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Parte del libro "Noi saremo tutto" di E. Quadrelli e Paolo Cassetta. Editrice Gwuinplaine 2013
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Classe e partito
I borghesi hanno ottime ragioni per attribuire al lavoro una soprannaturale forza
creativa, poiché proprio dalla natura condizionata del lavoro risulta che l’uomo,
possessore soltanto della propria forza – lavoro, deve essere, in tutte le condizioni
sociali e culturali, schiavo di altri uomini che si sono resi proprietari delle materiali
condizioni di lavoro. (K. Marx, Critica al programma di Gotha)
“La Fine della Storia”
Il tema della fuoriuscita dal Novecento è, da tempo, l’argomento sul quale si è incentrata
l’attenzione della teoria politica. Sullo sfondo di ciò, vi è l’era del capitalismo globale e tutte le
ricadute che questa si porta appresso. La tesi forte che ha fatto da cornice a queste elaborazioni è il
noto enunciato intorno all’ultimo uomo e alla fine della storia. Questa è stata l’idea – forza di
un’intera epoca. Essa si fondava su due asserzioni strettamente concatenate l’una all’altra:
- Il modo di produzione capitalista poteva dirsi il punto d’approdo definitivo dell’intero iter
storico dell’umanità e ciò portava la borghesia a fregiarsi del titolo di “classe universale”.
- Come conseguenza di tutto ciò la dimensione propria del “politico” doveva considerarsi
definitivamente tramontata. Se il modo di produzione capitalista era da considerarsi eterno e di
conseguenza la borghesia appariva come l’ultima classe apparsa sul proscenio storico, allora ogni
raggruppamento politico, e le linee di “amicizia” e “inimicizia” a cui inevitabilmente questo
rimanda, non potevano che risultare un apparato teorico e concettuale del tutto privo di applicazione
concreta nel mondo contemporaneo.
L’era globale finiva così per espellere la politica dal suo orizzonte. Il tutto si riduceva a un
puro e semplice problema di governance, dove la dimensione conflittuale generale propria del
“politico” veniva ridimensionata in una serie di “particolari”. Sotto tale aspetto il dibattito intorno
alle culture e al culturalismo che ha fatto da sfondo alla teoria politica e sociale per circa un
ventennio è quanto mai indicativo. Se ripensiamo al ruolo egemone svolto da alcune discipline
come la sociologia della cultura e l’antropologia culturale negli anni che ci stanno immediatamente
a ridosso ne abbiamo una facile conferma. Basti pensare, oltre al tema culturalista legato al
fenomeno della nuova immigrazione, al proliferare di “studi culturali” intorno alle “culture
metropolitane”, tra le quali i casi ultras o punk, hanno avuto spesso un ruolo predominante. Il senso
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di questa operazione, alla cui testa si sono posti significativamente non pochi “intellettuali di
sinistra”, poneva l’orizzonte delle “culture metropolitane” come la sola pratica sociale possibile per
le classi sociali subalterne. Il loro riconoscimento, gerarchicamente organizzato rispetto alle
“culture alte e/o legittime”, non aveva altro scopo che confinare i subalterni dentro ambiti prossimi
alla riserva indiana e, proprio per questo, sostanzialmente tranquillizzanti. Invece di cogliere le
contraddizioni politiche che il manifestarsi di determinate pratiche culturali si portavano appresso,
l’operazione dei variegati specialisti culturali orientava il discorso esattamente all’opposto. Il
manifestarsi e il proliferare di culture e stili di vita tipicamente underclass e la loro presa su interi
segmenti sociali non era altro che la riprova del tratto impolitico a cui l’era attuale era giunta. A
partire da ciò, è questa l’ipotesi coltivata da buona parte dell’intellighenzia di “sinistra” (più che un
atteggiamento riprovevole e repressivo, coltivato invece dalle destre politiche e culturali): le
suddette culture andavano sostanzialmente legittimate poiché, in una società che non lascia molti
altri spazi e aspirazioni alle classi sociali subalterne, tale dimensione doveva essere, al contempo,
legittimata e gestita. La società non può vivere, contrariamente a quanto pensano i più ottusi e
reazionari teorici del perbenismo e del senso comune, di un modello unico; in tale ottica, pertanto, il
problema non è omologare sino alla noia il tutto, ma far sì che il tutto sia reso immune dal conflitto.
In fondo, se tutto si riduce a una sorta di guerriglia semiotica , le classi dominanti hanno ben
poco da temere. Sul culturalismo e la legittimazione degli stili di vita trasgressivi abbiamo visto
negli anni passati costituirsi delle vere e proprie carriere politiche e intellettuali che hanno riscosso
non pochi successi. Il tutto con uno scopo ben preciso: annichilire ogni forma possibile di coscienza
politica. Questo il vero progetto strategico coltivato dall’insieme delle forze borghesi. L’orizzonte
di una permanente rivoluzione culturale a fronte di un totale disinteresse per le contraddizioni
oggettive del modo di produzione capitalista è stato uno dei modi attraverso cui la borghesia ha
sistematicamente operato per espellere lo spettro del “politico” dal mondo e ridurre il tutto a un
semplice conflitto tra stili di vita e modelli culturali. Un’operazione, a ben vedere, neppure troppo
originale poiché, non da oggi, il tentativo di smorzare i conflitti oggettivi e materiali del modo di
produzione capitalista in semplici vezzi di costume è stata una costante della borghesia e dei suoi
apparati ideologici. Basti pensare a non poche derive sessantottesche. In quel frangente, però,
l’egemonia esercitata dalla classe operaia rese pressoché vani, almeno nel nostro Paese, tali
tentativi. Mentre la borghesia e i suoi cani da guardia cercavano di circoscrivere le tensioni
politiche e sociali che attraversavano per intero il modo di produzione capitalista all’interno di un
conflitto di “costume”, la forza operaia concentrata nelle fabbriche spostava su tutt’altro piano
l’ordine del discorso ponendo in primo piano la questione del potere politico.
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Corso Traiano e la classe operaia FIAT vanificavano in un attimo tutti gli annosi ma
democratici dibattiti tra i “progressisti “ delle minigonne e i “reazionari” delle gonne di formato più
tradizionale che facevano da sfondo alla cornice culturale dell’epoca. Con l’entrata in campo della
classe operaia si vanificava l’effimero spettro di Carnaby Street e ritornava prepotentemente in
gioco lo spettro comunista e, con questo, la messa in mora di tutte le rivoluzioni di costume.
Quando la democrazia diventa il fucile in spalla agli operai, il tempo per i lacchè del potere, sotto
qualunque veste si celino, non può che giungere al termine.
La sconfitta operaia e delle sue organizzazioni rivoluzionarie, simbolicamente consumatasi
nel gelido autunno torinese del 1980, che a quella richiesta di potere avevano cercato di dare uno
sbocco positivo, insieme al crollo del movimento comunista internazionale avvenuto di lì a poco,
hanno delineato uno scenario quanto mai allettante per la borghesia imperialista. Il proletariato
organizzato in classe storica e politica si era di fatto dissolto e la borghesia, con una qualche
ragione, poteva autocelebrarsi come classe universale ed eterna. La storia, ai più, sembrava essere
veramente giunta al capolinea e, in virtù di ciò, l’archiviazione del marxismo come curiosità
intellettuale della tarda modernità si mostrava un passaggio al limite del banale. Alle piccole cerchie
marxiste non rimaneva altro che intraprendere una corposa ritirata strategica preparandosi a
condurre una lunga marcia di resistenza.
Alla fine, però, i fatti hanno la testa dura.
Gli effetti della Crisi sulle retoriche liberiste
Oggi, dentro la crisi strutturale e sistemica del modo di produzione capitalista, la tesi della
“fine della storia” e i corollari che si portava appresso si sono repentinamente volatilizzati. Dentro
la crisi torna prepotentemente attuale la questione della decisione, poiché lo stato di eccezione,
necessariamente prodotto dalla crisi, obbliga la storia a concretizzare il soggetto in grado di
governare le doglie della nuova era che sorgerà dalla ceneri del vecchio mondo in via di
dissoluzione. In altre parole siamo del tutto interni a un passaggio epocale i cui esiti appaiono
quanto mai incerti. Questo è vero per il proletariato non meno che per le borghesie imperialiste. Per
entrambi si tratta di investigare e ipotizzare un futuro dove poco o nulla si potrà attingere dalle
esperienze maturate nel recente passato. Quanto la borghesia sia nell’impossibilità di venire a capo
del collasso in cui è precipitata non occorre essere dei fini analisti per rendersene conto. Più arduo il
compito di intravvedere le forme, i modi e i tempi in cui il proletariato potrà elaborare una prassi
politica all’altezza di questa fase, anche se in tutto ciò il metodo leniniano e la sua corretta
applicazione sono un vantaggio non secondario che le forze comuniste possono vantare.
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La borghesia ben difficilmente può far ricorso alla guerra, così come ha fatto nel ’14 e nel
’39 per venire a capo delle contraddizioni oggettive della fase imperialista o, meglio, non può farlo
all’interno del paradigma della guerra industriale che, a partire dalle guerre napoleoniche, aveva
incorniciato la forma guerra. La fase imperialista attuale si configura dentro il frame della guerra
asimmetrica dove al conflitto interstatuale si è sovrapposto il conflitto tra Stato e popolazione. Una
guerra dalle molteplici sfaccettature e non necessariamente combattuta, o almeno non interamente,
con fucili e cannoni. Per quanto il militare continui a rivestire un aspetto non secondario delle
politiche imperialiste, sarebbe un abbaglio colossale focalizzare lo sguardo interamente ed
esclusivamente su questo. Del resto, come la storia recente del nostro Paese è lì a dimostrare, i
golpe oggi si consumano attraverso l’intervento di funzionari del capitalismo finanziario
internazionale piuttosto che tramite colpi di mano da parte di generali e colonnelli in vena di
protagonismo politico. La guerra, quindi, non è stata espunta dal mondo bensì ripensata e praticata
dentro un nuovo paradigma.
L’affermarsi di questo paradigma ha modificato per intero lo scenario del “politico” e ciò
rappresenta la vera fuoriuscita dal Novecento. La messa in mora degli eserciti di leva e nazionali, al
cui posto sono subentrati gli eserciti professionali, ne ha rappresentato l’atto formale definitivo.
Alla “Nazione in armi” è subentrato il soldato di professione, il quale esiste come professionista
della guerra, e quindi vive in una dimensione completamente de-territorializzata, piuttosto che come
cittadino. Ciò non può che comportare una irreversibile scollatura tra Stato e popolazione. L’intera
arcata storica che aveva fatto da sfondo all’imporsi della modernità europea cade in frantumi. In
questo senso si può parlare, per quanto concerne il presente, di era postmoderna ma,
paradossalmente, in un senso completamente opposto a quello sostenuto e vantato dalle schiere dei
teorici del postmodernismo. Mentre per costoro la postmodernità diventava il sinonimo di
estinzione del conflitto tra capitale e lavoro salariato, eclissi delle classi, affermazione
dell’individualismo declinato in chiave consumista, questa appare invece come l’era in cui il
conflitto tra capitale e lavoro salariato non solo si acutizza ma non sembra trovare alcun ambito di
mediazione tanto che, pur con tutte le tare del caso, gran parte del lavoro salariato vive oggi
condizioni che rimandano alla mente l’inferno di Manchester piuttosto che gli ovattati mondi delle
società immateriali e virtuali cari ai teorici del postmodernismo.
Il passaggio centrale che ci troviamo ad affrontare è la sostanziale modifica della relazione
tra le classi nel mondo europeo. Siamo passati da un’epoca in cui le classi sociali subalterne degli
Stati europei vivevano una condizione di inclusione sociale e politica a una dove a primeggiare è la
sostanziale esclusione delle medesime. La crisi di rappresentanza dei subalterni che oggi è sotto gli
occhi di tutti ne rappresenta, con ogni probabilità, la migliore cartina di tornasole. La sfida che oggi
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il movimento proletario e comunista deve affrontare è nel saper decifrare i contorni entro i quali è
obbligato a muoversi. Ad esso non basta registrare che il Novecento è finito, è necessario
individuare di quale “forma partito”, di quale organizzazione bisogna dotarsi.
I nodi dell’analisi
Per provare a ragionare su quanto detto, bisogna tenere presenti quattro punti fondamentali,
che esporremo nelle pagine che seguono:
1) Entro quale scenario oggettivo è messo oggi in forma il rapporto tra proletariato e
borghesia.
Per un verso oggi possiamo avvalerci di un vantaggio non secondario: una dopo l’altra sono
venute a decadere tutte le ipotesi, di stampo sostanzialmente neosocialdemocratico, che a lungo
avevano imperversato. Il Re è nudo e nessuna alchimia sembra in grado di fornirlo anche solo di
una veste di fortuna. Quel patto, tra borghesia imperialista e ampie quote di subordinati, che ha
caratterizzato l’intera arcata storica della “Guerra fredda” è caduto in frantumi. I tentativi che
novelli riformisti e antichi estremisti avevano tentato di rinverdire a partire dagli anni Novanta del
secolo scorso oggi hanno perso la quasi totalità del loro seguito. Con la fine della “Guerra fredda” si
è consumato per intero un ciclo dell’imperialismo la cui tenuta, sostanzialmente, dipendeva da
un’alleanza politica in chiave anticomunista e antioperaia. Contrariamente a quanto sostenuto dai
teorici dell’Impero il post ’89 non ha rappresentato la chiusura del ciclo dell’imperialismo e
conseguentemente l’avvento di un’unitaria epopea imperiale ma esattamente il contrario: la fine
della “Guerra fredda” ha scatenato tutte le tensioni dei diversificati blocchi imperialisti che, venuto
meno il nemico comune, hanno iniziato - e l’attuale guerra monetaria ne è una buona ed esauriente
concretizzazione ed esemplificazione - a fronteggiarsi in termini sempre più bellicosi. Allo stesso
tempo, questi stessi blocchi imperialisti hanno iniziato a condurre, militarmente uniti ma
politicamente divisi, guerre tipicamente neocoloniali in gran parte del mondo. La competizione per
una nuova spartizione del mondo è in pieno corso e gli scenari di guerra non fanno altro che
moltiplicarsi. In questo modo le discriminanti materiali che la crisi ha sedimentato hanno reso
inefficace anche il più raffinato dei castelli teoretici, ma non solo. L’attacco che il comando
internazionale del capitale sta portando avanti nei confronti delle classi sociali subalterne non lascia
spazio alla coltivazione di illusioni di sorta. Siamo di fronte a una cesura storica dove non vi è
spazio per le mediazioni. Dentro la crisi nulla potrà più essere come prima. Oggi noi assistiamo alla
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rimessa in circolo di un modello decisamente plasmato sull’epopea coloniale. La condizione propria
dei popoli coloniali, quella di popoli senza storia, e quindi politicamente non rappresentabili, si
ripropone oggi nei confronti delle classi sociali subalterne. Questo il nodo proprio della fase attuale.
Per dirla con Foucault siamo passati dall’epoca del far vivere e lasciar morire a quella del lasciar
morire e far vivere. Un passaggio intorno al quale pare opportuno soffermarsi utilizzando come
cartina di tornasole il carcere e i CIE.
Il carcere non è, come certa letteratura di genere ama mostrare (prendiamo su tutti i romanzi
di Edward Bunker), un mondo a sé con regole e retoriche diverse e distanti dai mondi sociali
esterni, bensì la sintesi, portata sino alle estreme conseguenze, del mondo che lo circonda. Il carcere
è esattamente lo specchio, neppure troppo deformato, del mondo cosiddetto “normale”. Questo,
chiaramente, non significa che tra dentro e fuori non esistano differenze ma, più realisticamente,
che le regole e i modelli della prigione sono i medesimi della società circostante. Parlare del
carcere, quindi, significa parlare dei modelli sociali nei quali siamo immessi. Ciò è vero sia per
quanto riguarda la società ufficiale e legittima, ossia quella che utilizza e gestisce il carcere, sia per
quanto riguarda la parte deputata a subirlo e ad abitarlo. Il carcere, non diversamente da qualunque
altro ambito sociale, non può che essere l’effetto di una condizione storicamente determinata .
È importante, per iniziare a comprendere il mondo della prigione di oggi, prendere
sommariamente in esame il modo in cui è mutata negli ultimi anni la “questione sicurezza”. È
probabilmente noto a tutti come, solo pochi anni addietro, le retoriche relative alla sicurezza,
insieme a tutte le autentiche ossessioni che si portavano appresso, fossero una delle argomentazioni
politiche di maggior rilievo. Su di queste, indipendentemente dagli schieramenti politici, sono state
costruite intere fortune pubbliche. Specialmente in prossimità di un qualche evento elettorale ogni
candidato non faceva mancare la sua proposta finalizzata alla messa in sicurezza delle città e, in
contemporanea, ogni governo o amministrazione in carica, in prossimità della scadenza del
mandato, proprio sulla “questione sicurezza” veniva messo alla berlina dalle forze all’opposizione.
Organi di stampa e media, nel frattempo, facevano a gara per mostrare e documentare l’insicurezza
e la paura che attanagliava il cittadino medio. Repentinamente, l’insieme di queste argomentazioni
sono scomparse dal dibattito pubblico e la “questione sicurezza” è pressoché stata espunta dal
dibattito politico. In contemporanea è venuta meno quell’ansia di militarizzazione generalizzata
delle città mentre, per altro verso, si è assistito a un intensificarsi della presenza delle forze
dell’ordine coadiuvate dall’esercito in determinati comparti urbani strategici. Non solo
simbolicamente, questo significa il ritiro dello Stato da alcuni ambiti e la sua accentuazione su altri.
In altre parole ciò a cui assistiamo è il venir meno di quello che Foucault ha chiamato lo stato di
popolazione che nel binomio Stato/Nazione aveva trovato la sua sintesi migliore. Ma con ciò si
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inverte anche quel modello di “governamentalità” che a tale epoca aveva fatto da sfondo, ossia il
far vivere e il lasciar morire. Cosa significava nello stato di popolazione il far vivere e il lasciar
morire, se non un’attenzione continua e costante al “benessere della popolazione”? Non era forse
sulla popolazione, sulla sua salute, efficacia, efficienza e attitudine alla disciplina che si forgiavano
i destini degli Stati/Nazione? E perché ciò fosse possibile non era forse necessario che il potere
statuale si adoperasse per far vivere il maggior numero di individui mentre a essere lasciato morire
doveva essere solo quella quota di popolazione “insana” che, in virtù di ciò, rappresentava un
pericolo di infezione per il corpo sano della Nazione? In tale ottica lo Stato non poteva far altro che
essere continuamente presente dentro e tra la popolazione al fine di attivare il più possibile i
meccanismi dell’inclusione sociale. Di tutto ciò oggi si è perso completamente traccia e l’asserzione
foucaultiana va esattamente rovesciata poiché il potere agisce esattamente al contrario: lasciar
morire e far vivere. In tutto questo cosa centra la prigione? Molto, poiché è proprio all’interno di
questa istituzione che si esemplifica al meglio il lasciar morire divenuto oggi il modello di governo
delle nostre società. Proprio nella prigione si assiste al radicale mutamento di quel paradigma che a
lungo aveva fatto da sfondo alle nostre società e che, sempre facendo ricorso a Foucault, possiamo
identificare come “modello disciplinare”. Perché esista una governamentalità disciplinare occorre
che vi sia un modello omogeneo a cui il soggetto deve uniformarsi e tale modello è forgiato dagli
ordini discorsivi dominanti i quali - questo il punto - hanno pretese universalizzanti. La costruzione
del cittadino è un’operazione di ingegneria sociale alla cui realizzazione sono chiamati diversi
specialisti e molteplici saperi. Per questa tipologia di potere è impensabile che una qualunque cosa
sfugga al suo controllo, ma non solo. Questo tipo di potere è forgiato sui saperi del dettaglio,
sull’attenta osservazione di tutti i comportamenti dell’individuo. La società disciplinare non può
che essere una società permanentemente educativa e correttiva perché tutto deve essere
omogeneizzato. In ciò si sostanzia il far vivere. Fuori da ciò vi è solo la dimensione del margine,
del malato e dell’anormale. Figure nei confronti delle quali il potere conduce, o almeno ha
condotto, una battaglia in permanenza. La volontà di sapere ne è stata la migliore esemplificazione.
Di tutto ciò, oggi, obiettivamente rimane ben poco. Anche in questo caso è bene fare mente
locale sull’insieme di ordini discorsivi presenti fino a poco tempo addietro nei nostri mondi. Tutti
avranno memoria di come, a lungo, il termine devianza, con gli immancabili corollari quali disagio
e malessere sociale, abbiano svolto un ruolo egemone nei nostri mondi. Il mestiere di “acchiappa
devianti” sembrava essere uno dei più sicuri e intoccabili e con questo un processo
permanentemente espansivo di medicalizzazione della società. Anche in questo caso, come per la
“questione della sicurezza”, repentinamente se ne sono perse le tracce. Le nostre società, dall’oggi
al domani, hanno visto sparire devianza, disagio e malessere sociale. Quella sorta di accanimento
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terapeutico finalizzata al far vivere si è velocemente eclissato. Nell’affermarsi del lasciar morire la
medicalizzazione della società non ha ragione di esistere. L’insieme di retoriche che hanno fatto da
sfondo a un’intera epoca con tutti i saperi da questa messi in forma sono posti velocemente in
soffitta. Ma che cosa implica, concretamente, tutto ciò? Significa che il potere ha cessato di agire in
maniera dispotica sulle sorti dei singoli, oppure siamo di fronte alla messa in circolo di un
dispotismo con diverse caratteristiche? Non occorre particolare arguzia per individuare nella
seconda ipotesi la risposta esatta. Ma di quale potere stiamo parlando? Ed è esattamente qui che
entra prepotentemente in ballo la “forma CIE”.
A un primo sguardo i CIE o ex CPT appaiono come la grande aporia che, all’improvviso,
compare all’interno dei nostri mondi, poiché pongono tra parentesi i cardini stessi dello Stato di
diritto. A uno sguardo solo un poco più attento, al contrario, questi si mostrano, in quanto
dispositivi, come l’elemento al contempo normativo e paradigmatico delle nostre società. Il loro
carattere eccezionale va colto per intero nel significato proprio a cui il termine eccezione rimanda e
al conseguente affermarsi di una sovranità in grado di esercitare il tratto propriamente politico della
decisione ovvero: Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione . Ma in che cosa consiste il
grado di eccezione dei CIE? Perché, per la loro messa in opera, occorre chiamare in causa proprio
l’esercizio del potere sovrano e il suo potere decisionale? Perché un tale richiamo sia legittimo è
necessario che il passaggio a cui si fa riferimento sia il prodotto di una crisi la quale, per
definizione, implica una mutazione radicale di quanto normalmente e normativamente era operante
e consuetudinario un attimo prima. Le parole hanno un peso e, pertanto, non possono e non vanno
utilizzate con leggerezza. Ciò è tanto più vero quando si tirano in ballo argomentazioni le cui
ricadute hanno conseguenze pratiche e ad ampio raggio. Come è sufficientemente noto i CIE
rappresentano un autentico “mostro giuridico” poiché sono un luogo in cui la legge è sospesa. Al
suo interno non sono rinchiusi individui accusati di un qualche reato ma masse senza volto che sono
soggette a una forma particolare di detenzione proprio perché prive di individualità.
