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ATTUALITÀIN NUTRIZIONE PEDIATRICA

Atti dell’incontro scientifico

13 – 14 giugno 2006

ISTITUTO SCOTTI BASSANI

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A. SinghalChildhood Nutrition Research Centre, Institute of Child Health, Londra

K. F. MichaelsenDepartment of Human Nurition, The Royal Vet. and Agric. University and Rigshospitalet University Hospital, Danimarca

D. BierBaylor College of Medicine, Houston, Texas

R. GarofaloDepartment of Pediatrics and Microbiology & Immunology - The University of Texas MedicalBranch Galveston, Texas

C. AgostoniClinica Pediatrica - Ospedale San Paolo - Milano

A. FiocchiMelloni Pediatria, Milano

R. TronconeUniversità degli Studi di Napoli “Federico II”

G. V. ZuccottiClinica Pediatrica Università di Miliano - AO Luigi Sacco

L. MorelliIstituto di Microbiologia - Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza

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Prefazione pag. 5

Presentazione » 7

INTERVENTI DELLA PRIMA GIORNATA

Effetti a lungo termine della nutrizione nelle prime epoche di vita

A. Singhal » 9

Il divezzamento: quali evidenze?

K. F. Michaelsen » 13

Il futuro della nutrizione infantile e degli alimenti per l’infanzia

D. Bier » 19

Latte materno: un sistema immunitario naturale

R. Garofalo » 23

INTERVENTI DELLA SECONDA GIORNATA

I latti formulati: oggi e domani

C. Agostoni » 27

L’allergia alimentare: tra prevenzione e terapia

A. Fiocchi » 33

Il glutine e la celiachia: quali tempi e quali modi?

R. Troncone » 37

Probiotici e prebiotici: mito o realtà?

G.V. Zuccotti » 41

Domande, spunti e commenti tratti dalla discussione » 47

Appendice

Focus su probiotici e prebiotici?

L. Morelli » 51

Indice

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Questo convegno è il primo di una serie di iniziative che l’Istituto Scotti Bassani si propone di intra-

prendere nell’ambito della nutrizione pediatrica. Si tratta di un campo estremamente stimolante e

ricco di spunti originali che consentono di guardare alla nutrizione come a una scienza strettamente

integrata con numerose altre discipline e finalizzata a un unico fondamentale obiettivo: assicurare la

migliore crescita al bambino. A questo incontro, svoltosi in due mezze giornate, hanno partecipato i

più autorevoli esperti internazionali, ciascuno dei quali ha illustrato le proprie convinzioni scientifi-

che e ha apportato il prezioso e insostituibile bagaglio dell’esperienza di anni di lavoro. Il program-

ma tematico è stato infatti strutturato in modo da evidenziare le principali aree di ricerca e soprat-

tutto tracciare una panoramica dello stato dell’arte sui più attuali argomenti di dibattito. Il presente

report illustra i contenuti degli interventi ripercorrendone la sequenza espositiva e proponendo una

selezione delle slide più significative e funzionali alla visualizzazione grafica dei concetti di maggio-

re rilevanza.

Ci auguriamo che l’elevato livello delle presentazioni esposte sia la migliore espressione del rinnova-

to impegno del nostro Istituto, nella consapevolezza di quanto sia difficile ma non per questo impos-

sibile, dopo alcuni anni di silenzio, conseguire un duplice obiettivo: dare continuità al suo glorioso

passato e conquistare la fiducia dei pediatri italiani che sono il più importante anello di congiunzio-

ne tra il mondo della scienza sperimentale e clinica e la realtà territoriale, dove il mantenimento

della salute e la prevenzione non possono prescindere dall’impostazione di un’alimentazione corret-

ta sin dalle prime epoche di vita.

Andrea Budelli

Presidente dell’Istituto Scotti Bassani

Prefazione

Nota

Il prof. Lorenzo Morelli, impossibilitato a partecipare all’evento, è stato sostituito dal prof. Gian Vincenzo

Zuccotti, ma ha in ogni caso inviato la sua presentazione cartacea, pubblicata in appendice.

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Mai come oggi la nutrizione ha giocato un ruolo di prim’ordine nell’ambito non solo della Pediatria

ma anche della promozione della salute e del benessere. Gli alimenti, infatti, non sono soltanto fonte

di substrati metabolici ed energetici ma sono veri importanti modulatori dell’attività funzionale di

numerosi apparati. Un’attività che si estrinseca nella massima espressione delle potenzialità racchiu-

se nel patrimonio genetico di ogni individuo e nel mantenimento del miglior equilibrio omeostatico

di cellule e tessuti che già due secoli fa era stato intuito essere il presupposto della vita biologica e

dell’interazione con l’ambiente.

Questo incontro, organizzato dall’Istituto Scotti Bassani, è stato un’opportunità unica di aggiorna-

mento sia per l’autorevolezza internazionale dei relatori sia per l’intenso e proficuo confronto di ipo-

tesi, osservazioni, dati ed esperienze sia per la vastità delle tematiche affrontate, che sono oggetto

del presente report: premesso che l’allattamento al seno è uno dei pochi interventi di medicina pre-

ventiva dai risultati misurabili, evidence-based, premesso che il modello dell’allattato al seno costi-

tuisce il riferimento per crescita e sviluppo del bambino, si è discusso del rapporto tra modalità di

accrescimento e possibile sviluppo di patologie in età adulta, di valenza immunomodulatoria, oltre

che nutrizionale, del latte materno, di composi bioattivi e di nutrienti a valenza funzionale, la cui

aggiunta alle formule ne determina la caratterizzazione nutrizionale e funzionale, di allergia alimen-

tare e di celiachia. Senza trascurare, con un rigoroso approccio di revisione critica della letteratura, i

campi dell’attuale ricerca, tra cui il ruolo determinante dello svezzamento nella costituzione corpo-

rea dell’individuo, l’imprinting indotto da modificazioni della dieta e il razionale di un possibile impie-

go dei probiotici nella prevenzione dell’allergia. La nutrizione diventa così il primo ambito di inter-

vento per assicurare lo sviluppo ottimale per ciascun neonato e spetta al pediatra valutare, caso per

caso, le scelte decisionali e le strategie educative più idonee: un corretto regime alimentare del bam-

bino, d’altra parte, non può prescindere da una modificazione dello stile di vita dell’intero nucleo

familiare in cui egli vive.

Esprimiamo pertanto riconoscenza all’Istituto Scotti Bassani per il suo rinnovato impegno nel pro-

muovere iniziative culturali di elevato profilo e di immediata ricaduta pratica nell’attività professio-

nale di tutti coloro che, occupandosi di salute in età pediatrica, investono in realtà nella salute della

società del futuro.

Marcello Giovannini

Presidente Congresso Scientifico Attualità in Nutrizione Pediatrica

Presentazione

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Ippocrate (460-357 a.C.) parlava di “quantità giuste di nutrimento e di esercizio, non troppo e non troppo poco”.Tale aforisma contiene tuttora un fondo di verità, ma non è facilmente estrapolabile a particolari situazioni, comequella del neonato pretermine. In tale contesto ci si chiede se la promozione del recupero dell’accrescimento (ilcosiddetto “catch-up growth”) abbia anche un rovescio della medaglia in termini di effetti metabolici avversi alungo termine, quali per esempio valori più elevati di lipoproteine e di marker di resistenza insulinica. D’altraparte, se fino agli anni 60 la maggiore preoccupazione era quella di soddisfare i fabbisogni di nutrienti, nelle epo-che successive sono a poco a poco emersi gli effetti biologici della nutrizione nei confronti della risposta a malat-tie e sugli esiti a lungo termine.Sono storici gli esperimenti di McCance che più di 40 anni fa osservò che le condizioni nutrizionali dei ratti unmomento vulnerabile (la cosiddetta “sensitive window” o periodo finestra di sensibilità) della crescita postnatalepredeterminava il loro peso in età adulta. In particolare l’esposizione a intervalli limitati di sottonutrizione nelprimo periodo post-natale, come nel caso di cucciolate più numerose e pertanto associate a una minore disponi-bilità di latte materno, determinava modifcazioni permanenti del peso e della composizione corporea dell’anima-le adulto malgrado il suo libero accesso al cibo al di fuori di questo periodo finestra.Tale fenomeno, denominato da Lucas “programming” metabolico ha suscitato in tempi recenti l’interesse dellaricerca. Analoghi studi sui babbuini hanno infatti dimostrato che l’iperalimentazione nell’infanzia aumentava latendenza all’obesità e all’aterosclerosi nella vita adulta ma con una particolarità: questo esito negativo emergevadopo la pubertà, a dimostrazione del fatto che gli effetti del programming, espressione nel caso specifico alle con-seguenze deleterie di un accrescimento più rapido, emergono a notevole distanza dallo stimolo iniziale (Figura 1).Altri effetti dell’iperalimentazione osservati nei ratti nel lungo termine sono l’aumento della colesterolemia, lo svi-luppo di diabete, resistenza all’insulina, obesità, resistenza alla leptina e minore durata di vita. Grazie a studi basa-ti sul confronto di neonati pretermine randomizzati al latte materno (anche raccolto da banche del latte) o a for-mule arricchite in nutrienti (Martin 2005, Owen 2002, Arenz 2004, Pettit 1997) è stato possibile dimostrare che l’al-lattamento al seno esplica importanti effetti vantaggiosi su pressione arteriosa, colesterolemia, riduzione di obe-sità e resistenza all’insulina. In sintesi esso riduce del 10% la colesterolemia, del 25% e l’incidenza di malattie car-diovascolari e del 13-14% la mortalità per queste ultime. Da qui l’ipotesi che l’effetto vantaggioso dell’allattamen-to al seno si correli a una crescita più lenta.

Effetti a lungo termine della nutrizione nelle prime epoche di vita Atul Singhal

Figura 1 - Obesitàdell’adulto nel babbuinoiperalimentato in epocainfantile

Accrescimento nelle prime epoche di vita e funzione endotelialeLe evidenze suggeriscono che una dieta a elevato apporto di nutrienti influenza negativamente il programmingcardiovascolare attraverso un effetto sui principali elementi caratterizzanti la sindrome metabolica. La resistenzaall’insulina, per esempio, è risultata più elevata nei neonati pretermine con crescita più rapida nelle prime duesettimane di vita rispetto a quelli con accrescimento più limitato. Osservazioni analoghe sono state tratte relati-vamente alla disfunzione endoteliale, che costituisce una fase precoce dell’aterosclerosi.La più importante sostanza ad azione vasodilalatrice prodotta dalle cellule endoteliali è l’ossido nitrico (NO) cheè sintetizzato dal catabolismo della L-arginina ad opera della NO-sintetasi (NOS) sotto lo stimolo di sostanze adazione agonista sull’endotelio e da stimoli meccanici quali lo “shear stress” di parete. L’NO agisce non solo sulle cellule muscolari lisce, ma anche su elementi circolanti quali le piastrine o i monocitie su particolari strutture proteiche quali le molecole di adesione. A questi livelli l’NO agisce attivando l’enzimaguanil-ciclasi e determinando quindi un aumento delle concentrazioni intracellulari di guanosinmonofosfato cicli-co (Figura 2).

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Figura 2 - Regolazionedella sintesi ed effettidell’ossido nitrico (NO)

Figura 3 - Dilatazioneindotta dal flusso (FMD)dell’arteria brachiale:confronto tra adolescentiin relazione allavariazione ponderale dopola nascita (Singhal et al.,2004)

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Sono stati validati stimoli che possono attivare l’endotelio attraverso l’aumento del flusso ematico e quindi dello“shear stress”: tale metodica è conosciuta come “flow-mediated dilation” (dilatazione indotta dal flusso, FMD) eviene in genere applicata a livello dei distretti periferici per lo studio della funzione endoteliale a livello dell’arte-ria brachiale: essa prevede l’induzione di una breve ischemia (in genere 5 minuti) a livello dell’avambraccio segui-ta dalla misurazione con tecnica ecografica delle variazioni di calibro dell’arteria brachiale indotte dall’aumentodi flusso causato dalla vasodilatazione post-ischemica distale. È da osservare che la principale caratteristica dellaridotta vasodilatazione endotelio-dipendente non è tanto la diminuita capacità di rilasciamento dimostrata dallecellule endoteliali, quanto la ridotta biodisponibilità di NO. Per tale ragione la FMD è un marker di disfunzioneendoteliale, di aterosclerosi precoce e di eventi coronarici.Nei soggetti con maggiore incremento di peso nel periodo immediatamente successivo alla nascita, rispetto aquelli con aumento ponderale più modesto, si è osservata una riduzione del 4% della FMD dell’arteria brachiale(Figura 3): un effetto simile a quello indotto nell’adulto dal diabete mellito insulino-dipendente e dal fumo. Un altro studio, su neonati a termine piccoli per l’età gestazionale (Singhal, in corso di revisione) ha dimostratoun incremento di 3,2 mmHg della pressione diastolica a 6-8 anni nei soggetti alimentati con formula arricchitarispetto alla formula standard (Figura 4).Questo dato acquista una rilevanza non solo clinica ma anche sociale se si considera che una diminuzione dellapressione diastolica di 2 mmHg si associa a una riduzione del 16% dell’ipertensione, del 6% di coronaropatia, del15% di ictus e, nei soli Stati Uniti, di 100.000 decessi annui per cause cardiovascolari.Il dilagare dell’obesità infantile, che vede l’Italia primeggiare in Europa, affonda quindi le proprie radici anche inun accrescimento troppo rapido: la citazione di Metcalfe (2001) “cresci ora, paghi dopo” sintetizza in maniera inci-siva i concetti fin qui illustrati.

Un parallelismo con altre specie animali Benchè il ratto neonato potrebbe non rappresentare un modello di riferimento, essendo partorito in una fase disviluppo più precoce rispetto al neonato umano, è emersa una curiosa analogia tra varie specie animali. È statoinfatti dimostrato che l’accelerazione della crescita nella “sensitive window” riduce il deposito di lipidi nel salmo-ne atlantico, riduce le capacità di sopravvivenza di alcune farfalle e compromette la tolleranza al glucosio e, comegià accennato, la durata della vita dei ratti: ogni specie ha infatti propri regolatori della crescita, che influenzanocontemporaneamente la longevità (Figura 5).Ma qual è il periodo finestra critico per obesità e rischio cardiovascolare? Barker, sulla base di rilievi epidemiolo-gici, aveva ipotizzato che le patologie più frequenti dell’età adulta, quali ipertensione, coronaropatie e diabete ditipo 2, fossero legate a uno scarso sviluppo intrauterino a seguito di uno squilibrio tra le richieste del feto e lacapacità dell’unità materno-placentare di soddisfarle. Una recente pubblicazione di Stettler et al. (Circulation,

Figura 4 - Relazione trapressione diastolica a 6-8

anni e nutrizioneneonatale

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2005; 111: 1897-903) ha dimostrato, in una coorte di lattanti europei e americani alimentati con formula, che l’in-cremento di peso nella prima settimana di vita potrebbe condizionare un rischio di obesità del 30% in età adulta.Un ulteriore lavoro di Barker et al. (N Engl Med J, 2005; 353:1802-9) su 8760 individui nati tra il 1934 e il 1944 hainoltre evidenziato che in media gli adulti che erano andati incontro a un evento coronarico avevano un basso pesoalla nascita, erano magri a 2 anni e avevano in seguito acquistato peso rapidamente (Figura 6): un profilo di cre-scita, questo, che si è associato a sviluppo di resistenza all’insulina e richiama l’attenzione sul fatto che il rischiodi eventi coronarici sembra più fortemente legato alle variazioni dell’indice di massa corporea (BMI) nel corso del-l’infanzia piuttosto che a un singolo valore di BMI raggiunto in un determinato momento di vita.Il problema che quindi si pone nei neonati vulnerabili è quello di un giusto compromesso tra supporto alla cresci-ta, salute ossea e sviluppo cognitivo (nei paesi a basso reddito, per esempio, i neonati piccoli per l’età gestaziona-le con incremento ponderale più rapido registrano il 65% in meno di ricoveri in ospedale) e corrispondente rischioin epoche di vita successive di malattia cardiovascolare e obesità.Alla luce di queste osservazioni, l’acquisizione di nuovi dati sarà fondamentale per la messa a punto di futuri pro-grammi di intervento nell’ambito della sanità pubblica per la promozione della salute infantile e la prevenzionedelle malattie cardiovascolari nell’adulto.

