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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 51 NOVEMBRE 2016 CITTÀ DEL VATICANO Donne dimenticate

D ONNE CHIESA MOND O - servire1984.files.wordpress.com · Il 14 maggio 1971 Ida Görres vi pronunciò un intervento ... ciale per la gioventù femminile» della diocesi di Dresden-Meißen,

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 51 NOVEMBRE 2016 CITTÀ DEL VAT I C A N O

Donne dimenticate

numero 51novembre 2016

BIO GRAFIA

D ell’amore e del doloreL’umano e il santo visti da Ida Görres

HANNA-BARBARA GERL- FA L KO V I T Z A PA G I N A 3

SP I R I T UA L I T À

Ap ostoladello Spirito santo

ANTONELLA LUMINI A PA G I N A 11

IN NOVEMILA C A R AT T E R I

La rabbina dimenticataANNA FOA A PA G I N A 17

LA S C I E N Z I ATA

Un’elica moncaGIULIA GALEOTTI A PA G I N A 22

FO CUS

Martire dei diritti umaniSI LV I N A PÉREZ A PA G I N A 23

LA S A N TA DEL MESE

Nel mondo per portare la luce divinaFERDINAND O CANCELLI A PA G I N A 26

NELL’ANTICO T E S TA M E N T O

Giuditta la salvatriceMERCEDES NAVA R R O PUERTO A PA G I N A 29

ARTISTE

Il coraggio di cantare il Dies iraePA S Q UA L E CHESSA A PA G I N A 36

ME D I TA Z I O N E

Per chi sta sempre peggio degli altriA CURA DELLE SORELLE DI BOSE A PA G I N A 39

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BIO GRAFIA

di HANNA-BARBARA GERL- FA L KO V I T Z

D ell’a m o ree del dolore

L’umano e il santovisti da Ida Görres

Oggi sono pochi a ricordarla ma, quando Ida Görres morì, nel maggio1971, fu Joseph Ratzinger, allora professore a Tubinga, a pronunciarel’orazione funebre. Era diventata famosa soprattutto per i suoi splen-didi ritratti di grandi personaggi — da Francesco d’Assisi a Giovannad’Arco, da Florence Nightingale a Teilhard de Chardin — che aveva-no profondamente rinnovato l’agiografia del XX secolo; ma anche pertesti altrettanto intensi e rivoluzionari, a partire dalla grande opera suTeresa di Lisieux.

Ida Görres, contessa dell’impero Friederike Maria Anna von Cou-denhove, visse una vita segnata da una profonda quanto stimolantesolitudine interiore, dono ambiguo delle sue origini: era nata nel belmezzo della selva boema da un diplomatico austriaco e da una giap-ponese che le lasciò anche nell’aspetto inconfondibili tratti eurasiati-ci. Ma il doppio delle sue origini si trovava più di tutto nell’anima.Lei stessa percepiva con dolore la tensione interiore tra due culturetanto diverse: «Che la grande tristezza, lo sguardo impietoso sulmondo, siano la mia eredità asiatica? È una cosa molto vecchia, diantica saggezza, ma vecchia e saggia in modo i r re d e n t o , quella di cuiho parte». E sulla madre nota: «Del suo destino profondamente tra-gico potrebbe scrivere solo un grande romanziere della prossima ge-

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Mensile dell’Osservatore Romanoa cura di

LU C E T TA SCARAFFIA

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I N A PÉREZ

Comitato di redazioneCAT H E R I N E AUBIN

MARIELLA BALDUZZI

ANNA FOA

RI TA MBOSHU KONGO

MA R G H E R I TA PELAJA

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v ad c m @ o s s ro m .v a

per abbonamenti:d o n n e c h i e s a m o n d o @ o s s ro m .v a

Donne dimenticateMnemosyne, la chiamavano i greci. Era la dea della memoria, coleiche teneva attiva la memoria negli uomini, facendo loro serbare ciòche ella voleva. È esattamente alla attività opposta a quella di Mne-mosyne che abbiamo voluto dedicare questo numero di «donne chie-sa mondo»: alla cattiva arte del dimenticare nella sua declinazionestoricamente più praticata, cioè quella di dimenticare le donne.

Un atteggiamento assolutamente trasversale: che si tratti di lettera-tura, mistica, storia, scienza, politica, religione o religioni, che si trat-ti di laiche o di consacrate, di ieri o di oggi, di Europa o di America,in ogni epoca e società il contributo decisivo e stimolante di tantevoci femminili è stato occultato, dimenticato, perso. E questo ha im-poverito tutti, donne e uomini. Come se quelle voci non avesseromai parlato, il loro contributo è stato a volte trafugato dai maschi, avolte è scivolato via senza penetrare nel nostro modo di pensare e divivere, altre volte infine è stato scientemente sbriciolato e schiacciatoper renderlo inoffensivo. Perché — specularmente a quella del ricor-dare — anche l’arte del dimenticare è stata ed è suscettibile di ungran numero di varianti e sfumature, come dimostrano le storie diquesto numero.

Non solo quelle di cui qui parliamo, ma più in generale tutte ledonne dimenticate della storia sono raffigurate dalla nostra immaginedi copertina. Belle statuine depositate e imbalsamate sui rami più al-ti: depositate e imbalsamate spesso formalmente con grande cura, manella sostanza abbandonate lì per calcolo, opportunismo, invidia oignoranza. Ricordarle è un primo passo per tirarle fuori dal letargoloro forzatamente imposto; è un timido tentativo di scongelarle e ri-chiamarle in vita perché possano iniziare a rendere fertili le nostreesistenze. E questo naturalmente è solo un piccolo campione: le don-ne dimenticate sono molto più numerose, e dovremo dedicare loro infuturo altri numeri del nostro giornale. (giulia galeotti)

L’EDITORIALE

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creatività. Tra le cause scatenanti della malattia ci furono probabil-mente anche gli attacchi subiti per Brief über die Kirche (Lettera sulla

Chiesa, 1948), opera di critica sociale per la quale venne duramentecriticata.

Visse il concilio Vaticano II in principio con gioiosa attenzione, mapoi piuttosto con preoccupazione per le conseguenze delle quali ve-deva i pericoli e le ambiguità. Lo dimostrano le sue lettere al bene-dettino Paulus Gordan, pubblicate con il titolo interrogativo W i rk l i c h

die neue Phönixgestalt? (Davvero una nuova forma della Fenice?, 2015).Istintivamente la Görres vedeva vacillare anche cose per lei irrinun-ciabili. Un titolo indicativo è Abbruchkommandos in der Kirche (Com-

mando per lo smantellamento nella Chiesa). Nel 1969 fu convocata al si-nodo di Würzburg, che intendeva attuare al più presto le direttivedel concilio. Il 14 maggio 1971 Ida Görres vi pronunciò un interventosu «Messa e sacramento» e subito dopo si accasciò per un’emorragiacerebrale che la portò alla morte il giorno successivo nel Marienkran-kenhaus di Francoforte.

La Görres aveva espresso il desiderio di essere sepolta a Friburgovestita del suo kimono bianco. Il bianco, colore del lutto per i giap-ponesi, indica una tarda “riconciliazione” con la madre. Sulla lapide,

nerazione, così come la Mitchell ha scritto Gone with the Wind (Via

col vento). Lei pensa che qualcuno le abbia chiesto se voleva sposareun europeo, del quale sapeva solo che “sono diavoli bianchi dai ca-pelli rossi e gli occhi da pesce”? Il suo tardo e amaro commento èstato: “Fu peggio della morte. Ma le ragazze giapponesi sapevanoobb edire” (...). Dei suoi sette figli, mia madre amava solo i due mag-giori, che erano nati in Giappone, e non ci lasciò alcun dubbio inmerito (...). Quando qui sento chi si lamenta per la “mancanza di ca-lore familiare” mi viene quasi da ridere».

Trascorse l’infanzia in scuole conventuali austriache, dove incontròper la prima volta la Chiesa nella sua forma più rigida, ma per alcuniaspetti anche protettiva. Solo dopo il 1918, nel movimento giovanileBund Neuland del quale contribuì a modellare in modo notevole lavolontà di rinnovamento religioso, arrivò a percepire nella Chiesaun’inaspettata vitalità.

Dal 1923 al 1925 la giovane Ida (vezzeggiativo per Friederike) ri-mase provvisoriamente come novizia presso le suore di Maria Wardnell’amata St. Pölten, vicino a Vienna. Studiò scienze politiche aVienna dal 1925 al 1927, quindi scienze sociali a Friburgo dal 1927 al1929, e infine storia (della Chiesa), teologia e filosofia prima all’uni-versità di Friburgo dal 1929 al 1931 e poi a Vienna, dal 1931 al 1932.Dal maggio 1932 fino alla Pasqua del 1935 lavorò «nell’assistenza so-ciale per la gioventù femminile» della diocesi di Dresden-Meißen, omeglio, come pioniera intellettuale per la gioventù cattolica. Proprioa Dresda, il suo modo vivo, addirittura ardente di sviluppare e co-municare il proprio pensiero era già molto pronunciato; la sua guidaentusiasmava.

Su questo successo tuttavia continuava a gravare quella solitudineche poggiava sul «crudele peso dell’infanzia», su un’educazione sin-golarmente priva di amore. Finché giunse ad attenuarla, non senzaconflitto interiore, il corteggiamento del berlinese Carl-Joseph Görres(1905-1973). Si sposarono nel 1935, e alcuni ambienti cattolici furonoquasi delusi dal matrimonio, che sembrava demolire l’ideale di unanuova “pulzella d’O rléans”. Il marito però si rivelò un degno compa-gno della passione intellettuale di Ida, che ebbe la possibilità di de-dicarsi completamente al lavoro di scrittrice. Nacquero opere in rapi-da successione, insieme a numerose conferenze, che nel complessovertono tutte sulla Chiesa e i santi. «Poiché non ho famiglia — consuo grosso dispiacere non poté avere figli — tutta la mia forza si èconcentrata sulla Chiesa».

