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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TRIESTE FACOLTA' DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA Tesi di Laurea in Storia del Diritto Italiano L'ORDINAMENTO CRIMINALE NEGLI STATUTI DI TRIESTE DEL 1550 Laureanda: Relatore: Jannifer Bardeiotto e 'fb Chiar.mo Prof. Roberto Pavanello ACCADEMICO 1999 - 2000

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TRIESTE

FACOLTA' DI GIURISPRUDENZA

CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA

Tesi di Laurea in Storia del Diritto Italiano

L'ORDINAMENTO CRIMINALE NEGLI STATUTI DI TRIESTE DEL 1550

Laureanda: Relatore:

Jannifer Bardeiotto e 'fb Chiar.mo Prof. Roberto Pavanello

A~blO ACCADEMICO 1999 - 2000

L'ORDINAMENTO CRIMINALE

NEGLI STATUTI DI TRIESTE

DEL 1550

Jl.i miei C)enitori

INTRODUZIONE

§GLI STATUTI DI TRIESTE DEL 1550: GENESI E VALORE POLITICO

Gli Statuti comunali triestini, formatisi contemporaneamente e per le

medesime esigenze di espressione della conseguita autonomia degli altri

Comuni italiani, condividono una serie di elementi comuni con gli Statuti

della penisola, primo fra tutti la tradizione legislativa cui ricorsero, quella

romana e quella del diritto longobardo - franco.

Il Comune di Trieste, dopo aver acquistato una propria autonomia

politica ed aver consolidato le sue libere istituzioni, all' inizio del Trecento

procedette alla prima codificazione per fissare i principi, i diritti ed i doveri

che informavano il suo ordinamento. Fu così che nel 1315 venne emanato

il primo degli Statuti triestini; ad esso seguirono la compilazione del 1350

e quella del 1365, una revisione della precedente. Nel 1424 venne emanato

un nuovo Statuto; del 1550 è, infine, I' ultimo Statuto, promulgato da

Ferdinando I d' Asburgo, che costituisce la riforma degli Statuti triestini

quattrocenteschi.

Tale riforma fu promossa per una improrogabile esigenza di

risistemazione e di aggiornamento di un diritto divenuto oscuro e

lacunoso, come appare descritto con estrema chiarezza nella lettera di

promulgazione della nuova silloge normativa dallo stesso Sovrano:" Nos,

qui pro subditorum nostrorum utilitatibus multas curas suscipimus,

laboresque continuos pro eorum commodis, et quiete conservando perf erre

non recusamus, operae pretium nos f acere arbitrati sumus, si tam

numerosas dictae Civitatis nostrae constitutiones in breve aliquod

1

compendium redigeremus; contrarietatibus scilicet, quae in priori erant

volumine, sublatis, superfluitatibus resecatis, quae per non usum abolita

erant, plane omissis; coeteris autem, quae secundum Civitatis ipsius

hodiemam naturam et consuetudinem hoc tempore illi necessaria, utilia et

convenientia viderentur aperte et clare conscriptis". 1

Ma lo scopo effettivo fu quello di modellare una struttura di governo

locale sulla base di una concezione assolutistica del potere.

Come espressione d' indipendenza e di autonomia del Comune, gli

Statuti triestini costituirono in principio la fonte primaria del diritto2 ; ma

nel tempo, come già si vede nello Statuto del 1424 e specialmente in

quello del 1550, certamente superiori alle leggi comunali dovettero essere

quelle emanate dall' Arciduca d' Austria, da cui Trieste dipendeva. La

riforma statutaria del 1550 tolse definitivamente l'autonomia legislativa al

Comune; la nuova compilazione costituiva un corpo di norme che

emanavano direttamente dal Sovrano e che a lui erano riferite anche nella

forma (la compilazione è infatti redatta in prima persona).

Nel decreto qi promulgazione, poi, egli riservava a sé ed ai su01

successori l'esclusiva potestà di riformare in tutto o 1n parte tale

compilazione:" Salva tamen et reservata expresse nobis posterique et

successoribus nostris suprema principalique superioritate, nec non f acultate

et protestate haec ipsa Statuta, leges et decreta nostra in totum, autin uno,

vel in pluribus articulis mutandi, corrigendi et emendandi sicuti rerum et

temporum necessitas ... et ìnviolabìlìter observent".

1:"STATUTA INCLYTAE CMTATIS TERGESTI", Utini, 1727. 2 : In tal senso vedi Ugo Cova, Sul diritto penale negli Statuti di Trieste, Trieste, 1967, pag. 4.

2

In un simile quadro non poteva sussistere alcuno spazio per dei poteri

legislativi concorrenti; i Consigli maggiore e minore triestini mantennero

un ampio potere deliberativo su ciò che riguardava l'interesse della città,

ma esso non poteva estendersi a provvedimenti che modificassero o

derogassero alle disposizioni degli Statuti.

Del potere legislativo che il Comune aveva conquistato ed esercitato per

secoli non rimaneva più traccia.

Alla metà del 1500 con tale riforma statutaria Ferdinando eliminò ogni

ostacolo alla piena affermazione a Trieste del principio dell'esclusiva

potestà legislativa del Sovrano, uno dei principali postulati

dell'Assolutismo. Con lui si compì il processo con cui gli Statuti, da

"posti", divennero "attriti", cioè un corpo di leggi largite dal Sovrano alla

città che, sia nel suo complesso sia nelle singole norme, poteva essere

modificato solo con atto del Sovrano.

Tale riforma generale segnò la vita giuridica e la vitalità politica della

città sino all'epoca delle riforme compiute da Maria Teresa d'Austria nel

Settecento.

§IL SISTEMA DELLE FONTI DEL DIRITIO NEGLI STATUTI DEL 1550

Prima di affrontare la materia del Diritto Penale disciplinato dagli

Statuti cinquecenteschi, è necessario compiere una chiarificazione

riguardante il sistema delle fonti del diritto recepito negli Statuti stessi, da

3

cui scaturivano le norme che 1 tribunali ed 1 giudici di Trieste erano

chiamati ad applicare1.

Il sistema di gerarchia delle fonti si trova linearmente formulato

all'inizio degli Statuti ferdinandei:" Debeat Capitaneus noster curare quod

magistratus singuli Ciuitatis Tergesti offici sui debitum sollecite impendant

secundum Statutorum praesentium f ormam et illis de.ficientibus, secundum

jttra canonica et imperi.alia"2 •

Gli Statuti del 1550 prevedono come fonte normativa sussidiaria il

Diritto Comune, specificato nelle sue due componenti: la canonica e la

civile. In un altro passo degli Statuti è inoltre fatta salva l'applicazione

della consuetudine, purché non contraria agli Statuti:" Juris autem non

scri.pti, sive consuetudinis nullam habeat rationem quatenus esset contra

Statuta nostra "3 .

Vediamo dunque che la gerarchia di fonti recepita nel 1550 si

articolava in una fonte pnmana costituita dagli Statuti ormai legge

austriaca ) ed 1n due di carattere secondario: il diritto comune e la

consuetudine.

Per meglio comprendere il riferimento a tali fonti secondarie è bene

osservare che la nuova compilazione è redatta con maggiore sinteticità e

notevole riduzione della casistica, tanto da giungere alla previsione di

fattispecie generali ed astratte. Parecchie norme tendono cioè a fissare

solo delle regole, dei principi, tralasciando le disposizioni di dettaglio,

prima causa della farraginosità delle compilazioni precedenti.

1 :Per un più approfondito studio sull'argomento vedi Roberto Pavanello,R Codice perduto. La formazione dello Stato assoluto in Austria tra '400 e '500 nelle vicende degli Statuti di Trieste, Trieste, 1990. 2 : Statuta, Lib. I, Rub. 1 § Possit item. 3 : Lib. II, Rub. 1 § Juris autem.

4

Questo mutamento è dovuto a due ragioni fondamentali: la prima è

strettamente connessa alla mutata natura giuridica degli Statuti: essi

costituivano espressione della volontà del Sovrano e come tali dovevano

essere improntati ad una maggiore stabilità ( era impensabile che

potessero essere modificati con la stessa facilità con cui si correggevano i

precedenti Statuti).

In secondo luogo la potestà legislativa del Sovrano dell'età assolutistica

doveva esprimersi in una legislazione di carattere generale per cercare di

dare ai suoi domini una unità giuridica.

Nel sistema della nuova compilazione quindi le disposizioni di dettaglio

dovevano essere ricercate al di fuori della compilazione, ad esempio negli

editti o nelle ordinanze delle autorità cittadine.

Con la riforma statutaria del Cinquecento venne compiuta una sorta di

"delegificazione"1 nell'ordinamento triestino, nell'atto stesso in cui la

potestà legislativa veniva sottratta al Comune ed avocata al Sovrano. La

legge statutaria vedeva trasformata la propria funzione, costituendo una

cornice di principi tendenzialmente stabili - quasi una sorta di legge

quadro odierna - entro i quali la vita giuridica concreta si svolgeva ed

evolveva con meccanismi diversi dalla legislazione. Tale sistema durò

invariato sino alle riforme teresiane.

Tuttavia anche se gli Statuti rappresentavano una tecnica di

normazione a maglie larghe, essi costituivano un limite invalicabile per il

potere deliberativo e di ordinanza delle autorità civiche, alle quali era

1 : In tal senso cfr Roberto Pavanello, op. cit.

5

concesso solo di emanare provvedimenti esecutivi ed integrativi di tali

disposizioni.

In ultima analisi la natura stessa del sistema normativo della città,

fondato su un ampio ricorso al diritto comune, determinava che

l'evoluzione dell'ordinamento stesso non dipendeva dall'attività di un

legislatore, bensì si compiva mediante l'attività dell'interprete e

dell'operatore del diritto, il giudice in particolare. Dalla "summa " di

regole, istituti, principi, dottrine che costituivano il diritto comune, il

giudice traeva non solo la disciplina delle materie non regolate dalle altre

fonti dell'ordinamento, ma pure un raffinato meccanismo che lo portava

financo a decidere il caso concreto "ex arbitrio ".

La parte maggiore di quello spazio lasciato libero dalla delegificazione

veniva quindi occupata dal diritto comune e di conseguenza potenziava

l'attività degli organi giudiziari.

Il diritto comune stesso forniva al giudice criteri e regole per

l'applicazione della consuetudine, che lasciavano facoltà di disattendere il

generale divieto di utilizzazione della consuetudine "contra legem " e

consentivano di opporre alla forza vincolante di una disposizione di legge

la sua mancata "receptio in usum" o la sua caduta in desuetudine.

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SEZIONE I:

DIRITTO PENALE

§Premessa

La pnma età di ogni popolo ha alla base del diritto penale due

elementi: il sentimento della vendetta e quello dell'espiazione 1• Le antiche

popolazioni germaniche opponevano alle offese recate ai singoli la vendetta

della famiglia - la "faida"- e non conoscevano forme di punizione sociale.

Tale sistema rimase a lungo radicato in quei popoli, tanto che

nemmeno Carlo Magno poté eliminarlo.

Gli sforzi per estirpare un simile costume videro protagonista la

Chiesa. Convertiti al Cristianesimo 1 Barbari ebbero a recepire

progressivamente la concezione tardo romana del diritto penale, fondata

sulla repressione dei reati da parte della pubblica potestà, con un sistema

articolato di pene, suddivise in pecuniarie ed afflittive.

Venne avviata dalla scuola dei glossatori l'elaborazione del diritto

penale tardomedievale, proseguito, commentato ed arricchito infine dal

contributo dei grandi criminalisti dell'età moderna.

§ DELITTO E PENA NEL XVI SECOLO

Giuristi e legislatori medievali non elaborarono il concetto di "delitto";

essi impiegano indifferentemente come parole aventi lo stesso significato

"crimen ", "delictum ", "maleficium ", "peccatum ", termine questo non

esclusivamente giuridico, poiché ricorre frequentemente nei testi morali e

teologici. Il concetto unitario di delitto e la sua differenziazione da crimine,

peccato, maleficio è ben lungi dall'essere discusso nei termini di una

1 : vedi Antonio Pertile, Storia del Diritto Italiano dalla caduta dell'Impero romano alla codificazione , Torino, 1892, vol. V, pag. 1.

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tecnica giuridica 1. La gradazione dei "delictd' in "levia - atrocia - atrociora

- atrocissimd' ricalca quella stabilita per il "maleficium". Invece i giudici

penali delle nostre città medievali venivano invariabilmente denominati

"Giudici dei Malefici", senza specificazione.

Un punto fermo della scienza giuridica è l'opera "Tractatus criminalis"

di Tiberio Deciani della metà del XVI secolo. Egli procede ad un repulisti

della caotica terminologia in uso, eliminando tra l'altro la parola

"peccatum" poiché riguarda esclusivamente il rapporto del credente con

Dio. Per primo egli adotta gli unici due termini "delictum" e "crimen".

Delitto è il fatto di cui si può e si deve rispondere perché corrisponde

ad una violazione di legge: fino a che non vi sia legge che lo proibisca sotto

la minaccia di una pena, un atto potrà essere considerato illecito, non

però delittuoso. Il delitto, in altre parole, è il fatto doloso o colposo

dell'uomo proibito con minaccia di pena dalla legge; tra crimine e delitto

passa una differenza specifica, in quanto crimine è un delitto di tale

gravità che la sua persecuzione interessa direttamente la pubblica

autorità e che quindi non può essere dedotto davanti alla giustizia civile.

Si può parlare di delitti pubblici e privati, ma i crimini sono tutti e

soltanto pubblici.

Non vi è delitto se non alle seguenti condizioni2 :

1): un'azione umana, positiva o comm1ss1va, o anche semplicemente

om1ss1va;

2): un'azione umana vietata sub poena dalla legge positiva;

1 : In tal senso vedi A. Marongiu, voce: Delitti, Diritto Intermedio, Enci.clopedia del Diritto, Milano, 1958, vol. XII, pagg. 8- 16.

2 :Questo è in sintesi lo schema delineato da Deciani nella sua opera.

8

3): un'azione umana dolosa o almeno colposa;

4): un'azione umana lesiva di un interesse protetto dalla legge.

La stagione più feconda degli studi di diritto penale è quella dei secoli

XVI - XVIII ( dal 1543 divenuto disciplina universitaria ), in cui i giuristi

italiani occupano un posto di rilievo.

Tuttavia essi non introdussero novità importanti relativamente alle

problematiche sulla pena, anche perché occupati a chiarire altri aspetti

del diritto penale di più pregnante rilevanza giuridica e sociale come

l'imputabilità, le garanzie per il reo, la prova legale.

Scopo primitivo della pena fu quello di placare gli offesi e, p01,

assicurare a ciascuno soddisfazione per il torto subito: nel sistema delle

pene private, che nell'età medievale prevalse sul magistero criminale

pubblico, la pena svolgeva tale duplice funzione di afflizione del reo e di

soddisfacimento, in prevalenza mediante la corresponsione della

compositio1 alla parte lesa.

Ben presto alla pena viene associato un fine di ordine superiore: la

prevenzione dei reati e l'emenda del reo2 ; l'ordinamento allora interviene

progressivamente in tale ambito, affiancandosi e sostituendosi alla pena

privata, rivendicando a sé la potestà punitiva per esercitarla m modo

sempre più esclusivo nell'interesse della collettività; contemporaneamente

si scorgono i primi segni di un intervento dell'autorità anche nel campo

della prevenzione dei delitti.

1 : Retaggio questo dell'ordinamento longobardo-franco, in cui la sanzione, anche penale, doveva ripristinare la pax violata, reintegrando lo status quo ante la commissione del reato: cosi Diurni, riferimenti nella nota seguente. 2 : Vedi G. Diurni, voce: Pena criminale, Diritto Intermedio, Enciclopedia del Diritto, Milano, 1982, vol.XXXII,pagg. 752-770.

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Alla pnmana funzione della pena s1 aggiungono nel tempo altri

connotati:

a): la salvaguardia del bene comune, che a partire dalla nascita degli

ordinamenti particolari diviene elemento costante nell'irrogazione della

sanzione; molte pene hanno ora alla loro base non più o non solo la

soddisfazione della parte lesa, bensì la difesa dell'ordine pubblico e delle

prerogative dell'autorità: l'irrogazione della sanzione è interesse pubblico;

b): un fine spirituale e l'emenda del reo1: si è ancora lontani certamente

dalle conquiste postilluministiche riguardanti la pena come trattamento

rieducativo del condannato, ma viene tenuto in considerazione il fine

correttivo e di riabilitazione della pena;

c): intimidazione ed esemplarità: è la funzione deterrente. Dagli Statuti

italiani ricaviamo quanto fossero particolareggiate le previsioni sulle forme

utilizzate per l'esecuzione2 . Contro alcune pratiche veramente atroci non vi

fu una reazione decisa da parte della dottrina, la quale però non fece a

meno di richiamare principi di benignitas, di proporzionalità della pena,

che purtuttavia rimasero mere disquisizioni teoriche, di nessuna efficacia

sulla prassi dei tribunali.

1 : Per la pena nel Diritto canonico Diurni, op. cit., pag. 768 nota 138, cita Schiappoli, Diritto penale canonico, in Pessina, Enc. I, 1905, pagg. 613-991. 2 :Vedi per tutti Gatti, L'imputabilità, i moventi del reato e la prevenzione crimi.nale negli Statuti italiani dei secoli XII-XVI, Padova, 1930. Lo cita Diurni, op. cit., pag.760 nota 76.

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PARTE GENERALE: GLI ELEMENTI DEL REATO

§ ELEMENTO OGGETTNO ED ELEMENTO SOGGETTNO DEL REATO

In sede di teoria generale del diritto, per "elemento oggettivo" del reato

si intende il fatto tipico in cui deve estrinsecarsi la condotta umana per

essere definita reato, cioè il quid materiale che costituisce il fatto

delittuoso; !'"elemento soggettivo" del reato è, invece, la colpevolezza

correlata alle condizioni psicologiche del soggetto agente, che consentono

l'imputazione personale del fatto di reato all'autore, ed alle circostanze che

incidono sulla capacità di autodeterminazione - capacità di intendere e

volere - del soggetto che si rende autore di un reato.

Tale bipartizione nella storia del diritto penale non è sempre esistita,

essendo conquista del diritto penale moderno, poiché vi furono epoche in

cui questi due elementi non venivano affatto riconosciuti e differenziati,

epoche in cui i processi si celebravano non solo se il delitto era stato

commesso da una persona umana, ma anche se l'azione dannosa era

stata causata da un animale o da una cosa, costituendo in capo al

legittimo proprietario l'obbligo di subirne tutte le conseguenze, anche

penali1.

I popoli barbarici guardavano pressoché esclusivamente al fatto -

l'elemento oggettivo -: ogni azione dannosa o delittuosa portava con sé

l'obbligo di subirne la pena e ciò non solo se il danno era stato provocato

direttamente dal colpevole, benché involontariamente, ma anche se il

1 :A tal proposito Pertile, op. cit., fa riferimento a pag. 59 nota 1 a Roth. 11, 75, 141 e 387.

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colpevole aveva dato occas10ne solo indirettamente al fatto, senza averlo

voluto.

Non vi era quindi distinzione di dolo, colpa, caso fortuito o forza

maggiore; il che era pienamente conforme a quell'ordinamento sociale, che

rimetteva la punizione all'offeso, che vedeva in ogni danno un'ingiuria e

che quindi doveva esigerne l'espiazione1.

Con la rinascita dello studio del diritto romano si iniziò ad applicare in

tale ambito i suoi principi e la legislazione in Italia cominciò a distinguere

il dolo dalla colpa e dal caso2 ; anche il dolo diretto dall'indiretto, il dolo

speciale dal generale3 .

Negli Statuti di Trieste del 1550 non si fa menzione troppo spesso degli

elementi soggettivi del reato ed anche quando ciò accade, il richiamo di

tali elementi ha luogo in modo tutt'altro che sistematico ed ordinato.

Del dolo - e cioè la previsione e la volontà di compiere un reato - s1

parla:

nel reato di incendio, 1n riferimento a chi appicca il fuoco:" de

industrid'4 ;

nella maggior parte dei reati di falso: per chi "sciens et prudens"

testimonia il falso 1n una causa civile o penale; per chi "sciens et

prudens" s1 serve di documenti falsi ed alterati; per il notaio che

"dolose' redige una scrittura falsa; per chi "prudens" è sorpreso con

monete false addosso o le spende5 ;

1 : Pertile, op. cit., pag. 59 nota 2, rimanda alle leggi 136 e 137 di Liutprando. 2 : Sempre Pertile, op. cit. pag. 64 nota 29, fa riferimento alla Const. Sic., III,89, Federicus. 3 :Vedi Statuti di Aviano del 1404 e Statuti Januens del 1143; così Pertile, op. cit. pag. 64 note 30 e 31. 4 : Statuta, Lib. III, Rub.16 § Si quis. 5 : Lib.III, Rub. 18 § Si quis.

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nel reato di bestemmia, in relazione a chi "sciens et prudenS' imbratta e

profana immagini sacre1;

in una particolare forma del reato di ingiuria, per chi "aliquid in

aliquem projecerit vel effuderit ex proposito et animo appensato "2

La colpa - cioè quella condizione che fa commettere il delitto senza

volontà, ma per negligenza, imprudenza, imperizia - è vista quasi

esclusivamente come "culpa in omittendo" e se ne fa cenno per lo più

nei casi di mancanze dei pubblici ufficiali a doveri inerenti al loro stato

o ufficio3 ; in un solo caso si tratta della colpa nei reati comuni: si

adopera il termine "imprudentid' infatti nel reato di falsa

testimonianza4 •

Di caso fortuito, forza maggiore o costringimento fisico non c'è

cenno.

Questa situazione, abbastanza frequente anche negli altri Statuti

italiani5 , non deve però far credere all'attribuzione, negli Statuti

triestini, di un'importanza preminente all'elemento oggettivo del reato,

secondo la summenzionata tradizione germanica, tale da soffocare

anche nei delitti di grande importanza, come l'omicidio, ogni

considerazione inerente alla volontarietà dell'azione criminosa.

Non si può infatti dubitare che gli Statuti del 1550 siano

profondamente permeati dei principi del diritto romano ed essi non

sono sordi alla dottrina giuridica loro contemporanea, per cui non si

1 : Lib.III, Rub. 25 § Quod si. 2 : Lib. III, Rub. 30 § Porro si. 3 :Vedi, nella parte relativa al procedimento criminale, Sezione II di questo lavoro, le multe a cui soggiacciono il Giudice dei malefici, il Notaio, il Protettore se non compiono diligentemente il loro dovere. 4 :Lib. III, Rub. 18 § Si quis. 5 : In tal senso vedi U. Cova, op. cit. pag. 7.

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può ritenere che possano equiparare un evento colposo o addirittura

soltanto casuale ad un altro dolosamente provocato dal soggetto attivo

del reato.

La considerazione della volontà nel commettere un reato infatti

risulta da una disposizione dettata nell'ambito della disciplina di un

reato particolare, ma che per questo non le toglie efficacia generale: si

afferma dunque che se l'azione delittuosa ( stiamo parlando del reato di

sottrazione di beni con la forza ) è stata compiuta "iocandi animo" non

c'è pena:" animus autem id f acientis argumentis et coniecturis facile

depraehendetuf'1•

E' evidente che 1n questo caso risulta imprescindibile un'indagine

attorno alla volontà dell'agente e questa disposizione evidenzia

chiaramente la considerazione che il legislatore statutario aveva

dell'elemento soggettivo.

Nelle altre situazioni, unica possibilità di soluzione è il ricorso al

diritto comune e, per i reati di minore importanza, all'arbitrio del

giudice. Egli non faceva che recepire sul punto il diritto comune, al

quale in ogni modo si voleva ricorrere, a Trieste come altrove, nel caso

di incompletezza della legislazione.