Figura 5 - Esempi direlazione tra crescita elongevità (Longo & Finch,Science 2003)

Figura 6 - Profilo dicrescita dei soggetti di

sesso maschile che hannopresentato un evento

coronarico (Barker et al.,voce citata nel testo)

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Lo svezzamento: quali evidenze? Kim Fleischer Michaelsen

Lo svezzamento è il periodo di passaggio dall’alimentazione esclusiva a base di latte all’introduzione dei cibisolidi. Benchè siano pochi gli studi in grado di fornire risposte certe, sul ruolo che questo eserciterebbe sullacrescita del bambino, alcuni aspetti hanno assunto particolare evidenza, tra i quali l’influenza che il tipo dialimentazione è in grado di svolgere sulla crescita. Infatti l’attenzione si è spostata recentemente sui primianni di vita del bambino: l’interesse degli studiosi si è spinto a considerare non più la sola condizione dibasso peso alla nascita ma a una valutazione più ampia dello stato di nutrizione e dell’andamento della cre-scita nel periodo post-natale.

Allattamento naturale e IGF-1 (Insulin-like Growth Factor)Cosa si intenda per “crescita ottimale” e quali siano i suoi indicatori sono domande che ancora non hanno tro-vato una chiara definizione. Da tempo inoltre si discute su quale sia il momento appropriato per l’inizio dellosvezzamento: in alcuni paesi si considera adeguato il sesto mese, in altri il periodo è indicato fra il quarto e ilsesto mese, in ogni caso mai prima del quarto. Una teoria recente ha segnalato come anche l’accrescimentoeccessivo dei bambini allattati al seno, nei primi mesi di vita, sia correlabile ad un rischio di malattie cardiova-scolari in età adulta (Singhal A, Lancet, 2004; 363:1642-5), ma non si sa quale sia il periodo sensibile né qualisiano gli indicatori adeguati (l’altezza o la lunghezza del bambino).Una metanalisi di Dewey et al., Pediatrics, 1995; 96:504-10), ha evidenziato che i bambini allattati al seno cre-scono meno di quelli allattati con formula. Altri autori hanno rilevato che il latte materno non stimolerebbe IGF-1 come quello formulato, trovando, fra i 3 e i 6 mesi di età, valori di IGF-1 più bassi nei bambini allattati al senorispetto a quelli nutriti con latte formulato (Savino et al.: 531-7). Il latte materno potrebbe comunque programmare il livello di IGF-1, mantenendone bassi i valori durante ilperiodo dell’allattamento e determinandone valori più elevati successivamente, come emerso da uno studio dicoorte (Alspac) che ha dosato i valori di IGF-1 di 448 bambini di 7-8 anni d’età, mai allattati, parzialmente allat-tati al seno e allattati al seno in modo esclusivo per almeno 2 mesi (Martin et al., J Clin Endocrinol, 2005; 62:728-37). Alcune indagini epidemiologiche sulla popolazione sembrano confermare questa teoria, suggerendo un’as-sociazione fra il latte materno e la statura: nei soggetti allattati al seno la lunghezza della gamba era sempremaggiore di quella degli allattati con formula (Martin et al., Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed, 2002; 87:F193-201). In generale, quindi, durante l’allattamento al seno si osservano una minor crescita lineare e valori più bassi diIGF-1; successivamente, durante l’infanzia e l’età adulta i valori di IGF-1 sarebbero maggiori, così come più ele-vato sarebbe l’incremento della statura.

Figura 1 - Andamentodella crescita di bambini

in paesi in via di sviluppo

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Svezzamento e IGF-1Anche durante lo svezzamento possono intervenire dei fattori che continuano a influenzare la produzione di IGF-1,ma ancora non è chiaro quale sia il periodo sensibile da considerare. Ci sono evidenze che provano un ruolo attivodel latte vaccino nell’aumentare il livello di IGF-1, mentre nulla si sa del ruolo degli altri alimenti.Da uno studio che ha confrontato i dati globali della crescita di bambini in paesi in via di sviluppo, in relazione aglistandard WHO (World Health Organization), emerge una diminuzione dello stato nutrizionale fra i 3 e i 18 mesi,quando ancora l’alimentazione non è ottimale e manca la protezione del latte materno (Shrimpton R, Proc Nutr Soc,2002; 61:223-9; Figura 1). Soprattutto nei paesi in via di sviluppo lo svezzamento è importante come prevenzionedella malnutrizione che potrebbe insorgere successivamente.È interessante notare come lo stesso pattern di crescita sia caratteristico di bambini sottoposti ad un regime alimen-tare macrobiotico (vegetariano). Questo tipo di dieta, priva di grassi animali, con basso tenore calorico e povera inferro può essere responsabile di un minor accrescimento, di un ritardato sviluppo e di rachitismo a seguito di caren-za di vitamina D.Durante lo svezzamento gli apporti di nutrienti e di energia cambiano drammaticamente, rispetto al periodo prece-dente. Il periodo di introduzione di alcuni alimenti (carne, pesce, glutine e il latte vaccino), il contenuto proteico, diferro e di zucchero, la densità energetica della dieta, la quantità e la qualità dei grassi costituiscono i principali aspet-ti da indagare.

I lipidiDurante l’allattamento il contributo energetico dovuto alla materia grassa è pari al 52%; un valore che scende finoal 30% nel corso dello svezzamento (Figura 2). Una dieta povera in grassi potrebbe causare problemi di accrescimento. Altri fattori determinati, oltre al ridottoapporto energetico e alla scarsa densità energetica, sembra siano il numero dei pasti in cui viene suddiviso il fabbi-sogno nutrizionale giornaliero, l’insorgenza di eventuali infezioni e, non meno importante, l’attenzione che il geni-tore ripone nel nutrire il bambino e nel rispondere alle sue esigenze. Benchè nei paesi industrializzati manchino studi epidemiologici in grado di dimostrare un’associazione significativafra il minore apporto di grasso e il ridotto accrescimento, l’ESPGHAN Committe on Nutrition, per prevenire possibilieffetti negativi sulla crescita, ha raccomandato nel 1994 che non vi sia alcuna restrizione del contenuto in grassi nelprimo anno di vita e una graduale diminuzione dei lipidi dietetici fino al 30-35% negli anni successivi. Anche le con-clusioni cui è giunto il Danish Nutritional Council nel 2004 pur su basi scientifiche limitate, prevedono di:• evitare una dieta a ridotto contenuto di grasso• evitare latte a ridotto contenuto di grasso prima dei 12 mesi e latte scremato prima dei 3 mesi (dai 12 mesi sug-

geriscono l’uso di latte con l’1,5% di lipidi e dopo i 3 anni con un tenore lipidico inferiore allo 0,5%)• aggiungere un cucchiaio di olio ad ogni pasto (soprattutto se a base di vegetali)• ridurre i grassi saturi al 10% dell’energia dai 12 mesi.Mancano forti evidenze delle conseguenze che una dieta ricca di grassi può avere sulla composizione corporea.

Figura 2 - Andamento delcontenuto energetico del

grasso della dieta nelprimo anno di vita in

bambini danesi

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Nessuna associazione tra la quantità di grasso e l’indice di massa corporea (BMI) è stata riscontrata in bambini da2 a 5 anni (Davies PS. Eur J Clin Nutr, 1997; 51:443-8, Shea et al., Pediatrics, 1993; 92:579-86) o tra la quantità digrasso nella dieta e la percentuale di grasso corporeo (Atkin and Davies Am J Clin Nutr, 2000; 72:15-21) e nessunadifferenza nella composizione corporea in bambini di 2 anni che consumavano latte al 2% o al 3,5% di grasso(Wosje et al., J Am Diet Assoc; 2001; 101:53-6).In generale si può affermare che l’aggiunta di un cucchiaio d’olio apporta il 14% del fabbisogno energetico di unbambino di un anno. La qualità dei grassi sembra invece avere una certa importanza. Uno studio interventisticoha mostrato una marcata influenza della qualità del grasso sulla pressione sanguigna. Sono stati randomizzati 83bambini fra i 9 e i 12 mesi, con latte vaccino o formule nelle quantità raccomandate, addizionati o meno con oliodi pesce. I soggetti che assumevano olio di pesce hanno mostrato un abbassamento della pressione sistolica paria 6 mm Hg (Damsgaard et al., J Nutr, 2006; 136:94-9).

Le proteineDurante lo svezzamento la percentuale energetica da proteine subisce una variazione sensibile, aumentando del15-20% rispetto ad un’alimentazione esclusivamente a base di latte materno. Tra i 9 e i 12 mesi un corretto appor-to proteico è pari a 1,02 g/Kg di peso corporeo, ma l’assunzione media giornaliera si aggira fra i 3 e i 5 g/Kg di pesocorporeo (alcuni studi danesi e italiani riportano che al 90-95° percentile il consumo è pari a 6-7 g/kg di peso cor-poreo). Nei paesi industrializzati non si rilevano problemi legati alla scarsa assunzione di proteine, poiché lo svez-zamento assicura comunemente unapporto proteico sufficiente (Figura 3). Illatte vaccino da solo, per esempio, riescea coprire in totale il fabbisogno, fornendocirca 3,5 g/dl.Sono state formulate alcune ipotesi suglieffetti a lungo termine che una dieta adalto apporto proteico può comportare unelevato carico renale e un aumento dellafiltrazione glomerulare. Uno studio danese condotto su 631 bambi-ni, randomizzati con formula e lattematerno, cui è stata monitorata la misuradel rene a diverse età (alla nascita, a 3 e a18 mesi), ha rivelato che il rene degli allattati con formula era più largo, probabilmente per il volume di liquido fil-trato, ma a 18 mesi questa differenza tendeva a scomparire (Schmidt IM et al., Pediatr Nephrol, 2004; 19:1137-44).Manca quindi una chiara indicazione che l’effetto di un aumentato apporto proteico sia dannoso per il rene. Sebbene non vi siano chiare evidenze, si è a lungo discusso che un elevato apporto proteico sia anche causa di unaumento del rischio di obesità, secondo un meccanismo in cui l’elevato tenore proteico della dieta causerebbe unincremento del valore di IGF-1, a sua volta responsabile di una moltiplicazione di adipociti e di un precoce deposi-to adiposo. Per quanto riguarda altri aspetti correlati all’elevata assunzione proteica sono stati ipotizzati:• elevati livelli plasmatici di aminoacidi• la stimolazione della crescita (legata al consumo di latte vaccino)• la stimolazione della secrezione di IGF e di insulina• la riduzione della pressione sanguigna.La produzione di IGF-1 sembra correlata in modo significativo all’assunzione di proteine animali piuttosto che vege-tali: in particolare, le proteine del latte sembra riescano ad incrementare il valore di IGF-1 del 30%, per un aumen-to del consumo di latte da 200 a 600 ml.Il latte vaccino sembra anche responsabile della statura, come dimostrerebbero alcuni studi su bambini che, nonconsumandone perché intolleranti al lattosio o allergici, risultavano essere significativamente più bassi (Black etal., Am J Clin Nutr, 2002; 76:675-80; Stallings et al. J Pediatr Gastroenterol Nutr, 1994; 18:440-5; Paganus et al., ActaPaediatr, 1992; 81: 518-21; Isolauri et al., J Pediatr, 1998; 132:1004-9). Tentando una classificazione, in funzione delle conseguenze sulla salute del bambino, possiamo suddivideregli effetti del latte vaccino secondo lo schema seguente.

Figura 3 - Apporto proteico durante lo svezzamento nei paesiindustrializzati (Rolland-Cachera et al., Acta Paed 1999; 88:365-7)

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EFFETTI POSITIVI EFFETTI NEGATIVI

• fonte di proteine di alta qualità • alto contenuto proteico• promotore della crescita, • alto carico renale di soluti• specialmente con una dieta vegetariana • fonte povera di ferro• fonte di importanti nutrienti • può causare disturbi intestinali• alta densità energetica • alto contenuto di grassi saturi• fonte di peptidi, di acido linoleico • rischio di dipendenza da latte (“milkaholics”)• coniugato (CLA) e altri componenti • con potenziali effetti positivi

Alcuni studi osservazionali hanno evidenziato un relazione fra l’alto apporto proteico della dieta e la pressio-ne sanguigna. Secondo Ulback et al. un aumento di una deviazione standard nell’assunzione proteica corri-sponde alla diminuzione della pressione sistolica di 3 mmHg (Am J Clin Nutr, 2004; 79:1095-102). Altri studiinfine hanno ipotizzato un ruolo vasodilatatorio di alcuni aminoacidi attraverso la produzione di ossido nitri-co (NO) o la presenza di sostanze bioattive nel latte, da cui proviene il 33% dell’apporto proteico.

Il ferroIl ferro è uno dei componente più importanti della dieta di questo periodo. La carenza marziale si instauracomunemente intorno al secondo anno di vita e se trascurata, provoca anemia, responsabile di un ritardatosviluppo psicomotorio. Le principali fonti alimentari di ferro sono la carne e il pesce, la cui età di introduzio-ne è ancora un punto di discussione in numerosi paesi.L’introduzione graduale di carne e di pesce dai 6 mesi, assicura un maggior apporto anche di altri elementiquali lo zinco, la vitamina D e acidi grassi w3. Tuttavia il consumo di carne e soprattutto di pesce già dall’ini-zio dello svezzamento trova in alcuni paesi delle resistenze dovute a presunti problemi connessi all’ elevatoapporto proteico e ad rischio di iperallergenicità, di cui però mancano chiare evidenze.

Microflora intestinale e svezzamentoComé è noto, la microflora intestinale costituisce il principale stimolo per la crescita del GALT (Gut AssociatedLymphoid Tissue) che, pur di piccole dimensioni nel neonato, è il principale sistema di difesa dell’organismo. Sisa che il latte materno, grazie all’apporto di bifidobatteri, ha un effetto molto marcato sulla composizione dellamicroflora intestinale del neonato che è quindi associata allo stato delle difese immunitarie e alla possibilità disviluppare allergie. Anche lo svezzamento sembra influenzare la composizione della microflora intestinale. Unostudio interventistico ha esaminato, mediante tecnica DGGE (Denaturing Gradient Gel Electrophoresis) la micro-flora intestinale di 100 bambini a 10 mesi, randomizzati con latte formulato o vaccino, con o senza olio di pesce.La tecnica, che non considera individualmente i batteri ma il pattern di tutta la microflora, ha messo in eviden-za un chiaro effetto dell’olio di pesce sulla microflora dei bambini che consumavano latte vaccino, mentre taleeffetto non si è riscontrato quando l’olio era aggiunto al latte formulato (Nielsen S. - submitted).

Future aree di studio e raccomandazioni Vengono qui riportate le tematiche di ricerca del prossimo futuro e le indicazion relativamente all’alimentazioneconsapevole (responsive feeding) dei bambini, presupposto fondamentale per la prevenzione dell’obesità e la pro-mozione di uno stile di vita corretto sin dalle prime epoche di vita.

IPA/SPGHAN Workshop – Research Priorities in Complementary Feeding (Casablanca August 1999)Proceedings in Supplement to Pediatrics 2000 vol 106, n°5• Come dovrebbe essere definita e valutata la crescita ottimale e la composizione corporea e come sono da met-

tere in relazione alla crescita gli outcome funzionali?• Lo svezzamento può influenzare l’imprinting metabolico?• Lo svezzamento ha un ruolo sulla salute nella vita adulta?• Che ruolo svolge lo svezzamento nello lo sviluppo di immunotolleranza, enteropatie e malattie atopiche?• Lo svezzamento può influenzare lo sviluppo del gusto, dell’odorato e il controllo dell’appetito?• Gli allattati al seno e i bambini allattati con formule dovrebbero avere un’alimentazione differenziata durante

lo svezzamento?

