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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 54 FEBBRAIO 2017 CITTÀ DEL VATICANO Rammendo

D ONNE CHIESA MOND O - L'Osservatore Romano · hanno ottenuto per reazione né sistemi di allarme, né porte blindate. Si chiama oggi Centro Arcobaleno 3P, come qui nominano ancora,

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 54 FEBBRAIO 2017 CITTÀ DEL VAT I C A N O

Rammendo

numero 54febbraio 2017

L’I N T E R V I S TA

L’arte di ricomporre la trama umanaA colloquio con suor Anna Alonzo

SERGIO MASSIRONI A PA G I N A 3

SP I R I T UA L I T À

Dalla radice dei capelli al centro del cuoreMARIE-LUCILE KUBACKI DE GU I TAU T A PA G I N A 11

IN NOVEMILA C A R AT T E R I

La maratoneta della paceANNA POZZI A PA G I N A 17

FO CUS

Un po’ di serenità con i coloriFRANCESCA MANNO CCHI A PA G I N A 22

LA S A N TA DEL MESE

Così umana ma così permeata di divinoGAIA DE BE AU M O N T A PA G I N A 27

NEL NUOVO T E S TA M E N T O

La benedizione di Elisabetta

ROSANNA VIRGILI A PA G I N A 29

ARTISTE

Dalla violenza la vitaLU C E T TA SCARAFFIA A PA G I N A 36

ME D I TA Z I O N E

Trova il tuo tesoroA CURA DELLE SORELLE DI BOSE A PA G I N A 39

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L’I N T E R V I S TA

di SERGIO MASSIRONI

L’arte di ricomporrela trama umanaUna suora nei quartieri degradati di Palermo

con uno stile di presenza quotidiana come lievito nella pasta

Incontro a Palermo suor Anna Alonzo, che ha spalancato zone degra-date e assediate della città al gusto di stare insieme. Al quartiereGuadagna, non diverso da Brancaccio per povertà culturale e densitàmafiosa, un edificio abbandonato è stato da lei notato, occupato etrasformato. Mese dopo mese, i metri quadrati accessibili alla comu-nità sono cresciuti e gli attacchi, le provocazioni, la violenza nonhanno ottenuto per reazione né sistemi di allarme, né porte blindate.Si chiama oggi Centro Arcobaleno 3P, come qui nominano ancora,con le sole iniziali, Padre Pino Puglisi: al suo interno — suor Annami racconta — del beato è appeso un grande ritratto. La tela è pienadi cuciture, perché un giorno qualcuno irruppe e, con una lama, vol-le ucciderlo una seconda volta, forse per dire basta a questa Chiesadalle porte aperte. Meglio la discrezione della parrocchia accanto: ilculto e poi silenzio. L’immagine martire, con le sue cicatrici, defini-sce oggi uno stile: quello di presenza quotidiana, costi quel che costi,come lievito nella pasta. «Evidentemente con il mio lavoro in unquartiere difficilissimo rompo diversi equilibri»: sono le parole a por-tata di clic, rimbalzate nel web in seguito all’aggressione subita unanotte al rientro a casa. Inseguita, malmenata e intimidita con un col-tello da giovani mandati per farla desistere. Un episodio su cui oggi

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romanoa cura di

LU C E T TA SCARAFFIA

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I N A PÉREZ

Comitato di redazioneCAT H E R I N E AUBIN

MARIELLA BALDUZZI

ANNA FOA

RI TA MBOSHU KONGO

MA R G H E R I TA PELAJA

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v ad c m @ o s s ro m .v a

per abbonamenti:d o n n e c h i e s a m o n d o @ o s s ro m .v a

Rammendo

«Rammendo» si chiama questo numero di «donne chiesa mondo». Iltermine, come pure quello analogo anche se non identico di “tesse-re ”, è evidentemente usato in senso metaforico. Si tratta di donne chericuciono il tessuto della società, che rammendano le lacerazioni so-ciali provocate dagli esseri umani. A volte sono lacerazioni che met-tono in gioco la vita o la morte delle persone, a volte sono strappi inuna società dominata dalla mafia e dalla disuguaglianza, altre voltestrappi determinati dalla guerra. Queste donne di cui parliamo usanol’antica abilità femminile del tessere e rammendare per risanare perquanto possono il tessuto della società in cui vivono.

Non ci sono scuole per i bambini siriani in Libano dove DialaBrisly ha vissuto dopo essere fuggita dalla Siria e dove Diala usa lasua abilità nel colore e nella pittura per aiutarli, per farli uscire dalbaratro in cui stanno. E ci si domanda cosa sarà di una società in cuinessuno impara più e in cui quelli che ritessono le fila sono troppopochi. In Kenya Tegla Loroupe, una maratoneta con molte vittoriealle spalle, ha fondato un’associazione che fa opera di pacificazionenei conflitti e fa scuola ai bambini, sottraendoli alla guerra. Cinqueragazzi sudanesi della sua organizzazione hanno partecipato alleolimpiadi di Rio. Cercate di immaginare le loro emozioni. E in Fran-cia, ci sono parrucchieri e istituti di bellezza destinati alle donne po-vere, in cui per due o tre euro si può godere di trattamenti che costa-no normalmente cento volte di più. Le donne vi imparano a curarsidella propria persona, a essere in grado di sostenere un colloquio dilavoro, a guardarsi di nuovo allo specchio. Chi vi opera ha lavoratoprima con i ricchi, e ha poi scelto di mettere a disposizione di chinon ha nulla le sue capacità. E ancora, a Palermo una suora crea nel-le zone più degradate della città spazi di incontro e di condivisione,lontani dai tentacoli della mafia, e senza il supporto delle istituzioni.Luoghi dove possono crescere in tutti la responsabilità e la partecipa-zione. (anna foa)

L’EDITORIALE

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ventidue anni abbia insegnato all’università. Ai servizi sociali del mu-nicipio quasi non c’è chi non abbia studiato con lei. Camminiamoper le vie del centro e noto che sono gli ultimi a conoscerla: la fer-mano o si ferma lei e assisto all’immediato immergersi in conversa-zioni personalissime. Intravvedo legami che continuano o che nasco-no, uno dietro l’altro. Gli studi, i titoli, la cattedra? Indispensabili,perché «ai poveri si deve dare il meglio». Cita volentieri le parole ri-voluzionarie del cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo

volentieri sorvola, quasi a non infierire sulla reputazione di Palermo esu ragazzi che preferisce guardare negli occhi. Esso però documentatroppe distrazioni e assenze: «Del lavoro svolto alla Guadagna, allacittà non importa. Qui hanno rubato tutto quello che potevano ruba-re, anche il cibo del banco alimentare. Hanno vandalizzato porte efinestre, rubato il rame, ma nessuno chiede o interviene». Per quantapositività la religiosa abbia in cuore, si avverte l’esperienza diun’amara solitudine. Anna è pronta a ricordare, però, la consolazioneche viene dai poveri, quasi come pegno di un cambiamento possibi-le: «L’unico aiuto che ho avuto nei mesi più drammatici è stato daidetenuti del carcere Pagliarelli. Hanno raccolto 3200 euro, che mi so-no serviti per sistemare una parte del centro che era pericolante: mihanno detto che grazie al mio lavoro forse i loro figli possono avereun futuro diverso». Duecento i ragazzi coinvolti, ottanta le donne, inuna continua moltiplicazione di iniziative e percorsi. E il 23 dicembrescorso quasi un miracolo, che la religiosa attribuisce al non esser maifermo di don Puglisi in cielo: sindaco e arcivescovo di Palermo insie-me al Centro Arcobaleno 3P, per inaugurare due campetti da gioco esoprattutto a segnare una svolta, l’impegno di un’intera città per ilconsolidamento di quanto grazie a lei è sorto.

Anticipando quanto Papa Francesco raccomanda in Evangelii gau-

dium, suor Anna ha infatti innescato processi, più che occupare spazi.Dà le chiavi del centro e la possibilità di incontrarsi a chiunque di-mostri un anelito al bene: ospita, educa, lascia fare. Non pianifica:gusta ciò che ai giovani, alle donne, ai poveri vien voglia di iniziare.Semmai, aiuta a strutturare: protegge, coltiva, motiva, connette. Così,un’idea cresce, un bisogno trova risposta, qualche progetto dura e sisviluppa: giorno per giorno, da anni. I bambini, al centro della Gua-dagna, furono i primi a entrare. A dire il vero, già scavalcavano pri-ma che suor Anna iniziasse tutto: è grazie a loro che, passando, leipoté vedere nell’inferno il giardino che non c’era. Presto, oltre ai pic-coli, ecco però avvicinarsi gente di ogni età e provenienza: un mira-colo, nel quartiere in cui la criminalità respingeva gli estranei, per te-nere lontana la polizia. Una rivoluzione, in strade che i palermitanidel centro mai avrebbero percorso. Vengono non solo a prendere, masempre di più a dare, perché è naturale: se ciò che era di nessuno di-venta comune — accessibile, bello, autentico — allora si sente di ap-partenere. Sorge la responsabilità, un senso di partecipazione, in cuinessuno è passivo destinatario, o eterno assistito.

