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1 [LEDI\POGINECO\DISPENSE 2006-2007 TERZA PARTE] [dicembre 2006] Bruno Celano Positivismo giuridico e neocostituzionalismo Dispense del corso di Filosofia del diritto (a.a. 2006-2007) Terza parte Indice Parte III Positivismo giuridico 7. Il positivismo giuridico 7.1 Il positivismo giuridico come teoria del diritto codificato 7.2 Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto? (II) 7.2.1 La tesi dei fatti sociali 7.2.2 Imperativismo 7.2.3 Cenni sulle teorie del diritto di J. Bentham e J. Austin 7.3 Normativismo 7.3.1 La tesi normativista 7.3.2 Il diritto come sistema normativo dinamico (H. Kelsen) 7.3.3 La tesi convenzionalista 7.3.4 Le norme supreme come convenzioni di coordinazione 7.3.5 La regola di riconoscimento come regola sociale (H. L. A. Hart) Riferimenti bibliografici Avvertenza. Le presenti dispense sono fornite gratuitamente agli studenti del corso di Filosofia del diritto. Il loro uso ai fini della preparazione all'esame non sostituisce lo studio degli altri testi adottati.

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[LEDI\POGINECO\DISPENSE 2006-2007 TERZA PARTE] [dicembre 2006]

Bruno Celano Positivismo giuridico e neocostituzionalismo

Dispense del corso di Filosofia del diritto (a.a. 2006-2007) Terza parte

Indice

Parte III Positivismo giuridico 7. Il positivismo giuridico 7.1 Il positivismo giuridico come teoria del diritto codificato 7.2 Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto? (II) 7.2.1 La tesi dei fatti sociali 7.2.2 Imperativismo 7.2.3 Cenni sulle teorie del diritto di J. Bentham e J. Austin 7.3 Normativismo 7.3.1 La tesi normativista 7.3.2 Il diritto come sistema normativo dinamico (H. Kelsen) 7.3.3 La tesi convenzionalista 7.3.4 Le norme supreme come convenzioni di coordinazione 7.3.5 La regola di riconoscimento come regola sociale (H. L. A. Hart) Riferimenti bibliografici

Avvertenza. Le presenti dispense sono fornite gratuitamente agli studenti del corso di Filosofia del diritto. Il loro uso ai fini della preparazione all'esame non sostituisce lo studio degli altri testi adottati.

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[LEDI\POGINECO\DISPENSE 2006-2007 TERZA PARTE] [dicembre 2006] Bruno Celano Positivismo giuridico e neocostituzionalismo Dispense del corso di Filosofia del diritto (a.a. 2006-2007)

Parte III Positivismo giuridico

7. Il positivismo giuridico

7.1 Il positivismo giuridico come teoria del diritto codificato La teoria del diritto tipica dell’età della codificazione, e dello stato di diritto europeo-continentale

ottocentesco, è il positivismo giuridico (in una delle sue molte versioni, come adesso vedremo). Cominceremo con uno sguardo d'insieme sui diversi aspetti della cultura giuspositivista in genere, e sulle idee proprie del positivismo giuridico ottocentesco, come teoria del diritto codificato, in particolare. Ci soffermeremo poi - prescindendo dalla particolare configurazione che il positivismo giuridico assume nella cultura giuridica ottocentesca - sul positivismo giuridico come teoria delle condizioni di verità, o di asseribilità, di asserti giuridici: come una risposta alla domanda circa la natura dei fatti giuridici1.

Cominciamo, dunque, con uno sguardo d'insieme. Il nostro punto di partenza sarà la caratterizzazione, sommaria, del positivismo giuridico fornita sopra, 3.2. Questa volta, però, entreremo nel dettaglio.

Il positivismo giuridico, afferma N. Bobbio2, si riassume, in estrema sintesi, nella tesi secondo

cui non v'è altro diritto che il diritto positivo; il diritto posto, prodotto dagli esseri umani. Il diritto, nella sua interezza, è prodotto dell'attività umana, ed è, dunque, un che di artificiale (un artefatto), non un che di naturale, o divino.

In particolare, Bobbio distingue tre dimensioni, o tre aspetti, della cultura giuspositivista: positivismo giuridico come metodologia nello studio del diritto (ovvero, positivismo giuridico come metodo d’indagine sul diritto), come teoria del diritto, e come ideologia.

(1) Inteso come metodologia, il positivismo giuridico si riassume nella tesi secondo cui il diritto è un fatto, e va studiato come tale: in modo, cioè, avalutativo (prescindendo del tutto dalla formulazione di giudizi di valore). Altro è la descrizione del diritto esistente (in un certo tempo e luogo), tutt'altra cosa la sua valutazione - il suo apprezzamento - come buono o cattivo, giusto o ingiusto. In quanto metodo d’indagine sul diritto, insomma, il positivismo giuridico è caratterizzato dalla tesi secondo cui (a) è possibile distinguere fra il diritto quale esso, di fatto, è, e il diritto quale deve essere (il diritto buono, o giusto), e (b) una trattazione scientifica del diritto può e deve limitarsi alla descrizione del diritto quale esso, di fatto, è3.

1 La domanda, cioè, posta sopra, 2. (‘Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto?’). 2 Quella che segue è una sintesi da Bobbio 1961. 3 Questo modo di vedere presuppone il principio della avalutatività (Wertfreiheit) della conoscenza scientifica, principio secondo cui l’indagine scientifica può, e deve, prescindere da qualsiasi valutazione del proprio oggetto; o, comunque, non deve formulare valutazioni su di esso (altro è conoscere qualcosa, tutt’altra cosa valutarlo come buono o cattivo). Perché mai? La motivazione più ovvia (ma non l’unica possibile) è la seguente: i giudizi di valore sono soggettivi, relativi (valgono solo relativamente a chi li compie, quando li compie): sono espressione di emozioni, o desideri, di chi parla; non possono, dunque, entrare a far parte di una costruzione discorsiva che si vorrebbe razionale e, perciò, oggettivamente valida, qual è una teoria scientifica. (Questo insieme di tesi, si badi bene, non è affatto pacifico: non è pacifico né che il discorso scientifico debba, o possa, essere depurato da valutazioni, né che sia in generale possibile

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(2) Ciò che contraddistingue il positivismo giuridico ottocentesco - in quanto teoria del diritto tipica dell'età della codificazione, e dello stato di diritto europeo-continentale - è una particolare versione dell'assunto che non vi sia altro diritto se non il diritto positivo (ovvero, un particolare modo di intendere la nozione di diritto positivo): la tesi che non vi sia altro diritto se non il diritto posto dallo stato (diritto 'positivo' è il diritto prodotto, o comunque riconosciuto, dagli organi dello stato; sopra, 5.2).

A questa versione dell'assunto positivista si ricollegano, nella ricostruzione di Bobbio, alcuni aspetti ulteriori, aspetti che identificano il positivismo giuridico come una specifica teoria del diritto (una teoria, dunque, specificamente ottocentesca, o comunque legata alla cultura della codificazione e allo stato di diritto ottocentesco). Questi aspetti sono:

(a) la definizione della norma giuridica come norma coattiva; ovvero, la definizione del concetto di diritto mediante l'elemento della coazione (infra, 7.2.3). Il diritto è ordinamento coattivo.

(b) Una particolare teoria delle fonti del diritto: "la legge come unica fonte di qualificazione". Ossia, la tesi secondo la quale la legge è la fonte primaria, tendenzialmente esclusiva, di produzione giuridica, gerarchicamente superiore a ogni altra fonte (supremazia della legge; sopra, 5.2). Oltre alla legge, sono fonti del diritto solo quelle espressamente o tacitamente riconosciute, o richiamate, dalla legge stessa. Insomma: è fonte del diritto o la legge, o ciò che la legge qualifica come fonte.

(c) Una particolare teoria della norma giuridica, la teoria imperativistica: il diritto è comando del sovrano (sopra, 6.1; infra, 7.2.2-3).

(d) Una particolare teoria dell'ordinamento giuridico. Più precisamente, la tesi secondo cui il diritto - il diritto positivo - è, propriamente, ordinamento, o sistema: un che di unitario, coerente e completo (sopra, 6.2).

(e) Una certa concezione della conoscenza scientifica del diritto, e del ragionamento giuridico. (i) La scienza del diritto assume il carattere di ‘dogmatica’ giuridica: suo compito primario, se non esclusivo, è la ricostruzione della volontà del legislatore, quale essa si esprime, in ipotesi, in un testo di legge, o nel codice (esegesi), ovvero la ricostruzione del sistema giuridico-positivo sulla base dell'individuazione di concetti giuridici fondamentali (concettualismo; sopra, 6.1). (ii) Ragionamento giuridico (in particolare, ragionamento giudiziale): teoria 'meccanica' del ragionamento e della decisione giudiziale (sillogismo giudiziale, sussunzione; giudice ‘bocca della legge’).

Ci siamo già imbattuti nella maggior parte di queste idee, o tesi. Si tratta, come abbiamo visto, di idee, o tesi, che, per un verso, sono proprie della cultura della codificazione; per altro verso, trovano il loro sviluppo compiuto nel quadro della stato di diritto ottocentesco.

(3) Positivismo giuridico come ideologia4. Bobbio distingue due versioni, l’una estrema e l’altra moderata, del positivismo giuridico come ideologia. Nella sua versione estrema, il positivismo ideologico si riassume nella tesi secondo cui il diritto (diritto positivo statale) è sempre e comunque vincolante, vi si deve sempre e comunque prestare obbedienza (si deve obbedire alle legge, perché e in quanto è legge)5. Nella versione moderata, il positivismo ideologico consiste nell’attribuzione al diritto di un valore (positivo) strumentale, in quanto mezzo, reputato necessario, in vista di un certo fine: l’ordine sociale. In breve: l'ordine sociale (la stabilità, sicurezza, regolarità e prevedibilità dei rapporti sociali) è un bene, un valore degno di essere perseguito; il suo perseguimento e la sua realizzazione sono compito precipuo del diritto; dunque, anche il diritto è un bene, un valore (strumentale).

Si noti: il positivismo giuridico come ideologia è cosa del tutto diversa dal positivismo metodologico: se si accetta quest’ultimo, il positivismo ideologico non potrà, se non

tracciare una netta linea di demarcazione fra asserti di fatto - in ipotesi, espressione di credenze sul mondo - da un lato, e giudizi di valore, d’altro lato. Cfr. per una presentazione introduttiva del problema Celano 1994, capp. 1, 2.) 4 ‘Ideologia’ significa, qui, un insieme - più o meno ordinato o sistematico - di giudizi di valore, espressione di prese di posizione etico-politiche sostanziali. 5 Cfr. anche Ross 1961.

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equivocamente, dirsi una forma di ‘positivismo giuridico’ (poiché, per l’appunto, costituito da un insieme di giudizi di valore e prese di posizione etico-politiche). Sarà solo una fra le tante ideologie giuridico-politiche possibili (tutte, in ipotesi, non scientificamente fondate).

La valutazione del ‘positivismo giuridico’, si badi bene, può essere diversa in relazione a ciascuno di questi diversi aspetti. Non c’è alcuna ragione di ritenere che, per essere giuspositivisti, si debbano abbracciare tutte queste tesi. Al contrario. Molte di queste tesi sono concettualmente indipendenti l’una dall’altra; e alcune sono, forse, reciprocamente incompatibili (ma non cercherò qui di esplorare questa rete di relazioni).

7.2 Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto? (II)

7.2.1 La tesi dei fatti sociali Come abbiamo visto (sopra, 2.) la natura dei fatti giuridici appare misteriosa. I fatti giuridici

sembrano essere fatti non naturali, ultra-fisici o metafisici, quasi che il diritto fosse qualcosa di non meramente umano. Il discorso giuridico sembra avere un che di magico - sembra constare, in parte, di formule magiche. Non è chiaro a quali entità, eventi, processi, qualità, relazioni, facciano riferimento i termini e le espressioni appartenenti al vocabolario giuridico (quali siano le controparti reali, gli abitanti del mondo, correlativi alle nozioni tipiche del discorso giuridico).

L'Illuminismo giuridico, come si è detto (sopra, 6.1), rigetta questo complesso di idee. Non v'è nulla, nel diritto, che l'ordinaria ragione umana non possa comprendere; il resto è mistificazione, ideologia. Il diritto può, e deve, essere liberato dall'aura di mistero che lo circonda, e reso accessibile alla comune intelligenza umana. Il positivismo giuridico (nella grande maggioranza delle sue diverse varianti, prescindendo d’ora in avanti dalla particolare configurazione che esso assume, nell’Ottocento, come teoria del diritto codificato) è una particolare realizzazione, o istanziazione, di questa idea di fondo: la realtà del diritto non è altro che un insieme, complesso, di atti e comportamenti umani, e i loro prodotti - un complesso di fatti, suscettibili di accertamento, descrizione e spiegazione sulla base dell'esperienza.