Una forma di potere che nulla ha a che vedere con il mondo delle discipline ma che,
piuttosto, riporta alla mente il mondo coloniale, il mondo dei grandi raggruppamenti, il mondo delle
deportazioni di massa, del filo spinato dove il lasciar morire era il modello di governo delle potenze
conquistatrici. L’indigeno è privo di individualità ed è trattato e governato niente più e niente meno
come il branco animale. Questo mondo, oggi, è in qualche modo rimesso in circolo dentro le nostre
metropoli. Perché? Che cosa rende possibile la reintroduzione di modelli che richiamano alla mente
per intero l’epopea coloniale? Non dobbiamo mai dimenticare che il potere non agisce, se non di
fronte a una minaccia di natura politica, in termini repressivi, bensì sempre in termini produttivi. Il
potere non è interessato alla repressione bensì alla produzione: cioè alla messa al lavoro dei corpi e
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alla quantità di ricchezza che da questi è possibile estrarne. Il potere, in poche parole, è interessato
al plusvalore. La sua organizzazione sociale è direttamente legata al modo di produzione e alle
forme che questa assume. È dentro la produzione, pertanto, che dobbiamo andare a cercare il
“segreto” di questo passaggio. È nel modo in cui si è ridefinito il rapporto tra capitale e forza lavoro
salariata che, allora, possiamo comprendere il senso del passaggio in atto di cui il carcere attuale e i
CIE sono al contempo lo specchio e la sintesi. È cogliendo questa generalizzazione della condizione
di massa senza volto che diventa comprensibile il primeggiare del far morire dei nostri mondi.
Ecco così che i mondi della prigione e del CIE cominciano a essere più familiari di quanto,
in apparenza, potrebbero apparire. Chi, oggi, è deputato ad abitarli? Chi, oggi, non può che essere
continuamente oggetto del “sistema della penalità”? Non occorrono inchieste sociologiche
particolarmente raffinate per cogliere nel segno. Oggi il mondo della prigione è, né più e né meno,
la discarica sociale entro la quale sono parcheggiati gli attori più deboli e privi di una qualche
forma di protezione sociale ed economica. Si dirà: questa è un po’ la scoperta dell’acqua calda e, in
effetti, così potrebbe sembrare. Ma, all’interno di questa costante storica propria del mondo della
prigione, vi è una novità per nulla secondaria intorno alla quale è bene ragionare. Classicamente, e
anche in questo caso il richiamo al Foucault di Sorvegliare e punire pare particolarmente centrato, il
mondo della prigione è il luogo del crimine che, sotto il profilo sociale, è rappresentato da
determinate classi o, meglio, ex classi sociali. Su questo aspetto Foucault non si discosta molto da
Marx, poiché i mondi del crimine sono quelli propri dei marginali, i quali precipitano in tale
condizione in quanto appartenenti a gruppi e classi sociali frantumate dai processi di
modernizzazione. Il marginale, classicamente, può essere considerato una vittima della storia. I
marginali, per lo più, sono sempre “ex qualcosa”. Ex artigiani soppiantati dal lavoro di fabbrica, ex
operai specializzati soppiantati dal lavoro meccanico, ex domestici lasciati liberi da nobili ormai
decaduti, ex commercianti caduti in disgrazia, ex contadini espropriati dalla concentrazione
capitalista della proprietà terriera. Insomma, sotto qualunque spoglia si osservi il marginale,
troveremo sempre un mestiere, una professione per arrivare a uno status sociale che il moto storico,
ha reso superfluo e inutile. Una condizione che ha sempre riguardato una parte ampiamente
minoritaria dei mondi sociali. Una parte, questo è l’aspetto che va tenuto fortemente a mente, che
fuoriesce completamente dal ciclo produttivo. La linea di confine di tale condizione è un po’ sempre
stata quella del “disoccupato”. Fino a quando costui rimane entro le file dell’esercito industriale di
riserva la sua identità sociale non viene intaccata più di tanto ma, nel momento in cui la sua
condizione si cronicizza, ossia è estromesso definitivamente dal ciclo produttivo, il suo status
sociale rapidamente cade in frantumi. Da “operaio in potenza” si trasforma in “marginale” a tutti gli
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effetti, finendo repentinamente con il perdere quell’insieme di legami e rapporti sociali tipici della
sua classe. Di qui l’approdo ai mondi dell’esclusione, con tutto ciò che questi si portano dietro.
È proprio nella natura di questa condizione che, oggi, sono intervenute trasformazioni
decisamente radicali. La condizione di margine e di marginalità oggi si è estesa a quote sempre più
ampie di popolazione. Ciò che attualmente si intravede è come l’essere marginale sia una
condizione normale per le nostre società. A tal proposito è del tutto inutile dilungarsi sulla
condizione di invisibilità e oggettiva esclusione e marginalizzazione in cui versano quote sempre
più ampie e corpose di forza – lavoro. Se, per un’intera arcata storica, i meccanismi produttivi e
militari potevano funzionare solo attraverso la costante inclusione sociale dei più – da cui il
prodursi del modello disciplinare - oggi sembra sensato affermare che il meccanismo funziona
esattamente in maniera opposta. Qui si apre un capitolo che sicuramente non può essere risolto in
poche battute, ma solamente introdotto: quello delle modifiche intervenute nella forma guerra
all’interno dei nostri ordinamenti politici, economici e sociali.
In ogni caso possiamo affermare che l’inclusione sociale è sempre stata la condizione
propria, almeno sin dalle guerre napoleoniche, della potenza degli Stati/Nazione. Il potere e la forza
di uno Stato, e successivamente di un gruppo di Stati - andando al sodo - poggiava per intero sulla
sua capacità produttiva industriale, quindi sulla quantità di salariati messi soddisfacentemente al
lavoro, e sulla quantità e qualità delle masse proletarie deputate a indossare la divisa. In altre parole,
ecco il senso del far vivere. In un mondo che si regge su questo modello la marginalità e
l’esclusione sociale non posso che essere l’altro e l’indicibile della norma sociale: ecco il senso del
lasciar morire. Ma se tutto ciò viene a decadere, se cioè forza e potenza nel mondo attuale si
esprimono in maniera diversa dal passato, non diventa forse superfluo, per il potere, dedicare tempo
e risorse al far vivere? Non diventa forse più economico il lasciar morire? Ecco che allora l’aporia
e la mostruosità giuridica del CIE assumono contorni diversi, poiché la condizione di massa senza
volto diventa esattamente ciò di cui il potere necessita. Questo, pertanto, rappresenta il nodo
centrale intorno al quale teoria e prassi politica sono chiamati oggi a misurarsi. La logica che
sottende il CIE è oggi reiterabile nei confronti di qualunque blocco e ambito sociale. Nessuno, la cui
condizione rimandi a quella del subalterno, sembra esserne in potenza esente. Pertanto, per
comprendere il mutamento di paradigma che attraversa le nostre società, occorre calarsi per intero
dentro le modifiche “strutturali” che hanno attraversato e scompaginato radicalmente i nostri mondi,
ridefinendo alla radice le coordinate stesse del conflitto.
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2) All’interno di quale modello statuale il conflitto tra le classi è oggi ascritto
Questo punto è forse quello che, meglio di altri, consente di avvicinarci alla decifrazione
dell’era contemporanea. Indubbiamente, e sarebbe difficile non vederlo, siamo di fronte a una
mutazione radicale della forma – Stato. A partire dai primi anni Novanta del secolo scorso quello
che, a partire dalla I Guerra Mondiale, era stato il costante intervento dello Stato all’interno della
sfera economica e sociale subisce una repentina inversione di tendenza. Lo Stato si ritira sempre più
velocemente dagli ambiti sociali e quell’insieme di diritti sociali che l’intero Novecento aveva
continuamente tenuto a battesimo iniziano a dissolversi come la più classica delle nevi al sole. Ciò
che, in poche battute, viene meno è una qualche forma di interesse da parte dello Stato per le sorti
delle masse subalterne. La lunga stagione dell’inclusione sociale e politica comincia a venire meno.
Il lungo connubio tra Stato e Nazione si scinde, ma non solo: anche il rapporto tra Stato e Territorio
comincia a perdere quelle connotazioni che lo avevano a lungo caratterizzato. Lo Stato, privo di
sovranità su popolazione e territorio, finisce con il perdere anche gran parte della sua sovranità
politica. Non si tratta, quindi, di un semplice ritorno al passato, cioè all’epoca in cui, all’interno di
ben definiti perimetri territoriali, lo Stato si “limitava” a svolgere il ruolo di macchina burocratica e
militare finalizzata a mantenere l’ordine per il comitato d’affari della borghesia. Ciò a cui si assiste
è alla messa in forma di uno stato Sovranazionale al quale i residui delle “forme Stato locali” non
possono far altro che allinearsi. Ciò che è avvenuto nel nostro Paese, sotto tale aspetto, è quanto mai
indicativo. Il “Governo Monti” è esattamente l’articolazione locale di un modello statuale
sovranazionale finalizzato ad accelerare i processi costitutivi, politici, economici e militari di un
blocco imperialista su scala continentale. Le forme di questo Stato hanno ben poco a che vedere con
quanto abbiamo a lungo conosciuto. Ciò che soprattutto sembra caratterizzare questa forma statuale
è l’essersi emancipata dalla necessità di catturare il consenso delle classi sociali subalterne, le quali
non sono più legittimate a esercitare neppure più alcuna forma di negoziazione. Tutto ciò ha delle
ricadute non secondarie poiché il venir meno della necessità del consenso non può, come
puntualmente avviene ogni giorno che passa, far altro che rendere inattuale proprio quella forma –
Stato caratterizzatasi come Welfare State e le politiche keynesiane che si portava appresso. Un
tema, questo, che merita di essere minimamente affrontato poiché intorno al Welfare State e al
modello keynesiano sono stati consumati da parte della sinistra abbagli teorici e analitici di non
poco conto. Quando e come nasce il modello keynesiano? Quali scopi si prefigge? A quale obiettivo
strategico sottende? Forse, come le retoriche e le argomentazioni socialdemocratiche hanno a lungo
affermato, questo modello ha rappresentato e incarnato la via pacifica ed evoluzionista al
socialismo, in contrapposizione all’ipotesi violenta e rivoluzionaria del bolscevismo? Oppure il
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keynesismo, con le modifiche statuali che ha comportato, è stato il modello politico, economico e
sociale attraverso cui l’imperialismo ha preparato la sua fuoriuscita dalla crisi del ’29 attraverso la
guerra? Non occorre essere degli storici o dei politologi particolarmente eruditi, così come non è
necessario essere degli inguaribili “estremisti”, per individuare nella seconda ipotesi la risposta
corretta. Certo, quel modello ha continuato a essere operativo anche dopo il 1945 ma, cosa che
sembra essere dimenticata dai più, il post ’45 è stato tutto tranne che un’epopea di pace, poiché a
dettare i tempi, i ritmi e le modalità politiche è pur sempre stata una condizione, ancorché “fredda”,
di belligeranza. Inoltre, aspetto non proprio irrilevante, il Welfare State è stato un modello messo in
forma solo dentro il cosiddetto “Primo mondo”, e più in Europa occidentale che negli USA, mentre
al resto del pianeta esso è rimasto del tutto sconosciuto. Solo lo sfruttamento senza remore dei Paesi
del cosiddetto “Terzo mondo”, oltre alla necessità tutta politica di esorcizzare, attraverso un
innalzamento dei consumi di massa, la lotta di classe per il comunismo, ha consentito per un’arcata
storica piuttosto consistente di mettere a regime quel determinato modello economico e sociale.
Esattamente un secondo dopo il dissolversi di quello scenario, l’imperialismo si è affrettato a
stabilire che, nel mondo, nessuno ha diritto a un pasto gratis e, una volta tanto, la borghesia
imperialista è stata di parola. Nel momento in cui gli assetti geopolitici sono radicalmente mutati,
tutto si è modificato. In primis la condizione delle classi sociali subalterne le quali, più o meno
velocemente, hanno cambiato, insieme alla condizione, pelle. Per questo occorre porsi, in maniera
molto concreta ed empirica, una decisiva domanda.
3) Che cos’è il proletariato oggi
Che cos’è il proletariato oggi e soprattutto che cos’è il proletariato dentro le metropoli
imperialiste del Vecchio Continente? Mai come oggi è necessario sforzarsi di offrire delle risposte
prive di genericità e indeterminatezza. Mai come oggi è obbligatorio assumere come orizzonte
fondante della prassi politica la e le dimensioni concrete della classe. Se, come un po’ tutti ripetono,
siamo di fronte a un mutamento epocale non è possibile pensare di agire dentro questa
trasformazione continuando ad avere in mente e come punto di riferimento una serie di figure
sociali che, nella migliore delle ipotesi, non sono altro che i residui di un’era in via di disfacimento.
Pensiamo, per esempio, quale sensatezza avrebbe avuto la parola d’ordine del “Governo operaio e
contadino” nell’Italia degli anni Settanta. Eppure quell’ipotesi aveva fatto a lungo da sfondo alla
propaganda comunista non molti anni addietro. Ripeterlo negli anni Settanta, però, sarebbe suonato
a dir poco folkloristico. Le figure sociali di quel contesto, le masse subalterne dell’epoca,
difficilmente avrebbero potuto riconoscersi in quel progetto. Il proletariato era diventato un’altra
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cosa. Il delinearsi del potere operaio dentro la fabbrica fordista metteva all’ordine del giorno un
altro tipo di progetto politico. Si tratta di un passaggio politicamente decisivo poiché solo avendo in
mente il quadro materiale entro il quale le avanguardie comuniste si trovano a operare è possibile
cogliere e sperimentare i modelli politici e organizzativi adeguati alla fase. Così come, alla fine
degli anni Sessanta, risultò decisiva la comprensione della nuova composizione di classe e le figure
in grado di esercitare, dentro il nuovo scenario, un fattivo ruolo di egemonia e direzione, oggi è
necessario definire con estrema esattezza che cos’è “concretamente” la classe. Porre l’accento
sull’aspetto della “concretezza” è tutto tranne che un inchinarsi ad un empirismo a buon mercato o a
un pragmatismo di maniera, ma è un’operazione teorica nel pieno senso della parola. Si tratta di
cogliere e capire la classe a partire dalle differenze e dalle contraddizioni che si porta appresso. Non
si può pensare di unificare ciò che non si conosce, così come non necessariamente e realisticamente
è possibile unificare, da subito, postazioni che in virtù dell’organizzazione capitalistica del lavoro
vivono tempi ed esistenze diverse e persino conflittuali. La classe non è un’astrazione ideale, ma
una forza materiale i cui presupposti sono dati da una condizione oggettiva e il cui scenario
naturale è il mondo. Negli anni Sessanta, tanto per citare un esempio arcinoto, la classe operaia
nera degli Usa aveva ben poco a che spartire con gran parte della classe operaia bianca dello stesso
Paese, ma aveva tutto da condividere con i popoli colonizzati e alcune quote di proletariato dei
Paesi del cosiddetto “Primo mondo”. Quella condizione oggettiva ha reso possibile un’unità
effettiva e non puramente di facciata. Non è l’unità praticata dalla II Internazionale, che ci può stare
a cuore, bensì quella costruita da Lenin e dal bolscevismo che, non per caso, ha preso le mosse sulla
base di una precisa e articolata disamina della composizione di classe presente dentro i Paesi
imperialisti. Parlare di unità, dimenticando l’insegnamento leniniano a proposito delle aristocrazie
operaie, non è altro che reiterare, usando impropriamente le argomentazioni dell’unità di classe, la
politica della borghesia imperialista dentro il campo proletario.
Oggi, la composizione di classe è nuovamente mutata e l’ipotesi propria degli anni ’70 del
secolo scorso, quella del potere operaio, con al centro la forza operaia concentrata e accumulata
dentro la fabbrica fordista, assume la stessa valenza che, in quel contesto, avrebbe assunto il
programma del “Governo operaio e contadino”. La stessa ipotesi dei Consigli operai, coltivata negli
anni Settanta anche in versione riformista, non sembra avere oggi una qualche base materiale di
realizzazione. Tutto ciò appartiene al passato però, pur in condizioni radicalmente mutate, è
possibile continuare a sostenere: eppur si muove. Abbiamo assistito, in questi anni, al dispiegarsi di
un movimento proletario (dalla banlieue, a Londra fino ad arrivare al 15 ottobre romano) che ha
posto la questione moderna e attuale dell’insorgenza sociale. Ciò che dobbiamo porre
concretamente oggi all’ordine del giorno è il passaggio dal Partito di Mirafiori al Partito della
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banlieue, con tutto ciò che questo comporta poiché, tra organizzare una classe concentrata sulle
linee e alla catena e organizzarne una dispersa sul territorio la differenza non è di poco conto.
4) La forma organizzativa della classe subalterna
Riguardo alla forma organizzativa necessaria alla classe subalterna per farsi classe storica e
quindi universale, negli ultimi venti anni sono stati presi abbagli forieri delle sciagure e delle
sconfitte più pesanti che la classe proletaria abbia mai subito, almeno in Europa. Senza, in questo
momento, addentrarci in un’analisi approfondita della questione, cerchiamo di affrontare
l’argomento in maniera sintetica. La migliore esemplificazione di quanto detto la osserviamo nella
nota affermazione: “Noi il 99% del mondo, voi l’%”. Un’asserzione che in questi ultimi periodi ha
trovato non secondari consensi. Tale affermazione è particolarmente fuorviante per almeno tre
buoni motivi tra loro direttamente concatenati e che, al fin della favola, non sono altro che una
sintesi e una semplificazione di quanto l’ipotesi “Impero/Moltitudine” e le teorizzazioni che l’hanno
preceduta da anni vanno raccontando.
Lo scenario che si prefigura, in poche battute, è il seguente: un pugno assolutamente esiguo
di “funzionari imperiali”, attraverso l’esercizio del dominio, governerebbe in maniera più o meno
dispotica sulle moltitudini, le quali, nei fatti, condividerebbero una condizione pressoché identica.
Al centro di tale ragionamento non vi è più nulla di strutturale, non vi è più il plusvalore e la sua
produzione, ma soltanto il dominio e il comando. In altre parole la forma politica dell’Impero
sarebbe interessata solo a governare e a dominare, insomma “il potere per il potere”. Sua vittima è
pressoché l’intera specie umana. Questa specie che non ha bisogno di essere ricomposta poiché la
sua ricomposizione è già data dalla condivisione del dominio, non dovrebbe far altro che, attraverso
la presa di coscienza, scrollarsi di dosso le gabbie del potere imperiale. Consequenziale a ciò la
messa in mora della forma partito e la necessità della conquista del potere politico. La prima cosa
che salta agli occhi è come sia ben difficile “liberarsi” dalla teoria del valore. Il modo di produzione
capitalista, per quanto possa trasformarsi, può cambiare sembianze (e non si tratta di un puro atto
formale poiché la “particolarità” delle diverse fasi imperialiste non è acqua fresca), ma non pelle.
Centrale e in fondo suo unico obiettivo rimane la ricerca del profitto, la cui premessa non può che
essere l’estrazione di plusvalore. La crisi in atto pare esserne qualcosa di più di una semplice
esemplificazione. Quindi il lavoro salariato e il suo sfruttamento rimangono il cardine intorno al
quale ruota per intero il modo di produzione capitalista. Se questo è vero, i luoghi entro i quali la
produzione di plusvalore si materializza su scala internazionale rimangono la base strategica per il
capitalismo. Lì, dove capitale e lavoro salariato si fronteggiano senza mediazione, si incentra la
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contraddizione principale. Il modo in cui il capitale è in grado di estorcere plusvalore rimane
fondamentale e quanto sta accadendo nelle nostre società, giorno dopo giorno, ne rappresenta la
migliore delle conferme. E tutto questo non avviene per amore di dominio ma, ben più
realisticamente e prosaicamente, per rendere ogni blocco imperialista maggiormente competitivo
nella contesa internazionale. Ma i blocchi imperialisti, per quanto egemonizzati da ristrette cerchie e
circoli, sono pur sempre espressioni di interessi di blocchi sociali i quali, dentro quelle politiche,
non si riconoscono semplicemente in virtù di una falsa coscienza, ma in ragione di interessi
materiali che, almeno nella contingenza, li portano a sposare le politiche di questo o quel blocco
imperialista. Ciò significa che, oggi, i giochi sono di gran lunga più complessi di quanto gli
assertori del “99%” propagandino. Oggi, dentro la crisi, si assiste invece alla delineazione sempre
più concreta di blocchi sociali oggettivamente in contrapposizione e continuamente in rotta di
collisione. Sulla capacità di organizzare i blocchi oggettivamente contrapposti alle logiche
imperialiste si misura il saper agire, nei fatti, da partito. Prendiamo infine in considerazione l’ultimo
aspetto della questione, ossia il problema della coscienza, così come all’interno delle retoriche del
99% è solitamente posto.
Secondo queste ultime il problema diventa non tanto organizzare le masse a partire dalla
loro condizione materiale, facendo leva sulle contraddizioni oggettive che il modo di produzione
capitalista fa emergere, bensì organizzarle avendo in mente una sorta di processo educativo. In
questo modo si finisce per applicare sul fronte di massa una logica, quella della coscienza politica
complessiva, che, al contrario, non può che essere propria ed esclusiva del partito. In questo modo –
ponendo cioè la questione nei termini della presa di coscienza generale - si finisce per considerare
avanguardia e massa, partito e classe, come lati assolutamente di pari grado. Si finisce, cioè, con il
declinare la forma partito dentro lo spontaneismo puro e semplice o, per altro verso, in un
dogmatismo tanto rigido quanto astorico e dottrinario. Sotto tale profilo non pochi testi di Togliatti,
tra i quali La formazione del gruppo dirigente del PCI, rimangono, ad oggi, pagine di non
secondaria importanza. Nella polemica con il bordighismo ciò che Togliatti coglie in maniera
essenziale e attuale è la dialettica, che Bordiga obiettivamente nega, tra partito e classe. Il partito
come parte e frazione della classe, il quale non può esimersi dal condividere con la classe le
trasformazioni dentro cui la classe si costituisce e si rimodella in continuazione. Dunque, mentre per
Bordiga, una volta stabilito il programma comunista, il resto non ha che ricadute del tutto
contingenti (in questa concezione, tra partito e classe non vi è, di fatto, alcuna relazione concreta),
al contrario, sulla scia di Lenin, Togliatti focalizza l’attenzione sull’essere il partito parte integrante
della classe. Ma essere parte della classe e vivere in unità dialettica con questa non significa che il
partito sia già risolto nella classe. Il rapporto partito – classe si dà esattamente all’interno di questo
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“precario” equilibrio che il divenire storico rimodella in continuazione. Se il partito è l’elemento
cosciente in grado di interpretare e anticipare ciò che la realtà non solo ha già in grembo ma le cui
doglie hanno dato vistosi segnali, allora il partito è chiamato non ad appiattirsi sulla classe, andando
a rimorchio delle sue pratiche, ma a tradurre in progetto politico ciò che, nella classe, non può darsi
che come insorgenza sociale. Andando al sodo, tutto ciò cosa significa se non che il partito, o per lo
meno l’agire da partito, è tale solo se il legame con la classe è profondo e radicato?
I quattro punti che abbiamo provato a delineare in questa parte introduttiva ben difficilmente
possono essere risolti in poche battute. Pertanto l’obiettivo che il testo presente si pone non può
essere altro che un primo abbozzo delle tesi intorno alle quali iniziare a ragionare. In realtà, si tratta
di compiere un’operazione non poi così nuova; a ben vedere: infatti, è quanto nel corso della storia
del movimento proletario e comunista si è stati obbligati a fare ogni qualvolta le trasformazioni del
ciclo produttivo mettevano in mora alcune figure e ne facevano emergere altre.