Lascio che Anna racconti ed è un fiume in piena. Capisco che lasua non è un’avventura personale, ma una storia di Chiesa poco co-nosciuta nella stessa Palermo. Lei vive poveramente con alcune con-sorelle, ha quattro lauree, ma nessuna boria accademica, sebbene per

Letizia Battaglia«La bambinacon il pallone»(Palermo, 1980)

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dal 1945 al 1967: un padre di cui Anna Alonzo parla con venerazione,confutando le anacronistiche letture che lo descrivono restio a denun-ciare il peso della mafia sulla città. Se lei c’è, se è suora, se ha dimo-strato l’energia di rivoltare la stratificazione di potere che paralizzainteri quartieri, è grazie a quel vescovo che nel secondo dopoguerragià aveva scelto i poveri, schierandosi. L’azione missionaria, che nelle“sue” suore oggi continua, prima di essere “c o n t ro ” doveva nascere“p er” qualcuno: per gli ultimi trattati come primi. Ruffini, fondandol’Istituto delle assistenti sociali missionarie, ma anche edificandochiese di periferia, scuole d’infanzia, spazi aggregativi, case popolari,centri di prossimità, ha opposto il Vangelo vissuto alle clientele cri-minali, dedicandosi al grano pur conoscendo la zizzania. Sarebberovenuti, successivamente, i tempi della denuncia aperta, di un Papache in Sicilia ha tuonato il richiamo alla conversione dei mafiosi, diun parroco che ha versato il sangue per il riscatto della sua gente.Pochi sanno, però, che Palermo ha visto una preparazione ecceziona-le, silenziosa, colta solo in parte nelle sue potenziali conseguenze:una corrente carsica capace di investire giovani allergici alle vuoteformalità, contestatori santamente inquieti. Come Anna Alonzo, ap-punto, che da piccola andava a scuola con l’autista: famiglia che con-ta, lusso, galateo e cultura, un futuro di privilegi. Mi confida che ilterremoto venne durante un viaggio in Tunisia, con il liceo della Pa-lermo bene: imprevisto e dirompente fu l’impatto coi bambini e con ipoveri ai bordi delle strade, nelle periferie e nelle campagne. Sguardiincrociati dai finestrini di un autobus, scene che s’impressero persempre in una mente vivace, in un cuore assetato. Il ritorno a casa diuna diciottenne colpita da una realtà fino a quel momento negata, laribellione che monta, l’aria che manca: là fuori, anche a Palermo, unacittà mai vista, persone artificiosamente evitate. S’interruppe così unacontinuità di valori familiari: «Da mio padre ho imparato chi nonvolevo essere».

Anna scopre che, a pochi passi dai suoi luoghi di sempre, già vi-vono suore tra i poveri e cresce una Chiesa che ha il loro odore piùdi quello dell’incenso. Studia lettere classiche, ma non è più la stessa.Cerca e trova una vita religiosa che unisce intelligenza e carità: lasciatutto, parte, si forma, scopre i santi, legge i mistici, si dedica allescienze sociali, lavora, si consacra, viaggia. Una vita libera, nell’obb e-dienza, che a sentirla raccontare incanta e pone la domanda: chi satutto questo? Chi vede nella Chiesa e nel paese la rivoluzione femmi-nile incarnata da donne così? «Vi vorrei anime di grande sensibilità,capaci di raccogliere tutte le vibrazioni del dolore umano» auspicavaRuffini, delineando quel lavoro simbolico e pratico necessario perchéla città continui a essere, per chi la abita, luogo quotidiano di un be-

A pagina 6 e nelle seguentile attività nel centroArcobaleno a Palermo

Nata a Palermo il 12 luglio1949, ha studiato in cittàpresso il liceo classicoGaribaldi, laureandosipoi a pieni votiin lettere classiche.È quindi entrata nellaSocietà di servizio socialemissionario, sorta nel 1954 aopera del cardinale ErnestoRuffini

a fronte della grandepovertà di Palermonel secondo dopoguerra.Si è poi laureata in serviziosociale e in teologiae ha continuatola sua formazionecon un Counselingquadriennale gestalticoe un masterin progettazione sociale.

Docente universitariaper oltre vent’anni, religiosaattiva in Italia e all’e s t e ro ,si dedica oggi a tempopieno alla cura dei piùpoveri di Palermo, vivendomodestamente con alcuneconsorelle e coordinandoi progetti della onlusPro.Vi.De. Regina dellaPace, da lei fondata.

Anna Alonzo

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la Croce, Teresa d’Avila, Teresa di Gesù Bambino e ne parla volentie-ri: le brilla negli occhi un anelito contemplativo che ha investito pri-ma di tutto i suoi beni. La casa di famiglia al mare, per esempio, uti-lizzata per portare in vacanza i poveri: una bambina rom le chiese sefosse il palazzo di una regina. E lei racconta che immediatamente, suquella spiaggia, capì: «La casa di una regina, certo!», da cui la com-pleta ridestinazione dell’immobile e l’aggiunta a PRO moción VIda DE-rechos del titolo Regina della pace. Anna, senza clamore, vede Dio,l’azione dello Spirito, il grande mistero, nei processi di cui è protago-nista e testimone. Il tratto più impressionante, in questo senso, è chedi niente parla come se fosse suo: ogni luogo, ogni progetto, nei suoipensieri, sono da lasciare prima possibile, non appena in grado dicamminare con le proprie gambe. Si tratta — è chiaro — non di beni,ma di persone, di figli che la madre vede già crescere e spera forti,disposti a partire. Come il Gesù dei vangeli, itinerante, così suor An-na, assistente sociale missionaria, procede, va, vibra intuizioni nuove:non la fermano né minacce, né applausi. Tante porte fin qui aperte,evidentemente, sono il frutto di una vita rimasta aperta.

nessere che struttura la vita. Come sostiene la palermitana MariellaPasinati, «spesso si tratta non di tessere ex novo, ma di rammendareferite aperte da pratiche scriteriate e da scelte sconsiderate, rinsaldan-do legami e senso di comunità. Un’arte di ricomposizione della tra-ma umana in cui dall’alba dei tempi si sono distinte le donne». Cer-to, da grande suora, Anna Alonzo fugge le luci della ribalta e chiedeche sul giornale si scriva del Centro Arcobaleno, della Guadagna, deipoveri che si riscattano, non di lei. Eppure avverto che contano ilsuo nome, le circostanze, i fatti, per narrare la plausibilità di unaChiesa sottotraccia, in cui si manifesta l’efficacia della misericordia.Lei dice «provvidenza», con semplicità, per raccontare il suo Dio:pur lavorando da mattina a sera, tutto fa dipendere da lui, senza fal-se umiltà; P R O.VI.DE. è la sigla con cui ha battezzato l’associazione divolontariato che sostiene i suoi progetti: paradossale congiunzione dicielo e terra, fede e maniche rimboccate, attesa e impegno. Si puòpensare, infatti, che un’assistente sociale missionaria sia assorbita aogni ora del giorno e magari della notte dal fare. Per certi versi è co-sì. Eppure in sua presenza si avverte una grazia, la vertiginosa pro-fondità su cui tutto è come lucidamente sospeso. Ama Giovanni del-

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SP I R I T UA L I T À

di MARIE-LUCILE KUBACKI DE GU I TAU T

Dalla radice dei capellial centro del cuore

La Sentinelle, piccolo comune del nord della Francia, alla periferia diValenciennes. Nel freddo invernale, i passanti vagano per le strade,impegnati negli acquisti natalizi e nelle attività quotidiane. Si chiac-chiera nei bar. Si attende, le braccia cariche di regali, nei negozi digiocattoli. Dietro una vetrina discreta, nascosto da una tenda semitra-sparente, il parrucchiere sociale dell’associazione Bien être pour labeauté des femmes vive al riparo dagli sguardi. Le donne che lo fre-quentano sono inviate lì da associazioni e centri comunali di azionesociale. La maggior parte sopravvive grazie al reddito di solidarietàsociale, un aiuto che va dai 520 euro a una donna sola ai 1100 euromensili per una coppia con due figli. Per queste donne, la cui priori-tà è avere un tetto e qualcosa da mangiare, l’estetica è diventata unlusso inaccessibile. Ebbene, poiché per trovare un lavoro non si puòavere un aspetto trasandato, il circolo diviene presto vizioso. Qui, ilfruscio delle banconote o il ticchettio soffocato delle carte di creditonon esistono. Si paga in monete, tre euro per un’acconciatura, un eu-ro per un trattamento viso.

Le storie sono di quelle che lasciano il segno. Un giorno, unadonna entra e si siede. Ma si gira e chiede di essere pettinata con lespalle allo specchio. Non riesce più a guardare la sua immagine ri-

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getto, di sentirmi utile. Le donne che vengono qui hanno veramentebisogno di un cambiamento. Per loro, farsi pettinare non è una cosabanale, non ne hanno l’abitudine, sono disincantate... Non mi aspet-to ringraziamenti, non si tratta di questo. Ma quando vedo che sisentono meglio, anch’io mi sento bene». Nel suo lavoro di parruc-chiere, ha imparato a capire in pochi minuti la personalità di unacliente per consigliarle i prodotti che più le si addicono. Dal modoin cui entra, dal suo atteggiamento, dai suoi gesti, capisce già a gran-di linee com’è: emotiva, intuitiva, cerebrale. «Oggi mi servo di questetecniche per adeguare il mio approccio a donne che hanno già sop-portato tanto, nel rispetto del loro carattere». Cambiamento del cuo-re. Dell’astuzia a fini di lucro ha fatto uno strumento di ricostruzionedel rispetto di sé.

Accanto a lui Béatrice, socio-estetista. Sta facendo uno stage, dopoaver lavorato con persone disabili e anziane. «Quando tocco le per-sone, sento le loro emozioni, le loro tensioni, la loro negatività. Cer-co di trasformare tutto ciò in qualcosa di positivo». Con la puntadelle dita. A tentoni, le aiuta a ricostruire la loro immagine. «Nellasocietà ci sono codici di abbigliamento. Chi li ignora, viene giudicatomale. Certe donne si sentono così a disagio con il proprio corpo danasconderlo sotto gli abiti. Ne mettono uno sopra all’altro per na-scondersi, indossano stivali alti con una tuta da ginnastica e sopra

flessa. Vincent, il parrucchiere, le taglia i capelli e le fa una tinta. Ini-zia un dialogo che nessuno ha più dimenticato. «Vuole vedere com’èbella?». «No». «Ma come fa a sapere quant’è bella se non si guardaallo specchio?». «Se sono bella, me lo diranno i miei figli». Impararea essere guardate nuovamente come persone e alzare la testa richiedetempo quando si è abituati a essere calpestati. Prima di lavorare inquesto negozio, Vincent ha visto lustrini, vedette e reginette di bel-lezza. Ha iniziato il tirocinio a sedici anni, si è poi specializzato inmorfo-visagismo, una tecnica che permette di trovare la pettinaturache valorizza meglio il volto. In seguito è diventato il responsabile inun salone di un marchio importante. Va a Parigi per seguire altri cor-si. Viene scelto dalla sua ditta come parrucchiere per le elezioni diMiss Francia. Ma sente che gli manca qualcosa.

