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Così uccidono

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Gaetano Messineo, racconti criminali. Con questo libro l’autore cerca di porre all’attenzione comune piccoli schizzi di quella realtà a volte velata, altre volte clamorosa, che si vive e si è vissuta in Calabria nella storia recente del nostro Paese. Storie brevi, che vogliono stimolare il lettore e portare la sua attenzione su come il fenomeno ’ndrangheta sia ormai entrato prepotentemente nel nostro vivere quotidiano. Sono fotografie di un mondo che si regge su un equilibrio secolare e del quale ognuno di noi è pedina spesso inconsapevole. Sono storie di uomini e di donne, dove boss, killer, operai, giornalisti, politici si incontrano in quel territorio paludoso e torbido che è la mafiosità, l’atteggiamento anti-Stato spesso irriverente e intimidatorio che ha proiettato intorno alla nostra terra un alone di misterioso timore.

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In uscita il 22/7/2016 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine agosto e inizio settembre 2016

(2,99 euro)

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GAETANO MESSINEO

COSÌ UCCIDONO Racconti di ‘ndrangheta

www.0111edizioni.com

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COSÌ UCCIDONO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-9370-014-6 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2016 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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In realtà non conosciamo nulla, perché la verità sta nel profondo.

Democrito

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A mia moglie per la pazienza e l’aiuto alle mie figlie fonte infinita di energia

a Girolamo che lo ha reso possibile a Tiziano che mi renderà uomo migliore.

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Introduzione Con questo libro cerco di porre all’attenzione comune piccoli schizzi di quella realtà a volte velata, altre volte clamorosa, che si vive e si è vissuta in Calabria nella storia recente del nostro Paese. Storie brevi, che vogliono stimolare il lettore e portare la sua attenzione su come il fenomeno ’ndrangheta sia ormai en-trato prepotentemente nel nostro vivere quotidiano. Sono foto-grafie di un mondo che si regge su un equilibrio secolare e del quale ognuno di noi è pedina spesso inconsapevole. Sono storie di uomini e di donne, dove boss, killer, operai, giornalisti, politici si incontrano in quel territorio paludoso e torbido che è la mafiosità, l’atteggiamento anti-Stato spesso ir-riverente e intimidatorio che ha proiettato intorno alla nostra terra un alone di misterioso timore. Sono storie che attingono a esperienze di vita dirette, a fatti di cronaca, a racconti di chi ha vissuto sotto l’ombra della “Mala-pianta”. Raccontare di un modo di vivere, di un modo di pensare e di affrontare la realtà di tutti i giorni, per guardarci allo specchio e riflettere sull’immagine che esso ci rimanda. La Calabria non è solo ’ndrangheta e la ’ndrangheta non è solo Calabria. Il fenomeno si è esteso e allargato a macchia d’olio negli ultimi anni, cosicché è facile adesso parlare di “Roma

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mafiosa” o di “’ndrangheta brianzola” uscendo dai confini re-gionali per arrivare ovunque in Italia, o addirittura fino all’altra parte del mondo, in tutti i luoghi in cui ci sia qualcuno o qual-cosa da corrompere. Raccontare la ’ndrangheta, mostrarne la violenza, la potenza e la capacità di mimetizzarsi e insinuarsi come un virus fra i tes-suti della società, forse può aiutarci a comprendere che per combatterla è necessario un impegno comune. Scriverne e par-larne vuol dire accendere un riflettore dove fino a ieri regnava la completa oscurità. Sarebbe per me un’enorme soddisfazione riuscire a far riflettere sia chi non si era mai avvicinato a questo “pianeta”, sia chi ci vive tutti i giorni.

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Le regole Reggio quel giorno era bellissima, baciata dal sole di giugno che ne ravvivava colore e spirito. Don Pasquale si sentiva figlio della sua città. Passeggiava fiero per corso Garibaldi fumando una sigaretta, una Marlboro rossa che suo nipote Osvaldo gli aveva portato qualche giorno prima dall’America. Due stecche gliene aveva regalate. Camminava, don Pasquale, e pensava a suo padre, buonanima, che gli aveva sempre detto: «Bisogna avere delle regole nella vita.» Lui ne aveva tre. La prima: portare rispetto. Il rispetto, per chi se lo merita, dalle parti nostre è Vangelo. Non sei un uomo se non sai portare rispetto. Suo padre non l’aveva capito e si era impelagato in una storia senza futuro. Lui sposato con due figli, lei sposina di una delle persone più importanti della città, nonché suo amico d’infanzia, tale Mim-mo Migale. Lo aveva pagato caro quello sgarbo, e don Pasquale quella macchia se l’era portata addosso per anni. Ne aveva sofferto tanto da ragazzo, ma non aveva mai pianto, perché lui aveva tre regole e la seconda era: mai mostrarsi deboli.