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WHO/PAHO guiding principles for Complementary feeding Part of the Global Strategy on Infant and Young Child Feeding (IYCF) Background papers and conclusion in Food and Nutrition Bullettin, 2003; vol. 24, pp. 1-140 • Durata dell’allattamento esclusivo/introduzione dei cibi solidi• Mantenimento dell’allattamento al seno• “Responsive feeding”• Preparazione e conservazione dei cibi• Consistenza del cibo• Frequenza dei pasti e densità energetica• Contenuto in nutrienti durante lo svezzamento• Uso di supplementi di vitamine e minerali o di prodotti fortificati• Alimentazione durante o dopo una malattia.

“Responsive feeding”• Nutrire i bambini direttamente ed assistere quelli più grandi quando mangiano da soli, ponendo attenzione al

loro stato di sazietà o di fame• Offrire il cibo lentamente e con pazienza, incoraggiando i bambini a mangiare senza mai forzarli• Se il bambino rifiuta il cibo, proporre diverse combinazioni di cibo, nel gusto, nella consistenza • Minimizzare le distrazioni durante i pasti, se il bambino perde facilmente interesse• Il momento del pasto è un momento di apprendimento e di amore: parlare al bambino durante il pasto, man-

tenendo sempre il contatto visivo.

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L’ampia disponibilità di alimenti specifici per l’infanzia, reperibili sul mercato, è in grado di garantire un’ade-guata quantità di cibo ai neonati e ai bambini e quindi un livello di sviluppo ottimale. Questo perché, con lasola eccezione della vitamina D, gli alimenti contengono tutti i nutrienti essenziali di cui una crescita equilibra-ta necessita. Sembra chiaro perciò che il futuro della nutrizione pediatrica può essere diretto verso l’aggiuntadi benefici specifici agli alimenti che, pur conservando le caratteristiche proprietà nutrizionali, siano anche ingrado di intervenire sui meccanismi fisiologici dell’organismo, modificandoli o potenziandoli verso migliori con-dizioni di vita.

Le possibili linee di ricercaAccenneremo in questa trattazione a quattro ipotetici ambiti di sviluppo della ricerca, con particolare attenzio-ne ad alcune aree per le quali vi sono già importanti evidenze sperimentali.Una prima strategia di sviluppo prevederebbe l’intervento sugli alimenti conferendo loro proprietà di migliora-mento delle funzioni di protezione dell’organismo attraverso i seguenti criteri:• prevenzione delle allergie, delle infezioni e potenziamento del sistema immunitario• sviluppo intestinale e delle relative funzioni con l’ausilio di:

– probiotici– glicolipidi e glicoproteine– lattoferrina e lisozima– organismi geneticamente modificati (vaccini o antigeni “knock-out”)

• sicurezza del cibo e conservazione.L’intestino umano è colonizzato da 1000 specie batteriche (in tutto 1013-1014 microrganismi), il cui genoma,sommato a quello umano accresce enormemente il numero di geni presenti nell’intestino. Come è stato docu-mentato da numerose ricerche svolgono anche attività che l’organismo umano non è in grado di effettuare eche interagisce direttamente con la fisiologia umana, partecipando all’assorbimento dei nutrienti, allo svilup-po del sistema immunitario della mucosa intestinale, ai processi di angiogenesi e al rinnovo delle cellule epi-teliali.25 studi randomizzati controllati hanno comprovato la capacità da parte dei batteri probiotici di prevenire ifenomeni di diarrea indotta dal con-sumo di antibiotici (Figura 1). Il ruolo diretto della microflora infenomeni fisiologici e nel coinvolgi-mento del tessuto intestinale è delresto dimostrata anche da altristudi su modelli animali.

Sviluppi futuri della nutrizione pediatrica e degli alimenti per l’infanzia Dennis M. Bier

Figura 1 - Studi randomizzaticontrollati che provano la capacità di

prevenzione della microfloraprobiotica sulla diarrea indotta da

antibiotici (Mc Farland LV. Am JGastroenterol, 2006; 101:812-22)

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La Public National Accademy of Science, nel 2004, ha pubblicato uno studio che dimostrava come la flora bat-terica sia in grado di generare una proliferazione cellulare dell’epitelio: il numero di cellule epiteliali era signi-ficativamente maggiore in animali esposti dalla nascita ad una microflora (“conventionally raised”: CONR)rispetto a quanti erano cresciuti senza essere esposti (“germ free”: GF) ad alcun specifico microrganismo pertutta la vita (Figura 2).Non di meno alcuni autori avanzano la suggestiva ipotesi che, manipolando la microflora intestinale con spe-cifici microrganismi si potrebbe essere in grado di regolare il bilancio energetico in individui obesi (Ley, Ruth etal., Proc Natl Acad Sci Usa, 2005; 102:11070-5). Queste le conclusioni di uno studio su topi in cui si è osservatocome, indipendentemente dalla parentela e, a differenza di quanto avveniva in topi magri, la popolazionemicrobica dell’intestino degli animali obesi era in prevalenza composta da specie batteriche solitamente nonpresenti, i Firmicutes: probabilmente una risposta adattiva ospite-mediata per ridurre nell’animale l’assunzio-ne o lo stoccaggio di energia, limitando, per esempio, la capacità di fermentazione dei polisaccaridi (Figura 3).Future applicazioni potrebbero inoltre coinvolgere l’area di ricerca relativa agli organismi geneticamente modi-ficati, ipotizzando un loro coinvolgimento nei meccanismi fisiologici di prevenzione. Piante con genoma modi-ficato possono alterare l’immunità, modulare le risposte allergiche e i processi infettivi dell’organismo umano,attraverso la produzione di vaccini (immunizzazione attiva), di anticorpi (immunizzazione passiva), di proteinecon ruolo di difesa (lattoferrina, lisozima) o la riduzione o la totale eliminazione di antigeni. La seconda via di sviluppo potrebbe basarsi sulla ricerca finalizzata alla riduzione del rischio delle malattie cro-niche mediante una nutrizione appositamente studiata (specifica per il genotipo o mediante regolazione epige-netica della la dieta). A tale riguardo fondamentale sembra l’interferenza con i processi di metilazione del DNAche determina una modificazione dell’espressione genica ereditaria, secondo un meccanismo che prevede ilcoinvolgimento decisivo di alcuni nutrienti (colina, vitamina B12, folati) e che induce il silenziamento di genispecifici. Uno studio ha valutato la perdita di imprinting materno nell’espressione dell’IGF-2, in topi esposti a 3 diversitipi di dieta dopo svezzamento (Waterland RA et al., Hum Mol Genet, 2006; 15:705-16). L’esperimento ha eviden-ziato come una dieta povera in nutrienti essenziali (vitamina B12, acido folico, metionina e colina) permettal’espressione dell’IGF -2 oltre il 20%, mentre i topi sottoposti ad una dieta naturale, con tutti i nutrienti essen-ziali, mostrano la maggior perdita dell’imprinting genetico a livello dell’IGF-2 (Figura 4). Questo suggeriscel’ipotesi che il tipo di dieta possa permanentemente influenzare l’espressione del IGF-2 e propone interessantiprospettive per l’alimentazione umana, in particolare successiva allo svezzamento.

Figura 2 - Stimolazione della microflora sullaproliferazione delle cellule dell’epitelio intestinale (Rawlset al., Proc Natl Acad Sci U S A 2004; 101:4596-601)

Figura 3 - Distribuzione della microflora intestinale in topi

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Anche l’epigenetica costituisce un suggestivo campo di applicazione, determinando una modificazione del feno-tipo nella generazione successiva, in seguito a variazioni della dieta della madre, in grado di indurre la metila-zione del DNA. Il mantenimento del bilancio energetico potrebbe d’altra parte essere ottenuto attraverso lariduzione della densità energetica dei cibi, mediante l’impiego di cibi che aumentano il senso di sazietà, dimi-nuiscono l’appetito o aumentano la termogenesi.Studiare la giusta composizione della dieta rimane tuttavia uno strumento essenziale per la regolazione di alcu-ni meccanismi fisiologici.Alcune sostanze, tra cui ormoni gastrointestinali, possono indurre un effetto saziante, aiutando il controlloenergetico e riducendo l’introito di cibo. In generale però sembra sia la densità energetica del cibo il fattorechiave che regola l’apporto alimentare. Messe nelle condizioni di poter consumare cibo secondo volontà, le per-sone tendono a consumare una quantità costante di cibo piuttosto che una costante quantità di energia. Eccoperché diventa fondamentale, anche nell’ottica di prevenzione dell’ obesità che la densità energetica dellarazione alimentare, a parità di quantità, sia bassa, preferendo diete a base di alimenti ricchi d’acqua, di fibre oamidi parzialmente digeribili (Figura 5).Altre aree di studio possono potenziare distretti dell’organismo specifici o distinte funzioni. La terza linea di svi-luppo si orienta al potenziamento delle performance mentali con l’integrazione nella dieta degli acidi grassipolinsaturi a catena lunga (LCPUFA) e attraverso fonti energetiche modificate, quali macronutrienti che fungo-

Figura 4 - Perditadell’imprinting indotto da

modificazioni della dieta

Figura 5 - Densità energetica in funzione del contenuto in acqua e in grasso dei cibi (Drewnowski A. Nutr Rev, 1998; 56:347-53)

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no da ligandi per recettori nucleari, probiotici, effetti della leptina sui tessuti osseo e adiposo e il controllo dellasecrezione insulinica, dell’indice glicemico e del carico glicemico. Nell’ambito delle potenzialità che i probioti-ci sembrano avere, è ancora una volta interessante notare come la variazione della distribuzione del grasso cor-poreo, in modelli animali, dipenda dall’esposizione ad una microflora colonizzante l’intestino che, interagendocon gli enterociti dell’epitelio intestinale, interviene modificando l’apporto di cibo, il deposito di grasso e laspesa energetica (Backhed et al., Proc Natl Acad Sci, 2004; 101:15718-23).La quarta e ultima via di sviluppo, infine, mira al potenziamento del contenuto di nutrienti specifici attraversotecniche transgeniche. Alcune varietà vegetali, possono essere manipolate alterando il contenuto in calcio finoa quantità anche di tre volte superiori alla norma. Un ulteriore obiettivo è l’ottimizzazione di sostanze di origi-ne vegetale promotrici della salute (“fitonutrienti”), fra cui antiossidanti e favonoidi.La ben nota relazione inversa esistente fra i flavonoidi della dieta contenuti nel cioccolato, nel vino e nel te e lasalute vascolare è dovuta agli effetti dei flavonoidi stessi sui meccanismi di difesa ossidativi e sulla reattivitàvascolare. Alcuni studi hanno infatti evidenziato gli effetti dei flavonoidi del cacao sulla pressione sanguigna, chemostra una significativa diminuzione in corrispondenza del consumo di cioccolato ricco in polifenoli (Figura 6).Sembra chiaro perciò che il futuro della nutrizione pediatrica può essere diretto verso l’aggiunta di benefici spe-cifici agli alimenti che, pur conservando le caratteristiche proprietà nutrizionali, siano anche in grado di inter-venire sui meccanismi fisiologici dell’organismo, modificandoli o potenziandoli verso migliori condizioni di vita.

Figura 6 - Effetto delconsumo di cioccolatoricco in polifenoli (Taubertet al. JAMA, 2003;290:1029-30)

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L’allattamento al seno esclusivo nel primo semestre di vita è consigliato dalle più autorevoli società scientificheinternazionali. Negli Stati Uniti, in particolare, come mostrano i dati del 2001 (Figura 1) soltanto un terzo delledonne allattano fino al sesto mese, e quale obiettivo per il 2010 è stato posto l’aumento del 50% degli attualiindici di prevalenza. Il sistema immunirtario innato, di cui il latte è espressione, è il sistema di difesa di prima linea dei mammiferiin quanto non richiede selezione clonale o riarrangiamento genico, è in grado di discriminare il self dagli agen-ti patogeni, che riconosce attraverso un numero limitati di “pattern-recognition receptors” (PRRs) ed è provvi-sto di fagociti, cellule dendritiche e citochine e mediatori di vario genere. Tali azioni ben compensano lo statodi relativa immunodeficienza fisiologica del neonato, caratterizzato da una ridotta produzione di inferferon alfa(IFN-a) nei confronti della maggior parte degli stimoli antigenici e di citochine di provenienza monocitaria (IL-10, IL-12, IL-15, IL-18, TGF-b), da una bassa attività delle cellule natural killer (NK) e da un deficit di adesione, che-miotassi e fagocitosi in assenza di opsonine.

Latte materno: un sistema immunitario naturale Roberto P. Garofalo

Figura 1 - Prevalenzadell’allattamento al senoesclusivo negli Stati Uniti

(Ryan AS, et al., Pediatrics2002, 110:1103-1109)

Figura 2 - Rischio diinfezioni respiratorie neibambini di 6-24 mesi. Datidel National Health andNutrition Survey (NHANES)III (Caroline J. Chantry etal., Pediatrics 2006,117:425-432)

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L’azione immunomodulatrice del latte materno è documentata da tre linee di evidenza: indagini epidemiologi-che e osservazionali, dati che mostrano una modificazione della risposta del lattante e identificazione nel lattestesso di fattori con valenza immunologica (Garofalo RP and Goldman AS, Clin Perinatol, 1999; 26:361-377).Nell’ambito del National Health and Nutrition Survey (NHANES) III è stato per esempio rilevata una minore inci-denza di polmonite ed infezioni delle vie aeree superiori nei bambini d’età inferiore a 2 anni allattati esclusiva-mente al seno per oltre 6 mesi rispetto a quelli allattati per una durata inferiore (Figura 2). Oltre che nei confronti delle infezioni respiratorie l’allattamento al seno, come risulta da numerosi lavori, con-ferisce protezione nel lungo termine nei confronti di asma, allergopatie, malattia di Crohn e linfomi. Per quanto riguarda l’influenza del latte materno sulla risposta immunitaria del bambino sono numerose lesegnalazioni (Figura 3), come pure ampio è l’elenco di fattori immunitari (tra cui citochine chemochine, fattoridi crescita, glicoconiugati, pattern recognition receptor, antiossidanti, nucleotidi, lisozima, lattoferrina e a-lac-talbumina) che sono comuni ai siti mucosali, resistono alla digestione e svolgono un’azione sinergica multifun-zionale (Garofalo RP, Biol Neonate, 1998; 74:134-142; Garofalo RP and Goldman AS Clin Perinatol 1999; 26:361-377).

I fattori immunitari innati presenti nel latteI fattori innati presenti nel latte, a cui già si è fatto cenno, possono essere classificati in tre gruppi: • citochine, chemochine e fattori di crescita• glicoconiugati• pattern recognition receptor• antiossidanti.

Le citochine presenti nel latte sono numerose (Figura 4):alcune sono prodotte da cellule presenti nel latte stesso,altre dall’epitelio della ghiandola mammaria.

Citochine Concentrazione(pg/ml)

IL-1β 1130 ± 478

IL-6 151 ± 89

IL-10 3400 ± 3800

IL-12 1408 ± 2256

IL-18 400 ± 600

TFN-α 62 ± 183

TGF-β1 731 - 844

IFN-g 100 - 970

G-CSF ~ 358

GM-CSF 100 ± 193

M-CSF 3740 – 52.470 (UI/ml)

Figura 3 - Evidenze dimodificazione dellarisposta immunitaria neibambini allattati al seno

• Livelli sierici più elevati di interferon-a in caso di infezione da RSV (Chiba et al,.J Med Virol, 1987)

• Concentrazione più elevata di fibronectina (Friss et al., 1988 Arch, Dis, Child)• In modelli animali passaggio di cellule del latte attraverso la mucosa intesti-

nale del neonato (Head et al., 1977, Weiler et al., 1983, Hughes et al., 1988,Jain et al., 1989)

• Incremento della risposta anticorpale sierica, slgA, proliferazione dei linfocitiT dopo vaccinazione per via orale o sistemica (Stephens et al, 1984, Hahn-Zoric et al 1990, Pickering et al., 1998)

• Aumento di livelli di slgA urinarie (Goldblum et al, 1989, Prentice et al., 1987)• Incremento più rapido di slgA nei primi 6 mesi di vita (Fitzsimmon et al., 1994)

Figura 4 - Citochine presenti nel latte e rispettiva concentrazione

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I glicoconiugati (Figura 5) sono determinanti nella risposta contro agenti infettivi: gli oligosaccaridi fucosilati,per esempio, sono efficaci nel contrastare l’insediamento di Campylobacter jejuni e Vibrio cholerae grazie aun’azione competitiva sui recettori dei patogeni. Si tratta di un aspetto di particolare rilevanza in quantol’espressione degli enzimi che controllano la sintesi di alcune di queste molecole è geneticamente determina-ta e alcuni individui producono scarse quantità di oligosaccaridi coniugati.In questa prospettiva si spiegano le conclusioni di Morrow et al. (J Pediatr, 2004, 145:297-303) sul follow-up per2 anni di 93 bambini alimentati al seno che hanno evidenziato una correlazione inversa tra contenuto di oligo-saccaridi 2’-fucosilati nel latte e incidenza di diarrea da Campylobacter, Norovirus e altri agenti (Figura 6).