A partire dal 1950 cominciò a soffrire di paralisi spastiche, che fre-narono il suo lavoro ma non interruppero completamente la sua

Ida Görresin una fotografia del 1948

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accanto all’arcangelo Michele combattente, a lei tanto caro, sonoscritte le parole Cave adsum (“Attenzione, sono qui!”).

Nel 1943 era stato pubblicato il capolavoro della Görres: Das ver-

borgene Antlitz (Il volto nascosto), sulla piccola Teresa di Lisieux. L’im-portanza e il successo di quest’opera risiedono nel fatto che essa —anche prima dell’edizione integrale del diario, censurato dalle conso-relle — mette in luce la qualità umana di Teresa: il mito sdolcinatoche il convento aveva costruito intorno alla “piccola”, le leziosità co-struite intorno alla “storia di un’anima” svanirono dinanzi alla pro-fonda conoscenza dell’ambiente mostrata dall’autrice, anche lei edu-cata nel mondo dei “piccoli sacrifici”, della poesia edificante e deipensionati conventuali femminili. Ogni ornamento piccolo-borghesedunque viene eliminato per svelare il volto nascosto di Teresa, com-promessa da tratti nevrotici, sminuita dall’infantilizzazione operatadalle suore del convento, talvolta vinta da una scrupolosità ossessiva,e alla fine sprofondata in una spaventosa notte della fede. E tuttavia:proprio nella pietà individualmente limitata e distorta dall’ambiente,il volto di Teresa inizia a riflettere ciò che è divino.

Ancora oggi questa “a rc h e o l o g i a ” della vera Teresa toglie il respi-ro. Nulla viene ridotto a psicologismi più o meno superficiali: dinan-zi all’umanamente limitato, l’inspiegabile appare straordinariamenteilluminante. Il fascino (e la consolazione) di quest’opera sta nel fattoche essa mostra in tutta evidenza che il limite dell’uomo non costitui-sce una barriera per il divino. Anche gli aspetti del carattere più stra-ni e spiacevoli diventano punto di partenza per la grazia. Il kitschnon oscura davvero la bellezza di Dio. Con la passione di chi soffredi persona per la convenzionalità ristretta di alcune posizioni dellaChiesa, la Görres mostra la differenza tra album di poesie stereotipa-to e canto di lode permeato di autentica religiosità. Il gioco alternodi grazia e debolezza è commovente, diventa addirittura il marchiodella santità.

L’altro fronte in cui emerge tutta l’umanità della Görres è la rifles-sione sulle questioni fondamentali della vita. Il libro Von Ehe und von

Einsamkeit (Del matrimonio e della solitudine, 1949) dà un’idea dell’acu-ta capacità di osservazione e della passione della grande autrice. Inesso sono elencate tutte le obiezioni al matrimonio definito come«vincolo permanente impossibile», ma sono messe in risalto anchetutte le tristi esperienze della solitudine “inappagata”. Così sono di-scusse, approfondite con delicatezza e chiarite tutte le posizioni, fin-ché non emerge l’indicazione di fondo: che la vita va vissuta, in unequilibrio precario, ma comunque vissuta: l’intera vita con una solaaltra persona o la vita con tante persone. Entrambe hanno i propri

Denise Lynch«St. Theresethe little flower»

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Nel diario Zwischen den Zeiten (Tra le età, 1960) è Ida Görres stessaa illustrare la propria personalità: «I miei problemi principali, quellicentrali, esistenziali, in realtà non stanno nella sfera intellettuale, co-me si ostinano a pensare i miei conoscenti, gli estranei e perfino gliamici. Stanno da sempre in quella morale, per quanto riesco a ricor-dare; e anche qui non stanno nella teoria e nei principi, bensì nellavita. Ho fatto sempre solo appello all’intelletto come truppa di rin-forzo per esplorare la giungla inestricabile del dover vivere e i princi-pi, per aprire un cammino; la via è stata ed è ancora l’essenza dellemie domande».

La Görres è stata capace di «gridare dell’amore e del dolore». Hasondato l’umano nel profondo: il profondo di una natura confusa,contraddittoria, “i r re d e n t a ”, dove la sessualità agisce come grandemotore indomito. E pur attraversando l’analisi della millenaria espe-rienza della Chiesa, della poesia, della letteratura, le risposte agli in-terrogativi più angosciosi giungono solo dal dialogo personale e dalconflitto con Dio, dall’essere felicemente sorpresi della sua guida.

oneri, che non possono essere alleggerite con le parole, ma che van-no accettati senza amarezza; entrambe hanno le loro soddisfazioni,ma anche i loro precipizi. E tuttavia possono essere vissute. Anche ifraintendimenti del primo amore vengono esaminati con delicatezza:una lezione sulla capacità di dedizione umana e l’autoinganno pre-gno di pericoli. Ma si tratta di una lezione che non umilia. A parlarequi è qualcosa di più del sentimento; a parlare è l’esp erienza.

Si sente un linguaggio pieno di passione, che fa percepire un cuo-re palpitante, ma anche una mente analitica: tanto rigoroso quantocreativo, tanto elegante quanto combattivo. Un’abilità linguistica ric-ca di sfumature conferisce alle argomentazioni la loro chiarezza, e an-cor più la loro forza utile.

A rendere prezioso questo modo di pensare è il suo chiamare ingioco la potenza, Dio. Non come tappabuchi e panacea per tutti imali, bensì come resistenza viva, alla quale si può ricorrere per tirarsisu. «Può sostenere solo ciò che resiste». E proprio questo si dimostrautile.

Vincent van Gogh«Campo di grano con volo

di corvi» (1890)

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SP I R I T UA L I T À

di ANTONELLA LUMINI

Ap ostoladello Spirito santo

Tra le mistiche cristiane dimenticate, non si può non ricordare la beataElena Guerra, la cui vicenda è particolarmente sorprendente. Infatti,se pure spesso le mistiche sono state incomprese e ostacolate (se nonaddirittura, come Margherita Porete, condannate al rogo), ElenaGuerra invece ha ottenuto grande riconoscimento da papa LeoneXIII, a cui si era rivolta con numerose lettere. Una figura dunque va-lorizzata da un punto di vista teologico, ma la cui spiritualità non èpenetrata nel tessuto della Chiesa, tanto è vero che pochi la conosco-no e i suoi numerosi opuscoli e trattati spirituali hanno avuto scarsadiffusione.

Nata a Lucca nel 1835 in una nobile famiglia e fin dalla giovinezzacondizionata da una salute cagionevole, scoprì presto la gioia per lecose spirituali. Incompresa per la sua esperienza mistica, rimase fede-le a quella missione speciale che le era stata assegnata e che costituìil filo aureo della sua esistenza: riportare lo Spirito santo al centrodella vita cristiana. «L’adorazione dello Spirito Santo — scrive — èsempre stata molto ardente nel mio cuore, anche se nessuno me l’ave-va raccomandato, malgrado non conoscessi alcuna lettura che mel’avrebbe potuto insegnare». Inizialmente pensò a un’associazione, le«amiche spirituali», finalizzata a condividere un’autentica vita cristia-

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Dio è proprio del medesimo Amore. Venne l’Amore e l’uomo amò».Gesù accese l’amore nei cuori degli apostoli quando «mandò a essilo Spirito santo, cioè l’Amore sostanziale e personale di Dio stesso».Non si fa leva sulla volontà, bensì sul cedimento che permette alloSpirito santo di operare e trasformare: «Al mondo mancano la veritàe l’amore, perché ha [...] allontanato da sé lo Spirito di Dio. [...]Tutti ammettono che il mondo si sta dirigendo verso la rovina totale[...], ma che cosa facciamo per accelerare il necessario ritorno delloSpirito di Dio nel cuore degli uomini?». Nel 1870 la presa di Romasancisce definitivamente la perdita del potere temporale della Chiesa.Il richiamo di Elena verso lo Spirito santo si intensifica, vedendo intale evento un ritorno all’inizio della predicazione degli apostoli. Manonostante la propria determinazione e l’instancabile tentativo dicoinvolgere altre persone, non si sentiva compresa. Nel 1895 scrisse aLeone XIII la sua prima lettera: «Santo Padre, solo voi potete far sìche i cristiani ritornino allo Spirito Santo, affinché lo Spirito santoritorni da noi [...] Vorrei chiedervi, per l’amore di Dio, di non indu-giare a raccomandare questa preghiera comune». C’è un’urgenza chepreme. Le sorti del mondo sono ormai lette solo in questa chiave sal-vifica: «Tutti i benefici della redenzione sono di infinita eccellenza,ma quello che di tutto è compimento e corona è l’infusione delloSpirito di Dio nelle creature». Poco dopo il papa risponde con ilbreve Provida matris charitate con il quale introduce un periodo festi-vo di preghiera allo Spirito santo fra l’Ascensione e Pentecoste. Elenaincoraggiata, tra il 1895 e il 1903, scrive ben tredici lettere al papa.Nel 1897, a seguito della quinta lettera, Leone XIII risponde con l’en-ciclica Divinum illud munus, rilevante trattato sullo Spirito santo, incui viene viene messa in luce l’azione con cui opera negli apostoli enell’umanità e come effonde i suoi doni. L’ultimo atto ufficiale delpapa alle costanti sollecitazioni di Elena sarà, nel 1902, la lettera Ad

fovendum in Christiano populo diretta ai vescovi di tutto il mondo concui li incoraggia a rinnovare la fede affidandosi allo Spirito santo.