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Far trapelare le proprie debolezze era pericoloso e poteva fare di un vero uomo un omuncolo. Dalle parti nostre, chi piange come una donnicciola è senza dignità. Bisogna sapere affronta-re la vita a testa alta e guardare perfino la morte dritta negli oc-chi. E don Pasquale l’aveva vista la morte, rugosa e dagli occhi di ghiaccio, cattiva e senz’anima, l’aveva fissata senza abbassa-re lo sguardo. Se l’era cavata bene fino a quel giorno Pasquale Minniti, perché lui aveva tre regole e la terza era: cu mina pri-ma mina ddu voti. Mai tentennare, mai aspettare che l’altro faccia la prima mossa, se colpisci per primo sei in vantaggio, colpire per primo può fare la differenza fra vivere e morire. Reggio era bellissima, il vociare della gente che passeggiava sul corso era piacevole, i bar erano pieni, il mare era calmo. Due uomini in jeans e camicia, giovani, spettinati, sorridenti, si avvicinarono a don Pasquale. Quello più vicino a lui fece per estrarre una pistola calibro .12. Pasquale aveva percepito qual-cosa che gli puzzava e impugnava la sua Beretta con la mano destra dentro la giacca. Erano due giovani, erano spettinati, e-rano giocosi, erano irriverenti, e Pasquale esitò. Fu freddato da dieci colpi, riuscendo a esploderne solo uno. Pensò a suo padre prima di morire: «Bisogna avere delle regole nella vita, figlio mio.» Storia ispirata all’omicidio di Carmelo Morena, imprenditore edile ucciso nel marzo 2011 a Reggio Calabria.

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Hotel Aspromonte Faceva freddo. Era umido e c’era puzza di legno bagnato. Non ne poteva più di quella stanza buia e fatiscente, non ne poteva più del freddo e del tempo così lento, così fermo. Non sapeva dove si trovava, sapeva solo che era stato rapito da tre brutti ceffi e trasportato a bordo di una Fiat Regata grigia. Tre brutti ceffi con un accento marcato, un accento del Sud. Avevano proseguito due giorni in macchina e per quasi tutto il tragitto lui era rimasto bendato. Non erano stati particolarmente aggressivi, ma molto chiari e piuttosto crudi: se avesse provato a scappare l’avrebbero preso e ucciso; se non l’avessero preso, lo avrebbero cercato e ucciso; se li avesse fermati la polizia du-rante il tragitto e lui avesse fatto trapelare qualcosa, avrebbero fatto uccidere sua moglie e i suoi due figli. Era praticamente terrorizzato. Era più la paura che potessero fare del male ai suoi cari che non quella di morire. Per tutto il viaggio pensò a sua moglie Marta, ai figli Clara e Simone, a sua madre, a suo padre Umberto, alla bella casa nella quale abitavano solo da sei mesi… Furono pensieri, questi, che lo accompagnarono negli ultimi tre mesi trascorsi in quel posto. Sapeva poche cose. Sapeva che si trovava probabilmente in un posto di montagna, tanto era freddo, e che aveva vicinissima