Nell’ambito dei pattern recognition receptor è da ricordare la famiglia dei “toll-like receptor”, il cui dominiointracellulare trasmette un segnale che con un meccanismo a cascata induce l’espressione di una serie di genicoinvolti nella risposta infiammatoria e immunitaria. Questi recettori, espressi da macrofagi e altre celluleimmunocompetenti, si legano a vari componenti di agenti patogeni: per esempio il TLR3 si lega al DNA a dop-pio filamento, il TLR5 riconosce la Suggestiva è la scoperta di Labeta et al. (J Exp Med, 2000; 191:1807-1812) di un polipeptide di 48 k-dalton nel latteumano caratterizzato come la forma solubile del recettore CD14, che raggiunge concentrazioni particolarmenteelevate nel colostro e conferisce protezione durante il periodo di colonizzazione dell’intestino del neonato.

Glicoconiugati Patogeni Concentrazionenormale

GM1 Tossina labile, tossina colerica 180 μg/l

GM3 Escherichia coli enteropatogena 13 mg/l

Gb3 Tossina di Shiga 100-150 μg/l

Sulfatide Virus dell’immunodeficienza umana 100 μg/l

Condroitinsolfato Virus dell’immunodeficienza umana 6 mg/l

Lactaderina Rotavirus 100 μg/l

Mucina E. coli con fimbrie S 1 g/l

Glicopeptidemannosilato E. coli enteroemorragica 60 mg/l

Oligosaccaridi Streptococcus pneumoniae 0,2-10 g/l

Oligosaccaridi E. coli enteropatogena 3 g/lLysteria monocytogenes 3 g/l

Oligosaccaridi Campylobacter jejuni 1-25 mg/lfucosilati Vibrio cholerae 1-25 mg/l

Tossina stabile 40 μg/l

Glicani associati Norovirus 370 mg/la macromolecole Pseudomonas aeruginosa

Sialillattosio Tossina colerica 200 mg/lE. coli P. AeruginosaConidi di Aspergillus fumigatus Influenza virusPolymavirusHelicobacter pylori

Figura 5 - Glicoconiugatipresenti nel latte erelativa azione neiconfronti di patogeniintestinali e sistemici

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Figura 6 - Incidenza didiarrea e contenuto dioligosaccaridi 2’-fucosilatinel latte materno

Recentemente il gruppo di LeBouder ha dimostrato che una proteina con peso molecolare di 80 k-dalton è ingrado di stimolare i recettori TLR4 e TLR5 mentre blocca i TLR3 e TLR2. La prima infanzia è un momento di stress ossidativo, che il latte materno è in grado di contrastare. Un esperimento di Friel et al,. (Pediatr Res, 2002, 51:612-618) ha confrontato il latte umano con quello formu-lato sottoponendolo a stress ossidativo: la produzione di radicale ascorbato e il consumo di ossigeno sono risul-tati inferiori nel primo rispetto alla formula, indipendentemente se il latte era stato prelevato dalla madre diun neonato a termine o pretermine. Questo dato acquista notevole rilevanza alla luce di un’evidenza ottenuta in un modello sperimentale animale(Casola et al., J Biol Chem, 2001 8; 276:19715-22): l’infezione da RSV induce infatti l’espressione di una chemo-china, RANTES (regulated upon activation, normal T-cells expressed and secreted) che recluta e attiva monoci-ti, linfociti, eosinofili e altre tipologie di cellule presenti nell’infiltrato infiammatorio polmonare. Il pretratta-mento dei ratti con un antiossidante, il BHA (butylated hydroxyanisol), bloccando il legame del fattore di rego-lazione dell’interferone indotto dall’RSV al promoter di RANTES, ha inibito l’espressione di quest’ultimo media-tore. Si può pertanto evincere che il potenziale antiossidante del latte umano costituisca un fattore di protezio-ne innata nei confronti di questo agente infettivo. Gli studi di genomica e proteomica permetteranno un affina-mento delle conoscenze di questi meccanismi di difesa naturale e prospetteranno forse il razionale per una“supplementazione immunologica” dei latti formulati.

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La realtà attuale delle formule per l’infanzia è rappresentata dallo sforzo coordinato di due istituzioni: • il Codex Alimentarius, Commissione creata nel 1963 dalla FAO e dal WHO per sviluppare standard di compo-

sizione degli alimenti e linee guida rifacendosi ai programmi unificati FAO/WHO, proteggere la salute delconsumatore, promuovere il coordinamento degli standard alimentari a livello internazionale e

• l’ESPGHAN, ovvero la Società Europea di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione pediatrica, il cuiComitato di nutrizione è stato coinvolto alla fine del 2004 per l’aggiornamento delle formule, dopo oltre 20anni dalla risoluzione adottata dal Codex.

Un concetto di particolare rilevanza e attualità è che oggi il latte materno non viene più considerato una for-mula chimica da copiare: la sua composizione, infatti, registra notevoli differenze sia tra una donna e l’altra siain rapporto all’epoca dell’allattamento e gli stessi nutrienti sono presenti nel latte umano con biodisponibilitàvariabile e possono condizionare effetti metabolici altrettanto diversi. Per tali ragioni il criterio attuale è costi-tuito dal “risultato” rappresentato dalla realtà biofisiologica e dalle performance dell’allattato al seno. Un com-plesso insieme di elementi che sono riconducibili essenzialmente a tre parametri: 1) fisiologici (profilo di crescita)2) biochimici (marker plasmatici)3) funzionali (per esempio risposta immunitaria).L’allattato al seno rimane dunque il gold standard ma con un approccio interpretativo diverso rispetto al passa-to: considerando, per esempio, che nel latte materno sono presenti oltre 150 oligosaccaridi, il razionale dellenuove formule è di ottenere, nel bambino alimentato con formula, una flora batterica intestinale il più possi-bile simile a quella del modello di riferimento.La crescita dell’allattato al seno mostra un profilo del tutto peculiare: uno studio italiano (Agostoni C et al., ArchDis Child, 1999; 81:395) ha posto a confronto 73 allattati al seno con 64 allattati artificialmente sottoposti allestesse modalità di svezzamento monitorando l’andamento del peso. Nei primi (Figura 1) si è evidenziato unincremento ponderale maggiore nelle prime settimane, mentre i lattanti alimentati con formula hanno mostra-to un netto recupero del peso nel secondo semestre di vita. In pratica, gli allattati al seno per 12 mesi hanno perso una deviazione standard (DS) di peso nel corso del primoanno di vita nei confronti degli allattati artificialmente, che sulle tavole di Tanner corrisponde a uno sposta-mento rispettivamente dal 75° al 25° percentile e viceversa (Figura 2).Il problema principale è rappresentato dai riferimenti: le curve di crescita utilizzate per anni sono state elabo-rate sulla base di dati relativi ad ampie popolazioni nord-americane, prevalentemente allattate artificialmente,che seguono traiettoriediverse, e presumibil-mente superiori a quel-le degli allattati al seno.In Inghilterra sono stateelaborate curve di cre-scita relative agli allattial seno che permettono

I latti formulati: oggi e domani Carlo Agostoni

Figura 1 - Crescita degliallattati al seno rispetto

agli allattatiartificialmente (Agostoni

et al., voce citata neltesto)

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di definire una crescita “standard” di allattato al seno diversamente che utilizzando i classici percentili diTanner (Figura 2). In questo modo, la variazione di percentili, più contenuta, permette di giudicare diversa-mente le deflessioni di crescita che, soprattutto nel secondo semestre, sono riscontrabili nell’allattato al seno.Allattati al seno e allattati artificialmente possono quindi essere considerati due popolazioni diverse.Presumibilmente fattori genetici, una migliore alimentazione della madre in gravidanza o uno stato socioeco-nomico più elevato creano un effetto che non è circoscritto al solo latte materno ma è meglio definibile come“effetto dell’ambiente in cui viene praticato l’allattamento al seno”.Un’osservazione, questa, confermata da un successivo studio randomizzato di Kramer et al. (Pediatrics, 2002;110:343), l’unico nel suo genere (che abbia seguito cioè criteri di randomizzazione) finora pubblicato. Tali evi-denze hanno portato alla rielaborazione delle curve di crescita, attualmente reperibili all’indirizzo internethttp://www.who.int/childgrowth/en/. Un altro aspetto da considerare è l’efficacia protettiva dell’allattamento al seno nei confronti dell’obesità:diversi studi, come quello di Von Kries et al. (BMJ, 1999; 319:147-150) su 9357 bambini tedeschi d’età compre-sa tra 5 e 6 anni dimostrano infatti che esso avrebbe un effetto protettivo durata-dipendente (Figura 3).Le differenze delle curve di crescita riscontrate tra allattati al seno ed allattati artificialmente, e la associazio-ne con rischi differenziati di sovrappeso ed obesità nelle successive epoche della vita, rappresentano un filo-

Figura 2 - Crescita di unallattato al seno“standard” rapportata alletavole di Tanner (asinistra) e a percentili dicrescita di soli allattati alseno (a destra)

Figura 3 - Prevalenza diallattamento al seno e

obesità (Von Kries et al.,voce citata nel testo)

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ne di studio complementare a quello del programming nutrizionale. Vari studi hanno documentato tassi di cre-scita inferiori per gli allattati al seno nel corso dei primi 12-24 mesi di vita. Va tuttavia sottolineato come ladiretta misurazione della massa grassa corporea riveli, in modo apparentemente contraddittorio, una predo-minanza di massa grassa “viscerale” nell’allattato al seno a 3 e 6 mesi. Nell’insieme, rimane la questione della permanenza dell’effetto protettivo oltre l’età pediatrica, o se interven-ga un fattore sconosciuto (per esempio genetico) “mascherato” dall’associazione con l’allattamento artificia-le nelle prime epoche. Va anche ricordato che, oltre ad un effetto protettivo sull’obesità, l’allattamento al seno avrebbe anche uneffetto positivo durata-dipendente nei confronti dello sviluppo neurocomportamentale (Figura 4). Che un precoce effetto di prevenzione sullo sviluppo di obesità possa avere effetti a lungo termine è esempli-ficato dalla Figura 5.Uno dei principali vantaggi dell’allattamento al seno, tra l’altro, risiede nel fatto che il lattante riesce a con-trollare il quantitativo assunto semplicemente sul proprio senso di sazietà, mentre gli allattati artificial-mente sono in genere “spinti” a terminare il biberon anche se sazi. D’altra parte, l’associazione fra maggio-ri quantità di latte assunte e più rapido incremento ponderale è ben documentato negli allattati artificial-mente.

Figura 4 - Percentuale disoggetti di età adulta conquoziente intellettivo sub-ottimale (<90; Michaelsen

K et al, JAMA 2002;287:2365)

Figura 5 - Vantaggioallattamento al seno vsformula: ipotesi delladecelerazione di crescitaquale spiegazione dellariduzione del rischio diobesità emersa dagli studipiù ampi, ancheconsiderando osservazionidifferenti sulla riduzionedel rischio

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Le formule: l’attualitàLe osservazioni sull’associazione tra latte materno e allattamen-to artificiale hanno portato a nuovi studi per definire le quantitàe qualità ottimali delle formule – ne sono disponibili diversetipologie (Figura 6) – che, qualora il latte materno non fosse suf-ficiente, vanno a sostituire lo stesso nel corso del primo anno divita. La composizione diventa un elemento importante per le formu-le di inizio, che costituiscono l’unica fonte di nutrienti (in analo-gia col latte materno) per i primi 4-6 mesi di vita, e devono quin-di rispondere in maniera assoluta a criteri di adeguatezza nutri-zionale, mentre per le cosiddette formule di proseguimento (peril periodo dell’alimentazione complementare, o divezzamento,fino al dodicesimo mese di vita) si considera il fatto che comun-que vengono assunte in un momento in cui anche altri alimentidiventano fonte di nutrienti per il bambino.Mentre il latte umano è un alimento in grado di cambiare la propria composizione durante il periodo dellalattazione, la formula per l’infanzia è un prodotto a composizione costante e, perciò, deve essere un compro-messo sicuro, sia dal punto di vista della quantità che della qualità di proteine. Le autorità regolatrici (comeil già citato CODEX Alimentarius e la Commissione Scientifica dell’Unione Europea) hanno fissato limiti per icontenuti di macro- e micronutrienti nelle formule per l’infanzia, tenendo conto del diverso valore biologicodelle fonti dei nutrienti stessi (per esempio proteine bovine, grassi di oli vegetali) e del contenuto dei nutrien-ti stessi nel latte materno.La regolamentazione europea presente indica i rapporti proteine-energia (kcal per 100 kcal) compresi tra 7,2e 12% per le formule di partenza e tra 10 e 18% per le formule di proseguimento. La densità proteica più altacerca di rimediare al fatto che la qualità proteica delle formule, in termini di profili di aminoacidi essenzialie semi-essenziali, non è ideale per il bambino come le proteine dal latte materno. Sebbene il livello minimodi proteine delle formule per l’infanzia a partenza dal latte vaccino sia fissato a 1,8 g/100 kcal dalle stesseautorità, attualmente le formule in commercio presentano livelli più elevati. Per quanto riguarda i lipidi (Figura 7) sono gli acidi grassi polinsaturi, e in particolare l’acido docosaesaenoi-co (DHA), i componenti che differenziano notevolmente la composizione del tessuto nervoso dell’allattatoartificialmente rispetto all’allattato al seno, nel quale le membrane neuronali di alcune aree cerebrali sonocostituite quasi totalmente da DHA, oltre il doppio nei confronti dell’allattato artificialmente. L’aggiunta di DHA (ritenuta comunque per ora opzionale) non dovrebbe superare lo 0,5% dell’apporto lipidi-co complessivo, l’acido arachidonico dovrebbe quanto meno eguagliare il DHA e l’acido eicosapentenoico(EPA) non dovrebbe superare quest’ultimo. È importante ricordare che il DHA nelle prime epoche di vita viene “depositato” nelle membrane e riciclato.Dal 3% circa nei grassi del funicolo a 24 settimane esso sale all’8-10% nel neonato a termine, mentre l’ara-chidonico passa dal 5 al 20% circa. In pratica DHA e acido arachidonico costituiscono un terzo dei grassi chela gestante trasferisce al neonato a termine. Anche i nucleotidi sono un ingrediente opzionale e la loro quantità non dovrebbe superare i 5 mg/100 kcal. Tra i carboidrati il lattosio svolge un importante ruolo funzionale per la fisiologia intestinale: in virtù del suoeffetto prebiotico condiziona feci più morbide e facilita assorbimento di acqua, sodio e calcio. Il glucosio nonè più raccomandato per aumento dell’osmolalità (1 g/100 ml: 58 mOsm/Kg). Anche fruttosio e saccarosio nonpiù raccomandati per i possibili effetti nel caso di lattanti affetti da intolleranza ereditaria al fruttosio(1:20.000), mentre gli amidi, precotti o gelatinizzati, sono tollerati fino a un massimo del 30% dei carboidra-ti totali (2g/100 ml).I livelli di assunzione raccomandati di ferro (0,3-1,3 mg/100 kcal) sono stati stabiliti a livelli più bassi rispet-to alle indicazioni precedenti a causa della maggiore biodisponibilità di questo minerale nelle moderne for-mule, comparabile a quello del ferro dal latte materno (15-20%). Con il livello minimo proposto si calcola unassorbimento 4-10 volte superiore comunque rispetto a quello dell’allattato al seno. D’altra parte i rischipotenziali associati a un’assunzione eccessiva di ferro sono minore tasso di crescita in lunghezza, incidenzapiù elevata di diarrea e (marginalmente) di infezioni respiratorie alte e forse, a seguito dell’incremento diferro nei depositi, si traducono anche in un aumentato rischio ossidativo.

