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Marzo 2010, la Terza Guerra Mondiale divide l’Est dall’Ovest da ormai più di sei anni. Stati Uniti, Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese sono i principali antagonisti in quello che è divenuto il più sanguinoso conflitto mai combattuto dall’umanità. Una squadra mista di incursori appartenenti a Marina e Corpo dei Marine americani è chiamata ad affrontare l’ennesima battaglia contro il gigante cinese, questa volta per sabotare una devastante arma chimica di nuova concezione che Pechino intende scatenare contro gli Stati Uniti. Ma la missione che sembrava iniziare con i migliori auspici, si tramuta ben presto in incubo tattico; fra l’inevitabile scontro con un nemico più che mai agguerrito, e un comandante sul campo che fa sorgere dubbi sulla sua effettiva idoneità alla guida di altri compatrioti in battaglia. BLACK BREEZE è un racconto di pura azione bellica. Anche se è stato pubblicato successivamente allo Step One di Surreal, ne è a tutti gli effetti un prequel.

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Morning Star Alliance

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- INTERMISSION ONE -

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Il romanzo completo è disponibile ai seguenti link: Edizione Kindle Amazon: http://www.amazon.it/Code-2-18-Intermission-Breeze-

ebook/dp/B00BGRPCRW/ Edizione cartacea: http://www.amazon.it/Code-2-18-Intermission-Black-

Breeze/dp/1482566087/ Pagina Ufficiale: http://code218.blogspot.it/2013/02/code-2-18-

intermission-one-black-breeze.html

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CODE 2-18: Intermission One – Black Breeze Marzo 2010, la Terza Guerra Mondiale divide l’Est dall’Ovest da ormai più di sei anni. Stati Uniti, Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese sono i principali antagonisti in quello che è divenuto il più sanguinoso conflitto mai combattuto dall’umanità. Una squadra mista di incursori appartenenti a Marina e Corpo dei Marine americani è chiamata ad affrontare l’ennesima battaglia contro il gigante cinese, questa volta per sabotare una devastante arma chimica di nuova concezione che Pechino intende scatenare contro gli Stati Uniti. Ma la missione che sembrava iniziare con i migliori auspici, si tramuta ben presto in incubo tattico; fra l’inevitabile scontro con un nemico più che mai agguerrito, e un comandante sul campo che fa sorgere dubbi sulla sua effettiva idoneità alla guida di altri compatrioti in battaglia. Black Breeze è un racconto di pura azione bellica. Anche se è stato pubblicato successivamente allo Step One di Surreal, ne è a tutti gli effetti un prequel. Per maggiori informazioni seguiteci sul sito ufficiale: http://code218.blogspot.it/ Pagina Facebook: https://www.facebook.com/pages/Code-2-18/148487251870562

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Nei primi mesi dell’anno 2010, il conflitto fra i blocchi est e

ovest aveva raggiunto l’apice della sua intensità. La Repubblica Popolare Cinese era ancora schierata al fianco di

Unione Sovietica e Alleanza Mediorientale; Mosca non aveva ancora deciso di rompere il patto di collaborazione con Pechino per tentare l’invasione del gigante cinese.

L’unione di queste tre potenze economiche e militari costituiva una forza pressoché invincibile.

A eccezione della Gran Bretagna, l’intera Europa era caduta nelle mani degli invasori, mentre gli Stati Uniti erano impegnati ad arginare l’avanzata del nemico combattendo battaglie in ogni angolo del globo.

Dalle assolate dune del deserto del Sahara, alle gelide coste della Norvegia, passando per i cieli dall’Alaska e i mari del Pacifico; soldati, marinai, avieri e marines combattevano ogni giorno per indebolire un nemico che a volte sembra semplicemente troppo grande per essere davvero sconfitto.

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BLACK BREEZE

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Capitolo 1

13 marzo 2010, ore 00:24 locali - Mar Cinese Orientale Silenzioso e furtivo, il sottomarino hunter-killer Classe

Virginia li aveva portati fino all’imbocco della Baia di Huanghai, navigando dieci metri sotto il livello del mare. Poi aveva fermato le macchine e si era lasciato scivolare nelle acque scure fino al completo arresto della sua corsa.