La sinergia creatasi fra Elena e Leone XIII di fatto porta luce sulpassaggio epocale che stava investendo la Chiesa e l’umanità, ma cer-tamente i tempi non erano maturi per una pronta risposta. La pre-ghiera di invocazione allo Spirito santo, si diffuse invece, a partiredalla fine dell’Ottocento, in comunità protestanti nordamericane,lontano dalla gerarchia ecclesiale, attraverso il cosiddetto movimentopentecostale chiamato poi, dal 1963, Rinnovamento carismatico e so-lo dal 1967 riconosciuto dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa.Come scrive Elena al papa: «Da tanti anni desidero ardentementeche i fedeli si riuniscano unanimi per ritornare allo Spirito Santo e

na attraverso l’amicizia. Nel 1872 fondò un istituto laico dedicato asanta Zita, patrona di Lucca, per l’educazione gratuita delle ragazze,che in seguito si trasformò nella congregazione religiosa delle O blatedello Spirito Santo. Ebbe fra le allieve Gemma Galgani. In pienoOttocento, mentre prevaleva la spiritualità della croce e della peni-tenza, il rivelarsi a Elena dello Spirito santo come divino amore, as-sume senza dubbio una valenza profetica: «In Dio l’amore è sempreperfetto e perciò è sussistente, eterno... e questo amore è lo SpiritoSanto, operatore di tutti i prodigi di carità». L’esperienza misticadella beata trova connotazione su questa linea bene demarcata in cuilo Spirito santo le si rivela come amore in atto, amore che amandoinsegna ad amare: «La bell’opera di infiammare i cuori di amor di

A pagina 10fratel Eric, «La Pentecoste»(vetrata della chiesadella Riconciliazione, Taizé)A pagina 12, una statuettaraffigurante Elena Guerra

In KurdistanSi chiama RadioDange Nwe, cioéRadio Voce nuova,l’emittentedel Kurdistanp ensataper dareinformazione airifugiati e gestita daun gruppo di donne,anch’esse rifugiate.La radiotrasmette da unappartamentodel Centro femminiledi Halabja,provincia irachena amaggioranza curda.Da più di un annole speaker, tuttedonne, vannoin ondaquotidianamentedalle otto amezzogiornoalternando canzoni,poesie, programmidi attualità politicao trasmissioniin cui fornisconopreziosi consigliper accedereall’assistenza legalee sanitaria.Parlando in arabo ein kurmanji(dialetto curdo),le ragazze sirivolgono alle

DAL MOND O

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traverso l’acqua, dobbiamo rinascere [...] nello Spirito Santo. SoloTu, Signore, mi puoi far comprendere e mettere in pratica questabeata rinascita. [...] Affinché la mia vita sia una continua comunione,un’ininterrotta rinascita e una crescita nello Spirito Santo». R i n a s c e re

nello Spirito, rinvia alla «rinascita dall’alto» a cui accenna il testo gio-vanneo (cfr. Giovanni 3, 3-8), fa pensare allo Spirito santo come a unabbraccio luminoso che si effonde per accogliere e rigenerare l’interaumanità.

Elena si fa portavoce di un tempo nuovo che preme sulle sogliedel mondo: «Inaugurare concretamente nella Chiesa la vera casadell’adorazione, un cenacolo universale mondiale. In questo modo ifedeli saranno uniti con la Madre di Dio che con gli apostoli pregòardentemente nel cenacolo di Gerusalemme e potranno supplicare echiedere allo Spirito Santo, attraverso un incessante vieni, l’anelatorinnovamento della faccia della Terra».

Il fulcro profetico è dunque la visione di questo «cenacolo univer-sale» che rinvia a una nuova Pentecoste. Come Maria e gli apostolidopo l’effusione dello Spirito santo, escono dal cenacolo per andareverso le genti, così la Chiesa è chiamata ad aprirsi universalmente almondo per effondere il fuoco dell’amore. Dalla realtà comunitariache crea appartenenza, si apre la prospettiva di una comunione uni-versale. Il termine Chiesa allude alla comunità (ebraico: qahal; greco:ekklesìa), ma l’aggettivo cattolica apporta la giusta visione. Gli apo-stoli possono disperdersi fra le genti perché uniti nello Spirito. LoSpirito di Dio attraverso l’umanità del Figlio investe il genere uma-no, fa crollare i muri chiusi delle appartenenze. C’è comunione solodove uno è lo spirito: «Siamo stati battezzati in un solo Spirito performare un solo corpo» (1 Corinzi 12, 13).

L’ispirazione del cenacolo universale guarda alla Chiesa come realtàdi comunione fondata su un solo spirito e che, proprio per questo,come non si stanca di ripetere papa Francesco, può trasformarsi inChiesa in uscita, andare verso le periferie. Non sono le istituzioni ele organizzazioni a garantire l’unità, ma la forza dello Spirito Santo.A distanza di oltre un secolo dalle parole di Elena non si può piùaspettare. I tempi lo richiedono. La globalizzazione, i conflitti, lecontraddizioni, sono tali da rendere evidente che non rimane altravia se non quella dello Spirito: le parole, i buoni ragionamenti, nonservono più. Serve il silenzio che faccia tacere ogni voce e permettadi ascoltare la voce dello Spirito santo. Elena ancora ci illumina:«Ricordati (dice lo Spirito Santo all’anima) che Io amo intrattenermitra amici e nel mio vivo tempio bramo silenzio».

per realizzare con la preghiera incessante un rinnovamento beneficodella faccia della Terra». Alla fine della sua vita conobbe un periododi grande amarezza e solitudine: «La povera serva dello Spirito San-to ha portato avanti il suo lavoro anche in mezzo a tanti tradimenti[...] lasciarsi legare le mani senza ribellarsi e, a mani conserte, dedi-carsi alla forma più alta dell’adorazione e dell’accettazione della Vo-lontà di Dio [...] questa è la trasformazione dell’umile inattivitànell’azione perfetta». Nel 1959, a distanza di pochi decenni dallamorte, avvenuta l’11 aprile 1914, fu beatificata da papa Giovanni XXIII

come «Apostola dello Spirito Santo».

L’ispirazione profetica di Elena, accolta e divulgata attraverso l’au-torità del papa, sicuramente prepara un avvento: l’era dello Spiritosanto. Mette in luce l’opera che la terza persona trinitaria muove nel-la storia e che, attraverso l’umanità del Figlio, si riversa sul genereumano con potenza fino alla sua massima espansione. Di questo trat-ta lo stesso Leone XIII nell’enciclica Divinum illud munus: «Lo SpiritoSanto è di tutto la causa finale, perché come nel suo fine la volontà eogni cosa trovano quiete, così egli che è la bontà e l’amore del Padree del Figlio, dà impulso forte e soave e quasi l’ultima mano all’altissi-mo lavoro dell’eterna nostra predestinazione». Se l’era del Padre è iltempo della Legge e l’era del Figlio è il tempo dell’Amore, l’era delloSpirito santo è il tempo dell’espansione dell’amore in cui tutti saran-

L’ispirazione del cenacolo universale guarda alla Chiesacome realtà di comunione fondata su un solo spiritoe che proprio per questo può trasformarsi in Chiesa in uscitaA oltre un secolo dalle parole di Elena non si può più aspettare

comunità di migrantifuggite dalla guerra,molto spesso lamedesima guerra dadove sono esse stessefuggite.

Burkinie dintorniPiù lo si proibisce,più si vende: la leggedel mercato valeanche per l’ormaicelebre burkini,bandito dalla Franciain questa estate 2016.Inventatoda Aheda Zanetti,musulmanaaustraliana di originilibanesi chenon volevarinunciare a praticareil nuoto a livelloagonistico, il burkiniha visto le suevendite aumentaresu scala globaledel duecentoper cento,diventando unvessillo identitario.Intanto, una nuovaBarbie sta facendo lasua comparsa: lav e n t i q u a t t re n n enigeriana HaneefahAdam ha infatticreato Hijarbie, perla quale hadisegnato, tagliato ecucito abitirendendola unamusulmana a tuttigli effetti.Haneefah Adam hadichiarato di voleraiutare le ragazze difede islamica, dando

no chiamati, attraverso misericordia e perdono, a una visione di Dioconsolatrice e materna. Quello di Gesù è un battesimo in «SpiritoSanto e fuoco», i discepoli sono inviati a battezzare «in nome delPadre, del Figlio e dello Spirito Santo». Lo Spirito di Dio discendenel Figlio per effondersi nell’umanità. Il Consolatore libera dallo spi-rito del mondo attraendo a sé, provvedendo a ogni bisogno con curae tenerezza. Al centro della spiritualità di Elena Guerra è posta la ri-nascita nello Spirito santo che si origina con il battesimo: «Appenauscita dal grembo di mia madre, Tu, Signore, mi hai abbracciata e la-vata con l’acqua del battesimo rendendomi tua figlia. [...] Rinati at-

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Quando a Cincinnati, nel 1972, l’ebrea ri-formata Sally Priesand fu ordinata rabbi-no dall’Hebrew Union College, fu consi-derata la prima donna rabbino della sto-ria. Così la presentarono i media e talelei stessa si riteneva. In realtà era soltan-to la seconda, ce ne era già stata una ma

era stata dimenticata, nessuno ricordava ilsuo nome né il suo percorso. Eppure

era stato un cammino interes-sante, anomalo, quello che

l’aveva portata a ottenere l’o rd i -nazione rabbinica nella Germania

hitleriana nel 1935, e poi a morire ad Auschwitz nel 1944. Si chiamavaRegina Jonas, ed era nata a Berlino nel 1902. All’epoca la sua vicen-da aveva fatto un certo rumore e se ne era anche parlato nella stam-pa tedesca. Ma poi Regina Jonas era stata completamente dimentica-ta. La sua figura riemerse dall’oblio solo dopo la caduta del muro diBerlino, all’inizio degli anni Novanta, quando una studiosa, Kathari-na von Kellenbach, trovò in un archivio della Germania orientaleuna busta con alcuni suoi documenti, tra cui il certificato dell’o rd i n a -