• Formule standard

• Formule di seguito

• Formule per prematuri

• Formule di crescita

• Formule per la prevenzione (ipoallergeniche-HA)

• Idrolisati per la terapia (allergie)

• Formule per i sintomi: antirigurgito

• Formule per la rialimentazione:

senza lattosio

Figura 6 - Tipologie di formule per l’infanzia

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Il futuroL’evoluzione futura delle formule (che in alcuni casi è già presente) è rappresentato dalla possibile aggiunta dinuovi ingredienti, in corso di studio, quali:• probiotici e prebiotici• trigliceridi strutturati• proteine ricombinanti (per esempio lattoferrina)• enzimi (per esempio lipasi)• ormoni (per esempio insulina, che ha dimostrato un effetto positivo sulla maturazione intestinale sia in espe-

rimenti animali sia in studi preliminari su neonati pretermine)• fattori di crescita e poliamine.L’orientamento è volto alla raccomandazione del latte materno anche durante il divezzamento e, in caso di suamancanza, all’introduzione di e una formula adeguata dal punto di vista nutrizionale e funzionale almeno finoal dodicesimo mese di vita. Sarà compito della ricerca testare adeguatamente e in maniera rigorosa ogni nuovonutriente, nella prospettiva di sviluppare formule con caratteristiche molto diverse in grado di condizionarerisultati funzionali del lattante che ha ricevuto un allattamento artificiale sempre più vicini a quello che rima-ne l’indiscusso modello di riferimento, l’allattato al seno.

Figura 7 - Indicazioniattuali sui lipidi nelleformule per l’infanzia

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L’allergia alimentare: tra prevenzione e terapia Alessandro Fiocchi

Nella società odierna le patologie allergiche sono in continuo aumento e, oltre all’impatto sulla qualità di vitadel bambino e della famiglia, comportano anche notevoli difficoltà per chi, come il pediatra, è chiamato agestirle sotto il profilo clinico. Per quanto riguarda in particolare le forme alimentari gli aspetti che sarannoaffrontati in questa sede riguardano le opportunità di prevenzione dell’allergia al latte vaccino e ai cibi solidi ele possibili opzioni di trattamento.

L’allergia al latte vaccinoCome viene ampiamente illustrato in una review (Fiocchi A et al., 2003; 91:3-13), sono due gli approcci di pre-venzione attualmente praticabili: quello cosiddetto proibizionista e quello proattivo. Il primo consiste in unatteggiamento severamente restrittivo, che impone per esempio l’evitamento degli allergeni, il ritardo dell’in-troduzione dei cibi solidi e l’impiego di formule a elevato grado di idrolisi (eHF) in caso di mancanza del lattematerno. Tali provvedimenti sono dunque mirati a impedire che l’organismo venga in contatto con gli antigenie produca i relativi anticorpi. L’approccio proattivo, invece, è finalizzato a modulare il sistema immunitario inmodo da arrestare il processo di sensibilizzazione e “dirottare” la sua reattività. Rientrano in questo secondocriterio strategico la promozione dell’allattamento al seno e, per quanto ancora in corso di studio, l’impiego diprebiotici e probiotici. Lo scenario che appare a un esame della letteratura scientifica, però, è alquanto compo-sito e contraddittorio. Uno dei temi più dibattuti è la questione se, ai fini della prevenzione allergica nel nasci-turo, sia opportuno che le donne a rischio atopico evitino l’esposizione agli allergeni nel corso della gravidan-za: la risposta basata sull’evidenza (Kramer MS, Kakuma R, Cochrane Database Syst Rev, 2003; (4):CD000133) èuniversalmente negativa. Contrastanti appaiono invece le posizioni sul ruolo dell’allattamento al seno: se alcu-ni autori ne sostengono infatti un ruolo nel ridurre l’incidenza di asma bronchiale nel primo anno di vita e nel-l’esplicare un’azione protettiva nei confronti dei bambini ad alto rischio (Gdalevich M et al., J Pediatr 2001;139:261-266), altri giungono a ipotizzare un suo paradossale effetto promuovente la malattia atopica(Bergmann RL and the MAS-study group, Clin Exp Allergy, 2002; 32:205-9): dai loro rilievi (Figura 1), infatti, emer-gerebbe che ogni mese di allattamento materno aumenterebbe il rischio relativo di dermatite atopica di 0,3. Del tutto opposte sono le considerazioni emerse dall’analisi dei dati prospettici di una coorte di 3903 bambinitedeschi reclutati tra il 1995 e il 1998 nell’ambito dello studio GINI (German Infant Nutritional Intervention), conlo scopo di stabilire un’eventuale correlazione tra allattamento e comparsa di dermatite atopica nei primi 3anni di vita: la conclusione è stata che l’allattamento al seno esclusivo (riguardante il 52% della popolazionereclutata) non poteva essere considerato un fattore di rischio di dermatite atopica né a livello dell’intera coor-te né dopo stratificazione per storia familiare di atopia. Si confermava così l’ipotesi dell’effetto protettivo dellatte materno, interpretando i riscontri degli studi osservazionali di opposto orientamento quale frutto di biasdi reclutamento e di causalità inversa.

Figura 1 - Risultati di unostudio di Bergmann et al.circa il possibile ruolofavorente l’atopiadell’allattamento materno

OR

Sempre allattati al seno versus mai allattati al seno 1,615

Allattati al seno>1mese/<1mese 1,187

Allattati al seno>2mesi/<2mesi 1,384

Allattati al seno>3mesi/<3mesi 1,192

Allattati al seno>4mesi/<4mesi 1,292

Allattati al seno>5mesi/<5mesi 1,273

Allattati al seno>6mesi/<6mesi 1,183

Allattati al seno>7mesi/<7mesi 1,318

Allattati al seno>8mesi/<8mesi 1,294

Allattati al seno>9mesi/<9mesi 1,318

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In altre parole, come precisato nella pubblicazione dell’ Australasian Society of Clinical Immunology and Allergy(Prescott SL, MJA, 2005;182:464-467), l’allattamento al seno non deve essere sospeso nel bambino a rischioallergico ed è raccomandato in forma esclusiva nei primi 4-6 mesi di vita. Sempre sulla base dei rilievi basatisull’evidenza (Rev 2000; Kramer MS. Cochrane Database Syst (2):CD000132) si può affermare che la madre cheallatta non deve seguire alcuna dieta particolare. Come già anticipato, in caso di impossibilità di allattamentomaterno, è raccomandato l’impiego di eHF: pur in assenza di studi sufficientemente ampi di confronto di eHFcon allattamento al seno, 7 trial documentano infatti in maniera univoca che l’uso di eHF, rispetto a una for-mula tradizionale, riduce nei primi 5 anni l’incidenza di asma, dermatite atopica e allergia al latte vaccino(Osborn DA, Sinn J. The Cochrane Database Syst Rev, 2006 Issue 1). D’altra parte un’indagine su 2252 neonati reclutati nello studio GINI (Von Berg A, J Allergy Clin Immunol, 2003;111:533-40), che aveva randomizzato i 945 bambini non allattati al seno a 4 formule diverse (formula derivatadal latte vaccino, CMF, idrolisato parziale, pHF, idrolisato di elevato grado, eHF, e idrolisato di elevato grado aprevalenza caseinica, eHF-C) ha dimostrato che la probabilità di manifestazioni atopiche si dimezza con l’impie-go di eHF-C.Le formule di soia non sono invece raccomandate per la prevenzione di allergie e intolleranze alimentari neibambini ad alto rischio (Osborn DA, Sinn J, Cochrane Database Syst Rev, 2006:1). Per quanto riguarda i probiotici nella prevenzione primaria delle allergie sono soltanto due le pubblicazionidisponibili, di cui uno studio su 132 bambini con almeno un genitore sofferente di dermatite atopica, riniteallergica o asma (Kalliomaki M, Lancet, 2001; 357:1076-79), che ha dimostrato come i soggetti supplementaticon Lactobacillus GG presentassero a 2 anni un’incidenza inferiore di dermatite atopica (Figura 2). Benchè i probiotici appaiano sicuri sono tuttavia necessari ulteriori studi per confermarne l’efficacia nel lungotermine: attualmente, infatti, le evidenze ancora limitate non consentono di formulare raccomandazioni alriguardo.

L’allergia ai cibi solidiUna consensus sull’approccio all’allergia ai cibi solidi è quella del Committee of the American College ofAllergy, Asthma and Immunology, in pubblicazione su Ann Allergy, Asthma & Immunology 2006; 97. Numerosiaspetti devono essere ancora approfonditi, ma se si esaminano le raccomandazioni generali sullo svezzamen-to, come per esempio quelle dell’Australian National Health and Medical Research Council, si evince un con-cetto fondamentale: l’importanza dell’introduzione di non più di un alimento per volta ogni 5-10 giorni, inmodo da evitare confusione ed escludere la possibilità dello sviluppo di allergia o sensibilizzazione. A taleriguardo si possono citare quattro affermazioni riportate nella consensus, in corso di stampa, dell’AdverseReactions to Foods Committee dell’American College of Allergy, Asthma and Immunology (Ann Allergy, Asthma

Figura 2 - Efficacia diLactobacillus GG nellaprevenzione allergica (DaKalliomaki et al., vocecitata nel testo)

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& Immunology, 2006; 97):• l’introduzione precoce di cibi solidi può far anticipare la comparsa di allergie alimentari; • l’evitamento dei cibi solidi può prevenire la comparsa di allergie• alcuni alimenti sono più allergizzanti di altri• alcune allergie alimentari sono più persistenti di altre.Nell’ambito delle allergie alimentari due in particolare meritano attenzione, in quanto di più recente compar-sa e diffusione: al kiwi, favorita dall’ampio utilizzo di questo frutto in qualità essenzialmente di fonte di vitami-na C, e al sesamo, che è diventato il principale fattore alimentare responsabile di reazioni in Israele. Un esem-pio analogo, che dimostra quanto la problematica delle allergie alimentari sia prettamente una questione dinatura geografica, è l’allergia al pesce: ne sono interessati in media l’8,4% dei bambini in Europa ma con valo-ri che oscillano dal 19,9% in Finlandia al 6,7% in Italia e al 12,6% in Grecia.Ancora una volta il rischio allergico è inversamente correlato alla precocità dell’introduzione dell’alimento:come dimostra uno studio di Morgan et al., su neonati pretermine (Arch Dis Child, 2004; 89:309-14) la probabi-lità di eczema allergico è apparsa di 3,5 volte più elevata nei bambini che hanno assunto quattro o più cibi nuovinell’arco di 17 settimane.Anche in questo contesto, tuttavia, non mancano pubblicazioni controverse, come uno studio di Zutavern et al.(Arch Dis Child, 2004: 89:303-8) su 642 bambini nati a termine seguiti per 5 anni e mezzo: l’osservazione che l’in-troduzione dell’uovo dopo l’ottavo mese si correlava a un maggior rischio allergico ha indotto gli autori a con-testare le linee guida circa l’inserimento dei cibi solidi non prima del quarto-sesto mese. Analoghe conclusioni,legate al fenomeno di causalità inversa, per il cui controllo non sono purtroppo disponibili test, vengono pro-poste dal medesimo gruppo a fronte dei risultati emersi da un’indagine prospettica su una coorte di 3097 bam-bini nati a termine dello studio LISA (Lifestyle-Immune System-Allergy): la comparsa di dermatite atopica preco-ce ha registrato un’incidenza più bassa nei 2612 bambini in cui i cibi solidi erano stati introdotti prima del quar-to mese (Figura 3).Un altro lavoro (Poole JA. Pediatrics. 2006; 117:2175-82) ha esaminato l’allergia al grano ed è pervenuto aconclusioni simili, in contrasto con le indicazioni di prevenzione allergica che prevedono l’introduzione deicibi solidi a 6 mesi, del latte vaccino a 12, delle uova a 24 e di noci e pesce a 36 (Zeiger Rs. Pediatrics, 2003;111:1662-9).Ma le raccomandazioni per i bambini a rischio vanno applicate anche a quelli non a rischio? La risposta è statafornita per via indiretta da un’indagine retrospettiva di Wahn pubblicata su Allergy (2000; 55:591-9): la preva-lenza di asma è risultata più elevata nei bambini provenienti da famiglie senza rischio allergico nei confronti diquelli con un genitore o entrambi i genitori allergici (rispettivamente 5,3, 3,3 e 0,72%). Questo induce ad affer-mare che le raccomandazioni per i bambini allergici valgono anche per quelli non allergici:• l’allattamento al seno esclusivo, con esclusione di formule a base di latte vaccino e di qualsiasi alimento

aggiuntivo, è indicato nei primi 6 mesi in quanto esplica un effetto preventivo nei confronti della comparsadi sintomi allergici che persistono oltre il periodo dell’allattamento materno;

Non dermatite Dermatite atopica patopica precoce precoce

Qualsiasi cibo 35% 32% 0,26solido (34%)

> 2 alimenti (15%) 16% 13% 0,16

Verdura (28%) 29% 27% 0,29

Frutta (22%) 24% 19% 0,02

Cereali (15%) 16% 14% 0,37

Carne (8%) 8% 8% 0,30

Latticini (4%) 5% 3% 0,03

Uovo (7%) 7% 6% 0,22

Pesce (1%) 1% 1% 0,90

Figura 3 - Precocità diincidenza di dermatiteatopica in soggetti con

introduzione di alimentisolidi prima del quarto mese

(Zutavern A, Pediatrics,2006; 117:401-11)

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• l’introduzione di alimenti aggiuntivi nei primi quattro mesi di vita è stata associata a un più elevato rischiodi malattie allergiche fino ai 10 anni d’età. Questo conferma le attuali raccomandazioni OMS per cui i cibisolidi possono essere introdotti a partire dal sesto mese di vita;

• l’evitamento dell’esposizione è una strategia efficace di prevenzione dell’allergia al latte vaccino e non sem-brano sussistere ragioni per cui un’esposizione ritardata ai cibi solidi non dovrebbe dimostrarsi allo stessomodo utile nella prevenzione delle allergie alimentari;

• i principali alimenti che comportano un rischio allergico nei paesi industrializzati sono il latte vaccino, l’uo-vo, le arachidi, le nocciole, il pesce e i frutti di mare. Altri alimenti, se introdotti precocemente, potrebberodiventare allergeni clinicamente rilevanti. Sembra inoltre ragionevole che gli alimenti dovrebbero essereintrodotti singolarmente e con gradualità;

• non si dovrebbero proporre alimenti misti contenenti vari allergeni alimentari a meno dell’accertamentodella tolleranza ai singoli ingredienti;

• gli alimenti cotti e omogeneizzati dovrebbero essere preferiti a quelli freschi a fronte della dimostrazione cli-nica di una riduzione dell’allergenicità con la cottura, come per esempio la carne di manzo e il kiwi. (AnnAllergy, Asthma & Immunology, 2006; 97: in press).

Il trattamentoL’immunoterapia specifica si delinea come un’opzione molto interessante, ma alcune esperienze hanno dimo-strato che è una strategia pericolosa: uno studio su 12 soggetti allergici alle arachidi (Nelson HS. J Allergy ClinImmunol, 1997; 99:744 –751) ha infatti dimostrato che, per quanto efficace nell’indurre la tolleranza, l’iniezio-ne di estratto di arachidi ha determinato un’elevata incidenza di reazioni sistemiche. Analoghi sono stati iriscontri, in termini di gravi effetti collaterali, dell’immunoterapia specifica in modelli animali (Sampson HA.Pediatr Allergy Immunol, 2001; 12: 91–96), mentre un recente studio su tre pazienti sottoposti a induzione ditolleranza orale specifica a latte vaccino o uovo ha evidenziato che, malgrado l’efficacia momentanea, dopo lasospensione del trattamento la reattività allergica riprendeva: un dato confermato da altri studi italiani su sog-getti allergici al latte, che hanno documentato come l’immunoterapia agisca desensibilizzando i mastociti enon intervenendo sul sistema immunitario.Malgrado le avvincenti prospettive di sviluppo della ricerca futura l’atteggiamento proibizionistico si confermaquindi attualmente come la strategia più efficace nella prevenzione delle allergie alimentari.