Tutti e quattordici gli incursori avevano salito la scaletta che collegava il Classe Virginia con il piccolo sommergibile d’assalto ASDS ancorato alla parte superiore del sottomarino nucleare, si erano sistemati in quello spazio angusto e avevano atteso che il minisub venisse sganciato dal suo alloggiamento e il suo motore elettrico avviato.

Senza alcuna fretta, l’ASDS li portò ancora più vicini al loro

obiettivo e si fermò di fronte alla foce del Jiaoshimiao, il fiume più importante di quella regione.

Gli uomini all’interno del piccolo sottomarino controllarono per l’ennesima volta il loro equipaggiamento SCUBA e si infilarono maschera e respiratore. Dopo che tutti ebbero dato l’ok, le valvole di compensazione vennero aperte e l’acqua salata invase la camera stagna del sommergibile.

Pochi minuti dopo, gli incursori varcarono il portello del mini sottomarino, liberi di pinneggiare in quel mare ostile. A patto che continuassero a rimanere invisibili agli occhi dei nemici.

Tre metri più in alto, il cielo notturno era nero come la pece, senza neanche una debole falce di Luna. L’acqua dell’estuario del Jiaoshimiao non era differente, appariva buia come una miniera di carbone. Faceva maledettamente freddo lì sotto, ma le mute

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stagne in neoprene che gli incursori statunitensi avevano indossato ancora prima di lasciare il Classe Virginia li mantenevano al sicuro dai rischi di assideramento.

L’equipaggio dell’ASDS, assolto il suo compito di traghettatore, tornò verso il sottomarino hunter-killer, per ricollegarsi al suo scafo e scomparire in direzione del gruppo da battaglia della portaerei CVN-75 Harry S. Truman.

I quattordici incursori si divisero in gruppetti di due con movimenti studiati e ristudiati, dato che per quella missione non avevano reputato necessario dotarsi di radio subacquee, e senza di esse sott’acqua era impossibile comunicare se non a gesti. Il primo di ogni coppia imbracciava una tavoletta di navigazione dotata di maniglie, bussola, profondimetro e un piccolo motore che spingeva un’elica silenziosa: il loro ultimo mezzo di trasporto per concludere la fase finale di avvicinamento.

“Sarà come venir fuori da una cazzo di matrioska.” Aveva scherzato uno dei militari durante un briefing di missione, commentando la sequenza di mezzi subacquei che avrebbero adoperato uno dopo l’altro per portarsi sull’obiettivo.

Di tavoletta ne era necessaria solo una ogni due uomini, quelli che ne erano sprovvisti si erano semplicemente aggrappati con una mano alla spalla dei compagni e si erano lasciati trascinare assieme a loro dalla tavoletta, mentre battevano ritmicamente le pinne Twin Jet che avevano ai piedi.

In testa al gruppo c’erano i SEAL. Erano loro i veri esperti in questo genere di infiltrazioni. Tre coppie per un totale di sei incursori subacquei provenienti dal SEAL Team 10.

Dietro di loro venivano otto marine del MARSOC, l’unità per missioni speciali del Corpo dei Marine. Erano anche loro addestrati alle operazioni subacquee, ma la superiorità dei SEAL della Marina in questo ambito era fuori discussione.

Sempre mantenendo il più totale silenzio, si infilarono nel fiume e cominciarono a percorrerlo controcorrente. Dai loro apparati di respirazione LAR-7 non fuoriusciva nemmeno una

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bolla d’aria che potesse tradire la loro presenza, i respiratori militari Drager erano progettati apposta per questo.

Gli americani pinneggiarono per più di due ore in profondità nell’entroterra cinese, poi il leader dei SEAL fece un segnale e tutti si fermarono. Erano giunti al punto prestabilito per risalire in superficie.

Il sergente artigliere Alan Bricker non vedeva l’ora: ormai era passata più di una settimana da quando si era imbarcato sul sottomarino Classe Virginia, quindi era da più di sette giorni che se ne stava sott’acqua come un pesce, in scatola per di più. La cosa non era esattamente di suo gradimento.

Bricker era il vice comandante di quella pattuglia di otto marine, e lì in quel fiume cinese era il numero quattro in ordine gerarchico, contando anche i SEAL.