Regina Jonasla rabbina

dimenticata

IN NOVEMILA C A R AT T E R I

di Anna Foa

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to rabbinico ortodosso, H i l d e s h e i m e r, le donne invece non erano am-messe): nel 1872 ce ne erano infatti ben 4 su 12 studenti e più tardi laproporzione cresce ulteriormente. Nessuna di loro, invero, aspiravaall’ordinazione rabbinica, ma a diplomi di insegnamento e al rappor-to con la società ebraica. Solo Regina voleva con tutte le sue forzediventare non un’insegnante ma una rabbina. Fra i suoi maestriall’Ho chschule c’era anche Leo Baeck, che aveva una grande stima dilei ma al momento di appoggiarla cercò invece di dissuaderla. Nel1935, infine, Regina ottenne il titolo agognato e diventò la prima rab-bina della storia. A darle l’ordinazione fu il rabbino liberale MaxDienemann, in una forma quasi privata.

Il periodo fra il 1935 e il 1942, in cui Regina esercitò a Berlino lafunzione rabbinica, la vide emergere per il carisma e le capacità. Purtenuta inizialmente ai margini, divenne ben presto una figura cono-sciuta e apprezzata. Viveva con sua madre e aveva rinunciato, assaipoco in accordo con la tradizione ebraica, a farsi una famiglia. Ebbeperò una relazione amorosa con un rabbino di Berlino, Joseph Nor-den, molto più vecchio di lei, anch’egli deportato a Theresienstadt elà morto nel 1943. Ed è proprio Norden, nel 1942, a interessarsi perfarla emigrare negli Stati Uniti, lontano dal pericolo. Ma Regina ri-fiuta di lasciare Berlino, sua madre, la sua congregazione. Il 6 no-vembre, con la madre, viene deportata a Theresienstadt.

Cominciano per Regina due anni intensi, chiusa nel ghetto, tuttivolti a lavorare per alleviare le sofferenze degli ebrei, dei bambini edei vecchi in particolare. Assolve insomma totalmente, nella deporta-zione, il ruolo di “p ro t e t t o re ” che aveva sempre sottolineato comecompito dei rabbini quando, anni prima, aveva sostenuto l’imp ortan-za del rabbinato femminile. Fra i dirigenti del Consiglio ebraico eraLeo Baeck, il suo antico maestro, colui che dieci anni prima le avevarifiutato l’ordinazione. Accanto a lui Regina opera, facendo ancheconferenze, mettendo la sua straordinaria capacità oratoria al serviziodegli ebrei in attesa di essere deportati ad Auschwitz. Lavora anchecon Viktor Frankl, lo psichiatra austriaco inventore della logoterapia.

La lista dei deportati ad Auschwitz del 12 ottobre 1944 riporta ilsuo nome accanto a quello della madre, e indica anche la sua profes-sione: Rabbinerin.

Né Baeck né Frankl, entrambi sopravvissuti, la nomineranno mainei loro scritti. Baeck, morto nel 1956, non ne fece mai parola.Frankl, morto nel 1997, ne parlò solo dopo che la sua storia fu risco-perta, negli anni novanta. Ma perché?

Eppure, Regina Jonas era stata un personaggio noto, la prima rab-bina della storia. La sua attività come rabbina negli anni Trenta a

zione rabbinica. Da allora la sua figura ha attratto sempre più l’at-tenzione, non solo in Germania ma anche negli Stati Uniti, dove apartire dall’inizio degli anni settanta era emerso un movimento fem-minista ebraico molto attivo che aveva dato vita, fra l’altro, a un vi-vace dibattito sulle donne rabbino.

Di Regina possediamo una sola fotografia: è vestita di scuro, con icapelli coperti, un bel viso e occhi intensi. Sembra più una donnaortodossa che la prima rabbina della storia ebraica. Era di famigliamodesta e tradizionalista, tanto suo padre che sua madre erano natiin Germania, suo padre era un piccolo commerciante morto precoce-mente. Dopo la sua morte la famiglia aveva preso a frequentare la si-nagoga di Rykerstrasse, inaugurata nel 1904, una sinagoga mista incui il culto era prevalentemente tradizionalista ma con aperture alcambiamento. Vi officiava negli anni della prima guerra mondiale an-che il rabbino Max Weil, che divenne il maestro di Regina, seguen-dola nei suoi studi. Era un rabbino legato alla tradizione, ma partico-larmente attento alla questione delle donne, tanto che fu tra i primi aintrodurre il bat mizvah, la maggiorità religiosa per le ragazze. Insom-ma, un mondo complesso di intrecci tra richiami alla tradizione e in-novazione che Regina modulerà a suo modo ma che, in altre forme,ritroviamo già nel suo percorso di studi. Un percorso che raggiungeuna prima tappa nel 1924, quando Regina si diploma e viene assuntaalla scuola religiosa di Annenstrasse diretta dal rabbino Bleichrode,anch’egli piuttosto vicino ai tradizionalisti ma non senza aperture so-prattutto in campo educativo. L’anno successivo, Regina si iscrive al-la Hochschule für die Wissenschaft des Judentums. Era il seminariodi studi rabbinici fondato a Berlino nel 1872 da Abraham Geiger, unascuola nata nell’onda del movimento di riforma ma ufficialmente pri-va di una formale aderenza a un qualsiasi movimento religioso, orto-dosso, liberale o riformato che fosse. Il professore di Regina alla Ho-chschule, Eduard Baneth, le assegnò una tesi di laurea significativa-mente intitolata «Possono le donne officiare come rabbini?».

È questo il contesto in cui Regina si forma, in cui porta a termineil suo complesso progetto di diventare rabbina. È un contesto chenon è certo ininfluente, una mescolanza fra attaccamento alla tradi-zione religiosa e apertura al nuovo che si sedimenta nella mente dellagiovane studiosa, che la segna e la muove. Regina non è affatto unastravagante, come all’epoca si cercò di farla passare. Studia in scuoleaperte, come sono tutte quelle che non sono esclusivamente ortodos-se (e gli ortodossi sono allora una minoranza fra gli ebrei tedeschi), eaccede a un istituto di studi rabbinici che nasce direttamentedall’Haskalah e dal movimento di riforma. Un istituto, sottolineia-molo, in cui erano ammesse donne fin dalla sua creazione (nell’istitu-

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loro una bambolache rappresenti illoro bagaglioculturale e religioso.In quest’ottica,Haneefahha realizzatouna Hijarbiespecifica in onoredella musulmanaIbtihaj Muhammad,che ha partecipatoe vinto una medagliadi bronzo nellasciabola a squadrealle Olimpiadidi Rio 2016.

In ArgentinaLucía Pérez,una studentessa diappena sedici anni,è morta per leorribili ferite internedopo esser statadrogata, violentatae poi impalata conun pezzo di legnoda tre uomini.Il terribile delittoè avvenutoa Mar del Plata,in Argentina.«In tutta la miacarriera non ho maivisto una cosa delgenere», ha detto ilpubblico ministeroMaría Sánchez.«Sono mamma diuna bambina, e nonriesco a dormirci lanotte».Ogni trenta ore nelpaese sudamericanouna donna vieneuccisa da un uomo.Tra gli effetti delbrutale omicidiovi è stato anche

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A pagina 16Marlis E. Glaser, ritratto

di Regina Jonas

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dannarla all’oblio sarebbe stato allora proprio quello che avrebbe do-vuto invece darle fama e memoria.

Al momento della sua ordinazione rabbinica, Regina aveva rispo-sto per iscritto a una giornalista che le chiedeva i motivi della suascelta. «Ma se proprio devo rivelare cosa mi ha guidato come donnaa diventare rabbino, mi vengono in mente due punti: la mia fede nel-la chiamata di Dio e il mio amore per la gente. Dio ha posto abilitàe chiamate nei nostri cuori, senza distinzioni di genere. Così ciascunodi noi ha il dovere, uomo o donna, di realizzare e operare secondo idoni che Dio ha dato. Guardando la questione in questa prospettiva,si prendono maschio e femmina per quel che sono: esseri umani».

Di Regina possediamo una sola fotografiaÈ vestita di scuro, con i capelli coperti, un bel viso e occhi intensiSembra più una donna ortodossa che la prima rabbina della storia

quello di coalizzarele argentinein una reazioneunanimenel tentativo direagire all’ondata diviolenza contro ledonne.Così, per un’ora,negli uffici, a scuola,nei negozi, neitribunali e nellefabbriche, le donnesi sono fermate il 19ottobre per direbasta alla violenzamaschilista con unosciopero lanciatodall’asso ciazioneNi Una Menos(“Nemmeno UnaMeno”).

In SudanCattive notizie: lespese per divise,cartelle, libri,quaderni e pennecontinuano adaumentare e lefamiglie non sonoin grado disostenerle,soprattutto quellecon più figli in etàscolare. Così inSudan è diventatodifficile studiare.Impossibile, poi,se si è femmine:l’impennata deiprezzi costringeinfatti i genitori atenerle a casa.A El Geneina,capitale del WestDarfur, si aggiungeil problema degliedifici scolasticiandati distrutti neimesi passati a causadelle forti piogge.