La cultura giuspositivistica è, cioè, caratterizzata da una particolare visione della natura dei fatti giuridici (ovvero, delle condizioni di verità, o asseribilità, di asserti giuridici; sopra, 2.6), la cosiddetta “tesi sociale”: “che cosa è diritto, e che cosa non lo è, è una questione di fatti sociali”6. Ovvero (la “tesi dei fatti sociali”, Social Fact Thesis): “l’esistenza del diritto è resa possibile da certi tipi di fatti sociali”7; “la possibilità del diritto va spiegata in termini di fatti sociali”8. Insomma: che vi sia diritto, e che cosa sia diritto (‘D’), dipende da - è fissato da, è funzione di (‘f’) - un complesso di fatti sociali (‘FS’):

(1) (Tesi dei fatti sociali) D = f(FS)

Versioni diverse della tesi dei fatti sociali differiscono, come vedremo, su (1) quale sia l’insieme

dei fatti sociali rilevanti; (2) come sia da intendere la funzione ‘f’ (ossia, in che modo e in che senso che cosa è diritto ‘dipenda’ da, sia ‘fissato da’, fatti sociali)9

Una particolare versione di questa tesi è la cosiddetta "tesi delle fonti sociali": “l’esistenza e il contenuto di ciascuna norma giuridica sono integralmente determinati da fonti sociali”10. Ovvero,

6 Raz 1979a, pp. 37-8; la social thesis è, afferma Raz, la tesi fondamentale del positivismo giuridico. 7 Himma 2002, p. 125. 8 Coleman 2001, p. 77. 9 La Tesi dei Fatti Sociali è “il nocciolo del positivismo giuridico (Coleman 2001, p. 161; “no claim is more central to legal positivism”, ivi, p. 75). Cfr. anche ivi, pp. 152, 153; Himma 2002, p. 126: “the most fundamental of positivism’s core commitments”.

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esistenza e contenuto del diritto possono essere esaustivamente determinati, identificati, sulla base dell'accertamento di soli fatti sociali, indipendentemente dal ricorso a considerazioni morali, o etiche, sostanziali (questioni di giustizia, o assiologiche)11. Le ragioni giuridiche sono, dunque, ‘indipendenti dal contenuto’: che cosa sia diritto può essere stabilito sulla base di un test di pedigree (sopra, 6.2.5).

Passeremo adesso in rassegna due particolari versioni di questa concezione della natura dei fatti giuridici, imperativismo e normativismo.

7.2.2 Imperativismo L'imperativismo è probabilmente l'esempio più ovvio, diretto, della concezione del diritto

espressa dalla tesi dei fatti sociali (e da quella delle fonti sociali). Vediamo in che modo esso risponde alla domanda sulla natura dei fatti giuridici (sulle condizioni di verità, o asseribilità, degli asserti giuridici).

Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto? Semplice, risponde la teoria imperativistica: parliamo di comandi. Le condizioni di esistenza di fatti giuridici non sono nulla di più che le condizioni di esistenza di comandi. Si ricordi l'itinerario percorso sopra, 2.2: asserti nei quali ricorrono termini come 'frontiera', 'banconota da dieci euro', ‘maggiorenne’, 'sposato', ecc. sono riconducibili ad asserti nei quali ricorrono termini appartenenti al vocabolario dei diritti (il vocabolario delle posizioni giuridiche soggettive). Nel vocabolario dei diritti, la posizione centrale è occupata dalla coppia di nozioni diritto (soggettivo) - obbligo. (Le nozioni restanti sono - assume l’imperativista - riconducibili a, esplicabili nei termini di, questa coppia.) Diritto e obbligo sono, però, termini correlativi: a ciascun obbligo corrisponde un diritto, e viceversa (che Tizio vanti un diritto nei confronti di Caio vuol dire che Caio è soggetto a un obbligo nei confronti di Tizio; principio di ‘stretta correlatività’ fra diritti e obblighi). Dunque, per spiegare la nozione di diritto (soggettivo) basterà fornire un’analisi soddisfacente della nozione di obbligo. Mediante quest’ultima, sarà possibile fornire un’analisi della nozione di diritto (soggettivo), mediante questa coppia di nozioni sarà possibile fornire un’analisi di tutte le nozioni appartenenti al vocabolario dei diritti; e, infine, mediante quest’ultimo saranno spiegabili nozioni come ‘banconota da dieci euro’, ‘frontiera’, ‘maggiorenne’, ecc, (e, dunque, il contenuto di asserti nei quali ricorrono questi termini, ossia, la natura dei fatti giuridici).

Il problema è dunque: è possibile fornire un'interpretazione (un'analisi, un'esplicazione) in termini di fatti sociali, empiricamente accertabili, della sussistenza di un obbligo giuridico? La teoria imperativistica risponde affermativamente: sussiste un obbligo giuridico, quando un soggetto (che soddisfa certe condizioni, empiricamente accertabili, sulle quali mi soffermerò fra breve; infra, 7.2.3) vuole che un individuo, o un insieme di individui, si comportino in un certo modo, ha l’intenzione, e la capacità, di infliggere una punizione nel caso in cui l’individuo o gli individui in questione si comportino diversamente, ed esprime questa sua volontà e questa sua intenzione mediante l'emissione di un comando sostenuto dalla minaccia di una sanzione punitiva in caso di

10 Raz 1979, p. 46. “I fatti sociali sono condizione sia necessaria sia sufficiente per l’esistenza e l’identità del diritto” (ivi, p. 41). Raz (ivi, p. 46) caratterizza la Tesi delle fonti sociali come una versione "forte" della social thesis ("the strong social thesis"; vedremo più avanti - infra, £ - in che modo sia possibile differenziare la tesi delle fonti sociali dalla tesi dei fatti sociali - per il momento, le consideriamo equivalenti). 11 La tesi delle fonti sociali afferma che “l’esistenza e il contenuto del diritto sono una questione di fatti sociali, che può essere decisa senza fare ricorso ad argomenti morali” (Raz 1985, p. 234). “Una teoria del diritto è accettabile solo se i suoi test per identificare il contenuto del diritto e determinare la sua esistenza dipendono esclusivamente da fatti relativi al comportamento umano suscettibili di essere descritti in termini valutativamente neutrali, e applicati senza fare ricorso ad argomentazioni morali” (Raz 1979a, p. 39). Ancora: “è un assunto comune a tutti i giuspositivisti che il diritto ha fonti sociali, cioè, che il contenuto e l’esistenza del diritto possono essere determinati facendo riferimento a fatti sociali e senza fare appello a considerazioni morali” (Raz 1979b, p. 53).

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inadempimento. I fatti cui sono riconducibili i fatti giuridici (la totalità dei fatti giuridici) sono atti di volontà, atti di enunciazione di enunciati (imperativi), minacce di esercizio della forza fisica e, eventualmente, atti di esercizio di quest’ultima. Che Tizio sia soggetto all’‘obbligo’ di fare A significa che, nell’ipotesi in cui non faccia A, Tizio incorrerà - o è altamente probabile che incorra - in una sanzione punitiva. O, in altri termini, un asserto della forma

(2) Tizio deve (è soggetto all'obbligo di) fare A

equivale a - è, cioè, traducibile senza residui in, può essere analizzato come - un asserto della forma:

(3) A meno che non faccia A, Tizio incorrerà in una punizione.

O, in termini probabilistici:

(3’) E’ probabile che, a meno che non faccia A, Tizio incorra in una punizione. Questo tipo di analisi della nozione di obbligo è comunemente denominata ‘analisi predittiva’

(asserti della forma (3), o (3’), sono, infatti, predizioni di eventi futuri). Gli esempi più significativi di teoria imperativistica sono la teoria del diritto del fondatore

dell'utilitarismo (e campione dell'Illuminismo), J. Bentham, e quella di J. Austin, frutto della rielaborazione delle idee di Bentham.

7.2.3 Cenni sulle teorie del diritto di J. Bentham e J. Austin Il punto di partenza della definizione benthamiana del diritto è la nozione di "espressione di

volontà" ('qualcuno esprime la propria volontà'). Un'espressione di volontà, chiarisce Bentham12, può essere "esplicita" (nel caso in cui sia "veicolata dai segni chiamati parole"), oppure "tacita" (nel caso in cui sia "veicolata da qualsiasi altro segno"). Sulla base della nozione di espressione di volontà, Bentham definisce due ulteriori nozioni, la nozione di comando e di quasi-comando (o comando "fittizio")13. Un comando è, in generale, "un'espressione esplicita della volontà di un superiore". Si ha invece un quasi-comando "quando si assume che sia stata emessa un'espressione tacita della volontà di un superiore". Una "legge” (Law) è, per l'appunto, un comando: è l'espressione di una volontà, "quel tipo di espressione della volontà che ha il nome di comando"14. Più precisamente, "il diritto statuito (statute law) è composto di comandi, il common law è composto di quasi-comandi"15.

Dalla nozione di comando dipende, a sua volta, la nozione di obbligo, o dovere (duty)16. Un dovere è "un atto che sia l'oggetto di un comando, reale o fittizio" (Bentham aggiunge: "un atto siffatto, considerato prima di essere eseguito")17. Più precisamente, la nozione di dovere (o obbligo) dipende, per un verso, dalla nozione di comando, per altro verso da un'ulteriore nozione, la nozione

12 Bentham 1776, p. 41. Farò qui esclusivo riferimento alle posizioni assunte da Bentham nella prima delle sue opere principali, A Fragment on Government (1776), da cui sono desunte le citazioni. In quest'opera, il nocciolo della versione benthamiana dell'imperativismo trova una prima formulazione, che sarà però oggetto di modifiche, revisioni, e ulteriori sviluppi in opere successive (e troverà la propria espressione conclusiva in Bentham 1970). 13 Ibidem. 14 Ivi, p. 91. 15 Ivi, p. 41. 16 Bentham tratta i due termini 'obbligo' (obligation) e 'dovere' (duty) come sinonimi. 17 Ibidem.

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di "punizione” (punishment)18. Il significato di 'dovere’ (duty), "nell'accezione originaria, ordinaria, e propria del termine", è reso nel modo seguente: "ciò che è mio dovere fare è ciò per cui sono esposto a, suscettibile di (liable to) una punizione, secondo una legge, nel caso che non lo faccia"19.

Bentham distingue "tre tipi di doveri": politico (o giuridico), morale e religioso. La distinzione si fonda sulla distinzione fra tre tipi di sanzioni, o punizioni, mediante le quali essi sono fatti valere. Rispettivamente, punizioni inflitte, o comunque minacciate, da persone "specificate e prestabilite – superiori politici"; punizioni che ci si aspetta "ad opera di una singola persona prestabilita – l'Essere Supremo"; e, nel caso dell'obbligo morale, conseguenze spiacevoli derivanti dal malumore della comunità, ossia di quelle persone – non specificate, né prestabilite – con le quali il violatore dell'obbligo si trova a entrare in contatto20.

Quella fornita da Bentham è dunque un'esplicazione in termini predittivi della nozione di obbligo. Chi asserisce che un certo tipo di comportamento costituisce un dovere, chiarisce Bentham, asserisce "l'esistenza attuale o probabile di un evento esterno, ossia di una punizione derivante dall'una o l'altra di queste fonti in conseguenza di un inadempimento del dovere: un evento estrinseco sia rispetto alla condotta di colui del quale si parla sia rispetto ai sentimenti di chi parla, e distinto da entrambi". E' solo il riferimento a questo evento esterno, la cui esistenza viene prospettata come attuale o probabile, che conferisce ad asserti del tipo in questione – asserti della forma: 'Tizio ha il dovere, o l'obbligo (giuridico, religioso, morale) di fare A' – un significato oggettivo: solo se inteso come la probabilità che un certo evento abbia luogo, o come implicante tale probabilità, il dovere di comportarsi in un certo modo è un che di obiettivamente sussistente. Se chi asserisce che Tizio ha un obbligo, o un dovere, si rifiuta di concedere che ciò che egli dice sia da intendere nel senso appena indicato (abbia, cioè, carattere predittivo), e tuttavia insiste nella sua affermazione, allora "tutto ciò che egli asserisce è che prova un certo piacere, o un certo dispiacere, al pensiero della condotta in questione, ma senza essere in grado di spiegare perché". (La sua affermazione è, cioè, priva di qualsiasi carattere o portata oggettiva: è solo l'espressione di uno stato emotivo personale.) In questo caso – prosegue Bentham – "egli dovrebbe dirlo, piuttosto che cercare di attribuire un indebito peso alla sua personale opinione, esprimendola in termini che pretendono di valere come la voce di Dio, del diritto, o della gente"21. "Senza la nozione di punizione", dunque, "non possiamo avere alcuna nozione di (...) dovere"22.

Riassumendo: le nozioni di legge, di diritto (diritto statuito e common law), di obbligo (giuridico, religioso e morale) e di diritto soggettivo sono definite, in ultima istanza, nei termini delle due nozioni di espressione di volontà e di punizione. In tal modo, il diritto perde ogni aura di mistero: cadono gli addobbi, i paramenti, che ne nascondono, mistificandola, l'autentica natura. Infatti: (1) che cosa sia un'espressione di volontà è cosa che si può ritenere sia direttamente comprensibile a chiunque; (2) la nozione di punizione, a sua volta, può essere ridotta a nozioni direttamente comprensibili. Una punizione (punishment) è, dice Bentham, un certo "dolore (pain)", proveniente

18 Ivi, p. 108. 19 Ivi, p. 109. 20 Ivi, pp. 109-10. 21 Ivi, p. 110. 22 Ivi, p. 108. Bentham, infine, definisce nei termini della nozione di obbligo, così intesa, la nozione di diritto soggettivo (a right): "what you have a right to have me made to do (understand a political right) is that which I am liable, according to law, upon a requisition made on your behalf, to be punished for not doing" (ivi, p. 108). Può essere utile riportare qui le definizioni sulle quali è costruita la teoria di Austin, coincidenti, grosso modo, con quelle benthamiane. Un comando è, assume Austin, l'espressione di un desiderio. In particolare, la "expression or intimation of your wish" è un comando se e solo se (1) "you express or intimate a wish that I shall do or forbear from some act"; (2) "you will visit me with an evil in case I comply not with your wish" (Austin 1832, p. 21). I termini 'comando' e 'dovere (duty)' "sono correlativi (ivi , p. 3): quando sussiste un comando, Caio è, per definizione, "liable to evil from [Tizio] if [he] compl[ies] not" con il desiderio espresso da Tizio; in questo caso Caio è "bound or obliged" dal comando di Tizio (cioè: è "under a duty to obey it") (ivi, p. 22). Infine, una 'legge (law)', "in senso proprio", è "una specie di "comando" (ivi, p. 3).