«Avevo proprio conosciuto tutto — spiega quest’uomo oggi trenta-novenne — dal glamour alle paillettes, ma avevo bisogno di un pro-

A pagina 10Berthe Morisot«La Coiffure» (1894)A pagina 12, il salonedi bellezza a La SentinelleIl Marocco vieta

pro duzionee vendita di burqaStop in Marocco allaproduzione e allavendita del burqa, ilvelo integrale chelascia scoperti sologli occhi. Il divietoarriva dal ministerodell’interno e obbligacommercianti eproduttori, sarti eaziende diabbigliamento a dareun taglio netto allaproduzione e allavendita delcaratteristico e tantodiscusso indumento.Chi non rispetterà ildivieto rischia laconfisca della mercee la chiusuradell’e s e rc i z i o .L’ordine colpiscesolo i produttori e irivenditori. Ma nonc’è al momento undivieto di indossareil burqa

Lavoratrici mortein AfghanistanCinque donne, tuttedip endentidell’aeroporto diKandahar, sono stateuccise assieme

DAL MOND O

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Dietro una vetrina discreta e una tenda semitrasparenteil parrucchiere dell’associazione vive al riparo dagli sguardiPer molte donne che lo frequentanola priorità è avere un tetto e qualcosa da mangiare

vari maglioni. Io cerco di aiutarle a ristrutturare il loro aspetto este-riore perché rivela soprattutto un malessere profondo». L’approccio èprogressivo. Contrariamente a ciò che decreta il successo delle tra-smissioni televisive di re l o o k i n g , non si tratta di fare “miracoli”, né di“s c o n v o l g e re ”, ma di aiutare le persone a risollevarsi. A volte passanoquindici giorni tra la proposta e la sua realizzazione. Il tempo perconsentire all’idea di un cambiamento di farsi strada».

«Toccare i capelli di una persona — osserva Vincent — è già entrarenella sua intimità. Tutto inizia con uno scambio di sguardi, poi leascolto, parlo, cerco di usare un tono di voce rassicurante. Poco a

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All’inizio Annie pensava di occuparsi un giorno di bambini e dipersone anziane. Ma quando è venuta a sapere che a Parigi si stavaallestendo un salone di bellezza sociale non ha avuto dubbi. Interes-sata, contatta il responsabile del progetto. Dopo mesi di sforzi, ilprogetto va in fumo, ma lei non si scoraggia. Allora cerca e trovasovvenzioni pubbliche. Ma non bastano, purtroppo. Annie però insi-ste: il negozio funzionerà part-time, per un periodo. Gli aiuti aumen-tano e il negozio può aprire a tempo pieno. Vengono assunti un par-rucchiere, Vincent, e una socio-estetista, Sabine. In quattro anni nes-suno dei due ha mai fatto un’assenza dal lavoro. Niente però è certo.Ogni anno una spada di Damocle pende sulla loro associazione. Loscorso anno, poco prima di Natale, Annie è venuta a sapere che nonavrebbe ricevuto i soldi dei fondi europei. Un buco di 30.000 euro.Una prova di cui parlerà ai suoi collaboratori solo dopo le feste,«per non rovinarle». Le grandi marche, a volte disposte a distribuirei loro prodotti gratuitamente, per abbellire la propria immagine, nonsempre mantengono le promesse: La Sentinelle è lontano da Parigi enon è sulle prime pagine dei giornali. Eppure il negozio di Annieserve 83 comuni. Allora a volte è un cittadino comune che le inviauno scatolone di cosmetici. A volte riesce a stabilire un partenariato,come quello con il marchio Kiabi, che veste e consiglia una cinquan-tina di donne che devono presentarsi a un colloquio di lavoro.

Anche quest’anno si chiede se riuscirà ad andare avanti. I motividi sconforto non mancano. Oltre all’incertezza circa la riconferma dianno in anno dei finanziamenti, ci sono incomprensioni amministra-tive. Come nel caso di quella donna che aveva ottenuto un colloquiodi lavoro per assistente in uno studio dentistico e voleva mostrarsicurata, per ottenere il posto. Per riconoscerle il diritto a farsi pettina-re nel salone sociale, il municipio da cui dipendeva aveva chiesto unattestato di convocazione... da far compilare al suo eventuale futurodatore di lavoro. La donna aveva allora rinunciato a farsi pettinare.«Il nostro destino a volte dipende dalla volontà di una sola perso-na». Lungi dall’arrendersi, Annie insiste, con una fede capace dismuovere le montagne. Rilegge quello che una donna le ha scritto:«Sto cercando un lavoro, ho già vari appuntamenti amministrativi eprofessionali. Il salone mi ha permesso di essere presentabile. E que-sto mi ha aiutato molto». Annie si nutre delle parole che brillano sulsuo libro degli ospiti. Ripensa a quella cliente che l’ha stretta cosìforte tra le braccia. Si ricorda di quella donna di sessant’anni cheportava un grosso chignon. Lo aveva sciolto, i suoi capelli arrivavanoa terra. In vita sua non era mai stata da un parrucchiere.

poco, la fiducia s’instaura, ma ci vuole tempo. Ci vuole anche moltosenso dell’umorismo». Poco a poco, le parole riaffiorano. Talvoltaanche il dolore. Alcune hanno subito violenze fisiche. Come in tutti isaloni di parrucchiere del mondo, le donne si confidano. Il parruc-chiere si fa da parte per ricevere la confidenza. «Quando supero laporta d’ingresso — racconta Vincent — accantono i miei problemi. Leclienti non sono lì per questo. Cerco anche di prendere la giusta di-stanza per non lasciarmi divorare da tutte quelle storie, ma, quandorientro a casa, a volte ripenso a quello che mi hanno raccontato du-rante la giornata, a quelle persone che, oltre alla povertà, hanno an-che seri problemi di salute. Quando poi, però, mi alzo il mattino do-po per venire qui, non ho la sensazione di andare a lavorare. È da lìche attingo la mia forza».

Una forza che condivide con Annie Degroisse, all’origine del pro-getto. Prima di otto tra fratelli e sorelle, madre di cinque figli, questabella signora bionda di sessant’anni, ha anche lei vissuto un periododi crisi. La disoccupazione, cinque figli da mantenere. «La nostra vi-ta può cambiare dall’oggi al domani. Ma poi ho pensato a una mam-ma che aveva perso i suoi tre figli, falciati da un camion, un annoprima, e mi sono detta: non ho il diritto di lamentarmi, la povertàpuò capitare a tutti». Quella mattina c’è una cliente in attesa, peruna tinta. La sessantenne è lì, dinamica, sorridente. Prima era re-

Toccare i capelli di una persona è già entrare nella sua intimitàTutto inizia con uno scambio di sguardi

poi le ascolto, parlo e a poco a poco la fiducia s’i n s t a u rale parole riaffiorano e talvolta anche il dolore

all’autista delpulmino aziendalesul qualeviaggiavano. Ildirettore delKa n d a h a rInternationalAirport, AhmadullahFaizi, ha spiegatoche le donne eranodipendenti di unacompagnia privatache effettua leispezioni di sicurezzasui bagagli e sullepasseggere donne.Le vittime avevanodenunciato inpassato minacce neiloro confronti daparte di sconosciutiche non approvavanoil loro lavoro. Almomento non c’èstata alcunarivendicazionedell’attacco,attribuito dalleautorità a militantitalebani. InAfghanistan le donnecontinuano a esserevittime di violenze,oppressione e abusi.Secondo l’ufficiodella procuragenerale afgana, neiprimi otto mesi del2016 sono statiregistrati 3700 casi diviolenze contro ledonne

Vescovi dominicani:no alla violenzacontro le donneImportante presa diposizione dellaC o n f e re n z aepiscopale

sponsabile di un alimentari solidale. Ma è andata via, perché non ac-cettava che il cibo non venduto venisse buttato invece di essere di-stribuito ai poveri.

Oggi è responsabile di un’associazione, ma i suoi guadagni sonoscarsi. Lei che aveva sempre aiutato gli altri ha dovuto a sua voltachiedere aiuto. In Francia l’aumento del numero dei lavoratori poveriha mandato in frantumi le categorie tradizionali di solidarietà. Le re-ferenti sociali delle donne che frequentano il negozio sono povere co-me loro.

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«L a pace è il respiro del mondo. Dove non c’èpace si muore sia nel corpo che nel cuore».Lo dice con dolcezza Tegla Loroupe, ma sisente che dentro ha la forza della lottatrice.Una forza che le ha permesso di superare

molte barriere: quelle culturali e di genere, quella della povertà e del-la marginalizzazione. Per diventare una leggenda.

In Kenya, Tegla Loroupe è quasi una eroina. Tegla, infatti, è statauna delle più grandi maratonete di tutti i tempi. La prima africana avincere la maratona di New York nel 1994 e poi tutte le più impor-tanti gare di fondo al mondo, collezionando una serie di record: daquello nella maratona a quelli dei 20, 25 e 30 mila metri piani, cheancora detiene. E anche oggi che si è ritirata dall’atletica non hasmesso di lottare. Per traguardi ancora più ambiziosi: la pace, i dirit-ti, la libertà. Anche attraverso lo sport.

A 43 anni, conserva il fisico minuto e tonico di una ragazzina,l’aria mite e il sorriso timido. Parla con pacatezza nella sede della Te-gla Loroupe Peace Foundation, che si trova all’interno di un com-

pound alla periferia di Nairobi, il cui nome riecheggia la stessa mis-

sion: Shalom House, la Casa della pace. Fondata dal comboniano Ki-zito Sesana, è una delle espressioni della galassia di Koinonia, unacomunità di giovani keniani che operano soprattutto a favore deibambini di strada. Ma che, attraverso gli spazi ampi della ShalomHouse, si sono aperti ad altre esperienze di solidarietà, gestite diret-tamente o ospitate. Come appunto la Tegla Loroupe Peace Founda-tion, che da oltre dieci anni promuove iniziative di convivenza pacifi-

La maratonetadella pace

IN NOVEMILA C A R AT T E R I

di ANNA POZZI

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soprannominata Chametia, “colei che non si annoia mai”, una iperat-tiva, insomma!».