§LE CIRCOSTANZE DEL REATO

Le circostanze del reato prendono tale nome proprio perché "circum

stanf' la fattispecie delittuosa, sono cioè elementi che accedono ad un

1 : Lib. III, Rub.15 § Si quis.

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reato già perfetto nella sua struttura e la cui presenza determina

solamente una modificazione della pena. Le circostanze sono anche

dette "accidentalia delicti' per sottolineare, appunto, che sono

contingenti, che possono mancare senza che il reato venga meno,

mentre se manca un elemento essenziale del reato - elemento oggettivo

o soggettivo - a far difetto è la stessa figura criminosa.

Benché la dottrina criminalistica avesse cominciato gia m

precedenza a costruire la categoria delle circostanze, nella grande

legislazione trovò accoglimento appena per opera della Costituzione

criminale teresiana 1.

Le leggi anteriori si erano limitate ad indicare di volta in volta quale

circostanza potesse accompagnare il fatto criminoso e ad assegnare

una apposita pena a ciascuna di esse e costituivano così tanti reati

diversi quante erano le circostanze medesime2 .

Solo in alcuni Statuti isolati si era proceduto all'elaborazione di

un'ordinata teoria sulle circostanze: ciò era stato compiuto nello

Statuto di Lucca del 1539 ed in quello di Trieste del 1550.

Nella vasta materia delle circostanze del reato gli Statuti del 1550

mostrano di possedere una serie di elementi peculiari che li

differenziano in parte dalle leggi e dalla dottrina coeva; se da un lato

tali peculiarità possono spesso imputarsi ad esigenze locali e

contingenti, dall'altro sono talvolta indici di una tendenza al

miglioramento del diritto, ponendo in qualche caso gli Statuti triestini

in posizione avanzata nel diritto italiano coevo.

1 :"Constitutio criminali.s theresiana ", Wien, 1769, artt. 11 e12. 2 : Pertile, op. cit., a pag. 146 nota 1 cita a tal proposito Roth. 8, 14, 34-41.

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Essi costituiscono in proposito uno dei primi tentativi di includere

1n un sistema organico la materia delle circostanze del reato, in

rispondenza ad una esigenza di ordine e generalizzazione.

Tuttavia bisogna chiarire che questa sistemazione riguarda solo le

circostanze inerenti ai reati contro la persona ed in questo lo Statuto

del 1550 non fa che sviluppare ed affinare una tendenza già presente

nei precedenti Statuti triestini: la circostanza aggravante costituita dal

"locus commissi delicti " è già disciplinata negli Statuti del 14241; nel

1550 essa è però inclusa in modo compiuto ed organico in una rubrica

comprensiva di altre aggravanti dei delitti di lesioni personali e

percosse2 .

La disciplina delle circostanze prevista dagli Statuti del 1550 così

dispone:

"Poenae omnium delictorum duplicantur:

si noctu3 commissa fuerint;

si commissa fuerint in Palatio Communi, vel Stuba, super logiam

Communi, vel f ontico Communi, vel Platea Magna;

si commissa fuerint in domo4, vel alio predio sive possessione personae

offensae;

sz coram Capitaneo, Vicecapitaneo, Judice Maleficiorum, Vicario,

Judicibus Civitatis commissa fuerint5;

1 : Vedi U. Cova, op. cit., a pag. 9. 2 : Lib. III, Rub.9 :"Quando poenae augentur ratione tempari, loci, personae". 3 : Per notte si intendeva il periodo di tempo compreso tra :"ab occasu solis ad ortum"; Lib.III, Rub. 9 § inizio. 4 : Questo per un principio di santità della casa derivato dal diritto romano:" Domus unicuique tutum debet esse refugium" riportato da Pertile, op. cit. , pag.155 nota 48. 5:"Jntelligantur coram eis commissa si in.fra spatiumquinque passuum ab eis deliquerit ", Lib.III, Rub.9.

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si quis aliquem super f ade uulneraverit ex quo dcatrix remansura sit,

quod ex rei evidentia vel jurata publid Chirurgi relationem constet;

si quis retrorsum et proditorie aliquem uulneraverit vel percusserit ".

In nessun caso le pene stabilite dagli Statuti potevano essere

aumentate oltre il doppio, anche se concorrevano più circostanze o

qualità per moltiplicarle - ad esempio per un delitto commesso di notte

nella Piazza -:"Nullo casu possint poenae in proximo titulo Statutae

maiores quam duplicatae exigi, etiam si plures qualitates, swe

drcumstantiae concurrent ad eas moltiplicandas: nolumus enim eas

maiores in condemnationibus imponi, quam duplicatas ita ut ad poenam

duplicandam unius tantum drcumstantiae vel tempori.s, vel lod, vel

personae habetur ratio, non duarum aut trium, praeterquam ubi in aliquo

casu nominatim in Statutis nostris1". Tra le eccezioni ricordiamo,

relativamente al reato di lesioni ad un pubblico ufficiale, la disposizione

secondo cui:" Volumus eum teneri ad triplum euis poenae " con cui s1

punirebbe un cittadino se avesse offeso un altro cittadino2 •

§IL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO

Perché vi sia concorso di persone nel reato è necessario che ciascun

"concorrente" arrechi un contributo personale al compimento del fatto

delittuoso, che può essere di natura materiale - con l'intervento attivo e

concreto nella commissione del reato - ovvero morale - attraverso un

1: Lib.III, Rub. 9 § Nullo autem 2: Lib.111, Rub.10 § Et e .

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contributo che si manifesta sotto forma di impulso psicologico, col

consiglio o col comando, ad un reato materialmente commesso da altri

La legge longobarda 1proporzionava la pena del consiglio a quella

del delitto "suggerito", punendo pur sempre il consiglio meno

dell'esecuzione, per la maggiore rilevanza dell'elemento di fatto.

Proprio in questo ambito l'influenza del diritto romano si fece

sentire più forte: gli Statuti italiani, anche i più antichi, ebbero a

punire generalmente con la stessa pena sia l'autore materiale del

delitto che colui che lo aveva consigliato.

Tale era la "communis opinio " dei giureconsulti rispetto a tutti i

reati, o almeno rispetto ai più gravi. Ma v'erano voci dissonanti2 , che

sostenevano che gli autori "morali" del reato dovevano essere puniti

sempre meno degli autori materiali. Il diritto canonico dal canto suo

favori una soluzione di mezzo3 , ritenendo che non si doveva seguire

una regola fissa, ma procedere a tenore dei casi.

Gli Statuti di Trieste del 1550 proseguono sulla strada già spianata

dagli Statuti del 1424 ed a proposito della complessa materia della

partecipazione di più persone ad un reato vi dedicano un'intera

rubrica\ considerando l'argomento sia dal punto di vista materiale che

psicologico.

Tuttavia tale rubrica riguarda un tipo particolare di concorso,

ovvero il "tractatus mortis ", che deve considerarsi un caso speciale di

concorso di persone e non il concorso in generale. Negli Statuti del

1 : Pertile, op. cit., fa riferimento alla legge dei Visigoti a pag. 85 nota 5. 2 : Pertile a pag. 87 nota 12 si riferisce a Farinaccio, glossa c. I X. "De off Deleg." (1-29). 3 : Cfr Pertile, op. cit., pag.87 nota 13. 4 : Lib.III, Rub.11.

18

1550 cioè noi ricaviamo indirettamente la disciplina del concorso dalla

disciplina del "tractatus ", per cui possiamo affermare che, almeno in

questo ambito, gli Statuti cinquecenteschi non abbiano enucleato

principi generali e valevoli per ogni forma di manifestazione di questo

istituto.

Gli Statuti del 1550 definiscono così il concorso:"Quod si plures

simul tractaverint, communive consilio decreverint de aliquo interfi.ciendo

per se vel alios "1• Se essi portano a compimento un delitto - senza che

però sia derivata la morte della vittima - tutti gli agenti sono puniti con

il doppio della pena a cui sarebbero stati sottoposti se avessero agito da

soli2 .

Se invece è seguita la morte della vittima, tutti sono condannati alla

pena di morte tramite decapitazione:" Ac si ipsorom singuli hominem

illum interf ecissent "3 . In questo caso specifico non viene fatta alcuna

distinzione fra autori morali o materiali, poiché tutti sono sottoposti

alla medesima pena, senza differenze: quindi, sia che commettano

personalmente il delitto progettato, sia che ne diano incarico a

qualcuno di loro, sono sempre tenuti tutti responsabili per l'evento

verificatosi.

Tuttavia gli Statuti tengono in considerazione il comportamento di

ciascuno degli accordati, soprattutto nel caso di un ripensamento

1 : Llb.III, Rub.11 § Statuimus quod. 2 : Ibid. § Sed si. 3 : Ibid.Ugualmente se più persone intervengono ad una rissa, anche con armi, tutti:"Tamen singuli de eo delicto teneantur perinde, ac si unusquisque eoifum separatim illud perpetrasset ", ibid. § Si tamen.

19

dell'ultimo minuto: infatti se uno dei concorrenti palesa il trattato alla

vittima:" Nolumus eum aliqua poena puniri "1.

Una figura particolare di concorso è costituita dal Mandato a

delinquere, cioè il caso di una persona, la quale "commissiona" un

delitto che un'altra porterà a compimento. Gli Statuti stabiliscono in

proposito:" In coeteris de mandante, aut persuadente ad delinquendum

et similiter de auxilio praestato delinquenti stetur dispositione juris

communis "2 • Aggiungono poi:" Sed hoc volumus indistincte observari, ut

nulla omni no fit diff erentia, si ve quis per se ipsum, si ve per alium

deliquerit et omnes poenae statutae facenti habeant · locum in eo qui fieri

fecit "3 .

In sostanza tutte le pene stabilite per chi commette un reato devono

essere applicate anche al mandante.

La più chiara e coerente manifestazione di questa dichiarazione di

principio si trova nella disciplina di una fattispecie particolare di reato

con cui il "tractatus mortis " ha molti punti di contatto, l'assassinio, che

analizzeremo nella parte relativa ai singoli reati.

§ ILTENTATNO

Il concetto di "consumazione" del reato esprime, tecnicamente, la

compiuta realizzazione di tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie

criminosa: in altri termini si è in presenza di un reato consumato tutte

le volte in cui il fatto concreto corrisponde interamente al modello

1 : Lib. III, Rub.11 § Si tamen. 2: Ibid. §In coeteris. 3 : Ibid. § Sed lwc.

20

legale delineato dalla norma incriminatrice. Il concetto di

consumazione funge anche da imprescindibile termine di riferimento

rispetto alla distinta ed autonoma figura del tentativo.

Ricorre il delitto tentato o tentativo nei casi in cui l'agente non

riesce a portare a compimento il delitto programmato, ma gli atti

parzialmente realizzati sono tali da esteriorizzare l'intenzione

criminosa; diversamente ci si troverebbe di fronte ad un mero proposito

delittuoso, irrilevante per il principio "cogitationis poenam nemo

patitur."

Per quanto riguarda la disciplina del tentativo di reato contenuta

negli Statuti di Trieste del 1550, è da dire che essa è conforme a quella

degli Statuti italiani in generale, fondata ancora sul contrasto tra la

concezione romana e quella longobarda del tentativo - ed è proprio

quest'ultima che si avvicina alla soluzione accolta infine nel diritto

penale moderno.

Con riguardo al diritto germanico, la preponderanza data

all'elemento di fatto, non deve far pensare che venisse esclusa ogni

penale responsabilità quando, pur essendo stata intrapresa

l'esecuzione di un reato, non fosse stato danneggiato alcuno:

determinava la responsabilità penale non solo la commissione del

reato, ma anche la volontà manifestata in atti esteriori di offendere

altri, senza che gli si avesse ancora nociuto.

Il tentativo veniva considerato e punito quindi non come atto diretto

a commettere un male maggiore, ma di per sé medesimo, come un

reato particolare.

21

Una diversa impostazione era seguita dalla giurisprudenza del

diritto comune, la quale costantemente rivolta all'elemento soggettivo

piuttosto che all'oggettivo, giunse alla formulazione del

principio:" Punitur affectus etiam sz non sequatur effectus "1. I più

ritenevano che non si dovesse imporre al reo di delitto tentato la pena

minacciata dalla legge per il delitto consumato, bensì una pena

straordinaria ad arbitrio del giudice.

Gli Statuti di Trieste del 1550 non si dilungano nell'argomento del

tentativo, anzi ne trattano, senza inquadramento sistematico, in

margine alla rubrica relativa ai reati dei pubblici ufficiali2 , in quella

relativa all'aiuto all'evasione3ed in quella che disciplina il concorso di

persone nel reato4 • Tale argomento era stato invece più approfondito

negli Statuti del 1424, in cui si avvertiva chiaramente l'influsso della

legislazione longo barda 5 .

Gli Statuti del 1550 stabiliscono che:"Item quantum ad criminales

causas attinet, volumus eum quoque dici offendisse, qui licet non

percusserit, tamen f ecit impetum, vel aggressuram, aut gladium, vel

aliud armorum genus in aliquem strinxit et generaliter eo verbo omnes

casus complecti, qui habentur in titulo de poenis "6 • In tali casi il

tentativo viene considerato come un vero e proprio reato.

1 : Pertile, op. cit. a pag. 75 nota 13 (a), richiama la Const. Sic. «Amatoria Pocula", III-73:"Presumptionem temerariam, qua saltem nocere desiderant et si nocere non possint, delinquere nolumus impunitam". 2 : Lib.III, Rub. IO§ Item quantus. 3 : Lib.III, Rub.22 § At captiuus. In tal caso però per chi:" coeperit frangere» non viene comminata alcuna pena. 4 : Lib.III, Rub.11 § inizio. 5 : In tal senso vedi U. Cova, op. cit., a pag. 14, in cui egli sottolinea come, in tema di veneficio, lo Statuto del 1424 ricalchi il contenuto dei corrispondenti capitoli 139, 140, 141 dell'Editto di Rotari. 6 : Come in nota (2).

22

Le espressioni più di frequente utilizzate per indicare il tentativo

sono i verbi "praesumerè' o "auderè' 1, ovvero circonlocuzioni del tipo

"facere impetum"2 : è anche vero però che tali espressioni vengono

utilizzate spesso per meglio descrivere la fattispecie delittuosa, senza

che per questo si intenda riferirsi al tentativo. Per questo, forse, negli

Statuti ricorrono fattispecie di reato tentato più spesso di quanto possa

sembrare, ma ne risulta difficile il riconoscimento, da un lato per

l'ambiguità dei termini usati, dall'altro per il fatto che le fattispecie di

tentativo sono regolate alla stregua di reati indipendenti e ciò crea

difficoltà nel comprendere la vera natura dei fatti criminosi a proposito

dei quali compaiono le predette espressioni.

Gli Statuti stabiliscono inoltre che se più persone si accordano per

uccidere qualcuno e se tale accordo viene scoperto prima che venga

eseguito, ognuno è punito con una multa di 200 lire. Scoperto

l'accordo, gli accusati vengono posti nelle carceri del Comune, da cui

non possono essere rilasciati:" Nisi prius solverint poenam praedictam"3e

non danno garanzie idonee di non offendere la vittima predestinata.

In tal modo l'attentato, diretto ad un determinato fine criminoso

non raggiunto, viene a costituire un reato a sé, indipendentemente dal

verificarsi dell'evento preveduto.

A proposito di tale disciplina va richiamata l'attenzione

sull'influenza che su di essa può aver avuto la norma contenuta nel

Capitolo 11 dell'Editto di Rotari4 sul "consilium mortis": qui gli aderenti

1 : Llb.III, Rub.21. 2 : Llb.III, Rub.8. 3 : Llb.III, Rub.11 § Statuimu.s quod. 4 : Vedi U. Cova, op. cit., a pag.28.

23

alla congiura sono puniti per la sola partecipazione, senza considerare

se il reato sia stato anche effettivamente compiuto.

§LE CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO

Sotto questo titolo si troverà elencata tutta una serie di circostanze,

che si rifanno ad un fondamento comune: che le azioni cui di norma è

comminata una pena non sempre vanno effettivamente punite. Gli

Statuti di Trieste infatti riconoscono e disciplinano alcune circostanze

che rendono non perseguibile l'autore di un delitto.

Gli Statuti non elaborano peraltro un sistema ordinato, per cui sono

trattate indistintamente cause diverse di esclusione del reato, come le

cause di giustificazione - la legittima difesa -, le cause di esclusione

della punibilità - l'errore - ed ancora le cause di esclusione

dell'imputabilità - derivanti dalla minore età o dall'incapacità di

intendere e volere-.

Anche noi quindi tratteremo insieme tutte queste circostanze,

rispettando la trattazione che ne fanno gli Statuti stessi, ma dobbiamo

avvertire che il titolo di questo paragrafo è stato scelto solo per motivi

di economia del nostro lavoro, perché, in realtà, a far difetto in tali

circostanze è di volta in volta solo un elemento del reato, non il reato

stesso.

Per quanto riguarda la legittima difesa, gli Statuti di Trieste del

1550 si dimostrano pienamente conformi al diritto italiano coevo,

24

informato alla tradizione giuridica romana 1. Va ricordato che gli Statuti

precedenti, allontanandosi con ciò dalla prassi giuridica esistente ai

loro tempi, restrinsero la possibilità dell'esercizio della legittima difesa

solo nei confronti di coloro che miravano a ledere l'integrità personale.

Nella normativa del 1550, invece, si può trovare un autentico esempio

di difesa dei diritti patrimoniali di una persona nel proprio fondo,

l'ingresso nel quale può venir impedito anche con la forza:" Et possit in

continenti quovis modo offendi "2 , col solo limite del rispetto della vita

dell'intruso.

Altri casi di legittima difesa si trovano nella disciplina dei reati di

omicidio, debilitazione, lesioni: in tali casi, se uno ammazza un altro o

gli procura lesioni "ob necessariam corporis sui tutelam" e "legitime

probaverit " non è soggetto a punizione3 .

Nella trattazione della colpevolezza riveste un ruolo fondamentale

l'istituto dell'errore: se la volontà colpevole presuppone la conoscenza

degli elementi costitutivi del fatto criminoso, la mancata conoscenza di

uno o più requisiti dell'illecito penale ha come effetto quello di

escludere la punibilità, perché viene meno l'elemento soggettivo del

reato. L'agente non sa di commettere un reato.

Poca rilevanza viene data dagli Statuti precedenti a quello del 1550

all'errore, sia di fatto che di diritto. Soltanto nell'ultimo Statuto

compare una norma riguardante l'ignoranza delle legge - errar juris - :

ai mercanti stranieri ( la norma si trova nel Libro relativo alla

1 : L'origine dell'istituto della legittima difesa va ricercata senz'altro nella fusione di principi romani con le leggi germaniche; inoltre la morale cristiana e la legislazione pontificia esigevano che la difesa si tenesse entro i confmi della necessità, cioè che non si facesse all'offensore maggior male di quello indispensabile a far cessare l'offesa e conseguire la propria sicurezza. 2 :Lib.III, Rub.13 § Si quis. 3 :Lib.III, Rubriche 7 § Si quis ; 8 § Qua etiam

25

regolamentazione dei dazi) non può venir applicata la legge statutaria

sulla disciplina dei commerci quando essi non ne siano stati

informati:" Peregrinos nolumus hac lege teneri. nisi postquam eis admoniti

contra/ eceri.nt "1•

E' evidente l'eccezionalità di questa regola, posta a salvaguardia

degli interessi economici della città, cui venivano a contribuire i traffici

di transito d'oltremare ai territori dell'Europa centrale, data la

posizione strategica, di collegamento, di Trieste.

Questa eccezionalità porta petò ad affermare la validità normale

del principio opposto dell'inescusabilità dell'ignoranza del diritto, di cui

il silenzio della legge negli altri ambiti è la più esplicita conferma.

Quanto all"'error facti" gli Statuti del 1550 non ne trattano; questo

tacere sull'argomento può far pensare che il comportamento

incolpevolmente delittuoso renda non perseguibile il soggetto attivo,

impedendo il sorgere del dolo o della colpa.

Tra le circostanze che escludono il reato, notevole rilevanza

rivestono quelle inerenti l'età dell'autore del fatto delittuoso.

Negli antichi diritti dei popoli barbari l'età, per quanto tenera, di chi

avesse commesso un delitto, non valeva necessariamente ad

escluderne ogni responsabilità; nel diritto romano invece non poteva

rendere conto delle proprie azioni chi non era in grado di discernerne il

valore.

1 : Lib.IV, Rub.15 § Quae causa.

26

Si ebbe perciò un'infanzia penale, un'età che toglieva ogni

responsabilità penale per 1 fatti commessi; ogni legislazione la

determinò a suo modo. 1

Gli Statuti del 1550 vollero sempre gli infanti rimessi alla correzione

domestica:" Inf antes, vel inf antiae aut puberlate proximi, si non sunt doli

capaces, de nullo delicto teneantur criminaliter, sed iis, in quorum sunt

potestate, vel tutela, committantur castigandi et emendandi; at supra

eam aetatem usque ad quintudecimum annum puniatur tantum poena

arbitraria arbitrio Capitanei, consideratis circumstantiis de lieti "2 .

Ancora, nella disciplina del reato di debilitazione, è confermato che

l"'infans " o chi è "puberlate proximo " non può punirsi con pena

corporale, ma solo è stabilito che lo si deve correggere, oltre a rifondere

le spese ed i danni alla vittima3

Nella disciplina dei reati di violazione di domicilio e di furto è

sancito altresì che non si può procedere contro il minore di diciotto

anni4 e, nel caso di violazione di proprietà privata, la pena del minore è

determinata dal Capitano:"Jntra tamenpoenas suprascriptas "5 .

Per quanto riguarda la considerazione dell'incapace di intendere e

volere, gli Statuti del 1550 si pongono in contrasto con gli Statuti

previgenti: nello Statuto del 1424. infatti l'omicida "furiosus " . e

condannato alla stessa pena stabilita per il sano di mente. 6

1 : Tuttavia nei più gravi delitti si potevano punire i minori, ma non con pena corporale eccedente i confini della disciplina; sempre nei delitti più gravi non veniva concessa l'attenuante della minore età quando il delitto mostrava una speciale e raflinata malizia, applicandosi a tal proposito l'adagio:nmalitia supplet aetatem • riportato da Pertile, op. cit., a pag.143 nota 32. 2 : Lib.III, Rub.8 § Infantes. 3 : Lib.III, Rub. 7 § Nec infans. 4 : Lib.III, Rubriche 13 §In minore; 14 § Quae omnia. 5 : Ibid.

6 : Vedi U. Cova, op. cit., a pag.14.

27

Nel 1550, invece, il "furiosus" ed il "mentecaptus" 1 non sono

punibili, ma il Giudice dei malefici deve ricercare con prudenza e

diligenza se la pazzia sia vera o piuttosto simulata:" In quo volumus

judicem circumspectum f ore "2 •

I matti devono essere custoditi da agnati e cognati, ma se essi sono

negligenti, i "furiosi " sono incarcerati o messi al bando, a discrezione

dei Giudici e Provvisori della città.

In ogni caso i minori e gli incapaci sono condannati al pagamento

delle spese mediche sostenute dalla vittima ed a risarcire il danno.

1 :"Furiosus" era, secondo il diritto romano, il pazzo agitato ma suscettibile di lucidi intervalli nei quali gli si riconosce la capacità d'agire; il "mentecaptus" invece era l'infermo di mente senza possibilità di lucidità. Vedi A. Burdese, Diritto privato romano, Torino, 1995, pag.143. 2 : Lib:III, Rub.8 § Nec furiosus.