Ciò dimostra come il diritto a essere avanguardia non è dato una volta per tutte, ma deve
essere guadagnato e conquistato, giorno per giorno, dentro la concretezza della classe e non
attraverso astrazioni libresche. In ciò il monito maoista solo chi fa inchiesta ha diritto di parola
rimane un punto irrinunciabile della linea di condotta comunista. Questo stile di lavoro deve essere
fatto interamente proprio da tutte quelle forze che oggi vogliono porsi concretamente la questione
dell’organizzazione politica della classe. Se la fine della grande fabbrica e delle grosse
concentrazioni operaie ha comportato la frantumazione delle figure proletarie, solo avendo in mente
le forme concrete che queste hanno assunto diventa possibile ripensare un’organizzazione politica
in grado di riannodare le fila della frastagliata condizione proletaria. In questo senso le ipotesi
politiche identitarie che, nel nostro Paese, si sono continuamente delineate (sette, partiti, partitini,
cartelli, federazioni ecc.), insieme al loro sostanziale fallimento, mostrano come il nocciolo della
questione non stia semplicemente nel rivendicare una continuità con un passato glorioso, bensì nel
come ipotizzare un futuro radioso. Per sua natura, il proletariato è l’unica classe che per essere
classe storica non può configurarsi attingendo dalle suggestioni del passato. Così come non può
vestire i panni della Roma Repubblicana, non può immaginarsi dentro le forme socialiste del
passato. In questo senso, ogni operazione che ponga all’interno del suo orizzonte la riproposizione
di modelli storicamente datati non può che condurre al fallimento.
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Premessa metodologica
Il metodo leniniano
Partendo da quanto argomentato alla fine dell’introduzione, sembra sensato e importante
porre in evidenza il legame necessario che esiste tra fase imperialista e composizione di classe, con
tutte le ricadute che ciò comporta. In questo senso, un breve ma incisivo richiamo a Lenin e al
bolscevismo appare doveroso. Ciò che da tempo si sta cercando di rimettere prepotentemente dentro
il dibattito e la prassi del movimento comunista è la “restaurazione” del metodo leniniano e, con
questo, gli approdi politico – organizzativi che esso comporta. Al proposito, tre momenti della
teoria leniniana appaiono particolarmente indicativi:
- l’analisi dello sviluppo del capitalismo nella Russia di fine Ottocento;
- il modo in cui Lenin affronta gli eventi del 1905;
- gli scritti a ridosso della I Guerra Mondiale (in particolare i testi sull’imperialismo e sulla
crisi della socialdemocrazia).
È noto come da questi testi analitici sia stata immediatamente ricavata la forma politica
adeguata alla classe in quella determinata fase.
Nel primo caso abbiamo l’affermazione della centralità della classe operaia come motore e
classe guida della rivoluzione in Russia e quindi la subordinazione, pur in alleanza, dei contadini e
degli strati semi – proletari. Ciò che in questo passaggio sembra centrale evidenziare è la capacità di
anticipazione che Lenin è in grado di mettere in campo. Nel momento in cui concepisce il lavoro
sullo sviluppo del capitalismo in Russia, la realtà, apparentemente obiettiva, che si pone di fronte
agli occhi di tutti è quella di un Paese agrario e per di più profondamente immerso in rapporti
sociali tipicamente premoderni. La stessa influenza che possono vantare i populisti sembrerebbe in
qualche modo confermare l’inadeguatezza dell’analisi leniniana. Ma a Lenin non interessa la pura e
semplice fotografia della situazione sociale del Paese, bensì a ispirarlo è piuttosto la
“cinematografia”, ovvero la realtà in movimento. Ciò che fa la differenza tra Lenin e i populisti è
l’arma, posseduta dal primo, della dialettica del divenire, ossia della capacità di comprendere ciò
che la realtà porta in grembo: il nuovo chiamato a soppiantare il vecchio.
Lenin, in fondo, non fa altro che applicare alla Russia lo stesso metodo utilizzato da Marx
per la stesura de Il capitale. Nel momento in cui Marx inizia a indagare i tratti del capitalismo
moderno, questo è sostanzialmente confinato entro Manchester. Una semplice nicchia dentro un
intero mondo fatto ancora di orpelli nobiliari e aristocratici. Eppure, senza indugi, Marx in quella
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semplice nicchia che è Manchester di metà dell’800 vede i destini generali del mondo. A
sostanziare questa affermazione non è altro che la dialettica materialista, quell’arma teorica che,
attraverso Marx ed Engels, il proletariato, in quanto nuova classe storica, ha dato alla luce. Non
diversamente da Lenin, quindi, Marx è poco interessato a registrare il nudo dato di fatto, il dato
empiricamente maggioritario, bensì ciò che lo interessa è anticipare la tendenza che il processo
storico renderà egemone. A unire Marx e Lenin, la continuità che li contraddistingue, è esattamente
la capacità di usare la dialettica materialista come il grimaldello capace di svelare il senso
oggettivo del divenire storico. Questo il vantaggio enorme che sono in grado di vantare contro gli
avversari che li circondano. Chi, se non piccole massonerie inutili di specialisti ed eruditi, è in
grado di ricordare oggi le schiere di teorici e ideologi politici coevi a Marx e a Lenin che
nell’immediato sembravano avere ragione su questi ultimi e potevano vantare schiere di seguaci
non secondari? Che cosa resta, alla scala del tempo, del loro operato teorico? Nulla o poco più,
sovente neppure il loro nome, mentre con Marx, Lenin e la dialettica materialista il mondo intero
nei secoli a venire è stato obbligato a fare i conti. Da tutto ciò ne deduciamo un fatto semplice ma
non banale: la scienza comunista è tale perché in grado di cogliere le tendenze storiche reali,
anticiparle e, a partire da ciò, forgiare l’arma politica in grado di governarle e dominarle.
L’affermazione della centralità operaia dentro la rivoluzione russa è esattamente il distillato
sintetico della scienza comunista. Tutta la battaglia di tendenza condotta da Lenin e dalla frazione
bolscevica in seno al movimento operaio sin dai primi anni del ‘900 è il frutto di una chiarezza
analitica capace di cogliere l’insieme della foresta senza farsi condizionare dalla vista del singolo
albero. Lettura e anticipazione della tendenza, capacità di tenere insieme una visione strategica
complessiva, senza perdersi nei particolarismi. Ridotto all’osso l’insegnamento leniniano e
bolscevico nella costruzione del partito rivoluzionario in Russia si riduce a ciò. Tutto questo, ed è
un aspetto che va fortemente evidenziato, attraverso l’imposizione di continue rotture, ricavate
dall’esperienza concreta fatta dalle masse. Si tratta di uno stile di lavoro che va continuamente
tenuto a mente poiché, proprio a partire da ciò, vediamo messo all’opera quell’enunciato leniniano:
il marxismo non è un dogma ma una guida per l’azione che, nella storia del movimento comunista,
è stato continuamente ricordato ma poche volte applicato.
Il modo in cui Lenin affronta il 1905 ne è, con ogni probabilità, la migliore
esemplificazione. Se c’è una cosa che in Lenin non verrà mai meno è la costante attenzione per le
esperienze che le masse fanno e le indicazioni che da ciò la soggettività politica deve trarne. È in
questo stile di lavoro che la triade propria della dialettica materialista prassi/teoria/prassi diventa
elemento fondante dell’orizzonte teorico di Lenin. Da ciò che le masse, in maniera spontanea e
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spesso confusa, producono sul proscenio storico, la soggettività politica deve ricavarne - e questo è
il compito della scienza comunista - una razionalizzazione concettuale, ovvero trasformare in teoria
politica organica e in organizzazione ciò che il movimento delle masse ha posto all’ordine del
giorno, per rimetterlo poi nella prassi in maniera cosciente e organizzata. La soggettività politica,
quindi, non inventa nulla, poiché, sulla scia di Marx, essa non è altro che il momento razionale e
politico, fattosi ostetrica della storia, che abolisce lo stato di cose presenti. Nella prassi, la
soggettività politica sintetizza i due momenti dialettici che l’hanno preceduta: la prassi storica e
immediata delle masse e l’elaborazione teorica che la soggettività politica è stata in grado di
ricavarne. Il partito che è e può essere tale solo se è parte della classe, quindi, trasforma in prassi
organizzata ciò che nelle masse vive in potenza. Si delinea proprio in questo passaggio la
concezione leniniana del partito come corpo politico della classe. Il partito è tale perché la
razionalizzazione politica di cui è portatore è espressione diretta e cosciente di quanto il moto
storico delle masse porta in grembo. Tutte le vicende legate al 1905 testimoniano in questa
direzione. È lì che Lenin - e sotto tale profilo il testo sulla guerra partigiana del 1906 è un autentico
capolavoro di teoria e prassi politica - cogliendo il senso proprio della tendenza presente dentro le
masse, obbliga il partito a fare i conti con ciò che quella svolta storica comporta per la linea di
condotta della soggettività politica. Nel 1905 le masse hanno fatto un’esperienza storica concreta
che ha posto praticamente all’ordine del giorno la questione dell’insurrezione. È questa indicazione
che il partito deve essere in grado di cogliere. Certo, sotto il profilo dei risultati immediati, il 1905
si traduce in una serie non secondaria di disfatte ma, ed è questo il punto, dal 1905 non si torna
indietro. Compito del partito è raccogliere, con pazienza, ciò che il moto storico della classe ha
posto spontaneamente sul tavolo della storia. Si tratta, senza avventurismi di sorta, di rendere
cosciente e organizzata la tendenza. Il lavoro che i bolscevichi inizieranno a svolgere dentro
l’esercito e la marina ne rappresentano il perfetto corollario.
Il terzo passaggio che occorre richiamare alla mente è costituito da quanto si consuma
dentro il movimento operaio internazionale immediatamente a ridosso del Primo conflitto
interimperialistico. È in quel frangente che Lenin pone all’ordine del giorno la necessità di
costituire l’organizzazione internazionale del movimento comunista come partito centralizzato in
grado di tenere insieme le masse operaie “non nazionalizzate” dei Paesi occidentali e i popoli
colonizzati. Si tratta, ancora una volta, di agire una rottura, ancora una volta di mettere al primo
posto la tendenza che le trasformazioni stesse del modo di produzione capitalista hanno imposto. Si
può leggere, chiede in fondo Lenin, la fase dell’imperialismo con gli stessi strumenti dell’era
precedente? Certamente no, ma questo di per sé non basta. Un’operazione simile sono in grado di
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farla anche gli analisti reazionari e riformisti, limitarsi a leggere accademicamente il senso della
nuova era è condizione necessaria ma non sufficiente per la soggettività politica. Per questo,
decisivo è solo il modo in cui, a partire da tale lettura, si è in grado di agire concretamente dentro le
contraddizioni principali che un determinato contesto storico mette in campo. Ciò che va colto, in
ogni fase storica concreta, è “il cuore del politico”. In altre parole si tratta di piegare la fase agli
interessi della rivoluzione, non subirla. Si tratta, a partire da ciò, di ricavare tutte le indicazioni di
prassi che questo comporta. La guerra, per il carattere che ha assunto, trascina le popolazioni
colonizzate direttamente al centro della politica e della storia. Questa presenza e il suo non
indifferente peso è colto da Lenin e dal bolscevismo in tutto il suo portato. È esattamente dentro il
passaggio teorico, politico e organizzativo messo a regime dall’Internazionale Comunista che
prende le mosse quel movimento storico comunemente conosciuto come “decolonizzazione”. Ciò
che l’IC pone all’ordine del giorno è la fine dell’egemonia eurocentrica e bianca del movimento
proletario, un passaggio dal punto di vista dell’organizzazione di classe non meno epocale di ciò
che il conflitto mondiale rappresenta per la borghesia e in particolare per la borghesia imperialista
(che si fa classe egemone delle forze borghes)i. In poche parole, ciò che Lenin coglie è la forma
“concreta” dentro cui si delinea il conflitto storico tra proletariato e borghesia. Da qui l’attenzione
che Lenin dedica alle trasformazioni che la fase imperialista implica sia per la forma Stato sia per la
forma guerra. Intorno ad esse, sembra sensato spendere qualche parola. È dentro la guerra che lo
Stato cambia radicalmente fisionomia. La mobilitazione totale alla quale la guerra mondiale obbliga
lo Stato rende necessario da parte di quest’ultimo un interventismo in ambito economico e sociale
impensabile solo pochi anni prima. Al contempo, il carattere industriale e di massa assunto dalla
forma guerra consegna tra le mani del proletariato una forza che solo pochi mesi prima del fatidico
4 agosto 1914 sembrava pura fantasticheria. La costituzionalizzazione del lavoro operaio ne
rappresenterà, sotto il piano giuridico – formale, la migliore esemplificazione. Lo Stato, infine, nella
sua trasformazione imperialista inizia a perdere la dimensione nazionale e territoriale che lo aveva
caratterizzato fino allo scoppio del conflitto. Dentro la guerra il “mondo di ieri” si estingue. Lenin
coglie esattamente i passi salienti e centrali delle trasformazioni in atto e li piega agli interessi
storici della classe. Il partito dell’insurrezione prende concretamente forma attraverso la lettura
delle tendenze storiche in atto. Non va dimenticato, e non è proprio un fatto di secondaria
importanza, che la rivoluzione cinese prende le mosse dentro questa svolta storica.
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Fare i conti con il passato
Una storia di salti e rotture
Se, come è nostra convinzione, il metodo leniniano rimane la sola bussola alla quale fare
riferimento per orientarci nel mondo contemporaneo, si tratta di vedere in che modo la si applica nel
presente. Per quanto radicali si presentino le cesure storiche attuali, bisogna sempre ricordare che
l’intera storia del capitalismo e del movimento comunista e proletario è un susseguirsi di salti. Se
c’è qualcosa che inficia alla radice l’evoluzionismo socialdemocratico e il riformismo variamente
declinato è proprio la storia obiettiva dei cicli capitalistici e delle composizioni di classe che a
questi rimandano.
Ripensare, al proposito, alla storia del nostro Paese è non poco utile. Sulla fine degli anni
Cinquanta del secolo scorso, come si è in precedenza accennato, il movimento operaio e comunista
è in pieno ripiegamento e il movimento sindacale fatica non poco a tenersi a galla. La sostanziale
desolazione che fa da sfondo alla pubblicistica dell’epoca ci consegna una fotografia del conflitto di
classe a dir poco mefitico. La classe operaia, la cui figura centrale è rappresentata dall’operaio
professionale, quella classe operaia sulle cui spalle aveva poggiato gran parte del peso della lotta
armata antifascista, è posta continuamente sotto scacco e dentro le fabbriche le avanguardie
comuniste e sindacali vivono un regime di confino e isolamento. Alla fine degli anni Cinquanta il
movimento operaio e comunista sembra essere in ginocchio, mentre la controrivoluzione
imperialista pare in grado di dettar legge senza troppe opposizioni. Il clima di terrore inaugurato
dentro le fabbriche trova la sua sponda politica nell’insediarsi di governi apertamente reazionari e
antioperai. La “Guerra fredda” non è uno scenario geopolitico astratto ma qualcosa di estremamente
concreto che si consuma, giorno dopo giorno, dentro i rapporti tra le classi.
Nel giro di nulla questo scenario, però, repentinamente cambia, lasciando allibiti e
frastornati, insieme alla borghesia che si era illusa di aver liquidato una volta per tutte lo spettro
operaio, gli stessi dirigenti comunisti e sindacali. Uno spaesamento che, del resto, era condiviso con
non pochi “intellettuali organici”, del tutto incapaci di cogliere ciò che sotto ai loro occhi si stava
delineando, ma non solo. Di fronte all’irrompere di una nuova composizione di classe, assai diversa
da quella organizzata in passato, invece di andare a scuola dalle masse, dirigenti politici e sindacali
del PCI e intellettuali variamente declinati non seppero far altro che stigmatizzare i comportamenti
della classe arrivando, in non pochi casi, ad ascriverli al mondo del teppismo, della delinquenza
comune o del fascismo tout court. Come teppisti e teddy boys furono descritti dalle pagine
dell’Unità e giornali affini i giovani con la “maglietta a strisce” e blu jeans che diedero vita alle
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giornate genovesi del luglio ’60; delinquenti comuni e provocatori fascisti furono chiamati gli
operai di Piazza Statuto nel ’62. Ciò non deve stupire, poiché rappresenta esattamente il frutto sia
della deriva riformista e opportunista intrapresa dal PCI negli anni immediatamente successivi alla
II Guerra Mondiale sia, in seguito a ciò, della messa in soffitta del materialismo storico e dialettico,
in quanto arma teorica della classe. Abbandonando il marxismo e la prospettiva leniniana della
dittatura rivoluzionaria, alla quale viene preferita la bizzarra teoria della “democrazia progressiva”,
il PCI si trova disarmato sotto il profilo teorico e analitico e quindi nella obiettiva impossibilità di
comprendere le trasformazioni oggettive del mondo capitalista.
Il PCI non ripudia “semplicemente” l’ipotesi rivoluzionaria ma, compiendo questo passo,
non può che approdare al campo della borghesia e, con ciò, al limite storico cui il pensiero
borghese, per sua natura, è condannato. Alla fine, indipendentemente da sfumature e “nuance”
individuali, la produzione teorica e analitica non può che essere la messa in forma cartacea delle
ideologie delle classi storiche presenti sulla scena storica. Il PCI non riesce più a comprendere ciò
che si muove intorno a esso poiché, in quanto forza borghese, può comprendere il divenire storico
solo post festum. Un limite che non sta negli uomini ma nella dimensione storica delle classi. Per
questo, come ricorda Mao, di fronte al nuovo che nasce, il vecchio che non vuol morire, in quanto
obiettivamente imbrigliato dentro i vecchi rapporti sociali, spara ad alzo zero tutte le munizioni che
gli rimangono.
Come andarono, invece, le cose è storia nota ai più. Nel ’69, sette anni dopo Piazza Statuto,
a Corso Traiano quella classe operaia accusata di teppismo e fascismo darà il là a una stagione di
lotte - di cui lo Statuto dei lavoratori ne rappresenterà la mediazione politico-istituzionale - che si
porrà a pieno titolo sul filo del tempo, in continuità con gli scioperi del marzo ’43. Eppure, quando
questo soggetto operaio fece la sua rumorosa comparsa sul proscenio storico, solo sparuti gruppi di
intellettuali, ricercatori sociali, militanti sindacali e politici furono in grado di coglierne la portata.
Questi, nuotando per anni controcorrente, guardati con sospetto e disprezzo dai più, contribuirono
non poco a far emergere quella figura operaia – la figura dell’operaio massa - come figura centrale
della nuova composizione di classe. Quello che, in seguito e senza enfasi di troppo, fu chiamato il
Partito di Mirafiori deve molto a quei piccoli reparti di militanti, intellettuali e no, che furono i soli
a leggere e cogliere la tendenza che un nuovo ciclo capitalistico aveva posto all’ordine del giorno.
Quei gruppi, obiettivamente, furono in grado di esercitare, nei fatti, il ruolo proprio
dell’avanguardia.
Questa sintetica parentesi storica serve per dire che è proprio della logica del capitalismo, e
questo lo avevano già capito Engels e Marx sin dai tempi del Manifesto, sovvertire in continuazione
il mondo. Se c’è una cosa che di sicuro non può essere rimproverata al modo di produzione
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capitalista è la staticità e/o la lentezza. Da sempre, nel suo divenire irrequieto, tumultuoso e
irrazionale il modo di produzione capitalista obbliga le avanguardie a misurarsi con il portato
materiale, e quindi con la composizione di classe, cui il ciclo capitalista ascrive le masse salariate e
subordinate.
Cause ed effetti della Sconfitta
Nel nostro Paese, il conflitto di classe tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni
Ottanta ha assunto un’intensità tale da fare dell’Italia un caso particolare all’interno del contesto
politico dell’Europa occidentale. La capacità di attrazione nei confronti delle masse, insieme alla
forza e alla decisione con cui l’ipotesi rivoluzionaria è stata portata avanti in quegli anni dalle
avanguardie politiche comuniste, ha reso realistica nel nostro Paese la possibilità del rovesciamento
dei rapporti di forza tra le classi. A quest’enorme potenziale di lotta espresso dalla classe subalterna,
le classi dominanti hanno risposto con una controffensiva a tutto tondo e senza mezzi termini. Le
forze controrivoluzionarie hanno messo in campo ogni mezzo necessario al fine di disarticolare
prima, distruggere alla radice poi, il movimento rivoluzionario. Tra la metà degli anni ’80 e la loro
fine, assistiamo nel nostro Paese alla sconfitta militare e politica dell’intera classe operaia e delle
forze organizzate che ne sostenevano la lotta. Per esigenza di sintesi teorica e argomentativa,
scegliamo di prendere in considerazione due passaggi particolarmente significativi della
controffensiva imperialista.
Il primo è rappresentato dalla pianificazione da parte dell’imperialismo dell’immissione
dentro il tessuto proletario di uno stile di vita individualista e nichilista, al fine di disintegrare la
dimensione collettiva del quartiere operaio e proletario.
Limitandoci ad osservare quanto accaduto nel nostro Paese vediamo come, a partire dalla
fine degli anni Sessanta del secolo scorso, sulla scia della cosiddetta “cultura underground”, il
consumo di alcune sostanze, e il conseguente stile di vita che si portano dietro, inizia ad assumere
tratti di massa. La doppia anima che albeggia dentro il ’68, il radicalizzarsi della lotta di classe ma
anche una rivoluzione interna alla stessa borghesia (una sorta di rivoluzione culturale interna alle
classi dominanti), immette dentro l’ordine discorsivo della scena pubblica il tema della
trasgressione e della non convenzionalità, come aspetti non secondari della critica allo stato delle
cose presenti.
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Nel nostro Paese, in virtù della dominanza operaia sul ’68, che spalanca le porte all’autunno
caldo del ’69 e condiziona per intero l’anomalia italiana degli anni Settanta, il peso dei movimenti
contro culturali e underground è ampiamente contenuto. Non si assiste, in poche parole, a nessuna
forma egemonica di quello che possiamo chiamare il “Vento dell’ovest”, ovvero quell’insieme di
retoriche provenienti soprattutto dal mondo anglo – sassone, codificate e codificabili nel movimento
beat o hippy. Il loro peso non va oltre la modesta area di influenza di una rivista come Re nudo e
poco più. A differenza di altri Paesi dove la cultura underground può vantare una certa presa sui
mondi sociali, in Italia il fenomeno è piuttosto limitato. Per certi versi, almeno in apparenza, a
prevalere sembrano essere piuttosto gli aspetti culturali “conservativi” e “tradizionali”, piuttosto che
quelli innovativi (gli operai canticchiano sicuramente più Celentano dei Doors). Eppure, se
dall’ambito culturale passiamo alla dimensione politica, il quadro cambia repentinamente: l’Italia è
l’unico Paese europeo dove le forze rivoluzionarie possono vantare un consenso di massa non
secondario e, per di più, sono in grado di esercitare un’influenza, a volte persino egemone, dentro i
grandi centri industriali e i grossi comparti (operai, ma non solo). La presa del discorso
rivoluzionario si fa persino più forte al di fuori della fabbrica, il cui perimetro inizia a essere oggetto
di presidio continuo da parte delle forze riformiste e opportuniste. Mentre in fabbrica, utilizzando a
piene mani la forza del sindacato, il riformismo riesce in qualche modo a controbilanciare le forze
del movimento rivoluzionario, nei territori e nei quartieri la cosa è meno facile. Questo per un
motivo molto semplice: il quartiere operaio e popolare si mostra, pur con tutte le differenziazioni
interne che lo possono contrassegnare, un blocco sostanzialmente omogeneo e unitario. L’obiettiva
divisione della città operaia e della città borghese non può che rimandare a una rigida e precisa
divisione dei campi dell’amicizia e dell’inimicizia. In poche parole, ciò significa che il quartiere
operaio vive un insieme di rapporti sociali e politici “autonomi” rispetto a quelli della società
ufficiale e/o legittima.