Quell’energia, ma anche la tenacia e la determinazione — nell’af-frontare il padre e i pregiudizi di quella società molto discriminantenei confronti delle femmine — le sono rimaste dentro. Così come ilsenso di giustizia e il desiderio di ottenere pari opportunità chel’hanno guidata non solo nella sua straordinaria carriera sportiva, maanche nella vita e, sempre di più, nelle molteplici iniziative di pace esolidarietà.

Tra le molte iniziative che organizza, una in particolare, è diventa-ta un must: la Peace Race, la “corsa della pace”. Ha cominciato a Ka-penguria, il capoluogo del West Pokot, interessato da conflitti tribalitra pastori e agricoltori. Poi l’ha portata anche a Turkwee, semprenella stessa regione e quindi nel Tana River e a Moroto in Uganda.In tutti questi contesti, lo sport diventa strumento e pretesto per con-trastare tutte le forme di conflitto e per mettere insieme agricoltori epastori, promuovendo incontri e azioni per il disarmo volontario. Isuoi sforzi hanno contribuito agli accordi di pace tra t u rk a n a e pokot,tra pokot e m a ra k w e t e tra samburu e t u rk a n a , mettendo fine ad alcunidei conflitti che hanno interessato queste comunità.

Per questo suo impegno Tegla è stata insignita, nel marzo del2016, del Father John Kaiser Human Rights Award, in memoria diun sacerdote americano, assassinato a Nairobi nell’agosto del 2000perché aveva denunciato il ruolo di importanti autorità nel fomentaregli scontri tribali nella Rift Valley.

Nella stessa ottica di questo coraggioso missionario, oggi la Lorou-pe continua a seguire le zone più difficili e a rischio del suo paese,ma anche scenari di conflitto in tutto il Corno d’Africa, dal Darfur alSud Sudan. È stata anche «ambasciatrice di buona volontà»dell’Unicef e «ambasciatrice per la pace» di Oxfam. Non solo, loscorso anno è stata premiata come Persona dell’anno 2016 dalle Na-zioni Unite in Kenya. Tegla è stata riconosciuta per la «sua abilitànell’usare l’atletica per promuovere la pace in zone di conflitto e perla sua leadership nel garantire la partecipazione dei rifugiati ai giochiolimpici del 2016, per la prima volta nella storia».

È stato proprio questo, infatti, il suo ultimo più grande successo:portare cinque dei dieci atleti che componevano la “nazionale dei ri-fugiati” a Rio de Janeiro. Anche questa è una sfida che nasce da lon-tano e che trae linfa da quella sua determinazione a non voltare lafaccia di fronte a situazioni che altri non vogliono vedere.

ca e sviluppo socio-economico delle persone più povere ed emargina-te, in particolare delle comunità del nord del Kenya come i pokot, acui appartiene la stessa Tegla, o i vicini t u rk a n a con cui i rapportinon sono sempre buoni. La fondazione ha negoziato anche il disar-mo volontario delle milizie di questi due gruppi e sta investendomolto per permettere a un migliaio di alunni di andare a scuola, sot-traendoli al rischio di essere arruolati a forza come bambini-soldato odate in mogli come spose-bambine.

Lei stessa era destinata a diventare una giovanissima moglie e ma-dre. «Per fortuna — ricorda — avevo un carattere forte e non hoascoltato mio padre!». Il quale, uomo poligamo con 4 mogli e 24 fi-gli, non capiva il senso di far studiare quella figlia e soprattutto difarla correre. Una cosa impensabile in quel contesto molto tradizio-nale. «Per studiare — racconta Tegla — dovevo percorrere circa diecichilometri al giorno, andata e ritorno. Ma questo e le attività sportiveche ho cominciato a praticare a scuola mi hanno permesso di scopri-re le mie doti atletiche. Ho iniziato a gareggiare e mi sono resa contoche mi piaceva competere. E anche vincere! Per questo mi avevano

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dominicana che inuna lettera pastoraleha segnalato le sfidepiù urgenti cheriguardano la donnae la promozionedella sua dignità.Esortano le autoritàlocali a rimanerevigili affinchél’applicazione dellalegge impedisca aiviolenti di fare delmale a una partevitale della nostrasocietà. «No allaviolenza contro ledonne all’internodella famiglia, neiluoghi di lavoro enella società».

Record nelle carceridell’America latinaIn soli quindici annila popolazionecarceraria femminileè aumentata del 51,6per cento e continuaa crescere con unritmo allarmante, cheinsieme a quellodell’Asia superaqualsiasi altra partedel mondo. Inalcune carceri delcontinente la cifra èaumentataaddirittura del 271per cento tra il 1989e il 2015, e soltantoin Brasile del 290 dal2005 al 2015. Lamaggior parte sonoaccusate di spaccio otrasporto di droghesu piccola scala, e inpaesi comel’Argentina, ilBrasile, la Costa

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A pagina 16,Tegla Loroupe

si avvia a conquistare lamedaglia d’oro nei diecimila

metri ai Goodwill Gamesdel 1998

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giochi, ma cinque dei dieci atleti selezionati appartenevano alla scu-deria di Tegla. Tutti sudsudanesi, tre ragazzi e due ragazze, con sto-rie personali e familiari difficilissime alle spalle: «Sono arrivato nelcampo profughi di Kakuma quando avevo cinque anni» raccontaPur, 21 anni, che ancora non può credere di aver realizzato il sognodi partecipare a un’Olimpiade. E «sono scappato insieme a mio fra-tello. Un altro, invece, è dovuto fuggire recentemente, per la guerracivile che è scoppiata a fine 2013 in Sud Sudan. Ora si trova in uncampo in Etiopia. Io ho sempre vissuto a Kakuma. Ho frequentatola scuola lì, ma non c’erano le strutture e l’organizzazione per prati-care sport in modo serio. A me però piaceva correre... ».

A James, 25 anni, brillano ancora gli occhi a sentir parlare di Rio.«Ma non è solo la questione delle Olimpiadi» dice con la saggezzadi chi ha già vissuto molte dure prove: «Qui con Tegla abbiamo lapossibilità di sviluppare il nostro talento, ma anche di imparare mol-to, sia nell’atletica che nella vita».

«È il loro futuro come persone, e non solo come atleti, che ci inte-ressa veramente» conferma Tegla: «Per questo offriamo loro anchel’opportunità di studiare e garantiamo un pocket money, un piccolocontributo economico, che non è molto, ma che permette di aiutare

Il Kenya è uno dei paesi al mondo con il più alto numero di rifu-giati sul suo territorio. Nei campi di Kakuma nel nord (con circa 200mila profughi) e Dadaab all’est (con circa 340 mila persone) e mol-tissimi altri rifugiati sparsi per il paese, il Kenya deve affrontare unasituazione non facile e contrastare il rischio terrorismo che si è giàconcretizzato in diverse atroci stragi. Il governo ritiene che alcuni deiterroristi provengano dai campi profughi, specialmente da quello diDadaab, dove potrebbero esserci infiltrazioni dei fondamentalisti so-mali di Shabaab.

Ma in questi campi c’è soprattutto gente senza nulla e senza futu-ro. Ed è proprio qui che si è recata Tegla con la sua fondazione, perscovare giovani talenti sportivi e dare loro una chance. Per questo,nel giugno 2014, in occasione della giornata mondiale del rifugiato,Tegla ha organizzato una corsa della pace nel campo di Kakuma, do-ve ha notato alcuni ragazzi promettenti. Ha quindi deciso di fondareun centro di formazione atletica sulle colline di Ngong, alla periferiadi Nairobi. Non ci ha portato, però, solo un gruppo di giovani atleti,ma ha convinto anche una rappresentanza del Comitato olimpico in-ternazionale (Cio) a recarsi sul posto per rendersi conto direttamentedel progetto. Il Cio ha quindi deciso di sostenerlo. «Questi giovaniatleti — afferma Tegla con convinzione — sono miei fratelli. Hannotalento, ma le situazioni drammatiche dei loro paesi non permettono

Tegla è stata una delle più grandi maratonete di tutti i tempiLa prima africana a vincere la maratona di New York

E anche oggi che si è ritirata dall’atletica non ha smesso di lottare

Rica e il Perú piùdel 60 per centodella popolazionefemminile neipenitenziari si trovalì per questi reati.

Posti per soledonne in aereoDi fronte almoltiplicarsi delledenunce per lepersistenti molestiesessuali di cui sonooggetto i passeggeridi sesso femminilenei voli in India, lacompagnia Air Indiainaugurerà nei suoicollegamenti internila disponibilità di seiposti in economicaunicamente riservatialle donne.

La shoahdelle donneA Trento fino all’8febbraio va in scenalo spettacolo teatrale«Eppure non hopaura. Memoriefemminili dal Lagerdi Ravensbrück»,atto unico di RenzoFracalossi. «Per laprima volta ildramma della shoahparla attraverso gliocchi delle donneinternate nel campodi concentramento diRavensbrück, che,diversamente da tantialtri, era interamentedestinato a esse edove sono stateinternate oltre130.000 donne»sostiene l’a u t o re .

di sviluppare le loro potenzialità. Proprio per questo li ho portati quicon me».

Sono 24, dai 17 ai 23 anni, sia ragazzi che ragazze. Molti di lorosono originari del Sud Sudan, ma vengono anche da Somalia e Re-pubblica Democratica del Congo. Tutti vivevano nei campi profughidi Kakuma o Dadaab. Con loro si sono allenati anche sei atleti ke-niani. Così come keniani sono stati i loro allenatori, coadiuvati da uncoach tedesco. Più lei stessa, Tegla, che ogni tanto si unisce agli alle-namenti. Il primo e più importante traguardo erano proprio le Olim-piadi di Rio. E, neanche a dirlo, l’obiettivo è stato raggiunto. Nonsolo per la prima volta una “nazionale di rifugiati” ha partecipato ai

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le famiglie rimaste nei campi profughi. E poi diamo loro possibilitàdi allenarsi in modo più “p ro f e s s i o n a l e ” e il tempo perché possanocrescere come veri atleti e imparare a vivere insieme nel rispetto delled i f f e re n z e » .