Occhi color nocciola e capelli castani un po’ troppo lunghi per essere quelli di un marine regolare, faceva parte del Corpo da otto anni, di cui gli ultimi due passati nelle forze per operazioni speciali del MARSOC. Prima era stato un ricognitore del 1° Battaglione da Ricognizione e prima ancora un fuciliere del 2/2 della 2° Divisione Marine. Si era arruolato che la Revolucion sudamericana non era ancora scoppiata, e in pratica aveva prestato servizio su ogni fronte in cui gli Stati Uniti erano intervenuti da quel momento in avanti: Messico, Afghanistan, Europa, Medio Oriente, Scandinavia... e stavolta era il turno della Cina.

Ad Alan non importava granché dove o contro chi si combattesse, l’importante per lui era esserci. Non tanto per la gloria personale o della patria, quelle erano questioni che stavano maggiormente a cuore agli scaldasedie con le stellette; era più un fatto di mettersi costantemente alla prova.

Fin dai tempi del football del liceo non aveva perso occasione di spingersi sempre oltre le sue possibilità, per dimostrare a se stesso di che pasta fosse fatto. Col passare del tempo il suo mondo era divenuto quello militare e le “sfide” da superare

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erano aumentate progressivamente di intensità, ma la cosa non aveva fatto altro che stimolarlo ad andare sempre più avanti: prima arruolandosi volontario nei marine, poi volontario per i ricognitori e di nuovo volontario per le Forze per Operazioni Speciali.

E finché il Corpo dei Marine gli avesse permesso di partecipare a missioni pericolose e adrenaliniche come quella, Alan avrebbe firmato a vita. Per lui non c’era nulla di più appagante che pianificare e realizzare operazioni al limite dell’umano, niente nella vita poteva dare sensazioni simili a quella. Ovviamente questo era vero soltanto se la faccenda si concludeva per il verso giusto; ma il pessimismo era meglio lasciarlo a casa quando si doveva stare a mollo un paio di metri sotto la superficie di un fiume cinese con Dio solo sa quanti soldati nemici nelle vicinanze.

Dopo aver dato un’occhiata furtiva oltre il pelo dell’acqua, il

comandante dei SEAL smise di pinneggiare e si lasciò trasportare verso il fondo dal peso del suo equipaggiamento, fino a raggiungere i suoi ragazzi. Fece loro segno che tutto sembrava tranquillo e i SEAL girarono il segnale ai marine. Era tempo di emergere.

La truppa si spostò in massa verso la riva sommersa del fiume, trattenendosi un istante sotto il pelo dell’acqua per togliere le pinne ed estrarre dai contenitori stagni le carabine M8 SOPMOD silenziate e gli FN P90TR in dotazione ai SEAL. In linea teorica le armi non avevano problemi a restare sott’acqua per un po’, avrebbero potuto perfino sparare qualche colpo senza rischio di esplodere in faccia ai proprietari, ma per evitare rischi inutili era preferibile tenerle il più possibile all’asciutto.

Con le pinne legate fra loro e sostenute dal braccio sinistro, gli incursori emersero dalla fredda acqua del Jiaoshimiao. Armi a spalla puntate a coprire ogni direzione, silenzio e circospezione assoluti.

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Uno a uno scivolarono al riparo di alcuni arbusti fluviali, togliendosi nel contempo la maschera e il fastidioso ma indispensabile respiratore subacqueo. Sopra la muta stagna i marine indossavano chi solo i pantaloni e chi una divisa completa MCCUU a schema mimetico MARPAT vegetato, per diminuire la loro visibilità una volta raggiunta la terraferma. I colleghi della Marina invece vestivano mimetiche vecchio stile BDU RAID, molto efficaci in ambienti boschivi e quindi favorite dai membri del NAVSOC.

«Benvenuti in Cina, porci capitalisti.» Comunicò a bassa voce il leader dei SEAL, con un sorriso beffardo stampato in faccia.

«L’hai detto, amico.» Scherzò di rimando uno dei suoi. Il sergente artigliere Bricker controllò il suo orologio da polso

Luminox: erano in perfetto orario sulla tabella di marcia, ma non per questo potevano permettersi di prendere le cose con eccessiva calma. Assieme agli altri cominciò a levarsi di dosso il pesante equipaggiamento subacqueo, per mettersi subito in marcia verso il vero obiettivo della missione.