Il Paese reale non è il Paese legale. Ora, perché esista un mondo sociale “autonomo”
occorre evidentemente che in quel mondo esista una coesione e quindi un ordine. In altre parole,
perché il quartiere operaio e popolare possa vivere quell’insieme di rapporti sociali non assoggettati
alla società legittima, occorre che, al suo interno, tutta la popolazione possa vantare una condizione
di sostanziale sicurezza. La naturale repulsione per le forze dell’ordine che ha a lungo
accompagnato la storia del quartiere operaio e popolare trae origine da un duplice fattore: la
percezione delle forze dell’ordine come apparati della società nemica e l’esistenza di un ordine
sociale interno che la solidità dei rapporti sociali rende, di fatto, granitico.
È in questo contesto che appare l’eroina. Nel nostro Paese l’eroina è imposta, si può dire
dall’oggi al domani, direttamente dentro i quartieri operai e popolari. Il suo fine strategico è chiaro:
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disintegrare e annichilire la “comunità operaia” e rompere la “separatezza” propria del quartiere
operaio e popolare.
Nel giro di nulla la figura del tossicodipendente diventa una delle più familiari dentro i
territori operai. La ricaduta immediata è la rottura dell’ordine sociale. Il quartiere operaio da
territorio franco e sicuro si trasforma in una sorta di giungla urbana. Il tossicodipendente, la cui
figura illegale è a dir poco irrisoria, nella forsennata ricerca di denaro non può che indirizzarsi verso
gli attori sociali più esposti. Per questo, in linea di massima, il tossicodipendente non va all’assalto
dei fortini ben custoditi della città borghese, ma punta ai facili obiettivi che l’incustodito quartiere
operaio gli offre. In questo modo, nel giro di nulla, il quartiere proletario si ritrova sotto attacco.
All’insicurezza sempre più diffusa si associa la rottura di quell’insieme di rapporti sociali che
avevano dato forma all’amicizia propria del mondo operaio. Ciò che viene infranto è un ordine
sociale, politico e culturale. Le retoriche individualiste, delle quali il tossicodipendente è alfiere,
frantumano sino alla radice l’essere collettivo dei subalterni. Dentro gli anni Settanta del secolo
scorso assistiamo esattamente all’incidere massiccio di questo fenomeno. I quartieri operai, uno
dopo l’altro, si trasformano in supermarket dell’eroina mentre, per quanto silenzioso, un vero e
proprio “olocausto proletario” prende forma. Lo scenario che, tra la fine degli anni Settanta e i primi
anni Ottanta, fa da sfondo ai quartieri popolari è fin troppo noto. In tale contesto si consuma la
vittoria dell’imperialismo sulle forze rivoluzionarie. Fascisti e apparati statuali, attraverso l’eroina,
hanno scardinato prima e messo le mani poi dentro quei territori nei quali non avevano mai trovato
diritto di cittadinanza. Da quel momento in poi l’occupazione del territorio operaio può dirsi un
fatto compiuto. Quasi inutile rilevare come tale occupazione consenta di attivare una rete non
secondaria di informatori che, tenuti costantemente sotto scacco, diventano fonte permanente di
informazioni. C’è, infine, un aspetto che il fenomeno eroina si porta appresso: la medicalizzazione
del conflitto. Proprio in questo frangente assistiamo alla costituzione di una rete disciplinare (il
Terzo Settore) che, a partire dalla figura del tossicodipendente, diventerà il “braccio armato” del
processo di medicalizzazione della società. Il fine di questo processo è abbastanza ovvio ed
evidente: ascrivere al mondo dell’anomalia, attraverso le infinite retoriche messe in circolo sulla
devianza, ogni possibile forma di conflitto. Ogni comportamento estraneo ai modelli sociali
dominanti perde in questo modo legittimità “politica” per diventare pura e semplice espressione di
malessere e disagio. Un insieme di saperi, scienza della polizia, scienza medica e scienza sociale,
penetrano dentro i quartieri proletari disintegrandone l’identità di classe. Il progetto strategico è, al
contempo, semplice e ambizioso: delegittimare la lotta di classe e ascrivere la sua manifestazione al
mondo dell’anormalità. Tutto ciò è palesemente evidente se ripensiamo agli anni Ottanta e Novanta
del nostro Paese. Un onda lunga che si protrae sino agli albori del nuovo secolo; a tale proposito è
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sufficiente ricordare gli investimenti fatti al riguardo dal primo Governo Prodi (1996) attraverso le
politiche sociali dell’allora Ministro Livia Turco. Non si è trattato di un progetto di poco conto,
basti pensare, infatti, come i principali interlocutori delle politiche governative siano stati non pochi
ambiti della cosiddetta sinistra radicale, parlamentare e no, che dei governi di centro sinistra
divennero tra i più strenui difensori. L’asse Bertinotti/Casarini ha a lungo viaggiato proprio dentro
la fattiva compartecipazione alla realizzazione di un modello di società disciplinare portata, almeno
in tendenza, sino alle estreme conseguenze. Dietro a tutto ciò, contingenze a parte, vi era l’ipotesi
costitutiva di un modello sociale i cui tratti se non decisamente totalitari potevano dirsi per lo meno
totalizzanti. Una parte della società si faceva così direttamente controllore di un’altra. Il
presupposto di tutto ciò era l’idea di un modello sociale dove tutto doveva essere posto sotto
controllo. Un progetto in gran parte naufragato poiché del tutto anacronistico e fuori dalle tendenze
reali della storia: nella fase imperialista attuale, come si è in precedenza argomentato, a prevalere
più che le logiche del far vivere sono quelle del lasciar morire. In tutto ciò l’interesse per la
popolazione da parte dello Stato, nel bene e nel male, diventa pressoché nullo. Al proposito è non
poco interessante osservare come negli ultimi anni, repentinamente, gran parte degli ordini
discorsivi intorno alla devianza, al disagio, al malessere sociale e via dicendo siano scomparsi dalle
retoriche pubbliche. Improvvisamente siamo passati da un mondo denso di devianza e malattia a un
mondo sostanzialmente sano. Del resto in un mondo in cui la condizione di “marginalità” ed
esclusione si estende a tutto l’insieme delle classi sociali subalterne diventa alquanto insensato
mantenere in piedi una rete di “specialisti del margine”. In questo scenario ampiamente modificato
si trasforma anche la cornice del consumo delle sostanze. Paradossalmente assistiamo a
un’autentica rivoluzione copernicana: il consumo di droga da veicolo di stigma sociale si trasforma
in “pratica inclusiva”. L’affermarsi della cocaina, insieme ai suoi derivati come il crack, in quanto
droga egemone dell’era contemporanea non ha bisogno di troppi commenti. Se, in un’epoca ormai
distante, la cocaina era considerata la sostanza delle elite oggi il suo carattere di massa è arcinoto.
Ma se cambia la molecola non cambiano i gestori e la loro funzione. Fascisti, servizi e criminalità
organizzata non hanno fatto altro che spostare il business da una all’altra sostanza senza
dimenticarsi, nel frattempo, di rafforzare le proprie reti di controllo e informazione. Rispetto al
passato, inoltre, la diffusione e la sostanziale legittimazione della cocaina dentro gli ambiti della
sinistra radicale ha consentito di costituire connubi a dir poco inquietanti. Se l’eroina non aveva
sfondato più di tanto tra gli ambienti della sinistra radicale, tanto che colui che diventava
eroinomane per lo più abbandonava l’attività politica, oggi assistiamo a un fenomeno esattamente
rovesciato. Il consumo è fatto proprio e persino rivendicato tra quote non proprio secondarie di
militanti o presunti tali. Non diventa pertanto difficile comprendere come, in numerose realtà un
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tempo luoghi comuni della sinistra rivoluzionaria, oggi trovino cittadinanza e legittimazione fascisti
e funzionari della criminalità organizzata, il tutto sotto la sapiente regia dei vari apparati di
sicurezza. Un tacito accordo e una connivenza rispetto alla quale è a dir poco criminale mantenere il
silenzio. Tutto ciò, tra l’altro, ci consente di evidenziare anche la palese contraddizione che le
retoriche legalitarie portate avanti da quote considerevoli della sinistra si portano dietro.
Abbiamo assistito, in questi anni, alla messa in forma di battaglie per la legalità e contro
mafie e criminalità organizzata, battaglie intorno alle quali è bene fare chiarezza. In queste battaglie
ciò che è continuamente eluso è il connubio oggettivo tra gli apparati legittimi imperialisti e le varie
articolazioni illegali tra le quali i fascisti svolgono il ruolo di costante “trade–union”. Il considerare
la criminalità organizzata come realtà del tutto autonoma e indipendente dagli apparati politici,
economici e militari dell’imperialismo significa non semplicemente prendere un colossale abbaglio
analitico, ma coltivare tra le masse l’illusione dell’esistenza di uno Stato legalitario e rispettoso
delle regole all’interno del quale, volta per volta, apparati “deviati” ne minano l’efficacia. In questo
modo, invece di evidenziare l’uso indifferenziato, a partire dagli obiettivi strategici che volta per
volta si vogliono perseguire, di legalità e illegalità da parte delle forze imperialiste, le si rappresenta
come un campo di forze particolarmente prono al rispetto delle regole, dimenticando, e non si tratta
di cosa da poco, che le regole di cui si parla non sono frutto di un dono divino ma il risultato di un
rapporto di forza storicamente determinato e, proprio per questo, non solo in equilibrio precario, ma
indissolubilmente legato alla forza concreta e materiale che gli attori sociali e politici sono in grado
di esercitare. Di più: la continua attenzione alle regole e alla legalità, come unica cornice possibile
della prassi, delegittima tra le masse l’idea stessa di illegalità e di azione esterna alle logiche del
parlamentarismo o dell’ordine costituito.
Il secondo passaggio, con cui le classi dominanti concludono vittoriosamente la guerra
contro il movimento rivoluzionario degli anni ’70 nel nostro Paese, è rappresentato dalla
controrivoluzione ideologica condotta al fine di estirpare il marxismo e il materialismo dagli
orizzonti della classe subalterna. Proveniamo oggi da un’intera arcata storica dove la messa in mora
del marxismo è stata l’opzione teorica coltivata dalle più svariate forze politiche e intellettuali. Il
cuore di questa operazione, indipendentemente dalle diverse derive, trovava i suoi punti di approdo
intorno a due temi:
- la centralità dell’individuo e dell’individualismo a fronte della messa in mora di ogni teoria
fondata sul collettivo
- il tratto sostanzialmente irrazionale, e quindi di fatto indecifrabile, delle vicende umane e
storiche.
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Il corollario di tutto diventava quanto mai ovvio: il mondo, nel suo insieme, non è altro che
l’effetto dell’agire irrazionale dei singoli. La storia e le sue vicende non possono essere, pertanto,
lette e quindi ancor meno anticipate avendo a mente la razionalità propria del conflitto di classe, ma
solamente come l’effetto dell’agire scomposto dei singoli. Questi, nella migliore delle ipotesi, sono
in grado di elaborare un qualche progetto tattico in merito al susseguirsi delle contingenze
individuali, ma rimangono del tutto estranei alla messa in forma di una qualunque progettualità
strategica capace di farsi generale. In virtù di ciò, la storia non poteva essere altro che l’insieme di
infinite contingenze le quali, per di più, tra loro non avevano alcun legame o per lo meno alcun
legame informato da una qualche razionalità. La società e i suoi conflitti, a partire da ciò, non sono
altro che la cornice di una micro – guerra tra individui al fine di conseguire, una contingenza dopo
l’altra, postazioni di rendita e di potere “contingentemente determinate”. Sulla scia di ciò le
retoriche proprie delle beghe condominiali diventavano il paradigma del mondo. Un insieme di
retoriche che hanno a lungo trionfato poiché potevano vantare, almeno in apparenza, sulla solidità
di un modello economico sostanzialmente privo di contraddizioni. L’era del capitalismo globale, del
turbo capitalismo, della finanziarizzazione permanente o in qualunque modo si voglia chiamare
l’epoca dentro la quale siamo stati immessi a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso,
ridotta all’osso, trovava la sua cornice ideologica in quest’insieme di retoriche. Ma, andando al
sodo, tutto questo poggiava sull’apparente affermazione del modo di produzione capitalista come
modello che, attraverso i processi di globalizzazione, non solo aveva reso il mondo unico ma lo
aveva definitivamente stabilizzato.
Il crollo dell’Unione Sovietica e di gran parte dell’intero blocco socialista, insieme alla sua
repentina attrazione per i modelli capitalistici più spregiudicati, sembravano la migliore
esemplificazione della vittoria del realismo e del pragmatismo capitalista sul mondo dell’utopia. La
crescita, ancorché ampiamente drogata, dell’economia mondiale sembrava rendere del tutto
anacronistico ogni punto di vista di classe dentro il nuovo mondo. La stessa tendenza alla guerra,
insieme al prepotente riaffiorare di operazioni militari dichiaratamente di stampo colonialista,
invece che essere colte come segnale non secondario delle contraddizioni proprie della nuova fase
imperialista, erano archiviate come aggiustamenti necessari, per quanto dolorosi, alla definitiva
messa in forma della nuova era. Particolarmente significativo il modo in cui la guerra irachena è
stata affrontata da tutti gli esponenti delle forze borghesi. I fautori dell’intervento lo hanno spiegato
come una dura, ma obbligata, necessità al fine di rendere più sicuro il mondo contro una figura e un
regime che loro per primi avevano per anni foraggiato. La coalizione imperialista che si è
precipitata a occupare e a spartirsi il territorio iracheno ha giustificato il tutto con il fine di esportare
la democrazia, unica garanzia della stabilità internazionale, all’interno di un territorio
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particolarmente turbolento. La veste idealista con la quale si è rivestito l’imperialismo in fondo non
rappresenta una novità. L’intera epopea imperialista e colonialista è stata ammantata di nobili ideali,
tra cui l’esportazione del processo di civilizzazione e la cristianizzazione del mondo, com’è noto,
hanno fatto la parte del leone. Più interessante è l’ordine del discorso messo in campo dai sedicenti
critici del capitalismo globale. A fronte dell’attacco all’Iraq, essi non hanno saputo fare niente di
meglio che imputare la guerra al volere di un singolo (George W. Bush) il quale, contro tutto e tutti,
è stato in grado di sovvertire il “naturale” corso delle cose intorno al quale i teorici dell’Impero,
hanno a lungo argomentato. Insomma un altro 18 brumaio.
Ma com’è stato possibile arrivare all’imporsi della prospettiva controrivoluzionaria come
unica ideologia legittima? Perché una spiegazione tanto stupida quanto inconsistente della guerra
contro l’Iraq è riuscita a farsi largo e, per un certo periodo, a vantare anche una discreta presa sul
mondo? Proviamo a pensare a un’ipotesi simile formulata negli anni Sessanta del secolo scorso di
fronte all’impegno statunitense in Vietnam. Nessuno si sarebbe sognato di imputare a J. F. Kennedy
la responsabilità individuale dell’aggressione imperialista al popolo vietnamita. La sua decisione
venne considerata come la cristallizzazione e il distillato di una scelta collettiva delle forze
imperialiste all’interno di quella cooperazione controrivoluzionaria internazionale contro il
movimento comunista e le lotte di liberazione dei popoli colonizzati. Quell’intervento non poteva,
pertanto, che essere letto dentro i rapporti di forza complessivi tra rivoluzione e controrivoluzione.
In tutto ciò lo spazio per l’individuo J. F. Kennedy non avrebbe potuto che avere un ruolo limitato.
In quanto espressione di forze collettive, concrete e materiali, egli non avrebbe rappresentato altro
che l’aspetto fenomenico del progetto imperialista. Al centro dell’analisi non poteva che essere
posta la “linea di condotta” dell’imperialismo. Del resto, a riprova di quanto gli individui non
possano far altro che recitare all’interno di un canovaccio ampiamente scritto e condizionato dal
contesto storico oggettivo, quanto sopra è facilmente accertabile attraverso i comportamenti dei
successori di Kennedy. Tanto Johnson quanto Nixon, pur appartenendo a schieramenti politici
diversi, ma affini al medesimo campo imperialista, non si risparmiarono nel proseguire e dilatare
l’impegno statunitense in Vietnam. In poche parole a nessuno, in quel periodo storico, sarebbe
venuto a mente di andare alla riscoperta di un nuovo Luigi Bonaparte. Del resto un’operazione
simile non era stata neppure ventilata nei confronti della Guerra di Corea dove, se non altro, la
statura di Eisenhower poteva in qualche modo “giustificare” il richiamo al vero Napoleone. Perché,
invece, tutto ciò è stato possibile ai nostri giorni? Perché, invece di andare alla ricerca delle cause
materiali che hanno smosso l’intervento militare, si è bellamente ripiegato sulla volontà di potenza
di un singolo come se, alla fine, smuovere eserciti e armate non fosse poi così diverso dall’innescare
una faida condominiale la quale, non di rado, è il frutto di piccole e meschine ripicche da nulla?
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Perché non una parola è stata spesa sul portato strategico che la guerra in Iraq si portava dietro?
Perché, andando al dunque, a essere stata espunta dall’analisi del mondo è stata la dimensione del
“politico”, con tutto ciò che questo si porta appresso? Perché, alla fine, l’individuo è tornato a
essere centrale mentre per il “coro” non vi è spazio di sorta e l’idealismo più becero è stato in grado
di farla da padrone in tutti questi anni? Che cosa, se non la messa in mora del marxismo, ha
consentito la produzione e l’affermarsi di questi ordini discorsivi diversi, ma in fondo affini?
Un’operazione che ha visto coinvolti in prima linea soprattutto intellettuali e teorici politici di
sinistra e, in non pochi casi, con simpatie verso il marxismo in precedenza ampiamente dichiarate.
In apparenza ci stiamo dilungando eccessivamente su questo passaggio ma, a fronte di quanto
abbiamo sotto gli occhi, andare al fondo della questione è di vitale importanza. L’accanimento con
cui tutte le forze della borghesia internazionale hanno mosso guerra al marxismo e al materialismo
storico e dialettico non ha nulla di casuale, ma rappresenta la punta di diamante della messa in opera
della controrivoluzione imperialista.
Per l’imperialismo è sempre stato chiaro che la relazione tra proletariato e borghesia non
può che essere fondata sulla assolutizzazione del rapporto amico – nemico. In poche parole, tra le
due parti non può che esservi una relazione fondata sul “politico”; la guerra, pertanto, ne incarna
l’aspetto permanentemente costitutivo e costituente. Non deve stupire, perciò, che una volta vinta
una battaglia sul campo, l’imperialismo si sia dato non poco da fare per ottimizzare al massimo i
risultati ottenuti. In tale operazione non ha fatto altro che applicare un tratto ampiamente utilizzato
nel corso delle guerre coloniali, finalizzate al completo assoggettamento delle popolazioni
conquistate. L’esempio maggiormente esplicativo di ciò lo ricaviamo facilmente attraverso la “linea
di condotta” seguita dalle armate nazi – fasciste nei confronti dell’URSS e delle popolazioni slave e
dall’imperialismo giapponese nella sua guerra di conquista in Cina. La guerra contro l’URSS, gli
slavi e la Cina non erano semplicemente guerre contro delle entità statuali, nei confronti delle quali
il problema si risolveva nella distruzione dell’apparato bellico avversario, bensì guerre il cui fine
era la riduzione dell’intera popolazione conquistata a una massa di lavoratori coatti. Il problema,
pertanto, non si limitava all’annientamento della forza militare avversaria, ma all’instaurazione di
un regime di dominio e terrore sull’intera popolazione (e oggi tale progetto, da cui la non
secondaria similitudine con il colonialismo dell’era contemporanea, è ampiamente attuato nei
confronti di tutte le classi sociali subalterne). Perché tale progetto andasse a buon fine occorreva
estirpare alla radice ogni scintilla di rinascita, ossia fare in modo che le popolazioni sottomesse non
avessero a disposizione alcuna arma teorica e intellettuale intorno alla quale organizzare la
resistenza. A tal fine il genocidio dei quadri e degli intellettuali comunisti, insieme all’azzeramento
di ogni forma di cultura nazionale, diventava l’obiettivo politico – militare da conseguire
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immediatamente a ridosso della sconfitta apportata contro le forze armate avversarie. Un obiettivo
che gli eserciti nazi – fascisti perseguirono con particolare dedizione. L’imperialismo, in tal modo,
ha sempre mostrato di avere ben a mente l’asserzione leniniana: senza teoria rivoluzionaria, non
esiste movimento rivoluzionario. In questo modo si doveva prevenire la nascita di ogni resistenza.
Lo stesso modello è stato applicato nell’era attuale. Una volta affermatasi, politicamente e
militarmente, la controrivoluzione ha portato il suo affondo al nocciolo duro del proletariato
assoldando tutta l’intellighenzia possibile al fine di cancellare ogni traccia di teoria rivoluzionaria.
Poco alla volta i territori in cui il materialismo storico e dialettico conservava una qualche zona
d’influenza sono stati ridotti all’osso mentre l’idealismo, pur condito in varie salse, tornava a essere
la cornice dominante ed egemone del mondo. La riscoperta dell’individuo e dell’individualismo non
è stato altro che il frutto maturo di questa operazione portata a termine dalla controrivoluzione
imperialista sul piano internazionale.
L’irrompere della crisi ha, almeno in parte, arginato questo processo. Senza eccessiva enfasi
possiamo dire che, oggi, la rinascita del marxismo si ponga all’ordine del giorno. Per anni, le
piccole cerchie marxiste, più che essere minacciate dalle forze della repressione, hanno corso il
rischio di essere medicalizzate. Solo una follia fuori controllo poteva continuare a individuare nel
marxismo l’unica scienza in grado di spiegare il senso del mondo. Ai più, coloro che continuavano
a definirsi marxisti finivano con il sembrare non troppo diversi dal classico pazzo che gira per
strada proclamandosi Giulio Cesare. Come sempre, però, i fatti hanno la testa dura. Da circa cinque
anni il modo di produzione capitalista si dipana in una crisi di sistema dalla quale non sembra essere
in grado di trovare una qualche via di uscita. A momentanei sprazzi di euforia fanno puntualmente
seguito ampi periodi di depressione sui quali la terapia dei vari istituti politici e finanziari
internazionali non sembra sortire effetti di una qualche consistenza. Nonostante masse smisurate di
denaro pubblico siano state poste a salvaguardia della finanza e dell’economia privata, quest'ultima
continua a precipitare in una crisi sempre più profonda. I nudi dati raccontano infatti che non la
tanto decantata ripresa, ma un nuovo periodo di recessione è quanto ci aspetta e, con questo,
l’aumento della disoccupazione, la diminuzione dei salari, i tagli alla spesa sociale, la chiusura dei
servizi e via discorrendo. Il tanto decantato turbo capitalismo non solo si è fermato, ma sembra aver
addirittura fuso i motori.