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una chiesa: sentiva molto bene il suono delle campane e il pro-fumo d’incenso ogni tanto. Aveva provato a urlare qualche vol-ta, quando era certo che i suoi carcerieri fossero lontani. Una volta le aveva pure prese per questo motivo e non riusciva an-cora a capire come avessero fatto a scoprire che aveva cercato aiuto. Col tempo era diventato bravo a riconoscere i passi, i rumori, gli odori, era come se fosse diventato cieco e gli altri sensi si fossero acutizzati. Non poteva dire di essere trattato male: nonostante non fosse un Grand Hotel, mangiava quello che mangiavano i suoi rapito-ri, poteva lavarsi, aveva sempre vestiti puliti e un letto. Aveva capito che stavano tutti aspettando la trattativa per il riscatto e non sapeva cosa augurarsi. Entrò uno dei due uomini deputati alla sua guardia e lo invitò ad alzarsi e seguirlo fuori. L’altro gli urlava dall’esterno in un dialetto che non comprendeva. Aveva paura, non sapeva cosa lo aspettasse, ma era anche eccitato dal fatto che da tre mesi non respirava aria buona e non vedeva la luce del sole. Non sa-peva che ore fossero, forse le due di pomeriggio, e non sapeva il motivo di quell’uscita. Appena varcata la soglia si coprì gli occhi, infastidito da tanta luce, e si ritrovò nel bel mezzo di un bosco. Vegetazione fitta, alberi alti e possenti. Non appena si voltò verso destra, restò di stucco nel constatare che proprio in mezzo al bosco c’era la chiesa di cui sentiva spesso lo scampa-nare; ma non era, come pensava, attaccata al suo rifugio obbli-gato: in quei mesi aveva vissuto proprio dentro la chiesa! In lontananza, un prete era piegato su una tinozza d’acqua, intento a lavare non si sa cosa. I loro sguardi si erano incrociati, ma quello del prete si era abbassato quasi subito. Quando, dopo ot-

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to mesi, la polizia andò a prenderlo in quell’angolo di mondo dimenticato da Dio, il prete stava tagliando la legna non lonta-no dalla chiesa. Non tentò di scappare, né proferì parola. I loro sguardi tante altre volte si erano incrociati, ma quella volta lo sguardo del sacerdote era sollevato e sereno, come quello di uno che non ha più nulla da nascondere. Storia ispirata al sequestro di Rocco Surace, commerciante di abbigliamento di Rizziconi, provincia di Reggio Calabria, ra-pito nell’aprile del 1990, nascosto in Aspromonte e liberato nel dicembre dello stesso anno.

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Rimpiazzo Dopo le tante prove cui fui sottoposto, venne anche per me il giorno di entrare a far parte della Società. Lo ricordo come se fosse oggi, era il venerdì santo del 1950. Fu allora che il capo ’ndrina mi nominò picciotto. L’appuntamento era in un casolare di campagna di proprietà di Luciano Attinà, in contrada Petricciana, poco prima del calar del sole. Pietro Reitano, il capo ’ndrina, mi presentò ai picciotti e agli affiliati di grado superiore e diede inizio alla cerimonia. Si sedettero tutti in cerchio e Pietro cominciò: «Buon vespero, saggi compagni.» «Buon vespero», risposero tutti in coro. Io, come mi era stato insegnato, mi ero messo in disparte e non proferivo parola. «Siete comodi, cari compagni, per battezzare questo locale?» «Siamo comodi.» «A nome dei nostri vecchi antenati, i tre cavalieri di Spagna Osso, Mastrosso e Carcagnosso, battezzo questo locale. Se prima lo riconoscevo per un locale oscuro, da questo momento lo riconosco per un locale sacro, santo e inviolabile, in cui si può formare e sformare questo onorato corpo di Società.» «Grazie», dissero in coro i presenti. Ero molto emozionato. Quelle parole, quella gestualità, quei rituali, impregnavano l’ambiente di un non so che di mistico.

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Quella sorta di liturgia mi accompagnò per tutta la vita, ma mai come quella prima volta credetti davvero che Dio in persona muovesse le mani della Società per indicare a tutti la via della giustizia. Ero giovane e inesperto, facilmente influenzabile, ma c’è da dire che la sacralità di alcuni riti, allora più di adesso, era sentitissima a tutti i livelli della Società. Mentre ero avvolto dai miei pensieri e ripassavo a mente la formula che avrei dovuto ripetere di lì a poco, non mi accorsi che Reitano aveva recitato una frase particolare per il sequestro delle armi, che furono passate di volta in volta al mastro di giornata. Il mastro, appresi in seguito, era “custode d’umiltà” e aveva compiti di sorveglianza. Non riuscivo a capire il motivo del sequestro delle armi, trovavo insolito che più persone che avevano tra loro un patto di sangue si disarmassero. Non si fi-davano forse l’uno dell’altro? Più tardi capii che era l’opposto. Era una sorta di controllo affinché tutti portassero un’arma al seguito, come prescrivono le regole sociali. Se qualcuno ne fosse stato sprovvisto, sarebbe stato punito. La riunione vera e propria cominciò subito dopo: «Cari compagni, armiamoci come si armarono i nostri antenati che fecero guerra in Calabria, in Sicilia e in tutto lo stato napo-letano. Chi tradirà la Società, giuriamo, miei compagni, la pa-gherà con cinque o sei colpi di pugnale nel petto. Calice d’argento, ostia consacrata, con parole d’umiltà formo la Socie-tà.» «Grazie», fecero tutti gli altri. Il cerchio si strinse leggermente e il mastro di giornata ordinò a uno dei ragazzi di uscire e andare di sentinella, non prima di avergli consegnato un’arma.

