete. In questo modo è allora possibile investigare il muscolo nelle sue diverse condizioni metaboliche: riposo, esercizio e recupero. L’ergometro è un elemento fondamentale di un esperimento di 31P MRS del muscolo, in quanto essenziale non solo per poter eseguire l’esercizio all’interno del magnete, ma anche e soprattutto per farlo in modo controllato, permettendo di risalire a tutti i parametri cinetici che lo caratterizzano.

La biopsia muscolare, infine, è una delle indagini più importanti nel sospetto di una malattia muscolare di natura metabolica. Lo studio istologico, istochimico, ultrastrutturale e biochimico su muscolo evidenzia l’entità della compromissione delle fibre muscolari e del deficit enzimatico specifico. Ad esempio la colorazione con PAS (reazione con acido periodico di Schiff) permette di evidenziare vacuoli contenenti accumuli di carboidrati nelle glicogenosi.

Caratteristiche genetiche e cliniche I recenti studi di genetica molecolare hanno rivestito un ruolo importante nella definizione clinica delle varie sindromi, facilitando la diagnosi (anche prenatale) e spiegando l’enorme varietà fenotipica associata a mutazioni dello stesso gene. Grazie a questi studi le basi genetiche e le modalità di trasmissione di numerose miopatie metaboliche sono attualmente note (ad esempio il difetto del gene CPT2 nel deficit di carnitina-palmitoil-trasferasi tipo II o del gene PYGM nella malattia di McArdle). I difetti metabolici alla base di queste patologie possono essere:

- Difetti del metabolismo lipidico (difetto della beta-ossidazione; deficit di carnitina-palmitoil-transferasi; deficit sistemico-secondario di carnitina), che insorgono in condizioni di prolungato lavoro muscolare. Essi si associano clinicamente a rabdomiolisi [rottura delle cellule del muscolo scheletrico, N.d.R.], mioglobinuria e, talvolta, a cardiomiopatia. La miopatia da deficit di carnitina può avere una causa genetica, solitamente con una trasmissione autosomica recessiva (ovvero con l’alterazione del DNA presente in entrambi gli elementi della coppia di cromosomi).

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Qui è presente debolezza muscolare generalizzata che colpisce, in particolare, la muscolatura prossimale (quella più vicina all’asse mediano del corpo, ad esempio cosce) e, talvolta, i muscoli del collo. La carnitina svolge un importante ruolo nel trasporto di acidi grassi a lunga catena ai mitocondri, organelli intracellulari nei quali avviene la beta-ossidazione. Una carenza di carnitina, quindi, provoca un accumulo di lipidi (grassi), in particolare trigliceridi.

- Difetti del metabolismo dei carboidrati, ovvero le glicogenosi (ad esempio deficit dell’enzima deramificante; malattia di Mc Ardle; deficit di fosfogliceratokinasi; lattato-deidrogenasi ecc.). Queste sono miopatie da accumulo di glicogeno, caratterizzate da anomalie strutturali delle molecole di quest’ultimo e/o da aumentata concentrazione di glucosio nelle cellule muscolari. I disordini del metabolismo del glicogeno o del glucosio si esprimono clinicamente con dolore, contratture e mioglobinuria ad insorgenza dopo un esercizio intenso. La glicogenosi di tipo V (detta anche malattia di Mc Ardle) è una patologia a trasmissione autosomica recessiva legata al cromosoma 11q12 e dovuta a un deficit di miofosforilasi che causa il blocco della glicogenolisi muscolare, portando a un accumulo di glicogeno nelle fibre muscolari, fino a rendere il muscolo incapace di far fonte alla richiesta energetica per uno sforzo intenso e di breve durata. In corrispondenza di un esercizio muscolare acuto, il paziente presenta crampi, dolore muscolare e mioglobinuria.

- Difetti del metabolismo purinico: essi sono dovuti alla deficienza di mioadenilato-deaminasi che comporta una modificazione del catabolismo dei nucleotidi purinici e della loro interconversione. Si possono distinguere due forme di deficit di mioadenilato-deaminasi. La forma ereditaria (primitiva) può essere sia asintomatica che associata all’insorgenza di crampi e mialgie dopo esercizio fisico. La forma acquisita (secondaria) è associata a un ampio spettro di malattie reumatologiche o neuromuscolari. L’età media al momento della diagnosi è di 37 anni, con un intervallo compreso tra 4 e 76 anni. Nel 97% dei soggetti l’insorgenza dei sintomi avviene nell’infanzia o nei primi anni dell’età adulta.

Malattie mitocondriali Si tratta di un gruppo di malattie caratterizzate da difetti strutturali, biochimici e genetici dei mitocondri, quegli organelli intracellulari di cui si è detto, nei quali avviene la beta-ossidazione e che sono deputati alla produzione di ATP, la molecola energetica più importante per la cellula. Poiché i mitocondri sono presenti in tutte le cellule dell’organismo, la miopatia rappresenta spesso solo una parte dell’espressione fenotipica di un disturbo multisistemico. Le strutture del mitocondrio sono codificate in parte da un genoma proprio del mitocondrio stesso e in parte dal genoma nucleare della cellula che lo contiene. Questa simbiosi tra i due genomi spiega la peculiarità e la complessità dei meccanismi genetici che sottendono le malattie mitocondriali, come l’eredità matrilineare, l’eteroplasmia [coesistenza di diversi genomi mitocondriali, N.d.R.] e il cosiddetto “effetto soglia”, per il quale la quantità di genomi mutati in una cellula/tessuto condiziona l’espressione fenotipica della malattia. Le malattie mitocondriali, quindi, possono essere classificate a seconda che il difetto genetico coinvolga il genoma mitocondriale o quello nucleare. Un esempio di malattia mitocondriale è l’oftalmoplegia esterna progressiva (CPEO), caratterizzata da ptosi [caduta della palpebra, N.d.R.] asimmetrica, oftalmoplegia esterna progressiva, disfagia, disartria e deficit di

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forza negli arti. La malattia si trasmette di solito con meccanismo autosomico recessivo in linea materna.

 

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