«È questa — insiste Tegla — una delle cose belle dello sport, il fat-to che aiuta a vedere gli altri al di là delle etichette: non somali osud sudanesi o rifugiati, ma persone come te, che si impegnano perraggiungere dei risultati e che, come te, decidono di impegnarsi dipiù quando non li ottengono o gioiscono per una vittoria».

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FO CUS

Sono 500 mila i bambini siriani in età scolare che vivono in Liba-no dall’inizio del conflitto.

Per più della metà di loro — e un esercito di quasi 300 mila bam-bini — non c’è accesso al sistema scolastico. Il Libano non ha posti asufficienza, nonostante l’inserimento da un anno di un secondo turnodi scuola pomeridiano.

È del destino di questi bambini che si occupa Diala, da quandocome loro è fuggita dalla guerra.

«Ho iniziato — dice Diala — a disegnare nel 2001, avrei voluto faremolte cose diverse, dedicarmi alla pittura, creare cartoni animati perbambini. Avevo molti sogni. La consapevolezza che l’arte potesse di-ventare un mezzo critico, che potesse essere utile al mio paese, però,ce l’ho avuta solo all’inizio della rivoluzione, nel 2011».

Diala nel 2011 si è unita alle proteste, come attivista per il movi-mento per la democrazia della Siria. Lavorava con altri giovani perrifornire gli ospedali da campo che erano sotto assedio. «Lavorava-mo anche nelle zone controllate dal regime, consegnavamo medicina-

di FRANCESCA MANNO CCHI

Diala Brisly ha nelle mani delle armi molto potenti: le sue armi sono icolori. Sono armi che possono smuovere il mondo, ma non possonoferire nessuno. Sono le armi della fantasia e dell’arte.

Fino al 2013 viveva in Siria, e qui ha cominciato a disegnare, peraiutare i bambini a sopportare il peso della guerra, per aiutare sestessa a sopportare il peso di un conflitto che le ha ucciso un fratel-lo.

Diala è dovuta scappare, è una rifugiata, un’esule — come altre mi-gliaia di persone — che per tre anni ha vissuto in Libano, a Beirut.

Così per tre anni Diala ha preso i suoi colori, i pennelli — le suearmi — e ha raggiunto i bambini siriani nelle tende dove vivono i ri-fugiati, quasi due milioni di siriani, a combattere con loro la guerraquotidiana per sopravvivere alla nostalgia e alle difficoltà.

Diala sembra un folletto, è una giovane donna dagli occhi chebrillano di vitalità, una giovane donna che ha messo a disposizione ilsuo tempo e il suo talento per alleviare il peso dell’esilio ai bambinisiriani costretti a ormai cinque anni di vita in tenda.

Un po’ di serenitàcon i colori

I l l u s t ra z i o n idi Diala Brisly

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Si è trasferita in Libano, a Beirut, per provare a dare un senso alsuo talento e alla sua arte, lavorando con le associazioni umanitarieche sostengono i diritti delle donne e i progetti scolastici dei bambinisiriani.

Diala, con i suoi pennelli e i suoi colori, ha realizzato murales sul-le tende dei campi profughi per incoraggiare i bambini e sollevarlidal peso delle privazioni cui sono costretti.

«Una volta stavo facendo delle lezioni con dei bambini in un cam-po profughi, nessuno di loro aveva accesso al sistema scolastico pub-blico libanese, c’era un bambino che aveva dieci anni, al mattino eracostretto a lavorare come meccanico perché suo padre non trovava la-voro e non sapevano più come sfamarsi».

«Ho disegnato con lui ogni pomeriggio per due settimane, ungiorno gli ho chiesto un numero di telefono dove avrei potuto con-tattare lui e la sua famiglia».

«Ho segnato il suo numero e sulla sua foto del profilo di Whats-App c’era una bara, e il suo status era: “Quando muoio mi manche-re t e ”».

«Ero disperata. Un bambino di 10 anni con i pensieri così prossi-mi alla morte».

Diala ha lavorato con Ahmed per molte settimane, ha cercato dispiegargli che doveva resistere a tutte le difficoltà, alla fatica del lavo-ro e dello sfruttamento, ha cercato di insegnare a quel bambino a es-sere forte nonostante tutto: nonostante la vita in tenda, il padre di-soccupato, i fratelli e le sorelle spesso senza nulla per sfamarsi.

Un giorno ha chiesto ad Ahmed di modificare la sua immagine eil suo status: «“Sii ottimista, provaci” gli ho detto».

«Mi ha detto di averlo fatto solo per me. Ha messo un’immaginecon dei fiori colorati e una frase: “Resisterò, non importa quanto saràdura la mia vita”».

«Ho sentito che il mio lavoro serviva a qualcosa. Fosse anche adalleviare il peso della perdita a un solo bambino».

Lo scorso luglio Human Right Watch ha realizzato un rapporto di90 pagine sulla situazione dei profughi siriani in Libano, dal titolo:«Crescere senza istruzione».

Nel rapporto si legge che alcune strutture scolastiche libanesi nonhanno rispettato le norme di iscrizione dei rifugiati, ma soprattutto ilgoverno ha imposto rigide norme per la residenza che limitano forte-mente la libertà di movimento dei profughi, rendendo di fatto im-

li, coordinavamo l’assistenza umanitaria. Poi i miei amici sono statiarrestati, uno dopo l’altro. Ho capito che non ero più al sicuro. Hocapito che sarei dovuta scappare dal mio paese».

«C’è stato un giorno in cui ho realizzato con nettezza che di lì apoco sarei andata via: stavo consegnando del materiale medico. Ave-vo del siero sotto il sedile della mia automobile e mi hanno fermato aun posto di blocco per controllare la macchina».

«Sono stata fortunata solo perché il soldato che mi ha fermata eravisibilmente ubriaco: ha guardato il soldato che era con lui dicendo

“Guarda che bella ragazza, lasciamola andare” e in quel momentoesatto ho sentito che la mia vita era su un filo, ero come un funam-bolo ma il mio destino non dipendeva più da me».

«In quei pochi istanti al posto di blocco ho visto tutta la vita pas-sarmi davanti. Ho temuto che sarei finita in prigione per sempre».

Pochi giorni dopo Diala era in Turchia, profuga tra i profughi.

Fuggita dalla guerra per salvarsi la vita.

«I giorni in Turchia sono stati quasi peggiori degli ultimi giorni inSiria. Non riuscivo a trovare un lavoro, nemmeno da volontaria nelleorganizzazioni umanitarie».

«Mi sentivo inutile e soprattutto mi sentivo colpevole, perché desi-deravo una vita sicura mentre la gente in Siria stava ancora soffren-do, moriva di stenti, moriva sotto le bombe».

Un giorno Diala ha ricevuto una telefonata da casa. Suo fratelloera stato ucciso, nel nord della Siria. Diala racconta di aver piantocome mai prima; ha pensato che non sarebbe stata più capace dip i a n g e re .

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Nel 1288 Margherita si trasferisce in una cellaancora più fredda, angusta e isolata sulla roccadi Cortona, situata vicino a una chiesa dedicataai santi Basilio, Egidio e Caterina fatta costruireda lei; in questo modo si sottrae alla guida spi-rituale dei francescani affidandosi a un sacerdo-te, ser Badia Venturi, che la seguirà fino allamorte nel 1297.

Molto è stato scritto su Margherita da Corto-na ma vanno cercate nella legenda scritta dal suoconfessore fra Giunta le caratteristiche del-

Così umana ma cosìpermeata di divino

di GAIA DE BE AU M O N T

possibile la ricerca di un lavoro per i capifamiglia e aggravando lecondizioni economiche di interi nuclei familiari costretti a far lavora-re i propri figli per pochi dollari al giorno e privarli così del dirittoallo studio.

Molti rifugiati siriani temono di essere arrestati se scoperti a eserci-tare lavori senza il permesso di soggiorno.

Più del 70 per cento delle famiglie vive attualmente al di sotto del-la soglia di povertà.

E sempre più bambini, spesso piccolissimi, lavorano nei campi peruna manciata di dollari al giorno.

Anche le famiglie più fortunate, in cui il padre lavora, spesso nonpossono permettersi i costi previsti dalla scuola: il trasporto, il mate-riale scolastico.

«Il rischio più grande per i bambini siriani in Libano — continuaDiala — sarà la mancanza di educazione. Questi bambini sono il fu-turo della Siria, rappresentano la sola possibilità di ricostruire il pae-se. Che tipo di paese sarà il nostro, se stiamo assistendo, senza farenulla, alla distruzione del destino di questi bambini? Sta crescendouna generazione di ignoranti, saranno adulti senza conoscenza, senzanozioni critiche, non sapranno interpretare cosa accade intorno al o ro » .

«Questo significa che gli anni che vivremo saranno più pericolosidi quelli attuali, perché un bambino privo di conoscenza è più espo-sto alla devianza, alla possibilità di essere reclutato da gruppi fonda-mentalisti».

Prende i suoi colori Diala, e continua a raccontare — con le illu-strazioni — delle storie di salvezza e speranza.

«Vorrei aiutare i bambini di tutto il mondo. Ma il mio sogno piùgrande è tornare ad aiutare i bambini in Siria».

Oggi Diala vive in un piccolo paese francese, vicino Marsiglia, èriuscita a ottenere un visto umanitario per lasciare il Libano.

Vuole cominciare una nuova vita, sa e ripete che lei, la piccola di-segnatrice siriana, è più fortunata di molti suoi connazionali.

«Ricordo quando ero ancora in Siria, eravamo in una piazza, unodei pochi posti sicuri e una ragazza mi aveva raggiunto dove stavointrattenendo decine di bambini. Ha cominciato a suonare la chitarrae un bambino ha urlato e pianto fortissimo. Pensava che quella chi-tarra fosse un’arma. Ci sono volute ore per convincerlo che non fossecosì».

LA S A N TA DEL MESE

Margherita da Cortona, dopoun’infanzia complicata da unlungo conflitto con la matri-gna, si innamora ricambiatadi un giovane nobile di Cor-

tona: Arsenio Dal Monte. Hanno anche un fi-glio e, poiché i due non si sono mai sposati, lostile agiato al quale Margherita è stata abituatanei nove anni di convivenza termina bruscamen-te il giorno in cui lui viene ucciso durante unabattuta di caccia.