Berlino era stata importante. Dopo la sua riscoperta, erano emersevoci e testimonianze che raccontavano del suo carisma, dei suoi ser-moni. Persone che l’avevano vista, conosciuta, e che infine la ricorda-vano. E allora, perché non Baeck, perché non Frankl, uomini discrittura? Perché questa cancellazione, che ci impedisce anche di sa-pere quale era stato il suo ruolo nel lavorare accanto a Frankl, nel fa-re conferenze organizzate da Baeck? In assenza di testimonianze,possiamo anche ipotizzare che il suo ruolo sia stato importante, piùdi quanto non si pensi. E quindi che il gas di Auschwitz abbia impe-dito che capacità fondamentali le venissero riconosciute.

Una delle ipotesi che possiamo fare per spiegare il silenzio è chericordarla fosse diventato difficile dopo la Shoah. Che nel gran maredei caduti, degli annientati, dei dimenticati, la prima rabbina sia an-data perduta. Se fosse sopravvissuta, le cose sarebbero andate diver-samente. Possiamo immaginarcela riprendere le sue funzioni rabbini-che nella Berlino del dopoguerra, restando in Germania come avevascelto di fare quando le avevano offerto la possibilità di andarsene.L’altra ipotesi è che a condannarla al silenzio sia stato proprio il suoruolo di rabbina. Che chi l’aveva conosciuta abbia pensato che laShoah si era portata con sé anche questa strana donna, che aveva vo-luto assumere un ruolo solo maschile, e dimostrare che le donne era-no adatte forse più degli uomini a esercitare questo compito. A con-

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LA S C I E N Z I ATA

Non si udì mezza parola su di leiquando, nel 1962, Watson, Cricke Wilkins ricevettero il premioNobel per la medicina grazie al-la scoperta della struttura del

dna. Se il comitato non la incluse, fu perché itre moschettieri della doppia elica si guardaronobene dal ricordare il fondamentale apporto chele ricerche della scienziata avevano dato alla in-dividuazione della struttura tridimensionale de-gli acidi nucleici costituiti da lunghe catene mo-lecolari avvolte a elica. Lei, del resto, non poté

che sia stata proprio lei la vera scopritrice dellamorfologia a elica del dna.

Nel tempo, però, quasi sottovoce, il suo ap-porto cominciò a emergere. E così quando, do-po la vincita del Nobel, Watson scrisse Th e

Double Helix (bestseller tradotto in 17 lingue)non poté non citarla. Ma lo fece minimizzando-ne il più possibile l’apporto, denigrandola comedonna e come scienziata. Nel libro, infatti,Franklin viene presentata come femmina lunati-ca, irascibile, inaffidabile («la ragazza stavadando più fastidi che mai») e trascurata («Diproposito non faceva nulla per mettere in rilievola sua femminilità»).

Tanta misoginia, del resto, determinò uncambio di editore: se inizialmente Watson erastato messo sotto contratto dalla Harvard Uni-versity Press, dopo che ne era circolata una pri-ma bozza, la casa editrice lo rescisse: non eraun problema di merito del resoconto, quantodel fatto che il testo offendeva molti, tra cui co-lei che non era più in grado di difendersi. Seb-bene Watson avesse poi eliminato o attenuatoalcuni dei passaggi sotto accusa, ugualmente illibro fu pubblicato da un editore commerciale.

Dagli anni Cinquanta a oggi la carriera deldna è stata folgorante: nel giro di sole due ge-nerazioni, è passato dall’essere dominio di nic-chia ad avere un posto centrale nel linguaggioquotidiano. Fonte d’ispirazione per artisti epubblicitari, protagonista al cinema, nei roman-zi o nelle pubblicità, il dna è ormai il simbolodella scienza che spiega il mondo, vera iconadella modernità. La storia della sua scoperta,però, è anche l’ennesima testimonianza di comel’apporto femminile venga minimizzato: il dna eWatson sono ormai arcinoti, di Rosalind Fran-klin, invece, pochi conoscono nome e vicenda.

lamentarsi di quel silenzio: cristallografa profes-sionista, Rosalind Franklin era morta qualchetempo prima di tumore a 37 anni, il 16 aprile1958, forse anche a causa delle radiazioni a cui isuoi studi l’avevano lungamente esposta.

Nata nel 1920 in una famiglia inglese di ori-gine ebraica, Franklin studiò a Cambridge, ini-ziando la sua carriera di ricercatrice a Parigi econtinuandola poi al Kings College di Londra.Fu qui che le sue foto del dna (viste all’insaputadella donna) folgorarono Watson, che in esse ri-conobbe la raffigurazione della doppia elica.Nel 1952 infatti, utilizzando una macchina da leimodificata, Franklin aveva ottenuto la foto deldna nella sua forma b. Ciò, unito all’analisi delsuo epistolario e alle interviste ai protagonistiminori della vicenda, ha indotto molti a ritenere

Un’elica moncadi GIULIA GALEOTTI

FO CUS

di SI LV I N A PÉREZ

Tace da trentatré anni, ormai, la voce di Marianella García Villas, l’av-vocata dei poveri e dei contadini, figlia privilegiata della ricca bor-ghesia del Salvador ma eletta in parlamento dalle donne del popolo.È stata dimenticata da quel giorno del marzo 1983 in cui la giuntamilitare al potere nel suo paese decise di torturarla brutalmente e as-sassinarla. Le sue denunce e le sue prese di posizione in difesa deidiritti umani erano divenute inaccettabili per il potere. Pertanto, co-me accaduto tre anni prima per Óscar Romero, con il quale aveva alungo collaborato, anche la sua voce viene messa a tacere per sem-pre. Ucciso il 24 marzo 1980, mentre stava celebrando la messa, Ro-mero aveva denunciato per anni le ingiustizie del suo paese e le vio-lenze della polizia e dei militari contro i più deboli. Aveva visto ca-dere, sotto i colpi dei paramilitari uno dei suoi più stretti collabora-tori, il sacerdote gesuita padre Rutilio Grande. L’omicidio colpì pro-fondamente Romero, che tempo dopo disse: «Quando guardai Ruti-lio che giaceva morto davanti a me pensai: “Se lo hanno ucciso per

M a r t i redei diritti umani

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creati per la difesa dei diritti umani. Per questo motivo la radio subìdue attentati dinamitardi. Il 23 marzo 1980 l’arcivescovo invitòapertamente gli ufficiali e tutte le forze armate a non eseguire gli or-dini, se questi erano contrari alla morale umana. Il giorno dopoÓscar Arnulfo Romero fu trucidato mentre celebrava la messa. Du-rante le esequie l’esercito aprì il fuoco sui fedeli, compiendo un nuo-vo massacro.

Ci sono voluti trentacinque anni per riconoscere che l’a rc i v e s c o v odi San Salvador fu martirizzato in odium fidei e quindi degno d’e s s e reproclamato beato, mentre la figura di Marianella è stata pressochédimenticata. Nel primo anniversario dell’assassinio di monsignor Ro-mero, Marianella ricordò l’arcivescovo sul bollettino della commissio-ne per i diritti umani, chiedendo a gran voce di «non lasciare seppel-lire insieme con il profeta anche le sue parole». Più volte minacciatadi morte, visitò vari paesi europei tra il 1981 e il 1982. Durante unsuo viaggio in Italia, nel 1981, partecipando a una manifestazionenella città di Padova, testimoniò il dramma vissuto dal suo popolo,sottolineando l’insufficiente e inadeguato impegno a livello interna-zionale nella difesa dei diritti umani. L’impegno nei confronti degliemarginati la ricondusse nel suo paese. Rientrata clandestinamente inSalvador, fu brutalmente assassinata il 13 marzo 1983. Il battaglioneAtlacatl dell’esercito salvadoregno la torturò fino alla morte per im-

ciò che faceva, allora io devo seguire il suo stesso sentiero”». Quelsentiero ha una data precisa, il 24 novembre 1977, data in cui si in-treccia il percorso di monsignor Romero a quello della giovane Ma-rianella García Villas. È il momento in cui l’assemblea legislativa delpaese approva la Legge di difesa e garanzia dell’ordine pubblico chedi fatto dà mano libera al governo nell’attività di repressione. Accan-to agli arresti cominciano a esserci anche le sparizioni: così quello deid e s a p a re c i d o s diviene un fenomeno anche salvadoregno. In tale situa-zione di diffusa violenza, l’arcivescovo di San Salvador promuove,

Tace da trentatré anni la voce di Marianella García Villasl’avvocata dei poveri e dei contadini

È stata dimenticata da quel giorno del 1983 in cui la giunta militaredecise di torturarla brutalmente e assassinarla

pedirle di denunciare il ricorso alle armi chimiche, tra le quali il na-palm e il fosforo bianco, usate nelle stragi dei contadini salvadore-gni.

Rimane solo il volume Marianella e i suoi fratelli, pubblicato nel 1983,scaturito dalle alcune conversazioni avute con Marianella tra il 1981 e1982, durante il suo soggiorno in Europa. Gli autori pensavano ini-zialmente d’intitolarlo Antigone e i suoi fratelli, considerando le affinitàcon la figura mitologica. Ma Marianella non aveva bisogno di essereassimilata a un mito, era un mito lei stessa, per il suo coraggio, perla sua morte.

Particolare del monumentoalla Memoria e alla verità

(San Salvador)

insieme a sei giovani avvocati, la creazione di un gruppo di «soccor-so giuridico», organismo che fornisce assistenza agli imputati e con-temporaneamente prepara per l’arcivescovo notizie precise e circo-stanziate da denunciare durante le omelie. Ogni fine settimana Ma-rianella fa avere a Romero un rapporto dettagliato su quanto avvenu-to nel paese: uccisioni, torture, massacri, sparizioni. Così Romeropuò preparare l’omelia domenicale.