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da una certa "fonte". L'idea di dolore è, a sua volta, un'"idea semplice"23, che si può assumere sia in possesso di chiunque. Nel diritto, dunque, non v'è nulla di misterioso, la cui conoscenza sia necessariamente riservata a pochi iniziati: "'piacere' e 'dolore' – afferma polemicamente Bentham - sono, si spera, termini per conoscere il significato dei quali non è necessario rivolgersi a un giurista"24. Dietro la maschera del diritto non v'è altro che la volontà umana, e sentimenti di piacere e dolore: sono questi gli elementi nei quali i fenomeni giuridici - il diritto, nel suo complesso - possono essere risolti.

L'imperativismo (la tesi che il diritto sia un insieme di comandi, o di ordini coattivi) intende dunque avere, nella sua versione benthamiana, una forte carica di demistificazione. La costruzione teorica benthamiana vuole essere uno sviluppo conseguente di una semplice idea di fondo: il diritto è un artefatto umano25. Non vi sono presunti 'fatti giuridici' diversi ed eterogenei rispetto a fatti naturali: atteggiamenti, azioni e comportamenti umani, e i loro prodotti. Il diritto, le sue forme e i suoi modi, le sue istituzioni, il suo gergo, sono un fatto naturale: espressioni di volontà, stati di piacere e dolore (attuali o probabili).

Alla definizione imperativista del concetto di diritto manca, però, ancora un tassello. Ammettiamo pure che il diritto consti di comandi. Che cosa distingue i comandi giuridici da altri tipi di comandi?

Il problema della delimitazione del diritto (diritto positivo, positive law) rispetto ad altre forme di “legge” (law) è risolto da J. Austin, seguendo Bentham, nel modo seguente: il diritto positivo consta di un insieme di ordini sostenuti da minacce (comandi), la cui emissione è imputabile, direttamente o mediatamente, a un particolare individuo o insieme di individui: un individuo o insieme di individui che sia sovrano entro il gruppo sociale preso in considerazione. Scrive Austin:

"la differenza specifica di una legge positiva (positive law) (ossia, ciò in virtù di cui una legge positiva si differenzia da una legge che non è una legge positiva) può essere formulata, in termini generali, nel modo seguente: ogni legge positiva (...) è posta da una persona sovrana, o da un corpo sovrano di persone, per un membro o per i membri della società politica indipendente nella quale quella persona o corpo di persone è sovrano, o supremo"26.

Le nozioni rilevanti – sovranità e società politica indipendente – sono esplicate da Austin nel

modo seguente: "quando un superiore umano determinato, che non obbedisce abitualmente a un altro superiore umano, riceve obbedienza abituale da parte della massa di una data società, quel superiore determinato è sovrano in quella società, e la società (ivi incluso il superiore) è una società politica e indipendente"27. Insomma: si dice ‘sovrano’ un X (individuo o gruppo di individui) che sia abitualmente obbedito dalla maggior parte dei membri del gruppo, e non presti abitualmente obbedienza a nessun altro individuo umano.

Riassumendo: il diritto è l'insieme dei comandi del sovrano - o, più precisamente, l'insieme degli "ordini generali sostenuti da minacce emanati o dal sovrano, o da suoi subordinati in obbedienza al sovrano"28.

7.3 Normativismo

23 Bentham 1776, p. 108. 24 Ivi, p. 28. 25 Cfr. in proposito Hart 1973, pp. 23, 24, 26; Hart 1961, p. 81, trad. it. p. 100. 26 Austin 1832, p. 16; cfr. anche p. 165. 27 Ivi, p. 166. 28 Hart 1961, p. 25, trad. it. p. 32. Per una presentazione più articolata della teoria imperativistica (il “modello del bandito”), e alcune delle principali critiche (mosse da H. L. A. Hart) nei suoi confronti, cfr. Celano 2002, par. 4.1.

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7.3.1 La tesi normativista Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto? La risposta normativistica è:

parliamo di norme. Le condizioni di esistenza dei fatti giuridici sono (riconducibili, e riducibili, a) condizioni di esistenza di norme.

Le due strategie - quella normativistica e quella imperativistica - percorrono, per un buon tratto, la stessa strada. Asserti nei quali ricorrono termini come 'frontiera', 'banconota da dieci euro', ecc. sono riconducibili ad asserti nei quali ricorrono termini appartenenti al vocabolario delle posizioni giuridiche soggettive. Quest'ultimo è riconducibile, in ultima istanza, alla nozione di obbligo. Il problema è dunque: come intendere la nozione di obbligo (che genere di fatto è la sussistenza di un obbligo)? Semplice, risponde il normativista: un obbligo è il risultato della qualificazione di un comportamento mediante una norma. Ossia, sussiste un obbligo, quando una norma qualifica come obbligatorio un certo comportamento.

Riformuliamo questo punto. Il problema dal quale abbiamo preso le mosse è: di che cosa parliamo (a che cosa facciamo riferimento, quali abitanti del mondo, quali individui, stati di cose, ecc. costituiscono la controparte reale dei vocaboli che usiamo) quando parliamo il linguaggio del diritto (quando diciamo, ad es., che Tizio ha l'obbligo giuridico di..., o il potere giuridico di..., o il diritto di...)? Termini ed espressioni appartenenti al vocabolario giuridico sembrano fare riferimento a entità, qualità, poteri, relazioni fittizie, immaginari, paragonabili a demoni o unicorni; il discorso giuridico sembra essere espressione di credenze false, o superstiziose. Ma, si può obiettare, questa conclusione è sicuramente affrettata. Il senso dei termini e delle espressioni in questione può essere adeguatamente specificato, eliminando così ogni aura di mistero o di paradosso, avvalendosi di una particolare nozione - la nozione di norma giuridica - e facendo appello a insiemi di norme giuridiche. L'idea è semplice: le entità, le proprietà, i fatti, i poteri, i vincoli sulla cui natura ci siamo interrogati sussistono, tutti, in virtù di norme giuridiche, e sono ad esse riconducibili. La loro natura, il loro status, divengono trasparenti alla luce di questa relazione. Così, ad es., che un certo pezzo di carta sia una banconota da dieci euro, che un certo fiume sia la frontiera fra due stati, che coloro che hanno almeno diciotto anni siano maggiorenni (e quali diritti e obblighi essi abbiano in quanto maggiorenni), che due persone siano sposate (nonché i diritti e gli obblighi che ne conseguono), che qualcosa sia mio e non tuo, ecc. sono, tutte, cose che dipendono da (insiemi determinati di) norme giuridiche. Si tratta di fatti che sussistono in virtù dell'esistenza di norme giuridiche.

Insomma: il significato di termini ed espressioni appartenenti al vocabolario giuridico – in particolare, termini ed espressioni appartenenti al vocabolario delle posizioni giuridiche soggettive – può, e deve, essere delucidato mediante il ricorso alla nozione di norma giuridica: l'esistenza di banconote, frontiere, maggiorenni, coniugi, diritti, obblighi, è funzione dell'esistenza di (insiemi di) norme giuridiche.

Si tratta, ovviamente, di una strategia plausibile, e molto promettente29. Seguirla, però, richiede che si dia risposta a un interrogativo. Bisognerà fornire una chiarificazione soddisfacente della nozione di esistenza di una norma giuridica.

E' importante rendersi conto che, a questo punto, il ricorso alla nozione di norma non costituisce, di per sé, una panacea. Ammettiamo pure che l'esistenza di entità e fatti giuridici, posizioni giuridiche soggettive, ecc., dipenda da (sia funzione di) norme. Da quali norme, precisamente? Quali sono – ci si può legittimamente chiedere - le norme rilevanti? Un'ovvia risposta a questa domanda sarà: non ogni e qualsivoglia norma, reale o fittizia, ma le norme 'valide' in un ordinamento giuridico dato. Ebbene: che cosa vuol dire, qui, 'valide'? Sono norme 'valide', si dirà, le norme esistenti, in vigore, in un certo ordinamento giuridico in un momento dato (le norme, cioè,

29 E' questa, come adesso vedremo, la strategia seguita da H. Kelsen (1934, cap. 1), o H. L. A. Hart (1961), per citare i due più importanti esponenti del normtivismo novecentesco.

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che appartengono a quel sistema giuridico). Ma qual è, precisamente, il significato di queste espressioni?

Ho già introdotto sopra, 6.2.5, la risposta giuspositivista a questa domanda: l'esistenza di una norma giuridica è funzione di un insieme di fonti formali di produzione giuridica. Una norma esiste come norma giuridica (appartiene a un sistema giuridico, è valida in quel sistema giuridico) se ha avuto luogo un atto o fatto di un certo tipo, che ha, in quel sistema giuridico, il valore di fonte di produzione giuridica. Ma ciò che caratterizza la posizione normativistica è la risposta a un interrogativo ulteriore, che a questo punto diventa ineludibile: in virtù di che cosa un certo (tipo di) atto o fatto è idoneo, in un sistema giuridico, a produrre norme giuridiche? In virtù di che cosa, cioè, un certo tipo di atto o fatto costituisce, in un certo ordinamento giuridico, una fonte di produzione giuridica? La risposta normativistica è: in virtù di una norma giuridica, che lo qualifica come tale. E’ fonte di produzione giuridica ogni tipo di atto o fatto al cui prodursi una norma giuridica riconnette, come sua conseguenza, il venire ad esistenza di una - ulteriore - norma giuridica. Riprendiamo, modificandolo, lo schema introdotto sopra, 6.2.5:

NG2 OG ----- -------------------------------------- | p >>> NG1 | (fonte) (norma) (condizione) (conseguenza) Ciò in virtù di cui, in un certo ordinamento giuridico OG, il fatto che p è la condizione cui segue,

come conseguenza, il venire ad esistenza di una norma giuridica, NG1, è un’altra norma giuridica, NG2, che statuisce che, al prodursi di fatti del tipo p, vengono a esistenza, in OG, norme del tipo NG1. NG2 è una norma istitutiva di una fonte di produzione giuridica.

Che cosa sia diritto, dunque, è funzione di atti o fatti, e di norme istitutive di fonti di produzione giuridica. Questa idea è illustrata nel modo più perspicuo dalla teoria dell’ordinamento giuridico di H. Kelsen.

7.3.2 Il diritto come sistema normativo dinamico (H. Kelsen) La teoria del diritto di Kelsen (la "dottrina pura del diritto") si può riassumere in una tesi (la

chiamerò 'tesi fondamentale' della teoria kelseniana). Il diritto è un insieme di norme, e precisamente: (1) un insieme (di norme) che ha carattere sistematico: un sistema di norme, o ordinamento normativo (sistema normativo); (2) un ordinamento (sistema) normativo coattivo (coercitivo); (3) un sistema normativo che regola la sua propria produzione ('produce se stesso', o 'si autoproduce').

In breve: il diritto è un ordinamento normativo coattivo che regola la sua propria produzione. In che senso, secondo Kelsen, il diritto è ‘ordinamento’, o ‘sistema’? E in che senso esso 'regola

la sua propria produzione'? Per rispondere a queste domande, leggiamo un passo kelseniano:

"alla domanda, perché un dato atto coercitivo - ad esempio, il fatto che un individuo privi un altro individuo della sua libertà mettendolo in prigione - sia un atto giuridico, si risponde: perché ciò è stato prescritto da una norma individuale, da una sentenza giudiziaria. Alla domanda, perché questa norma sia valida come parte di un ordinamento giuridico

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determinato, si risponde: perché essa è stata creata in conformità a una legge penale. Questa legge, infine, trae la sua validità dalla costituzione, essendo stata emanata dall'organo competente nel modo prescritto dalla costituzione. Se domandiamo perché la costituzione è valida, risaliamo forse a un'altra costituzione più antica. Da ultimo arriviamo a una costituzione che è storicamente la prima che venne dettata da un singolo usurpatore o da una qualche assemblea. La validità di questa prima costituzione è il presupposto ultimo, il postulato finale, dal quale dipende la validità di tutte le norme appartenenti al nostro ordinamento giuridico. Si postula, cioè, che ci si debba comportare così come hanno ordinato l'individuo o gli individui che hanno dettato la prima costituzione. Questa è la norma fondamentale dell'ordinamento giuridico preso in considerazione. Il documento che contiene la prima costituzione è una costituzione reale, una norma vincolante, solo a condizione che si presupponga che la norma fondamentale sia valida. Solo in base a questa presupposizione le pronunce (declarations) di coloro ai quali la costituzione conferisce il potere di creare norme sono norme vincolanti. E' questa presupposizione che ci consente di distinguere fra gli individui che sono autorità giuridiche e gli altri individui che non consideriamo tali, fra gli atti di esseri umani che creano norme giuridiche e gli atti che non hanno questo effetto. Tutte queste norme giuridiche appartengono a un unico e medesimo ordinamento giuridico perché la loro validità può essere ricondotta – direttamente o indirettamente – alla prima costituzione. Che la prima costituzione sia una norma giuridica vincolante è presupposto; e la formulazione di questo presupposto è la norma fondamentale di questo ordinamento giuridico"30.