Se questo scenario è vero, alcune non secondarie considerazioni ne conseguono. Per prima
cosa possiamo tranquillamente registrare la bancarotta a cui sono giunte tutte le ipotesi teoriche,
politiche e analitiche che, per oltre un ventennio, hanno occupato il proscenio storico. Di tutto ciò
oggi non resta praticamente più nulla. La crisi con un sol battito di ciglia ha resettato per intero il
panorama teorico politico. La necessità di riappropriarsi di un modello teorico in grado di spiegare
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quanto sta accadendo si sta facendo sempre più pressante. La “riscoperta” di Marx non è pertanto
casuale. Nel momento in cui tutto precipita la ricerca di una bussola, di una guida e di un modello
analitico capace non solo di osservare e spiegare quanto sta accadendo, ma di offrire ipotesi
concrete di fuoriuscita dai guasti del presente diventa un’esigenza persino banale. Si tratta di un
passaggio importante, ma ben distante dall’essere risolutivo. Mai come oggi, infatti, è necessario
conquistare senza mediazioni di sorta la completa “egemonia culturale” sull’intero movimento di
classe che, pur tra mille fatiche e contraddizioni, dentro la crisi sta prendendo forma. Oggi si stanno
ponendo le basi e l’ossatura del movimento di classe ed è noto come proprio la struttura scheletrica
dei primi anni sia la condizione essenziale per sviluppare un corpo sano e maturo. Oggi, dentro la
crisi, il materialismo storico e dialettico, arma teorica del proletariato, si riaffaccia prepotentemente
alla ribalta del proscenio storico. La battaglia per il marxismo si pone pertanto come punto decisivo
e irrinunciabile per la rimessa in forma di un movimento comunista all’altezza dei tempi. Ma la
“restaurazione” del marxismo implica, e qua le vicende assumono aspetti direttamente concreti, il
suo adeguamento al contesto storico attuale.
La sfida del presente
Il nuovo che nasce, il vecchio che non vuol morire
Quanto ci troviamo di fronte oggi rappresenta una trasformazione forse mille volte più
radicale di quella che ha soppiantato l’operaio professionale con l’operaio di linea. In quel caso la
fabbrica, e anzi la sua dilatazione, era pur sempre il luogo centrale della vita operaia, mentre oggi la
frantumazione del lavoro operaio, proletario e subordinato non ha alcun luogo comune e questo è
sicuramente un, se non il problema. Ma non si tratta solo di ciò. Il problema non è tanto, o almeno
non solo, la frantumazione delle figure proletarie e la loro dimensione di lavoratori senza fissa
dimora, piuttosto la condizione in cui i subalterni sono ascritti. Il vero e proprio tsunami che si è
abbattuto sulle classi sociali subalterne, che rappresenta la vera e propria fuoriuscita dal ‘900, è
l’essere stati ascritti all’ambito dell’esclusione sociale. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti
tutto ciò ha molto a che vedere con le trasformazioni che hanno attraversato la forma guerra e le
forme statuali che intorno a questa si sono modellate.
Lo Stato ha oggi cessato di esercitare una qualunque forma di sovranità autonoma e locale.
Come numerosi fatti sono lì a ricordarci, lo Stato nazionale ormai non ha alcuna autonomia
decisionale sulla pace e sulla guerra, poiché su tale materia la decisione è presa ed esercitata da
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organismi sovranazionali, così come non ha alcun potere decisionale su spesa e bilancio ma, su tali
argomenti, di nuovo a decidere sono organismi sovranazionali. In altre parole, la forma statuale con
la quale ci dobbiamo misurare è quella dello Stato imperialista sovranazionale.
Un aspetto intorno al quale occorre soffermarsi, poiché una non chiara comprensione di ciò
può portare ad abbagli madornali e a non comprendere per intero la natura della trasformazione
dentro cui siamo immessi, è la seguente: la perdita della sovranità nazionale non è il frutto della
svendita di questa da parte di una quota delle classi dominanti le quali, come è spesso accaduto in
situazioni coloniali e semi – coloniali, in alleanza con le borghesie imperialiste, offrivano a queste il
saccheggio del proprio Paese in cambio di un ben retribuito posto al sole. Ciò a cui stiamo
assistendo, all’interno del blocco imperialista europeo in via di costituzione, è la centralizzazione,
pur con gradi di potere e influenze diversificate, di tutte le borghesie imperialiste all’interno di una
sovranità statuale sovranazionale. Sullo sfondo di ciò vi è la condivisione del medesimo progetto:
nel nostro caso, quello della messa in forma a tutti gli effetti (politici, economici e militari) di un
Blocco Imperialista Continentale. La borghesia avanzata, se così la vogliamo chiamare, è
esattamente colei che sta gestendo questa “svendita”. In tale scenario non esiste, nei fatti, alcuna
possibilità di alleanza patriottica dei ceti popolari con un qualche settore borghese “nazionale”,
semmai importante è osservare le oscillazioni alle quali andranno incontro i settori della piccola e
media borghesia, la base di massa del berlusconismo, che dentro questo progetto non sembrano
avere nulla da guadagnare. Ciò che in ogni caso è evidente è che il patriottismo, il quale ha svolto in
determinate circostanze anche un ruolo rivoluzionario, si è abbondantemente eclissato. Lo
Stato/Nazione è morto e sepolto. Dal suo funerale non si torna indietro.
Ma ricapitoliamo. L’intera storia della modernità, la cui culla è stata la Rivoluzione
francese, oggi è stata rimossa. Con la scissione tra Stato e Nazione siamo entrati in una nuova era:
la condizione proletaria deve essere letta e decodificata dentro questo scenario. Una strettoia dalla
quale non è possibile fuggire. Per un’intera arcata storica un blocco imperialista non poteva fare a
meno della “propria” popolazione. La sua forza coincideva con la quantità di popolazione sana ed
efficiente messa al lavoro e mobilitabile per la guerra. Ciò obbligava il potere imperialista a giocare
una partita dentro un equilibrio costantemente precario. Quelle masse allevate al lavoro e alla
guerra, dentro la crisi, potevano rivoltarsi e farlo da un obiettivo rapporto di forza favorevole.
Quelle masse erano in grado di governare la produzione e usare le armi ed era stato l’imperialismo
stesso a dotarle di quegli strumenti. Per questo, l’intera epopea imperialista novecentesca non ha
potuto fare a meno di coltivare, almeno in parte, una politica del consenso, poggiante su una serie di
concessioni e miglioramenti materiali per la classe. In fondo, la leggenda socialdemocratica dello
Stato come apparato super partes finalizzato all’armonia sociale poggiava esattamente sulla
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necessità politica di una redistribuzione del reddito, una cui quota non poteva che essere destinata
anche a parte dei subalterni. Di una simile politica oggi, in nessun Paese, vi è la benché minima
traccia. Al contrario, ogni intervento statuale, mira esattamente all’opposto.
Ma ciò cosa significa? Molto prosaicamente che per il potere imperialista i destini della
popolazione sono ormai indifferenti. Il potere imperialista, a differenza del passato, non deve
garantirsi a tutti i costi la pace all’interno dei suoi confini, ma porta costantemente la guerra anche
all’interno dei propri territori. Questo il passaggio che segna per intero la nuova era.
La nuova composizione di classe
Oggi, ci troviamo di fronte all’apparente contraddizione per cui, se è vero che la crisi del
modo di produzione capitalista si sta generalizzando a tal punto da colpire tutti i segmenti sociali
salariati e subalterni, è anche altrettanto vero che, di per sé, ciò non comporta l’immediata
ricomposizione della classe dentro un fronte comune. Questo passaggio immediato non si è
verificato nel passato e, a maggior ragione, non si verifica oggi, dove sulla scena economica e
sociale occidentale sono ampiamente visibili due mondi del lavoro salariato ben distanti tra loro. La
fuoriuscita dal Novecento si porterà dietro, almeno per un certo lasso di tempo, due modelli
lavorativi che rimandano esattamente l’uno al mondo di ieri, l’altro alla storia del nostro presente.
Ciò occorre averlo ben chiaro nella testa. Non si è avanguardie perché si è in grado di citare i
“classici” come il libro dei salmi, ma si è avanguardie se si è in grado di cogliere il senso storico
dentro il quale si è immessi. Ricordiamoci sempre il monito di Mao: Solo chi fa inchiesta, ha diritto
di parola! Ma fare inchiesta significa affondare le mani nella realtà del presente, non volgere lo
sguardo al passato. Lenin puntò sulle officine Putilov guardando al presente e al futuro, chi oggi
guarda a Mirafiori come se questa fosse la Mirafiori del 1969 si pone sullo stesso piano dei
populisti russi che, invece di osservare la fabbrica e il movimento operaio, guardavano, per di più
travisando completamente la realtà, alla campagna del mondo di ieri.
Prendiamo, come esempio, la questione dell’Articolo 18. Possiamo rigirarla come vogliamo,
ma questa battaglia ormai non sembra essere in grado di appassionare più di tanto. Certo qualche
manifestazione di lotta spontanea c’è stata, qualche pressione sui sindacati concertativi anche, ma
non si è trattato di una sollevazione di massa, di una lotta condivisa da tutta la classe proletaria con i
numeri che questa può vantare e la forza che unita è in grado di esercitare. Soprattutto la battaglia
sull’articolo 18 non ha avuto alcun effetto generalizzante. A ciò possiamo dare due spiegazioni: o i
lavoratori sono completamente rincoglioniti e qualunque cosa accada loro li lascia nella più
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completa indifferenza e apatia, oppure la questione è che l’articolo 18 è qualcosa che ormai riguarda
solo un segmento particolare della forza lavoro. A chi, e oggi è la maggioranza della forza lavoro, è
già fuori dall’articolo 18 e vive di uno degli innumerevoli “contratti atipici”, lavora in nero o non
lavora proprio, è facile capire perché dell’articolo 18 non gli freghi assolutamente nulla. Precipitato
in una condizione individuale e individualizzante è ben distante dal riconoscersi in un percorso
collettivo se non quello, tanto per fare un esempio, che lo unisce al gruppo dello stadio. Isolato da
tutto e da tutti, questo lavoratore, abituato a dover lottare, o semplicemente a sfangarsela, sempre
individualmente, non ha alcun ambito sociale di riferimento. Del resto nessun ambito organizzato
sembra essere in qualche modo interessato a lui. E qui entriamo direttamente nel cuore della
questione.
Un partito o un movimento politico per estendere la propria area di influenza su corpose
quote di classe non può che avvalersi degli organismi di massa. In ogni epoca storica e sotto
qualunque latitudine e longitudine le masse si organizzano per conquistare migliori condizioni di
vita e di lavoro, in altre parole per soddisfare i loro obiettivi immediati. L’organizzazione sindacale
è il luogo in cui ciò avviene. La lotta dei comunisti per conquistare spazi influenti dentro tali
organismi, solitamente egemonizzati da riformisti e socialdemocratici, è cosa sin troppo nota e non
saremo certo noi a mettere in discussione quanto ci ha insegnato l’Estremismo. Detto ciò, però,
alcune considerazioni non proprio irrilevanti vanno fatte. I sindacati, tutti i sindacati, oggi si
contendono l’organizzazione di una sola quota di forza lavoro. Una forza lavoro stabilizzata in
grado, e non è cosa da poco, di pagare la propria quota associativa. Sotto questo profilo che il
sindacato sia prono alla concertazione o propenso al conflitto non cambia molto: il segmento di
classe a cui si rivolge è sempre il medesimo. La gran massa dei lavoratori finisce con il rimanerne
estranea poiché la loro condizione li pone obiettivamente fuori dalle regole del gioco. Non è un caso
che la stragrande maggioranza dei lavoratori sindacalizzati appartengano al pubblico impiego, il cui
punto di riferimento è la Cisl (il sindacato con il maggior numero di lavoratori) oppure a quello dei
pensionati (la Cgil in questo modo diventa il primo sindacato per numero di iscritti, anche se sconta
il fatto che una buona parte degli aderenti è fuori dal ciclo produttivo). Si tratta di segmenti di forza
lavoro che possono vantare ancora una condizione lavorativa legittima e socialmente inclusa, ma in
via di estinzione. Questo è vero sia nel settore privato che in quello pubblico. In entrambi gli ambiti,
da tempo, gli organici sono ascritti a forme di contrattualizzazione quanto mai diversificate.
Abbiamo così, dentro il classico ufficio pubblico, un nucleo residuale di impiegati legati al modello
delle relazioni industriali novecentesche, solitamente un terzo della forza lavoro presente, a fronte
di due terzi non solo estranei a tale modello ma, al loro interno, ulteriormente suddivisi in ambiti
contrattuali diversificati. Il tutto è ben lontano dal produrre processi organizzativi improntati
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all’unità ma, al contrario, ciò a cui si assiste è una gerarchizzazione oggettiva dei rapporti tra i
subordinati, dove i lavoratori strutturati si percepiscono al pari dei funzionari pubblici imperiali
dell’epopea austro – ungarica nei confronti della restante forza lavoro. Del resto, se la borghesia
imperialista gioca con astuzia la contrapposizione tra strutturati e non strutturati riuscirà
effettivamente nel tentativo perché tra questi segmenti di forza lavoro esistono posizioni non
idealmente diverse ma differenze materialisticamente determinate. Per evidenziarlo non occorre
neppure troppo genio intuitivo, ma è sufficiente osservare le condizioni contrattuali dei diversi
soggetti lavorativi. Tra uno strutturato con ferie, mutua, tredicesima, micro quattordicesima e
accesso alle, per quanto scarne, risorse dei vari premi messi in palio dagli enti e un lavoratore a
progetto che, in caso di malattia, non viene neppure retribuito le differenze non sono poche.
Le organizzazioni di massa, declinate per forza di cose sul modello delle relazioni industriali
novecentesche, non possono che avere a mente la tipologia lavorativa strutturata mentre, il che è
facilmente accertabile attraverso la più banale delle ricerche empiriche, coloro i quali sono estranei
a tale modello rimangono oggettivamente invisibili. In altre parole, il modello organizzativo
sindacale attuale non può assumersi la rappresentanza del lavoro subordinato socialmente escluso.
Non diversamente vanno le cose nell’ambito privato. Prendiamo, come esempio, un’industria attiva
nell’ambito della cantieristica navale. Questa opera avendo in organico una quota di forza lavoro
“classica”, per lo più in età avanzata, mentre le nuove leve sono assunte utilizzando ampiamente la
vasta gamma contrattualistica alla quale l’impresa oggi può attingere. Tra le due parti esiste,
obiettivamente, una posizione di rendita e potere ampiamente differenziata tanto che, in non pochi
casi, la forza lavoro tradizionalmente organizzata percepisce la rimanente come una sorta di paria.
E questa è solo la prima delle differenziazioni. Una seconda corposa differenziazione è possibile
osservarla nella relazione esistente tra l’insieme di questa forza lavoro e gli operai delle ditte
appaltatrici a cui, spesso, l’azienda principale fa ricorso. In questo caso le condizioni lavorative e
contrattuali si collocano uno o più gradini in basso. Non di rado i lavoratori delle ditte appaltatrici
non vanno oltre la condizione del “lavoro a chiamata”. Tra questi e i dipendenti dell’azienda madre
non solo non esiste unità ma, a prevalere, è una costante condizione di attrito. I primi considerano i
secondi qualcosa di non dissimile da loro dipendenti e come tali si comportano. Per di più,
ovviamente, i lavoratori delle ditte in appalto non possono usufruire di alcun diritto e protezione. In
alcuni casi, però, le differenziazioni sociali e gerarchiche non si fermano a ciò. Nel campo della
cantieristica navale non è raro che, oltre alla forza lavoro fin qua descritta, ne compaia una quarta.
Si tratta degli equipaggi, in gran parte di origine asiatica che, nel momento in cui l’imbarcazione è
nel bacino di carenaggio, sono obbligati a rimanere a bordo, a paga dimezzata (già di per sé
irrisoria), e a fornire la loro forza lavoro per sveltire le operazioni di revisione e ristrutturazione del
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mezzo navale. Inutile dire che la condizione di questo segmento di forza lavoro non si distanzia di
molto da quella del coolie e come tale è percepita e trattata da tutti gli altri. Nella semplice opera di
manutenzione di un’imbarcazione abbiamo così quattro condizioni lavorative, quattro modelli di
relazione industriali assolutamente diversificati e non comunicanti tra loro. Se il primo, e in parte il
secondo, possono vantare un qualche riconoscimento, e quindi essere rappresentati, per gli altri
l’essere ascritti al mondo dell’esclusione sociale è un banale dato di fatto. In poche parole, fuori dal
modello delle relazioni industriali novecentesche vi è pressoché il nulla. È questo nulla che occorre
saper organizzare poiché è proprio questo nulla la storia del nostro futuro ed è bene avere a mente di
che cosa si stia parlando. O l’organizzazione di massa sarà in grado di farsi carico di questo modello
e di costruire lotta e organizzazione avendo in mente tale tipologia oppure sarà destinata ad
estinguersi insieme a quella forza lavoro strutturata la cui presenza quantitativa nel mondo del
lavoro si fa ogni giorno che passa sempre più sottile e residuale.
Tutto ciò non può che chiamare in causa il proletariato immigrato e quanto tale condizione si
porta dietro. Tralasciamo, perché in qualche modo noto, il ruolo di soggetto sperimentale che
“l’immigrato” ha assunto nelle nostre società. È su di lui, infatti, che sono state sperimentate le
“nuove forme di vita e di lavoro” che, in un processo a cascata, sono state successivamente estese a
quote sempre più ampie di proletariato indigeno. In ciò il proletariato immigrato ha incarnato a tutti
gli effetti la storia del nostro futuro. In questo troviamo un passaggio paradigmatico utile non poco
a definire le peculiarità proprie dell’attuale fase imperialista. Nell’epoca precedente la condizione di
sfruttamento delle popolazioni sottoposte al dominio coloniale e imperialista aveva, tra l’altro,
anche lo scopo di garantire parti più o meno elevate di plusvalore anche per le masse subalterne dei
Paesi imperialisti. Molto del benessere di cui il proletariato occidentale ha potuto godere è dipeso
dallo sfruttamento selvaggio cui sono state sottoposte le popolazioni colonizzate. L’adesione non
secondaria di quote di “proletariato nazionale” alle logiche predatorie delle “proprie” borghesie
imperialiste è stato l’esatto riflesso di questa condizione materiale, più che il risultato di una falsa
coscienza. La divisione del movimento operaio in “movimento operaio nazionale” e “movimento
operaio internazionalista”, condizionamenti ideologici a parte, nasceva da una condizione materiale
che poneva una parte del proletariato bianco e occidentale, rispetto al restante proletariato
internazionale, su un autentico piedistallo. Il lavoro degli uni era incommensurabilmente diverso dal
lavoro degli altri. Oggi accade esattamente il contrario. La condizione lavorativa del proletariato
immigrato ha funzionato da apripista per la condizione del lavoro salariato tout court. Quella
condizione di sfruttamento, di assenza di diritti e protezione sociali, di precarietà che caratterizzava
il lavoro degli immigrati nei Paesi occidentali e che fino a dieci anni fa era vista dalle forze
socialdemocratiche come una forma residuale che il processo di civilizzazione avrebbe contribuito a
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eliminare, si è rivelata invece, alla prova dei fatti, il modello sperimentale che a cascata sta
diventando il pane quotidiano per tutto il proletariato occidentale e non.
Ma quando parliamo del proletariato immigrato dobbiamo avere l’accortezza di non cadere
in facili e al contempo inutili generalizzazioni. Prendere la condizione del proletariato immigrato
come il modello intorno al quale si va uniformando il lavoro subordinato è sicuramente giusto e
corretto, da cui la tesi sostenuta in precedenza sulla “forma coloniale” che la fase imperialista
attuale riveste; altra cosa, però, è considerare il proletariato immigrato come un corpo di per sé
omogeneo, come se la condizione di migrante fosse di per sé unificante. A rendere omogenee le
storie dei singoli è una condizione socio – economica comunemente condivisa, non una semplice
esperienza. Cosa condividono, gli uni con gli altri, le masse di immigrati presenti nei nostri
territori? A ben vedere ben poco, oltre all’esperienza del viaggio e alle peripezie che l’approdo
dentro la “Fortezza Europa” spesso comporta. Per il resto le relazioni sociali di questa massa di
forza lavoro non possono vantare alcun luogo comune. Del resto ciò che è vero per il proletariato
indigeno non si capisce attraverso quale alchimia dovrebbe presentare tratti diversi per il
proletariato transnazionale. Facciamo mente locale a quel fenomeno che ha caratterizzato l’Italia
negli anni Cinquanta e Sessanta. La grande migrazione che ha portato dall’insieme del Sud d’Italia
e dalla campagne del Nord milioni di proletari verso i grandi centri industriali non era di per sé
omogenea; quella massa in fondo indistinta di proletariato è diventata qualcosa di unico poiché, in
linea di massima, è andata a ricoprire una figura sociale concreta, quella dell’operaio di linea, in
uno spazio ben determinato che era rappresentato dalla grande fabbrica. Non in quanto generica
forza lavoro immigrata, bensì come concreta figura operaia, quella massa migrante conquistò
identità e coscienza. La grande fabbrica, il cui modello plasmava l’intera vita sociale esterna ai
perimetri della fabbrica (non a caso si è potuto parlare a lungo di città – fabbrica), inglobava braccia
dai cento dialetti e dalle mille storie, trasformandoli in un braccio unico. L’ex bracciante veneto, il
raccoglitore di pomodori di Aversa, il pescatore di Pettiglia Policastro, messi alla catena,
annullavano tutte le loro diversità scoprendosi classe operaia. La città – fabbrica modellava il loro
tempo e la loro esistenza obbligandoli, di fatto, a diventare e sentirsi operai Fiat, operai Alfa, operai
Breda, operai del Petrolchimico e via dicendo. Per altro verso, quelle masse politicamente
analfabete, dentro la fabbrica e la città – fabbrica, scoprivano la lotta di classe e le sue memorie. In
qualche modo la stessa organizzazione capitalistica del lavoro favoriva il formarsi di masse operaie
portate all’unità e alla omogeneità . Pugliesi, calabresi, napoletani, veneti ecc. varcavano insieme a
tutte le loro particolarità i cancelli della fabbrica, parlando spesso dialetti tanto distanti e diversi tra
loro da porre in serio dubbio la presunta comunanza linguistica, ma dentro la fabbrica, nei reparti,
sulle linee l’insieme dei particolari iniziavano a diradarsi fino a estinguersi. “Le divisioni, sono
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finite, alla catena siam tutti uguali”, queste le parole con le quali Pino Masi, dava sostanza alla
Ballata della Fiat. La fabbrica, quindi, come luogo comune all’interno della quale, oltre ad
omogeneizzarsi tra sé, il nuovo soggetto operaio prendeva conoscenza e coscienza dell’intero
patrimonio di lotta della vecchia classe operaia. Dentro gli elementi di rottura che il nuovo ciclo di
produzione capitalista imponeva, alcuni non secondari elementi di continuità della storia della
classe venivano tramandati dentro il pur mutato assetto dei reparti e delle officine. L’idea–forza del
comunismo cessava di modellarsi intorno ai panni dell’operaio professionale per plasmarsi sulla
tuta anonima dell’operaio di linea. Questa unità non si saldava solo dentro il perimetro della
fabbrica ma si estendeva all’esterno, nel quartiere, nelle strade, nelle balere e via dicendo. In poche
parole, la dimensione operaia plasmava per intero tempo ed esistenza di quella che, nel momento in
cui, con fagotti e valigie di cartone, si riversava fuori dai vagoni ferroviari di una qualche città
industriale, appariva niente più e niente meno che una massa scomposta di individui sprovveduti,
spaesati e atterriti. Certo, in potenza, quella massa portava in sé lo spettro della rivoluzione ma,
perché tale potenza potesse esplicitarsi, dovevano darsi alcuni passaggi obbligati.