Le omelie di Romero sono molto lunghe, durano anche un paiod’ore e sono seguite per radio in tutto il Salvador e paesi confinanti,diffondendo la conoscenza della situazione di degrado in cui la guer-ra civile stava gettando il paese. La radio cattolica Y.s.s.x. «La vocePanamericana», attraverso cui l’arcivescovo Romero trasmetteva lesue omelie, era rapidamente diventata un punto di riferimento. Ogniomelia era divisa in tre parti: una prima dedicata ai testi della liturgiadella Parola con applicazioni al tempo liturgico e alla vita cristianadei fedeli che lo ascoltano; una seconda parte più pastorale e dioce-sana; infine una terza parte con l’analisi della situazione del paese econ la denuncia precisa e circostanziata degli episodi di violenza edei sequestri. Per la preparazione di quest’ultima parte delle omelie,Romero si consultava quotidianamente con il gruppo del Soccorsogiuridico coordinato da Marianella e con i vari organismi diocesani

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LA S A N TA DEL MESE

Un parlatorio di un monasterobenedettino in una mattina diun giorno feriale. La luce ta-gliente del sole di montagna siposa su alcuni fogli che la ma-

dre priora mi ha appena messo nelle mani peraccompagnarmi in un viaggio particolare. Nonresisto e inizio a leggere facendo subito unascoperta: il 28 gennaio 1932 a Zurigo una donnadi quarantuno anni, Edith Stein, si appresta aparlare di un’altra donna, Elisabetta d’Unghe-ria, morta sette secoli prima appena ventiseien-ne e lo fa con un’intelligenza e una profonditàche trascinano il lettore di oggi in un altromondo, nella dimensione senza tempo dellagrazia di Dio all’opera. «Più una persona è as-sorbita profondamente in Dio — scrive nel 1928a suor Callista Kopf la giovane filosofa tedescaormai battezzata da qualche anno — più deve inun certo senso “uscire da sé” per penetrare ilmondo e portarvi la luce divina». È forse perquesto “u s c i re ” da sé che le due sante, separatedai secoli, si ritrovano una vicina all’altra a ope-

Nel mondoper portare

la luce divina

Santa Elisabetta diUngheria in un ritrattodel pittore fiammingoJan Provooste, a pagina 26,in un dipintodi Pietro Nelli (1365)

rare nelle tenebre del mondo. La polvere e ilvento di Westerbork, aspettando la morte comefiglia del popolo ebraico, per Teresa Benedettadella Croce strappata al Carmelo di Echt, la po-vertà e le malattie senza rimedio per la giovanis-sima Elisabetta, figlia del re Andrea II d’Unghe-ria.

Discendente di Carlo Magno per parte ma-terna, la principessa pare avviata a una vita dicorte. Nata nel 1207, trasferita dall’Ungheria aEisenach nel castello di Wartburg, la giovaneungherese è destinata a sposare Luigi IV di Tu-ringia, discendente di nobilissima famiglia.«Tutti i fatti che sono riportati su sant’Elisab et-ta, tutte le parole che di lei ci sono pervenute —scrive Edith Stein — ci rivelano di lei una cosasola: un cuore ardente che stringe tutto ciò che

la circonda con un amore profondo, tenero e fe-dele.» Lo Spirito santo ha infatti altri progettisu questa ragazza. Insofferente verso le ingiusti-zie che vede perpetrate a danno dei più poveri,incapace di conformarsi a una vita nobiliare difalsa etichetta ma soprattutto completamente in-fiammata di amore per l’eucaristia, Elisabetta,ormai madre di tre figli e giovanissima vedova,abbandona il castello di Wartburg e nel venerdìsanto del 1228, a ventuno anni, «pone le suemani sullo spoglio altare della chiesa francesca-na di Marburg» e inizia a vivere pienamentel’ideale di san Francesco. L’amore «ardente emisericordioso che si apre a tutti gli infelici e atutti gli afflitti», contagiando chiunque la avvi-cina, e una gioia spontanea e quasi infantile, so-no questi i due tratti che mai l’abbandonerannonel suo percorso terreno: era solita offrire ai

di FERDINAND O CANCELLI

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bambini più poveri, ci racconta Edith Stein, al-cuni semplici giocattoli per poi fermarsi a gio-care con loro. In breve tempo tutti la chiamava-no “mamma” e lei era solita ripetere: «Ve l’hosempre detto, occorre solamente fare felici ip overi!».

In Elisabetta, fondatrice di un ospedale pergli ultimi tra i miseri, sembrano convivere, se-condo la Stein, una naturale «spontaneità» e

«una lotta impietosa contro il proprio tempera-mento»: in altre parole «l’amabile santa dellafelicità più fresca, così seducente per sua pro-pria natura, è nello stesso tempo un’asceta au-stera». Sotto la direzione spirituale di Corradodi Marburg, al quale resterà obbediente fino al-la morte, a poco a poco Elisabetta impara a do-minare la propria natura e a temperare, almenoin parte, la volontà. Negli ultimi tre anni dellavita resterà nel suo ospedale accanto ai malati eai poveri occupandosi dei compiti più umili efermandosi fino a tarda notte anche con quelli«troppo deboli e stanchi per poter tornare a ca-sa». Difficile non fare un balzo in avanti nei se-coli per rileggere la preziosa testimonianza diun certo signor Marcan imprigionato nel 1942 aWesterbork con Edith Stein: «Suor Benedettapassava tra le donne come un angelo di conso-lazione, sollevandone alcune, curandone altre.Molte madri — continua il testimone oculare —sembravano cadute in uno stato di prostrazioneche sfiorava la follia: restavano là a gemere, co-me inebetite, abbandonando i loro bambini.Suor Benedetta si occupava subito dei bambinipiù piccoli, li lavava, li pettinava, procurava lo-ro il cibo e le cure necessarie».

Sull’obbedienza che la giovane principessaungherese doveva al suo direttore spirituale è lastessa Edith Stein a rivelarci un particolare im-pressionante: «Su un solo punto non cedettemai completamente: tenere con sé, in più rispet-to al servizio in ospedale, un bambino affettoda una malattia particolarmente orribile ed esse-re la sola a occuparsene». Corrado di Marburgriferirà personalmente a papa Gregorio IX chealla morte di Elisabetta un bambino malato discabbia «era ancora là, seduto al suo capezza-le». Elisabetta d’Ungheria, «elevata fino a que-st’umanità compiuta — conclude Edith Stein —pura espressione della natura liberata e trasfigu-rata dalla forza della grazia» diventerà santa nel1235, a soli due anni dalla morte.

Ferdinando Cancelli

Nato a Torino nel 1969, dopo gli studiclassici ha esitato tra lettere, storia emedicina. Diventato medico, ha ottenutoil diploma post-laurea in medicinapalliativa all’università Claude Bernard diLione (Francia) e il perfezionamento inbioetica all’Università Cattolica del SacroCuore. Dopo aver trascorso un periodo dilavoro come Chef de clinique all’Hôpitalde Bellerive (Ginevra), esercita laprofessione di medico palliativista aTorino per la Fondazione F.A.R.O. onlus.Sposato con Clara dal 1997, ha condivisocon lei il cammino per divenire oblatosecolare dell’abbazia Mater Ecclesiaesull’isola di San Giulio e deve moltissimoalla sua famiglia monastica. Per «donnechiesa mondo» ha scritto la storia diGiuliana di Norwich (novembre 2015).

NELL’ANTICO T E S TA M E N T O

Giudittala salvatrice

di MERCEDES NAVA R R O PUERTO

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Giuditta è un’eroina, una guerriera: il suo profilo rie-cheggia il mito e l’archetipo dell’eroe, ma al femmini-le. Non è un fatto nuovo nella Bibbia né altrove, nelmondo attuale, dove sta crescendo il numero delleeroine nei fumetti, nel cinema, nelle serie televisive e

nei romanzi. La Giuditta biblica dà il nome al libro che racconta lasua storia, come avviene con alcuni uomini, profeti (Isaia, Ezechiele,Giona) o personaggi del mondo sapienziale (Giobbe), e con altredonne (Rut ed Ester).

Giuditta è presentata come figlia di Merari e vedova di Manasse.Il narratore aggiunge una genealogia di sedici generazioni, una dellepiù lunghe della Bibbia ebraica. La genealogia o elenco degli antena-ti, serve a sottolineare l’importanza di un personaggio. I grandi eroibiblici, come Abramo, i re e numerosi capi, hanno una loro genealo-gia, ma è abbastanza raro che venga attribuita a una donna. La ge-nealogia fa di Giuditta un personaggio che può misurarsi con i gran-di eroi biblici.

Il nome Giuditta deriva dal femminile ebraico yehûdit, che vuoledire giudea. Non è un nome biblico comune, ma neppure insolito. Sichiama Giuditta anche la moglie di Esaù, figlia di un ittita chiamatoBeeri. La possibilità che Giuditta sia un nome simbolico o una meta-fora del popolo è confermata da altri nomi nel libro, come quellodella città, Betulia, ignota agli studiosi sebbene il testo la collochi anord di Gerusalemme. Betulia potrebbe essere uno pseudonimo diBetel o una rappresentazione metaforica del popolo ebraico. È pro-babile che il toponimo Betulia derivi da betulah, termine ebraico chesignifica vergine o donzella.