Questo episodio segna l’inizio della conver-sione di Margherita. Disprezzata da tutti e ac-cusata di stregoneria, torna a casa del padre maviene duramente respinta. Stabilitasi a Cortonaa casa di due generose donne che le fanno co-noscere i frati minori del convento di San Fran-cesco, le viene concesso di praticare la regoladel terz’ordine francescano e di intraprendereuno stile di vita eremitico in una cella vicino alconvento. Vi rimane per tredici anni, in conti-nua preghiera e penitenza, sostenuta da estasi erivelazioni da parte di Cristo. L’intensa vita incontemplazione non le impedisce di dedicarsi aipiù bisognosi e agli ammalati, tanto che questoimpegno favorisce la costruzione dell’osp edaledi Santa Maria Misericordia. La locandina del film di Mario Bonnard (1950)

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l’esperienza spirituale di questa personalissima eoriginale santa. Detto questo, il racconto non èun’opera storica in senso stretto. Lo scopo nonè solo quello di raccontare una vicenda perl’edificazione dei fedeli ma di ritrarre Margheri-ta come un modello che, nell’oggi del lettore,può essere attualizzato e vissuto. Un viaggio diconoscenza e consapevolezza.

L’idea secondo la quale il rimorso e l’a m o reconoscono una gradualità progressiva non ènuova nella storia della spiritualità: Agostino eBernardo di Chiaravalle avevano già affrontatol’argomento. Fra Giunta ce lo trasmette, indivi-duando tre importanti gradi nel cammino asce-tico di Margherita.

Nel primo, il disamore troppo a lungo igno-rato le apre gli occhi e ha una funzione rivelati-va: far intuire all’anima la disarmonia del pecca-to, intesa come offesa verso Dio. L’insignifican-za del presente e la non appartenenza, provoca-no in lei una ferita tale da costringerla ad acco-gliere il dolore. L’amore riflette un’inedita lucesulla sua vita facendole intuire come il peccatosia un disvalore, in quanto lontanissimo da Dio.

Il secondo momento è invece caratterizzatoda un’espressione tipica, che rimanda a un’esp e-rienza mistica importante: la compassio sui, l’in-dulgenza verso l’anima stessa. Il dolore le vieneaddosso lievitato come fatto disgregante e l’ani-

ma si scopre povera e indigente, malinconica-mente priva di qualsiasi bene duraturo. Gesù lediceva: «Senza di me non puoi nulla». Un mo-do per dire che solo dopo aver sperimentato l’il-lusione e la precarietà di ogni progetto umano,lui sia l’unica fonte di riscatto.

Il terzo livello è quello che un angelo defini-sce una smania impetuosa che esalta vertical-mente la mente, non intesa come intelletto macome parte superiore dell’anima. E poiché il de-siderio non si soddisfa mai, continua a cercarefino a che tutto deflagra nella totale comunionecon Dio.

Il martirio di Margherita ruota intorno alruolo centrale dell’umanità afflitta, tipica dellaspiritualità del basso medioevo. Oltretutto leivive la sua esperienza spirituale nell’ambito delfrancescanesimo, eredità diretta del santo di As-sisi verso il Cristo povero, umiliato e offeso.Una meditazione dinamica dove Margherita haun compito preciso di fronte ai cittadini di Cor-tona: farsi specchio per i peccatori e gli infedeliperché capiscano che esiste una misericordia di-vina e salvifica. In lei, tutti devono vedere niti-damente il calvario. Chiamata a svolgere unruolo di richiamo alla riconciliazione e alla pacedella sua città, vede il paese luogo e occasioneper sperimentare la sofferenza di Cristo crocifis-so. E dunque vagare e annunciare quel martiriodiventa per Margherita una necessità.

Con la sua vicenda così umana ma così per-meata di divino, viene proposta all’imitazionedei fedeli non solo un’esperienza estatica, quan-to la possibilità di trovare in Cristo il baricentroper sopportare dolcemente le sofferenze e lemolte contrarietà della vita.

L’esempio migliore di come, scegliendo la viapiù difficile e lasciando che le ferite seguano undecorso naturale, finalmente consapevoli e pa-zienti giungiamo a intuire pienamente l’a m o redi Dio. Come in una risacca che, nell’onda diritorno, spazza ogni detrito.

Gaia de BeaumontRomana di origine aristocratica, ha scrittodiversi romanzi sia legati alle vicende dellasua famiglia che ispirati a personaggi delmondo intellettuale statunitense degli anniTrenta. Fra i suoi libri: Care cose (1997), La

bambinona (2001), I bambini beneducati

(2016).

NEL NUOVO T E S TA M E N T O

La benedizionedi Elisabetta

di ROSANNA VIRGILI

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L’importanza della figura di Elisabetta, all’inizio della storia cristiana,non viene sempre illuminata come dovrebbe. Ma la lettura del primocapitolo del vangelo di Luca ci invita a farlo con esplicite ragioni.Tanto la sua vita e le sue parole sono intrecciate con la nascita di Ge-sù che sarebbe impossibile non riconoscere alla moglie di Zaccaria,un ruolo di primo piano nella venuta al mondo del figlio di Dio.

La sua insperata attesa di Giovanni è ormai una realtà — è già al se-sto mese di gravidanza — quando l’angelo raggiunge sua cugina Maria,nella lontana Galilea. Per lei, la figlia di Levi, che viveva nei pressi diGerusalemme, città capitale politica e religiosa, quella parente dovevaessere un po’ “alla larga” e dovevano frequentarsi poco, vista la distan-za, ma anche la differenza sociale tra le due. Elisabetta è una adulta si-gnora, moglie di un sacerdote che officia nel Tempio, una classe affat-to alta, nella gerarchia degli ebrei di Palestina. Maria, invece, era unaragazza di campagna, una semplice ebrea di provincia. Elisabetta èsposata da anni, naturalmente con un uomo del suo ceppo e del suorango: i leviti, infatti, sposavano donne levite e viceversa. Maria eraancora promessa sposa a un uomo della famiglia di David, una buonafamiglia certamente, una stirpe messianica, tuttavia laica. In un perio-do — come quello del tempo — in cui messia non ce n’erano più e ilpotere apparteneva ai sacerdoti, anche Giuseppe era un uomo qualun-que. Ma la sorpresa verrà dall’alto, da una volontà divina che un ange-lo portò a compimento, recandosi dal Tempio di Gerusalemme proprionella lontana regione galilaica a salutare Maria.

Quella visita così straordinaria si concluse con un annuncio altret-tanto straordinario: Maria diventerà la madre del «figlio dell’altissi-mo» (cfr. Luca 1, 26-38).

Da quel momento le due donne diventano un tutt’uno e Maria vo-la da Elisabetta. Un comune sogno e un comune destino ne segnanoil cammino. Il percorso di Maria sembra calcato su quello che l’ange-lo ha appena fatto verso di lei. Parte dalla Galilea, dalla sua Nazarete si reca, plausibilmente a piedi, sino in Giudea. Rispetto a quellodell’angelo, il suo è un cammino a ritroso. Il villaggio di Elisabettanon ha un nome, di esso si dice solo che fosse sulle montagne dellaGiudea (cfr. Luca 1, 39); un luogo che la tradizione ha identificatocon Ain Karim, a sei chilometri da Gerusalemme.

Ciò che importa è che siamo in Giudea. E che quella sua parenteappartenesse a una “sacra” famiglia. Giunta in città, Maria si com-porta identicamente all’angelo: «entra nella casa di Zaccaria e salutaElisabetta» (Luca 1, 40). Ciò che potrebbe sembrare un gesto norma-lissimo assume qui un valore teologico fondamentale: ella non va so-lo a trovare sua cugina Elisabetta, ma entra nella casa del sacerdote e

«La Visitazione»(fine del XIX secolovetrata, chiesadi Saint-Jacques-le-MineurLiegi)

quanto vi porterà coinvolge e cambia radicalmente la realtà e la fun-zione dei sacerdoti del Tempio.

Cosa porta la ragazza di Nazaret? La voce del saluto di Gabriele ela fonte della vita: la sua parola è feconda come quella di Dio e ri-sveglia la vita. Elisabetta, infatti, sente suo figlio sussultare nel grem-bo, proprio quando Maria la saluta. Ciò che la vergine ha ricevutodall’annuncio dell’angelo, ora lo riversa su di lei: Maria si è fatta an-gelo di Dio!

La corsa di Maria è accolta da una benedizione. In essa il segnodella grandezza di quell’impresa: «Benedetta tu fra le donne e bene-detto il frutto del tuo grembo» (Luca 1, 47) sono le parole di Elisa-betta. La benedizione, quando non viene dalla bocca di Dio, ma daquella di un essere umano, è causata dallo stupore e dalla gratitudineper qualcosa di grande che la persona benedetta ha fatto. Un primoesempio è quello di Abramo. Un’azione di grande generosità avevacompiuto Abramo a favore della città di Sodoma: aveva sconfitto inemici che le avevano dichiarato guerra, restituendole il territorio e lalibertà (cfr. Genesi 14). Abramo non aveva voluto niente per sé comecompenso, mostrandosi affatto disinteressato in relazione al suoimpegno e alla sua solidarietà con la città di suo nipote Lot. Ed è intale frangente che ricevette una b enedizione dal sacerdote Mel-chisedek:

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forza e la sua generosità che sottrassero Betulia all’assedio dei nemici.Al ritorno dalla sua eroica impresa, Giuditta si presentò vittoriosa al-la porta della sua città e fu allora che: «Tutto il popolo si stupì pro-fondamente e tutti si chinarono ad adorare Dio, esclamando in coro:“Benedetto sei tu, nostro Dio, che hai annientato in questo giorno inemici del tuo popolo”. Ozia a sua volta le disse: “Benedetta sei tu,figlia, davanti al Dio altissimo, più di tutte le donne che vivono sullaterra, e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e tiha guidato”» (Giuditta 13, 17-18).