28

PARTE SPECIALE: DEI DELITTI E DELLE PENE IN PARTICOLARE

§ I DELITII CONTRO DIO E LA RELIGIONE

Per la stretta relazione che sussistette fino alla Riforma tra la Chiesa e

gli ordinamenti politici, per il rispetto a Dio ed alla religione, le leggi erano

ricche di sanzioni per i comportamenti che offendevano il sentimento

religioso e la maggior parte di tali delitti era riguardata come un delitto

pubblico. Spesso esse, per dimostrare quanto stava a cuore la protezione

della Chiesa, iniziavano la trattazione dei delitti proprio da quelli verso la

religione 1. Talvolta stabilivano addirittura quando si doveva leggere il

catechismo durante la settimana.

Scendendo all'esame dei delitti contro la religione come disciplinati

negli Statuti di Trieste del 1550, è da notare la severità della repressione

della bestemmia ed in particolare delle pene per essa previste. La rubrica

relativa a tale reato2 s1 apre con una dichiarazione di ordine

generale:" Quisque teneatur venerari Omnipotentem Deum "3 ; chi bestemmia

contro Dio, Gesù Cristo e la Vergine è punito con la pena pecuniaria di

100 lire di piccoli; se bestemmia contro un Santo o una Santa è punito

con 50 lire di piccoli. Se il reo non paga entro otto giorni dalla pronuncia

della sentenza è punito con la pena della corbellatura: due volte per due

giorni successivi:"in mari demergatur usque ad guttur et tertio die

submergatur, ita tamen quod non moriatur "4 •

1 :Vedi Statuto di Ferrara del 1566 e Statuto di Bologna del 1561; li cita Pertile, op. cit., a pag.434 nota 2. 2 : Lib.III, Rub.25. 3 : Ibid. § inizio. 4 : Ibid. § Si quid.

29

Il recidivo è condannato ad un mese di carcere:" alendum se pane et

aqua"1 ed è scarcerato solo se paga il doppio della pena sopradetta.

Chi "sciens et prndens" imbratta o profana immagini sacre2è punito

con una pena di 200 lire e col carcere per quattro mesi a proprie spese; se

non adempie è punito con tre tratti di corda o - se il delitto è considerato

grave - gli viene tagliata la mano destra.

Questa è la lettera della legge, ma che essa abbia avuto nella pratica

sempre piena attuazione è dubitabile. Lo fa pensare lo Statuto stesso che

dice infatti:" Licetque Capitaneo vel Vicecapitaneo, quoties ei visum fuerit,

judici maleficiornm assistere et eum adhortari, quod contra huius modi

blasphemantes debite et recte procedat, non autem processum ezus

ullatenus valeat impedire "3 In sostanza il Capitano può esortare il

Giudice dei malefici a reprimere il reato di bestemmia, ma non può

impedire che non si proceda contro i bestemmiatori. Questo implicito

amp10 potere discrezionale lasciato al giudice fa pensare ad un

rilassamento nell'applicazione della norma 1n esame e contrasta con la

durezza della repressione del reato.

Forse di un tale stato di cose può pure essere espress10ne la

mancanza, negli Statuti del 1550, della previsione di accusatori pubblici o

privati, incoraggiati nelle loro denunce da premi o spinti a ciò dalla

minaccia di punizioni- come accadeva sino allo Statuto del 1424.

La decadenza di tale norma è senz'altro effetto del contrasto fra la

severità della pena e l'opinione comune, che vedeva sproporzionata la

pena al reato commesso; è segno inoltre del venir meno nel Cinquecento di

1 : Ibid. § Sed si. 2 : Ibid. § Quod si. 3 : Ibid.

30

quel senso di profonda e sincera religiosità che nel Medioevo aveva portato

veramente a considerare la bestemmia come un reato di notevole gravità,

ma che nell'epoca moderna iniziava a valutarsi differentemente1.

Gli Statuti del 1550 non affrontano l'argomento del delitto di eresia;

infatti tale materia è trattata in un'aggiunta dell'Arciduca Carlo d'Austria

allo Statuto triestino del 1550, nella "Commissione contro gli eretici"

datata 22 Luglio 15702 . Sembra, dato il silenzio tenuto in tutti gli Statuti

triestini su questo argomento, ed in particolare nel testo originale

dell'ultimo Statuto, che Trieste seppe mantenere sempre, anche quando le

lotte religiose sconvolgevano l'Europa, una certa moderazione. Fu

necessaria infatti una legge emanata dal potere centrale per regolare una

materia così importante per quell'epoca pervasa dalle forze rinnovatrici

della Riforma e della Controriforma.

Anche tale norma non si può dire certamente severa: agli eretici è fatto

obbligo di andarsene dalla città, senza ulteriori pene; inoltre è ordinato

alle autorità comunali di impedire la vendita di libri eretici, di insegnare la

dottrina cattolica nelle scuole e di tenere comportamenti che rinsaldino i

cittadini nella fede cattolica, senza prevedere alcuna sanzione in caso di

contravvenzione a quanto stabilito.

La pena è ancor più sorprendente perché, oltre ad essere assai mite, se

confrontata con le pene coeve per tale delitto, di solito molto severe - il

diritto contemporaneo infatti sanciva per gli eretici la scomunica, il

sequestro dei beni, l'infamia, la morte sul rogo -, è emanata da un

1 : In tal senso vedi U. Cova, op. cit., a pag.31. 2 : Nell'edizione degli Statuti del 1550 UTINI, 1727, tale commissione si trova alle pagg.342-343.

31

Arciduca d'Austria che, nell'ordinare il bando dalla città non vietava la

permanenza dell'eretico nei vastissimi territori del proprio dominio.

Una traccia riguardante il dovere di seguire i principi della religione

cattolica è reperibile forse nella formula di giuramento del Vicario e del

Giudice dei malefici all'atto della nomina: i suddetti magistrati infatti si

impegnano ad essere fedeli alla Chiesa cattolica romana ed a:"nullique

contrari.ae sectae adhaerere "1.

§ I DELITTI DI STATO

Presso le tradizioni dei popoli del Nord, i delitti contro la patria erano

considerati inespiabili e puniti con la morte.

Nel diritto romano l'alto tradimento venne a fondersi con il "crimen

lesae majestatis ". Quando nel "Princeps " si personificò la Repubblica ed

in lui si trasferì la maestà del popolo romano, si considerò fatta al popolo

ogni offesa diretta al Principe.

Sotto il nome di delitti contro lo Stato o di alto tradimento venne così

ad intendersi ciò che metteva in pericolo l'esistenza e l'integrità dello Stato

o la vita del suo Capo.

Già negli Statuti di Trieste del 1424 il delitto di Stato veniva punito

severamente: con la pena di morte e la confisca dei beni2 • Tale severo ed

esemplare apparato di prevenzione e repressione dà la misura

dell'incombenza, già nel 1424, di un regime assoluto, che fra le fattispecie

di reato attribuisce una particolare gravità all'attentato alla pubblica

1 : Lib.I, Rub.3. 2 : Vedi U. Cova, op. cit., a pag.33.

32

sicurezza. Questa sensazione è inoltre avvalorata dall'assenza di norme

·simili negli altri Statuti triestini, tranne l'ultimo, quello del 1550 appunto.

In quest'ultimo Statuto infatti Ferdinando I d'Asburgo stabilisce:" Si

tamen inopinatum aliquid exurgeret, vel enorme, aut grave aliquod delictum,

sicuti in causis Status et rebellionis, aliorumve criminum, ex quorum

gravitate et enonnitate Statutorum dispositio ad poenas condignas

ilifligendas non sufficiat, in iis omnibus Capitaneus noster, Nos, vel posteros

nostros, consulenti potestatem habeat, si res moram pati potuerit et

alioquin, ipse possit ex justo suo arbitrio procedere et punire,

quemadmodum de lieti qualitas exigere videbitur, dummodo alias non f aciat

aliquid, quod sit juri et aequitati contrarium, seu alias contra privilegia et

Statuta ipsius Civitatis Tergesti "1•

Da quanto evidenziato, si può concludere che nei due ultimi Statuti

triestini, per la mutata situazione politica dovuta alla sottomissione della

città agli Asburgo - determinante per il declino delle libere istituzioni

comunali - si considerò come destinatario dell'offesa alla sicurezza dello

Stato, colui che lo Stato personificava, cioè l'Arciduca d'Austria, recependo

sul punto la concezione romana.

§ I DELITTI CONTRO L'ORDINE PUBBLICO

Gli Statuti di Trieste del 1550 trattano con particolare considerazione

la materia del mantenimento della pace cittadina: custodire la quiete e la

tranquillità pubblica e privata è un obiettivo perseguito attraverso norme

1 : Lib.I, Rub.3 § fine.

33

atte a prevenire i disordini e bloccare ogni tentativo di farsi giustizia da sé.

Altamente pericoloso era infatti per l'ordine sociale l'impiego della forza

privata per la riparazione di un torto subito o per vedere risarcito un

danno. In tale ottica si inserisce la disciplina del duello.

In origine il duello era un mezzo di prova legale1, la cui pratica però

andò progressivamente a restringersi fino a scomparire: mentre negli

Statuti triestini del 1315 e del 1350 tale istituto - di antichissima origine

germanica - è ancora presente in tutta la sua vitalità2 , già nello Statuto

del 1424 non si fa più menzione del duello giudiziario.

Gli Statuti del 1550 stabiliscono invece per la sfida a duello:"provocare

ad singulare certamen "3 - la "poena banni" per un anno fuori dal territorio

di Trieste. Allo stesso modo è punito chi ha accettato la sfida.

Tale norma però è sancita solo per i cittadini e gli abitanti della città o

del territorio: per gli stranieri incorsi in tale delitto:"poena statuatur

arbitrio Capitanei, numquam tamen huius modi certamina admittantur "4 •

Penalmente sanzionata è anche la rissa: chi si inserisce nelle

discussioni altrui a parole o con armi, si dice che:" ad rixam cucurrisse "5 .

Se però egli è "corso alla rissa" "animo rixam sedandi "6non viene

punito; ma se ha partecipato con l'intenzione di: "animi rixantibus opem ...

ferendi "7 è punito con 50 lire, oltre a sostenere la pena prevista per il

reato eventualmente commesso durante la rissa. Per stabilire l'intenzione

1 : In questa veste veniva infatti chiamato "duello giudiziario". 2 : Ne abbiamo conferma dalla disciplina del reato di omicidio contenuta in questi due Statuti: col duello giudiziario infatti si stabiliva l'attendibilità della legittima difesa, sostenuta dall'uccisore, qualora mancassero o fossero discordanti i testimoni. Vedi in tal senso U. Cova, op. cit., alle pagg. 26 e 27. 3 : Lib.III, Rub.12 § Quicun.que alium 4 : Ibid. §In alias. 5 : Ibid. § Si duo. 6 : Ibid. 7 : Ibid.

34

di chi si inserisce nella rissa gli Statuti stabiliscono:" Volumus satis

legitime eius animumprobatum videri "1 .

Se nel corso della rissa è stato commesso qualche delitto, chi"ad rixam

cucunit "è tenuto a rispondere del delitto"quam si ille illud commississet "2 •

Temuta per il mantenimento dell'ordine pubblico è anche l'eventualità

che qualcuno difenda o accolga nella propria casa chi si sia macchiato del

delitto di omicidio: nel primo caso è sancita la pena di morte, nel secondo

vi è la condanna a pagare 100 lire di piccoli.3

Stranamente gli Statuti triestini del 1550 non puniscono il reato di

evasione, ma soltanto l'aiuto all'evasione: chi rompe le prigioni del

Comune:"ut inde aufugeri.nt captivi "4è punito con la pena più grave con

cui si doveva punire uno dei detenuti. E se qualcuno di essi era recluso

per un debito civile, il "rompitore" di prigioni è tenuto a pagare i danni al

creditore, oltre che una multa di 50 lire di piccoli.

Le stesse sanzioni sono stabilite anche per chi:" commodavit vel tradidit

aut tradi f ecit capti vis instrumenta, quibus ipsi e carceri.bus evaserunt "5 . E'

stabilito inoltre che:" si quis non perfregerit ita ut captivi aufugerint sed

coeperi.t tantum frangere aut eis tradideri.t instrumenta apta ad

frangendum, attamen non fueri.t secutus aff ectus, ut aliquis captivorum

aufugeri.t "6 è punito con 100 lire di piccoli.

1 : Ibid. 2 : Ibid. § Et e. 3 : Lib.III, Rub.7 § Nullus. 4 : Lib.III, Rub.22 § Quicunque fregerit. 5 : Ibid. 6 : Ibid.

35

Per quanto riguarda il tentativo di evasione gli Statuti dicono che:" at

captiuus, idest qui esset in carcere, ob hoc quod illum fregerit vel coeperit

frangere, nulla poena tenetur "1.

Il Giudice dei malefici procede in questi casi a seguito della relazione

presentata dal custode del carcere o da quella del Commilitone; può

inoltre procedere con la tortura se la verità non emerge altrimenti.

Particolari fattispecie di reati contro l'ordine pubblico, previste dagli

Statuti del 1550, sono quella di schiamazzi e di oscenità commessi di

notte per le strade cittadine e quella di vagabondaggio.

La repressione del reato di schiamazzi rivela i lati deteriori della vita di

Trieste del tempo; infatti già nel testo cdella corrispondente norma negli

Statuti del 1424 si parla di:"multijuvenes lascivi et discoli" che vagano:"de

nocte committentes multa innormia cum armis et sine lumine contra formam

Statutoru.m Tergesti ".

Gli Statuti del 1550 stabiliscono in proposito2 che i maggiori di

quattordici anni che camminano di notte per la città dal terzo suono della

Campana della Guardia sino al suono di quella di San Giusto sono puniti

con la pena di 5 lire - la cui metà va all'accusatore, se c'è.

Se qualcuno canta canzoni oscene di notte è. punito con 25 lire; se

appende cartelli o immagini osceni alle case altrui è punito con 100 lire di

piccoli.

1 : Ibid. § At captivi. 2 : Lib.III, Rub.24.

36

Nessuno può andare in giro mascherato, né di giorno né di notte, se

non nei giorni che vanno dalla Natività del Signore al primo giorno di

Quaresima, purché con licenza dei Giudici della città 1.

Una minaccia per il mantenimento dell'ordine pubblico era costituita

anche dai vagabondi: se il Capitano o i Giudici avevano notizia che nella

città vagassero persone:" qui nulla arte sive labore se alat, videaturque eis

homo suspectae vitae " dovevano ordinargli di andarsene e:" si contumax

fuerit, imposita poena puniatur et tamen cogatur abire "2 .

§ I DELITTI CONTRO IL BUON COSTUME

Le leggi del Medioevo furono sempre severe nei riguardi dei delitti che

offendevano il pubblico costume: da un lato ciò dipendeva forse dalla

severità della vita dei barbari, che li faceva guardare con orrore tali colpe,

ma anche la Chiesa svolse un ruolo importante nell'opporre un valido

riparo a tali vizi.

Per quanto riguarda l'adulterio, la sua concezione nelle leggi

longobarde è già cristiana: sia per l'uomo che per la donna sono stabilite

uguali sanzioni3 .

Negli Statuti triestini del '500 si possono rilevare delle note peculiari a

proposito della disciplina dell'adulterio: questo Statuto infatti si stacca

nettamente dai precedenti per la profondità della disciplina.

La donna sposata, cittadina o abitante del territorio di Trieste, che

commette adulterio "cum de eo per sententiam constiterit "è privata di tutti

1 : Ibid. § Nullusque masculus. 2 : Lib.III, Rub.23 § Si innotuerit. 3 : Pertile, op. cit., fa un elenco di tali leggi, o almeno delle più importanti, a pag.524 nota 56.

37

i propri beni, i quali vanno al marito, viene frustata e:"proscribatur

perpetue "1• Il marito può addirittura uccidere la moglie colta "infiagranti"

assieme all'uomo che sta con lei2 . Questo principio è proprio tanto del

diritto romano che di quello germanico ed è strano che appaia soltanto

nell'ultimo degli Statuti triestini: in precedenza all'infuori di un caso

particolare previsto nello Statuto del 1424, nessuna pena era comminata

alla persona assieme alla quale l'adultera aveva commesso il reato: la

persona in oggetto dovrebbe essere stata esente così da qualsiasi

pun1z10ne, non essendo a Trieste punita, in linea di massima, la

fornicazione.

Ma il principio dello Statuto del 1550 che in questa materia si pone

veramente in contrasto con la legislazione precedente e, soprattutto,

contemporanea di gran lunga prevalente, è quello della parificazione, sotto

ogni aspetto penale, dell'adulterio della donna a quello dell'uomo:" quae

omnia et in marito repetita esse sancimus "3 . Questa norma, veramente

notevole per la sua lungimiranza, può essere fatta risalire soltanto al

diritto della Chiesa, dove, in qualche passo, questa parità viene

affermata4 •

Chi sottrae la moglie ad un cittadino o abitante di Trieste, contro la

volontà di costui, viene decapitato5 .

Per quanto riguarda il commercio carnale, gli Statuti triestini cercano

piuttosto di regolare l'attività delle meretrici e delle "lenae ". Le meretrici

non possono abitare altrove che nel Postribolo - il bordello - che si trova

1 : Lib.III, Rub.19 § Si qua. 2 :"Marito liceat compraehensam in adulterio uxorem et adulterum impune offendere et uccidere"§ Si qua. 3 : Lib.III, Rub.19 §in fme. 4 : In tal senso vedi U. Cova, op. cit., a pag. 37. 5 : Ibid. come in nota (1).

38

tra il Palazzo del Comune e la Porta del Porto. Nessuna di esse può

cingersi il capo con cinti d'oro, sotto pena di 10 lire di piccoli.

L'uomo trovato nel postribolo di notte dopo il terzo suono della

campana della Guardia fino al suono di quella di San Giusto è punito con

10 lire di piccoli. Se una meretrice viene trovata fuori dal postribolo, con la

testimonianza di due testi, deve essere condotta con la tromba davanti il

bordello dal Commilitone o dai Birri, a pena di 10 lire.

Fra i delitti contro il pubblico costume - ma sarebbe meglio

considerarlo a pieno titolo un delitto contro la persona - assume una

rilevanza particolare, per la riprovazione sociale da sempre insita in tale

delitto, lo stupro. Gli Statuti triestini del 1550 sanciscono che è

condannato alla pena della decapitazione chi:" cum puella nondum viri

potente rem veneream violenter habuerit "1•

Per ciò che concerne la sodomia è da dire che presso i popoli nordici

era poco diffusa, seppure nota, perché tra le "leges barbarorum " ne parla

solamente quella dei Visigoti2 . Fu la Chiesa ad aprire la via alle pene

afflittive - e specialmente alla pena di morte - secondo le disposizioni della

legge mosaica3 . Gli Statuti triestini del 1550 definiscono i sodomiti come

coloro:" qui cum masculo vel foemina rem veneream praepostere habuerint "4

La pena per loro è il rogo. 5

1 : Lib.III,Rub.17 § Qua etiam 2 : Così Pertile, op. cit., a pag.535 nota 125. 3 : Vedi Esodo XXII, 19 e Levitico XX, 13. 4 : Lib.III, Rub.17 § Sodomitae vero. 5 : lbid.

39

§ I DELITTI CONTRO LA PUBBLICA FEDE

Anche nei delitti contro la pubblica fede gli Statuti triestini mostrano la

loro oscillazione fra i principi romani ed altri chiaramente barbarici.

Se qualcuno "sciens et prudens " dichiara il falso in una causa civile -

"falsum testimonium"- è punito con il taglio di due dita; se testimonia il

falso in una causa penale gli viene tagliata la mano destra. Se la falsa

testimonianza avviene in una causa penale per una condanna alla pena

capitale, il reo è punito con la stessa pena con cui sarebbe stato punito

colui verso il quale ha falsamente testimoniato.

Se tuttavia:"per imprudentiam idfecerit, puniatur arbitrio judicis "1.

Con la stessa pena è punito chi "sciens et prudens " si serve di

testimonianze o scritture false o ricerca un altro perché testimoni il falso.

Se un notaio redige "dolose "2 una pubblica scrittura falsa è punito con

il taglio della mano destra. Questa norma relativa al notaio falsificatore è

di derivazione longobarda: nel cap. 243 dell'Editto di Rotari infatti è punito

in tal modo chi redige documenti falsi. Per investigare, il Giudice dei

malefici può, avendo indizi legittimi, procedere con la tortura.

Chi accusa indebitamente di falso un pubblico notaio è punito con 50

lire di piccoli. Se non può pagare viene frustato.

Con la stessa pena di chi testimonia il falso è punito chi si macchia di

spergiuro3 .

1 : Lib.III, Rub: 18 § Si quis. 2 : Lib.III, Rub.18 § Praeterea. 3 : Ibid. § Item si.

40

Chi manomette o altera una scrittura altrui viene punito con 50 lire e

deve risarcire i danni. Quando mancano le prove delle alterazioni:" stetur

juramento illius cuius erat scriptura "1.

Per quanto riguarda il fabbricatore di monete false gli Statuti del 1550

dispongono la pena del rogo2 ; tale sanzione è prettamente romana ed è in

contrasto con la maggiore clemenza usata dal diritto germanico per questo

reato.

Una questione interessante emerge dalla norma degli Statuti del 1550

sullo spaccio di monete false e sulla detenzione delle stesse. Vi si

stabilisce infatti che contro chi venga trovato a spendere "prudens "

monete false si proceda "secundum dispositionem juris communis "3 . Nel

fare riferimento alle disposizioni del diritto comune, gli Statuti rimandano

ai capitoli del Codice di Giustiniano sulla fabbricazione di monete false

oppure, secondo l'opinione della dottrina coeva, alla "Lex Cornelia de falsis

che stabilisce la pena in generale per i delitti di falso. Ambedue le

soluzioni però porterebbero a pene severissime, sproporzionate rispetto

alle pene stabilite da tutti i precedenti Statuti. E' insolito quindi che gli

Statuti del 1550 si affidino alle disposizioni delle leggi comuni proprio in

una materia che il diritto romano non ha approfondito a sufficienza.

Per di più, se accogliessimo la "Lex Cornelia ", dovremmo applicare

anche l'istituto della deportazione, sconosciuto dal diritto statutario e

necessariamente sostituito da questo con un'altra sanzione.

Fra le alterazioni di generi alimentari è dato un particolare rilievo a

Trieste alla sofisticazione del vino, quale principale prodotto locale,

1 : Ibid. § Porro si. 2 : Ibid. § Si quis. 3 : Ibid. Vedi inoltre U. Cova, op. cit., a pag.39.

41

tutelandosene la genuinità: chi corrompe il vino è punito con 25 lire e deve

risarcire il danno al compratore1.

Materia di particolare interesse per l'argomento di cui stiamo trattando

è quella relativa alle alterazioni di pesi e misure: il commerciante che fa

uso di pesi o misure falsi è punito con 50 lire per ogni volta che lo fa.

E' compito dei Provvisori, dei Cavalieri del Comune e soprattutto dei

Daziari dei pesi e delle misure inquisire su questi reati e poi adire la Curia

dei malefici2 . Nessun mercante può inoltre servirsi di pesi o misure non

bollati dal Daziario dei pesi e delle misure.

Interessante, per quanto riguarda il tema della testimonianza, come

prova nel processo, è la disposizione di chiusura della rubrica relativa ai

delitti di falso:"in omnibus et singulis casuum in hoc titulo enumeratornm

credatur accusanti vel denuncianti cum uno teste idoneo et lucretur tertiam

partem poenae "3 . E' facile intuire quale potesse essere l'effetto della

"ricompensa" accennata nello spingere a denunciare anche la più piccola

irregolarità.

§ I DELITTI CONTRO L' ESISTENZA, L 'INCOLUMITA' E LA SICUREZZA

INDIVIDUALE

La disciplina dell'omicidio nella compilazione legislativa del 1550 di

Trieste risente profondamente della tradizione romana, unitamente a

quasi tutti gli Statuti italiani contemporanei.