Veniamo al presente. Abbiamo visto e detto come le trasformazioni del modo di produzione
capitalistico abbiano, tra l’altro, polverizzato la grande concentrazione operaia, ma non solo.
L’organizzazione flessibile del lavoro ha fatto sì che, diversamente dal passato, il lavoratore assuma
sempre più le fattezze del lavoratore senza fissa dimora. In un mondo fortemente ordinato e in gran
parte pacificato, con fare vagamente trasgressivo, negli anni ’60 Silvy Vartan cantava Oggi
qui/domani là/chissà cosa farò. Oggi, in tutto ciò, non vi è nulla di eccentrico, controculturale o
vagamente contestatario bensì, la prosaica fotografia della condizione di milioni di proletari.
Difficile pensare che, di per sé, questa condizione possa fornire una coscienza già data.
Arriviamo così ad affrontare un punto non secondario del nostro ragionamento. In
precedenza, non per caso, si è fatto riferimento alla nascita dell’operaio–massa e alle vicende che lo
hanno accompagnato. Occorre avere il coraggio di osare una “provocazione”: mettere all’ordine del
giorno il Partito della Banlieue così come, in un altro contesto storico, si è dato forma al Partito di
Mirafiori. Si tratta, cioè, di capire in che modo diventi possibile costruire processi organizzativi
unitari all’interno di uno scenario che, almeno in apparenza, tende maggiormente alla divisione e
alla frantumazione, piuttosto che all’unità e alla ricomposizione. Si tratta di raccogliere per intero
l’insegnamento leniniano sul ruolo che la soggettività politica deve avere in quanto “quartiere
generale” della classe. Proprio le esperienze che ci siamo lasciati alle spalle, in primis “il caso Fiat”,
mostrano quanto inconsistente sia qualunque ipotesi che, invece di esercitare fino in fondo la sua
funzione di avanguardia, si accoda ai sussulti di quello o questo spezzone di sindacato. Pensare che
la Fiom possa assolvere ad una funzione propriamente tipica del partito politico è per lo meno
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miope. Non si tratta, pertanto, di fantasticare su un soggetto rivoluzionario già bello e confezionato,
ma di saper agire dentro le contraddizioni che la fase imperialista mette in moto. In altre epoche la
differenza tra i lavoratori sindacalizzati e gli altri poggiava, per lo più, sui diversi gradi di coscienza
di classe. Nel passato, cioè, conquistare il sindacato significava conquistare, per lo più, la parte più
avanzata della classe. Oggi è riproponibile un’operazione simile? Tra chi sta dentro il sindacato e
chi ne sta fuori la differenza si colloca su un diverso grado di coscienza oppure, a dividere i due
mondi, è una condizione oggettiva che rimanda il primo al mondo delle relazioni industriali
novecentesche, il secondo a quelle contemporanee? La diversità, allora, non rimanda a quella
condizione di esclusione alla quale il lavoro salariato è oggi ascritto? In poche parole, è un
problema di coscienza o, più realisticamente, di condizioni materiali diversificate? Nel passato le
politiche di divisione all’interno della classe portate avanti dalla borghesia imperialista hanno dato
notevoli frutti, basti pensare alla capacità di tenuta della socialdemocrazia tedesca nel corso della
Repubblica di Weimar e il ruolo svolto dalla socialdemocrazia europea nel legare al carro della
guerra imperialista quote non secondarie di masse proletarie. In definitiva “il patto
socialdemocratico” tramite cui le borghesie europee sono riuscite a mantenere l’ordine e il potere si
è sempre fondato su politiche della divisione all’interno della classe. Oggi però le cose si pongono
in maniera alquanto diversa. Oggetto dell’attacco dei governi imperialisti sono le masse che
rappresentano i residui delle relazioni industriali novecentesche. L’attacco portato avanti contro i
residui più o meno corposi di “lavoro novecentesco” indicano come, per gli attuali assetti
imperialistici, all’orizzonte non vi sia alcun “patto socialdemocratico”, bensì una sostanziale
omogeneizzazione in basso del lavoro salariato e subordinato. L’insieme della forza-lavoro è sotto
assedio il che, per molti versi, a patto di saperne cogliere il portato, rappresenta per le forze
comuniste un vantaggio non secondario. Ma questo passaggio non è dato, e tanto meno si dà, in
maniera meccanica, anzi. Proprio in questo frangente diventa fondamentale e decisiva la capacità
politica di farsi elemento di unificazione concreta della classe.
Questo implica l’uso di una dialettica che dall’analisi del contesto generale porti ad un
indagine sul campo, capace di cogliere le tendenze in atto all’interno della classe e di organizzarne i
diversi settori, a seconda del potenziale d’azione che essi esprimono. Questa è la funzione propria
del partito, inteso sulla scia di Lenin come “quartier generale”. Anche Lenin, nel testo
sull’imperialismo, si spinge a una sorta di generalizzazione che lo porta ad affermare che il formarsi
di trust e cartelli internazionali restringe il potere economico, politico e finanziario intorno a sempre
più ristrette consorterie di borghesia imperialista internazionale. Questo, come argomenta Lenin, è
un fatto obiettivo che, sotto il profilo descrittivo, l’analisi non può ignorare. Altra cosa, però, è
ricavare meccanicamente da tutto ciò facili soluzioni organizzative dentro le quali la stragrande
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maggioranza della popolazione potrebbe essere organizzata contro le ristrette consorterie
imperialiste, abbracciando, di fatto, il programma dell’insurrezione attraverso la trasformazione
della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, finalizzata all’instaurazione del potere
proletario. È abbastanza noto come, in Lenin, questo meccanicismo sia del tutto estraneo.
Dentro la Russia zarista, indicata come anello debole della catena imperialista, Lenin
modella parole d’ordine diversificate per i diversi blocchi sociali. Nell’agitazione e nella
propaganda non usa parole d’ordine ed enunciati politici unici. La stessa cosa vale nei confronti
della guerra imperialista. Anzi, è proprio dentro la guerra, il momento in cui più forte sembra farsi il
carattere unitario e comune della stragrande maggioranza della popolazione, che Lenin si adopera
per smascherare le facili e fittizie unità di comodo. Certo, la guerra tocca tutti ma, in virtù della
diversa postazione che gli attori sociali occupano nel proscenio economico e sociale, il loro
rapporto con la guerra imperialista darà adito a comportamenti diversi. Ciò che a Lenin interessa
organizzare sono esattamente quelle forze che direttamente, dentro e dalla guerra, non hanno nulla
da guadagnare. Semmai, in un secondo momento, quando le sorti della guerra avranno obbligato i
settori popolari, in un primo momento allineati con le borghesie imperialiste, a mutare opinione
sulla guerra, il partito dovrà essere in grado di attrarli nel suo progetto ma lo potrà fare solo se, nel
contempo, sarà stato in grado di organizzare le masse oggettivamente antagoniste agli interessi
imperialisti. Infatti, solo a partire da questa postazione di forza diventa possibile generalizzare la
parola d’ordine dell’insurrezione e del potere proletario. Prima, però, occorre che il partito si sia
guadagnato la stima e la fiducia di quelle masse che le contraddizioni oggettive del presente hanno
posto come classe dirigente del processo rivoluzionario. In ultima battuta, dunque, non perdere
mai la visione concreta della situazione concreta significa, attraverso l’arma offerta dal
materialismo storico dialettico, essere in grado di tenere insieme generale e particolare: analisi della
fase imperialista presente e composizione di classe particolare che si determina in essa, processi
organizzativi attuabili nei diversi segmenti di classe, strumenti necessari per innescare questi ultimi
e renderli efficienti.
Vecchi estremismi e nuovi opportunismi
Assistiamo oggi alla messa in circolo dentro il dibattito politico della sinistra di due ipotesi
che molto hanno a che vedere con le deviazioni di “destra” e di “sinistra” che, tradizionalmente,
accompagnano l’intera storia del movimento operaio e comunista e che, dentro la crisi, assumono
contorni sempre più nitidi. Ciò è facilmente comprensibile poiché la crisi obbliga ogni comparto
sociale a ipotizzare in maniera forte una qualche ipotesi di decisione. Se, nei periodi di relativa
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stabilizzazione del capitalismo, le ipotesi teoriche interne al movimento operaio possono, almeno a
uno sguardo poco attento, apparire semplici disquisizioni accademiche, nel momento in cui i guasti
del modo di produzione capitalista si fanno drammaticamente e materialmente concreti, allora il
“cielo” del dibattito teorico precipita repentinamente sul terreno. Dentro la crisi, quanto per anni era
stato enunciato e preparato dagli ambiti ristretti della teoria politica pone le sue divisioni sulla
scacchiera della storia. La posta in palio si fa enorme. Non si tratta più, come nelle ere espansive del
capitalismo, di estendere la propria “area di influenza” su quote più o meno ampie di salariati e
masse subalterne in vista delle lotte future, ma di prendere tra le mani i destini storici della classe
per guidarla nelle battaglie sempre più risolute e risolutive a cui la crisi rimanda.
La crisi trascina, in maniera pressoché obbligata, quote sempre più ampie di salariati e
subalterni a interrogarsi sulle proprie sorti e a cercare una forma politica in grado di farle uscire in
maniera vincente dai drammi del presente. Per questo la “lotta teorica” contro le diverse ipotesi
deviazioniste diventa aspetto centrale della “battaglia per il partito” a cui le avanguardie comuniste
sono chiamate. Si tratta, fatte le doverose tare del caso, di riprendere tra le mani il filo rosso della
prassi bolscevica e della sua lotta incessante finalizzata alla costituzione del partito di classe.
L’intera storia del bolscevismo è una costante battaglia contro le anime di “destra” e di “sinistra”
del movimento operaio, finalizzata alla conquista dell’egemonia sull’intero movimento proletario.
Battaglia lunga, difficile e aspra, ma pur sempre unica e necessaria garanzia per la messa in forma
di quel solo involucro politico, il partito di classe, capace di condurre vittoriosamente l’assalto al
cielo. Per semplificare chiameremmo la prima, ovvero la deviazione di destra, “ipotesi Fiom”; la
seconda, ossia quella che si ammanta di ultrasinistrismo, “ipotesi anarchica”. Detto ciò caliamoci
nella realtà del presente.
Empiricamente le contraddizioni che animano queste due ipotesi si sono viste all’opera nella
giornata del 15 ottobre romano del 2011. Le due anime del corteo, infatti, sono entrate velocemente
in rotta di collisione tanto che, ancor prima dello scontro tra la piazza e le forze dell’ordine, dentro
la stessa piazza si è assistito a qualche cosa di più che a semplici scaramucce. Come è noto, una
parte di questa non solo ha preso le distanze dai cosiddetti “violenti” ma ha anche cercato di
arginarne e impedirne l’azione. In quella piazza l’insieme dei nodi strategici della fase imperialista
contemporanea sono venuti al pettine senza che, obiettivamente, nessuna forza politica si mostrasse
in grado, se non di scioglierli, perlomeno di affrontarli. La prima cosa che pare importante porre in
evidenza è la diversità di linguaggi che in quel contesto si sono manifestati. La piazza pacifica è
stata l’unica, obiettivamente, a utilizzare il lessico proprio della politica. Il suo obiettivo era chiaro:
quella piazza doveva sancire la fine del Governo Berlusconi e portare dritti alle elezioni. Elezioni
che, giocate per intero in chiave antiberlusconiana e quindi avendo in mente uno scenario
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interamente nazionale, dovevano dare vita a un governo unitario, all’interno del quale un qualche
spazio a tutte le forze antiberlusconiane doveva essere garantito. Quella manifestazione, che pur tra
non poche contraddizioni aveva un carattere internazionale, veniva riconfigurata, da una parte degli
organizzatori, in una questione di fatto “condominiale” mirante a sbarazzarsi del governo locale.
Ipotesi miope e del tutto fuori cornice poiché a non essere compreso è come l’unico terreno della
politica sia oggi quello della dimensione internazionale. Del resto le vicende locali successive al 15
ottobre ne sono una più che ampia conferma. Il Governo Berlusconi è stato tranquillamente rimosso
da parte del Governo transnazionale i cui centri direttivi sono situati nelle istituzioni economiche,
finanziarie e militari sovranazionali. Uno scenario politico che la “destra” si mostra del tutto
incapace di comprendere poiché i suoi orizzonti teorici e politici non riescono ad andare oltre gli
angusti ambiti dello Stato nazionale. Una corposa e drammatica avvisaglia di ciò la si era avuta nel
corso della “vertenza FIAT” di Torino quando la Fiom, incapace di leggere quel passaggio dentro la
dimensione internazionale a cui senza troppi giri di parole il comando capitalista rimandava, si è
lasciata prima accerchiare e poi sconfiggere dalle forze internazionali della borghesia imperialista.
Ben più caotico è la scenario che si è delineato dentro l’altra parte della piazza, quella che è
stata obiettivamente egemonizzata dalla “ipotesi anarchica”. Una piazza dalla difficile
connotazione, la cui comprensione, con ogni probabilità, necessita di uno sguardo etnografico e
sociologico, piuttosto che politico. La prima e fondamentale cosa che va evidenziata, infatti, è il
modo in cui questa si è formata, tanto che il numero di persone presenti a Roma il 15 ottobre è
risultato per lo meno di quattro o cinque volte superiore rispetto alle più rosee aspettative degli
organizzatori. Gran parte di queste masse ampiamente inaspettate erano prive di un qualche
riferimento politico preciso, così come erano state in gran parte estranee ed esterne ai passaggi
politici che avevano preparato la manifestazione. In sostanza ciò a cui si è assistito è stato, da un
lato, una piazza che pur con declinazioni diverse era giunta a quell’appuntamento parlandosi, e
anche scontrandosi, sul piano della politica e delle sue articolazioni, dall’altro una piazza che,
istintivamente, aveva fatto sua quella giornata di mobilitazione senza coltivare un qualche progetto
politicamente definito. Due piazze, quindi, che avevano in comune ben poco. Di ciò era facile
accorgersi osservando semplicemente i diversi modi in cui si andavano raggruppando i manifestanti
nelle immediate vicinanze della stazione ferroviaria. Da un lato il grosso delle forze organizzate si
posizionavano sul campo col chiaro intento di dare corpo a una parata dove il tutto non doveva
varcare i confini del simbolico; dall’altro masse “informali” che si muovevano nervosamente,
avanti e indietro, nell’attesa di qualcosa. Due mondi che, per quanto fisicamente vicini, non
potevano sentirsi e percepirsi più distanti. Del primo sappiamo, nel bene e nel male, pressoché tutto,
del secondo poco o nulla.
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Da tutta Italia, in maniera del tutto auto-organizzata, decine di miglia di proletari estranei
alle relazioni industriali novecentesche si sono riversate sulla piazza romana. Nessuno di questi,
realisticamente, aveva un progetto politico e un’ipotesi organizzativa di una qualche consistenza;
erano soli, soli con la loro rabbia. Non aspettavano altro che un segnale, una scintilla per scatenare
il loro odio di classe e la loro rabbia proletaria. E così è stato. Il fatto che i raggruppamenti anarchici
abbiano colto dietro i loro vessilli gran parte di questo proletariato non deve stupire. In assenza di
un’organizzazione comunista degna di questo nome, in grado di dirigere e centralizzare tutte le
istanze di classe, il ribellismo e il nichilismo anarchico, per quanto effimero e inconcludente, ha
buon gioco nel catalizzare le forze che da questi settori di classe provengono. Ciò non deve in fondo
stupire poiché, come ricorda Lenin in Stato e rivoluzione, l’anarchismo è quasi sempre la risposta,
per quanto sbagliata, alle logiche opportuniste e riformiste che strangolano il movimento proletario.
Al proposito non è secondario evidenziare come il riaffiorare dell’anarchismo in quanto forza di una
qualche consistenza è direttamente proporzionale all’assenza di un movimento comunista forte e
radicato tra le masse. Pensiamo agli anni Settanta del nostro Paese. Qualcuno è in grado di ricordare
una qualche presenza anarchica degna di rilievo in quel contesto storico? Sicuramente no. Ma,
questo il punto, in quel frangente il movimento comunista poteva vantare postazioni di forza e di
prestigio che rendevano pressoché impossibile il solo delinearsi di un fronte di massa declinato in
chiave anarchica. Decenni di opportunismo hanno consentito all’anarchismo di riaprire una partita
storica che sembrava essere stata risolta, e da tempo, una volta per tutte. Ma torniamo alla giornata
romana, passando per Lenin.
Si dirà, in maniera un po’ dottrinaria, che si tratta di masse con scarsa coscienza di classe,
ma a tale obiezione occorre pur sempre rispondere, sulla scia di Lenin, che senza un Partito in grado
di cristallizzare e sintetizzare, sul piano del politico, le tensioni che smuovono i vari settori di classe
è puro opportunismo limitarsi a evidenziare i limiti di coscienza, ovvero i limiti politici, delle
masse. Non a caso, per Lenin, il 1905 implica un passaggio storico dentro il Partito, tanto che la
svolta del 1905 segna per intero la “linea di condotta” del bolscevismo e questo non in virtù dei
gradi di coscienza espliciti delle masse (le quali, pare il caso di ricordarlo, si erano mobilitate, con
numeri sorprendenti, dietro una figura a dir poco ambigua, e certamente non rivoluzionaria, come
quella del Pope Gapon), bensì per ciò che obiettivamente il 1905 si portava dietro. Da qui la
“battaglia per il partito” condotta da Lenin. Una battaglia non improvvisata e tanto meno prona
all’eclettismo, ma solidamente fondata sull’insegnamento marxista. Che cos’è il 1905 se non la
concretizzazione storica dell’enunciato marxista: non importa ciò che gli uomini pensano di se
stessi, ma ciò che saranno (storicamente) costretti a fare? Ricordato Lenin, torniamo a noi e alle
dinamiche della giornata romana.
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Ben presto è stato evidente come le “masse anarchiche” fossero del tutto estranee alle
retoriche politiche proprie di una parte della piazza. Queste erano calate su Roma non per chiedere
un cambio di Governo, ma per dire ‘no’ a una condizione sempre più prossima alla schiavitù. Lo
hanno fatto nel modo classico delle masse prive di prospettiva e guida politica: scatenando rabbia e
odio contro qualunque simbolo capitalista e imperialista capitasse a tiro. Nel loro incedere hanno
travolto tutto ciò che provava ad arginare la loro impazienza e quando, davanti a loro, si sono posti i
servizi d’ordine legittimi dell’imperialismo si sono battuti con onore, tenacia e determinazione.
Questa la nuda cronaca della giornata. Certo, in termini di modifica reale dei rapporti di forza tra le
classi non hanno portato a casa nulla ma, del resto, questo non era neppure nei loro programmi, se
non altro perché nessun programma politicamente organizzato faceva da sfondo al loro agire.
Tuttavia, ed è questo un passaggio per nulla secondario, quell’esperienza rappresenta un salto
dentro la classe, un salto che, chiunque ipotizzi concretamente di agire da partito, non può eludere.
Per quanto di natura sicuramente più modesta, occorre tenere ben a mente che il 15 ottobre ha, nel
panorama attuale, una valenza non diversa dal 1905. Da lì non si torna indietro. Ma proseguiamo.
“Semplice” insorgenza sociale non poteva che esaurire, nei bagliori della battaglia, insieme
alla sua grandezza i propri limiti lasciandosi dietro una serie di non secondari interrogativi, insieme
a una “scoperta” a lungo annunciata e mai presa sul serio: la banlieue è anche qui. Ciò che il 15
ottobre romano ha tenuto a battesimo è esattamente questo: l’insorgenza sociale di un proletariato
del tutto simile a quello che in Francia, con i suoi moti, aveva conquistato il proscenio del mondo
europeo tra il 2005 e il 2006. Un proletariato che le trasformazioni del modo di produzione
capitalista hanno posto fuori dalle logiche delle relazioni industriali del Novecento. La storia di
questo proletariato è ben distante dal rappresentare una “curiosità antropologica” poiché incarna al
meglio il destino a cui è deputata la stragrande maggioranza della forza lavoro salariata. Essa è la
storia del nostro presente. Che il suo apparire assuma vesti di questo tipo non deve stupire. La
“insorgenza sociale” non può che presentarsi un po’ sempre che uguale a se stessa del resto, l’intera
storia del movimento spontaneo operaio e proletario racconta qualcosa di simile. In fondo Piazza
Statuto, pur con tutte le tare del caso, non è stata qualcosa di simile? Qualcuno, non particolarmente
avvezzo alla menzogna, può realisticamente sostenere che la tenuta a battesimo dell’operaio–massa
sia avvenuta sulle ali della coscienza? Non si è trattato forse, anche in quel contesto, della
“semplice” manifestazione di una “insorgenza sociale” che solo in seguito, in virtù del lavoro di
determinate avanguardie di classe, ha assunto vesti politiche, e quindi coscienti, ben determinate? E
questo processo, sembra il caso di ricordarlo, non si è dato nel giro di nulla. Non è forse il caso di
riportare a mente Gasparazzo e il suo “romanzo di formazione”, Vogliamo tutto, per ribadire che i
processi di coscienza politica sono sempre il frutto, dentro la classe, di una serie di esperienze e di
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salti? Di più. Non è forse il caso di ricordare, ancora sulla scia di Lenin, come la formazione di un
quadro operaio e proletario complessivo sia il frutto di un paziente lavorio di cui il Partito deve farsi
costantemente carico? Certo, di solito è molto più facile lavorare con quella massa di intellettualini
grigi mediamente colti che nella nostra società abbondano ma, proprio in merito a ciò, è forse il
caso di fare ricorso a una citazione di un autore poco prono all’estremismo, ma sicuramente attento
alla direzione politica della classe:
“Si dice che l’attuale Comitato centrale non brilli per cognizioni teoriche. Ebbene, purché
la politica sia giusta, si può andare avanti anche senza cognizioni teoriche. Le cognizioni si
possono acquistare; se mancano oggi, ci saranno domani, mentre non è molto facile che certi
intellettuali boriosi riescano ad assimilare la giusta politica svolta attualmente dal Comitato
centrale del partito tedesco. Secondo alcuni compagni, basta che un intellettuale legga due o tre
libri o scriva un paio d’opuscoli in più, perché possa rivendicare il diritto di dirigere il partito.
Questo è sbagliato, compagni. È sbagliato sino al ridicolo… Compagno Th lmann! Mettete alӓ
lavoro questi intellettuali se vogliono realmente servire la causa operaia oppure, se vogliono
comandare a tutti i costi, potete mandarli al diavolo.” (Stalin, Opere, Vol. VIII, Edizioni Rinascita,
Roma 1954, pag. 142 – 143).