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Il glutine e la celiachia: quali tempi e quali modi Riccardo Troncone

La celiachia è una malattia di origine genetica sostenuta da un’abnorme risposta immune mucosalea un anti-gene della dieta, la gliadina del frumento e dalle corrispondenti prolammine in altri cereali tossici (orzo, sega-le; Figura 1). Ha una prevalenza stimata di circa 1:100, in continuo aumento, come dimostrato da alcune inda-gini finlandesi di screening sulla popolazione, ripetuti a distanza di 10-15 anni. Sebbene l’enteropatia, caratte-rizzata dall’atrofia dei villi e dall’iperplasia delle cripte continui ad essere considerata il marker della malattia,stanno assumendo una certa importanza altre forme cliniche extraintestinali che fanno della celiachia unamalattia ad ampio spettro clinico.Ha una genetica multifattoriale dove il ruolo chiave è giocato dai geni che codificano per gli antigeni del siste-ma HLA (DQ2 e DQ8).

Criteri diagnosticiCosì come definito dai criteri ESPGHAN, per riconoscere e definire l’individuo affetto da celiachia sono conside-rati essenziali due requisiti: 1. il danno alla mucosa digiunale a dieta contente glutine 2. la buona risposta clinica a una dieta priva di glutine. Altri elementi svolgono una funzione di supporto ma di particolare rilevanza: • la sierologia compatibile (strumento molto potente perché la sensibilità specificità degli autoanticorpi è

molto elevata) • un quadro genetico compatibile (tipizzazione HLA). Recentemente si è delineato un quadro più articolato per la diagnosi della malattia celiaca e, accanto ad unaforma classica di patologia, si distinguono situazioni di modesta enteropatia ma con sierologia positiva e HLAcompatibile, fino ad alterazioni della risposta immune al glutine o sintomi glutine-dipendenti, pur in assenzadi enteropatia. Un così ampio spettro di sensibilità al glutine ha messo in evidenza i limiti degli attuali criteridiagnostici: dal concetto “classico” di malattia celiaca, caratterizzata da un’enteropatia glutine-dipendente, cisi sta spostando verso una condizione di autoimmuntà sistemica in cui l’enteropatia potrebbe non essere deci-siva per la diagnosi (autori inglesi hanno dimostrato una “atassia” da glutine: quadro genetico e presenza diautoanticorpi, tipici della malattia, senza danni alla mucosa).

Figura 1 - Meccanismipatogenetici nella

malattia celiaca

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In futuro la diagnosi si baserà dunque sulla combinazione di più fattori:– Sintomi glutine-dipendenti– Presenza di enteropatia– Genetica compatibile – Segni di autoimmunità specifica (anti –tTGA).

La dieta e le relative problematicheGli aspetti maggiormente discussi che riguardano la dieta del celiaco sono:• la possibile introduzione dell’avena nella dieta: se in passato l’avena veniva esclusa dalla dieta, perché con-

siderata tossica al pari del frumento e degli altri cereali, oggi, soprattutto nei paesi nord europei prevale unatteggiamento più possibilista, esistendo delle evidenze che nel celiaco a dieta senza glutine, l’assunzionenon determina alterazioni della mucosa del piccolo intestino né ripositivizzazione della sierologia. Tuttaviala possibilità che questo cereale sia contaminato da frumento e la presenza di rari episodi che hanno mostra-to segni clinici e di risposta , invitano alla cautela;

• il limite di tolleranza (intake giornaliero: 20 o 100 ppm?) A tale riguardo si delineano due tipi di approccio: quel-lo interventistico-prospettico e quello osservazionale. Il primo è prevalente in Italia. Secondo Catassi et al.anche quantità modeste di glutine hanno effetti sulla mucosa, seppur di diversa entità e gravità. 10mg/die,quantità a cui non sono stati osservati effetti sulla mucosa è il limite di sicurezza accettato (Figura 2).

L’approccio basato sull’osservazione è tipico invece del Nord Europa: secondo gli studi di Collin e al. 30 mg /diedella proteina tossica non provocano danni alla mucosa o eccesso di morbilità (Figura 3).

La terapia attuale e futuraLa dieta priva di glutine, rigorosa e continua per tutta la vita rappresenta ad oggi l’unico metodo sicuro e privodi effetti collaterali. Aspetti negativi riguardano problemi di compliance, soprattutto negli adolescenti e unapiccola percentuale di soggetti celiaci refrattari alla dieta con complicazioni anche letali.Benchè la messa a punto di nuove strategie sia limitata dalla mancanza di modelli animali e dallo scarso inte-resse dell’industria farmaceutica, sono due i possibili percorsi terapeutici, la cui scelta dipende dal tipo dipaziente: la riduzione del carico antigenico e l’immunomodulazione. L’intervento deve essere valutato sullabase dei benefici e dei rischi che conseguono l’abbandono di una terapia comunque sicura quale la dieta senzaglutine. Per quanto riguarda la riduzione del carico antigenico, va ricordato che il glutine è una proteine diffi-cilmente digerita dalle proteasi dell’intestino. Il pattern di negatività delle sue sequenze aminoacidiche è abba-stanza eterogeneo e diversi sono i peptidi derivati dal glutine che sono stati riconosciuti immunologicamenteattivi e capaci di attivare i linfociti T della mucosa intestinale. Le principali modalità di riduzione del carico anti-genico prevedono:

Figura 3 - Reazione della mucosa, adiversi livelli di glutine secondo gli

studi di Collin P et al., AlimentPharmacol Ther, 2004; 19:1277-83)

Figura 2 - Reazione della mucosa,a diversi livelli di glutine secondogli studi di Catassi (Catassi et al., Gut, 1993; 34:1515-9)

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Figura 5 - Genetica dellamalattia celiaca: areerecentementeidentificate su porzionidi genoma

• la selezione di varietà di frumento che non presentino le sequenze biologicamente rilevanti, ma che conser-vino solo quelle tecnologicamente utili (breeding selettivo, tecniche di ingegneria genetica);

• una pre-digestione del glutine utilizzato per la preparazione di alimenti (prolilendopeptidasi batteriche, lat-tobacilli nell’impasto);

• l’assunzione di enzimi o cocktail di enzimi per via orale prima del pasto.Il glutine ha una struttura fisico-chimica, ricca di prolina e glutammina che gli enzimi, non riuscendo comple-tamente a digerire, scindono in peptidi di grosse dimensioni che passano la barriera mucosale, innescando unarisposta di tipo adattativo delle cellule T e la successiva induzione di autoimmunità. Questo complesso mecca-nismo si basa su una serie di step che sono oggi l’oggetto di una possibile strategia terapeutica detta “immu-nomodulazione” (Figura 4).

Le prospettive di prevenzioneEsiste la possibilità di prevenire la malattia celiaca. In particolare essa trova due aree di applicazione:1. l’identificazione dei soggetti a rischio: attraverso la genetica possiamo identificare i soggetti predisposti.

Oggi sappiamo che molti geni sono potenzialmente coinvolti (Figura 5); i più importanti sono quelli del siste-ma HLA: a. HLA-DQ2 (HLA-DQA1*0501, B1*02) nel 90-95% dei casib. HLA-DQ8/HLA-DR4 nei rimanenti HLA-DQ2 negativi.L’assenza di questi aplotipi comporta un rischio molto basso di sviluppare intolleranza al glutine (mentre lapresenza ha uno scarso valore diagnostico perché sono aplotipi posseduti dal 30% circa della popolazione).

2. L’identificazione di fattori ambientali in grado di intervenire sulla malattia: il principale fattore ambientaleconosciuto è il glutine, assunto nel primo anno di vita. Un ruolo chiave nella prevenzione della malattiaceliaca sembra attribuibile a: a. allattamento al seno: la durata dell’allattamento al seno protegge contro diverse malattie fra cui, sicura-

mente la celiachia, come dimostrato da una metanalisi dei pochi studi al riguardo (Akobeng et al., ArchDis Child, 2006; 91:39-43);

Figura 4 - Possibili strategie terapeutiche alternative alla dieta senza glutine

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b. epoca di introduzione del glutine: gli stessi studi retrospettivi che hanno dimostrato l’effetto protettivodell’allattamento al seno, non dimostrano, al contrario, alcun effetto dannoso della precoce introduzio-ne del glutine. La durata dell’allattamento più che l’epoca di introduzione del glutine nella dieta, sem-bra sia il fattore determinante. Un unico studio prospettico, statunitense, eseguito su neonati HLA-DR3positivi, proverebbe che l’introduzione del glutine fra il 4 e il 7 mese avrebbe un ruolo protettivo versola celiachia e che un’introduzione oltre il 7 o prima del 4, sarebbe associata con un aumento del rischiodi malattia;

c. quantità di glutine ingerita: come dimostrato dal caso svedese (Figura 6), in un soggetto geneticamentea rischio, l’assunzione di notevoli quantità di glutine nel primo anno di vita porta ad allo scatenarsi imme-diato della malattia. Non è certo se l’esclusione del glutine dal secondo semestre garantisca una prote-zione per tutta la vita, o se lo sviluppo di celiachia sia solo rimandato.

Il futuroNuove indagini forniranno gli strumenti per quantificare correttamente il rischio. Uno studio italiano di Grecoet al. aggiunge interessanti informazioni che permettono di delineare un quadro maggiormente complesso: illavoro, che identifica soggetti con un rischio variabile dal 5 al 30% in dipendenza della dose genica e dall’asso-ciazione ad altri alleli, evidenzia dunque una piccola parte dei familiari di primo grado a elevato rischio di svi-luppare la malattia celiaca.Per quanto riguarda i possibili interventi sono in corso o verranno presto intrapresi studi dai quali si attendononuove evidenze su possibili interventi che inducano o meno una tolleranza: 1. posticipare l’epoca di introduzione del glutine a 12 mesi;2. somministrare piccole quantità di glutine nel corso dell’allattamento al seno;3. introdurre il glutine insieme con molecole ad azione “immunomodulante”.Nell’attesa che nuove ricerche forniscano indicazioni per modificare in modo razionale i nostri comportamenti,non c’è motivo per cambiare le prescrizioni attuali per quanto riguarda l’allattamento e l’introduzione del glu-tine della dieta.

Figura 6 - L’epidemia svedese:negli anni ’70 l’introduzione dinotevoli quantità di glutine,contenuto in formule per ilsecondo semestre di vita, haportato ad un successivo bruscoaumento dell’incidenza dellaceliachia nei bambini di etàinferiore a 2 anni, ritornata ailivelli antecedenti una voltaeliminata la fonte di glutine dalleformule

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Per probiotici si intendono microrganismi vivi e vitali, in grado di raggiungere l’intestino, moltiplicarsi edesercitare una azione benefica per lo stato di salute/benessere dell’uomo, mentre con il termine prebioticisi indicano sostanze di origine alimentare non digeribili che, se somministrate in quantità adeguata, porta-no beneficio al consumatore promuovendo selettivamente la crescita e/o l’attività di uno o più batteri giàpresenti nel tratto intestinale o assunti contestualmente al prebiotico (in tal caso il preparato prende il nomedi simbiotico). Emergono quindi due aspetti fondamentali: innanzitutto prebiotici e probiotici, per poter essere consideratitali, devono avere una ricaduta vantaggiosa. In secondo luogo, in particolare per i secondi, la dose è determi-nante ai fini dell’efficacia, come dimostra una metanalisi di Van Niel et al., (Pediatrics, 2002; 109:678-84) chedefinisce un rapporto dose/risposta della somministrazione di Lactobacillus per ridurre la durata della diarrea(Figura 1).

Ma qual è la dose ottimale? È impossibile fornire su questo punto indicazioni precise in quanto sono numerosii fattori che influenzano l’attività dei ceppi probiotici una volta ingeriti, tra cui:• la specie di microrganismo impiegato• le caratteristiche probiotiche del ceppo scelto • lo stato di vitalità del ceppo al momento del suo utilizzo Sulla base della recente letteratura, si può comunque ritenere che la quantità sufficiente per ottenere una tem-poranea colonizzazione sia di almeno 109 cellule vive per giorno e per persona adulta.La letteratura è tutt’altro che povera di dati: sono infatti sempre più numerosi i probiotici che compaiono neglistudi. Il vero problema risiede nella caratterizzazione di questi probiotici. Per molto tempo la tassonomia feno-tipica – correlata al del profilo fermentativo dei carboidrati, del profilo dell’attività enzimatica e della naturadegli isomeri dell’acido lattico prodotti – ha rappresentato la base per la classificazione di specie. Un notevolepasso avanti è stato compiuto con l’ampliamento delle conoscenze di biologia molecolare e cioè con lo studiodel DNA batterico (Figura 2).Oggi requisito fondamentale per l’immissione incommercio di alimenti probiotici è dunque la carat-terizzazione genotipica e fenotipica. La maggiorparte dei ceppi batterici con dimostrata efficacia

Probiotici e prebiotici: mito o realtà? Gian Vincenzo Zuccotti

Figura 1 - Relazione dose/risposta di Lactobacillus nellariduzione della durata della diarrea (Van Niel, voce citatanel testo)

Si può ottenere mediante l’applicazione didiverse metodiche:

Ibridazione degli acidi nucleici

• REA (Restriction Endonuclease Analysis)

• ARDRA (Amplified Ribosomal DNA RestrictionAnalysis)

• Sequenziamento del DNA codificante per il16S rRNA

• Ribotipizzazione manuale o automatizzata

Per la tipizzazione a livello di ceppo batterico sipuò ricorrere a:

• PFGE (Pulse Field Gel Electrophoresis)

• RAPD (Random Amplified Polymorphic DNA)-PCR

• ERIC (Enterobacterial Ripetitive IntergenicConsensus)

• AFLP (Amplified Fragment LengthPolymorphism)

Figura 2 - Caratterizzazione genetica dei probiotici

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probiotica e sicurezza d’uso appartiene aigeneri Lactobacillus e Bifidobacterium, di cuisi conoscono diverse specie (Figura 3).Come anticipato, i microrganismi, per essereconsiderati probiotici, devono soddisfare iseguenti requisiti:• essere sicuri, cioè non devono essere portato-

ri di antibiotico-resistenze acquisite e/o tra-smissibili

• essere attivi e vitali a livello intestinale• essere in grado di persistere e moltiplicarsi

nell’intestino umano• essere in grado di conferire un beneficio fisiologico.

Esperienze di impiego clinico dei probioticiEsistono dati ormai certi sul ruolo dei probiotici nel trattamento delle gastroenteriti, ruoli probabili (infezionirespiratorie), dubbi (infezione da HIV e da Helicobactyer pylori) o possibili (infezioni urinarie). I probiotici, d’al-tra parte, stimolano la sintesi di anticorpi nella mucosa intestinale, disattivano gli agenti patogeni nei cui con-fronti svolgono un’azione competitiva. Come anticipato, l’utilizzo dei probiotici è stato proposto anche per l’in-fezione da Helicobacter pylori, di cui modula la colonizzazione della mucosa intestinale nei bambini (CruchetS, et al., Nutrition, 2003). I probiotici possono inoltre ridurre gli effetti collaterali gastrointestinali associati aterapia antibiotica di eradicazione (Armuzzi A, Aliment Pharmacol Ther, 2001) e la supplementazione con AB-Yogurt, in associazione alla triplice terapia convenzionale può aumentare il tasso di eradicazione di H. pylori(Sheu BS, et al., Aliment Pharmacol Ther, 2002). Sono tuttavia necessari ulteriori trial per meglio definire que-sti effetti. Una considerazione analoga riguarda la malattia infiammatoria dell’intestino (IBD): i risultati deglistudi randomizzati controllarti sono infatti discordanti, ma è possibile che alcuni ceppi abbiano una certa uti-lità per il trattamento di IBD, anche se probabilmente con maggior efficacia per la malattia di Crohn rispettoalla colite ulcerosa.Per quanto riguarda le infezioni urinarie soltanto recentemente sono stati pubblicati i primi studi sull’uomo,che hanno dimostrato che i probiotici, somministrati per bocca, dopo aver colonizzato l’intestino, possono rag-giungere vivi e vitali la vagina e le vie urinarie (Reid, 2001). È possibile ottenere un effetto protettivo sulle vieurinarie e vagina sia con la appplicazione locale di dispositivi ad hoc, sia per bocca. I dati sono però ancora insufficienti e conferiscono quindi poca forza di raccomandazione.