1 : Ibid. § Nullus vinum 2 : Ibid. § Volumus ut. 3 : Ibid. § Nullusque mercator.

42

Se qualcuno, nella città o nel territorio di Trieste, compie un omicidio,

viene decapitato. Se ferisce o percuote un altro in modo tale che subito o

successivamente l'altro muoia, è sottoposto alla medesima

punizione:"modo ex relatione publici. Chyrurgi vel aliarum peritorum

appareat illum ex ea offensione mortuum est "1• Il medico o gli altri periti

devono prestare giuramento:" de veritate dicenda, quatenus eam ex peritia

artis cognoscunt "2 •

L'omicida non catturato:"proscribatur, idest exbaniatur perpetuo a

Ciuitate et territorio Tergesti "3 ; se verrà successivamente catturato, sarà

ugualmente decapitato.

Una fattispecie particolare di reato che, come abbiamo accennato

trattando del concorso di persone nel reato, ha molti punti di contatto con

il "tractatus mortis " è quella dell'assassinio. Per assassino gli Statuti del

1550 intendono chi:" ab alio accepta pecunia, mercede, sive praemio alium

interf ecerit et similiter eum, qui pecuniam, mercedem, praemiumve eam ob

rem dederit, item eum intelligimus assassinum qui proditorie vel a tergo

hominem interf ecerit, item eum qui grassatus fuerit in uiis, idest homines

iter f aci.entes spoliaverit pecuniis, aut aliis rebus "4 •

Le pene stabilite per questo crimine sono costituite da un inasprimento

delle sanzioni rivolte contro l'omicida, in quanto il corpo del condannato è

sottoposto ad uno strazio inusitato, sia prima che dopo l'esecuzione

capitale: il condannato viene trascinato alla coda di un cavallo:" a porta

1 : Lib.111, Rub.7 §Si quis. 2 : lbid. § Quae relatio. 3 : Ibid. § Omnis autem 4 : Lib.III, Rub.17 § Assassinum autem

43

Cavanae usque ad portam Riburgi "1 e poi decapitato e squartato:"deinde

caput ei amputetur et demum eius corpus dividatur in quattuor partes "2 •

Se l'omicidio programmato non è avvenuto, sono tagliate le mani destre

all'assassino ed al mandante.

Si vede che qui, come quasi sempre nel "tractatus ", la fattispecie

cnm1nosa è fondata su di un rapporto di mandato a delinquere fra il

mandante e l'esecutore materiale del reato. Una differenza fondamentale

intercorre però tra questi due tipi di mandato: elemento imprescindibile

dell'assassinio è la rimunerazione pecuniaria del sicario, mentre nel

"tractatus" semplice non si parla mai di una rimunerazione come prezzo

dell'uccisore.

Negli Statuti del 1550 è data una rilevanza particolare alla repressione

dei delitti di percosse e lesioni personali, come del resto in tutti gli Statuti

italiani. L'importanza attribuita a questi reati risulta evidente dalla

minuziosità e dalla prolissità delle norme che li riguardano ed a questa

regola non sfugge nemmeno lo Statuto più recente. Questa è un'impronta

lasciata dalle leggi barbariche, cui erano peculiari minute elencazioni di

questi reati, puniti caso per caso con pene pecuniarie differenti.

Gli Statuti del 1550 stabiliscono che chi taglia un dito ad un altro è

punito con 100 lire di piccoli, mentre chi taglia o debilita determinati

membri è punito con 200 lire; i membri presi in considerazione dalla legge

sono: il naso, la lingua, ciascun occhio, ciascuna mano e ciascun piede.

La lesione è certificata sulla base di una relazione del medico o di altri

periti. Tale disposizione è indice di un tentativo, proprio del diritto italiano

1 : Ibid. § Si quis .. 2 : Ibid.

44

coevo, di approfondire la conoscenza dei rapporti fra causa ed effetto nel

campo criminale.

Il Giudice dei malefici, oltre alla pena predetta, può imporre una pena

corporale:"citra talionem, si ex qualitate personarum ita censuerit "1

scegliendo fra i tratti di corda, il bando o la galera.

Il reo è anche condannato a pagare le spese per le medicine e le cure

per le ferite da lui provocate. Tali spese sono liquidate dal Giudice dei

malefici con i Giudici della città ed il Provveditore di Trieste2 . Inoltre deve

risarcire il danno:"iusta juris communis dispositionem "3 .

Se qualcuno "in Civitate vel territorio tergestino " ferisce un altro con

"sanguinis effusione " è condannato a pagare 60 lire di piccoli. Otto giorni

dopo la condanna:"teneatur ire exulatum quattuor integros menses ultra

Muglam et Duinum "4 . Per una ferita viene applicata la pena predetta; se le

ferite sono più di una, ma senza "tumor sanguinis ", la pena è di 20 lire per

ogni ferita in più; se invece la ferita comporta perdita di sangue, la pena è

di 40 lire per una percossa con 1 O lire per ogni percossa in più.

Se il condannato non paga viene frustato e proscritto per dieci anni.

Per tutti i casi il Giudice dei malefici giudica dalla relazione del medico

pubblico. Se la relazione dichiara che esiste pericolo di morte5, il reo è

posto in carcere fino allo scioglimento della prognosi.

Interessante per far rilevare l'importanza del diritto comune

nell'ordinamento normativo degli Statuti del 1550 è una norma contenuta

nella rubrica relativa alle lesioni: è stabilito infatti che se qualcuno

1 : Lib.III, Rub. 7 § Quicunque amputaverit. 2 : Ibid. § Et semper. 3 : Ibid. 4 : Lib.III, Rub.8 § Statuimus quod. 5 : Ibid. § In quocunque.

45

commette un delitto non previsto dagli Statuti:" si delictum fuerit grave

habeatur a judice recursus ad jus comune, sed si leve tunc puniatur arbitrio

Capitanei "1, sempre però entro le pene stabilite per un caso simile dagli

Statuti stessi.

Oltre le pene predette il reo deve rifondere le spese mediche e risarcire i

danni, come stabiliti e liquidati per l'omicidio. Se il reo non può pagare

nonostante l'escussione, il Capitano "ex arbitrio " può porlo in carcere

alcuni giorni o torturarlo, affinché il reato non rimanga impunito2 .

E' punito con 1 O lire di piccoli il tentativo di lesioni:" si quis habens in

manu gladium, actum percutiendi f ecerit, licet non percusserit "3 .

Costituiscono un'affermazione del principio dell'esclusiva titolarità del

diritto di punire i delinquenti da parte dell'autorità pubblica le norme degli

Statuti del 1550 che vietano ai privati di tenere presso di sé in prigionia

una persona. Nessuno infatti può tenere prigioniero qualcuno nella

propria casa; se lo fa è punito con 200 lire di piccoli. Ciascuno però può

catturare chi, per qualche misfatto, debba essere punito, ma lo deve

consegnare immediatamente al Giudice dei malefici, ricevendo in cambio

50 lire di piccoli dal Comune di Trieste. Se non lo consegna è punito con

50 lire:"nisi doceretjustum impedimentum "4 •

Generalmente gli storici tendono a considerare questa facoltà di

cattura da parte dei privati come un segnale di debolezza dei pubblici

poteri di allora nella repressione dei reati. Io credo piuttosto che tutto ciò

sia da interpretare come uno strumento dato dall'autorità ai cittadini per

1 : Ibid. § Et deni,que. 2 : Ibid. § Et quicunque. 3 : Ibid. § Sed et. 4 : Lib.III, Rub.26 § Possit tamen.

46

collaborare al mantenimento dell'ordine pubblico. Anche nel nostro

ordinamento è concesso ai privati di arrestare il reo colto in flagrante -

vedi l'art. 383 del Codice di Procedura Penale - e nessuno lo considera un

segno di incapacità delle istituzioni, ma piuttosto un dovere civico.

Ognuno può prendere il proprio debitore se ne sospetta la fuga, ma lo

deve subito portare dal Vicario, il quale lo incarcera se il sospetto è

ragionevole, sino all'adempimento. Se non lo consegna però, il Vicario

libera il debitore dal debito e condanna il creditore a 25 lire da versare al

Comune1.

Ai padroni è permesso di disporre a piacimento dell'opera dei servi e

dei coloni al loro servizio: i dipendenti devono stare al servizio del padrone

per il tempo convenuto, ma se si ritengono aggravati ed hanno giusta

causa per andarsene devono appellarsi ai Giudici della città, i quali, udite

sommariamente le parti, determinano a loro discrezione2 •

Ognuno può far catturare e far tenere in carcere i propri coloni se sono

inadempienti, fino a che non pagano gli affitti3 .

In tempo di guerra ognuno può catturare i nemici ed imporre loro una

taglia. 4

1 : Ibid. § Item unicuique. 2 : Ibid. § Item quisque. 3 : Lib.III, Rub.26 §Porro autem 4 : lbid. § Tempore belli.

47

§INGIURIA ED ALTRE OFFESE ALL'ONORE

La contraddittorietà fra il concetto romano di "injurid' e quello

germanico portò, nella legislazione italiana dell'epoca intermedia, una

certa confusione.

Mentre i Romani col termine suddetto si riferivano in generale ad ogni

azione contraria al diritto e più in particolare ad ogni offesa arrecata ad

altri nel corpo o nella stima sociale, i popoli germanici tennero invece

distinti, come reati sostanzialmente diversi, le offese recate al corpo da

quelle più direttamente rivolte contro l'onore del soggetto passivo del

reato, secondo un principio quindi molto vicino a quello accolto dalle

moderne legislazioni. Gli Statuti triestini del 1550 danno l'impressione,

soprattutto dal punto di vista sistematico, di aver accolto la distinzione

germanica.

Gli Stat~ti danno un elenco delle parole ingiuriose: per ognuna di esse

la pena è di 16 lire di piccoli. Tuttavia:" si quis probaverit verbum injurosum

a se dictum verum esse, nulla poena tenetur "1. E' di derivazione

longobarda non soggiacere alla pena se si prova che l'ingiuria è vera2 .

Derivazione di questo principio è la norma corrispondente che lascia

impunito chi risponde ad una ingiuria se questa non è vera.

Se qualcuno augura la morte ad un altro la pena è di 10 lire.

Per più ingiurie la sanzione è comminata per una sola ingiuria, cioè per

quella più grave, purché non trascorra molto tempo fra le diverse ingiurie;

se trascorre infatti molto tempo ad ogni ingiuria segue la sua pena.

1 : Lib.III,Rub.34 § Porro si. 2 : Pertile, op. cit., a pag.616 nota 2 richiama a tal proposito Roth. 198, 381.

48

Queste disposizioni si applicano ai rei cittadini o abitanti del territorio

di Trieste che abbiano più di diciotto anni; se invece l'ingiuria è intercorsa

tra cittadini e forestieri, la pena è stabilita ad arbitrio del Capitano1, entro

i limiti della pena con cui si punirebbe un cittadino.

In linea generale gli Statuti stabiliscono che:" hoc quoque volumus

observari, ut nullius injuriae fiat aestimatio, aut emendatio civiliter aut

criminaliter, sed injuriae puniatur tantum poenis supradictis, nisi ubi

nominatim his Statutis aliter caveretur "2 .

Se il reo proferirà un'ingiuria di minore gravità, rispetto a quelle

elencate, sarà punito con pena arbitraria del Giudice dei malefici, minore

però di 4 lire di piccoli.

Se qualcuno ingiuria un altro alla presenza del Capitano, del Vicario,

del Giudice dei malefici o di altri pubblici ufficiali, è punito con 25 lire di

piccoli. Chi invece ingiuria il Capitano è punito con 50 lire: in tal caso la

pena è irrogata sulla base della sola asserzione del Capitano, ma se il

Capitano si avvale di testimoni, la pena è di 100 lire di piccoli. 3 Lo stesso

vale con riguardo al Vicecapitano, al Vicario, al Giudice dei malefici, ai

Giudici della città: sul loro giuramento il reo è condannato a 25 lire, a 50

lire di piccoli se vi sono dei testimoni.

Inoltre è sancito che:" at si quis minatus fuerit alici ex praedictis

magistratibus, poena sit dupli "4 di quella stabilita per le ingiurie.

1 : Lib.III, Rub.34 § At inter. 2 : Ibid. § Hoc quoque. 3 : Ibid. § Caeterum si. 4 : Ibid. § At si.

49

L'ingiuria può consistere, oltre che in parole, in segni o azioni destinate

a mostrare disprezzo o di~istima contro una persona - come una sorta di

ingiuria simbolica.

Gli Statuti triestini cinquecenteschi puniscono infatti anche chi getta

immondizie davanti la porta di una casa abitata da altri; in tal caso la

pena è di 25 lire. L'abitante della casa, se coglie in flagrante il reo, può

"impune" offenderlo "citra tamen mortem "1.

Chi riversa immondizie sopra una persona è punito con 8 lire ed

inoltre:"porro si quis tale aliquid in aliquem projecerit vel effuderit ex

proposito et animo appensato "2 è punito con 60 lire di piccoli oppure con

tre tratti di corda, ad arbitrio del Capitano:"iuxta qualitatem delinquentis et

personae injuratae "3 .

§I DELITTI CONTRO LA PROPRIETA' PRIVATA ED IL PATRIMONIO

Chi, maggiore di diciotto anni, entra nella casa di altri contro il loro

divieto, oppure di notte, ma senza violenza, è punito con 50 lire di piccoli.

Se, oltre ad entrare, prende anche qualche cosa:"teneatur pro valore rei

poena furti "4 •

Se uno entra in un "praedio" - cioè l'orto, le vigne, i campi, i prati ed

altri simili beni - è punito con 25 lire, potendo essere assalito, oltre che

dal proprietario o dall'affittuario, anche da quelli accorsi per portare

1 : Lib.III, Rub.13 § Si quis. 2 : Lib.III, Rub.30 § Porro si. 3 : lbid. 4 : Lib.III, Rub.13 § Item si.

50

soccorso. Se prende qualche cosa risponde anche di furto, secondo il

valore della cosa.

Nessuno però può impedire ai cacciatori ed ai loro cani di entrare nelle

proprietà dal tempo in cui è terminata la vendemmia fino all'inizio di

Marzo1 . Se però un cane, entrato nel predio nel tempo non consentito,

reca danno:" dominus puniatur "2 con 40 soldi.

L'occupazione di un terreno altrui si differenzia dal danneggiamento sia

per la diversa posizione nel sistema degli Statuti sia per la stretta

connessione fra diritto civile e diritto penale che vi si riscontra.

I Giudici ed i Provvisori infatti:"nulli debeant consentire novo open

f aciendoJ si id esset damnosum vel populoJ vel alici privato, quod tamen

eorum arbitrio relinquimus aestimandum, consideratis rei circumstantiis "3 .

Chi occupa con una costruzione un luogo altrui è punito con 10 lire di

piccoli e con l'obbligo di risarcire il danno. Tuttavia se l'accusato propone

istanza al Giudice dei malefici perché la causa sia rimessa al Tribunale

civile, poiché in quella sede intende provare che la proprietà è sua e che

quindi egli ha legittimamente costruito, il Giudice rimette l'istanza al

Vicario. Come vediamo è una chiara situazione di pregiudizialità civile: è

necessario infatti l'accertamento del giudice civile sulla titolarità del diritto

relativo al bene immobile contestato, a seguito del quale il procedimento

penale deve basarsi sulla soluzione accolta in sede civile. Passata m

giudicato la sentenza del Vicario, il reo o l'accusatore la presentano al

Giudice dei malefici e se il Vicario ha dato ragione all'accusatore, il reo è

1 : Vedi art. 842 Codice Civile. 2 : Lib.III, Rub.13 § Quantum 3 : Lib.III, Rub.21 §Si quis.

51

condannato a pagare 10 lire di piccoli al Comune, mentre se la sentenza

civile è favorevole al reo, egli, in sede penale, andrà assolto.

Prendere terra o pietre da un luogo pubblico o privato per portarlo nel

proprio viene punito con 40 soldi, oltre che con il risarcimento del danno.

Con grande severità è punito l'incendio doloso 1• Chi appicca il fuoco

dolosamente ad una casa altrui - abitata o no - è punito con la pena del

rogo - quasi per una sorta di "taglione" simbolico. Se però l'incendio non

distrugge la cosa, ma crea comunque un danno, la pena è di 200 lire di

piccoli ed inoltre il reo:"proscribatur" per due anni fuori dalla città e dal

territorio di Trieste.

Se il fuoco viene appiccato in campi, orti o vigne la pena è di 1 O lire; se

il fuoco è appiccato nel proprio possedimento e da qui, estendendosi,

nuoce ad altri, la pena è di 1 O lire. Oltre a tale pena è sancito l'obbligo di

risarcire il danno, anche restituendo le cose danneggiate con beni propri2 .

Chi porta fuori da una casa degli oggetti durante un incendio, deve

restituirli entro due giorni, altrimenti:"ferti tenebitur "3 .

Circa la quantità dei danni:" credeatur juramento illorum, ad quos res,

quibus nocitum est, pertinet "4 .

Se qualcuno, entrato nella proprietà altrui, svelle o taglia o comunque

danneggia le piante è punito con 10 lire per ogni pianta danneggiata.

Se qualcuno trova nella propria proprietà qualche animale che sta

creando danno, lo può condurre a Trieste o nel luogo detto "Berlina" o in

un altro posto, secondo gli ordini del Giudice dei malefici. Da tale luogo

1 : La materia è regolata nel Lib.III, Rub.16. 2 : Lib.III, Rub.16 §Et e. 3 : Ibid. 4 : Ibid.

52

l'animale non può essere preso dal padrone senza licenza del giudice

stesso. Se l'animale è di grossa taglia - come un cavallo, un bue o un

asino - il padrone è tenuto a pagare 40 soldi per ogni animale al Comune,

20 soldi per ogni capo se si tratta di animali piccoli - come capre, pecore o

agnelli1 -. Se il danneggiamento da parte degli animali avviene di notte, la

pena è raddoppiata.

In ogni caso è dovuto il risarcimento dei danni; circa la quantità e la

qualità del danno, se non c'è accordo tra il proprietario danneggiato ed il

padrone dell'animale, viene fatta una stima dagli Estimatori della città.

Tra i reati contro il patrimonio il furto è caratterizzato, nelle leggi

statutarie di Trieste, come 1n gran parte degli Statuti italiani,

dall'imposizione ai rei di una sene di pene, pecun1ane e corporali,

culminanti, nei casi più gravi, nella condanna a morte del colpevole.

Benché i criteri di valutazione della gravità del reato e della successiva

applicazione della pena non siano i medesimi, s1 può osservare la loro

derivazione dalle norme delle leggi longo bardo - franche2 .

Per il primo furto, se il valore della cosa rubata è di 20 soldi, la pena è

di 10 lire di piccoli. Ma se il valore è superiore, la pena è di 25 lire. Il reo,

nell'uno e nell'altro caso, è tenuto in carcere a proprie spese, sino

all'intera soddisfazione della pena. Pagata che sia questa è posto per un

giorno alla berlina.

Se la cosa ha un valore superiore a 20 soldi e ci sono indizi legittimi,

per ricercare la verità il giudice può procedere con la tortura3 .

1 : Lib.III, Rub.13 § De animalibus. 2 : Fu Liutprando infatti a distinguere il numero dei furti ed a punirli diversamente, come ricorda Pertile, op. cit., a pag.641 in nota 54. 3 : Lib.III, Rub.14 §Et habitis.

53

Se la cosa vale più di 5 lire, il reo è punito con tre tratti di corda 1.

Al secondo furto il reo viene frustato se non è stato frustato al primo

furto. Se invece al primo reato era già stato frustato, gli vengono tagliate le

orecchie.

Al terzo furto se il reo ha già le orecchie tagliate, viene impiccato:"ita

quod statim moriatur "2 . Gli vengono tagliate le orecchie se al secondo furto

era stato solo frustato.

Al quarto furto il reo viene impiccato senza distinzioni.

Oltre a tali pene, il ladro deve restituire la cosa rubata o il suo valore al

derubato e deve pagare il boia che esegue la sentenza.

Se qualcuno prende galline o oche o altri simili animali:"noZumus m

numero furum haberi "3 : egli viene punito per ogni capo preso con 5 lire di

piccoli, che vanno al Comune, e con 40 soldi, che vanno al proprietario.

Se qualcuno prende qualcosa:"non furandi animo, quod variis ex

conjecturis colligi potest "4per terminare una sua opera, non viene

considerato un ladro, ma deve pagare 4 lire di piccoli e risarcire il danno.

In tal caso il proprietario è creduto con un solo testimone.

Chi trova delle cose altrui per la strada deve darne notizia ai Giudici

della città, perché la conservino e con pubblico proclama rendano noto il

ritrovamento5 . Se nessuno compare nel termine indicato nel proclama per

riprendere la cosa, questa viene divisa: metà va al Comune e metà va al

ritrovatore6 .

1 : Ibid. § Ita statuimus. 2 : Lib.III, Rub.14 § Terno vero. 3 : Ibid. § Sed si. 4 : Ibid. § Porro si. 5 : Ibid. § Praeterea si. 6 : Ibid. § At si.

54

Lo Statuto di Trieste del 1550 dà una regolamentazione minuziosa del

furto agricolo; è interessante notare che le norme riguardanti questo reato

sono inserite nella rubrica relativa ai danni cagionati all'altrui proprietà.

Ciò deriva probabilmente dalla valutazione che si dava a questo reato,

come se si collocasse tra il furto vero e proprio ed il semplice

danneggiamento. Conferma di questa supposizione è data dagli Statuti

stessi, che in alcuni casi regolano tale reato secondo le norme generali del

furto vero e proprio.

Se qualcuno ha rubato frutti del valore di più di 1 O soldi lo si accusa in

Tribunale e la pena è uguale a quella prevista per il furto. Se il delitto è

stato "plene probatur" il ladro viene condannato; ma se del delitto manca

la prova piena, sussistendo solo indizi, il Giudice dei malefici deve

procedere:" ad torturam accusati ".

Meno viene punito chi, senza divieto del possessore, è entrato nel

predio ed ha anche preso alcune cose, senza che il proprietario lo sapesse:

la pena è di 2 lire. Ognuno può farsi accusatore ed è ·creduto sul proprio

giuramento.

Su questo illecito giudicano i Giudici della città con un processo che si

svolge oralmente, senza atti scritti, solo alla presenza delle parti1 .

Se il ladro ruba frutti non superiori per valore a 10 soldi è punito con 5

lire di piccoli, credendo al giuramento del proprietario2 • Il giudice:"possit

hunc furem, si sua confessione, vel saltem uno teste idoneo convincetur,

poni f acere ad locum qui dicitur berlina ut sex integras ho ras maneat "3 .

1 : Lib.III, Rub.13 § Sed si. 2 : Ibid. § Quod si. 3 : Ibid.

55

Se la frutta rubata poi viene rivenduta c'è il rischio di lasciare impuniti

i ladri:"quia ( il furto ) probari non potest "1, essendo una "probativo

diabolica ". Per arginare questo rischio il Giudice dei malefici, se ne ha

notizia o lo sospetta, :"habito colloquio cum Judicibus Civitatis "2, deve

chiamare a sé il sospettato, senza le solennità della "proclamatio "e se

questi:"nisi planum fecerit se justo titulo eam rem habuisse, ponatur in

carceribus "3 per quindici giorni. Scontata tale pena non lo si può punire

ancora. Si deve indagare poi nella catena delle vendite e degli acquisti sino

a scoprire in quale possessione la frutta è nata ed è stata rubata.

Se il ladro è fuggito viene iscritto a cura del Giudice dei malefici nel

libro del malefici. Il giudice che non procede in tal modo è punito con 50

lire.