La citazione non è riportata a caso poiché rimanda esattamente a una delle più significative
battaglie condotte dall’Internazionale Comunista contro il moltiplicarsi di tendenze di “destra” e di
“sinistra” dentro il movimento comunista. Ciò che Stalin in maniera sin troppo esplicita e sintetica
raccomanda, ed è difficile obiettivamente dissentirne, è la necessità di avere costantemente a mente
il “punto di vista operaio e proletario” anche quando questi non riesce ad andare oltre a una certa
rozzezza di espressione. Il problema che Stalin pone è quello della direzione proletaria del
movimento rivoluzionario e il modo in cui questa direzione è in grado di fare giustizia di tutte le
derive piccolo borghesi dentro il movimento di classe. Della disamina di queste deviazioni occorre
occuparsi.
La FIOM o la classe operaia che (doveva) farsi Stato
Nel momento in cui, con l’aggravarsi della crisi, i diritti dei lavoratori garantiti dallo Statuto,
frutto delle dure lotte operaie degli anni ’70, sono stati attaccati e messi seriamente in discussione,
la Fiom, contrapponendosi alla linea collaborazionista espressa dalla dirigenza della Cgil, ha
radunato intorno a sé un fronte che intendeva opporsi alla durissima offensiva scatenata dalla classe
dominante contro i lavoratori salariati. Le parole d’ordine che hanno caratterizzato questa
piattaforma politica sono state quelle della difesa dei diritti dei lavoratori (quelli garantiti), della
lotta contro lo smantellamento dello Stato sociale, della formazione di un cartello elettorale delle
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forze di sinistra “più a sinistra” del Pd, di un’alleanza in chiave strettamente difensiva di un non ben
definito “ceto popolare nazionale”, ostile alle politiche di austerità imposte dalla Bce.
L’ipotesi politica che ha preso forma nella e intorno alla Fiom, molto sinteticamente,
esprime una visione del mondo che reitera e amplifica tutte le contraddizioni proprie e tipiche della
storia del Pci, in particolare quelle coltivate a partire dalla fine degli anni Sessanta e
catastroficamente messe a punto nei fatidici Settanta. Un percorso che sicuramente affondava le sue
radici dentro la svolta socialdemocratica intrapresa dal Pci sin dall’immediato dopo guerra e che
“l’epopea Berlinguer” ha portato a compimento. Un passaggio che ha definitivamente posto in
soffitta il marxismo e il materialismo storico e dialettico, in quanto teoria – prassi della classe. La
revisione continua del marxismo, insieme alla messa in mora dell’intera storia del movimento
operaio e comunista, è stata la costante praticata dal “blocco antipartito” raccolto intorno a Enrico
Berlinguer il quale, e non avrebbe potuto essere altrimenti, giorno dopo giorno è approdato a un
“pragmatismo” tipico della teoria politica della borghesia. Ponendo in archivio la teoria leniniana
dello Stato, che nella migliore tradizione socialdemocratica veniva assunto come parte neutrale
dentro il conflitto di classe, il “blocco antipartito” lanciava la parola d’ordine della “classe operaia
che si fa Stato”. Sullo sfondo di ciò la Carta Costituzionale era considerata non l’effetto storico di
determinati e concreti rapporti di forza tra le classi, ma un atto giuridico puro in grado di mantenere
per intero la sua freschezza e attualità indipendentemente dalle condizioni materiali e oggettive del
mondo reale e dalle inevitabili modifiche e trasformazioni che questo si porta appresso. Idea non
certamente frutto per intero del “blocco berlingueriano”, poiché in parte già compresa in quella
“democrazia progressiva” di togliattiana memoria, ma che nella nuova formulazione berlingueriana
finiva con il perdere anche quel filo tenue che la “democrazia progressiva”, in quanto variante
locale delle “vie nazionali al socialismo”, manteneva con l’intera storia del movimento operaio e
proletario. Nell’ipotesi coltivata dal “blocco berlingueriano” veniva a cadere anche quella
“doppiezza” con la quale Togliatti aveva ampiamente giocato per tenere costantemente i piedi in
due scarpe: il tatticismo apertamente riformista e socialdemocratico come “astuzia strategica” al
fine di pervenire, per altra via, allo scopo della società socialista. In questo senso, il diritto, che per
Togliatti è ancora un campo di lotta politica, continuamente oggetto del contendere tra le classi, per
Berlinguer e soci diventa, nella migliore tradizione borghese e liberale, oggetto a sé stante. In altre
parole il kelseniano “diritto fonte di diritto”, la cui applicazione pratica, però, non è mai andata oltre
i confini delle aule e degli esami universitari di filosofia del diritto, diventa l’orizzonte teorico
concettuale del Pci.
In questo modo l’approdo a una concezione politica di tipo giuridico–evoluzionista (da cui
l’assunzione della legalità borghese come legalità tout court) giunge a piena maturazione e, con
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questa, può prendere forma l’ipotesi della classe operaia che si fa Stato. In tale ottica lo Stato perde
qualunque tipo di caratterizzazione “concreta” e storica: anziché essere osservato per ciò che è,
ossia l’espressione storica di determinate classi sociali e dei rapporti di forza che queste sono in
grado di esercitare, è assunto come entità sovrastorica e “impolitica”. Allo stesso tempo viene a
decadere ogni puntualizzazione sulla forma specifica e particolare che la forma Stato ricalca. La
messa in mora dell’imperialismo come categoria propria di una determinata fase del modo di
produzione capitalista è, sotto tale aspetto, quanto mai esemplificativa. Una volta depoliticizzata e
destoricizzata la forma Stato, diventa ininfluente delimitare il contesto “concreto” entro il quale la
forma statuale si organizza. La natura dello Stato in un determinato contesto storico diventa
pertanto inessenziale. Diretta e inevitabile conseguenza di tale passaggio, suo autentico corollario,
diventa la assolutizzazione del termine “democrazia”. Questa cessa di essere letta e osservata
all’interno delle concrete condizioni storiche per farsi realtà a sé e per sé. Nessuna differenza è
posta tra l’epoca rivoluzionaria e gloriosa dell’ascesa della borghesia la quale, aspetto
continuamente rimosso, si fece democratica esercitando sino in fondo il Terrore contro le classi
nemiche storicamente reazionarie e l’era delle democrazie imperialiste, il cui tratto democratico si
fonda principalmente sul dominio e lo sfruttamento, diretto e indiretto, di gran parte della
popolazione mondiale. Questa visione politica rende il giuridico, insieme a tutti i suoi artifici,
l’unico e legittimo “potere sovrano”, cosicché nessuno sembra legittimato a domandarsi da quale
fonte “concreta” il “potere sovrano” attinga la sua legittimità. Ma, in soldoni, come si è potuto
delineare tutto ciò? Su quali basi materiali è stato possibile costruire questo passaggio? Se, ancora
oggi, un ordine discorsivo di questo tipo trova non pochi consensi, una qualche sensata
motivazione, materialisticamente determinata, dovrà pur esserci. Per comprenderlo dobbiamo, pur
brevemente, fare qualche passo indietro e ritornare al clima politico e sociale che in Italia si respira
negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Il nostro Paese è stato la grande anomalia dell’Europa occidentale. Il solo Paese dove
l’ipotesi della rivoluzione operaia e socialista si è palesata come sbocco concreto e possibile dentro
il conflitto politico. Per arginare questa reale possibilità la borghesia ha reagito sia coltivando
ipotesi apertamente reazionarie, golpiste e stragiste - strategia continuamente bloccata dalla
mobilitazione di massa - sia puntando sulla funzione stabilizzatrice, collaborazionista e concertativa
tipica della socialdemocrazia. Una forza politica che, per potersi esprime al meglio, deve contare su
una base di massa non proprio di scarse dimensioni. È in questo contesto che prende corpo l’ipotesi
della “classe operaia che si fa Stato”. Certo, non l’insieme della classe operaia e del proletariato
saranno deputate a “farsi Stato”, bensì quelle corpose quote di aristocrazia operaia, di ex operai
divenuti bonzi sindacali, di funzionari di partito, insieme a quell’apparato burocratico fortemente
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ancorato all’interno dei diversi gradi istituzionali, in particolar modo in quelli di natura
“amministrativa” come Regione, Provincia e Comune, fino ad arrivare a quel numeroso comparto
cooperativistico e alle sue derive attratte dall’economia di mercato. Sono questi consistenti blocchi
sociali, insieme a tutte le loro clientele, che forniscono la base di massa della socialdemocrazia e
che, in virtù delle loro postazioni obiettivamente privilegiate, sono particolarmente attratte dall’idea
di farsi Stato. Nel momento in cui, tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, il potere
operaio sembra porsi come sbocco politico “concreto”, la borghesia, con un’audace mossa del
cavallo, frantuma questa ipotesi portando, o facendone albeggiare la possibilità, quote di classe
operaia particolarmente forte sul piano politico e ben organizzata sul piano sindacale dentro la
gestione degli ambiti statuali. Da qui una fase piuttosto prolungata di “partecipazione operaia”
organizzata dal Pci e dal sindacato nella gestione di alcuni assetti politici ed economici, insieme a
una certa dilatazione delle fasce tipiche della “aristocrazia operaia”. Una scelta, quella operata dalla
borghesia imperialista, rivelatasi particolarmente centrata poiché, a ragion veduta, è stata proprio
l’entrata in campo di questo blocco sociale di natura socialdemocratica ad aver dato un contributo
decisivo alla lotta contro lo spettro comunista nel nostro Paese, il che, detto tra parentesi,
sembrerebbe confermare come nei Paesi a capitalismo avanzato la socialdemocrazia si mostri come
il principale nemico del proletariato rivoluzionario. La “linea di condotta” della socialdemocrazia
nostrana, nel corso degli anni Settanta, si pone, infatti, in piena continuità con gli affossatori
dell’insurrezione spartachista e con i killer di Carlo e Rosa.
Ma questa è la storia di ieri. Una storia che è repentinamente tramontata quando lo spettro
comunista è stato bellamente espunto dagli orizzonti politici del Paese e si è poi dissolto con la fine
del “blocco sovietico” e l’avvento del capitalismo globale, momento in cui la partita tra capitale e
lavoro salariato ha iniziato ad assumere contorni radicalmente diversi da quelli propri del post ’45.
Realisticamente con il 1989 si apre uno scenario che non ha più nulla a che vedere con quanto i
rapporti di forza tra Stati e classi avevano messo in forma subito dopo gli esiti della II Guerra
Mondiale. Il 1989 segna uno spartiacque non diverso e meno radicale da quello rappresentato dal
1918 e dal 1945, poiché si tratta pur sempre di registrare la fine, ancorché “fredda”, di una guerra e,
notoriamente, le guerre e le loro conclusioni consegnano sempre uno scenario che non ha più nulla
di simile con quanto era vero e reale solo un attimo prima. Ed è proprio dall’incomprensione di
questo passaggio che trae origine la deviazione di “destra” incarnata dalla Fiom.
La “ipotesi Fiom” potrebbe essere aggredita da molteplici angolature, una su tutte, però,
sembra essere quella maggiormente in grado di andare al cuore della questione: l’incomprensione
della fase storica e conseguentemente l’anacronismo della lettura politica operata dalla Fiom e dalle
forze che la sorreggono. Così come un allenatore di calcio non può mettere in campo una
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formazione senza tenere conto di chi e come giocheranno gli avversari, allo stesso modo una forza
politica non può stilare un programma e una strategia ignorando in quale contesto si muova e quali
siano gli attori sociali “concreti” in gioco. Così come nel gioco del calcio non vi sono punte in
astratto ma punte in “carne ed ossa”, con determinate caratteristiche atletiche e tecniche, allo stesso
modo sulla scena storica non esistono classi sociali in generale, ma classi sociali concrete, le quali
agiscono e si muovono dentro uno scenario oggettivamente dato. Uno scenario che, tra l’altro, non è
eterno, ma costantemente in via di trasformazione. Pertanto, ciò che occorre sempre tenere a mente,
è il quadro “concreto” entro il quale si è obbligati ad agire. Un quadro che può radicalmente mutare
tanto da azzerare la cornice esistente solo qualche attimo prima. A tal proposito prendiamo ancora il
calcio come modello di esemplificazione. Molti avranno in mente la partita di semifinale di
Champions League del 2010, Barcellona – Inter. Dopo pochi minuti l’Inter subisce un’espulsione e
rimane in dieci. A quel punto l’intera cornice strategica si modifica. Non è più possibile continuare
a giocare come se l’espulsione non fosse avvenuta. In quel frangente si mostrano per intero i limiti o
la grandezza di una dirigenza. Mourinho trasformò il Nou Camp in un campo da calcetto, asfissiò il
Barcellona con un pressing esasperante, impedendole di giocare la palla. In questo modo portò a
casa un risultato che significava accesso alla finale ed eliminazione del Barcellona. Tutto ciò cosa
significa se non che il “pensiero strategico” di Mourinho si è rilevato superiore a quello di
Guardiola? E quindi che il primo ha letto con maggiore arguzia del secondo il quadro strategico che
si era venuto a determinare e ha agito di conseguenza. In poche parole, ha capito esattamente dove
si trovava. Ed è proprio la comprensione della realtà obiettiva e concreta ciò che sembra fare
maggiore difetto alla “ipotesi Fiom”.
In particolare ciò che alla Fiom e ai suoi seguaci sfugge è l’eclisse dello Stato-Nazione e
tutto ciò che questo comporta a cominciare dalla scomparsa dei soggetti sociali che
“concretamente” abitavano quello spazio. Non solo: ciò che è bellamente ignorata è la forma Stato
entro la quale tali attori si misuravano, ossia la cornice o frame in cui, concretamente, si dà l’agire
delle classi sociali. Non comprenderla significa incorrere in quelle che, in relazione alla vita
quotidiana, Goffman definisce gaffe, a dir poco imbarazzanti. Nella vita del singolo, per lo più, una
gaffe non ha effetti troppo devastanti e il tutto tende a non andare oltre un momentaneo imbarazzo
mentre nella vita e nelle vicende delle classi il porsi in fuori gioco ha ricadute non sempre
recuperabili.
Pensiamo all’Italia e alle vicende che hanno accompagnato l’avvento del fascismo. Di fronte
a quel fenomeno l’insieme del Movimento operaio prese una serie di abbagli, analitici ancor prima
che operativi, le cui ricadute sono note a tutti. Certo, la storia non si fa con i “se” e con i “ma”,
tuttavia è indubbio che, come gli stessi quadri comunisti riconosceranno in seguito, una delle
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principale mancanze delle organizzazioni operaie fu proprio quella di non comprendere che cosa
stesse bollendo in pentola. In sostanza, ciò che il movimento proletario italiano non comprese fu il
passaggio epocale apportato dal Primo conflitto mondiale interimperialistico di cui la forma Stato
inaugurata dal fascismo era, al contempo, “semplice” conseguenza e avanguardia. Ciò che
nell’analisi dei comunisti dell’epoca mancò fu esattamente la comprensione della nuova forma
Stato che la cornice economica e sociale fuoriuscita dal conflitto richiedeva. A non essere colto, in
sostanza, fu il tramonto definitivo dell’epopea liberale e la conseguente messa in circolo di un
modello statuale che non poteva che fare piazza pulita dell’insieme degli istituti e delle retoriche
che lo avevano preceduto. Occorsero anni perché i comunisti italiani venissero a capo dell’enigma
fascista e del suo reale significato. Certo, nel momento in cui il fascismo sale legalmente al potere,
le stesse classi dirigenti che lo sostanziano e lo foraggiano non hanno lucidamente in mente il
passaggio epocale che stanno compiendo e di ciò ne prenderanno coscienza solo post festum, ma
questo non deve sorprendere. L’incomprensione del passaggio storico che il fascismo rappresenta
non deve stupire poiché è nei limiti oggettivi della borghesia, in quanto classe storicamente
“parziale”, il non poter comprendere appieno ciò che sta facendo. La borghesia non può che agire
prima e pensare poi. Questo non perché priva di intelligenza politica, ma in virtù del ruolo di classe
parziale in cui è storicamente ascritta, impossibilitata perciò a catturare il generale. Del resto, tale
limite è del tutto conseguente al limite storico del suo modo di produzione. Le crisi in cui precipita
il modo di produzione capitalista, insieme all’impossibilità di prevenirle e governarle se non
attraverso una immane distruzione di capitale costante e capitale variabile, non sono il frutto di
limiti individuali, ma limiti storici che la borghesia è nell’impossibilità di fronteggiare
indipendentemente dalle qualità del personale politico che può mettere in campo. Si tratta di un
richiamo per nulla casuale, poiché le analogie con il presente non sono poche. Il golpe consumato
per via istituzionale da parte dell’esecutivo Monti, non diversamente da quanto era accaduto con il
governo Mussolini, ci riporta all’interno di un clima le cui affinità, in senso storico, con la svolta
fascista non sono poche. Per questo le lezioni impartite dalla storia devono essere tenute
costantemente a mente da qualunque forza che abbia la pretesa di considerarsi avanguardia politica
del proletariato. Difficilmente diventa possibile comprendere il presente e anticipare le tendenze
storiche in atto se non sono state comprese, e non se ne è fatto tesoro, le esperienze del passato. La
storia, come il marxismo insegna, non è il vuoto cicaleccio recitato da individui più o meno dotati di
carisma e genialità, ma il campo dove si affrontano, in un conflitto mortale, classi storicamente
determinate e contrapposte. Il partito proletario, per sua natura e necessità, è obbligato a tenere nel
suo cervello collettivo tutti i dati e le informazioni proprie delle vicende della classe. Pensare al
governo Monti come a un esecutivo in mano ai vari “partiti nazionali” o come a un semplice
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governo di transizione significa non capire e comprendere il passaggio di fase che questo governo
comporta. Significa ignorare le forze sovranazionali che questo governo incarna, riconducendo il
tutto all’interno di una dimensione nazionale che, nel contesto attuale, si riduce a storia
condominiale. Ma tutto ciò cosa racconta, se non la difficoltà che un po’ tutti incontriamo quando il
mondo di ieri inizia a tramontare? Questo per due ordini di motivi. Da un lato ciò che Lenin ha
chiamato la forza dell’abitudine è qualcosa che avvolge anche il più lucido, radicale e disincantato
degli analisti. Il mondo di ieri è pur sempre un mondo di “certezze”. Un mondo dove, alla fine, è
facile far tornare i conti poiché i pezzi dislocati sulla scacchiera storica si conoscono a menadito.
Non solo: oltre ai pezzi si conoscono appieno anche le regole del gioco. Regole il cui
apprendimento è stato il frutto di anni e anni di lotte, battaglie, esperienze, avanzate e ritirate, non
certo qualcosa che si è trovato già bello che confezionato in un qualche manuale di teoria politica e
sociale. Pensare che, di colpo, tutto ciò vada posto in archivio non è sicuramente un’operazione che
possa essere condotta a cuor leggero. Iniziare a disboscare a colpi di machete un terreno ignoto,
cercando di approntare un primo sensato sentiero, mentre di fronte si hanno, per quanto insidiose,
autentiche autostrade non è certo un gioco da ragazzi. La propensione, per quanto fatale, a
continuare a muoversi come se la trasformazione in atto, invece di rimandare a una mutazione
epocale, fosse una semplice modifica, sostanzialmente dettata dalla contingenza, diventa più che
capibile. Una “linea di condotta” che storicamente si è di continuo riprodotta ma che, questo è il
cuore del ragionamento, ha sempre rappresentato l’esatto punto di demarcazione tra i rivoluzionari,
ovvero coloro che si sono mostrati in grado di leggere la tendenza storica, e i reazionari, ossia
coloro che si ponevano, consciamente o meno è del tutto inessenziale per la politica comunista, a
difesa di un’epoca storica superata. Questo è esattamente ciò che differenzia il marxismo e il
leninismo da tutte le teorie politiche e sociali ispirate a principi conservativi.
Il marxismo è la teoria della rivoluzione proprio perché si mostra in grado di cogliere in
anticipo il nuovo che nasce. Il marxismo è la teoria della rivoluzione proprio perché coglie il
divenire. La scienza comunista è tale perché è scienza storica e non astratto volontarismo. Non
stupisce, pertanto, che dentro la congiuntura attuale in molti, invece di sforzarsi di cogliere il
divenire, si ostinino a fissare il passato. In ciò, per di più, sono confortati da quanto del passato
continua vivere nel presente. A confortare la “deviazione di destra” sono pur sempre le corpose
quote del “mondo di ieri” presenti nel mondo attuale. Sarebbe infatti errato, oltre che semplicistico,
a partire da una pur corretta individuazione del divenire, risolvere il tutto come se la nuova era
avesse già bellamente soppiantato il passato. Anche in questo caso il richiamare alla mente il
modello e il metodo leniniano si mostra non poco utile.
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La battaglia che Lenin e i bolscevichi combattono contro le diverse organizzazioni operaie,
proletarie e popolari diversamente orientate, non è una battaglia contro dei fantasmi. I menscevichi
e, soprattutto, le varie anime dei socialisti rivoluzionari non sono astrazioni, ma modelli politici
concreti che rimandano alla presenza sul territorio russo di determinati rapporti economici e sociali.
Il fatto che Lenin e i bolscevichi affidino il ruolo centrale del processo rivoluzionario alla classe
operaia e al proletariato non significa che considerino la “questione contadina” o la “questione
piccolo–borghese” bella che risolta. Tutta l’esperienza del bolscevismo è esattamente il contrario: il
costante gioco di equilibri tra la classe storicamente progressiva e il “mondo di ieri”. Se da una
parte Lenin focalizza senza esitazione il senso e il portato del mondo e della classe nuova, non per
questo pensa di risolvere il “mondo di ieri” con un semplice tratto di penna. Ciò che è storicamente
superato continua comunque a vivere fianco a fianco con il nuovo. Non solo, ma possiede un peso
politico e quantitativo difficilmente ignorabile. Nella gestione di questo non facile rapporto si è dato
il grande insegnamento metodologico leniniano.
È inevitabile che la forza lavoro ancora interna alle relazioni industriali novecentesche sia
portata, nella battaglia alla quale l’era del capitalismo globale la obbliga, ad utilizzare, in un primo
momento, forme, retoriche e programmi propri della “sua epoca” e metta in campo rappresentanti
politici e sindacali tipici di quell’esperienza. Così come è del tutto naturale che costoro affrontino le
sfide del presente con le armi del passato, le uniche che in fondo conoscono e sanno ben
maneggiare. Non riconoscere questo sarebbe follia, ma non meno folle sarebbe evitare di ingaggiare
una battaglia risoluta contro queste posizioni. Certo, le quote di forza lavoro subordinata che
inseguono tale ipotesi non sono né poche né prive di importanza e snobbarle, in nome di un
rivoluzionarismo tanto puro quanto infantile, è qualcosa di assolutamente impensabile per
qualunque forza comunista degna di questo nome, ma proprio perché queste masse sono
strategicamente importanti vanno sottratte all’influenza delle forze neosocialdemocratiche che, per
di più, non sono in grado di offrir loro altro se non un funerale di terza classe.