Figura 3 - Principali specie di probiotici

LACTOBACILLI

• L. acidophilus• L. casei, sp rhamnosus• L. shirota• L. delbrueckii s. bulgaricus• L. reuteri• L. brevis• L. plantarum

BIFIDOBATTERI

• B. bifidum• B. infantum• B. longum• B. thermophilus• B. lactis

LIEVITO

• Saccharomyces boulardi

Figura 4 - Modulazionedella risposta immunitariada parte dei probiotici

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L’azione dei probioticiI probiotici sembrerebbero modulare il sistema immune non specifico e specifico (Figura 4).

L’azione sull’immunità specifica è documentata da alcune evidenze sull’uomo che possono essere ricondotte a trepunti chiave:• lactobacillus casei, acidophilus e Bifidobacterium bifidum favoriscono la produzione di IgA secretorie e i linfoci-

ti B IgG+ presenti nella lamina propria (Perdigon G et al., Curr Issues Intest Microbiol, 2001; 2:27-42)• lactobacillus GG incrementa cellule IgA+ nell’infezione da Rotavirus (Kaila M et al., Arch Dis Child, 1995; 72:51-3)• lactobacillus GG incrementa le IgA specifiche in soggetti vaccinati per Salmonella typhi (He F et al., FEMS

Immunol Med Microbiol, 2001; 30:43-7)

Figura 5 - Ipotesidell’effetto sistemico dei

probiotici

Figura 6 - Effetto diLactobacillus GG insoggetti con infezionirespiratorie (Hatakka,voce citata nel testo)

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Fisiologicamente nell’intestino l’antigene viene captato e processato dal macrofago, che lo presenta ai linfoci-ti T e B innescando la risposta umorale e cellulare.È da ritenere che il sistema linfatico sia in continuità: da qui l’ipotesi che i linfociti del sistema immunitario inte-stinale (GALT), una volta attivati, passino nel dotto toracico e raggiungere così la mucosa brocnhiale e atridistretti più distanti. Si spiegherebbe così l’effetto sistemico dei probiotici (Figura 5).A tale riguardo La letteratura riporta qualche dato, ma tutti gli studi reperibili sono stati condotti su animali, enon ci sono pertanto evidenze sull’uomo. Va tuttavia segnalato che alcuni trial hanno dimostrato una riduzio-ne significativa delle infezioni respiratorie e dell’impiego di antibiotici nei soggetti che avevano assunto latto-bacilli (Hatakka et al., BMJ 2001; 322: 1327-9; Figura 6).In linea con questi dati è un lavoro prospettico del 2003 su 209 pazienti (Gluck U, Gebbers JO, Am J Clin Nutr,2003; 77:517-20) che mostra come l’assunzione regolare di probiotici riduce del 19% la presenza di batteri pato-geni, quali Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Streptococcus beta emolitico di gruppo A, nellemucose delle vie aeree.Un altro argomento importante è il razionale dei probiotici nell’atopia. Negli ultimi anni si è assistito a un signi-ficativo aumento di patologie autoimmuni e allergiche. Le cause sospettate sono principalmente due: 1) l’alterata maturazione della funzione immune nei primi mesi di vita (la cosiddetta teoria dell’igiene, cioè il

mancato contatto con agenti infettivi) comporterebbe un minore shift Th2/Th1; 2) la seconda possibile spiegazione è che un’alterata flora microbica, che favorisce la persistenza di citochine

derivanti dai linfociti Th2 (IL4, IL5, IL13) prevalenti alla nascita, non consenta il riequilibrio Th1/Th2 (cioè pre-valenza di una risposta di tipo Th1, con produzione di IL12 e IFN g), potendo così concorrere allo sviluppo dimalattie allergiche.

A sostegno di questa ipotesi si colloca lo studio di Isolauri (J. Allergy Clin Imm 2001; 107: 129-134) condotto su76 neonati ad alto rischio di atopia: nei soggetti atopici (pari al 29% della popolazione reclutata) alla nascita siè rilevata una maggiore presenza di clostridi rispetto a bifidobatteri. Una situazione, questa, già peraltro evi-denziata nei bambini estoni rispetto a quelli svedesi: nei primi, a bassa prevalenza di allergia, la flora intesti-nale è ricca di Lattobacilli e Eubatteri, mentre nei bambini svedesi, ad alta prevalenza di allergia, la flora èdominata da Clostridi (Sepp E et al., J Allergy Clin Immunol, 2001; 108:516-20). Va ricordato che alla nascita l’intestino è sterile e viene colonizzato nei primi giorni di vita (Figura 7).Dal 4°-5° giorno la flora intestinale è influenzata dalla dieta: i bifidobatteri sono infatti prevalenti nell’allatta-to al seno, mentre nell’allattato artificiale la flora risulta eterogenea. Il latte materno, d’altra parte, è il prebiotico per eccellenza in quanto favorisce lo sviluppo di una flora bifido-gena. Si può quindi presumere che i probiotici agiscano sul sistema linfatico intestinale (GALT) dei neonati favorendolo switch Th2/Th1. Tale ipotesi ha costituito il razionale di uno studio randomizzato controllato in cui probioti-ci sono stati impiegati nella prevenzione dell’eczema atopico (Kalliomaki M, et al., Lancet, 2001; 357:1076-9):

Figura 7 - Sviluppo dellaflora batterica intestinale

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Lactobacillus GG è stato somministrato 2-4 settimane pre-parto a donne gravide con casi di atopia in famiglia eper 6 mesi ai loro neonati (132). I neonati delle madri supplementate con probiotico hanno mostrato un dimezzamento dell’incidenza di ecze-ma atopico (23% versus 46%) sia a 2 sia a 4 anni rispetto ai figli delle donne che avevano assunto placebo(Figura 8).Come tuttavia già affermato i probiotici devono offrire garanzie di sicurezza: va detto che in letteratura si trovala segnalazione di due casi di batteriemia da specie di Lactobacilli, confermata da analisi molecolare del DNAbatterico (Land MH, Pediatrics, 2005; 115:178-81). Benchè si trattasse di pazienti critici è importante mantene-re una vigile sorveglianza.

I prebioticiCome premesso i prebiotici favoriscono lo sviluppo di una flora batterica favorevole ma non presentano i rischiintrisneci dei probiotici. Sono componenti naturali della dieta: gluco-oligosaccaridi (GOS) e frutto-oligosaccari-di (FOS; Figura 9).

Figura 8 - Probiotici eprevenzione delladermatite atopica

(Kalliomaki et al., vocecitata nel testo)

Figura 9 - Componentidelle fibre prebiotiche

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I principali effetti dei prebiotici (Scheppach W et al., Br J Nutr, 2001: S23-30) sono riassumibili così:• promozione di una crescita selettiva di bifidobatteri;• facilitazione dell’assorbimento a livello del colon di minerali quali calcio e magnesio;• azione ipolipidemizzante.Una flora a predominanza di bifidi risulta protettiva in quanto attiva il sistema immunitario, riduce il pH inte-stinale e inibisce, mediante colonizzazione competitiva, l’insediamento di microrganismi patogeni. A questi siaggiungono altri due utili effetti, la sintesi di enzimi digestivi e la sintesi di vitamine.Gli studi futuri, oltre a chiarire gli aspetti che risultano attualmente meritevoli di attenzione e verifica, consen-tiranno la definizione di un preciso razionale di impiego di probiotici e prebiotici nell’infanzia in rapporto ai loropotenziali vantaggi nei confronti dello sviluppo del sistema immunitario e della prevenzione delle allergie.

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Il dato di prevalenza della celiachia in Italia sembra sia destinato a crescere, anche se mancano dati epidemio-logi. Come si spiega tuttavia la diversa prevalenza della malattia nel sud Italia rispetto ai paesi del nord Europa? La celiachia è una malattia di origine genetica, presente ovunque ci siano geni di suscettibilità: non si troveràmai in Giappone dove non ci sono il TL3 e il Q2, che invece sono stati inaspettatamente rilevati negli Stati Uniti;il secondo fattore che incide sulla prevalenza è costituito dalla prolungata esposizione al glutine nella dieta.Nel tempo sono state selezionate varietà di grano più ricche in glutine, rispetto a qualche secolo fa; già iRomani usavano abbondantemente il farro che è un cereale tossico quanto il frumento. (R. Troncone)

Si può pensare di adottare uno screening di massa per evidenziare la malattia celiaca? In generale chi e quan-do è necessario sottoporre a esami più approfonditi in caso di sospetto clinico di malattia celiaca?Oggi, chi si occupa dell’argomento, è orientato maggiormente verso la strategia del “case finding”. Secondo que-sto approccio va sottoposto ad accertamenti solo chi ha sintomi extraintestinali della malattia (anemia sidero-penica, ipertransaminasemia sine causa, manifestazioni di tipo neurologico) o i pazienti con patologie autoim-muni associate con la celiachia (diabete di tipo I, alcune sindromopatie – sindrome di Down – o la familiarità diprimo grado). Questa strategia permette comunque di evidenziare, se non tutti, un numero consistente di mala-ti. Significa avere una serie di indicazioni su quando procedere con screening sierologico, piuttosto che sottopor-re a screening in maniera indiscriminata tutti i soggetti. Diversi sono gli argomenti contro la politica dello scree-ning di massa: innanzitutto poiché non si conosce a quale età tutti i celiaci manifestano almeno la positività sie-rologica, non siamo ancora in grado di indicare quando eseguire il test. Si sa che ci possono essere tardive siero-positivizzazioni. Inoltre, il costo economico da sopportare in tutti quei casi di falsi positivi dove si rendereb-be necessario l’endoscopia, sarebbe enorme, per non parlare dei rischi connessi a questa pratica. (R.Troncone)

A proposito di screening di massa, qual è l’affidabilità dei test venduti in farmacia, per la diagnosi di celiachia? Si tratta per l’appunto di un test inteso per facilitare la politica del “case finding”. Dovrebbe essere usato da per-sonale competente, per esempio dal pediatra di famiglia, o in strutture di medicina preventiva e di territorio,come già si fa in molti paesi europei. È un buon test, ha una sufficiente sensibilità e specificità: il sangue usacome antigene, la transglutaminasi dei globuli rossi lisati, alla quale si legano gli anticorpi presenti nel lisatostesso. Il pericolo è la falsa negatività che potrebbe lasciare il paziente non diagnosticato. (R. Troncone)

Qual è la valutazione che viene data sull’aumento di rischio di celiachia in seguito all’introduzione di glutinedopo i 7 mesi? Come si concilia questo con la proposta di introdurre il glutine dopo i 12 mesi, negli studi chesono stati presentati in questa sede?Ci sono studi in letteratura che sostengono un aumentato rischio di celiachia per un’introduzione del glutinedopo il settimo mese e un solo studio prospettico che però non forniscono prove a supporto di un cambio diatteggiamento. Il comportamento attuale infatti, non prevede grandi rimedi da realizzare nei familiari di primogrado: il glutine può essere inserito dal quarto al sesto o al settimo mese, senza che si possano fare delle obie-zioni. Un aspetto diverso è rappresentato dagli studi che si decidono di intraprendere: non esiste alcuna lineaguida che indichi di introdurre il glutine al dodicesimo mese; si tratta solo di studi per vedere se un’introduzio-ne posticipata al dodicesimo mese sia in grado di proteggere o meno dall’insorgenza di celiachia. Ma ad ogginessuno è in grado di dare risposte o indicazioni.

È possibile e con quale meccanismo che alcuni tra gli antigeni del latte materno riescano a modulare la rispo-sta immunitaria nei lattanti?Non è possibile ancora dare una risposta certa. Ci sono due modalità per monitorare il sistema immunitario diun neonato: la presenza di specifici recettori sulla mucosa oppure che questi antigeni siano assorbiti dalla cir-colazione. Sono modalità entrambe possibili con buone evidenze a loro favore, ma sono necessari ulterioristudi. (R.P. Garofalo)

Domande, spunti e commenti tratti dalla discussione

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C’è ancora un ruolo degli anticorpi antigliadina per la diagnosi di celiachia nei bambini sotto i due anni? Ci sono degli studi recenti secondo cui esisterebbe un 10-15% di bambini celiaci, di età inferiore a 2 anni cheavrebbero negatività nel loro siero per gli anticorpi antitransglutaminasi. E questo argomento supportereb-be il continuo uso degli anticorpi antigliadina nella diagnosi in questa fascia di età. (R. Troncone)

Alcune allergie alimentari si sono diffuse in Italia solo di recente, per esempio quella al kiwi. Da dove deri-va la convinzione che sia un buon alimento per i bambini? Il kiwi è un frutto che ha avuto una larga diffusione nei gli ultimi 20 anni. È molto consumato perché si ritie-ne sia ricco di vitamina C ma senz’altro, indipendentemente dalle sue qualità nutrizionali, espone a una sen-sibilizzazione; è anche vero che come dimostrano studi effettuati, il kiwi in vasetto (omogeneizzato) non èallergizzante perché l’allergene viene inattivato durante il processo di produzione. (A. Fiocchi)

Sulla base di quali evidenze in Danimarca l’età d’introduzione dei cibi solidi, compresa la carne e il pesce, èstata fissata a 6 mesi compiuti? Le evidenze dai dati WHO, per quanto riguarda i paesi industrializzati non sono moltissime, tuttavia essedimostrano che non ci sarebbero effetti negativi. In particolare, per quanto riguarda l’introduzione del pescea 6 mesi, argomento molto discusso in Italia per la possibile insorgenza di allergie, non sembrano essercichiare controindicazioni quando manca una storia familiare. (K.F. Michaelsen)

Alcune linee guida provenienti dal nord Europa, propongono di cambiare i tempi di introduzione di alcuni ali-menti. Dobbiamo quindi rivedere quanto facciamo oggi in Italia?Certamente in Italia e in generale nel sud Europa abbiamo un vasto patrimonio di conoscenze. Oggi non sipuò dire con precisione quale sia esattamente l’età di introduzione degli alimenti. Certamente per alcuni diessi ci sono delle evidenze che consigliano una certa cautela. Ci sono dati, per esempio, che suggeriscono diposticipare l’età di introduzione del pesce, rispetto alla carne, perché è molto difficile eliminarne la compo-nente allergizzante, anche a seguito di procedimenti tecnologici. (A. Fiocchi)

Come si deve valutare la rapida crescita nell’allattato al seno? È posibile definire un rapporto fra le curve dicrescita, la composizione corporea e i marker biochimici?La valutazione della crescita è una argomento complesso. È molto difficile definire tutti i link fra composizio-ne e marker biochimici, sebbene alcuni lavori attualmente stiano dando delle prime indicazioni per spiega-re il perché della differenza della crescita e per arrivare finalmente alla definizione del “golden standard”.Certo, alcuni recenti studi epidemiologici stanno evidenziando che un’importante accelerazione della veloci-tà di crescita potrebbe associarsi a problemi metabolici tardivi perfino nel caso dell’allattato al seno. In pra-tica, un rapido tasso di crescita post-natale, in un breve periodo nel caso del prematuro (due settimane,secondo gli studi di Singhal e Lucas), ma anche nel caso dell’allattato al seno nato a termine nelle prime set-timane dopo la nascita, se eccessivo, si puo’ associare ad un successivo squilibrio del metabolismo. Credoche a tutt’oggi, a fronte di queste prime osservazioni, l’atteggiamento più corretto sia quello di monitorarela crescita nel breve termine nel caso del prematuro, per 3-4 mesi almeno nel nato a termine allattato alseno, per tutti i 12 mesi nel caso dell’allattato artificiale, e tra i 2 e gli 8 anni in tutti i bambini perchè nonmostrino curve di incremento ponderale troppo eccedenti rispetto agli iniziali percentili di riferimento. (C.Agostoni)