Buttò da parte la tavoletta di navigazione, le pinne Twin Jet e la maschera da sub, poi si slacciò di dosso il respiratore Drager. Assicurato in vita aveva già un cinturone tattico provvisto di spallacci sottili, un paio di tasche portaoggetti e le tasche con le munizioni per la pistola, ma quello non era che una piccola parte del suo armamento.

Dal suo contenitore stagno recuperò il giubbetto antiproiettile Paraclete RAV e se lo assicurò bene addosso. Le numerose tasche del giubbetto componibile erano piene di munizioni per la carabina, bombe a mano di vario tipo, accessori per la comunicazione, una pinza multiuso Leatherman e i suoi due coltelli: lo Strider esclusivo del MARSOC e uno stiletto da combattimento Gerber modellato a immagine del vecchio Fairbairn-Sykes in dotazione ai Marine Raiders della WWII. E molti altri oggetti di cui a volte si pensava di poter fare a meno in

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missione, ma che di solito diventavano indispensabili quando ci si dimenticava di portarli.

La sua pistola Kimber ICQB era in fondina già da quando aveva lasciato il sottomarino nucleare, allacciata alla gamba destra e a portata di mano per ogni evenienza.

Si trattava di un’arma derivata dall’intramontabile M1911, pistola calibro .45 che i marine idolatravano. Non si trattava della più moderna o funzionale delle armi da fuoco da pugno, e i suoi caricatori monofilari Wilson contenevano solo otto cartucce, ma nelle mani di un tiratore esperto era pericolosa come una qualsiasi pistola di ultima generazione, se non di più. La ICQB era una versione speciale della Custom II che la Kimber aveva realizzato appositamente per il MARSOC, nessuna altra unità militare o paramilitare ne faceva uso.

In testa il sergente artigliere aveva ancora il cappuccio nero in neoprene che completava la muta termica, ma a differenza di quest’ultima il copricapo si poteva agilmente togliere. Lo gettò sul mucchio di equipaggiamento che si andava formando in mezzo agli arbusti e lo sostituì con il suo auricolare MSA provvisto di laringofono e l’elmetto protettivo MICH TC-2000 con visore notturno monoculare.

Gli altri marine avevano un equipaggiamento simile, ma erano immediatamente distinguibili dai SEAL: oltre alle caratteristiche mitragliette P90TR e alle uniformi BDU RAID, si erano anche scelti degli elmetti più compatti e leggeri che non offrivano protezione intorno alle orecchie per lasciare spazio alle cuffie di comunicazione.

«Allora, siamo tutti pronti?» Domandò il capitano Sam Nicholas, il caposquadra di Alan e il comandante dei marine di quella pattuglia.

Ricevette una serie di risposte affermative. «Anche noi siamo a posto.» Rispose il caposezione dei SEAL,

che era anche il responsabile sul campo della missione. «Gator,

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datemi un controllo radio.» Disse poi via radio alla sua unità di sei SEAL.

«Gator Zero-Due, roger.» Rispose prontamente il suo vice. «Gator Zero-Tre, roger.» Continuò un altro dei SEAL, seguito a

ruota dagli altri tre. «Gator team; vi ricevo tutti forte e chiaro. Skull, controllo

radio.» Comunicò poi a “Skull”, la squadra di otto marine del MARSOC.

«Skull Uno-Uno, roger.» Rispose il capitano Nicholas, seguito dai suoi sottoposti.

Alan Bricker era il numero Uno della seconda unità di fuoco, quindi il suo callsign era Skull Due-Uno. Terminò di collegare l’auricolare al pulsante PTT che teneva assicurato al giubbetto all’altezza del pettorale sinistro, accese la radio Thales e rispose all’appello assieme ai suoi commilitoni.

«Skull team; siete in onda anche voi, confermato. È ora di controllare se siamo in linea anche con il mondo civilizzato.» Disse poi il leader dei SEAL, facendo un cenno al suo operatore radio, che portava sulla schiena una sofisticata ricetrasmittente satellitare a lungo raggio.

«Paladin, Paladin, qui Gator; mi ricevi? Passo.» Trasmise verso “Paladin”, il controllo di missione.

«Gator, Paladin. Vi riceviamo forte e chiaro. Richiediamo rapporto situazione.»