Questo passo contiene, in nuce, tutti gli elementi della teoria kelseniana dell'ordinamento

giuridico. Cerchiamo di sceverarli. Che cosa ci consente di intendere, interpretare, ‘leggere’ un atto coercitivo (un atto, dunque, di

esercizio di forza fisica su un essere umano, contro la sua volontà) come un atto giuridico - piuttosto che come un atto non giuridico, o addirittura antigiuridico (ad es., un sequestro di persona)? Non le sue proprietà empiriche, le caratteristiche osservabili dall’esterno (da questo punto di vista, l’atto potrebbe essere, per l’appunto, un sequestro di persona). Ciò che ci consente di interpretare e qualificare l’atto in questione come un atto giuridico (una pena detentiva) è, piuttosto, una norma (una sentenza giudiziaria, che prescrive la sua esecuzione). Ma la norma in questione deve essere, dice Kelsen, una norma ‘valida’. Come intendere questa condizione?

Che una norma sia una norma giuridica valida vuol dire - assume Kelsen - che è giuridicamente vincolante; che, cioè, deve essere osservata, che ci si deve comportare così come essa prescrive. Ma: a quali condizioni una norma è una norma giuridica valida (è giuridicamente vincolante)? (Quando, cioè, data una norma, ci si deve comportare così come essa prescrive?) Una norma è una norma giuridica valida, risponde Kelsen, se e solo se appartiene all'ordinamento giuridico. (Validità in un certo ordinamento giuridico, dunque, equivale ad appartenenza all’ordinamento giuridico in questione.) Ma: a quali condizioni una norma appartiene a un ordinamento giuridico? (Quando, cioè, data una norma, si può affermare che essa appartenga a un certo ordinamento giuridico?) Una norma, risponde Kelsen, appartiene all'ordinamento giuridico se e solo se (con una rilevante eccezione, sulla quale ci soffermeremo fra breve) è stata prodotta in conformità a quanto prescritto da una norma ulteriore, anch'essa appartenente all'ordinamento giuridico; se e solo se, cioè, è stata prodotta dall'organo a ciò abilitato (autorizzato), e secondo la procedura prescritta (e, eventualmente, solo se dotata del contenuto prescritto) da una norma anch'essa appartenente all'ordinamento.

Un ordinamento giuridico, dunque, contiene (anche) norme relative alla produzione (e alla distruzione, o abrogazione) di norme valide in tale ordinamento medesimo; norme che specificano

30 Kelsen 1945, p. 115, trad. it. p. 116. Questo passo ha un parallelo in molti altri passi kelseniani, contenuti in altre opere.

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atti e fatti mediante i quali vengono a esistenza, e cessano di esistere, norme appartenenti all'ordinamento medesimo (norme che determinano l'organo e la procedura di produzione - e, eventualmente, il contenuto - di norme appartenenti al sistema). In breve: norme sulla produzione di norme, o 'metanorme'31. (Norme di questo tipo sono, in altri termini, norme sulle fonti: norme che specificano quali atti o fatti - che tipo di atti o fatti - siano idonei a produrre, entro un certo ordinamento, norme giuridiche. Dunque: quali tipi di atti o fatti siano, in un certo ordinamento, fonti di produzione giuridica, è cosa che dipende da norme esse stesse appartenenti all'ordinamento giuridico.)

Una norma che sia valida, in quanto prodotta in conformità a quanto prescritto da una norma anch'essa valida, può dirsi 'di livello inferiore' rispetto a quest'ultima, la quale, a sua volta, potrà essere qualificata come 'di livello superiore' rispetto alla prima. Gli ordinamenti giuridici hanno, dunque, una struttura a gradi (una costruzione a più livelli): gli elementi dei quali consta un sistema giuridico si dispongono su una pluralità di livelli, gerarchicamente ordinati, riconducibili (come vedremo fra breve) a un unico vertice. Il rapporto di subordinazione entro la struttura a gradi coincide con il rapporto di derivazione di validità (viceversa, il rapporto di sovraordinazione è un rapporto di convalida, o fondazione di validità): una norma è valida se e solo se (con un'importante eccezione) è stata prodotta in conformità a una norma di livello superiore (una norma autorizzatrice, o che conferisce un potere di produzione normativa), e così via.

E così via, ma solo entro un certo limite. Non è possibile, infatti (argomenta Kelsen), proseguire all'infinito. Se la catena dei rapporti di convalida (o di fondazione di validità) non avesse un termine ultimo (o primo) - se, cioè, il regresso di grado in grado dell'ordinamento giuridico (dalla norma convalidata alla norma convalidante, da quest'ultima, in quanto norma essa stessa convalidata, alla sua norma convalidante, e così via) proseguisse all'infinito - non vi sarebbe alcuna norma valida: non sarebbe possibile affermare, o concludere, di una qualsivoglia norma, che essa è una norma giuridica valida. Affinché sia possibile affermare che una qualsivoglia norma è, effettivamente, una norma valida, è necessario che il regresso nella ricerca del suo fondamento di validità abbia un termine. E' necessario, sostiene Kelsen, che tale regresso si arresti a una norma ultima (non concepita, a sua volta, come il prodotto di alcun organo, o dell'esecuzione di una qualsivoglia procedura, specificati da una norma ulteriore), una norma - non posta, ma - presupposta (una norma la cui validità non è dovuta ad alcun’altra norma, ma è presupposta: "norma 'fondamentale"). Ossia: se deve essere possibile concludere, di una qualsivoglia norma, che è una norma giuridica valida, si deve presupporre una norma fondamentale: una norma valida, la cui validità non dipende da norme valide (priva, dunque, di fondamento di validità). Se devono esservi norme valide, deve esservi una norma fondamentale32.

In generale, dunque, nella teoria del diritto di Kelsen, fondamento di validità di una norma (eccezion fatta per la norma fondamentale) è una norma anch'essa valida, di livello superiore. Una norma (salvo la norma fondamentale) è valida se e solo se è stata prodotta secondo quanto stabilito da una norma, essa stessa valida, di livello superiore. In questo senso, gli ordinamenti giuridici sono, secondo Kelsen, sistemi normativi (insiemi strutturati di norme) 'dinamici' (vs. 'statici'): (1) il diritto è in costante trasformazione, o mutamento (le norme giuridiche sono suscettibili di produzione, alterazione, distruzione: non sono eterne, hanno un'origine, e una fine, nel tempo); e (2) disciplina (regola), mediante apposite norme, il proprio mutamento medesimo: regola la sua propria produzione33.

31 Questo modo di formulare la conclusione rilevante non è specificamente kelseniano (cfr. Celano 1999, pp. 359-67). Ma è utile ai n ostri fini attuali. 32 Kelsen esclude l’ipotesi di Superfonte (o Supernorma); v. infra 7.3.3. 33 In generale, qualcosa ha carattere 'dinamico' se e solo se è suscettibile di mutamento, trasformazione o alterazione: se, cioè, è possibile che esso muti nel corso del tempo. Dunque, dire che un insieme normativo ha carattere dinamico, e non statico, significa dire, anzitutto, che è soggetto a mutamento, a trasformazione: che non resta identico a se stesso nel corso del tempo, ma può trasformarsi, acquisendo nuovi elementi e perdendo alcuni degli elementi che ne facevano

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Da quanto detto sinora, segue che ogni atto di produzione giuridica sia anche un atto di applicazione del diritto, e, viceversa ogni atto di applicazione del diritto (con l'esclusione degli atti di mera esecuzione di misure coercitive) sia un atto di produzione di nuovo diritto. Il diritto produce se stesso (si autoproduce) mediante l'applicazione delle norme che ne fanno parte; la produzione di una norma giuridica è applicazione di un'altra norma giuridica di livello superiore, e viceversa.

E' palese, a questo punto, quale sia la risposta kelseniana all'interrogativo circa il principio di

unità di un sistema giuridico34. Secondo Kelsen, come abbiamo appena visto, il diritto è un insieme di norme. Da questo

assunto, scrive Kelsen, sorge l’interrogativo: ‘Che cosa fonda l’unità di una pluralità di norme, perché una certa norma appartiene a un certo ordinamento?'

’. A questa domanda, Kelsen risponde

nel modo seguente. (1) Una norma ha il suo fondamento di validità nella validità di un’altra norma. (2) La ricerca del fondamento di validità di una norma non può, però, proseguire all’infinito: ha

termine in una norma ultima, suprema, presupposta come valida (norma fondamentale). Se ci sono norme valide, c'è una norma ultima, o prima, la cui validità è presupposta.

(3) Tutte (e solo) le norme la cui validità può essere ricondotta - direttamente o mediatamente (per il tramite, cioè, di altre norme valide) - a un’unica e medesima norma fondamentale costituiscono un ordinamento (sistema) normativo (la norma fondamentale è il loro comune fondamento di validità). Che una norma appartenga a un certo ordinamento normativo dipende da ciò, che il suo fondamento ultimo di validità sia la norma fondamentale di tale ordinamento.

(4) Da queste premesse, infine, segue la risposta al quesito iniziale: “è questa norma fondamentale, che costituisce l’unità di una pluralità di norme, poiché è il fondamento di validità di tutte le norme appartenenti a questo ordinamento”35.

7.3.3 La tesi convenzionalista Ciò che caratterizza la posizione normativistica è, come si è detto (sopra, 7.3.1), la risposta alla

domanda: in virtù di che cosa un certo (tipo di) atto o fatto è idoneo, in un sistema giuridico, a produrre norme giuridiche? A questo interrogativo il normativismo risponde: in virtù di una norma giuridica, che lo qualifica come tale. E’ fonte di produzione giuridica ogni tipo di atto o fatto al cui prodursi una norma giuridica riconnette, come sua conseguenza, il venire ad esistenza di una norma giuridica.

(I)

parte. In breve: può accadere sia che norme che in precedenza appartenevano all'insieme cessino di appartenervi, sia che norme che non appartenevano all'insieme comincino ad appartenervi. Ma non è soltanto in questo primo senso, debole, che qualcosa può dirsi dotato di carattere 'dinamico', o di una forma di 'dinamismo'. In un secondo senso, più forte del precedente, qualcosa può dirsi dotato di carattere dinamico se, lungi dall'essere meramente soggetto a mutamento (suscettibile di trasformazione) ad opera di qualcos'altro, è, piuttosto, in grado di operare, o produrre, un proprio mutamento, una propria trasformazione; è in grado, cioè, di trasformare, mutare, se stesso. Ebbene: un insieme normativo del tipo 'sistema giuridico' può dirsi dinamico anche in questo secondo senso: è in grado di trasformare se stesso. In che senso? Semplice: un insieme normativo dinamico non soltanto è oggetto di produzione (e, in questo senso, è soggetto a mutamento), ma, per di più, regola la sua propria produzione: la produzione di norme valide, e la distruzione di norme valide, è un'attività conforme a norme, disciplinata da norme, e le norme dalle quali essa è disciplinata sono, esse stesse, norme appartenenti a tale insieme. In questo senso, un insieme normativo dinamico si trasforma ad opera di se stesso, produce se stesso (si autoproduce): le regole in base alle quali esso si costituisce e, nel corso del tempo, si trasforma, acquisendo nuove norme e perdendone di vecchie, sono esse stesse regole dell'insieme (le norme convalidanti). 34 Cfr. per quanto segue Kelsen 1960, pp. 196-7. 35 Kelsen 1960, p. 197.

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NG2 ----- -------------------------------------- | p >>> NG1 | Dunque, si diceva, che cosa sia diritto è funzione di atti o fatti, e di norme istitutive di fonti di

produzione giuridica. La teoria kelseniana dell’ordinamento giuridico esemplifica, come abbiamo visto, questa idea di

fondo. Ci si potrebbe chiedere, però, se la teoria di Kelsen sia una forma genuina, autentica, di positivismo giuridico - se essa riesca a mantenersi fedele alla tesi dei fatti sociali, o in particolare alla tesi delle fonti sociali. Gli interrogativi rilevanti sono due, e riguardano, rispettivamente, la nozione kelseniana di validità e la teoria della norma fondamentale.

(1) Per Kelsen, come abbiamo visto, validità equivale a forza vincolante; asserire che una norma è valida equivale ad asserire che deve essere osservata. Ciò non rende forse la teoria pura del diritto una forma di positivismo ideologico? Non si tratta forse di una posizione incompatibile con i requisiti del positivismo metodologico (che Kelsen sposa)36.

(2) La teoria kelseniana della norma fondamentale è compatibile con la tesi dei fatti sociali - in particolare, con la tesi delle fonti sociali?

Sembrerebbe di no. Secondo Kelsen, l’intero edificio del diritto poggia su una presupposizione, la presupposizione della norma fondamentale. Ma la presupposizione appare gratuita: la norma fondamentale è, parrebbe, un mero postulato, non dimostrato né dimostrabile. Non solo: ciò che viene presupposto è (la validità di) una norma, non un fatto. La teoria del diritto di Kelsen, dunque, sembra poggiare su un assunto normativo arbitrario. Non è né solidamente fondata, né all’altezza dei requisiti giuspositivisti (la tesi dei fatti sociali, e delle fonti sociali). E’ possibile emendarla?

In termini più generali. Per il normativismo, si è detto, che cosa sia diritto è funzione di atti o fatti, e di norme istitutive di fonti di produzione giuridica. La teoria kelseniana, e le sue apparenti debolezze, ci pongono di fronte a un nuovo interrogativo: è possibile intendere come un fatto sociale l’esistenza di norme istitutive di fonti di produzione giuridica? Da questa possibilità dipende, parrebbe, la possibilità di costruire una teoria giuspositivista - una teoria, cioè, fondata sulla tesi dei fatti sociali (e su quella delle fonti sociali).