Oloferne, un generale dell’esercito di Nabucodonosor, cerca diconquistare Israele. Ha già invaso altri paesi con notevole successo,ma nella sua offensiva militare si scontra con la resistenza di una pic-cola città ebraica chiamata Betulia. Pronto a distruggerla, la sottopo-ne a un duro assedio. Betulia è in grave difficoltà e comincia a dispe-rare. Quando i suoi abitanti, d’accordo con i loro capi, sono prontiad arrendersi, appare una giovane vedova, Giuditta, che sfida tutti innome del Signore e traccia un piano per sconfiggere il nemico. Ser-vendosi della sua bellezza e della sua astuzia, Giuditta s’infiltranell’accampamento di Oloferne e, una volta conquistata la sua fidu-cia, lo uccide mozzandogli il capo. In questo modo Giuditta provocala fuga dell’esercito nemico e ottiene la vittoria di Betulia, che l’ac-clama come grande eroina e rende grazie a Dio.

Il libro, come pure l’argomento e il personaggio, non è storico, seci atteniamo al nostro concetto attuale di storia. Viene definito piut-

Francisco Goya«Giuditta e Oloferne»(1819-1823)

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con il resto degli uomini è anch’esso profondamente ironico, ironiache raggiunge l’apice nel rapporto con Oloferne, soprattutto quandol’autore utilizza termini erotici per descrivere il brutale assassinio.

Anche i personaggi minori sono presentati in una luce ironica:Achior, guerriero di professione, sviene di fronte al capo mozzato diOloferne; uomo di azione, si rivela un saggio; pagano ammonita,mostra più fede nel Dio d’Israele degli stessi israeliti, dei maestriebrei a Betulia. Ozia, conforme allo stereotipo femminile, si nascon-de dietro le mura della città, mentre Giuditta, conforme allo stereoti-po maschile, esce per affrontare apertamente il nemico. L’intero libroappare dunque pervaso da un ironico rovesciamento, il suo asse er-meneutico.

La storia di come il libro e il personaggio di Giuditta sono statirecepiti è complessa. Gli ebrei hanno avuto difficoltà ad accettarlocome libro ispirato e non è stato facile inserirlo neppure nel canonecristiano. Alcune difficoltà sono legate al personaggio di Giuditta,

Ha insegnato AnticoTestamento ePsicologia dellareligione nellaPontificia università diSalamanca ed èprofessoressa onorariadel Dipartimento distudi ebraici e aramaicidell’universitàComplutense di

tosto come una storiella, un romanzo breve (folktale) in cui si narranole gesta esemplari di una vedova pia che prende la coraggiosa deci-sione di sconfiggere il nemico, sostenuta dalla sua fede religiosa. C’èchi crede che sia una specie di racconto folcloristico ed epico, checombina la storia della moglie fedele con quella della donna guerrie-ra. Ma Giuditta vuole essere un libro storico, visto che include alcunidati ben noti, insieme ad altri assolutamente sconosciuti, sebbenenon improbabili, riguardanti l’etnia, le persone, i luoghi e i nomi.D’altro canto, il suo argomento è perfettamente credibile e verosimi-le. Nel racconto è assente qualsiasi intervento miracoloso di Dio.Non sono neppure i riti, le frequenti preghiere e il digiuno i fattoriche influiscono maggiormente sulla vittoria, ma piuttosto il coraggiodell’eroina e della sua gente a sconfiggere il nemico. Si ritiene quindiche la narrazione possa contenere un nucleo storico, una storia di as-sedio e vittoria sul nemico per mano di una donna, avvenuta in epo-ca persiana, al tempo di Artaserse III, periodo in cui si collocanotemporalmente i fatti. Però il libro contiene una gran numero di “er-ro r i ”, probabilmente deliberati, ma molti di essi carichi di ironia. Inrealtà, l’ironia pervade tutta l’opera, il suo tema, i discorsi e i perso-naggi. Oloferne, per esempio, è un personaggio presentato in modoironico perché, dopo aver conquistato tutto l’ovest, non riesce a sot-tomettere una piccola città come Betulia, e nemmeno a dominare unadonna, che lo uccide con la sua stessa spada.

Giuditta viene concepita e trattata come un personaggio parados-sale: vedova senza figli, è lei a dare vita fisica al suo popolo sconfig-gendo il nemico, e vita spirituale restituendogli la fede e la speranzain Dio. Bella e desiderabile, vive come nubile. Donna ricca, trascorrela maggior parte della sua vita nel digiuno. Dall’apparenza fragile emolto femminile, è capace di uccidere brutalmente con le sue stessemani il capo di un esercito molto potente. Il rapporto di Giuditta

L’autrice

Giovanni FrancescoRomanelli

«Giuditta e Oloferne»

Madrid. Attualmente èdirettore per la linguaspagnola della raccoltainternazionale emultilingue «La Bibliay las mujeres». La suapubblicazione piùrecente è Violencia,

sexismo, silencio. In-

conclusiones en el libro

de los Jueces (Evd,2013).

considerata come moralmente discutibile, perché eser-cita la violenza, e pericolosa perché donna libera e au-tonoma. Il dubbio morale attorno alla violenza è radi-cato nella sua condizione di donna, visto che moltipersonaggi biblici maschi violenti non sono stati messiin discussione dal punto di vista morale.

Il libro di Giuditta presenta una ricca intertestualitàbiblica, una sorta di condensazione di allusioni, evo-cazioni, tematiche, modelli, personaggi e situazioni.Qui menzioniamo solo l’intertestualità femminile, chefa pensare a Giuditta come a una specie di antologiadi testi biblici che si occupano di donne. Così, sullosfondo del personaggio e delle sue azioni, ritroviamoMiriam, Debora, Giaele, Sara, Rebecca, Rachele, Tamar, Noemi,Rut, Abigail, Betsabea e altre. Ad esempio, Giuditta ricorda l’astuziadi Sara, Rebecca, Tamar e Dalila nel raggiungere il proprio fine conl’inganno intelligente. E come loro, finisce coll’avere un enorme in-fluenza sulla storia del popolo, sul futuro di Betulia e d’Israele.

Giuditta è una vedova senza figli, come lo erano Noemi, Rut, Abi-gail e Betsabea. Come loro dimostra una particolare abilità nell’a p r i reun cammino per sé e per tutto il popolo. A differenziarla da questedonne è la maternità, poiché, mentre Betsabea e Rut — e attraversodi lei Noemi — presto o tardi hanno figli biologici, Giuditta, più vici-na alla figura di Debora (cfr. Giudici 5-7) è madre del popolo.

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Ci sono analogie anche tra Giuditta e Rut, l’altra vedova senza fi-gli, in passi che sembrano un’eco del libro di Rut: Oloferne dice aGiuditta «il tuo Dio sarà mio Dio», le stesse parole che Rut dice aNoemi e si legge che «si radunarono tutte le donne d’Israele per ve-derla e la colmavano di elogi e composero tra loro una danza in suoonore», eco di quanto avviene alla fine del libro di Rut. Se poi ricor-diamo che il nome di Giuditta evoca quello della moglie ittita diEsaù, l’analogia con Rut appare ancora più evidente, visto che que-st’ultima era moabita. Giuditta è ebrea, ma ironicamente ricorda edevoca due donne straniere che contribuirono a costruire o edificare lacasa di Israele. Giuditta inoltre, come fece Rut con Booz, si adagia aipiedi di Oloferne e non dimentichiamo che, alla fine del cantico chele donne dedicano a Giuditta, vengono menzionati i sandali che evo-cano la ratifica del rito di Booz come go’el.

Degne di menzione sono anche le analogie con la storia di Deborae Barak e di Gioele e Sisara. Giuditta finisce con l’eclissare Achior,come fa Debora con Barak. Ma il parallelismo più interessante stanella funzione profetica di entrambe le donne rispetto ai capi del po-polo. Giuditta, come fa Debora con Barak, rimprovera i capi del po-polo per la loro scarsa fede. E, leggendo le imprese di Giuditta, èimpossibile non ricordare Giaele (e anche Dalila). Giaele, come lei,conquista la fiducia di un generale nemico, lo seduce e lo inganna

È un’eroina, una guerriera, un personaggio che può misurarsicon i grandi eroi bibliciVedova senza figli è lei a dare vita al popolo sconfiggendo il nemico

per sconfiggerlo più facilmente. Come Giuditta, anche Giaele era sta-ta lodata dalle donne e, se Giuditta dà una pace duratura a Israele,di Giaele si diceva che aveva offerto quarant’anni di tranquillità alp op olo.

Concludiamo menzionando un altro aspetto di Giuditta riguardoai ruoli di genere. Achior, uomo atipico, evolve come personaggioverso una progressiva femminilizzazione, mentre Giuditta, donna ati-pica, in determinati momenti si adegua al prototipo femminile utiliz-zandolo come strumento d’azione. Tutti e due mostrano un certogrado di trasgressione. Entrambi si collocano al confine del genereculturalmente assegnato loro e superano i limiti socialmente stabiliti.

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Sdraiato sul crinale di una collina delMejlogu c’è Siligo. Siligo è attraver-sato da una sola strada maestra,s’i s t ra d o n e , distesa al sole come unabiscia lucente. Una main street su cui

affacciava, ancora fino a qualche tempo fa, unateoria contrapposta di case a un piano. Con treeccezioni: la casa della famiglia di FrancescoCossiga, costruita a due piani fin dall’origine, lacasa di Gavino Ledda, lo scrittore di Padre e pa-

drone e infine la casa natale di Maria Carta.