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Solo dopo si passò alla votazione. Il capo recitò un’altra formu-la: «Passo alla prima e seconda votazione sul conto di Antonio Bruzzese. Se fino a questo momento lo conoscevo come sem-plice contrasto, d’ora in poi lo conosco come giovane d’onore, appartenente a questa onorata Società.» I presenti per tre volte di fila dissero: «Confermo.» Adesso toccava a me: «Chi siete e che volete?» mi chiese Pietro Reitano. «Mi chiamo Antonio Bruzzese e cerco sangue e onore», risposi con voce emozionata. «Sangue per chi?» «Per gli infami.» «Onore per chi?» «Per l’onorata Società.» «Siete a conoscenza delle nostre regole?» «Sono a conoscenza», risposi sempre più sicuro di me. Mentre il capo continuava a recitare la formula, mi sentii caldo di commozione quando capii di essere diventato membro della Società. Nel bacio finale vidi gli occhi sorridenti di tutti i pre-senti, che mi accoglievano come fossi un loro fratello. Tratto da un codice sequestrato alla ’ndrangheta a Lamezia nel 1990.

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Musica contro Suonavano la loro musica, erano arrabbiati con il sistema, era-no arrabbiati con il loro paese e non lo mandavano a dire. Era-no gli anni Novanta, quelli della guerra di ’ndrangheta, e i Ra-dio Libera, per gli abitanti di Motta San Giovanni, con il loro sound reggae e i loro testi taglienti rigorosamente in dialetto, erano dei veri e propri alieni. Massimo Vinci alla chitarra, Giuseppe Cuzzocrea alla batteria, Ilario Stilo voce e chitarra e Primo Suraci, il vero ideatore del gruppo, al basso. Si incontravano tutte le sere in una casina di campagna di proprietà del padre di Primo, davano fiato ai loro strumenti e fumavano marijuana. Cime rosse, la migliore erba del paese, che non mancava mai quando i quattro erano insie-me. Per i benpensanti di Motta erano dei drogati, dei poco di buono che non avevano voglia di lavorare. Canzoni come Non mi ’ndi vaiu oppure Quandu parra ’u mari cominciarono presto a girare fra i giovani della Jonica. Primo ha voglia di fare sentire il suo dissenso e di cantare con-tro la situazione di disagio in cui è impantanata la sua terra. I Radio Libera cantano di disoccupazione, di arretratezza, di e-marginazione sociale e se la prendono sia con lo Stato che con i patruni ri capruni, come dice una loro canzone, riferendosi ai malavitosi che hanno in mano un’intera regione.

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Vanno in giro con i capelli scompigliati e con il simbolo della ganja stampato sui loro giubbotti colorati, cantando alle feste di paese. La pausa di riflessione obbligatoria, dovuta alla par-tenza di Giuseppe e dello stesso Primo, non fa altro che arric-chire il bagaglio di un gruppo forse un po’ troppo acerbo. Cuz-zocrea va a lavorare a Milano da un parente della madre che ha un distributore di benzina vicino Sesto San Giovanni, e comin-cia a frequentare ambienti musicali più sofisticati, affacciando-si all’hard rock. Primo vola in Inghilterra dal cugino Marione, che gestisce un ristorante a Londra. Lavora come cameriere e ogni tanto, la se-ra, suona con un gruppo di giamaicani, i No More, in giro per locali. Il rientro in paese procura un’impennata ai Radio Libera, che incidono il loro primo singolo autoprodotto dal vivo che fa il giro di tutta la provincia reggina. Cominciano i problemi con la giustizia e sia Primo che Ilario hanno i loro primi rapporti con la polizia per quell’uso sfacciato che fanno della marijuana. Il primo concerto importante è a una festa dell’Unità, a Reggio, dove cantano Quandu parra ’u mari gasati dal coro dei tremila presenti. ’Ndi sintimu suli nda sta terra ma aimu u cielu chi ndi teni cumpagnia nun lu vardamu ma sapimu chi ’nce basta sulu isari l’occhi. Aimu u suli chi ndi voli carizzari ma diffidenti ndi tiramu arretu ’ndaimu a facci unchiata ri manati ma u sapimu cu ndi tira scorcicoddu. Quandu parra u mari