Insomma: data la tesi normativistica, la possibilità di ricondurre l'esistenza del diritto (le condizioni di esistenza di fatti giuridici) a un complesso di fatti sociali (secondo quanto richiesto dalla tesi dei fatti sociali, e dalla tesi delle fonti sociali) dipende, in ultima istanza, dalla possibilità di intendere in chiave di fatti sociali l'esistenza di norme giuridiche - e, in particolare, le condizioni di esistenza delle norme dalle quali dipende la validità di tutte le altre norme, e la cui validità non dipende, a sua volta, da norme ulteriori (come la norma fondamentale kelseniana). Possiamo chiamare norme siffatte ‘norme supreme’. E’ possibile intendere come (un complesso di) fatti sociali l’esistenza di norme supreme?

La teoria del diritto di H. L. A. Hart è caratterizzata da una particolare ipotesi di soluzione di questo problema: le norme supreme sono convenzioni, regole convenzionali. Le norme giuridiche sono valide in virtù di norme supreme, e le norme supreme, a loro volta, esistono per convenzione: l’esistenza di una norma suprema è un fatto convenzionale37.

36 Non discuterò qui questo problema. Per una trattazione dettagliata cfr. Celano 1999, cap. 5. 37 Questa tesi sembra rendere giustizia all’idea, apparentemente assai plausibile, che fatti come quelli sui quali ci siamo soffermati sopra, 2.2 - il fatto che un certo tipo di pezzo di carta sia una banconota da dieci euro, che un certo fiume sia la frontiera fra due stati, che i diciottenni siano maggiorenni, ecc. - siano fatti che esistono (non per natura, ma) per convenzione. I fatti giuridici sussistono in virtù di norme giuridiche; le norme giuridiche devono la propria validità a norme supreme; e, infine, le norme supreme sono convenzioni (la loro esistenza è un fatto convenzionale). Il tratto della convenzionalità si trasmette dalle norme supreme alla totalità dei fatti giuridici.

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Chiamerò questa tesi - la tesi che le norme supreme siano convenzioni - ‘Tesi convenzionalista’. La Tesi convenzionalista è una versione particolare della Tesi dei fatti sociali. Esamineremo ora due modi, alternativi, di costruirla.

Torniamo alla tesi normativistica. Si consideri lo schema (II). (II) NS ………………………….. ----- --------------------------- |F3 >>> NG3 | ----- --------------------------- | F2 >>> NG2 | --------------------------------- | F1 >>> NG1 | Lo schema rappresenta la possibilità di iterare i livelli di convalida (o derivazione di validità).

Ma, sembra si possa affermare, non è possibile andare all’infinito. (E’ questo il passo già compiuto sopra, 7.3.2, seguendo Kelsen.) Deve esserci, dunque, una norma suprema (‘NS’). Il problema è: in che cosa consiste l’esistenza di NS? (In che modo, in che senso, una norma suprema esiste come norma giuridica?)

In risposta a questo interrogativo sembra si possano formulare tre ipotesi. Prima ipotesi. NS è una norma di diritto naturale, o un principio morale, un principio etico-

politico sostanziale. Questa ipotesi fornisce una soluzione chiara, netta, semplice, al nostro problema. Ma non è, evidentemente, compatibile, con la tesi dei fatti sociali (né con la tesi delle fonti sociali). Ed è, precisamente, sulla possibilità di costruire una teoria del diritto fondata su quest’ultima - una teoria giuspositivista - che ci stiamo interrogando.

Seconda ipotesi. Si consideri lo schema (III). In questo schema, Nn è ciò che si potrebbe denominare Supernorma (e, correlativamente, Fn si potrebbe denominare Superfonte). . Ciò in virtù di cui Fn è fonte di produzione giuridica è una norma, Nn; ciò in virtù di cui Nn è valida è, precisamente, Fn. Dunque: Fn è idonea a produrre norme giuridiche in virtù di una norma prodotta da Fn medesima: è un fatto che si autoqualifica come fonte di produzione giuridica. Ovvero (il che è lo stesso) Nn è valida perché riconducibile a una fonte che è tale in virtù di Nn medesima: è una norma che si autoconvalida.

(III) .................................... --------------------------- | Fn >>> Nn | ----- ---------------------- | Fn >>> Nn | Questa ipotesi appare fantascientifica38. (Di fatto, è un’ipotesi esclusa sia dalla teoria hartiana, sia

da quella kelseniana.)

38 L’ipotesi è compatibile con una forma di volontarismo giusteologico: la volontà divina come fonte suprema del diritto. (Se la volontà divina è fonte di produzione giuridica, lo è in virtù di se stessa: ‘Io sono il Signore Dio tuo; non avrai altro Dio all’infuori di Me’ è una norma di competenza la cui validità deriva dal suo essere stata emessa da quel medesimo soggetto che essa qualifica come competente a produrre norme; il resto dei comandamenti, a sua volta, deve la propria validità a questa norma - o a questa fonte.) Ma, ancora una volta, questa non è compatibile con la tesi dei fatti sociali.

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Terza ipotesi: la tesi convenzionalista. L’esistenza di NS è un fatto sociale. E’ questa la posizione di Hart. Nella versione hartiana, questa ipotesi si presenta nella forma seguente39: NS (nel lessico di Hart, la “regola di riconoscimento”40) è una regola convenzionale, esiste per convenzione. Che essa esista, vuol dire che è una convenzione dei membri del gruppo sociale. Il fatto che essa esista, cioè, è un fatto simile al fatto che un certo locale sia alla moda, o che si beva il tè alle cinque del pomeriggio. Per Hart, l’esistenza di un ordinamento giuridico è un fenomeno assimilabile, in ultima istanza, al fatto che si vada tutti al pub il sabato sera.

Cerchiamo di precisare. Che cosa significano, qui, ‘convenzione’, ‘regola convenzionale’, ‘fatto convenzionale’41?

Una prima caratterizzazione, approssimativa, è la seguente: fare A è una convenzione (il fatto che tutti facciano A è un fatto convenzionale, la regola che dice di fare A è una regola convenzionale) quando ciascuno dei membri del gruppo sociale fa A perché si aspetta che ciascuno degli altri faccia A, e che lo faccia perché si aspetta che ciascuno degli altri faccia A, perché si aspetta che ciascuno degli altri faccia A, e così via. (Che un certo pub sia alla moda vuol dire che ciascuno ci va perché si aspetta che vi vadano gli altri, per questa stessa ragione: andiamo lì perché ci aspettiamo di trovarci gli altri, e ce lo aspettiamo perché ci aspettiamo che ciascuno degli altri si aspetti di trovarci gli altri, e così via.) Dunque:

ciascuno fa A perché: (1) si aspetta che gli altri facciano A; (2) che gli altri facciano A è, per ciascuno, una ragione per fare A; (3) che le condizioni (1) e (2) siano soddisfatte è conoscenza comune (sopra, 6.1) fra i membri del gruppo.

Perché ciascuno fa A? Perché ciascuno si aspetta che, per ciascuno degli altri, il fatto che gli altri facciano A sia una ragione per fare A. E, che gli altri facciano A è per ciascuno una ragione per fare A. Insomma: la regola R è seguita perché c’è, per ciascuno, una ragione per seguirla: il fatto che gli altri la seguano, per questa ragione medesima.

Questa nozione può essere ulteriormente precisata, in più modi. Ci soffermeremo adesso su uno di essi - diverso da quello hartiano - per poi tornare alla trattazione della teoria di Hart.

7.3.4 Le norme supreme come convenzioni di coordinazione Iniziamo col definire (si tratta, beninteso, di una fra le molte definizioni possibili) la nozione di

razionalità pratica (razionalità nell'azione, o nella scelta; praxis vuol dire, in greco antico, 'azione')42. Un agente che si trovi in una situazione di scelta (che, cioè. si trovi a scegliere fra più linee di azione alternative) ha un insieme di credenze relative al modo in cui stanno le cose (e agli effetti, probabili o certi, delle proprie azioni), e un insieme di desideri (o preferenze), relativi a tali effetti. In una situazione di scelta, più precisamente, un agente (1) ha di fronte a sé un insieme di

39 Hart 1994. 40 La regola di riconoscimento specifica i criteri di identificazione (riconoscimento, per l'appunto) delle regole del gruppo sociale: specifica qualche caratteristica, o insieme di caratteristiche, il possesso delle quali da parte di una data regola è considerato “as a conclusive affirmative indication” del fatto che è una regola del gruppo sociale (Hart 1961, cap. £). 41 Una precisazione. Nella lingua italiana, il campo semantico di «convenzione» è articolato in due ambiti distinti. In una prima accezione, il termine designa un accordo consapevole e deliberato fra una pluralità di soggetti, o il risultato di un accordo siffatto. In una seconda accezione fa invece riferimento all'ambito delle regole sociali, del costume, dei modi consolidati di comportarsi, della tradizione. L’accezione (o famiglia di accezioni) rilevante è, qui, la seconda. 42 Ci siamo già avvalsi di questa nozione (sopra, 6.1).

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azioni o omissioni fattibili (possiamo denominare questo insieme 'insieme delle opzioni', o 'insieme dei comportamenti fattibili'); (2) ha un insieme di credenze, relative alle azioni fattibili, e alle loro conseguenze (ai risultati, cioè, delle proprie azioni); (3) ha certe preferenze (certi desideri comparativi, definiti sull'insieme dei comportamenti fattibili): preferisce certe opzioni rispetto ad altre (i comportamenti fattibili si trovano, cioè, in un certo ordine, in relazione ai desideri di Tizio: Tizio ha, relativamente all'insieme delle opzioni, un certo 'ordinamento di preferenze'). Definiamo 'razionale' un agente che, in una situazione di scelta data, sceglie, sulla base delle proprie credenze, la linea di azione il cui effetto sarà tale da soddisfare, nella maggiore misura possibile, i suoi desideri (sceglie, cioè, la linea di azione che, alla luce delle proprie credenze, appare atta a massimizzare il soddisfacimento dei propri desideri). Un agente razionale è, cioè, un agente che, sulla base del modo in cui egli ritiene stiano le cose, agisce in modo da massimizzare il soddisfacimento delle proprie preferenze.

Non è facile fare scelte razionali. Non lo è, soprattutto, quando, come spesso accade, il risultato delle proprie scelte dipende da scelte altrui - dalle scelte compiute da altri agenti. In casi siffatti, possono sorgere, e sorgono abitualmente, problemi comunemente denominati 'problemi di interazione strategica' (o 'problemi di decisioni interdipendenti', o ancora 'giochi').

Una situazione di interazione strategica43 è una situazione caratterizzata da una "forte interdipendenza di decisioni: per decidere che cosa fare devo anticipare ciò che faranno gli altri, sapendo, però, che anche loro stanno decidendo che cosa fare sulla base di un'anticipazione della mia decisione" (una situazione di questo tipo si contrappone, dunque, a situazioni nelle quali "l'ambiente, ivi incluso il comportamento degli altri, può essere considerato come un dato o, almeno, come dipendente soltanto dal mio comportamento effettivo, e non da anticipazioni a proposito di esso")44. Più precisamente, definisco 'problema di interazione strategica' (o 'problema di decisioni interdipendenti') una situazione di scelta, che coinvolge più agenti, e tale che: (1) il risultato della scelta di ciascun agente dipende da quello che sceglieranno di fare gli altri agenti (e ciascuno degli agenti coinvolti lo sa, sa che ciascuno degli altri agenti coinvolti lo sa, e così via); (2) ciascuno, dunque, deve scegliere che cosa fare sulla base di ciò che egli si aspetta che gli altri sceglieranno di fare, sapendo però che ciascuno degli altri agenti coinvolti si trova nella stessa situazione; (3) ciascuno, dunque, nel tentativo di farsi un'idea di ciò che gli altri faranno, deve farsi un'idea di che cosa gli altri si aspettano che egli faccia, il che a sua volta implica che ciascuno debba farsi un'idea di ciò che gli altri si aspettano che egli si aspetti che loro faranno, e così via: la scelta di ciascuno dipende da quali azioni egli si aspetta che l'altro si aspetti che egli si aspetti che l'altro si aspetti (e così via) che verranno compiute; (4) nella deliberazione, dunque, ciascun agente deve cercare di replicare la deliberazione degli altri agenti, il che a sua volta implica che egli cerchi di replicare il tentativo altrui di replicare la propria deliberazione, il tentativo altrui di replicare il proprio tentativo di replicare la deliberazione altrui, e così via45.

In una situazione di interazione strategica, dunque, la scelta di ciascun agente è intrecciata con le scelte degli altri agenti. L'esito della scelta di ciascuno condiziona, e al tempo stesso è condizionato,

43 Alcuni esempi: una battaglia; l'attraversamento di un incrocio; un calcio di rigore. 44 Elster 1989, p. 55. 45 Si consideri, a titolo di esempio, un calcio di rigore. Da quale lato tirare, verso destra o verso sinistra? Da quale lato Tizio deciderà di tirare dipende da dove egli si aspetta che il portiere si dirigerà (Tizio tirerà verso destra, se si aspetta che il portiere si dirigerà verso sinistra, e viceversa). Il portiere, però si trova nella stessa situazione (andrà a destra, se si aspetta che Tizio tirerà verso destra, a sinistra se si aspetta che Tizio tirerà verso sinistra), e Tizio lo sa. Dunque, Tizio deciderà se tirare verso destra o verso sinistra sulla base di dove egli si aspetta che il portiere si aspetti che lui, Tizio, tirerà (verso destra, se si aspetta che il portiere si aspetti che lui tirerà verso sinistra; verso sinistra, se si aspetta che il portiere si aspetti che tirerà verso destra). Ma il portiere lo sa, e Tizio sa che il portiere lo sa. Dunque, Tizio deciderà se tirare verso destra o verso sinistra sulla base di dove egli si aspetta che il portiere si aspetti che lui, Tizio, si aspetti che il portiere si diriga (verso destra, se egli si aspetta che il portiere si aspetti che egli si aspetti che il portiere si diriga verso sinistra, e viceversa). E così via.