«Paladin, qui Gator effettivo; abbiamo i piedi all’asciutto. Ci dirigiamo verso il punto di controllo Bronze.»

«Roger, Gator. Restiamo in attesa. Chiudo.» «Gator chiude.» «Ho finito, Alex.» Disse un altro dei SEAL, terminando di

armeggiare con il mucchio semisommerso di equipaggiamento subacqueo abbandonato.

Quel sottoufficiale di Marina era l’esperto di demolizioni della squadra, e aveva appena piazzato una carica esplosiva artigianale sotto i respiratori. Entro l’alba sarebbe saltata in aria

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cancellando ogni prova del loro passaggio, ma se qualche curioso avesse provato a metterci le mani, l’innesco sarebbe esploso all’istante e tanti saluti. Gli americani non avevano nessuna intenzione di tornare a riprenderli, il piano di esfiltrazione prevedeva tutt’altro... Ma in caso di emergenza avevano comunque il tempo di tornare lì entro l’alba, disinnescare l’esplosivo, riprendere possesso di maschere e Drager, e scomparire nelle acque del fiume.

«Diamoci una mossa... Skull Due in avanti, Gator a seguire e Skull Uno a chiudere.» Ordinò il SEAL.

Skull Due, l’unità di fuoco composta dal sergente artigliere Bricker e da altri tre marine si mosse in avanti, poi fu il turno dei SEAL e per finire di Skull Uno, cioè il capitano Nicholas e i rimanenti tre marine. Gli incursori si inoltrarono nella verdeggiante boscaglia con tre formazioni a cuneo, distanziate una manciata metri l’una dall’altra.

Ricognizione: questa era invece la principale specialità dei marine delle forze speciali, come per i SEAL le operazioni subacquee.

Alan Bricker apriva le danze. La rotaia superiore della sua M8 SOPMOD era provvista di mirino termico, che lui usava per scandagliare il terreno circostante in cerca di tracce di calore corporeo umano. Nulla del genere per ora.

Alcuni passi più indietro sulla sua sinistra c’erano altri due ninja-marine armati di M8 con ottiche SpecterDR per distanze medio/elevate e i visori notturni calati sugli occhi. A destra c’era invece il sergente Will McHugh con la sua M8 IAR, la versione di supporto dell’M8 provvista di canna pesante e caricatori a doppio tamburo da cento colpi.

Coprendo ognuno il suo settore di fuoco, i membri della pattuglia si mossero verso l’entroterra cinese.

Proseguirono per un paio di chilometri in direzione nord,

facendo la massima attenzione a non produrre rumori rivelatori.

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Finché il capo della missione non riprese contatto con il centro di controllo, che si trovava a bordo della portaerei Truman ed era costituito da ufficiali del SOCOM appartenenti sia al NAVSOC che al MARSOC.

«Paladin, qui Gator effettivo; passo.» «Gator, Paladin. Vai avanti.» «Paladin; abbiamo raggiunto il punto di controllo Bronze.

Tutto tranquillo.» Bronze non era altro che una comune radura, simile a qualunque altra, tranne per il fatto che era stata marcata come riferimento sui GPS della squadra.

«Roger, Gator. Attendere, comunicazione a seguire.» Rispose il controllo missione. «Frostbite è in volo. ETA di Frostbite sulla LZ: ottantasette minuti.» Aggiunse dopo qualche istante.

«Otto-sette, ricevuto. Gator è in movimento. Avanziamo in silenzio, passo.»

«Gator, Paladin. Silenzio radio, roger. In bocca al lupo, Paladin chiude.»

«Ottantasette minuti prima dell’arrivo degli uccellini.» Comunicò il SEAL leader, Gator Zero-Uno, agli altri. «C’è tutto il tempo di rivoltare quell’installazione come un calzino. Mi raccomando marine: massimo silenzio fino a quando non saremo all’interno, prima di allora non deve volare una mosca. Intesi?»

«Intesi.» Gli rispose il capitano Nicholas con il suo abituale tono rilassato.

«Speriamo sia davvero così... Procedete al punto Gold, noi andiamo verso Silver assieme a Skull Due.»

«Affermativo. Avanti Devil Dogs, in marcia.» Ordinò Nicholas ai suoi, scomparendo assieme a loro nella vegetazione circostante.

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