Lo schema è sempre lo stesso: prima si benedice Dio, poi colei (ocolui, come nel caso di Abramo) che ha compiuto un’impresa straor-dinaria, di cui Dio è stato all’origine, ma grazie alla fede di chi credein lui. Le imprese che meritano la benedizione sono sempre descrittein termini bellici. Quella di Abramo è una guerra tra popoli che sicontendono un territorio; quella di Giuditta è una guerra tra una cit-tà e i nemici che la stanno assediando; quella di Maria è la rivoluzio-ne che Dio porta tra i poveri e i ricchi, per cui questi ultimi verranno

Rosanna Virgili,biblista, vive a Roma,è laureata in filosofiaall’università diUrbino, in teologiaalla Pontificiauniversità lateranense elicenziata in scienze

«Sia benedetto Abram dal Dio altissimo,creatore del cielo e della terra,e benedetto sia il Dio altissimo,ché ti ha messo in mano i tuoi nemici» (Genesi 14, 19-20).

Data da un sacerdote, la benedizione giunge ad Abramo come untributo di Dio per quanto egli ha compiuto. Il Dio di Melchisedek èchiamato «altissimo» come il Dio di cui Gesù è figlio, secondo le pa-role dell’evangelista (cfr. Luca 1, 32). La benedizione di Elisabettascaturisce proprio da colui che Maria già porta in grembo: il Figliodell’Altissimo. Per questo come il sacerdote Melchisedek benedice ilDio altissimo, così Elisabetta benedice il figlio dell’altissimo, cioè il«f ru t t o del suo grembo»; e come il sacerdote invoca la benedizionedi Dio su Abramo, ugualmente Elisabetta benedice Maria.

La figura di Maria si fa sostituta di quella di Abramo e ciò verràconfermato nel Magnificat, che così si conclude: «Come aveva pro-messo ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza per sempre»

(Luca 1, 55).

«Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle», aveva dettoDio ad Abramo, «tale sarà la tua discendenza» (Genesi 15, 5). Nel fi-

L’autrice

bibliche al Pontificioistituto biblico diRoma. È docente diesegesi presso l’Istitutoteologico marchigiano(Pontificia universitàlateranense). Fra le suepubblicazioni: Il “no”

di Elisabetta. Lettura di

Lc 1-2 (EditriceAncora, Milano 2013).

rovesciati e i poveri, invece, verranno esaltati.

Ma il dettaglio che accosta e distanzia, allo stessotempo, Maria e Giuditta, è lo strumento utilizzato perla salvezza del popolo: Giuditta ha usato la sua manoaudace nel brandire la spada di Oloferne; Maria hausato il suo grembo inerme della tenerezza di un fi-glio. Maria non usa violenza, ma la sua piccola crea-tura. Il frutto di questo grembo diventa, allora, la ra-gione della benedizione di Elisabetta, perché è da luiche verrà la grande opera della salvezza di Dio.

Mentre nei casi precedenti sono re e sacerdoti a da-re la benedizione, il caso di Debora e Giaele è ancorpiù simile al nostro, perché una donna benedice un’altra donna. Col-locato anch’esso nel contesto di una guerra e scaturito dalla vittoriadi Israele, il cantico di Debora benedice una donna per il suo provvi-denziale coraggio: «Sia benedetta fra le donne Giaele, la moglie diCheber il kenita, benedetta fra le donne della tenda! Acqua egli chie-se, latte ella diede» (Giudici 5, 24-26).

Nei periodi più difficili della storia di Israele, spesso entrano ingioco le donne che si alleano tra loro per salvare il popolo. I tempidi Debora e Giaele, quelli di Noemi e di Rut e persino delle figlie diLot, dalla cui audace iniziativa ebbero origine i popoli di Moab e diAmmon (cfr. Genesi 19, 30-38). Quando gli uomini si mostrano fragi-

Un gesto normalissimo assume un valore teologico fondamentaleMaria non va solo a trovare sua cugina Elisabetta

ma entra nella casa del sacerdoteportando ciò che ha ricevuto dall’annuncio dell’angelo

glio che lievita nel grembo di Maria, alita la pienezza della promessaantica.

Elisabetta, per contro, diventa un “s a c e rd o t e ” simile a Melchise-dek, estranea, cioè, a ogni autorità ereditaria e legittima della funzio-ne sacerdotale, ma è lei a benedire sia Maria che Dio, a rendere gra-zie, cioè, della grande impresa che si realizza nella sua parente: acco-gliere e portare il figlio di Dio.

Un altro caso che può contribuire a illuminare il senso della bene-dizione di Elisabetta è quello di Giuditta. Piena di sapienza e di bel-lezza, di prudenza e di bontà, Giuditta — la “giudea” — r a p p re s e n t ala sapienza stessa di Israele. Grandi furono il suo coraggio, la sua

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le l’impensabile. Rivolgendo queste parole asua cugina, Elisabetta fa risuonare ancora unconfronto con l’atteggiamento opposto disuo marito Zaccaria. Mentre quegli era uscitomuto e triste dal Tempio, riversando il suo im-potente silenzio su tutta l’assemblea (cfr. Luca

1, 22), Maria, al contrario, è beata, perché ha cre-

duto. Ha creduto nell’angelo e ha creduto anchenel miracolo che avveniva in sua cugina Elisabet-ta, a differenza di Zaccaria.

Le parole del Signore si sono adempiute in tut-te e due le donne e hanno raggiunto, contempora-neamente, la loro pienezza.

La fede, insomma, si vive nella comunione didue o più persone, insieme all’angelo di Dio.«Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lìsono io in mezzo al loro» sono le parole di Ge-sù (Ma t t e o 18, 20). Questo incontro anticipa larealtà della comunità cristiana che sarà luogodi gioia e di culto del cuore, sostituendosi alTempio. La casa di Elisabetta è un nuovo“tempio”! Laddove Dio è presente come vitanuova e gioia piena.

Come il saluto di Maria aveva riversatola gioia dello Spirito sul cuore e sul ventredi Elisabetta, così le ultime parole di Elisa-betta provocano un’esplosione di gioia e diSpirito in Maria stessa. Un’eccedenza chenon può essere contenuta, ma chiede di es-sere comunicata come canto di riscatto.

«La mia anima magnifica il Signore»:

nel grembo di Maria il corpo del Figlio diDio prende forma, si incarna nello spazio enel tempo, “dilata” la sua presenza nel mon-do come fiume di misericordia, «di genera-zione in generazione» (Luca 1, 50). «D’orain poi tutte le generazioni mi chiamerannob eata» (Luca 1, 48): è l’inno che si sciogliedalla bocca di Maria. Effetto dell’ombra delloSpirito e della benedizione di Elisabetta.

li, corrotti e pavidi, o quando mancano del tutto, entrano in gioco ledonne.

Il tempo di Maria e di Elisabetta è uno di questi. Tempo di attesae di crisi profonda, di stanchezza e di ristagno della fede di Israele.Un tempo in cui Dio, come risposta alla gestione miope e chiusa chedel Tempio facevano sacerdoti e dottori, preparava un’altra grandeimpresa per il suo popolo: la nascita di un figlio, che l’avrebbe col-mato di gioia.

Elisabetta benedice Maria per il dono che riceve da lei rendendolela gioia profonda dell’essere madre: «Il bambino ha sussultato digioia nel mio grembo» (Luca 1, 44). Questa benedizione ha un lin-guaggio squisitamente liturgico e si celebra dentro una casa. Quellacasa può essere paragonata al Santo del Tempio! Ma in essa non c’èun “d e n t ro ” e un “fuori”, come, invece, accade, nel Tempio. Qui c’èun’umanità e una divinità che si intrecciano nel corpo di due donne.Dio non si mostra più protetto e arcano come nel grembo del “Santodei santi”, ma vivo e umano, nelle braccia del popolo di Dio.

Elisabetta e Maria sono il simbolo di quel popolo che prega easpetta fuori (cfr. Luca 1, 10.21), ma, allo stesso tempo, diventano vo-ce di quel Dio della vita che pure abita nel Tempio e sono corpo del-lo stesso angelo che, prima, era ritto sull’altare (cfr. Luca 1, 11).

Il tempo di Maria e di Elisabetta è tempo di attesa e di crisi profondadi stanchezza e di ristagno della fede di IsraeleUn tempo in cui Dio preparava un’altra grande impresa per il suo popoloLa nascita di un figlio, che l’avrebbe colmato di gioia

Dio si fa Spirito santo su Maria e su Elisabetta, venendo per sem-pre ad abitare in mezzo al suo popolo. Quando Elisabetta chiede:«A che debbo che la madre del mio Signore venga da me?» (Luca 1,43) fa eco alle parole che David pronuncia sull’arca condotta in Ge-rusalemme: «Come potrà venire da me l’arca del Signore?» (2 Sa-

muele 6, 9).

«Beata colei che ha creduto»: stupendo il saluto che Elisabettaporge a Maria (Luca 1, 45). Con esso si inaugura un tempo nuovoper la fede di Israele. La fede diventa un motivo di felicità! Non èpiù un dovere, un precetto, o una tradizione, ma un piacere e unameraviglia. Un miracolo e un’avventura bellissima che rende possibi-

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«S ono le storie a spingermia fare cinema. Poterle rac-contare con il cinema. Lestorie mi investono, miriempiono, mi danno ur-

genza» così la regista franco-lussemburgheseAnne Fontaine racconta la genesi del suo ultimofilm, Les innocentes (in Italia Agnus Dei). Il suocapolavoro. Qualche frase letta nel diario di unagiovane dottoressa francese in servizio a Varsa-via, insieme con il ricordo della zia suora, laportano ad approfondire una vicenda drammati-ca e nascosta successa durante l’ultima guerra:le ripetute violenze dei soldati dell’Armata rossain un convento di suore polacche, la successivanascita di bambini, con l’aiuto della dottoressa.

Anne Fontaine fino a questo momento erastata attrice, sceneggiatrice e regista, aveva gira-to commedie, drammi psicologici e thriller, filmapprezzati dalla critica che le sono valse alcunenomination a premi importanti, ma è con que-sto film — girato interamente con una troupefemminile — che tocca il punto più alto e pro-fondo del suo lavoro.

ginità scelta per fede e maternità imposta dallaviolenza. Una riconciliazione che dovrebbe farripensare alle regole ecclesiastiche che stabilisco-no ancora, per questi casi, la fine dello stato direligiosa, la riduzione allo stato laicale. Se lamaternità è sempre un momento di donazionemiracolosa, perché escludere le suore che, infondo, stanno vivendo l’esperienza di Maria,vergine e madre?