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dall'esito delle scelte altrui; e ciò è, fra gli agenti coinvolti, di pubblico dominio (o, come si suol dire, è 'conoscenza comune' fra loro)46.

I problemi di interazione strategica costituiscono l'oggetto di una particolare disciplina, oggi assai in auge, denominata 'teoria dei giochi'. La teoria dei giochi è una teoria matematica, della quale fanno largo uso gli economisti, i biologi, i sociologi e gli studiosi di filosofia e teoria politica contemporanei. Naturalmente, non è qui possibile, né sarebbe necessario, entrare nel merito delle indagini, estremamente sofisticate, sviluppate nell'ambito della teoria dei giochi. Ma è possibile sfruttare in modo informale e intuitivo alcune delle acquisizioni della teoria, allo scopo di formulare un particolare ipotesi di risposta alla nostra domanda ('Che cosa è una convenzione?').

Definiamo un tipo particolare di problema di interazione strategica, i 'problemi di coordinazione'. Un problema di coordinazione è grosso modo una situazione di interazione strategica nella quale "più agenti cercano di conseguire una uniformità di azione facendo, ciascuno di loro, qualsiasi cosa facciano gli altri"47. Un esempio può essere d'aiuto.

Supponiamo che due (o più) individui si trovino nella situazione seguente: (1) ciascuno dei due desidera incontrare l'altro; (2) ci sono due luoghi (e due soltanto), L1 e L2, in cui è possibile che i due si incontrino; (3) per ciascuno dei due è indifferente se recarsi in L1 o in L2, purché, ovunque decida di andare, incontri l'altro; (4) ciascuno dei due sa che le condizioni (1) - (4) sono soddisfatte48. La matrice che segue illustra il problema appena descritto49:

46 Che ciascuno degli agenti coinvolti sappia che l'esito della propria scelta dipende dalla scelta altrui, sappia che anche gli altri lo sanno, ecc., è di importanza cruciale. La nozione di problema di interazione strategica comprende, come suo elemento costitutivo, la nozione di conoscenza comune (già introdotta sopra, 6.1), così definita:

(Df.) il fatto che p è conoscenza comune fra i membri di un gruppo G se e solo se ciascuno dei membri di G: (1) sa che p; (2) sa che ciascuno dei membri di G sa che p; (3) sa che ciascuno dei membri di G sa che ciascuno dei membri di G sa che p, e così via all'infinito.

47 Lewis 1969, p. 12. Cfr. per una formulazione più precisa ivi, p. 24: i 'problemi di coordinazione' sono "situations of interdependent decision by two or more agents in which coincidence of interests predominates, and there are two or more proper coordination equilibria". 48 Un altro esempio: il problema se tenere la destra o la sinistra nella guida (in un mondo ipotetico, nel quale non sia in vigore alcuna regolamentazione di carattere giuridico, sostenuta da sanzioni, che impone l'una o l'altra linea di condotta): per ciascun automobilista è indifferente se tenere la destra oppure la sinistra; ciò che gli interessa è tenere la destra se tutti gli altri tengono la destra, o la sinistra se tutti gli altri tengono la sinistra. 49 'A' e 'B' sono le azioni disponibili ai due agenti coinvolti (ad es., 'recarsi in L1' e 'recarsi in L2'); Tizio deve scegliere una delle due colonne verticali, Caio una delle due righe orizzontali. Ciascun riquadro corrisponde a una coppia di azioni, scelte rispettivamente da Tizio e Caio (una coppia di strategie); in ciascun riquadro, il numero in alto a destra rappresenta il ricavo di Tizio, il numero in basso a sinistra il ricavo di Caio (quando scelgono la coppia di strategie corrispondente al riquadro medesimo).

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Tizio | A | B | | | | ------------------------------------ | 1 | 0 | A | | | | | | | 1 | 0 | Caio ------------------------------------ | 0 | 1 | B | | | | | | | 0 | 1 | ------------------------------------

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Ciascuno degli agenti coinvolti deve decidere se fare A (recarsi in L1) o fare B (recarsi in L2). Un 'equilibrio di coordinazione' è un insieme di strategie che costituisce la soluzione di un problema di coordinazione (precisamente: un insieme di strategie tale che nessuno degli agenti, date le scelte altrui, avrebbe potuto fare meglio scegliendo una strategia diversa). Nel nostro esempio, sono equilibri di coordinazione le due coppie di strategie [A, A] (cioè: entrambi si recano in L1) e [B, B] (entrambi si recano in L2).

Si noti: in una situazione di questo tipo, nessuno degli agenti coinvolti è esposto alla tentazione di sfruttare l'impegno altrui nella coordinazione, astenendosi dal cooperare e lasciando che siano gli altri a farlo (nessuno dei due ha interesse a che l'altro si rechi in L1, per poter poi andare in L2, o viceversa). Ciascuno preferisce, se gli altri optano per una certa linea d'azione congiunta, prendere anch'egli parte all'azione congiunta (impegnarsi, cioè, nella partecipazione all'attività coordinata); e ciò costituisce conoscenza comune fra gli agenti coinvolti. In altri termini: fra gli agenti coinvolti sussiste una piena coincidenza di interessi (e gli agenti medesimi lo sanno, sanno che lo sanno, ecc.); il problema (reciprocamente noto) non è: 'Partecipare o no?', ma: 'In che modo possiamo coordinare le nostre azioni?'. Nel caso di un problema di questo tipo, dunque, la coordinazione diviene problematica non perché gli agenti coinvolti siano egoisti, o disposti a sfruttare l'impegno altrui, ma perché vi sono due o più soluzioni possibili del problema medesimo (due o più equilibri di coordinazione), e ciò costituisce conoscenza comune fra gli agenti coinvolti.

E' possibile risolvere un problema di coordinazione? E' possibile, cioè, che due o più agenti coinvolti in un problema del tipo in esame convergano, grazie a una scelta razionale, consapevole e deliberata (non, dunque, casualmente), su un equilibrio di coordinazione? E, se sì, in che modo?

Supponiamo che gli individui coinvolti siano in grado di comunicare gli uni con gli altri. In questo caso, il problema sarà facilmente risolto: basterà che i due si mettano d'accordo sul luogo nel quale incontrarsi50.

Supponiamo, però, che i due non possano comunicare. In questo caso, risolvere il problema sarà più difficile. Infatti: (1) Tizio preferisce andare dove si aspetta che vada Caio; (2) dunque, per decidere dove andare, se in L1 o in L2, deve farsi un'idea di dove deciderà di andare Caio; (3) ma Caio si trova nella stessa situazione, e Tizio lo sa; (4) dunque, per decidere dove andare Tizio deve farsi un'idea di che cosa Caio si aspetta che lui, Tizio, deciderà di fare; (5) ma Tizio, per l'appunto, preferisce andare dove si aspetta che vada Caio, Caio lo sa, e Tizio sa che Caio lo sa; (6) dunque, per decidere dove andare Tizio deve farsi un'idea di che cosa Caio si aspetta che lui, Tizio, si aspetta che Caio deciderà di fare... E così via all'infinito51. Quando la comunicazione non è possibile, o non è agevole, o non si è sicuri della sua buona riuscita, la soluzione di un problema di coordinazione non è facile, e non è detto che sia possibile. (Si noti: la difficoltà di risoluzione non deriva - non necessariamente - da scarsa intelligenza. Al contrario: quando le condizioni specificate sono soddisfatte, saranno proprio agenti razionali a correre il rischio di restare paralizzati.)

Quando la comunicazione è preclusa, dunque, la coordinazione è difficile. Se Tizio e Caio non possono comunicare, non sapranno come fare a incontrarsi. Ma supponiamo che vi sia un precedente: Tizio e Caio, si sono incontrati. la volta precedente, in L1 (o in L2, non importa): oppure che vi sia una prassi consolidata, una regolarità di azione - ad es., la prassi secondo la quale, quando sussiste un'incertezza, ci si incontrerà nel luogo in cui ci si è incontrati la volta precedente (oppure, nel luogo più vicino alla casa di chi fa parte del gruppo da più tempo; o, più

50 Si noti: 'mettersi d'accordo', in una situazione di questo tipo, significa, banalmente, dirsi che ci si incontrerà in un certo luogo piuttosto che in un altro. In ipotesi, infatti, nessuno dei due ha interesse a raggirare l'altro, facendogli credere che andrà in L1 per poi recarsi, invece, in L2, o viceversa (e ciò è conoscenza comune fra loro). 51 Un altro esempio: una variante del gioco 'calcio di rigore', nella quale, a differenza da quanto accade in un'ordinaria partita di calcio, colui che calcia la palla e il portiere vincono entrambi, se il portiere riesce a parare il tiro; perdono entrambi, se la palla va in rete. Nell'ipotesi che sia loro possibile comunicare, i due potranno facilmente coordinare le proprie azioni ('Tirerò a destra'; 'OK'). Ma, nell'ipotesi che sia loro impossibile comunicare, i due si troveranno di fronte a un problema altrettanto spinoso quanto quello presentato da un calcio di rigore 'normale'.

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semplicemente, una prassi secondo la quale, nelle circostanze rilevanti, ci si incontra in L1, o - è indifferente - in L2), e che ciò sia conoscenza comune52. Grazie al precedente, o all'esistenza della regolarità - purché essa sia conoscenza comune fra loro - Tizio e Caio sapranno dove incontrarsi: si cristallizzerà ('precipiterà'), fra loro, un sistema di aspettative reciproche complementari (concordanti), di più livelli (aspettative sul comportamento altrui, sulle aspettative altrui, sulle aspettative altrui circa le proprie aspettative, e così via), tale da identificare un particolare equilibrio di coordinazione (una particolare coppia di strategie) come l'equilibrio da scegliere. Dunque: può accadere che precedenti, o prassi consolidate, svolgano il ruolo di fattori che consentono, ad agenti razionali, di risolvere problemi di coordinazione. L'esistenza del precedente, o della regolarità (quando sia conoscenza comune fra i membri del gruppo) consente a ciascuno degli individui coinvolti di formarsi delle aspettative riguardo al comportamento altrui (per questa ragione medesima). La regola rende infatti saliente, percepibile a tutti (mette sotto gli occhi di tutti), uno fra i diversi equilibri di coordinazione possibili. E ciò, nella misura in cui è conoscenza comune, giustifica l'aspettativa, da parte di ciascuno, che, quando si presenteranno le circostanze rilevanti, gli altri faranno la propria parte in quel particolare equilibrio (piuttosto che in uno qualsiasi degli altri equilibri disponibili), l'aspettativa che gli altri si aspettino che ciascuno farà la propria parte in quell'equilibrio, ecc.; per questa ragione, ciascuno fa la propria parte in quell'equilibrio (confermando, così, l'aspettativa). L’aspettativa di conformità genera conformità. la conformità genera aspettativa di conformità.

Ebbene: definiamo ‘convenzioni’ prassi ricorrenti, regolarità di condotta, che sorgono, e si perpetuano, perché costituiscono la soluzione di problemi di coordinazione ricorrenti53. In questa accezione, una convenzione è una regolarità di comportamento sostenuta da un insieme di aspettative reciproche di condotta (di livello crescente), e di preferenze condizionali di conformità, reciprocamente note, tale da far sì che, una volta instauratasi, la regolarità in questione si perpetui da sé.

La regola di riconoscimento, afferma Hart, è accettata dai membri del gruppo sociale - in particolare, dai funzionari54 - come uno standard comune, e pubblico, di valutazione del comportamento ufficiale (il comportamento degli organi pubblici)55. Quale migliore spiegazione della sua natura che intenderla come una convenzione, nell’accezione appena definita56?

Questa ipotesi va, però, incontro a una serie di difficoltà. Mi limito a elencarne due57. (1) I problemi di coordinazione sono un tipo particolare di problemi di interazione strategica,

definiti da una particolare struttura di preferenze, credenze, e opzioni. Si differenziano sia da altri tipi di problemi di interazione suscettibili di formalizzazione nei termini della teoria dei giochi, sia da problemi di interazione che si sottraggono a una formalizzazione nei termini della teoria dei giochi. Non v’è alcuna ragione di ritenere che i funzionari (in ipotesi, i soggetti della regola di riconoscimento) si trovino necessariamente, o sempre, di fronte a un problema di coordinazione (o un problema affine), e non (anche) a problemi di altro tipo. Insomma: non si vede perché mai si debba assumere che coordinare il proprio comportamento reciproco sia il problema di interazione basilare, o esclusivo, che i funzionari si trovano ad affrontare.

(2) Un’importante proprietà delle convenzioni, nell’accezione appena definita, è la loro arbitrarietà. Una convenzione avrebbe potuto essere diversa, senza conseguenze significative (relativamente al problema del quale costituisce, in ipotesi, la soluzione). Ossia, una regolarità è una

52 Ovvero, la prassi di guidare tenendo la destra (o la sinistra). 53 Lewis 1969. 54 Una precisazione: per Hart, condizione sufficiente di esistenza di un sistema giuridico è che i funzionari - in particolare, i giudici - utilizzino la regola di riconoscimento al fine di identificare le norme appartenenti al sistema; l’atteggiamento degli altri membri del gruppo non è decisivo. Ai nostri fini, questa complicazione è irrilevante. 55 Hart 1961, trad. it., pp. 137-8. 56 Postema 1982, pp. 166, 194, 198; Lagerspetz 1995, p. 156; Coleman 1998, pp. 117-20. 57 Per una disamina dettagliata di queste e altre difficoltà cfr. Celano 2003, par. 2.