Negli ultimi tempi la WHO ha proposto curve di crescita di bambini di vari paesi, sani, allattati al seno. Infuturo sono da prevedere delle curve di crescita specifiche per gli allattati con formula?Non credo che siano auspicabili. Gli allattati con formula, inoltre sono una popolazione eterogenea; le for-mule stesse sono tra loro difformi, talvolta con differenze minime ma rilevanti da un punto di vista nutrizio-nale. Sarebbe molto difficile costruire e proporre un modello valido. Le curve di riferimento per gli allattatial seno rimangono un modello di riferimento per tutta la popolazione pediatrica. (C. Agostoni)

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Spesso si considerano i neonati – anche a termine - come tutti uguali, senza considerare il peso alla nascita cheè un indice della nutrizione fetale. Questo peso incide anche a distanza sul rischio di sindrome metabolica, indi-pendentemente dall’allattamento in epoca neonatale. Certamente, anche all’interno di una popolazione omogenea di nati a termine fisiologici, il 10° e il 90° percen-tile vanno considerati diversi. Ho comunque già sottolineato come in ogni caso i controlli ponderali andrannovalutati in relazione alle variazioni del tasso di crescita e non al valore assoluto di percentile, o di z score, almomento della rilevazione. (C. Agostoni)

I bambini allattati al seno crescono più velocemente di quelli allattati con formula, nei primi due mesi di vita. Bisogna accettare le evidenze che mostrano la maggiore crescita degli allattati al seno nei primi due mesi divita, ma credo questo sia dovuto ad un meccanismo genetico tipico della popolazione occidentale. Tuttavia sesi considerano i dati di uno dei maggiori studi randomizzati sulla popolazione, svolto in Bielorussia, vediamoche nei primi mesi i bambini allattati al seno non hanno un tasso di crescita superiore rispetto agli allattati conformula, che invece crescono più velocemente successivamente. (A. Singhal)Anche in Danimarca, dove allattano al seno il 98% delle madri si è osservato che gli allattati al seno cresconopiù velocemente nei primi due mesi. Gli allattati con formula nello stesso periodo crescono meno, probabilmen-te perché, prima del passaggio alla formula, intercorre un periodo in cui le madri devono rendersi conto chel’allattamento al seno non sta dando i risultati dovuti ed è necessario passare alle formule. (K.F. Michaelsen)

Il cosiddetto modello del “catch up growth” (promozione del recupero dell’accrescimento) si può applicareanche ai bambini nati pretermine?Si. I dati che ho presentato sono stati ottenuti con bambini allattati al seno nati pre-termine: anche loro mostra-no un rapido accrescimento dopo la nascita. E questo è logico perché in qualche modo sono programmati perun recupero post-natale del peso, con qualsiasi tipo di alimentazione. Penso però che il problema sia l’impattoche la velocità della crescita esercita sulla salute e capire cosa potrebbe accadere nel caso di una ritardo dellacrescita dopo la nascita. Il tipo di alimentazione a base di latte formulato o materno è solo un problema secondario: il tipo di nutrizio-ne infatti è responsabile solo del 10% del tasso di crescita, mentre il rimanente 90%, come dimostrano diversistudi, dipende da meccanismi genetici. In definitiva tutto dipende da quale si vuole sia il periodo-finestra di sensibilità. Nelle prime due settimane gli allattati con formula crescono di più degli allattati al seno; se consideriamo iprimi due mesi accade il contrario: il tasso di crescita è maggiore negli allattati al seno. In ogni caso in entram-be le modalità di alimentazione il rischio di danni alla salute per una crescita accelerata è identico. Gli allatta-ti al seno rischiano alta pressione o obesità in età adulta come gli allattati con formula. Il vero problema è inrealtà la velocità dell’incremento ponderale. (A. Singhal)

Quali sono le prove a favore dell’importanza di continuare ad usare i prebiotici e i probiotici? Il caso di sepsigenerato da Lactobacilli, riportato in letteratura, deve far rivedere l’atteggiamento verso l’uso di probiotici neineonati?Per quanto riguarda la segnalazione di sepsi, si trattava di neonati con patologie complesse e probabilmenteimmunodepressi, quindi pazienti critici, ma è vero anche che il neonato è per definizione immunodepresso. Inogni caso sono necessarie cautela e studi approfonditi. Certamente oggi ci sono le premesse per continuare astudiare e consumare gli alimenti funzionali ma non si può concludere nulla. Uno studio deve riuscire a mette-re in evidenza le risposte immunitarie e confermare in vivo i risultati osservati in vitro e nel modello sperimen-tale animale. (G.V. Zuccotti)

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L’innovazione nel settore alimentare ha rivolto i suoi sforzi nella preparazione di alimenti con valenze nonsolo nutrizionali ma anche funzionali, cioè pensati per apportare al consumatore non solo un apporto nutri-zionale ma anche un aiuto al mantenimento della “funzionalità” del corpo.Questo approccio ha suscitato speranze ma anche timori, da cui la scelta del titolo di questa relazione, cheè focalizzata su di un particolare tipo di alimenti con proprietà funzionali, quelli che hanno come obiettivola microflora o meglio, (come si userà da qui in poi in questo testo) il microbiota (Figura 1).Per microbiota si intende quella imponente biomassa microbica che, a partire dalla nascita, colonizza ilnostro intestino (Satokari RM et al., 2001: Appl Environ Microbiol, 67: 504-513).L’importanza del microbiota può essere evidenziato da alcune cifre:– i batteri intestinali appartengono ad almeno 500 specie diverse, ospitate nei diversi siti dell’intestino,

con prevalenza per il colon; – il numero totale di cellule bat-

teriche contenute nell’intesti-no è stimato essere pari a diecivolte l’intero numero di celluletissutali che costituiscono ilcorpo umano;

– questa massa batterica costi-tuisce, in peso, circa il 50% delpeso delle feci.

Se questi sono i caratteri quanti-tativi del microbiota, le caratteri-stiche qualitative sono ancora piùinteressanti; infatti il microbiota:– costituisce una delle più

importanti “difese naturali”del nostro corpo, volta ad osta-colare l’insediamento nell’in-testino di organismi patogeni;

– contribuisce alla digestione diuna parte dei nutrienti;

– produce sostanze utili, quali levitamine;

– interagisce con i tessuti inte-stinali, stimolando ad esempiola produzione di muco ecomunque regolando l’espres-sione di alcuni geni dei tessutistessi;

– inter-agisce con il sistemaimmunitario intestinale;

– vi sono indicazioni preliminariche possa interagire anche conle terminazioni nervose pre-senti nell’intestino.

L’importanza del microbiota, daalcuni ricercatori chiamato “l’or-gano negletto” ha portato ilmondo accademico a dedicare

Appendice

Focus su probiotici e prebiotici Lorenzo Morelli

Figura 1 - Concentrazione batterica in vari distretti corporei

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Figura 2 - Intestazione del documento FAO/WHO

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notevoli sforzi di ricerca (circa due articoli al giorno recensiti da PubMed negli ultimi due anni). L’industriaalimentare ha cercato di valorizzare le nuove acquisizioni scientifiche sviluppando nuovi alimenti capaci diregolare gli equilibri fra le varie componenti batteriche del microbiota intestinale o di intervenire diretta-mente mediante la selezione di specifici individui ( i “ceppi”) batterici.I due diversi approcci si concretizzano in due categorie di prodotti: i batteri probiotici e le sostanze (preva-lentemente fibre solubili) prebiotiche.

I probioticiPer batteri “probiotici”, si intendono quei batteri capaci di svolgere, una volta arrivati nell’intestino, azionidi prevenzione dei disturbi legati alla sfera gastro-intestinale e, più in generale, una azione di tutela delbenessere. Il termine risale agli anni 60 e ha avuto diverse modificazioni nel corso degli anni, ma sembraopportuno qui riferirsi a quella adottata nel dicembre 2005 dal Ministero della Salute: Microrganismi vivi evitali che conferiscono benefici alla salute dell’ospite quando consumati, in adeguate quantità, come partedi un alimento o di un integratore.” (http://www.ministerosalute.it/alimenti/nutrizione/).Questa definizione ricalca quella fornita da un documento FAO/WHO pubblicato nel 2001 (“Health andNutritional Properties of Probiotics in Food including Powder Milk with Live Lactic Acid Bacteria”http://www.fao.org) e ha quindi rispondenza anche a livello internazionale (Figura 2). L’intuizione che la regolare ingestione di batteri non patogeni possa favorire lo stato di salute risale ai primidel secolo scorso ma fino a tempi recenti questa supposizione era supportata da studi episodici, non con-trollati e di scarsa credibilità per il mondo scientifico.A partire dalla fine degli anni 80, grazie anche ad una serie di progetti di ricerca finanziati dall’UnioneEuropea, le conoscenze sui probiotici si sono fortemente consolidate; le evidenze della positività della loroazione sono tali da essere ormai oggetto di numerose meta-analisi (D’Souza AL et al., BMJ, 2002; 8, 324:1361).La prima attività che viene loro riconosciuta è la capacità di ridurre le patologie legate al prolungato uso diantibiotici; questa sembra essere una capacità aspecifica di tutti i microrganismi non patogeni del gruppodei batteri lattici ed anche di uno specifico lievito; è quindi probabile che sia un effetto “ecologico” di occu-pazione fisica delle nicchie ecologiche impoverite nel numero di batteri commensali dall’azione dellesostanze antibatteriche.La più grande novità scaturita dagli studi sui batteri probiotici è la loro capacità di modulare le risposteimmunitarie del tessuto linfoide associato ai tessuti intestinali.La prima attività immuno-modulante evidenziata è stata quella del contributo all’effetto barriera contro ibatteri patogeni, ottenuto ad esempio attivando l’attività macrofagica.Ma l’interazione con il sistema immunitario riguarda anche aspetti più complessi ad esempio un potenzia-mento della risposta immunitaria di tipo Th1 (pro-infiammatoria ma con valenze anti-allergiche) o Th2 (antiinfiammatoria).Le ricerche in questo specifico settore hanno portato ad ottenere risultati interessanti anche in trial clinicidi lunga durata e con studi di follow-up di diversi anni, con cui si evidenzia una attività di riduzione delrischio di sviluppo di dermatite atopica in soggetti ad alto rischio.In questo caso l’attività probiotica è specifica del ceppo e non della specie e va quindi accuratamente stu-diata prima dell’uso in vivo.Ceppi con attività immuno modulante sono stati utilizzati per ridurre lo stato di infiammazione in alcune malat-tie croniche del sistema gastrointestinale, con esiti alterni a seconda dei ceppi usati e del tipo di patologia.L’analisi critica della letteratura scientifica effettuata recentemente da un lato conferma i fondamenti scien-tifici dell’uso dei probiotici ma da pone anche in luce alcuni limiti o false convinzioni.Ad esempio, per quanto riguarda il riequilibrio della composizione della flora intestinale, una delle attivitàche vengono normalmente assunte a giustificazione dell’uso dei probiotici, si sottolinea la mancanza di evi-denze scientifiche al proposito.Alcuni ceppi di batteri probiotici si sono rivelati capaci di accelerare il transito oroanale in toto o in alcunisegmenti, come il sigma; il reale significato clinico di questo effetto non è ancora chiaro.La realtà scientifica dei batteri probiotici è quindi in rapida evoluzione; a questa vivacità di ricerca si èaccompagnata la comparsa sul mercato di numerosi prodotti contenenti batteri presentati come probiotici.Questa situazione ha suscitato l’interesse di istituzioni quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO)e quella dell’Agricoltura e Alimentazione (FAO).

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Due successivi documenti congiunti di queste organizzazioni ONU (2001, 2002) hanno delineato il quadrodelle attività dei probiotici differenziandola da quella dei farmaci a base di batteri definiti con il termine“bioterapeutici”) e proposto delle linee guida per la loro valutazione.Lo schema per la valutazione dei probiotici presentato nel documento FAO/WHO del 2002 è riportato infigura 3.Secondo questa schema di valutazione un ceppo batterico per definirsi probiotico deve essere sottoposto aduna seri di accertamenti preliminari, che ne stabiliscano su base molecolare l’identità tassonomica e leprincipali caratteristiche.A questa fase deve seguire una seri di accertamenti in vitro per qaunto riguarda la safety e le proprietà fun-zionali.Come terza fase si deve avere almeno un lavoro in vivo condotto con la metodologia della randomizzazio-ne, del doppio cieco e con la presenza di un gruppo controllo.L’importanza di questi documenti consiste nell’aver fornito per la prima volta uno schema di riferimento alivello internazionale per la valutazione delle proprietà funzionali di un alimento. Che vi fosse effettivamen-te questa esigenza è dimostrato dalla successiva emanazione di simili linee guida da parte di AFFSA, l’agen-zia francese per la sicurezza alimentare (AFFSA, 2005).Sempre nel 2005 il Ministero della Salute italiano ha emanato una seconda edizione delle linee guida ema-nate per la prima volta nel 2002, con l’introduzione di uno schema di valutazione del tutto simile a quelloFAO/WHO ma esteso anche ai prebiotici.

Figura 3 - Schema per la valutazione dei probiotici (documento FAO/WHO)

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Figura 4 - Uno dei primi atti sulla flora batterica del lattante

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PrebioticiAnche in questo caso si ritiene opportuno utilizzare la definizione del Ministero della Salute: “prebiotico èuna sostanza di origine alimentare non digeribile che, se somministrata in quantità adeguata, porta bene-ficio al consumatore grazie alla promozione selettiva della crescita e/o dell’attività di uno o più batteri giàpresenti nel tratto intestinale o assunti contestualmente al prebiotico.”Queste sostanze sono resistenti all’acidità gastrica e alla digestione e non assorbite durante il loro transitointestinale; queste caratteristiche sono state riscontrate in un certo numero di carboidrati indigeribili, inalcuni vegetali (ad esempio la cicoria) oppure ottenuti per sintesi (Macfarlane S., et al., Aliment PharmacolTher, 2006; 24: 701-14).La struttura chimica dei prebiotici è fondamentale nel determinare l’efficacia dell’azione di stimolo di deter-minati gruppi batterici e la velocità con cui vengono fermentati (AFFSA , 2005:”Effects of probiotics and pre-biotics on flora and immunity in adults.” http://www.usprobiotics.org/docs/ AFFSA)L’uso dei prebiotici sta trovando larga applicazione nell’alimentazione per la prima infanzia; uno dei puntideboli dell’alimentazione artificiale del neonato era infatti la sua incapacità di sostenere lo sviluppo di unaadeguata presenza di bifidobatteri (Figura 4), batteri largamente presenti nell’intestino del neonato allat-tato al seno (Harmsen HJ, et al., J Pediatr Gastroenterol Nutr, 2000; 30:61-67).È ben documentata, infatti, la presenza e l’azione prebiotica di oligosaccaradi, resistenti alla digestione,presenti nel latte materno. Queste sostanze hanno anche un’azione diretta sui recettori mucosali per l’ade-sione ai tessuti intestinali di batteri patogeni. I prebiotici hanno dimostrato di poter incrementare la pre-senza di questi batteri sia nel neonato nato a termine che nel pre-termine, soggetto a gravi alterazioni delmicrobiota intestinale.Contemporaneamente i prebiotici hanno trovato larga applicazione negli alimenti per gli adulti (latti fer-mentati e non, integratori dietetici) come pure nelle diete enterali per pazienti non più in condizioni dinutrirsi per via orale.L’attività di supporto alla crescita batterica dei prebiotici deve esser ancora sufficientemente approfonditaa livello scientifico; vi sono infatti evidenze che fibre prebiotiche diverse stimola gruppi batterici diversi (adesempio i lattobacilli piuttosto che i bifidobatteri ) e che i batteri in grado di utilizzarle potrebbero esseremolti di più di quanto ipotizzato fino ad oggi.

Per concludereMolto è stato fatto ma molto resta ancora da fare; la sensazione è che le intuizioni iniziali sui probiotici e iprebiotici (il mito) si stia trasformando in realtà.