Dalle norme sul furto agricolo appare evidente la ragione

dell'attenzione prestata alla tutela dell'agricoltura: l'economia agricola di

Trieste infatti era alla fine del Medioevo ancora elemento imprescindibile

nel commercio.

Negli Statuti del 1550 però si possono già trovare i segni di un

commercio di più largo respiro, specie di transito, grazie ad alcuni privilegi

concessi alla città dai sovrani austriaci.

Per quanto riguarda la rapina, gli Statuti stabiliscono che si proceda

contro il reo come per il furto se il reato è stato commesso in città, oppure

come per l'assassinio se commesso fuori dal territorio.

1 : Ibid. § Sed quoniam 2 : Lib.III, Rub.13 § Sed quoniam 3 : Ibid.

56

§ I DELITTI DEI PUBBLICI UFFICIALI

Se il Vicario, il Giudice dei malefici, uno dei Giudici e Rettori della città

o un altro pubblico ufficiale del Comune di Trieste recano offe~a o

percuotono qualcuno:" puniatur illis poenis, quibus puniretur civis si ita

deliquerit "1• Tuttavia nessun magistrato o pubblico ufficiale:"cogatur ire

ex:ulatum ultra Muglam et Duinum "2 .

Se però il Vicario ed il Giudice dei malefici hanno compiuto tali azioni

per sedare una rissa non sono punibili, purché la lesione sia:" citra

sanguinis effusione "3 . Se il Giudice dei malefici compie un delitto viene

giudicato dal collegio dei Sindaci, durante il periodo di funzione del

Sindacato4 , dopo che il processo è stato istruito dai Giudici della città.

Qualora il delitto sia grave il Capitano, o il Vicecapitano, può incarcerarlo

o rimuoverlo subito dall'incarico, acquisito il parere dei Giudici della città.

Il processo segue le normali regole previste per i cittadini. Contro il

Vicario, i Giudici della città e gli altri pubblici ufficiali procede il Giudice

dei malefici.

Se il Capitano, o il Vicecapitano, uccide qualcuno che non appartiene

alla propria famiglia, il Giudice dei malefici, sotto pena di 100 lire, è

tenuto a procedere a norma degli Statuti entro quindici giorni, per quanto

riguarda la fase istruttoria ed a rimettere p01 il processo al Sovrano:" et

tunc Nos statuemus ut Nobis videbitur "5 Lo stesso avviene se a

commettere il delitto sono stati i figli, i nipoti, i fratelli o altri parenti del

1 : Lib.III, Rub.13 § Statuimus quod. 2 : Lib.III, Rub.10 § Statuimus quod. 3 : Ibid. § Sed si. 4 : Vedi a proposito di tale organo l'apposito paragrafo nella Sezione II relativa all'Ordinamento giudiziario. 5 : Lib.III, Rub.10 § Et e.

57

Capitano. Per i delitti commessi dai "familiares " e dai "domesticos " del

Capitano, egli stesso è giudice. Ma:" si Capitaneus negligens fuit, poterunt

de eo apud Nos ( cioé il Sovrano ) conqueri " 1.

Il Commilitone che si appropria dei beni costituenti pegno a seguito di

una esecuzione può essere accusato alla uria dei malefici. Egli viene

punito come gli altri pubblici ufficiali.

Le norme relative ai reati commessi dai magistrati e dai pubblici

ufficiali vanno ad aggiungersi a quelle, minuziose e numerose, concernenti

i doveri stabiliti nella Costituzione comunale. Esse sono per lo più

conformi ru principi generali su questa materia vigenti in tutta Italia a

quell'epoca.

§ I GIUDEI E L'USURA

Gli Statuti di Trieste del 1550 stabiliscono che gli Ebrei, per essere

riconoscibili, devono portare una lettera "O" gialla cucita sulle vesti, sotto

pena di 1 O lire2 . I Giudei forestieri, che non hanno domicilio in Trieste,

non possono essere accusati di questo il primo giorno del loro arrivo in

città.

Le accuse relative a tale om1ss10ne sono presentate al Giudice dei

malefici, senza però solennità di procedura, poiché il rito si svolge

oralmente, citando una sola volta il Giudeo. Dalla pena predetta sono però

esclusi i pubblici "f oeneratores ", cioè gli usurai, e tutta la loro famiglia.

I : Ibid. § In delicti. 2 : Lib.III, Rub.32 § inizio.

58

A tale riguardo va osservato che l'usura, il prestito ad interesse, è a

Trieste, diversamente da altrove, piuttosto regolata che repressa.

Stabiliscono infatti gli Statuti del l550:"nullusque judaeornm audeat

f oenerari, idest pecunias ad usuras dare, praeterquam ille cui a Ci vitate

sive communitate hoc munus delegatum fuerit, sub poena de qua inter

communitatem et conductum foeneratorem convenerit "1. Ciò è dovuto alla

necessità, specie per ragioni commerciali, di poter acquisire somme di

denaro nel minor tempo possibile. Forse però a tale disciplina non è del

tutto estraneo il diritto romano2 , che puniva non tanto l'usura in sé,

quanto l'eccesso del prestito di denaro ad interesse.

§ALCUNI DELITTI PARTICOLARI

Nel III Libro degli Statuti del 1550 è disciplinata una sene di reati

riconducibili alla categoria delle odierne contravvenzioni; sono per lo più

reati "particolari", in quanto tipici della città o delle abitudini dei suoi

abitanti.

Potremo definire relativa alla "pubblica igiene" la materia regolata nelle

Rubriche 30 e 31 del III Libro.

La prima riguarda i divieti di lasciare immondizie in luoghi pubblici: la

pena per questa infrazione è di 3 lire di piccoli. La stessa pena è prevista

per chi getta acqua per le strade, eccetto quando si lavano i pozzi o le

fontane.

1 : Ibid. § Nullusque Judaeorum 2 : In tal senso vedi U. Cova, op. cit., a pag. 32.

59

Nessuno può adoperare per lavare la biancheria, le stoviglie o il pesce

acqua destinata agli uomini o per cucinare. La pena è di 40 soldi. Le

inquisizioni in tali casi sono condotte dai Provvisori, dal Commilitone o dai

Cavalieri del Comune, sotto pena di 10 lire in caso di negligenza. Ogni

mese essi devono perlustrare il territorio della città:" quod Civitas omni

sorde et immunditia purgetur "1• Nelle cause relative a tali delitti, che sono

giudicate con rito sommario dai Giudici della città," credatur juramento

alicuius ex dictis officialibus accusantis "2 • Anche l'accusatore privato è

creduto sul proprio giuramento ed a lui va anche la metà della pena

nscossa.

Nessuno deve buttare sassi o immondizie nel porto, sotto pena di 3 lire

di piccoli. Nessuno può tenere immondizie nelle strade per più di tre

giorni, a pena di 40 soldi.

La Rubrica 31 invece regolamenta la presenza degli animali nella città

e nel territorio di Trieste.

"In Civitate " non si possono tenere oltre due giorni animali come

cavalli, buoi, vitelli sotto pena di 3 lire per ogni capo. Tuttavia è concesso

ad ogni padre di famiglia di tenere, per il proprio fabbisogno, una vacca ed

un maiale, purché rinchiusi e:" sine taedio " per i vicini3 .

Dal giorno di San Michele a quello di San Gregorio si possono tenere in

casa due animali da ingrasso di grossa taglia e quattro minuti per

cibarsene.

"In territorio intra montes " può tenere animali chi possiede campi da

arare, a seconda della necessità. Si possono tenere anche quattro vacche.

1 : Lib.III, Rub.30 § In omnibus. 2 : Ibid. 3 : Ibid. § Nullus audeat.

60

Sono eccettuati i coloni di Terstenico e Conconello perché:" sic antiquitus

obseroatumfuit "1. A tutti è permesso tenere cavalli per cavalcare.

"In territorio extra montes " è lecito tenere e far pascolare ogni tipo di

animale. Durante l'inverno, per la rigidità del clima, i Giudici della città

possono concedere di portarli al di qua dei monti. Similmente d'estate, a

causa della siccità, si può spingere gli animali al di qua dei monti per farli

bere, a patto di riportarli subito via2 .

Da collegare alla fiorente coltivazione della vite e del commercio del

vino è la norma che viete di portare a Trieste "vinum peregrinum " - cioè

nato fuori dalla città o dal territorio - sotto pena di 100 lire di piccoli e la

perdita del vino. Sono eccettuati i nuovi abitanti della città, purché il loro

vino sia stato prodotto in luoghi di loro proprietà, sotto giuramento ai

Giudici della città.

Ugualmente i commercianti possono introdurre vmo "forestiero", ma

non lo possono tenere a Trieste più di otto giorni. Nessun magistrato può

dare permessi o licenze contro tali prescrizioni, a meno che non si tratti

del vino destinato al convento delle Monache di San Benedetto.

E' lecito per ciascuno portare per proprio uso un quarto di vino Greco -

Malvasia - o Romania.

Il Capitano può tenere vino straniero per l'uso proprio o della

famiglia:"presenti prohibitione non obstante "3 Lo stesso è stabilito per

l'Esattore arciducale che abita nella città.

Curiosa è la norma che impedisce di raccogliere castagne dopo il 7

Ottobre, sotto pena di 6 lire di piccoli:"neque pendentes in arbore, neque

1 : Ibid. § In territorio. 2 : Ibid. § Cum magnae. 3 : Lib.Ill, Rub.28 § Item mercatores.

61

humi iacentes "1• Chi possiede alberi di castagne le può raccogliere in

questo periodo solo col permesso dei Giudici della città.

Infine ogni abitante della città o del territorio può tagliare erba o legna

o far pascolare gli animali nei "farneti" - i boschi - del Comune. Ma nel

farneto più vicino al Castello di Trieste solo il Capitano può entrare e

trarne della legna2 .

1 : Lib.III, Rub.27. 2 : Ibid.

62

§LE PENE

Come negli altri Statuti italiani, anche in quelli triestini del 1550 le

sanzioni per i reati meno gravi sono costituite quasi sempre da pene

pecuniarie fisse, minuziosamente stabilite secondo il modello del diritto

longobardo - franco: presso i popoli settentrionali infatti la principale

sanzione penale consisteva in una pena pecuniaria, che poteva alternarsi

alla vendetta privata1• Negli Statuti triestini però l'ammontare della pena

viene incamerato dal Comune, anziché venire versato alla persona offesa.

Tra le pene che colpiscono il patrimonio la confisca trova una

disciplina particolare negli Statuti. Le leggi triestine mostrano delle

peculiarità anche in questa materia: una disciplina quanto mai mite e

rispettosa dei diritti patrimoniali si ha per il condannato per il delitto di

omicidio2 .

L'omicida infatti, anche se in carcere, rimane proprietario dei beni: può

quindi testare o disporre di essi in altro modo3 . Se non ha fatto testamento

i suoi beni, dopo la morte, pervengono ·agli eredi come se egli fosse morto

"ab intestato". Egli in sostanza:"permaneat dominus bonorum suorum "4 •

Se il reo però fugge e viene quindi bandito in perpetuo, la moglie

può:"repetere dotem et alia bona sua ... ac si naturaliter mortus esset "5 .

Tutte queste disposizioni sono improntate ad una notevole clemenza,

sconosciuta per lo più agli altri Statuti· coevi.

1 : Solo i delitti che colpivano direttamente la società e ne minacciavano l'esistenza si punivano con pene corporali: Vedi Roth. 1,3 - 7, 19, citato da Pertile, op. cit., a pag. 190 in nota 1. 2 : Una netta evoluzione si riscontra in questa materia da uno Statuto all'altro: vedi U. Cova, op. cit., a pag.18. 3 : Lib.III, Rub. 7 § omnis autem 4 : Ibid. 5 : Ibid. § Uxor tamen.

63

La confisca dei beni è invece prevista come pena accessoria per la

moglie adultera. La proprietà dei beni è assegnata al marito, per cui di essi

egli può disporre anche per testamento.

A Trieste la pena di morte compare già nel primo Statuto e, secondo la

tradizione romana, il suo uso si dimostra subito abbastanza largo1.

E' senz'altro il retaggio di un'usanza barbarica però l'imposizione della

pena capitale fatta negli Statuti cinquecenteschi ai colpevoli del reato di

stupro e di furto2 .

La pena del taglione viene espressamente abolita dagli Statuti del

15503 , salvo ricomparire in forma simbolica in altre pene - ad esempio il

rogo per gli incendiari o il taglio della mano per i falsari - ; tuttavia il

bisogno di un'esplicita abrogazione del legislatore4 indica la presenza di

una tradizione radicata, frutto probabilmente della persistenza della

pratica della vendetta come mezzo di soluzione delle controversie.

Alla reclusione è riconosciuta, come si osserverà nella parte relativa al

processo penale, una funzione eminentemente preventiva. Tuttavia negli

Statuti del 1550 si nota, col trascorrere del tempo, una maggiore

affermazione del principio della detenzione concepita come vera e propria

pena, come mezzo di espiazione della colpa del delinquente, secondo

l'esempio offerto dal diritto canonico, primo assertore di questa nuova

1 : La pena di morte non era frequente presso i popoli germanici, ma poi se ne abusò. La Chiesa si oppose a tale pratica, volendo che il delinquente non si eliminasse, bensì si conservasse nella società, una volta rieducato e pentito. Vedi però l'atteggiamento intransigente della Chiesa a proposito della eliminazione dei Sodomiti, che fa da contraltare alla presa di posizione contro la pena di morte. 2 : Per lo stupro vedi Lib.III, Rub.17; per il furto vedi Rub.14. 3 : Vedi Lib.III, Rub. 7 § Quicumque amputaverit. 4 : Ricordiamo che il taglione veniva praticato ancora nello Statuto del 1424.

64

v1s1one della carcerazione1: la reclusione preventiva2 e quella punitiva3

sembrano ormai procedere per strade differenti.

Negli Statuti del 1550 il bando, sotto l'evidente influenza del diritto

romano, è quasi praticamente scomparso: rimanendo in vigore per il reato

di omicidio4 e per la moglie adulteras.

Molto frequente è negli Statuti l'esilio temporaneo, consistente

nell'obbligo per il condannato di nmanere per un periodo di tempo

determinato, generalmente non superiore ad un anno, fuori dalla città e

dal territorio di Trieste. Questa pena però non può essere applicata alle

donne6 né ai magistrati o ufficiali del Comune 7 .

Sull'argomento della pena è da ricordare il potere arbitrario del giudice

o del Capitano nello stabilirne l'entità: tale potere viene esercitato in due

casi fondamentali: il primo quando manca negli Statuti la previsione del

crimine che di fatto si pone dinanzi all'autorità giudicante8; il secondo

consiste invece nell'esplicita rimessione al giudice o al Capitano della

fissazione della pena. Riguardo il primo caso gli Statuti si affidano

normalmente all'arbitrio del magistrato solo per reati di scarsa

importanza, rifacendosi per gli altri alle regole dello "jus comune "9 .

Quando la norma stabilisce la pena per la fattispecie semplice del

reato, sono lasciati al giudice i casi caratterizzati dalla presenza di una

qualche circostanza che porta necessariamente ad una diversa

1 : Secondo tale nuova concezione il carcere, oltre ad essere il luogo di espiazione della pena, fungeva da custodia dei delinquenti per metterli nell'impossibilità di tornare al delitto. 2 : La reclusione negli Statuti del· isso è improntata a criteri di moderazione: prima della sentenza di condanna una persona può essere incarcerata solo in caso di flagranza di reato oppure quando vi sia pericolo di fuga. 3 : Esempi in tal senso possono vedersi in Lib.III, Rub. 7 § Quicunque amputaverit ; Rub.2S § Sed si. 4 : Lib.III, Rub. 7 § Omnis autem 5 : Lib.III, Rub.19. 6 : Lib.III, Rub.8 § Quaecunque. 7 : Lib.III, Rub.10 § Statuimus quod. 8 : Lib.III, Rub.8 § Et territorio: •si delictum fuerit leve puniatur arbitrio Capitanei •. 9 : Ibid.: •si delictum fuerit grave habeatur a judice recursus ad jus comune •.

65

valutazione del crimine rispetto a quella del reato semplice: così quando

soggetti attivi del reato siano dei minori 1 o dei "forenses " 2o persone di vile

condizione3 .

Normalmente però il giudice o il Capitano vengono limitati nel loro

potere ·discrezionale dalla fissazione da parte della legge di alcuni massimi

di pena non superabili o dalla qualità della sanzione da comminare4 •

§ LE CONSEGUENZE DELLA PENA

Oltre alla pena di morte vengono considerate capitali quelle pene che

comportano per il condannato la "capitis deminutio" media o massima.

Gli Statuti di Trieste del 1550 definiscono col nome di infamia tale

condizione. Essi infatti stabiliscono:"in/ ames calemus omnes damnatos

furti, perjuri.i, bonoru.m vi raptoru.m et denique omnes condemnatos aliqua

poena corporali "5 . Agli infami è proibito testimoniare e, per essere

riconosciuti, il loro nome viene iscritto in un libro posto in Vicedominaria -

l'archivio del Comune - a cura dei Giudici della città, sotto pena di 25 lire

in caso di negligenza.

1 : Lib.111, Rubriche 7 e 8. 2 : Lib.111, Rubriche 12 § In alios ; 34 § At inter. 3 : Llb.111, Rub.8 § Praeterea arbitrio. 4 : Ibid. § Et denique. 5 : Lib.III, Rub.29 § Jnfames calemus.

66

§ LA CONDIZIONE GIURIDICA DI DETERMINATE CATEGORIE DI

PERSONE

Rivestono indubbio interesse le conseguenze derivanti, negli Statuti di

Trieste del 1550, dalla particolare qualità della persona che commette un

reato. A tale riguardo viene ivi disposto in linea generale:"et quecunque in

hoc titulo dieta sunt intelligantur indistincte tam in masculo quam zn

foemina, civi et incola tam Civitatis quam territori.o et etiam peregrino "1 .

Questa disposizione si pone in aperto contrasto con la linea generale

seguita dalle leggi italiane contemporanee: esse infatti riservano ai

"f orenses " una condizione deteriore e tutte sono improntate ad un

trattamento oppressivo nei loro confronti, quasi persecutorio. Questa

"parificazione" può spiegarsi tenendo conto dei numerosi contatti,

soprattutto commerciali, che legavano la città agli stranieri e che

inevitabilmente hanno contribuito pesantemente nell'apertura

testimoniata da questa norma.

Normalmente le pene contro gli stranieri sono affidate all'arbitrio del

Capitano e viene espressamente affermato che le pene arbitrarie devono

mantenersi entro quelle stabilite per i cittadini2 .

In altre circostanze non si fa differenza tra "cives " e "peregrini "

stabilendo solamente che le pene si applicano 1n ogni caso,

indipendentemente dal "locus commissi delicti ": ad esempio, non ha

importanza dove è stato commesso l'assassinio, purché il reo venga

1 : Lib.III, Rub. 7 § Et quecunque. 2 : • Semper tamen intra modum poenae quam in eo casu ciui delinquenti in hoc titulo praescripsimus • Rub. 7 § Item si.

67

catturato a Trieste1; ancora, tutte le disposizioni inerenti il furto si

applicano anche ai furti avvenuti fuori del territorio triestino:"nolumus

enim Civitatem, vel eius territorium, esse tutum furum receptaculum "2 •

Differenze di pena si notano talora tra gli stessi abitanti di Trieste: è

stabilito infatti3 che se il reato di lesioni avviene tra un abitante della città

ed uno del territorio, detto " distrettuale", le pene sono diminuite della

metà e nessuno dei "distrectuales" può essere condannato:"ire exulatum

ultra Muglam et Duinum "4 .

Abbiamo già avuto modo di osservare che, salvi alcuni casi particolari5 ,

la donna non viene trattata diversamente dall'uomo e che è principio

veramente notevole degli Statuti del 1550 la parificazione dell'adulterio

della donna a quello dell'uomo.

Un trattamento deteriore rispetto alla norma generale ricevono invece

le "personae viles ". Definiscono gli Statuti6 persone vili:"publicae

meretrices, bajulos, vel bastasios, operaios, vel bregentas et horum similes "

Se essi sono soggetti passivi del reato si trovano in una situazione di

inferiorità rispetto agli altri cittadini, derivante da un lato dalle limitazioni

a far valere in giudizio i propri diritti ( come vedremo trattando del

processo criminale ), dall'altro dal regime di pene stabilite per gli autori di

delitti nei loro confronti. E' stabilito infatti che viene rimessa all'arbitrio

I : Lib.III, Rub.17 § inizio. 2 : Lib.III, Rub.14 § Et omnia. 3 : Lib.III, Rub.8 § Quae omnia. 4 : Ibid. 5 : Per esempio con riguardo alla violazione di domicilio, in cui la donna è esplicitamente parificata al minore: Lib.III, Rub.13 § In minore; oppure quando si statuisce che la donna non può essere condannata al bando perpetuo: Rub.8 § Quaecunque. 6 : Lib.III, Rub. 8 § Viles autem

68

del Capitano la punizione di chi offende persone di vile

condizione:" consideratis circumstantiis delictoro.m et personis "1.

§ LE CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO

Fino a che alla base del diritto penale ci fu la privata vendetta, non

c'era altro modo di estinguere i reati che l'esercizio della vendetta stessa o

la pace raggiunta fra le parti. La "compositio" longobarda aveva proprio la

funzione di sedare gli animi e far cessare la "faida".

Negli Statuti del 1550 compare ancora una traccia dell'antica

composizione, benché limitatamente al reato di taglio di un membro. E'

concesso infatti che reo e danneggiato si accordino - il verbo in questo

caso utilizzato è proprio "componere "2 - per una multa di 50 lire, che va al

Comune; al reo sono inoltre rimesse tutte le altre pene. Per i reati più

gravi, come l'omicidio, il legislatore triestino reputa troppo importante e di

interesse eminentemente pubblico la punizione dei rei di tali delitti, per

cui la composizione pecuniaria tra le parti, con la quale il colpevole

sfuggirebbe alla pena di morte, non viene accolta; è stabilito infatti che

all'omicida:"nulla prosit compositio "3 . Il contrario sarebbe stato in

contraddizione con i criteri di giustizia a cui si ispirano le norme

statutarie4 .

1 : Lib.III, Rub.8 § Praeterea arbitrio. 2 : Lib.III, Rub. 7 § Membra in proposito. 3 : Ibid. 4 : Lib.IV,Rub.19:" Statutorum nemo captet verba, sed in dubio ad normam aequitatis referat et tria jus praecepta ab oculos habeat, hoc enim in his condendis semper nostrum Juit consilium pravos scilicet et facinorosos punire, innocentes protegere et denique curae ha.bere ne cuiquam fiat injuria ".

69

Per quanto riguarda la grazia, è da ricordare che essa si sviluppò sotto

l'Impero romano 1 ; nei regni barbarici infatti il potere regio non poté mai

arrogarsi la facoltà di disporre dei diritti dei singoli: il re non poteva, senza

il consenso dei privati interessati, far grazia ai delinquenti.

Negli Statuti triestini precedenti a quello del 1550 la grazia veniva

concessa dal Comune a singoli delinquenti, in casi particolari e per motivi

personali. Nello Statuto del 1550 invece è espressamente stabilito che

soltanto l'Arciduca d'Austria può concedere la grazia:"nulli ad quamvis

poenam condemnato, sive corporalem, sive pecuniariam, sive alterius

generis possit Capitaneus aut alius magistratus Civitatis poenam remittere,

commutare aut diff erre, sed id supremae po testati nostrae reservatum

intelligantur "2 .