Le suore polacche violentate ripetutamentedai russi sono annichilite, spaventate e paraliz-zate dall’orrore e dalla paura. Esse sono l’imma-

ARTISTE

Dalla violenzala vita

di LU C E T TA SCARAFFIA

Un film su temi indicibili e dolorosi, come laviolenza sessuale, il conflitto fra maternità e vo-cazione religiosa, la necessità di violare le regoleper fare spazio alla vita e all’a m o re .

Un film che affronta e risolve una questionecontroversa: la scelta religiosa significa la nega-zione del corpo? E cosa significa in particolarequesto per le donne, che in realtà vengono sem-pre ricondotte alla loro natura corporale dalleregole mensili, dalla menopausa e, in casi diviolenza, dalla maternità? La regista proponeuna grande riconciliazione fra il concetto di ver-

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gine stessa degli effetti più devastanti della vio-lenza, esercitata su donne che hanno fatto votodi castità, che si vedono così la vita sconvolta.Alcune addirittura negano la realtà di ciò cheavviene nei loro corpi. Ma poi assisteremo auna sorta di miracolo, un rovesciamento dellasituazione grazie a due atti di disobbedienza,entrambi dettati dall’amore: prima la suora Ma-ria fugge dal monastero in cerca di una dotto-ressa che salvi la vita alla sorella partoriente, ela trova presso la Croce rossa francese. Poi, ladottoressa francese, notte dopo notte, trasgredi-sce gli ordini del suo superiore per assistere lesuore che partoriscono. Sotto lo sguardo scon-volto della badessa, figura complessa e contrad-ditoria, che trova la forza di assumersi la re-sponsabilità di tutte le sorelle in una rigida ap-plicazione della regola, anche se sa che questopuò significare la morte dei neonati.

L’atmosfera quindi è cupa, ma l’incontro conla giovane dottoressa francese comunista, libera,non credente, che rischia anche la vita per aiu-tarle, apre una finestra, una presa d’aria. Dalladisobbedienza — punita dalla badessa, ma poiaccettata nelle sue conseguenze positive — ger-moglia la vita. Alcune di loro parlano con lagiovane francese, le confessano dubbi e rim-pianti, una anche l’intenzione di uscire dal mo-nastero appena potrà. Perché in mezzo ai vio-lentatori c’era anche un bravo ragazzo, con ilquale è nata una storia d’amore. Il bene e il ma-le cominciano a mescolarsi, non sono più terri-tori rigidi e separati.

Se all’inizio sembravano un gruppo di donnetutte uguali, unificate dalla vita comune e dallacomune violenza subita, le vediamo poi emerge-re nelle loro specificità individuali, ciascuna conun rapporto diverso con la dottoressa.

Ma quello che cambia veramente tutto nellavita delle religiose, e in fondo anche in quelladella giovane francese, è la maternità. Sono icorpi che si trasformano e le rendono donne co-

me le altre, donne che partoriscono figli nonvoluti ma poi amati immediatamente. Il misterodella maternità, della capacità del corpo femmi-nile di creare la vita le travolge, così come il tra-sporto immediato che sentono per i loro piccoli,sentimento che rende impossibile per la badessacontinuare la sua terribile pratica di abbandonodei neonati.

Sono i loro corpi che aprono nuove dimen-sioni dell’esistenza, i seni pronti a nutrire i pic-coli, il legame fortissimo che sentono con ibambini appena li prendono in braccio. Un le-game che cancella di colpo la paura del disono-re, della vergogna, che le porta a guardare dinuovo con speranza la vita nonostante gli orrorisubiti. Nasce così un drammatico conflitto conla badessa, risolto grazie a un’idea delle due“disobb edienti”, suor Maria e la dottoressa: ac-cogliere nel convento i bambini orfani del pae-se, e allevarli insieme con i loro bambini, cosìnessuno penserà male, e loro potranno tenersi ibambini e al tempo stesso continuare — comedesiderano — la vita religiosa.

In pochi istanti diventa chiaro che le regole,ma in fondo l’idea stessa di Dio, possono diven-tare un idolo, e che la fede si può vivere soloaprendo il cuore alla misericordia verso tutti, ipropri figli e quelli degli altri, bisognosi. È solonella misericordia che rinasce la vita vera, il ve-ro rapporto con Dio, una misericordia risveglia-ta dal rapporto con la vita.

C’è un altro aspetto, ancora più importante eprofondo, che emerge dal film: la nascita comecontinua Incarnazione. La nascita di quei bam-bini da donne vergini ci ricorda come Dio si èfatto carne in una situazione potenzialmentescandalosa, ha vissuto in mezzo a noi e ha sop-portato stupidità e debolezze, violenza e orrore.E che quindi è solo nella carne, nella misericor-dia per la carne nostra e degli altri, che possia-mo incontrarlo.

MAT T E O 13, 51-52

Gesù è quello scriba-discepolo chenel suo parlare attinge dal suotesoro, cioè dalla sua intelligen-za, dal suo cuore, cose antiche,le attinge dalla Scrittura di

Israele, e le propone agli uomini e alle donneche lo seguono, in una forma e modalità nuove,le attualizza. Antico e nuovo in Gesù si compe-netrano in risposta ai bisogni nuovi di chi in-contra, della Chiesa oggi. Questo l’atteggiamen-to sapiente: fare nuovo l’antico. Gesù è un uo-mo sapiente, che ha un cuore che sa ascoltare,che osserva e impara dal quotidiano, dalla natu-ra, e da essi trae le immagini per farsi compren-dere dai suoi ascoltatori. La sapienza di Gesùnon è puro intellettualismo, semplice conoscen-za, è la capacità di andare in profondità, di sca-vare e illuminare il cuore e la mente, di discer-nere, è l’intelligenza nelle relazioni. Gesù ha uncuore che sente il desiderio, le paure, le incer-tezze, i dubbi che abitano le persone che incon-tra e attraverso la sua parola offre loro un oriz-zonte nuovo, una strada da percorrere, rivela lo-ro una novità di vita in un oggi che può sem-brare sempre ripetitivo, antico.

ME D I TA Z I O N E

Tro v ail tuo tesoro

a cura delle sorelle di Bose

Chiharu Shiota, «The Key in the Hand» (2015)A pagina 40:

Jean-François Millet, «Uomo con la zappa»(1860-1862)

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«Avete capito ciò che vi ho detto?». Cosavuole farci comprendere Gesù? Cosa dobbiamocapire dalle parabole che lui ha narrato? Gesùnon narra semplicemente, non solo parla, egli èla Parola, ed è qui, tra noi, per questo: è la «co-sa nuova» tra gli uomini per rivelare i misteridel regno dei cieli. E lo fa non solo con le paro-le ma soprattutto rivela essendo ciò che è: l’uo-mo Gesù. Egli è l’inviato che svela la volontàdel Padre, che non si impone ma invita, mostrauna via perché ciascuno possa trovare il propriotesoro da cui trarre una novità di vita.

Gesù sa che riconoscere la «cosa nuova» nonè semplice. Agli occhi degli uomini è nascosta,non appariscente, insignificante: è il granellinodi senape, è poco lievito nascosto nella farina, èuna perla che nasce nell’ostrica, è un tesoro na-scosto in un campo. Gesù ci dice però che, an-che se piccola e nascosta, ha una potenza incre-dibile, ha la forza di far lievitare la farina, di«impadronirsi» del cuore dell’essere umano e dimetterlo in moto, di fargli compiere azioni. Do-ve è il tesoro dell’uomo, là è il suo cuore. Il te-soro è ciò che si reputa senza prezzo, è ciò chesupera ogni altro bene. Il tesoro è scoprire ciòche dà senso alla nostra vita, ciò che la orienta eindirizza. Possedere questa perla preziosa signi-fica vivere ed essere in pienezza, è vivere la vo-cazione alla quale siamo chiamati.

Gesù ci invita allora a conoscere il nostrocuore, a capire ciò che per noi è così preziosoda farci lasciare tutto il resto. Nelle paraboleraccontate da Gesù c’è un tesoro, c’è una perla,ma quello che Gesù pone al centro è l’azioneche questi provocano nel contadino o nel mer-cante. Essi fanno una scelta. Quello che conta èla nostra risposta, l’azione provocata in noi. Aldiscepolo è lasciato lo spazio di libertà di sce-gliere ciò che vale di più e di conseguenza la-sciare ciò che vale meno. Incontrato Gesù, rico-nosciutolo come novità e tesoro per le loro vite,i primi discepoli si liberano di tutto per seguir-lo, cosa che non riesce a fare il giovane ricco

che interroga Gesù nel vangelo. Il contadino, ilmercante delle parabole vendono tutto ciò chepossiedono per lasciare che una ricchezza mag-giore li colmi, si impossessi di loro. Il guadagnovero è nel liberarsi del superfluo per fare spazioa ciò che ci dà la gioia profonda, la pienezza divita.

L’incontro con Ge-sù, con il suo Vange-lo, ci rivela una buo-na notizia. E questabuona notizia ha il po-tere di orientare in mo-do nuovo le nostrevite, di cam-biare totalmen-te la nostra esi-stenza, di darenuovo senso aciò che sembraantico e cono-sciuto. La pre-ziosità è relati-va alla gioiache è suscitatain noi: la gioia ci è procurata dal non fallire lanostra vocazione, perché — come scrive SimoneWeil — «quel che conta è non mancare la pro-pria vita». A noi la libertà della scelta che, rin-novata nel quotidiano, diventa perseveranza nel-la sequela, faticosa fedeltà, che incontra l’acco-glienza di Dio, il quale attende con pazienza enon giudica, apre la rete per tutti. Egli conoscei segreti del cuore e invita chiunque a percorrerela strada per uscire dal suo male, con la pro-messa che il frutto di questa scelta è una gioiaduratura, sempre nuova. È la «cosa nuova» del-lo scoprire ogni giorno l’amore e di credere aquesto amore. Così possiamo cantare assieme alsalmista: «Nella tua promessa trovo la mia gioiacome chi scopre un grande tesoro» (Salmo 119,162).