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dici sempri a verità quandu parra u mari non putimu fari finta Quandu parra u mari Sapi i libertà Iddhu si ndi futti I sti quattru prepotenti Il giorno dopo i ragazzi sono al settimo cielo e non vedono l’ora di suonare ancora. Si vedono come sempre in sala prove. Il basso di Primo sciorina musica come non mai e gli altri lo guardano sorpresi e gli sorridono. Taratarata, una sventagliata di mitra, una di quelle che non puoi non riconoscere, e subito dopo un gran botto, un’esplosione. L’auto di Ilario ha preso fuoco manco fosse cartapesta e le fiamme si vedono da dentro il casolare. Non fanno neanche in tempo a uscire fuori che sentono una seconda esplosione. Si buttano tutti istintivamente a terra. La macchina di Primo bru-cia e non possono fare altro che guardarla bruciare… Ispirato alla storia del gruppo musicale Invece, nato a Bovali-no e conosciuto in Calabria come il primo gruppo rock dialet-tale della regione.

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Le donne sbagliano gli uomini trascurano

Ormai sono libera. Ho trascorso una vita fra morti violente, spartizioni di denaro e faide familiari. Sono la figlia di un boss della ’ndrangheta, uno dei più potenti boss in circolazione. Mi chiamo Barbara Molli-ca, ho trentadue anni e nella mia esistenza ho sempre dovuto lottare. Per la mia famiglia le donne sono poco più che custodi del be-nessere domestico, incubatrici di neo-criminali e confidenti de-gli atti fuorilegge dei mariti. Ero ancora una ragazzina quando ho iniziato a ribellarmi a quest’ottica da Medioevo, è stata come una miccia che ha acce-so il mio fuoco interiore. Fino ad allora ero sempre stata tran-quilla, non una parola di più, né un gesto fuori posto. Non che non provassi ribrezzo per il tipo di vita che mia madre, le mie zie, le mie cugine conducevano. Era solo che non sapevo cosa ci fosse oltre le mura di casa mia, e così mi isolavo leggendo. Passavo giorni e giorni coi miei adorati libri. Mio padre era preoccupato, non credo che nella famiglia ci fosse mai stato prima un lettore così assiduo.

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Un giorno mi volle parlare: lui, il grande don Peppe Mollica si sarebbe seduto sul divano per fare quattro chiacchiere con me. Non sapeva nemmeno da dove cominciare: io ero una sedicen-ne intelligente e coraggiosa, lui, oltre a essere un sanguinario prepotente, era un padre assente e lontano. Si impegnò, cercò di capirmi, ma non comprendeva le mie parole: «Papà, nell’esistenza di ognuno di noi c’è una diga. Da una parte l’acqua che viene giù dirompente e si infrange contro il muro di cemento, accumulandosi, dall’altra la terraferma paci-fica e tranquilla. «Ecco, tu di me conosci solo la terraferma. Adesso è arrivato il momento che tu sappia dell’acqua che non ho mai fatto vedere a nessuno.» E parlai, gli dissi tutto quello che provavo e quello che volevo dalla vita. Non so perché lo feci, ma mentre lo facevo mi sem-brava di rinascere. Da quel giorno sono io, l’avvocato Barbara Mollica. Abbandonai Africo di lì a pochi anni per andare a studiare Giu-risprudenza a Messina, e adesso sono quella che sono. L’unico ricordo brutto di quella sera fu l’astio con cui, prima di andare a letto, mio fratello Rocco mi guardò, accusandomi di far soffrire i nostri genitori. Adesso sto per coronare l’ultimo dei miei sogni, tra poco meno di due settimane diventerò mamma. Anche il capitolo sentimentale della mia vita non è andato li-scio come i miei familiari si aspettavano. Mi sposai subito do-po la laurea con un architetto di Reggio che lavorava a Messi-na, il figlio di un amico di mio padre, anche lui un corpo estra-neo alla sua famiglia criminale. Mio padre approvò e furono nozze da mille e una notte. Il rapporto con mio marito si rivelò