* * * * *

In questo esame dei tratti salienti del diritto penale degli Statuti di

Trieste del 1550, abbiamo cercato di mettere in evidenza i legami esistenti

non solo con il diritto romano, ma anche con quello germanico, le affinità

e le differenze con gli altri Statuti italiani. Gli Statuti del 1550 mostrano

un'unità di intenti e di principi informatori veramente notevole, che va al

di là delle contingenti necessità politiche ed economiche e che riflette

l'intenzione di migliorare il diritto: l'evoluzione del diritto riscontrabile

negli Statuti triestini del 1550 è infatti la migliore estrinsecazione della

1 : Così per Pertile, op. cit., a pag. 176. 2 : Llb.III,Rub.8 § Nulli ad quarrwi.s.

70

ripresa degli studi giuridici, che fra il XN ed il XVI secolo vivono una

nuova vita.

Il passo avanti riguarda la sostanza del diritto penale, ad esempio per

quanto concerne la maggiore sensibilità dimostrata nei confronti della

valutazione del fattore psicologico nella commissione del reato. o per la

nuova considerazione della carcerazione.

La vitalità creativa del Comune triestino, i suoi contatti con la nuova

cultura giuridica, il suo tenace attaccamento alle istituzioni che si era

liberamente date e che tentò di conservare gelosamente nonostante

l'ineluttabile dominazione asburgica, sono condensati in questi Statuti,

che costituiscono il più bel documento di come la tradizione si fonde con

l'innovazione.

71

SEZIONE II:

ORDINAMENTO GIUDIZIARIO

E

PROCEDURA CRIMINALE

§Premessa

Per tutto il Medioevo e sino al XVI secolo - cioè fino al dilagare del

sistema inquisitorio - il procedimento criminale, salve certe formalità,

presenta lo stesso andamento del procedimento civile1.

Nell'età comunale esso si svolge in contraddittorio fra le parti con la

sequenza: citazione - termine a rispondere - contestazione di lite - tempo

all'accusatore ed al reo di fornire le prove.

Il principio generale del processo civile, secondo cui non si procedeva

se non su domanda di chi vantava il diritto, non essendo impegnato alcun

interesse dello Stato, si applicava anche al diritto penale per quei delitti

che offendevano direttamente i singoli. Ma per quelle azioni che ledevano

immediatamente la società, il procedimento iniziava "ex offici.o".

In un primo tempo il procedimento ebbe a conservare diversi elementi

del processo civile. Anche in esso si doveva mettere per iscritto il titolo del

processo dopo le indagini, dandone copia all'imputato, al quale inoltre,

secondo una disciplina fissata dal diritto canonico, venivano comunicati i

nomi dei testimoni ed il contenuto delle loro deposizioni e veniva

conceduto il tempo per produrre le proprie difese.

A poco a poco tuttavia la procedura inquisitoria si fece tutta scritta e

segreta, assumendo forme particolari che si vennero accentuando sempre

più, tanto che ne derivarono due speci.es :l'inquisizione generale , che

accertava il fatto delittuoso e raccoglieva gli indizi del suo autore;

1 : Vedi Storia della procedura a cura di Pasquale del Giudice in A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'Impero romano alla codificazione , Torino, 1902, vol. Vl, parte II, pag.1 in nota 3.

72

l'inquisizione speciale , rivolta contro una persona determinata al fine di

ricercarne le prove della reità o innocenza.

Col tempo, nelle materie penali, il procedimento ex officio acquisì

sempre maggiore importanza, fino a diventare quasi esclusivo: s1 venne a

poco a poco a considerare di pubblico interesse la ricerca e la punizione

dei reati, anche di quelli che ledevano solo i privati.

Già nel XII secolo la procedura d'ufficio si andò dilatando, pur sempre

conservandosi la preferenza per l'accusa e punendosi con minor gravità i

delitti il cui procedimento era stato eletto sull'iniziativa privata.

Il risorgere del diritto romano non favorì subito tale tendenza, poiché i

glossatori per oltre un secolo tennero conto solo dell'ordinario modo di

procedere di quella legislazione, l'accusatorio appunto, trascurando le

molteplici eccezioni, tra le quali quelle per cui si poteva procedere ex

officio1•

Similmente il diritto canonico, 1n materia penale, si attenne in un

primo momento preferibilmente all'accusa, servendosi pure del

procedimento d'ufficio; ma fu propno nel diritto canonico che questa

forma di procedere ottenne applicazione ed importanza, per via delle

riforme di Papa Innocenzo III.

Non meraviglia dunque che la procedura inquisitoria si diffuse

rapidamente negli Statuti comunali, quantunque il processo per via

d'accusa fosse guardato ancora come metodo ordinario.

1 : Geib, citato da del Giudice, op. cit., a pag.3 in nota 10, mostra come negli ultimi tempi dell'Impero romano il processo criminale romano fosse misto di accusa, inquisizione e denuncia.

73

Infatti non venne eliminata la facoltà di farsi accusatore e di far iniziare

per questa via il processo nemmeno quando il procedimento ex officio

divenne generalizzato1.

I Giureconsulti tuttavia si tennero sempre ligi all'idea romana per cui

l'inquisizione costituiva pur sempre una forma straordinaria di procedere:

sostenevano quindi che essa doveva cedere il passo all'accusa, come forma

ordinaria, ogni qual volta si presentasse un accusatore.

* * * * *

Gli Statuti di Trieste del 1550, come stiamo per vedere, adottano, quale

modo ordinario di procedere, il rito accusatorio; comunque essi recano già

i segni della crescente diffusione del rito inquisitorio, per cui è possibile ed

è normale che il procedimento si attivi grazie all'iniziativa del Giudice dei

malefici piuttosto che a quella di un accusatore privato.

1 : Del Giudice, op. cit., a pag.10 in nota 49(a), cita Ulloa, il quale àttribuisce il generalizzarsi e farsi esclusivo del procediniento d'ufficio all'assolutismo dei governi.

74

§ GLI ORGANI DELLA GIURISDIZIONE CRIMINALE.

La giurisdizione criminale nell'ordinamento municipale triestino

presenta un' interessante caratteristica di continuità, poiché fu sempre

devoluta al medesimo organo, il "Banchus Maleficiorum ". Nel corso dell'età

moderna tale organo vide progressivamente diminuire le propne

prerogative a favore del Capitano della città, ma continuò a funzionare

sino alle riforme teresiane.

La scelta del Giudice dei malefici era attribuita al Consiglio Minore

della città e gli Statuti del 1550 prescrivevano, come vedremo, per tale

organo gli stessi requisiti, le stesse modalità di scelta e la stessa durata in

carica previsti per il Vicario - il giudice civile.

Gli Statuti riconobbero al Capitano alcune competenze penali

specifiche, come la cognizione dei delitti di Stato1, dei reati di particolare

gravità commessi dal Giudice dei malefici stesso e dei delitti compiuti dai

propri "familiares "2 . Al di fuori di tali specifiche ipotesi egli doveva

astenersi da ogni tipo di ingerenza nella sfera della giurisdizione ordinaria,

se non per mandato del Sovrano, salvo comunque l'esercizio di poteri di

vigilanza definiti "suprema inspectio "3 .

In epoca successiva all'ultimo Statuto le funzioni capitanali in materia

penale si espansero a discapito del Giudice dei malefici, nel senso che

venne ampliato il numero dei casi devoluti alla sua competenza e gli

furono attribuiti ampi poteri nella determinazione della pena.

1 : Lib.I, Rub.1 § in fine:" Si tamen inopinatum aliquid exurgeret, vel enorme, aut grave aliquod delictum, sicuti in causis Status et rebellionis, aliorumve criminum, ex quorum gravitate et enormitate Statutorum dispositio ad foenas condignas infligendas non sufficiat, in iis omnibus, Capitaneus noster ... ex iusto suo arbitrio procedat "·

: Ibid. :"In delictis commissis per familiares vel domesticos Capitanei, ipse sit judex ". 3 : Lib.I, Rub. l:" Administrationem vero justitiam Capitaneus non impendat nec suspendat ".

75

§LA CURIA DEI MALEFICI

Il Giudice dei malefici era il giudice penale ordinario della città1. Veniva

eletto dal Consiglio minore e restava in carica un anno, con la possibilità

di essere riconfermato ogni anno per non più di tre.

Per quanto riguarda l'elezione del magistrato, esso veniva scelto con un

sistem2a misto di votazione e di nomina: in Consiglio minore veniva prima

eletto un Oratore, con l'incarico di andare a scegliere, nelle Province

ereditarie austriache o in località italiane non soggette al dominio veneto,

un dottore di leggi ultratrentenne che non avesse vincoli di parentela o

affinità con i cittadini di Trieste. Trovato il soggetto idoneo, l'Oratore lo

nominava Giudice dei malefici, stipulando con lui un atto notarile di

condotta, nel quale venivano regolati minuziosamente i diritti ed i doveri di

tale magistrato2 • Giunto a Trieste il Giudice dei malefici veniva

ufficialmente investito della carica prestando solenne giuramento di

fedeltà al Capitano, alla città ed alla Chiesa Cattolica, dinnanzi al

rappresentante arciducale ed ai Giudici e Rettori.

Il suo compito è così definito dagli Statuti:" Cognoscere ac jus dicere in

omnibus causis criminalibus, secundum dispositionem horu.m Statutoru.m,

illisque deficientibus, secundum jura communia ".

I requisiti per poter diventare Giudice dei malefici erano così stabiliti

negli Statuti:" Nullius subditus Venetoru.m, aut civis vel incola Tergestinus,

1 : Tutta la materia è disciplinata nel Libro I, Rubrica 3. 2 : Per approfondimenti vedi Roberto Pavanello, L'amministrazi.one giudiziaria a Trieste da Leopoldo a Maria Teresa (I - L'età anteriore al Porto franco) , 1ìieste, 1982.

76

aut habens uxorem cwem vel incolam Tergestinam, huic muneri praefici

possit; sitque ex his locis oriundus ut proxime de Vicario dictum est ".

Egli costituiva l'omonimo Tribunale dei malefici assieme a due ufficiali:

il Protettore ed il Notaio dei malefici. Questi venivano eletti entrambi ogni

quattro mesi dal Consiglio maggiore - di cui il Protettore doveva anche

essere membro - ed il primo vigilava sull'operato del Giudice assistendo al

compimento di ogni atto a pena di nullità, il secondo svolgeva funzioni di

cancelleria. Tutti gli atti del processo dovevano compiersi con la presenza

di tutti e tre i funzionari; il Protettore o il Notaio assenti o impediti erano

sostituiti rispettivamente da uno dei Giudici e Rettori della città e da uno

dei cancellieri di Palazzo.

Il Giudice dei malefici assente o non ancora nominato veniva sostituito,

ma solo in procedendo, da uno dei Giudici e Rettori.

Per citazioni, notificazioni, atti esecutivi il Giudice dei malefici s1

serviva, a seconda delle competenze, dei Nunzi, del Bargello e dei Birri.

Il Giudice dei malefici aveva il divieto di prestare consulenze per liti o

cause pendenti di fronte a qualsiasi giudice secolare e non poteva essere

patrocinatore di alcuno, pena per tutte queste prescrizioni l'accusa

davanti al collegio del Sindacato.

§ LA COMPETENZA

Gli Statuti disciplinano con norme di carattere generale l'ambito di

competenza territoriale del foro criminale di Trieste.

77

Oltre ai reati perpetrati nella città e nel suo territorio, rientrano in tale

competenza quelli commessi extra districtum i cui soggetti, sia attivi che

passivi, siano persone sottoposte alla giurisdizione triestina 1.

Se un cittadino di Trieste reca offesa ad un altro cittadino al di fuori

della città o del territorio triestino, egli può essere denunciato a Trieste,

come se il delitto sia stato perpetrato nella città e nonostante che nel locus

commissi delicti si sia già giudicato. Inoltre, nel caso in cui il reo sia stato

condannato più leggermente che se fosse stato punito a Trieste, la pena

deve essere accresciuta.

Ugualmente se un "peregrinus" uccide un cittadino extra moenia deve

essere punito in città, come se lì avesse compiuto il reato.

§ LA PRESCRIZIONE DEI REATI

L'attivazione del processo penale è soggetta a termini di prescrizione,

decorsi i quali cessa la punibilità del reato.

Gli Statuti del 1550 dispongono2 che la prescnz10ne per i delitti di

ingiuria è di otto giorni:" Postea non audiatur ". La prescrizione di sei mesi

vale per i reati puniti con la sola ammenda, mentre per quelli sanzionati

con una pena affittiva, l'accusa e la denuncia possono presentarsi anche

successivamente:" Intra tempora a jure communi praescripta ".

La prescrizione decorre dal momento della commissione del delitto.

1 : Llb.III, Rub. l § in fine. 2 : Ibid. § De injuriis.

78

§ IL PROCEDIMENTO CRIMINALE: ACCUSA E DENUNCIA

Nel procedimento accusatorio l'iniziativa della repress10ne penale è

assunta direttamente dalla parte lesa o da altro soggetto, che poi produce

le prove a carico dell'imputato. Il giudice è terzo nei confronti delle parti in

causa.

Il procedimento accusatorio ha campo di applicazione generale, poiché

è consentito promuovere accuse in relazione a qualsiasi tipo di reato;

mentre però per i reati minori il rito accusatorio è esclusivo e l'iniziativa di

parte è necessaria per la persecuzione dei reati, nei delitti più gravi esso

concorre con il procedimento inquisitorio:" Judex possit et debeat ex officio

inquirere de omni delicto, ex quo irrogari. possit poena corporalis "1.

Il procedimento penale accusatorio si apre con la presentazione, 1n

forma orale, dell'accusa al Banco dei malefici; le accuse e le denunce si

possono presentare ogni giorno, perché il Tribunale funziona in modo

permanente. Ogni accusatore o denunciatore deve prestare giuramento

relativo alla verità delle cose da lui denunciate; tuttavia il proscioglimento

dell'imputato non comporta conseguenze penali per l'accusatore, per

scongiurare il rischio che la difficoltà di provare l'accusa faccia desistere

l'interessato dal proporre la denuncia.

Le accuse e le denunce presentate al giudice devono essere iscritte a

cura del Notaio; tale ufficiale tiene un registro in cui deve indicare le

denunce, le accuse, le difese, le testimonianze, l'esame dei rei e tutti gli

atti giudiziari. Questo registro è custodito presso il Banco dei malefici.

: lbid. § Judex possit.

79

In generale la Curia dei malefici è tenuta a ricevere tutte le accuse che

le vengono presentate, purché rientrino nella sua competenza territoriale o

per materia - ad esempio non rientranti nella giurisdizione ecclesiastica.

Tuttavia esistono delle limitazioni al diritto di accusare derivanti dalla

soggezione all'altrui potestà o all'appartenenza a determinate categorie

sociali. Il Giudice dei malefici può a suo arbitrio accettare o rifiutare

l'accusa presentata da pubbliche meretrici o da simili vili

persone:"Considerata delicti gravitate vel levitate "1.

Tale simile discrezionalità del giudice è da spiegarsi considerando la

mentalità del tempo, che valutava queste persone in una condizione di

complessiva inferiorità giuridica e verso le quali si applicava un sistema di

scarsa o quasi nulla tutela giuridica .

. Parimenti il giudice non è tenuto a procedere quando le accuse o le

denunce riguardano materia di ingiuria o delitti commessi da un padre o

da una madre verso i figli, da Ùn marito verso la moglie, da un precettore

verso il discepolo, poiché la causa della commissione del fatto è da

ricercarsi in una "voluntas emendandi " e non "delinquendi ". Se però si

tratta di omicidio, mutilazione o debilitazione il Giudice dei malefici deve

procedere regolarmente: l'evento in questo caso trascende l'ambito

familiare ed investe l'intera collettività, che esige puntuale repressione e

non tollera l'impunità2 .

Non è consentito all'accusatore di rinunciare all'accusa una volta

proposta; il Giudice dei malefici, anche se viene presentata istanza di

1 : lbid. § Item nulla .. 2 : lbid. § Quamvis supra .

80

cancellazione, procede ugualmente e l'accusatore rinunciante è

condannato a rifondere spese e danni ed a pagare una multa di 50 lire 1.

* * * * *

Gli Statuti del 1550 trattano promiscuamente i termini "accusa" e

"denuncia". Essi hanno indubbia affinità per quanto riguarda alcune

formalità comuni; diverso è però il significato della denuncia perché con

essa non si instaura un procedimento accusatorio, ma si porta alla

conoscenza del giudice, in modo qualificato, un fatto costituente reato

affinché sia avviato un procedimento di tipo inquisitorio. Tale differenza

era ben nota già negli Statuti del 1424. Sulla denuncia si innesta una

inquisizione ed il procedimento per denuncia può ben considerarsi una

species del genus inquisitorio.

La denuncia può essere presentata da chiunque, ma accanto alla

denuncia dei privati cittadini gli Statuti contemplano quella dei pubblici

ufficiali, che costituisce oggetto di un dovere d'ufficio ed esplicazione

dell'attività di tutela dell'ordine pubblico. Le accuse dei Daziari - gli

esattori delle imposte - , dei Cavalieri del Comune, del Cavaliere del

Capitano e di pubblici ufficiali come i Birri ed i Saltari vanno presentate

entro lo stesso giorno o entro quello successivo a quello in cui il reo è stato

scoperto a pena di irricevibiltà2 .

Ancora nel XVI secolo il rito inquisitorio costituisce un'eccezione alla

regola; successivamente accresce l'importanza, relegando l'accusa privata

1 : Ibid. § Si accusator. 2 : Ibid. § Accusationes tamen .

81

ad un ruolo secondario. Il processo accusatorio non scompare, ma

aumentano sempre più le fattispecie delittuose a cui il rito inquisitorio

deve applicarsi.

Il punto d'arrivo di questo processo storico è segnato negli Statuti del

1550 da una norma di carattere generale:" Judex possit et debeat ex officio

inquirere de omni delicto ex quo irrogari. posset poena corporalis, de aliis

vero, excepto uulnere illato cum sanguinis effusione "1.

In ogni caso il rito accusatorio è sempre considerato quale ordinario

modus procedendi , talché gli è riconosciuta la precedenza rispetto

all'inquisitorio; il Giudice dei malefici cioè deve promuovere d'ufficio il

processo nei casi consentiti solo in assenza di accusa e denuncia, salvo il

caso di accordo fraudolento tra accusatore ed imputato, nel quale deve

essere esperita l'inquisizione anche se il giudizio accusatorio è già in

corso:" Nisi de collusione constet, quo casu judex tam pendente quam finita

accusatione ex officio procedere de beat "2 •

§ L'ATTIVITA' DIFENSNA DEGLI IMPUTATI

Successivamente alla presentazione dell'accusa o denuncia o all'avvio

dell'inquisizione, l'imputato è chiamato a partecipare al giudizio ed a

discolparsi mediante una pubblica e solenne "proclamatio ". Gli Statuti del

1550 esigono, per poter procedere alla proclamazione, la sussistenza di

indizi di per sé sufficienti a giustificare il ricorso alla tortura - se si tratta

1 : Ibid. § Judex possit. 2 : Ibid. § in fine.

82

di delitti puniti con pena corporale1 - o l'esistenza di prove della

responsabilità dell'imputato - se il reato è punito con la sola ammenda2 -.

La domenica successiva alla presentazione dell'accusa un pubblico

ufficiale, alla scala del Palazzo comunale, alla presenza del Protettore e

con l'ausilio del Notaio, dà lettura delle accuse ricevute e dei nomi dei rei,

quali risultano dal registro notarile. Ciascun reo è invitato a comparire

entro i cinque giorni successivi alla "proclamatio " al Tribunale dei

malefici, personalmente o a mezzo di un procuratore. Gli Statuti più

antichi prescrivevano che l'imputato dovesse presenziare di persona al

dibattimento e che non potesse farsi rappresentare dal difensore: la

compila.Zione del 1550 invece consente all'imputato di comparire:"per se

vel legitimum procuratorem "3 .

Può accadere che l'interessato sia assente dalla città al momento della

proclamazione e perciò lasci involontariamente trascorrere il termine della

difesa di cinque giorni: in tale eventualità gli Statuti del 1550 lo

ammettono a presentare le proprie discolpe da quando, dopo il rientro in

città, il pubblico birro gli notifica l'avvenuta "proclamatio ", dopo che

l'imputato ha provato o almeno giurato di essere stato assente. Notaio e

Protettore devono curare l'esecuzione di tale formalità nel più breve tempo

possibile, a pena di 50 lire.

Similmente se, pur presente in città, la notizia dell'accusa non possa

facilmente venire a conoscenza dell'interessato, i termini decorrono dalla

notificazione a casa effettuata da un pubblico ufficiale, il quale deve farne

1 : Lib.III, Rub.5 §In causis :"Suffici.entia inditia ad tonuram ". 2 : Ibid.:"Nisi apud actajamsitprobata ". 3 : Ibid. § inizio.

83

la relazione. Anche in questo caso le formalità devono essere sollecitate dal

Protettore e dal Notaio.

All'imputato regolarmente comparso sono consegnate, oltre agli atti

d'accusa, le copie delle deposizioni dei testimoni ed altri elementi probatori

esistenti contro di lui; negli otto giorni successivi alla comparizione egli

deve presentare le proprie difese, i propri testimoni, le opposizioni e le

altre ragioni. Il termine di otto giorni non può essere superato.

Il reo non comparso nel termine o che non ha presentato le proprie

difese nel termine prescritto s1 ha per contumace e per

condannato:" Habeat:ur pro contumace et condemnato ", stabiliscono gli

Statuti. Tale condanna viene pubblicata come tutte le altre sentenze.

In alcuni casi particolari non si fa luogo alla "proclamatio " ed essa è

surrogata da una semplice citazione: è il caso, ad esempio, dei

procedimenti avviati dalle denunce dei Saltari.

§ CATTURA E CARCERAZIONE

Ogni cittadino ed abitante di Trieste può, secondo gli Statuti del 1550,

catturare il reo che abbia causato ad un cittadino un lesione:"Cum

sanguznzs effusione " se colto in flagranza o entro l'ora successiva alla

comm1ss10ne del reato e condurlo alla Curia dei malefici. Il Giudice dei

malefici poi deciderà per la carceraz10ne o per la prestazione di una

fideiussione. Non sono perseguibili coloro che, nel catturare il reo se tenta

di fuggire, lo feriscono o, se si tratta di un omicida, lo uccidono.

84

Inoltre se il Giudice dei malefici ha notizia che in città è presente un

reo punibile con pena corporale e nei cui confronti sussistono indizi

sufficienti deve ordinare al Cavaliere del Comune ed ai Birri di èatturarlo.

In queste circostanze i pubblici ufficiali possono servirsi dell'aiuto dei

cittadini, i quali non possono rifiutarlo.

Gli Statuti del 1550 disciplinano diversamente le misure cautelari a

seconda del tipo di pena prevista per il reato in ordine al quale si procede.

Se si tratta di pene corporali e sussistono sufficienti indizi di

colpevolezza a carico dell'imputato, la cattura è obbligatoria e non è

ammessa la prestazione di garanzie.

Se invece il reato è sanzionato con pena pecuniaria non è consentito, in

via generale, imporre restrizioni alla libertà individuale prima della

condanna espressa nella sentenza.

Questa disposizione costituisce un elemento di assoluta novità rispetto

alla normativa precedente; fanno eccezione alcuni casi espressamente

individuati negli Statuti: quando vi sia cioè concreto pericolo di fuga del

reo, quando l'imputato sia un "peregrinus ", quando vi sia la flagranza del

reato, nei quali casi può essere disposta la carcerazione "preventiva",

sempreché non sia stata prestata idonea cauzione.