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convenzione quando i partecipanti preferiscono, sopra ogni altra cosa, che vi sia uniformità di condotta (ciascuno è disposto a conformarsi, purché lo facciano gli altri), e per ciascuno è relativamente indifferente. a fronte di questa preferenza dominante, su quale delle diverse alternative possibili il gruppo si trovi a convergere. L’idea che la regola di riconoscimento sia, in questo senso, arbitraria appare balzana - quasi risibile. La regola di riconoscimento specifica i criteri di identificazione di ciò che costituisce diritto valido. Questa non è una questione assimilabile alla decisione se tenere la destra, o la sinistra, nella guida (un paradigma di problema di coordinazione). La regola di riconoscimento è il risultato di conflitti politici, istituzionali, ideologici; di rivoluzioni e colpi di stato, lotte per la conquista del potere legittimo, e per l’idea stessa di legittimità. Che certi criteri di validità siano effettivamente accettati e utilizzati è un fatto storico. Il problema delle condizioni di esistenza della regola di riconoscimento è il problema delle cause, e delle ragioni, che spiegano il venire ad esistenza di questo fatto. Si tratta di un fatto che, dal punto di vista etico-politico, chiama in causa valori e principi confliggenti, opzioni ideologiche controverse, scelte tragiche. Non è plausibile l’ipotesi che, agli occhi degli individui interessati (siano essi i funzionari, o laici), si tratti di un che di arbitrario (nel senso specificato). Né, da un punto di vista etico-politico, sarebbe ragionevole ritenere che lo sia.

7.3.5 La regola di riconoscimento come regola sociale (H. L. A. Hart) La nozione di convenzione definita nel paragrafo precedente non è, come si è accennato, la

nozione hartiana. Per comprendere in che senso la regola di riconoscimento sia, secondo Hart, una regola convenzionale occorre compiere due passi. La regola di riconoscimento è anzitutto, sostiene Hart, una regola sociale. Il primo passo consisterà dunque nella ricostruzione della nozione hartiana di regola sociale. La regola di riconoscimento è, in secondo luogo, una regola sociale convenzionale. Il secondo passo consisterà nella chiarificazione di questo tratto ulteriore.

In che senso va intesa l'affermazione secondo la quale, presso un certo gruppo sociale, 'esiste' una

certa regola di condotta, 'ci sono' regole? Che genere di fatto è il fatto che, presso un certo gruppo sociale, esiste una certa regola di condotta? Come definire, cioè, la nozione di 'esistenza di una regola sociale'? Quali condizioni devono essere soddisfatte affinché si possa affermare che esiste, presso un certo gruppo sociale, la regola secondo la quale in situazioni di un certo tipo ci si deve comportare in un certo modo? (Quali sono le condizioni di verità di un asserto della forma: 'Presso il gruppo sociale G, esiste la regola di condotta R'?)

Il fulcro della risposta hartiana a questo interrogativo consiste nel tracciare una netta distinzione fra un'abitudine sociale, da un lato, e l'esistenza di una regola sociale, d'altro lato (fra abitudini e regole). Vediamo in che modo procede, precisamente, Hart.

Consideriamo il caso di semplici regole obbligatorie: regole che impongono l'obbligo di comportarsi in un certo modo. Qual è il significato di asserti della forma: 'Presso il gruppo sociale G, esiste la regola' - di un qualsiasi asserto, cioè, che affermi l'esistenza di una regola sociale di questo tipo? Hart passa in rassegna due ipotesi di risposta a questa domanda, scartandole entrambe.

(1) Prima ipotesi58. Stando a questa prima ipotesi, un asserto della forma 'La regola R esiste' significa: un gruppo di persone, o la maggior parte di esse, "si comportano 'di regola' ['normalmente', 'di norma', 'regolarmente'] - ossia: generalmente - in un particolare modo in certi tipi di circostanze" (sussiste una certa "convergenza tra i comportamenti dei membri di un gruppo sociale"). In breve:

58 Seguo qui Hart 1961], pp. 9-10, trad. it. pp. 13-4, da cui sono desunte le citazioni.

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(Df.1) Dato un gruppo sociale G, un certo tipo di azione A, e un certo tipo di situazione ricorrente S, esiste una regola (una regola obbligatoria) in G se e solo se: (1) i membri di G (o la maggior parte di essi59) fanno (regolarmente) A in (ogni istanza di) S.

Questa prima ipotesi va rifiutata. Può benissimo accadere, infatti, che sussista una convergenza

di comportamento fra i membri del gruppo, e che non vi sia alcuna regola che richiede il tipo di comportamento in questione. Altro è dire che un certo tipo di comportamento è, presso i membri del gruppo, normale (che esso costituisce, presso gli individui in questione, una regolarità di condotta: 'di regola', si comportano così e così), altro dire che esso è richiesto da una norma (che vi è una regola che lo richiede). Ciò che è normale non è, come tale (semplicemente perché, e in quanto, normale), normativamente richiesto (non necessariamente il normale ha anche carattere normativo). In particolare: una semplice convergenza nel comportamento dei membri di un gruppo sociale può essere affatto casuale. Affinché si possa affermare che sussiste una regola sociale relativa al tipo di comportamento rilevante, di contro, è necessario che la convergenza nei comportamenti non sia meramente casuale: che vi sia, fra le diverse azioni individuali convergenti, una connessione (da specificare). Quando esiste una regola sociale, insomma, non è un caso che tutti si comportino allo stesso modo (esiste una regola sociale, che impone un certo tipo di comportamento, solo se non è casuale che tutti tengano il tipo di comportamento in questione).

Una mera convergenza nel comportamento e l'esistenza di una regola sociale sono dunque, afferma Hart, due situazioni sociali di tipo diverso. E questa differenza. prosegue Hart, si mostra anche linguisticamente. Nel descrivere la seconda situazione possiamo, sebbene ciò non sia necessario, fare uso di particolari termini, particolari espressioni, che sarebbero fuorvianti se intendessimo soltanto asserire la sussistenza della prima: termini come ad es. 'si deve', 'bisogna', 'è obbligatorio', 'giusto', 'sbagliato', 'corretto', 'scorretto' - termini, insomma, che "hanno una certa funzione comune nell'indicare la presenza di una regola che richiede una certa condotta" (i termini indicati sono spesso un "segno" dell'esistenza di una regola: sopra, 6.2.3). Denominiamo 'abitudine sociale' una mera convergenza di comportamento fra i membri di un determinato gruppo. Qual è, dunque, la differenza fra l'esistenza di un'abitudine sociale, da un lato, e l'esistenza di una regola, d'altro lato?

(2) Seconda ipotesi60. Nel caso delle regole, osserva Hart, "si è molto spesso ritenuto che la differenza essenziale (l'elemento di 'dovere' o di 'obbligo') consiste nel fatto che le deviazioni da certi tipi di comportamento incorreranno, probabilmente, in una reazione ostile, e nel caso delle regole giuridiche saranno punite dai funzionari". Ciò suggerisce un'ipotesi di risposta al nostro interrogativo (quale sia la differenza fra esistenza di una regola sociale, da un lato, e una mera abitudine sociale, d'altro lato), che identifica, a sua volta, una seconda ipotesi di definizione della nozione di esistenza di una regola sociale. Stando a questa seconda ipotesi, dire che la regola R esiste significa dire che: (a) gli appartenenti a un gruppo sociale, o la maggior parte di essi, 'di regola' - generalmente - si comportano in un certo modo in certe situazioni; (b) chi devia, probabilmente, verrà punito, o comunque subirà una reazione ostile da parte degli altri membri del gruppo; è, cioè, prevedibile che colui che non si comporta in quel certo modo subirà una reazione ostile (questa seconda ipotesi configura, si suole dire, una "analisi predittiva" dell'esistenza di regole sociali, analoga all’analisi predittiva della nozione di obbligo; sopra, 7.2.3). In breve:

(Df.2) Dato un gruppo sociale G, un certo tipo di azione A, e un certo tipo di situazione ricorrente S, esiste una regola (una regola obbligatoria) in G se e solo se: (1) i membri di G fanno (regolarmente) A in (ogni istanza di) S;

59 D'ora in avanti, questa precisazione resterà sottintesa. 60 Seguo qui Hart 1961, pp. 10-1, trad. it. pp. 14-5, da cui sono desunte le citazioni.

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(2) è probabile che, se uno dei membri di G non fa A in S, egli subisca una reazione ostile da parte dei membri di G.

Anche questa ipotesi va, secondo Hart, rifiutata. Hart non nega che, là dove vi sono regole

sociali, siano prevedibili reazioni ostili in caso di non conformità. Ma, sostiene, questa seconda ipotesi di definizione - l'analisi predittiva delle regole - tralascia qualcosa di essenziale: non tiene conto di un aspetto particolarmente importante del fenomeno 'esistenza di una regola sociale' - l'elemento, precisamente, che spiega perché mai, là dove vi sono regole, sono probabili (è, cioè, fondata la previsione di) reazioni ostili in caso di non conformità . Scrive Hart:

"se si osserva attentamente l'attività del giudice o del funzionario che punisce le deviazioni dalle regole giuridiche (o di quei privati che rimproverano o criticano le deviazioni da regole non giuridiche), si vede che le regole sono coinvolte, in tale attività, in un modo che l'analisi predittiva non spiega affatto. Infatti il giudice, nel punire, assume la regola come la propria guida, e la violazione della regola come la propria ragione, o giustificazione, per la punizione del reo. Il giudice non considera la regola come un'asserzione del fatto che, probabilmente, egli stesso, o altri, puniranno le violazioni (sebbene uno spettatore possa, in effetti, considerare la regola precisamente in questo modo). L'aspetto predittivo della regola (per quanto reale) è irrilevante ai suoi fini, mentre la sua qualità di guida e giustificazione è essenziale. La stessa cosa è vera nel caso dei rimproveri informali in occasione della violazione di regole non giuridiche. Anche questi non sono soltanto reazioni prevedibili alle deviazioni, ma sono qualcosa che è guidato dall'esistenza della regola, e che si ritiene l'esistenza della regola giustifichi. Così, diciamo che rimproveriamo o puniamo una persona perché ha violato la regola; e non soltanto che era probabile che l'avremmo rimproverata o punita".

In altri termini: per i membri del gruppo (ovvero, dal loro punto di vista - stando al modo in cui

loro vedono le cose) l'esistenza della regola (il fatto che vi sia una regola) non è - non soltanto, e sopratutto non primariamente - un elemento che consenta loro di formulare una previsione (una previsione intorno al proprio comportamento futuro): di prevedere che i membri del gruppo (essi stessi, cioè) reagiranno ostilmente, in caso di deviazione, nei confronti dei violatori. Per loro, piuttosto, il fatto che la regola esista (l'esistenza della regola) è ciò che giustifica tali reazioni: che la regola esista è, ai loro occhi, una buona ragione per assumere, in caso di deviazione, un atteggiamento ostile nei confronti dei violatori. Ed è precisamente questo ciò che spiega il fatto che, là dove esiste una regola sociale, siano prevedibili, in caso di violazione, reazioni ostili nei confronti dei violatori.

In che cosa, dunque, un'abitudine sociale differisce da una regola? Ecco la risposta di Hart61. Fra abitudini e regole sussiste, in primo luogo, una stretta affinità: in entrambi i casi, scrive Hart,

il tipo di comportamento rilevante deve essere generale (deve essere ripetuto ogni qual volta se ne presenta l'occasione – ricorrono le circostanze specificate- dalla maggior parte dei membri del gruppo: 'They do it as a rule'). Vi sono, però, differenze.

Un gruppo ha un'abitudine se e solo se il comportamento degli appartenenti a tale gruppo "di fatto, converge". Un gruppo ha una regola (esiste una regola) che richiede un certo comportamento, di contro, se e solo se (1) il comportamento degli appartenenti a tale gruppo di fatto converge; (2) le deviazioni sono generalmente considerate "come errori o colpe, oggetto appropriato di critica"; (3) le deviazioni minacciate si scontrano con una certa "pressione in favore della conformità".

Quando queste tre condizioni sono soddisfatte, prosegue Hart, è soddisfatto un ulteriore insieme di condizioni. Precisamente: (4) in caso di deviazione, non soltanto viene di fatto avanzata una

61 Seguo qui Hart 1961, pp. 54-6, trad. it. pp. 67-70, da cui sono desunte le citazioni.

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critica, ma, scrive Hart, la deviazione è "generalmente accettata" - considerata, rappresentata, concepita - "come una buona ragione per la critica": la critica è ritenuta "legittima, o giustificata"; (5) quando sono minacciate deviazioni, vengono avanzate "richieste di conformità" - tali richieste, non soltanto vengono di fatto avanzate, ma sono anch'esse ritenute legittime, o giustificate; (6) critiche e richieste di conformità sono ritenute legittime, o giustificate, sia da parte di coloro che le avanzano, sia da parte di coloro cui sono rivolte (eccezion fatta per una minoranza di trasgressori incalliti). In breve:

(Df.3) Dato un gruppo sociale G, un certo tipo di azione A, e un certo tipo di situazione ricorrente S, esiste una regola (una regola obbligatoria) in G se e solo se: (1) i membri di G fanno (regolarmente) A in (ogni istanza di) S; (2) il non fare A in (almeno un'istanza di) S da parte di uno dei membri di G è considerato, da parte dei membri di G, come un errore (lapse) o una colpa (fault) (in generale: una manchevolezza), oggetto appropriato di critica; (3) quando uno dei membri di G non fa A in (almeno un'istanza di) S, o appare probabile che egli non farà A in (almeno un'istanza di) S, i membri di G esercitano su di lui una pressione affinché faccia A in S. (4) quando uno dei membri di G non fa A in (almeno un'istanza di) S, i membri di G avanzano una critica contro di lui, e considerano il fatto che egli non abbia fatto A in S come una buona ragione per tale critica (la critica è da essi ritenuta legittima, o giustificata); (5) quando appare probabile che uno dei membri di G non farà A in (almeno un'istanza di) S, i membri di G avanzano richieste di conformità; tali richieste sono da essi ritenute legittime, o giustificate; (6) critiche e richieste di conformità sono ritenute legittime, o giustificate, sia da parte dei membri di G che le avanzano, sia da parte dei membri di G cui esse sono rivolte (eccezion fatta per una minoranza di trasgressori incalliti).