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presto per quello che sarebbe diventato più avanti: piatto e pri-vo di passione. Mi invaghii dopo pochi anni di un funzionario civile che lavorava alla questura di Messina e mi lasciai cor-teggiare. Sapevo che era sbagliato, sbagliatissimo, c’era qualcosa dentro me che mi faceva sentire sporca, una poco di buono. Ma pur sapendolo l’ho fatto. Consapevole di sbagliare, ho perseverato nell’errore coltivando una relazione clandestina. E tutto questo solo perché mi rendeva felice. Adesso sono separata da mio marito e aspetto un figlio dal mio adorato Gianni, e sono serena. Mio fratello Rocco non mi parla da anni, mio padre non lo ve-do dal 2004, quando è stato arrestato. Ogni tanto sento mia madre per telefono durante le feste comandate. Non vedevo Rocco da anni, potete immaginare la sorpresa quando ho sentito la sua voce al citofono. Erica, mia figlia, era nata da poco più di un mese e ingenuamente pensai che l’avvento della creatura potesse aver intenerito il cuore di uno zio. Mi sbagliavo. Mentre scendevo le scale, felice perché avrei riabbracciato il mio fratellino, mi domandavo come avesse fatto a trovarmi, da-to che avevo cambiato casa più volte da quando avevamo com-pletamente perso i contatti. Non feci in tempo a poggiare la bambina nella carrozzina, che tenevo nell’androne vicino all’ascensore, che Rocco estrasse un revolver e mi sparò da di-stanza ravvicinata. Avevo sbagliato, avevo macchiato la mia famiglia e dovevo pagare. Ricordo solo il mio risveglio in o-spedale e la mia bambina in braccio a mia madre…

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Tratto dalla storia di Brunetta Morabito, nipote di Giuseppe Morabito e vittima della ferocia del fratello Giovanni, detto Ringo, che le sparò per lavare col sangue l’onore ferito della famiglia.

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Peppino e la pistola Ho sentito il battito del suo cuore quando ancora si trovava a trenta metri da me. Sembravamo avvolti dal silenzio, ma riu-scivo a sentirlo chiaramente. Ho sentito che c’era qualcosa di diabolico in quel battito. È stato a quel punto che, senza esitare, la morte mi ha sussurra-to qualcosa all’orecchio. Mi aveva detto la stessa cosa anche altre volte e a voce più alta, ma non avevo voluto ascoltarla. «Rubagli l’anima, ribellati, svegliati. Ti aiuterò io, prendimi la mano.» Pochi secondi e la sua voce ritorna a essere silenzio, un silenzio che mi rompe i timpani. Battito e respiro, respiro e battito. Adesso anche lui sa che non si può vincere sempre, che la mor-te si muove spesso per mani inaspettate. Adesso che gli sto puntando la pistola al petto, questi pochi se-condi che lo separano dall’Aldilà sarò io a governarli, li scandi-rò nella mia mente. Lunghissimi per me, estremamente brevi per lui. Adesso che sta cercando di aggrapparsi alle ultime gocce di vi-ta che gli restano, la vedo bene la paura nei suoi occhi. Non pensavo potesse averne.