L'atteggiamento di maggior favor rei degli Statuti ferdinandei incide

anche nell'esercizio del diritto di difesa. Qualsiasi persona è legittimata

infatti ad intervenire in giudizio nell'interesse dell'imputato carcerato,

presentando prove in suo favore; il Giudice dei malefici deve disporne la

scarcerazione non appena vengano meno gli indizi che avevano giustificato

85

l'arresto 1:" Pro quo ibi manente quilibet possit allegare et producere quae ad

eius innocentiam tuendam f aciant et si etiam post dictum terminum ante

sumptum supplicium liqueret judici de innocentia rez, debeat ipsum

liberare".

Gli Statuti si riferiscono poi alla fideiussione come ad uno strumento

che consente all'imputato di conservare la libertà nelle more del processo

penale. I fideiussori prodotti dall'imputato si impegnano, sotto propria

diretta responsabilità, ad assicurare la presenza del reo in giudizio ed a

garantire l'esecuzione dell'eventuale sentenza di condanna.

In caso di latitanza o di insolvenza del garantito, i fideiussori sono

condannati alla stessa pena alla quale il colpevole avrebbe dovuto

soggiacere e vengono escussi in solido2 .

Il Protettore ed il Notaio devono valutare la congruità della garanzia e

respingerla qualora risulti insufficiente, poiché, in caso contrario,:" !psi

censebuntur fideiussores " 3 e sono solidalmente responsabili verso il

Procuratore del Comune per il pagamento della multa inflitta al

condannato.

1 : lbid. § Hoc etiam 2 : Lib.III, Rub.36 § Quod si . 3 : Ibid. come in nota (1).

86

§LE PROVE

CONFESSIONE E TORTURA

Nel Medio Evo si venne delineando una complicata gerarchia degli

strumenti probatori, alla cui elaborazione procedettero prevalentemente i

Canonisti: si stabilì una rigida predeterminazione dei tipi di prova e dei

loro effetti; a questo si dovevano aggiungere i limiti diretti ad escludere che

nel giudizio penale prove di tipo diverso o non perfettamente convergenti

potessero cumularsi per ottenere una prova piena.

In particolare testimonianze non del tutto omogenee, una pluralità di

indizi gravi e convincenti venivano considerati presupposto sufficiente per

la tortura, ma non per la condanna. In definitiva 1 nel processo penale

erano ben limitate le vie attraverso cui si conseguiva una probatio plena :

esse si riducevano alla confluenza di due testimonianze dirette e concordi,

oppure alla confessione giudiziale preceduta da indizi sufficienti e

ratificata con ogni formalità .. La confessione dell'accusato era dunque

posta al vertice della gerarchia delle prove e per eliminare il rischio di

rimandare impuniti i delinquenti o di pronunciare sentenze fallibili, il

mezzo per porsi al sicuro era estorcerla con la violenza, rendendo il reo

partecipe ed autore della propria condanna. Il ricorso ineliminabile alla

tortura giudiziale consenti l'irruzione della violenza entro un ambito

propriamente legale.

1 : Per un'approfondita analisi delle prove e della loro evoluzione nel pensiero giuridico vedi G. Alessi Palazzolo, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra Evo Medio e Moderno, Napoli, 1979.

87

La legislazione statutaria triestina prevedeva il ricorso alla tortura

quale mezzo istruttorio del procedimento penale. Negli Statuti del 1550 la

materia è così disciplinata 1: la tortura non può essere inflitta per delitti

che non comportano una pena corporale2 ; sono comunque salve le

eccez10n1 previste dagli Statuti stessi. Presupposto per l'irrogazione di

tormenti è la sussistenza di indizi di colpevolezza a carico3 , idonei a

determinare un fondato sospetto anche se il delitto:" Plene non fueri.t

probatum "4 •

Se l'imputato non è in grado di annullare gli indizi contro di lui con le

difese che produce, egli "ad ea purganda " è costretto alla tortura:"Ex

arbitri.o boni vin, considerata eius aetate, valetudine ac aliis

circumstantiis"5 .

L'operato del Giudice dei malefici è in queste circostanze sottoposto ad

una sorta di vigilanza: quando egli intende procedere a tale "esame" deve

convocare i Giudici e Rettori della città affinché tutti o il maggior numero

di essi vi presenzino; se si tratta di delitto punito con la pena capitale deve

avvisare il Capitano, il quale ha diritto di assistere, ma non può interferire:

il Giudice dei malefici infatti deve procedere:"Ut sibijuri.s esse videbitur "6 .

Gli Statuti prevedono poi una particolare ipotesi per l'irrogazione della

tortura: alla vittima di un ferimento è fatto obbligo di denunciare i propri

aggressori. Scopo dichiarato è evitare l'impunità del reato, pur in

mancanza di prove o indizi. Il Giudice non appena ha notizia del crimine -

1 : Llb.III, Rub.4. 2 : Ibid. § De tortura . 3 : Ibid. § At accusatus . 4 : lbid. § Sed si . 5 : Ibid. come in nota (2). 6 : Ibid. § Judex .

88

ad esempio per referto medico - deve recarsi con il Protettore ed il Notaio

presso il ferito ed interrogarlo sotto giuramento; la reticenza è punita con

una multa. La deposizione dell'offeso così ottenuta è valutata:" Pro

suffici.entissimo inditio" per irrogare tormenti all'imputato1.

LA TESTIMONIANZA

Nei procedimenti accusatori la presentazione dei testimoni a canco

costituisce oggetto di un onere gravante sullo stesso accusatore, il quale

deve, a pena di decadenza, indicarne i nomi nel momento stesso in cui

propone l'accusa2 . Solo i testi così previamente nominati debbono essere

assunti ed esaminati dal giudice, ad esclusione di chiunque altro e sotto

pena di nullità delle deposizioni invalidamente assunte. Quando però si

tratta di delitti per cui è prevista la pena di morte, il Giudice dei malefici

può esaminare altri testi oltre a quelli nominati, se ha il fondato motivo di

ritenere che l'accusa sia simulata e che sussista collusione tra accusatore

ed imputato3 .

Tali prescrizioni non trovano applicazione nel rito inquisitorio,

dominato dall'iniziativa del giudice.

Se i testimoni si trovano al di fuori del distretto, il Giudice dei malefici

ammonisce l'accusatore affinché procuri la loro deposizione nel termine

1 : lbid. § Quinimn si . 2 : "Debeat accusator statimfacta accusatione antequam a Tribunali Maleficiorum discedat, nominare testes "; vedi Lib.Ill,Rub.2 § Debeat accusator. 3 : lbid. § Et usque .

89

prestabilito; il comportamento negligente del magistrato è punito con una

multa, ma non comporta decadenze a carico dell'accusa 1•

Gli Statuti non prevedono tempi e modalità specifiche per

l'interrogatorio dei testimoni a discarico, che comunque devono essere

nominati dall'imputato nei termini concessigli per la difesa.

Per quanto riguarda la capacità di essere testimoni, per gli Statuti del

1550 non rileva il sesso, così anche le donne possono testimoniare senza

limitazioni. E' stabilito però che gli "infames "2 non possono testimoniare.

In ogni caso i testi devono essere maggiori di quindici anni; la

testimonianza del minore è valutata dal giudice rispetto alla qualità del

caso3 .

Gli Statuti non ignorano la potenziale inattendibilità dei testimoni

legati all'accusatore: il Giudice dei malefici prima di iniziare l'esame vero e

proprio deve assumere dai testi d'accusa informazioni sulle circostanze

che possono inficiarne l'attendibilità, quali legami di sangue o amiclZla,

motivi di ostilità verso l'imputato, eventuali pressioni ricevute4 •

Se l'accusatore porta come testimoni i propri figli o i propri servitori, la

loro testimonianza sarà valutata:"Quem fadant eam fidem, quam judex

arbitrabitur "5 . I testi nominati dall'accusatore o dal reo o assunti dal

giudice stesso devono essere interrogati "sub juramento " se parenti o

amici di chi li ha nominati6 .

1 : Ibid. § Teneaturque . 2 : Vedi a pag. 67 di questo lavoro per l'inquadramento di questa "categorian.Inoltre vedi Lib.III, Rub.29. 3 : Lib. III, Rub.2 §Ad probandum. 4 : lbid. § Omnes testes . 5 : Ibid. come in nota (3). 6 : Ibid. come in nota (4).

90

Il Giudice dei malefici deve esaminare tutti i testimoni entro quindici

giorni; l'esame avviene di norma presso la Curia dei malefici. Tuttavia se il

teste è impossibilitato a presentarsi per infermità o ferimento, i

componenti del Tribunale si recano nel luogo in cui egli è degente,

portando con sé il registro dei malefici 1.

L'esame è condotto personalmente dal magistrato che presiede la Curia

con la partecipazione necessaria del Protettore e l'assistenza del Notaio, il

quale redige il verbale. L'assunzione della testimonianza è segreta;

ciononostante alle parti sono riconosciute alcune garanzie, come il diritto

di assistere al giuramento dei testimoni e di presentare un "interrogator"

come avviene nel processo civile2 •

Gli Statuti non prevedono il numero di testimoni necessario per

provare i capi d'accusa. La Dottrina del diritto comune era però

ampiamente concorde nel ritenere necessaria la convergenza di almeno

due testimonianze; la presenza di un solo testimone a carico non

consentiva il raggiungimento della prova piena necessaria per irrogare la

pena edittale, ma poteva tutt'al più costituire presupposto per la tortura o

per l'applicazione di una pena arbitraria più lieve di quella fissata "ex

lege'. Tale principio è accolto tacitamente nella disposizione statutaria del

1550 che prescrive che al denunciante si creda sulla parola e con

l'intervento di un solo testimone per denunce presentate da pubblici

ufficiali; questa norma presuppone la regola per cui devono concorrere e

1 : Llb.III, Rub.4 § Quinimo . 2 : Lib.III, Rub.2 § Quod cum .

91

coincidere le testimonianze di più testi a provare la responsabilità del

reo:" Nisi reus contrarium legitime probaret "1.

§ LE PROVE E LA VALUTAZIONE DEL GIUDICE

La Dottrina del diritto intermedio seguiva un orientamento teorico che

tendeva a negare ogni valore alla prova raggiunta per indizi e presunzioni

ed esigeva un'assoluta pienezza di prova qualora si fosse dovuta irrogare

una condanna penale2 • A tal fine la Dottrina elaborò una fitta rete di

regole e limiti intorno alla prova; l'irrigidirsi di queste regole, insieme alla

correlativa adozione del procedimento inquisitorio, creò un vero e proprio

sistema di prova legale. Paradossalmente il rispetto integrale di tali

meccanismi probatori, derivato dalla preoccupazione di circoscrivere ogni

arbitrio del giudice, si prestava a degenerazioni gravi sul piano della

funzionalità del processo. La progressiva sostituzione del rito inquisitorio,

scritto e segreto, a quello accusatorio, orale e pubblico, avevano condotto

p01 a privilegiare, quali elementi probatori, solo quelli che

rappresentassero direttamente il fatto - testimonianze e documenti3-.

D'altro canto l'assunzione da parte dell'ordinamento di un intervento

sempre più esclusivo in materia criminale portò alla formulazione di

norme dal dettato sempre più specifico: tutto doveva essere previsto e

sanzionato dalla legge. Ma tutto non era possibile prevedere.

1 : Lib.III, Rub:2 § in fine . 2 :"Probationes luce meridiana clariores ". Dalla Glossa in poi è l'espressione più corrente nei riferimenti medievali ad un passo della Costituzione del Codice di Giustiniano: C.4.19.25. La fonte viene citata da Z. Papierkowski in Annales de Teologie et droit canon, Lublin, 1963, citato da Alessi Palazzolo, op. cit., a pag.3 in nota 1. 3 : Vedi G. Alessi Palazzolo, op. cit., a pag.18.

92

Durante i secoli XVI - XVII la costruzione teorica accennata continuò

ad essere tenuta presente nell'elaborazione dei requisiti della prova

penale; l'insieme delle regole probatorie che il diritto intermedio aveva

enucleato non venne mai messo formalmente in discussione. Tuttavia tale

continuità si rivela meramente apparente: l'ordine formale sviluppa una

sua tecnica di resistenza ad ogni rinnovamento, il quale però trova sbocchi

sul piano prammatico. Questa complessa tematica trova precisi riferimenti

negli sviluppi del sistema probatorio; il regime della prova rivela

incoerenze e mutamenti nel suo svolgersi.

L'insistenza sulla corrispondenza tra pienezza della prova legale e

carattere ordinario della pena permise di enunciare la regola - solo

formalmente desunta dalla prima - che ad una prova insufficiente potesse

corrispondere una pena più mite, ad arbitrio del giudice 1.

In definitiva il frequente ricorso alla "poena extraordinaria" costituì un

compromesso di fronte alla difficoltà di "aggiustare" il sistema di prova

legale per il caso concreto e di fronte all'esigenza di strumenti di

repressione sicura nei confronti dei pregiudicati: l'osservanza integrale di

schemi probatori troppo rigidi avrebbe determinato spesso, nella prassi,

l'impossibilità di chiudere il processo con una sentenza definitiva di

condanna, anche qualora sussistessero a carico dell'accusato gravi e

convincenti elementi di prova. A tali inconvenienti la dottrina aveva

cercato di porre rimedio traendo la conclusione che, quando la prova fosse

1 : Le testimonianze sono, nella letteratura giuridica d'indirizzo pratico del '500 e del '600, continue; cfr Alessi Palazzolo, op. cit., a pag.19 in nota 20.

93

risultata di un solo grado inferiore alla prova piena, ad essa potesse

corrispondere una pena di grado inferiore all'ordinaria 1 .

Il ricorso alla pena arbitraria non era certamente limitato solo ad una

situazione di insufficienza di prova, ma copriva tutta una serie di ipotesi -

dalla confusione normativa alla lacuna - che rendevano opportuno il

rivolgersi alla discrezionalità del magistrato.

In sostanza un reo gravato da forti indizi e da prove convincenti, ma

formalmente non sufficienti, veniva sì esentato dalla pena ordinaria, ma

veniva comunque condannato ad una pena minore "extraordinaria ex

arbitrio judicis ".

Solo quando la forza degli Stati e la formazione di giurisdizioni

centralizzate, tecnicamente preparate e controllabili, resero meno temibile

la discrezionalità del giudice, si arrivò anche per i delitti più gravi - esclusi

quelli per i quali era stabilita la pena capitale - ad un sistema basato

essenzialmente sulla libera valutazione delle prove da parte del giudice.

§ LA SENTENZA E LA SUA PUBBLICAZIONE

A Trieste le sentenze penali erano pronunciate entro limiti temporali

stabiliti dagli Statuti stessi:" Judex maleficioro.m tenetur finire et terminare

per sententiam diffinitivam omnem causam criminalem intra quadraginta

dies a die qua reus proclamatus fuit "2 ed erano pubblicate in forma

solenne.

1 : Chiaramente a questo livello di esemplificazione si arrivò gradualmente e non senza resistenze: vedi a tale riguardo Alessi Palazzolo, op. cit., a pag. 21innota23. 2 : Lib.III, Rub.35 § Judex maleficiorum.

94

Per causa criminale gli Statuti intendono:"Qua agitur de poena

corporali imponenda reo, vel pecuniaria applicanda Communi Tergesti, quod

judex expediet "1. Dopo aver iscritto nel registro dei malefici il nome

dell'accusatore, del reo, l'esposizione sommaria dell'accusa, l'assoluzione o

la condanna, il Notaio dei malefici dà lettura del dispositivo nel Palazzo del

Comune alla presenza del Giudice dei malefici, delle principali autorità

cittadine e del pubblico, appositamente convocato con il suono della

campana. Gli Statuti designano questo evento con l'espressione "facere

arengum ", che si riallaccia direttamente all'antica assemblea popolare del

Comune; significa citare l'accusatore ed il reo per la lettura della sentenza,

che così viene pubblicata.

Il Giudice dei malefici deve avvisare il Capitano della città il g10rno

precedente alla pubblicazione, affinché vi presenzi di persona o invii un

proprio sostituto: il Capitano infatti ha il potere di arbitrare alcune pene e

comunque deve intervenire alla pubblicazione di tutte le sentenze

criminali2 • Il Capitano può sospendere la pubblicazione della sentenza in

caso di impedimento, di urgente o legittima causa, di rimessione degli atti

alle autorità superiori per il tempo:"Quo valeat in eo termine Nos (cioè il

Sovrano) consulere "3 . Passato tale termine il Giudice dei malefici deve far

pubblicare la sentenza e ne deve ordinare l'esecuzione, a meno di

determinazioni contrarie delle superiori autorità.

Gli stessi Statuti ferdinandei riconoscono al rappresentante arciducale

il potere di determinare a proprio arbitrio la pena in una serie di

1 : Ibid. § Causam criminalem . 2 : Lib.III, Rub.35 § Quibus peractis . 3 : Ibid. § Statuimus denique .

95

fattispecie, per lo più nei casi di "levia delicta "1; in tali eventualità il

Giudice dei malefici deve, al termine del processo e prima della

pubblicazione, trasmettere al Capitano la sentenza di

condanna:" Relinquendo spatium ubi quantitas poena nominanda a

Capitaneo apponi possit "2 •

§L'ESECUZIONE

La formula di condanna accolta negli Statuti del 1550 è la

seguente:"Condemnatur quza accusatio vel inquisitio est probata, neque

reus se legitime def endit vel aliam justam causam condemnationis addet "3 .

Gli Statuti di Trieste del 1550 conoscono due categorie di sanzioni: la

pena pecuniaria - la multa - e la pena affittiva - con ampia previsione:

"fustigatio ","tortura", "amputatio ", "debilitatio membri "4 , fino alla pena di

morte. Il carcere, come abbiamo visto, trova applicazione in funzione

prevalentemente cautelare.

Se il processo si conclude con una condanna ad una pena pecuniaria,

prima della pubblicazione il Giudice dei malefici ne comunica il dispositivo

al Procuratore del Comune - l'ufficiale preposto alla gestione delle entrate

- affinché provveda alla riscossione. Il condannato deve pagare entro otto

giorni dalla pubblicazione della sentenza; passato inutilmente tale termine

il Procuratore promuove l'azione esecutiva contro il condannato o verso i

suoi fideiussori.

1 : Vedi Repertorio posto alla fine degli Statuti del 1550, voce:" Capitaneus Arcia et Civitatis ", verso:" Arbitrio suo 5.JUni~t " e ss. . . .

: Llb.III, Rub.35 § Audztis enzm . 3 : Ibid. 4 : Lib.III, Rub.36 § Cum autem.

96

Ricordiamo che le multe inflitte dal Giudice dei malefici costituivano

una delle principali fonti d'entrata per le finanze comunali; pertanto gli

Statuti mirano ad assicurare una riscossione pronta e tempestiva e

vietano ogni forma di patteggiamento col condannato, il quale non può

chiedere il condono, nemmeno parziale, della pena né proroghe ai termini

di pagamento. Se, nonostante l'azione esecutiva, la somma non viene

interamente riscossa, il Giudice ordina la carcerazione del condannato1•

Le modalità del procedimento esecutivo in caso di mancato pagamento

sono in tutto simili a quelle previste per le esecuzioni civili; se il ricavato

della vendita all'asta non è sufficiente, il condannato è privato della libertà

personale:" Usque ad integram satisf actionem "2 •

Il condannato ed i fideiussori che non hanno pagato la pena non

possono intervenire ai Consigli cittadini e sono puniti con l'ineleggibilità

alle cariche pubbliche fino all'adempimento.

Nell'ipotesi di pene afflittive, l'esecuzione delle sentenze non impugate o

confermate in Sindacato deve aver luogo il più presto possibile. Ai

condannati alla pena di morte sono somministrati, il giorno precedente

alla pubblicazione della sentenza, i Sacri Sacramenti.

L'accusato assblto non ha diritto di rivalersi contro l'accusatore né di

domandare la rifusione delle spese sostenute, salve diverse disposizioni

degli Statuti, tra le quali il caso in cui l'accusatore:" Non justam causam

litigandi habuerit "3 , rispetto al quale il giudice deciderà ex arbitrio .

1 : Li.b.IIl, Rub.36 § Quod si . 2 : Ibid. 3 : Ibid. § Reo autem .

97

§I MEZZI DI IMPUGNAZIONE: IL RICORSO IN SINDACATO

L'unico rimedio contro le sentenze penali offerto dall'ordinamento

triestino del 1550 è il ricorso in Sindacato: a Trieste la magistratura dei

Sindaci era l'organo dalla competenza più vasta in materia di appello. Tale

magistratura aveva costituito uno dei pilastri della costituzione del

Comune medievale e conservò un ruolo vitale e più rilevante che altrove

per lunghissimo tempo, sino al tardo Settecento. Per tutto il periodo del

libero Comune e della prima dominazione austriaca svolse la funzione di

unico mezzo di gravame contro i provvedimenti delle autorità giudiziarie,

mancando un qualsiasi altro tribunale di seconda istanza.

Quando poi accanto alla magistratura dei Sindaci venne introdotto il

Tribunale d'Appello - per le controversie civili - esso ebbe sempre una

limitata competenza, sicché la prima costituì sempre l'organo dalla più

ampia competenza per i gravami proposti contro i provvedimenti

giudiziari.

Per quanto concerne la composizione ed il funzionamento del

Sindacato, gli Statuti 1 stabiliscono che otto giorni prima che il Vicario ed il

Giudice dei malefici terminino l'anno di carica, il Consiglio Maggiore elegge

cinque Sindaci:" Qui omnes fint literati ". Una volta eletti essi prestano al

Capitano ed ai Giudici della città giuramento di esercitare diligentemente

il loro ufficio, che consisteva nell':" Audire et reci.pere omnes querelas

cuiuscumque " contro il Vicario, il Giudice dei malefici, i Giudici della città

e tutti gli altri magistrati o pubblici ufficiali di Trieste che erano stati in

1 : La disciplina si trova in Lib.I, Rub.41.

98

quell'anno in carica. L'organo così formato restava in attività per quindici

giorni - entro i quali doveva decidere - tre dei quali erano destinati alla

presentazione dei ricorsi e delle denunce ed i rimanenti alla definizione

della causa. Trascorso questo termine il collegio si scioglieva, salvo

ricostituirsi nel caso in cui una causa fosse stata inviata fuori città al

Consiglio dei Savi. L'uso di deferire la causa al parere di giurisperiti

forestieri era assai frequente: gli Statuti infatti stabilivano che il

"Consilium Sapientium" doveva essere richiesto d'ufficio dai Sindaci nel

caso di ricorso contro una sentenza irrogante una pena corporale, mentre

in tutti gli altri casi era sufficiente l'istanza di una delle parti in causa1. Il

parere era vincolante ed i Sindaci vi si dovevano conformare alla lettera.

Sull'operato o sulla negligenza dei Sindaci vigilava il Vicario; alle

sentenze del Sindacato era data esecuzione dal Giudice dei malefici

mediante i soliti ufficiali preposti.

Gli Statuti erano essenziali e chiari a proposito del compito del

Sindacato:" A sententia criminali lata, nulla omnino interponi possit

appellatio, nisi ad Syndicatum, tunc autem Syndicos, statim secundum

f onnam Statuto rum costituendos et fiendum Syndicatum, interim autem

sententiae executionem suspendendam "2 .

In campo criminale si poteva ricorrere al Sindacato in ogni tempo,

senza che fosse necessario attendere il termine del mandato annuale del

Giudice dei malefici; egli poteva pertanto essere sindacato anche nel corso

dei singoli anni di carica dal collegio appositamente costituito nei modi

previsti dagli Statuti. Il ricorso aveva effetto sospensivo della sentenza

1 : "Quod si ambae vel altera partium petierit rem ad Consilium Sapientium mitti, teneantur Syndici id exequi " ; Lib.I Rub.41 § Porrecto libello. 2 : Lib.III, Rub.36 § inizio.