«Per quella strada cantavo sempre... alloracantavo a voce delirante»: Maria si ricordabambina. Aveva otto anni quando cominciò afar sentire la sua voce nella chiesa di Siligo. Unpassaggio esistenziale, rivissuto per sempre co-me una scena primaria: capitò per il funerale diun suo compagno morto a dieci anni, che into-nasse con tutta la forza che aveva nell’anima unterribile Dies irae. Ne rimase tanto provata,sconvolta nel profondo del cuore, che la madrele impose di non cantarlo più. Vissuto come untabù, il divieto fu infranto e il trauma rivissutoquando decise di intitolare proprio Dies irae il

suo album del 1975 dedicato al canto gregoria-no, in latino come Adoro te devote, l’inno eucari-stico attribuito a san Tommaso d’Aquino, masoprattutto in logudorese, come Ave mama ’e

deu, cioè l’Ave maris stella ritenuta di Paolo Dia-cono che visse nel secolo VIII.

«Die tràgicu su die / morit su mundu in fia-ma / comente est profetizadu» (“Giorno tragicoquel giorno / muore il mondo in fiamme /com’è stato profetizzato”): forse non è inutilequi ricordare che la parlata del Logudoro, che siparla ancora nel Mejlogu, regione storica dellaSardegna, non è un dialetto ma una vera e pro-pria lingua romanza... La più vicina al latino fratutte le varianti del sardo, e forse per questoparticolarmente adatta a trovare sottili e sublimicorrispondenze con la cultura musicale in cui siafferma lungo i secoli il canto gregoriano. Comeha scritto in quell’occasione Severino Gazzello-ni, «Maria Carta è la sola nella cui arte possafondersi la modalità gregoriana con le astuzie diuna moderna orchestrazione»

Nella doviziosa biografia, Maria Carta, che leha dedicato nel 1999 Emanuele Garau per leEdizioni Della Torre, si cita parola per parolauna confessione in pubblico, rivelatrice di unapersonale filosofia di vita, durante un concertoa Bologna nel 1988, in occasione del nono cen-tenario dell’università che proprio quell’anno leaveva affidato la docenza in Antropologia cultu-rale: «Io purtroppo non ho avuto la possibilitàdi trascorrere la mia giovinezza china sui libri,ma affaticando la schiena sul lavoro, ed esserequi oggi è molto importante per me, perché mirendo conto che nella vita ciò che conta non èla fortuna che si ha in gioventù, ma quanto siriesce a costruire da soli».

ARTISTE

Il coraggiodi cantareil Dies irae

Mural dedicato a Maria Cartanella piazza di Siligo

di PA S Q UA L E CHESSA

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LUCA 21, 20-28

Le parole di Gesù sono suscitate daciò che lui vede e ode nel tempio.Gesù vede la cosa più normale delmondo, cioè l’ingiustizia spudoratadei ricchi che mettono briciole del

loro superfluo nel tesoro del tempio, e ode losguardo insipiente di chi si crede garantito dallamagnificenza del tempio. Ma vede anche l’amo-re per Dio e per i poveri di una poverissima ve-dova. Questo ci fa intuire che il discorso di Ge-sù non riguarda un tempo speciale, unico, iltempo della consumazione finale del mondo,ma il tempo della storia, quella in cui viviamo eche è colpita di continuo da guerre e catastrofi.

Gesù vede e ode che gli uomini nel benesserenon capiscono, e che sempre rischiano di spari-re, inconsapevoli di tutto: del male che hannofatto, del bene che hanno tralasciato di fare.Proprio come ai tempi di Noè, e di Lot, e comeai suoi e ai nostri giorni. Gesù guardava la real-tà con la sapienza delle Scritture sante d’Israele,

ME D I TA Z I O N E

Per chi stasempre peggio

degli altri

a cura delle sorelle di Bose

Francesco Hayez, «La distruzionedel tempio di Gerusalemme» (1867, particolare)

A pagina 40, mosaico dell’obolo della vedovain Sant’Apollinare Nuovo (Ravenna)

Una strada difficile quella che Maria scegliespinta dalla sua voce... Già ragazza si fa cono-scere come cantante popolare. La sua bellezza,che più sarda non si può e che le frutta il titolodi Miss Sardegna nel 1957, in un primo momen-to non sembra favorire il disegno del destino.La musica sarda infatti è sempre stato un affaredi uomini...

Nel 1958 Maria Carta attraversa il mare e ap-proda in continente. È la sua prima vittoria. Lapiù importante. Deve vincere l’incubo di nonessere capita, cioè che la lingua sarda non siaadatta a comunicare fuori dall’isola. Il resto ègià tutto scritto nel suo carattere. Studia, comenon ha mai fatto, seguendo l’insegnamento diDiego Carpitella, direttore del Centro studi dimusica popolare. Nel 1971, dopo due album incollaborazione con il grande musicologo sardoGavino Gabriel, la Rai manda in onda un sofi-sticato documentario guidato dalla famosa vocedi Riccardo Cucciolla intitolato semplicemente

Incontro con Maria Carta. La partecipazione aCanzonissima nel 1974 dove impone la suastraordinaria presenza va insieme all’uscitadell’album Delirio in cui può vantare una intro-duzione di Giuseppe Dessì, famoso scrittoresardo che ha vinto qualche anno prima il Pre-mio Strega con Paese d’o m b re : «Il suo bel viso,la fierezza e insieme la grazia del suo portamen-to, più che un simbolo, sono una personifica-zione di quella Sardegna intangibile e indomitache ho sempre amato. Quando la sua voce cal-da e potente si alza e riempie lo spazio, si apro-no infiniti orizzonti che scendono nella storia.Dopo aver conosciuto Maria Carta, ancora unavolta affermo che i soli grandi uomini della Sar-degna sono le nostre donne».

Maria sa bene come sono fatte le donne sar-de: proprio in quegli anni rifiuta l’offerta deiTaviani di fare la parte della madre nella versio-ne cinematografica di Padre padrone, perché nelcopione non ha ritrovato il carattere di una «ve-ra madre sarda». Un’interpretazione che nonandrà perduta quando decide di prestare il suovolto alla signora Antolini, madre di Vito Cor-leone nel Padrino II di Francis Ford Coppola.In teatro aveva debuttato nella Me d e a di FrancoEnriquez. Nel cinema il suo volto arcaico si im-pone in molti film fra cui il Gesù di Zeffirelli eCadaveri eccellenti di Rosi.

Si arriva così al passaggio cruciale quando ledifficoltà della vita, travagliata da morti e sepa-razioni, la colpiscono nel profondo del suo cor-po. Perde l’amore e contemporaneamente la vo-ce. Arriva il cancro senza speranza a completarel’opera. Ma riesce a ritrovare se stessa arrivandoal punto di partenza, quando rimase straziata aotto anni dopo aver cantato il Dies irae. Nel suoultimo album del 1993, un anno prima dellamorte, torna il canto gregoriano e primo fra tut-ti proprio il Dies irae.

Alfa e omega.

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e ascoltava queste guardando a ciò che avevadavanti agli occhi, alle persone che incontrava.

Gesù ci insegna che non occorre essere indo-vini per conoscere lo scatenamento dei poteriingiusti. Che basta vedere una donna vedovache possiede solo due spiccioli, una persona af-famata, od oppressa — quei poveri che, con tri-stezza, disse che avremmo avuto sempre con noi— per comprendere l’esistenza di quei poteri in-giusti che li hanno derubati e schiacciati così,per comprendere la guerra più ingiusta e peren-ne, quella dei ricchi contro i poveri. Gesù inse-gna che basta vedere una persona nata cieca, unparalitico, lo strazio di un padre per la sua pic-cola figlia moribonda, per comprendere la fragi-lità, la precarietà di ogni vita. E usando parole eimmagini profetiche, Gesù evoca i terrori e i do-lori che le guerre e le catastrofi suscitano sem-pre negli esseri umani. Gesù insegna ai discepo-li a vedere la pena, la fatica e la paura degli al-tri, tutti e tutte. Ad avere uno sguardo intelli-gente e compassionevole, che sa che tutti e tuttomorirà, che sa la pena di questa perenne minac-cia.

Parla di una Shoah («tempesta») per Gerusa-lemme, per Israele, che ben sappiamo non esse-re né la prima, né l’ultima. Ed esorta: non ten-tate di salvare la vostra roba, non ci sarà temponeppure di congedarvi dai cari. Gesù parla co-me Geremia al capitolo 45: il solo bottino che ilSignore possa aiutarvi, eventualmente, a salvareè la vostra nuda vita.

E parla di quelle persone che, nel disastro ge-nerale, stanno, comunque e sempre, peggio de-gli altri: le donne incinte e quelle che allattano,memore del gemito profetico: «Beate le steriliche non hanno partorito...». È meraviglioso cheGesù nei suoi pensieri veda queste povere don-ne, le più povere tra le povere, nell’angosciadella fuga. Non solo perché volge il suo sguar-do realistico e compassionevole e del tutto inu-suale verso le donne, ma anche perché vede,forse, in esse una situazione evangelicamenteparadossale: le donne incinte e quelle che allat-tano — che vivono con tutto corpo a favoredell’altra creatura umana che allevano in sé otra le braccia — non possono dar loro la vita chevivendo, e non morendo: incombe su di loro ildovere di salvare anche se stesse.

E poi Gesù esorta i suoi a non avere paura,come dirà l’angelo alle donne, alla sua tomba, ilmattino di Pasqua. Rialzate la testa e guardate:all’orizzonte c’è la venuta del Figlio dell’uomo.Non conformatevi alla paura che fa tremare ilmondo. Non siate come quelli che non sanno lapromessa del Signore, non tremate come quelliche non lo attendono. Non abbiate paura, poi-ché solo la paura per la vostra vita vi può impe-dire la libertà e l’attenzione indispensabili a vi-vere nell’amore. Come la poverissima vedova,non datevi pensiero per la vostra vita. Non ab-biate paura perché la fine sarà un ritorno, unincontro, occhio contro occhio.