Quanto si è detto sinora può essere riformulato nel modo seguente. Abitudini e regole sociali

hanno, entrambe, un "aspetto esterno": una regolarità di comportamento osservabile ("il comportamento regolare, uniforme, che un osservatore potrebbe registrare"; la condizione (1) in (Df.3)). Ma, a differenza da un'abitudine, una regola sociale ha anche, scrive Hart, un "aspetto interno", nel senso seguente.

La generalità di un'abitudine è "un fatto relativo al comportamento osservabile della maggior parte dei membri del gruppo": è sufficiente, affinché sussista un'abitudine sociale, che ciascuno, da parte sua, si comporti allo stesso modo degli altri (la convergenza nel comportamento può essere, come si è detto, del tutto casuale). Affinché esista una regola sociale, di contro, è necessario, in più, che i membri del gruppo prendano in considerazione, rappresentino a se stessi, il comportamento generale, che essi sappiano che il comportamento in questione è generale, e che si sforzino di insegnarlo e intendano mantenerlo. Insomma: "è necessario che almeno alcuni considerino il comportamento in questione come uno standard generale di condotta che il gruppo nel suo complesso deve seguire". E' necessario, più precisamente, (1) che essi prendano in considerazione (si rappresentino) un certo tipo di comportamento come, per l'appunto, un tipo, in astratto (un che di generale, suscettibile di una pluralità di istanze concrete) - che, in questo senso, essi assumano un atteggiamento 'riflessivo' nei confronti del comportamento in questione62. (A differenza, ad es., da quanto accade nel caso di api o formiche; questi animali seguono delle regolarità di condotta, ma in modo irriflesso: non si rappresentano il comportamento da essi seguito come un tipo, in astratto.) E (2) che assumano, nei confronti del tipo di comportamento in questione, un atteggiamento di

62 Cfr. MacCormick 1981, p. 33.

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giudizio: che lo giudichino un tipo di comportamento da seguire, al quale attenersi (un atteggiamento, in senso lato, 'critico'; krisis significa, in greco antico, 'giudizio').

Alcune considerazioni relative alla partecipazione a un gioco (ad es., gli scacchi) possono illustrare questo punto. I giocatori di scacchi, osserva Hart, non hanno soltanto l'abitudine di muovere la regina in un certo modo. Hanno un certo atteggiamento verso il loro modo di muovere la regina - hanno, in effetti, "un atteggiamento riflessivo, e critico, nei confronti di questo tipo di comportamento: lo considerano come uno standard per tutti coloro che giocano a scacchi". Ciascuno non soltanto, di fatto, muove la regina in un certo modo, ma "ha delle idee" riguardo alla correttezza di questo modo di muovere la regina. Queste idee "si manifestano in critiche e richieste di conformità nei confronti degli altri", e nel "riconoscimento della legittimità di tali critiche e richieste quando sono rivolte contro di loro". Per l'espressione di simili critiche, richieste, e del riconoscimento della loro legittimità, si usa abitualmente, prosegue Hart, "un ampio spettro di linguaggio 'normativo'" - un'ampia gamma di termini ed espressioni di carattere normativo: 'si deve', 'non avrebbe dovuto', 'è sbagliato', 'è corretto', ecc. Insomma:

(Df.3') Dato un gruppo sociale G, un certo tipo di azione A, e un certo tipo di situazione ricorrente S, esiste una regola (una regola obbligatoria) in G se e solo se: (1) i membri di G fanno (regolarmente) A in (ogni istanza di) S; (2) il non fare A in (almeno un'istanza di) S da parte di uno dei membri di G è considerato, da parte dei membri di G, come un errore (lapse) o una colpa (fault) (in generale: una manchevolezza), oggetto appropriato di critica; (3) quando uno dei membri di G non fa A in (almeno un'istanza di) S, o appare probabile che egli non farà A in (almeno un'istanza di) S, i membri di G esercitano su di lui una pressione affinché faccia A in S. (4) quando uno dei membri di G non fa A in (almeno un'istanza di) S, i membri di G avanzano una critica contro di lui, e considerano il fatto che egli non abbia fatto A in S come una buona ragione per tale critica (la critica è da essi ritenuta legittima, o giustificata); (5) quando appare probabile che uno dei membri di G non farà A in (almeno un'istanza di) S, i membri di G avanzano richieste di conformità; tali richieste sono da essi ritenute legittime, o giustificate; (6) critiche e richieste di conformità sono ritenute legittime, o giustificate, sia da parte dei membri di G che le avanzano, sia da parte dei membri di G cui esse sono rivolte (eccezion fatta per una minoranza di trasgressori incalliti). (7) il fare A in S è considerato da parte di membri di G come uno standard (un modello) di comportamento che deve essere seguito da parte dei membri di G (ossia: i membri di G hanno un atteggiamento riflessivo e critico nei confronti dello schema di comportamento: fare A in S); (8) questo atteggiamento riflessivo e critico trova espressione nella formulazione, da parte dei membri di G, di critiche e richieste di conformità nei confronti dei membri di G (e nel ritenere tali critiche e richieste legittime, o giustificate - anche quando sono rivolte contro di noi; sopra, condizioni (2) – (6)); tali critiche e richieste sono formulate, tipicamente, mediante l'uso di termini ed espressioni appartenenti al vocabolario normativo ('si deve', 'non avrebbe dovuto', 'è sbagliato', 'è corretto', ecc.).

In breve: la condizione necessaria ai fini dell'esistenza di una regola è che vi sia, da parte dei

membri del gruppo, un "atteggiamento critico-riflessivo nei confronti di certi tipi di comportamento, considerati come uno standard comune". Questo atteggiamento si manifesta nella (auto)critica, in richieste di conformità, e nel riconoscimento che critiche e richieste sono legittime, giustificate. E'

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questo atteggiamento, cioè, l'elemento che spiega il prodursi di critiche e richieste di conformità, e la convinzione che esse siano legittime, giustificate - l'elemento, dunque, che spiega perché mai (era questa, si ricorderà, l'intuizione sulla quale fa leva la seconda ipotesi di definizione) là dove vi sono regole sociali, siano prevedibili reazioni ostili, da parte dei membri del gruppo, nei confronti dei violatori. Critiche, richieste di conformità, e il riconoscimento della loro legittimità hanno la loro espressione caratteristica nell'uso del vocabolario normativo ('si deve' 'giusto', 'sbagliato', ecc.).

Sin qui l’analisi hartiana della nozione di esistenza di una regola sociale. La regola di

riconoscimento è, secondo Hart, una regola sociale, nel senso appena definito. (1) Aspetto esterno, Una regola sociale esistente presso un certo gruppo di individui ha, come

abbiamo visto, un aspetto esterno: una regolarità di comportamento osservabile. Qual è, nel caso della regola di riconoscimento, l'aspetto esterno?

L'esistenza di una regola di riconoscimento, che specifica i criteri dei quali avvalersi ai fini dell'identificazione di una regola come una regola del gruppo, è manifesta nella pratica generale consistente nell'identificare le regole del gruppo mediante tali criteri63. Abitualmente, la regola non è formulata espressamente; che essa 'vi sia', 'esista', è qualcosa che 'si mostra' nella pratica convergente (ovvero, l'uso concorde dei criteri rilevanti da parte) dei funzionari e dei cittadini (ossia, nel modo in cui regole particolari vengono identificate, da parte di funzionari o semplici cittadini)64. Scrive Hart:

“la regola di riconoscimento esiste solo come una pratica complessa, ma, normalmente, concordante, dei tribunali, dei funzionari, e dei privati, nell’identificare il diritto mediante certi criteri. La sua esistenza è una questione di fatto” 65.

(2) Punto di vista interno. L'uso di regole di riconoscimento nell'identificazione di regole

particolari è caratteristico del punto di vista interno; coloro che fanno uso, in questo modo, di simili regole, con ciò manifestano la loro accettazione di esse come guiding rules (come guide della propria condotta).

La regola di riconoscimento è, dunque, una regola sociale. Non solo: si tratta, prosegue Hart, di una regola sociale convenzionale. Qual è il senso di questa ulteriore qualificazione?

Ciò che fa di una regola sociale una regola convenzionale (nell’accezione hartiana) è il suo soddisfare un’ulteriore condizione, la c.d. ‘condizione di dipendenza’66: la condizione che ciascuno dei membri del gruppo si conformi perché lo fanno gli altri. Nel caso di una convenzione, il fatto che gli altri si conformino è, per ciascuno, una delle ragioni (o una delle ragioni principali, o ‘parte della ragione’) per conformarsi. In altri termini, sussiste una convenzione, R, quando ciascuno dei membri del gruppo si conforma a R perché così fanno gli altri: il fatto che gli altri si conformano a R è, per ciascuno, una ragione (o una delle ragioni principali, ecc.) per conformarvisi67.

E’ precisamente in questo modo che Hart intende la nozione di convenzione, e caratterizza la regola di riconoscimento come una regola convenzionale68. Si tratta di un’ipotesi plausibile?

Anche questo modo di intendere la tesi convenzionalista (la tesi che l’esistenza di norme supreme sia una questione di convenzione) è esposto a obiezioni. In particolare, si potrebbe

63 Hart 1961, p. 98. 64 Hart 1961, p. 98. 65 Hart 1961, p. 107. 66 Sulla condizione di dipendenza e le sue diverse possibili specificazioni cfr. Celano 1995, pp. 45-57. 67 Una convenzione di coordinazione (sopra, 7.3.4) soddisfa la condizione di dipendenza; è, cioè, una convenzione nell’accezione appena definita. Ma non necessariamente una regola che soddisfa la condizione di dipendenza è una convenzione di coordinazione. 68 Hart 1994, trad. it. pp. 327, 340.

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sostenere che la nozione di convenzione, così intesa, è davvero molto debole69. La condizione di dipendenza (nella forma specificata) è soddisfatta ogni volta che ciascuno dei membri del gruppo reputa che non abbia senso, o che sia inutile, o inopportuno, o poco ragionevole, seguire una certa linea di condotta, a meno che non la seguano tutti (o quasi tutti) gli altri. Questa condizione può ben essere soddisfatta da un’enorme varietà di regole, osservate per le ragioni più diverse. Che essa sia soddisfatta, infatti, non implica che non vi siano altre ragioni, di carattere nient’affatto convenzionale, per le quali ciascuno dei membri del gruppo ritiene che (se seguita dagli altri) la linea di condotta in questione debba essere seguita. Non solo. Si tratta di una condizione che appare ragionevole imporre su un gran numero di standard di condotta, che non saremmo probabilmente inclini a qualificare come ‘convenzionali’ - ad es., molte direttive morali. Di molte direttive morali, che si può ragionevolmente ritenere siano vincolanti, o obbligatorie, per le ragioni più diverse, si può altrettanto ragionevolmente ritenere che, per quanto moralmente vincolanti, esse debbano effettivamente essere seguite solo se anche gli altri lo fanno. (Che senso avrebbe mantenere le promesse, se nessuno lo facesse?)

In fondo, dunque, questo modo di intendere la tesi convenzionalista dice ben poco. Si tratta di una tesi empirica, secondo la quale, nel caso della regola di riconoscimento, ciascuno dei funzionari (quali che siano le ragioni per le quali è convinto che la regola sia da seguire, o la segue) ritiene che non avrebbe granché senso attenersi alla regola, a meno che non lo facessero tutti (o quasi tutti) gli altri. Il che è verosimile, ma banale. E lo stesso può dirsi se la tesi viene costruita come una tesi normativa - come una tesi, cioè, concernente le buone ragioni che i funzionari hanno per conformarsi alla regola di riconoscimento. Non si sta dicendo, in fondo, se non che ciascuno dei funzionari ritiene (tesi empirica) - e questa opinione è ragionevole (tesi normativa) - che non sarebbe possibile far nascere, e mantenere in esistenza, da soli un sistema giuridico. Il che, ripeto, è verosimile, e ragionevole, ma banale.

E’ possibile individuare altri modi di intendere la tesi convenzionalista, che sfuggano a questa obiezione? Sono stati fatti molteplici tentativi in questo senso70. Ma non passeremo in rassegna, qui, questi tentativi, che appaiono poco importanti, a fronte di un ulteriore fenomeno: il diffondersi di teorie che, semplicemente, rifiutano la tesi convenzionalista (e, a monte, la tesi delle fonti sociali, e quella dei fatti sociali). Per introdurre queste teorie, però, è necessario modificare il nostro quadro di riferimento giuridico-politico. Le teorie in questione, infatti, fioriscono in un contesto ideologico e istituzionale che non è più quello dell’età della codificazione, e dello stato di diritto, bensì quello degli odierni stati costituzionali di diritto, sorti, in Europa, dopo la Seconda guerra mondiale. Ed è di questa nuova forma di organizzazione giuridico-politica che dobbiamo, adesso, occuparci.

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