99

impugnata; tuttavia se l'appello veniva proposto da colui che era stato

condannato a pena corporale da una sentenza non ancora eseguita, tale

persona era posta nelle carceri del Comune sino al termine della causa 1.

1 : Lib.l, Rub.41 §Et si.

100

CONCLUSIONI

§ L'ORDINAMENTO GIUDIZIARIO CRIMINALE: EVOLUZIONE E

MODIFICHE

Questo capitolo finale s1 propone di prendere in esame la complessa

evoluzione dell'organizzazione giudiziaria in campo criminale di Trieste

dalla sistemazione fattane negli Statuti del 1550 sino alla fine dell'epoca

teresiana, periodo durante il quale il nucleo essenziale delle disposizioni

ferdinandee resse ancora, seppure attraverso incisive manipolazioni.

Prima di iniziare è necessaria un'osservazione: il sistema di governo

triestino dalla seconda metà del Cinquecento era ormai inserito

pienamente nell'organizzazione amministrativa austriaca. La condizione

della città era diversa dall'immagine che di essa la classe dirigente locale

tentava di diffondere: la Trieste del XVI secolo era parte integrante della

struttura statuale asburgica, attraverso l'organizzazione di governo

dell'Austria interiore, la vasta regione dei Domini ereditari austriaci che

comprendeva, oltre alle città di Trieste e Fiume, i Ducati di Stiria,

Carinzia, Carniola, la Contea di Gorizia ed il Capitanato di Plezzo.

Alla luce di questa premessa è opportuno ricostruire, attraverso le

modifiche più importanti, il sistema del diritto penale e della procedura

criminale del periodo qui considerato.

Partiamo dalla Risoluzione aulica 8 Aprile 16791: tale atto intendeva,

nelle sue disposizioni più importanti, fissare una volta per tutte i poteri

1 : Il 20 Giugno 1679 venne pubblicata nel Consiglio Maggiore triestino la Risoluzione del 22 Aprile dello stesso anno della Reggenza e Camera dell'Austria interiore, con cui si trasmetteva al Consiglio ed ai Giudici e Rettori la Ris. 8.4.1679.

101

del Capitano arciducale e dei magistrati triestini nel campo della

giurisdizione civile e criminale1.

L'intervento delle supreme autorità s1 era reso necessano perché i

conflitti tra le due parti erano divenuti cronici. Essi si erano poi acutizzati

per il progetto dei dicasteri di Graz e Vienna di istituire a Trieste un

tribunale collegiale stabile "in civilibus et criminalibus ", sovvertendo così

l'intera organizzazione giudiziaria locale.

Tale tentativo venne definitivamente abbandonato alla fine del 1678,

data l'irriducibile opposizione ·dei triestini, mediante un provvedimento

sovrano che autorizzava la città a mantenere invariata la propria

struttura giudiziaria. Il potere centrale, nel proposito di ridurre

drasticamente i continui contrasti che dividevano la città dal Capitano,

con la Risoluzione 8.4.1679 delimitava con chiarezza l'ambito delle

competenze dei magistrati preposti alla giurisdizione a Trieste, partendo

dalle principali disposizioni emesse in materia negli Statuti ferdinandei del

1550 e coordinandole armonicamente.

Tale operazione, moderata ed equa, venne accettata dai triestini, che in

tal modo videro sostanzialmente confermati i loro Statuti: considerarono

perciò questa Risoluzione come parte integrante degli Statuti del 1550,

tanto da chiedere espressa conferma dell'una insieme agli altri ai

success1v1 Sovrani e da farli pubblicare insieme nell'ultima edizione a

stampa degli Statuti del 1 7272 .

1 : L'atto conteneva anche disposizioni riguardanti l'amministrazione economica della città. 2 : L'originale del testo, tradotto dal tedesco, della Risollizione 8.4.1679 è pubblicato in" Statuta inclytae Ciuitatis Tergesti ... ", Utini, 1727, pagg. 371 - 375.

102

La sistemazione data alla materia dall'atto sovrano del 1679 rimase a

fondamento dell'organizzazione dei tribunali triestini per oltre un secolo,

fino alle riforme giudiziarie dell'imperatore Giuseppe II.

Vediamo ora nello specifico le modifiche più rilevanti apportate alla

struttura originaria degli Statuti del 1550.

Per quanto riguarda la competenza della Curia dei malefici bisogna

osservare che se da un lato essa era assai ampia - infatti tutti i processi

criminali, salvo quelli riguardanti i delitti di Stato, erano celèbrati dal

Giudice dei malefici - per quanto riguarda l'emanazione delle sentenze il

Giudice dei malefici vedeva gravemente compressa la propria potestà a

favore del Capitano. Gli Statuti del 1550 avevano attribuito in tale ambito

al Capitano due prerogative: quella di essere presente alla pubblicazione

della sentenza penale1 e quella di determinare in casi specifici a proprio

arbitrio la pena2 • L'anno successivo venne addirittura stabilito che la

pubblicazione della sentenza doveva effettuarsi a nome del Capitano3 ,

secondo la prassi seguita nei precedenti Statuti.

Nel 1564 e nel 1578 venne infine concesso al rappresentante del

Sovrano il potere di accrescere a proprio arbitrio le pene stabilite negli

Statuti relativamente ai reati di lesione e percosse ed oltraggio ai

magistrati, nonché quelle prescritte per 1 vagabondi ed i rissatori

notturni4 •

I : Lib.111, Rub.35 § Quibus peractis . 2 : Vedi nota (1) a pag. 97. 3 : Regia declaratio super nonnullis Capitulis etc. § Reli.qua, in Statuta. cit., pag. 314. 4 : Vedi Nova refonnati.o Statutorum Civitatis Tergesti , § Ad hoc etiam e § Similiter quoque, in Statuta cit., pagg. 328 -330; inoltre vedi Quatuordecim articuli ... circa administrationem .ludici criminalis et ipsius Justitiae, ibid. pag. 352.

103

Da queste innovazioni, a cui m seguito venne data interpretazione

estensiva, si affermò il principio, documentato a Settecento inoltrato1,

secondo cui il Capitano poteva modificare a proprio arbitrio le sentenze del

Giudice dei malefici prima della loro pubblicazione. Il vero depositario

della potestà punitiva era diventato il Capitano: il Giudice dei malefici

divenne a quel punto un organo la cui funzione era meramente quella di

istruire il processo e la cui decisione era solo un parere per il Capitano;

conseguentemente gli Statuti stessi videro modificata la loro funzione,

poiché il rappresentante arciducale poteva ormai prescindere da essi e

superarli.

Possiamo però far notare che i poteri del Giudice dei malefici in materia

di sentenze erano già fortemente limitati nella seconda metà del Seicento,

poiché dalle autorità superiori era stato dichiarato più volte il potere del

Capitano di aumentare la pena, qualora quella fissata dal giudice penale

gli fosse parsa troppo mite2 •

La Risoluzione 8.4.1679, ai paragrafi 1-3, contribuì a delineare con

chiarezza e semplicità i poteri giurisdizionali del Capitano in relazione alle

competenze degli organi giudiziari del Comune. Questa operazione, che

non fece altro che coordinare le norme statutarie in materia con quelle

contenute nei provvedimenti successivi, fornì un'indicazione delle

competenze giurisdizionali del Capitano e costituì per lungo tempo un

sicuro punto di riferimento per destreggiarsi in una materia troppo

ingrovigliata.

1 : Vedi R. Pavanello, L'amministrazione giudiziaria. .. cit., a pag. 54 in nota 19. 2 : Vedi Risoluzione 14.7.1639 §Ad hocetiam.

104

Del duplice principio enucleato dai suddetti paragrafi della Risoluzione

8.4.1679 e che costituiva la disciplina delle funzioni giurisdizionali

dell'ufficio capitanale, uno era già stato formulato dagli Statuti

ferdinandei1: si tratta del generale potere di controllo, chiamato "suprema

inspectio ", che faceva del Capitano non un giudice, bensì un controllore

dell'attività svolta dai giudici.

L'altro pnnc1p10 specificava le cause da ritenersi attribuite alla

competenza del Capitano: innanzitutto quelle già attribuitegli dagli Statuti

del 15502: la cognizione dei delitti di Stato, la punizione degli illeciti

compiuti dai suoi "familiares " e "domesticos ", la repressione dei reati di

particolare gravità commessi dal Giudice dei malefici3 . Il Capitano era

inoltre dichiarato competente a decidere le cause delegategli dal Sovrano,

con esclusione di autorità intermedie.

Infine trovano soluzione due questioni giurisdizionali divenute

inestricabili a causa di normative frammentarie e non omogenee: quelle

relative alla competenza del Capitano in materia di delitti notturni e di

porto d'armi proibite. La Risoluzione 8.4.1679 precisava, dopo aver

confermato la generale competenza del Giudice dei malefici in campo

penale, che al Capitano doveva essere riconosciuta piena giurisdizione in

tali materie. In questi casi egli poteva punire senza aver istruito un

processo, considerate le circostanze.

Per la specificazione dei poteri connessi alla funzione generale di

controllo attribuita al Capitano sull'attività degli organi giurisdizionali di

Trieste, la Risoluzione 8.4.1679 non forniva alcuna indicazione. Tale

1 : Lib.I, Rub.1 § § Possit item e Administrationem . 2 : Ibid. e pure Regia declaratio cit. § ltemprefati, loco cit., pag.312. 3 : Lib.III, Rub.10 § Sed si Vicarius .

105

"dimenticanza" da parte delle autorità può spiegarsi solo con il

convincimento che la materia fosse regolata a sufficienza dalla legislazione

precedente. Gli Statuti però sono tutt'altro che utili sul punto, se viene

eccettuata la norma generale - e generica - che obbliga il Capitano a

vigilare affinché l'amministrazione delle giustizia sia gestita nel migliore

dei modi1• Una disciplina più incisiva può trovarsi nella Risoluzione

14.7.1639, che autorizzava il Capitano a prendere v1s10ne degli atti

criminali e di essere presente alla tortura degli imputati2 per dare

disposizioni al Giudice dei malefici per un più efficace svolgimento

dell'esame. Nei casi in cui il giudice avesse ritardato oppure omesso la

propria attività, veniva disposta l'avocazione della causa da parte del

Capitano, la cui decisione però doveva essere presa con il consiglio del

giudice stesso.

Per quanto riguarda le funzioni svolte dal Sindacato nell'epoca presa in

considerazione in questo capitolo, quella in materia di gravami, oltre al

giudizio sulle denunce contro atti o altri comportamenti dei giudici non

esteriorizzati in sentenze o altri provvedimenti, era l'unica rimasta. Infatti

già in un documento del primo Settecento3 è evidenziato come allora,

sebbene gli Statuti sottoponessero a sindacato tutti i magistrati e gli

ufficiali stipendiati dal Comune, venissero esaminati dal collegio sindacale

di fatto solo i ricorsi e le denunce presentati contro il Vicario ed il Giudice

dei malefici; le accuse - eventuali peraltro - prodotte contro gli altri

magistrati venivano ritirate, grazie all'interposizione di conoscenti. Questa

1 : Lib.I , Rub. l § Possit item . 2 : Monizione sovrana 14.4.1612 ai Giudici e Consiglio§ Audiuimus, loco cit,, pag. 360. Gli Statuti ( Lib.III, Rub.4 § fine ) davano solo la facoltà al Capitano di assistere all'esame, senza poter intervenire. 3 : Rapporto "De anno• 1726 del Capitano in carica al Sovrano; vedi R. Pavanello, L'amministrazione giudizi.aria ... cit., a pag.70 in nota 63.

106

è una situazione che si commenta da sé: se infatti la classe dirigente della

città già mal sopportava ogni forma di ingerenza e di controllo sull'attività

degli organi di governo da parte del rappresentante del Sovrano, a maggior

ragione non poteva tollerare le denunce in Sindacato contro uno dei suoi

membri. Solo il Vicario ed il Giudice dei malefici, lo ricordiamo, erano

infatti giudici "forestieri".

A far restringere le funzioni dei Sindaci in questi limiti aveva

contribuito il corrispondente ampliamento delle funzioni capitanali di

controllo.

Il ricorso alla magistratura sindacale, seppure limitata a tali casi,

costituì però nella tarda età moderna un mezzo spedito e non dispendioso

per ottenere la riforma delle sentenze o di altri provvedimenti giudiziari,

poiché, in caso contrario, si sarebbero dovuti adire i dicasteri arciducali di

Graz, con perdita di tempo e spese non indifferenti.

Ricordiamo che la magistratura del Sindacato venne abolita dalla

riforma della costituzione giudiziaria locale del tardo periodo teresiano1,

quando il collegio sindacale aveva ormai perso quasi del tutto la sua

funzione, decadendo a foro d'appello per cause di modesta entità.

Il ricorso al Sindacato non esauriva la gamma di rimedi esperibili

contro i provvedimenti giurisdizionali in materia penale: erano previsti

infatti altri mezzi, sottratti alla magistratura di seconda istanza.

Competente a conoscere tali rimedi era infatti, in ambito penale, il

Consiglio intimo dell'Austria interiore2 , a cui erano riservate ampie

prerogative in materia di rimedi straordinari contro i provvedimenti delle

1 : Vedi Ris. Normale 18.5.1767; Cfr. R. Pavanello, L'ammi.nistrazione giudiziaria ... cit., a pag. 72 in nota 64. 2 : Era l'organo investito della rappresentanza del Sovrano in tutta la regione e faceva da tramite tra essa e la Corte; era inoltre l'organo consultivo del Sovrano per l'amministrazione delle province.

107

autorità giudiziarie. I rimedi su cui il Consiglio intimo era competente a

decidere o a dare un parere erano costituiti dalla "restitutio in integrum" e

dalla grazia.

La concessione della "restitutio in integrum " poteva essere richiesta

contro le pronunce di tutti i tribunali triestini e prescindeva inoltre dal

grado di giudizio in cui era stato emanato il provvedimento contro il quale

veniva fatta l'istanza di restituzione. Per i poteri concessi in proposito al

Consiglio intimo, tale organo era autorizzato a respingere o a raccogliere le

istanze di restituzione con un proprio provvedimento; questo veniva poi

trasmesso al giudice che aveva emanato la decisione impugnata o ad altro

giudice delegato per gli ulteriori adempimenti del caso.

Prerogative decisamente più limitate erano attribuite al Consiglio

intimo per i ricorsi in via di grazia contro le sentenze criminali. In tali

circostanze esso infatti non aveva poteri deliberativi, ma riceveva

solamente i ricorsi, richiedeva un rapporto sulle istanze stesse ed infine

formulava un parere da inviare al Sovrano, al quale era riservata ogni

decisione in merito.

Il ricorso in via di grazia o l'istanza di restituzione erano gli unici

rimedi esperibili contro i provvedimenti in materia criminale non emessi

dal Giudice dei malefici e quindi non proponibili in Sindacato.

I poteri attribuiti al Consiglio intimo che abbiamo appena visto

rientravano in una più ampia competenza, condivisa con la Reggenza 1,

che si concretava in una funzione di alta direzione e vigilanza sull'attività

di tutti i tribunali triestini: tali prerogative potevano giungere sino al

1 : Era l'organo di govenio per eccellenza delle province: accentrava in sé funzioni amministrative e giudiziarie e per quanto riguarda le prime spettava alla Reggenza la cura dei pubblici affari non rientranti nella competenza specifica degli altri dicasteri.

108

potere di avocare singole cause e delegarle · ad appositi giudici o

. . . comm1ss1on1.

La delega di funzioni giurisdizionali non era infrequente

nell'ordinamento giudiziario triestino nell'epoca qui considerata: essa

poteva essere disposta solo dai dicasteri dell'Austria interiore1 oppure

dalla Corte, con esclusione di ogni altro organo. Per il tardo Seicento la

Risoluzione 8.4.1679 aveva ristretto a favore della Corte il potere di delega,

per i casi di delega data al Capitano, motivando tale comportamento con i

continui contrasti determinati dai conflitti di competenza che

contrapponevano gli organi giurisdizionali del Comune all'ufficio

capitanale. Era inevitabile che la città s1 opponesse a qualsiasi

allargamento delle competenze capitanali in materia giudiziaria.

Nella maggioranza dei casi la delega si attuava sottraendo alla

competenza dei tribunali della città singole cause oppure gruppi di

processi ed attribuendoli al foro capitanale2 • Tuttavia non ogni caso di

delega di funzioni costituiva esercizio di un potere diretto a delimitare

ulteriormente la competenza dei tribunali della città: a tale riguardo va

ricordato che l'unico mezzo messo a disposizione delle parti per ottenere la

sostituzione di un giudice ricusato o astenutosi era la richiesta presentata

al Tribunale superiore arciducale affinché la causa venisse delegata ad un

apposito commissario, che poteva ben essere il Capitano stesso.

In modo analogo si può considerare un ·fenomeno documentato già

nella prima metà del Settecento, ma probabilmente diffuso già in epoca

precedente, vale a dire la delega fatta dalla Reggenza o dal Consiglio

E cioè Consiglio intimo e Reggenza. Ciò costituiva tra l'altro attuazione di un potere tipico del Sovrano dell'età assoluta e dei suoi tribunali, secondo cui essi tevano mutare l'ordine delle competenze ed attribuire i processi a giudici diversi da quelli naturali.

109

intimo nelle cause di loro competenza a commissari locali 1. I motivi alla

base di tale prassi sono collegati alla lontananza di Trieste dalla sede di

Graz, lontananza che rendeva più congruo far decidere determinate cause

da chi aveva maggiori contatti con la realtà locale. Da queste osservazioni

appare come le frequenti deleghe disposte non fossero sempre atti diretti

ad usurpare le competenze giurisdmonali dei tribunali del Comune;

inoltre le deleghe non venivano sempre attribuite al Capitano, anzi,

venivano conferite sia a singoli giudici che a commissioni, a norma della

Risoluzione del 1679.

Da ultimo dobbiamo fare alcune osservazioni sull'ordinamento delle

fonti del diritto vigenti a Trieste nel periodo a cavallo tra' 600 e' 700.

Nell'introduzione a questo lavoro abbiamo ricordato che il sistema

normativo accolto dagli Statuti del 1550 si fondava sugli Statuti stessi

come fonte primaria e sul diritto comune assieme alla consuetudine come

fonti sussidiarie2 . ·

Dopo quanto abbiamo avuto modo di evidenziare in questo capitolo

finale sulla legislazione in materia criminale del Sovrano austriaco, con

riguardo a Trieste, non può sorprendere che anche la gerarchia di fonti sia

venuta a fondarsi, nel tardo Seicento e nel primo Settecento, su una fonte

primaria costituita dalla legislazione del Sovrano e su tre di carattere

sussidiario: gli Statuti - che sono stati quindi declassati a fonte

subalterna - la consuetudine ed il diritto comune.

Bisogna tuttavia osservare che la legislazione sovrana aveva pur

sempre, nell'epoca da noi considerata, un carattere saltuario, per cui la

Vedi R. Pavanello, L'amministrazione giudiziaria ... cit., a pag.79 in nota 79. Vedi , Statuta ,Llb.I. Rub.1 § Possit item e Llb.III, Rub. l § Juris autem.

110

maggior parte dei rapporti giuridici continuava ad essere regolata

principalmente dalle norme statutarie del 1550.

Gli Statuti quindi, al di là di una concezione strettamente formale,

rimanevano ancora la prima fonte del diritto a Trieste.

111

Fonti

Statuta inclytae Civitatis Tergesti, Utini, 1727.

Commissione contro gli Eretici 22.7.1570, Utini, 1727, pagg.342- 343.

Risoluzione 8.4.1679, ibid., pagg.371-375.

Nova reformatio Statutorum Civitatis Tergesti, ibid.,pagg.328-330.

Quatuordecim articuli... circa administrationem Judici criminalis et ipsius

Justitiae, ibid., pag.352.

Monizione sovrana 14.4.1612 ai Giudici e Consiglio, ibid., pag.360.

Bibliografia

Roberto Pavanello, R Codice perduto. La formazi,one dello Stato assoluto in

Austria tra '400 e '500 nelle vicende degli Statuti di Trieste ,Trieste, 1990,

pagg.178.

Roberto Pavanello, L'amministrazi,one giudiziaria a Trieste da Leopoldo a

Maria Teresa (I - L'età anteriore al porto franco), Trieste, 1982, pagg.106.

Ugo Cova, Sul diritto penale negli Statuti di Trieste, Trieste, 1967, pagg.42.

Antonio Pertile, Storia del Diritto Italiano dalla caduta dell'Impero romano

alla codifi.cazi,one, Torino, 1892, voll.V .

Pasquale del Giudice, Storia della procedura, in Antonio Pertile, op. cit.,

Torino, 1903, vol. VI.

Antonio Marongiu, voce: Delitti, Diritto intermedio, m Enciclopedia del

Diritto, Milano, 1958, vol. XII, pagg.8-16.

112

Giovanni Diurni, voce: Pena criminale, Diritto intermedio, in Enciclopedia

del JAritto, Milano, 1982, voi. XXXII, pagg.752-770.

Antonio Burdese, IAritto privato romano, Torino, 1995.

Giorgia Alessi Palazzolo, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra Evo

Medio e Moderno, Napoli, 1979, pagg.211.

113

INDICE

Introduzione

Gli Statuti di Trieste del 1550: genesi e valore politico ........................ pag.1

Il sistema delle fonti del diritto negli Statuti del 1550 ................................ 3

Sezione I: DIRITTO PENALE

Premessa ................................................................................................ 7

Delitto e pena nel XVI secolo .................................................................... 7

PARTE GENERALE: GLI ELEMENTI DEL REATO

Elemento oggettivo ed elemento soggettivo del reato .................................. 11

Le circostanze del reato ........................................................................... 14

Il concorso di persone nel reato ................................................................ 1 7

Il tentativo .............................................................................................. 20

Le cause di estinzione del reato ................................................................ 24

PARTE SPECIALE: DEI DELITTI E DELLE PENE IN PARTICOLARE

I delitti contro Dio e la religione ................................................................ 29

I delitti di Stato ....................................................................................... 32

I delitti contro l'ordine pubblico ................................................................ 33

I delitti contro il buon costume ................................................................. 37

I delitti contro la pubblica fede ................................................................. 40

I delitti contro l'esistenza, l'incolumità e la sicurezza individuale ................ 42

Ingiuria ed altre offese all'onore .............................................................. .48

I delitti contro la proprietà privata ed il patrimonio ................................... 50

I delitti dei pubblici ufficiali ..................................................................... 57

I Giudei e l'usura .................................................................................... 58

Alcuni delitti particolari ........................................................................... 59

Le pene ................................................................................................... 63

Le conseguenze della pena ........................................................................ 66

La condizione giuridica di determinate categorie di persone ........................ 6 7

Le cause di estinzione del reato ................................................................. 69

Sezione II: ORDINAMENTO GIUDIZIARIO E PROCEDURA CRIMINALE

Premessa ................................................................................................. 72

Gli organi della giurisdizione criminale ...................................................... 75

La Curia dei malefici ................................................................................ 76

La competenza ........................................................................................ 77

La prescrizione dei reati .......................................................................... 78

Il procedimento criminale: accusa e denuncia ........................................... 79

L'attività difensiva degli imputati .............................................................. 82

Cattura e carcerazione ............................................................................. 84

LE PROVE

Confessione e tortura ............................................................................... 87

La testimonianza ..................................................................................... 89

Le prove e la valutazione del giudice .......................................................... 92

La sentenza e la sua pubblicazione ............................................................ 94

L'esecuzione ............................................................................................. 96

I mezzi di impugnazione: il ricorso in Sindacato .......................................... 98

Conclusioni

L'ordinamento giudiziario criminale: evoluzione e modifiche ........................ 101

fi'onti e bibliografia .................................................................................... 112