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Mi parla, balbetta qualcosa cercando di ostentare tranquillità, cercando di guadagnare tempo. Il battito del suo cuore rimbomba per tutta la casa come una musica che rompe il silenzio irreale del pomeriggio. Il mio cuore adesso è un gigante. Mi ha aiutato a decidere di fare il grande passo, a decidere di liberarci da un’ingiustizia. Non importa se non sarà una libertà reale. Avrò liberato la mia idea di libertà. Lo sparo è rumoroso. Non ne avevo sentito mai uno da così vicino. L’ultima cosa che ha visto in vita sua è sta-to il mio sorriso. L’ultima cosa che ho visto di lui è stata la sua faccia sporca. Credevo che il grilletto fosse più morbido. L’ho tirato a me fi-no in fondo e la pistola s’è mossa verso l’alto in modo automa-tico. Ero a non più di dieci metri da lui. È stato più facile del previ-sto. Il liquido rosso simbolo di vita sgorgava a fiotti dal petto del boss. Di autorevole, accasciato in terra com’era, non aveva più nulla. Il pugno che stringe la pistola si allenta e la mente si ri-lassa. I soldi, stretti nervosamente nell’altra mano, li metto sul mobile dell’ingresso. La morte mi saluta poggiata al muro sudicio di sangue, mi sor-ride compiaciuta. Ha vinto lei, ha armato la mia mano e mi ha regalato il corag-gio per affrontare il prepotente don Paolo. Adesso avremo un malandrino in meno, ma non mi sento fiero di quello che ho fatto. Non sento più il battito del suo cuore. Si è spento con tutto il resto, o meglio, è esploso in un ultimo battito distruttivo. C’era

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qualcosa di diabolico in esso, il ritmo del male che adesso non si sente più. Anche se so benissimo che la mala erba non muore mai. Oggi mi sento più uomo.

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Riflessioni di un giovane ’ndranghetista

Se fossi stato Giovanni Tegano tutto sarebbe stato più facile. Alcol, donne, soldi, potere e nessun sacrificio. Ma non tutti so-no Tegano, e io ero io, e questo era il problema. Il 1999 fu un anno strano. Fine millennio, attesa dell’euro, del millennium bug, era tutto un gran casino. Io ero un giovane contrasto d’onore, andavo a scuola, avevo una ragazza a cui puzzavano le ascelle, montavo su un Sì con marmitta Polini, mi apprestavo a fare il mio primo furto, uscivo con gli amici e tutto il resto. Se fossi stato Giovanni Tegano o uno della famiglia, forse tutto sarebbe stato più facile, ma ma-gari meno bello. Tutto quello che facevo era in funzione del fatto che volevo di-ventare uno che conta e mi sentivo portato per comandare. Il mio primo furto lo feci proprio nel gennaio del 1999, l’anno del casino; l’incontro che mi avrebbe cambiato la vita avvenne nell’ottobre del 1999, quando Hakkinen vinceva il mondiale di Formula Uno e in giro c’era un gran caos; la prima rapina la pensai e la portai a termine nel dicembre del 1999, nell’anno della confusione.

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Quell’anno entrai a far parte della famiglia, feci il grande passo da contrasto d’onore a picciotto, e per la prima volta in vita mia mi sentii davvero importante. Fu l’anno della cerimonia, dell’incontro con i camorristi che mi avrebbero insegnato tutto e, sopra ogni cosa, fu l’anno dell’incontro con Giovanni Tega-no, il mio idolo. Quell’anno ero poco più che un ragazzo che non sapeva mettere in ordine due pensieri, ma avevo una tale voglia di dimostrare al mondo chi ero che avrei ammazzato pu-re il papa se me lo avessero chiesto. Quell’anno non ero ancora nessuno e cercavo di scoprire la strada che dovevo intraprende-re per scalare più in fretta possibile l’onorata Società. Facevo furti, rapine, stavo accanto a chi mi poteva insegnare qualcosa. Ascoltavo molto, parlavo poco e pensavo che la famigghia fos-se tutto. C’era tutta una serie di cose che ancora mi sfuggivano: orga-nizzazioni, alleanze, collusioni con la politica. Ascoltavo i capi parlare e mi grattavo la testa cercando di intrecciare storie, fatti e leggende. Era il 1999, era dicembre e l’anno del tumulto sta-va finendo; fu allora che mi commissionarono il primo omici-dio. Ero un ragazzo, non sapevo cosa si provasse a togliere una vita, a strappare il marito a una moglie, a distruggere una figlia pri-vandola di suo padre, ma sapevo di esserne in grado, ero sicuro di poterlo fare. Se fossi stato Giovanni Tegano tutto sarebbe stato più sempli-ce, avrei avuto più dimestichezza con quella pistola, avrei avu-to un aiuto più concreto da chi mi stava accanto, ma io ero io e avrei dovuto affrontare le mie esitazioni tutto solo, senza mo-strare il minimo timore. La storia è ispirata a testimonianze raccolte dall’autore. Fine anteprima.Continua...