La questione della rappresentanza
Ciò che la “ipotesi Fiom” chiama direttamente in causa è la “questione della
rappresentanza”. Un tema che va affrontato senza creare malintesi di sorta. Dobbiamo domandarci
se l’intera esperienza della rappresentanza politica, e conseguentemente la forma partito che si porta
dietro, possa essere ricalcata, anche se non per intero, sul modello fattosi egemone nella seconda
metà del Novecento. Un modello che per molti sembra essere eterno e sovrastorico. Anche su
questo occorre fare chiarezza. La rappresentanza e la forma partito degli albori del marxismo hanno
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ben poco in comune con quella elaborata da Lenin, così come tra la Prima e la Terza Internazionale
i tratti di comunanza, questioni di principio a parte, sono ben pochi. La bandiera del marxismo
rimessa alla testa del movimento operaio internazionale da Lenin non è la semplice articolazione
empirica, contestualizzata nel presente, del programma quarantottesco poiché, in mezzo, vi è il
succedersi di fasi storiche e trasformazioni economiche e sociali tali da far apparire le barricate del
1848 poco più che scaramucce mentre, nel contempo, la fisionomia delle classi ha assunto
caratteristiche del tutto diverse e, aspetto non proprio secondario, a diventare parte in causa del
conflitto è l’intero sistema mondo. Tra il partito di Marx e il partito di Lenin vi è la cattura diretta
all’interno del modo di produzione capitalista di gran parte del mondo, l’instaurazione di un
mercato in gran parte già mondiale, insieme al ripiegamento, graduale ma costante, dello Stato–
nazione, ossia di quell’involucro politico che aveva portato a termine il carattere storicamente
progressivo delle rivoluzioni borghesi. Tra il partito di Marx e il partito di Lenin si consuma per
intero il ciclo storico della borghesia, in quanto classe storica ascendente e progressista. Per altro
verso, cosa non proprio di poco rilievo, tra Marx e Lenin si situa l’intera esperienza della II
Internazionale, all’interno della quale il peso delle frazioni di sinistra era alquanto limitato, mentre
l’egemonia delle correnti “centriste”, prone per di più ad ascoltare le argomentazioni della destra,
era un dato di fatto.
Significativo il dibattito sul parlamentarismo. Lenin riconosce al Parlamento un ruolo
importante della vita politica, tanto è vero che lo considera, anche se non centrale, un terreno di
lotta possibile per il partito rivoluzionario. Ma questo cosa significa se non che, in quel contesto
storico, la funzione del parlamento assolve a compiti “concreti” della politica? E proprio in virtù di
ciò il parlamento può essere utilizzato come Tribuna rivoluzionaria. In poche parole, ciò che è
riconosciuto al parlamento è un peso reale dentro la vita politica del Paese. Peso non secondario, ma
ben distante dall’assumere una valenza strategica essenziale. Non a caso, Lenin considera il gruppo
parlamentare e la sua funzione non dissimile da quella svolta dai trombettieri negli eserciti. Ruolo
che, sicuramente, non può essere paragonato a quello strategico, per l’epoca, rappresentato dalla
Marina o dall’artiglieria pesante. Queste divisioni strategiche, per Lenin, non devono essere né
consumate, né esposte al gioco parlamentare, ma lavorare unicamente per il partito. Tra partito e
parlamento, per Lenin, non vi sono dubbi su quale gerarchia le principali divisioni debbano
sottostare. Il centro dell’attività politica, per i comunisti, è il partito perché lì risiede il “quartiere
generale” del proletariato ed è lì che si elabora e si mette a punto il “pensiero strategico” della
classe. È il partito che guida le masse alla conquista del potere politico, mentre il parlamento è solo
un fronte possibile del conflitto all’interno del quale non è sempre obbligatorio restare. Un punto di
vista ben poco eccentrico e largamente metabolizzato dall’insieme dei partiti comunisti passati
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attraverso la scuola dell’Internazionale Comunista. A tal proposito non è inutile ricordare come
all’interno del Pci, tra il 1943 e il 1945, di fronte alle derive governiste e parlamentariste sostenute
soprattutto da Amendola e dal “gruppo dirigente romano”, insorsero i militanti, tra i quali Longo e
Secchia, del “gruppo dirigente milanese”, i quali ribadirono a più riprese la centralità, e quindi la
funzione primaria, del partito su tutto il resto. Un dibattito ben lungi dall’essere il frutto di un
semplice malinteso, bensì un corposo campanello d’allarme di ciò che, dentro il Pci, stava bollendo
in pentola. È esattamente in quella svolta che si delinea quel passaggio, tra il partito di massa e il
partito tessera, che segnerà in maniera nefasta l’intera storia del Movimento operaio e comunista nel
nostro Paese, a partire dall’immediato secondo dopoguerra. Ma che cosa ha significato trasformare
un partito di massa in un partito tessera? “Semplicemente” una cosa: l’assunzione del
parlamentarismo e del suo gioco come unico terreno della battaglia politica. Ma, a sua volta, che
cosa significa assumere tale dimensione come unico terreno della politica, se non considerare
storicamente immodificabile ed eterno quel modello? Cosa significa se non approdare a una visione
della politica come semplice gioco tra contendenti, la cui relazione non implica alcuna inimicizia?
Ma tutto ciò, allora, non significa che gli attori sociali in gioco non incarnano ipotesi storiche
diverse e incompatibili, ma rappresentano i semplici dati obiettivi di un quadro storico non più
radicalmente modificabile? Non significa, andando al sodo, decretare la fine del tempo storico? Ciò
non è forse l’esatto corollario dell’abbandono del materialismo storico e dialettico in funzione di un
pragmatismo e “realismo” politico da Bar dello sport? Ma ancora: l’assunzione di questa cornice
non significa considerare impensabile un modello e una prassi diversa di rappresentanza? Non è
forse proprio questa la “gabbia” concettuale entro la quale rimane prigioniera la “ipotesi Fiom”?
Ma, e qua arriviamo al dunque, non è forse questo modello che oggi si mostra del tutto
impraticabile? Il Governo Monti non ha forse deciso che, dentro l’attuale fase imperialista, la
cornice della rappresentanza deve emanciparsi anche dal parlamentarismo o almeno da quella forma
di parlamentarismo sino ad ora praticata? Paradossalmente, oggi, è proprio la borghesia imperialista
a emanciparsi dal cretinismo parlamentare, mentre corpose quote del Movimento operaio ne
rimangono, con conseguenze a dir poco drammatiche, del tutto prigioniere.
Dobbiamo chiederci, allora, a quale tipo e modello di rappresentanza dobbiamo riferirci.
Perché vi sia rappresentanza occorre che vi sia forza organizzata, occorre che quella rappresentanza
sia in grado di far valere le sue ragioni. Occorre che il nemico la tema e per questo la tenga in
considerazione.
Dobbiamo chiederci se, oggi, è possibile ripercorrere i percorsi tipici del Novecento.
Pensiamo realistico un partito elettoralistico? Non è per lo meno indicativo il fatto che tutti i partiti
estranei al “sistema dei partiti” confezionino dei risultati che li fanno apparire più simili a un
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prefisso telefonico che a un partito politico? Ma ancora: da che cosa nasce la rappresentanza? Qui è
direttamente chiamata in causa l’essenza stessa del marxismo, ossia la sua triade prassi-teoria-
prassi. Da che cosa trae origine la rappresentanza, se non da una prassi sociale? Che cosa deve
incarnare una rappresentanza politica se non la forma razionale e strategica di un moto storico? In
altre parole: che cosa deve rappresentare la rappresentanza? E ancora: perché vi sia rappresentanza
non è forse necessario che tutti, quindi in primis gli avversari, riconoscano la legittimità politica e
storica dell’altro? Perché vi sia rappresentanza non occorre forse che i nemici siano formalmente di
pari grado e dignità? Ripensiamo alla grande rivoluzione borghese e alla domanda che questa pose
al re, alla nobiltà, al clero e in definitiva alla storia: Che cos’è il terzo stato? Tutto. Cosa vuole
essere? Qualcosa. Per l’Antico regime la borghesia, non potendo vantare una condizione di pari
grado e dignità, non poteva vantare diritti di rappresentanza politica. In quel modello politico e
sociale la borghesia non poteva trovare rappresentanza adeguata, doveva farlo all’esterno, fuori
dalle regole e dalle retoriche proprie del mondo reale e nobiliare. Non a caso i prodromi della
Rivoluzione francese si giocano all’esterno delle istituzioni legittime. Nell’organizzazione dei
mondi sociali la borghesia trova la sua legittimazione storica e, in virtù di ciò, si fa classe politica e
storica. Non troppo diversa è la strada che segue il proletariato e il suo partito nel tracciato che porta
all’Ottobre. Non è dentro la Duma, ma all’interno dei Soviet che la classe operaia, il proletariato e
le classi sociali subalterne costruiscono la loro legittimità politica e, conseguentemente, possono
farsi storia. Non si tratta di eccezioni ma, a ben vedere, di un’autentica legge storica dalla regolarità
impressionante. Tutti i processi rivoluzionari, basti ricordare le vicende algerine o vietnamite, si
sono dati attraverso una legittimazione politica e sociale esterna ed estranea alle istituzioni
legittime. Si dirà che questi esempi sono fuorvianti perché rimandano a contesti e realtà
incommensurabilmente diversi da quelli da noi conosciuti e che, pertanto, non possono essere presi
a modello in quanto tra questi e le Democrazie occidentali le differenze sono tali che un qualunque
paragone diventa impossibile. Tuttavia, se osserviamo la genealogia di cui la “ipotesi Fiom” si
nutre, tale obiezione decade facilmente. Consideriamo lo “Statuto dei lavoratori” e chiediamocene
l’origine. Palesemente questo atto, che non a caso oggi la borghesia imperialista è ansiosa di
liquidare, non nasce dentro il tranquillo dibattito parlamentare, ma è la mediazione a cui si piega,
dentro il parlamento, la borghesia di fronte al potere costituente delle lotte operaie e del
contropotere operaio esercitato dentro la fabbrica. I legislatori, nello stilare lo “Statuto”, non si sono
abbeverati alla fonte cristallina del diritto, solo l’ipocrisia opportunista ha potuto parlare, al
proposito, della Costituzione che entra in fabbrica, ma hanno dovuto codificare in norma un’altra
idea di democrazia, quella che nasceva dentro i reparti in lotta, nei cortei interni, nelle uscite
improvvise degli operai dalle fabbriche. I legislatori hanno legiferato sulla base della forza espressa
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sia dai Comitati operai, sia dai più moderati Consigli di fabbrica. Questi hanno dovuto, in poche
parole, tenere continuamente conto e presente che, in quel contesto, a prendere forma è l’assunto
leniniano la democrazia è il fucile in spalla agli operai. Nel momento in cui dentro la fabbrica si
innesta un dualismo di potere, la legge non può far altro che prenderne atto e cercare, attraverso
l’emanazione di un corposo statuto di diritti, di limitare e catturare quel potere dentro la sfera
economica e sociale, al fine di salvaguardare ciò che a ogni classe è più caro perché indispensabile:
la conservazione del potere politico. Il “patto socialdemocratico” che inizia a delinearsi in quella
determinata svolta storica mirava esattamente a far sì che, in cambio degli interessi immediati, la
classe, o almeno sue quote importanti, ponesse tra parentesi i suoi interessi storici. Di tutto ciò il
sindacato, Fiom compresa, ne sono stati parti attive e cointeressate. Basti pensare alla svolta
dell’Eur del 1977 o alle vicende Fiat dell’Ottanta.
Ma da dove nascono queste ipotesi? Che cosa rappresentano? Perché si manifestano in
questi modi? Per il marxismo le teorie politiche non sono mai parto individuale ma sempre effetto
di postazioni concrete. In altre parole, il loro manifestarsi è la diretta concretizzazione di una
condizione materiale storicamente data. Da qui, e solo da qui, è necessario partire. Dietro alla
“ipotesi Fiom” vi è tutto un mondo del lavoro che oggi scopre di essere sotto scacco e, per di più, di
poter contare sempre meno sulla copertura e protezione delle sue organizzazioni sindacali. I
sindacati confederali, sindacati apertamente imperialisti, nel momento in cui la fase imperialista
assume una nuova connotazione non possono far altro che adeguarsi a questa. La Cgil, allora, non
può che essere quella della Camusso poiché, in piena coerenza con il suo tratto di sindacato
imperialista, si allinea alle esigenze che la fase reclama, così come, sulla stessa lunghezza d’onda, si
situano i corrispettivi politici parlamentari, Pd in testa. Tutto ciò lascia spazzata la Fiom la quale,
all’improvviso, scopre di non poter contare su alcuna rappresentanza politica, ma si mostra incapace
di ipotizzare un’altra ipotesi di rappresentanza. Ciò che la Fiom non comprende è il venir meno
delle condizioni per la realizzazione di un nuovo “patto socialdemocratico”, il quale, per potersi
dare, deve trovare determinate condizioni oggettive. Vediamole brevemente.
Classicamente, la socialdemocrazia, ha potuto prosperare in presenza di una politica
imperialista e colonialista particolarmente aggressiva. Grazie all’enormità di profitti rastrellati a
livello internazionale per le varie borghesie imperialiste era sin troppo semplice allevare una classe
operaia “benestante”, cointeressata alle politiche di dominio e oppressione. In seconda battuta, un
modello che è stato particolarmente attivo nell’Europa occidentale del secondo dopoguerra, le
politiche socialdemocratiche sono state una non secondaria arma con cui è stata condotta la “Guerra
fredda”. La minaccia che il blocco sovietico rappresentasse la messa in forma di un sistema di
Welfare particolarmente generoso era un modo per trattenere le classi subalterne entro i limiti e gli
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orizzonti della società capitalista. Infine, perché una politica di quella natura prendesse piede,
occorreva la presenza, come nel caso Italia degli anni Sessanta e Settanta, di una reale rottura
rivoluzionaria. Nel mondo attuale nessuna di queste ipotesi è in grado di porsi. In particolare, ciò
che è venuto a decadere è l’archetipo proprio dell’ipotesi socialdemocratica, ossia l’esistenza di un
dentro e un fuori. Nel momento in cui il capitalismo globale ha unificato il mondo, sono
necessariamente saltate tutte le linee di confine e si è formato un proletariato la cui condizione, per
molti versi, è sostanzialmente indifferenziata. Questa tipologia di forza-lavoro, maggioritaria sul
piano internazionale, inizia ad essere maggioranza anche nei nostri mondi, mentre la forza-lavoro
ascritta alla modellistica pre–globale è in via di estinzione e ridimensionamento. Nessuna ipotesi di
“patto socialdemocratico” pertanto è all’orizzonte e con questa nessuna reiterazione delle retoriche
che avevano fatto da sfondo alla “classe operaia che si fa Stato”. Se questo è vero, allora, anche tutti
i modelli di rappresentanza che avevano fatto da sfondo a questa epopea vengono meno. In un
mondo in cui la condizione della forza-lavoro è sempre più ascritta all’esclusione e alla marginalità,
la sua rappresentanza e forma politica non possono essere ricalcate sui modelli del passato. Ed è
esattamente all’interno di questo problema non risolto che, con ogni probabilità, prende forma e si
rafforza la “ipotesi anarchica”.
L’eterno ritorno dell’eguale
Il potere attrattivo, nei confronti di segmenti non irrilevanti di classe, che l’area anarchica è
stata in grado di esercitare anche nel nostro Paese può essere facilmente fatto risalire a quanto
accaduto nel corso delle giornate genovesi del luglio 2001, nel corso del G8. In quel contesto sono
stati soprattutto i gruppi anarchici a reggere, arginare e in alcuni casi, nonostante la ferocia messa in
campo dalle forze militari dell’imperialismo, a portarsi all’attacco dimostrando, nei fatti, di aver
messo a punto una scienza delle barricate di buona fattura. Mentre gran parte del Movimento,
egemonizzato in pieno da organizzazioni riformiste e opportuniste, a fronte del “fascismo
dispiegato” posto in campo dalle forze statuali del capitalismo internazionale si davano a fughe
goffe e scomposte, i gruppi anarchici si battevano con coraggio. Non per caso intorno a loro si sono
coagulate quelle frazioni di proletariato non egemonizzate dal riformismo. Da quell’esperienza
l’anarchismo ha tratto non pochi vantaggi poiché, senza per altro dover spendere un solo Euro in
una qualche operazione di marketing, ha potuto consacrasi come unica realtà apertamente ostile al
dominio della borghesia imperialista. Forti di una solida filosofia dell’azione e dell’immediatismo
che inevitabilmente questa si porta appresso, il loro programma si realizza nel loro agire. In un
mondo fatto di vuote parole, loro si dedicano alle cose. In un mondo fatto di continue mediazioni
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loro si pongono come la negazione di ogni mediazione e subalternità. L’attacco al potere è il loro
fine e il loro mezzo.
Ora, per i marxisti stagionati, l’inconsistenza e il velleitarismo di queste argomentazioni
sono tali da non sembrare neppure degne di una polemica all’altezza di questo nome. Ma i marxisti
stagionati, nel mondo attuale, non sono molti e la loro presa sulle realtà di classe non
particolarmente vasta. Anni e anni di controrivoluzione dispiegata, insieme all’opportunismo
dilagante di gran parte delle organizzazioni che in qualche modo si richiamavano alla storia
comunista, hanno fatto tabula rasa di tutto un patrimonio teorico, politico, organizzativo, tattico e
strategico che, in un’altra epoca, sembrava del tutto conquistato e registrato. In altre parole non
dobbiamo dare nulla per scontato e il riaffiorare massiccio di retoriche tipiche dell’infantilismo di
sinistra ne rappresenta un tratto quanto mai significativo. Notoriamente, per gli anarchici, non
esistono problemi di tattica e strategia politica, non esiste il problema di analizzare, per potervi
intervenire dentro, la fase concreta in cui si cristallizza il modo di produzione capitalista così come,
per altro verso, del tutto privo di interesse risulta essere la costruzione di quadri politici complessivi
in grado di funzionare come elemento di direzione delle masse. Il problema rimane lo Stato,
indipendentemente sia dalla sua natura di classe, sia dalle diverse funzioni che questi assume dentro
i diversi passaggi storici; il problema rimane il potere, osservato tanto in maniera del tutto
indeterminata quanto sovra-storica; il problema rimane il dominio, senza alcun interesse analitico
nei confronti delle classi che lo esercitano. Diretto corollario di questo magma ideologico diventa il
disinteresse per l’organizzazione delle masse sul terreno degli interessi immediati; la costruzione
dell’organizzazione politica in grado di guidare le masse al raggiungimento dei propri interessi
storici e, per forza di cose, il continuo lavorio al fine di legare in medesimo progetto strategico il
rapporto tra lotta immediata e lotta storica. Ciò che rimane permanentemente estranea alla logica
anarchica è la lotta mortale per la conquista del potere politico e tutto ciò che questo comporta.
Paradigmatica, al proposito, è la non assunzione della dialettica distruzione/costruzione dentro il
processo rivoluzionario. Agli anarchici, che in fondo rimangono più dei ribelli che dei rivoluzionari,
ciò che unicamente interessa è l’aspetto distruttivo del processo rivoluzionario, dimenticando che la
dialettica rivoluzionaria è imprescindibile da questo binomio. Una classe non può assumere per
intero la legittimità della propria funzione storica se non si mostra capace di costruire rapporti
sociali estranei al dominio delle classi dominanti. Per forza di cose, quindi, agli anarchici non può
che risultare estraneo il rapporto tra guerra di movimento e guerra di posizione, poiché l’ideologia
insurrezionalista che li contraddistingue non può che tenere a mente solo il lato della guerra di
movimento. Figlio, in qualche modo, del più radicale dei massimalismi, l’anarchismo ha
perennemente di fronte a sé l’aut aut tra la rivoluzione e il nulla. In fondo la “linea di condotta”
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degli anarchici, rimanendo un po’ sempre fedele a se stessa, è data dal continuo oscillare tra
“economicismo” e “terrorismo”, mostrando come, nonostante tutto, il Che fare? possa vantare
ancora una non secondaria freschezza. A fronte di questo micro mondo teorico rimane da chiedersi
perché, nonostante tutto, queste realtà possano vantare una certa presa tra le masse proletarie, tanto
da veder accrescere costantemente il loro prestigio. Per farlo poniamoci nei panni di un qualunque
proletario, privo per di più di un qualche bagaglio politico, estraneo alle relazioni industriali
novecentesche, che passa la vita tra lavori di basso profilo, scarsamente retribuiti e periodi più o
meno lunghi di inattività. Oppure prendiamo la folta schiera dei lavoratori in nero i quali, da un
punto di vista sociale, sono precipitati nella condizione affine alla non persona. Prendiamo,
insomma, tutta quella quantità di forza lavoro priva di alcun riconoscimento sociale e che, per di
più, dentro la crisi si trova a vivere una condizione di ulteriore declassamento. Allo stesso tempo
prendiamo quelle non indifferenti quote di studenti universitari che si ritrovano gettati nel mondo
con l’infelice prospettiva di diventare lavoratori dei call center o inseriti in qualche progetto a
termine nel sociale, dopo aver, con ogni probabilità, coltivato ben altri tipi di esistenza. Prendiamo
il piccolo borghese ridotto al limite della sopravvivenza dalla crisi o il semplice operaio che,
essendo dipendente di una piccola azienda, si è ritrovato da un giorno all’altro disoccupato senza
poter vantare alcun tipo di garanzia sociale. In poche parole, pensiamo a quella massa enorme di
forza-lavoro subalterna priva di qualunque prospettiva. È così difficile capire come mai le sirene
dell’anarchismo le risultino particolarmente allettanti e appetibili? Certamente no. E la crisi non farà
altro che rendere esponenziale la quantità di masse subalterne ascritte a simili condizioni. Ma non
solo.
Proprio il ciclo produttivo attuale rende questa condizione continuamente in espansione. In
poche parole non abbiamo a che fare con una massa la cui condizione è il semplice frutto di
contingenze poiché, a ben vedere, la crisi non ha fatto altro che esasperare una condizione già
ampiamente in atto ancor prima che subprime, bolle speculative andate a male e via dicendo
spalancassero le porte all’attuale crisi sistemica del modo di produzione capitalista. Questo è ciò
che deve essere metabolizzato sino in fondo. La deviazione anarchica o ultrasinistra non è altro che
la conseguenza dell’assenza di una politica comunista in grado di farsi rappresentanza politica e
organizzativa di masse che ben poco possono sentirsi attratte dai modelli politici e organizzativi di
un Movimento operaio prigioniero delle relazioni industriali del Novecento. Allora, osservato sotto
questo aspetto il problema non sono gli anarchici, ma il modo in cui la politica comunista sarà in
grado di organizzare, disciplinare e politicizzare queste masse. Si ritorna così alla questione di
fondo: Che fare?
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Che fare?
Se, come si è provato ad argomentare, ciò con cui ci troviamo a fare i conti è un modello
politico e sociale del tutto diverso da quello fino ad ora conosciuto, le sue ricadute pratiche non
sono secondarie. Due ci sembrano essere le proposte immediate intorno alle quali provare a
costruire qualche embrione di organizzazione nella direzione della forma partito.
Per prima cosa, e in fondo si tratta di un passaggio del tutto interno al metodo leniniano,
occorre ritornare tra le masse al fine di individuarne l’esatta composizione, a partire dall’assunto
solo chi fa inchiesta ha diritto di parola! Come ricorda Mao, solo andando tra le masse è possibile
liberarsi da una visione, e conseguentemente da un agire, dogmatico e libresco. È proprio il “lavoro
di inchiesta” che consente a Mao di riarmare il partito comunista cinese e di fornirlo di una “linea di
condotta”, efficace ed efficiente, in grado di affrontare al meglio la dimensione “concreta” del
politico. Ciò che da quel passaggio ricaviamo è di non poca utilità anche per una situazione, come
quella in cui siamo immersi, che si presenta incommensurabilmente distante da quella affrontata da
Mao. Per molti versi Mao, non diversamente da Lenin rispetto alla tradizione del Movimento
operaio a questi coevo, veste i panni dell’eretico. A fronte di un partito, quello cinese, portato a
modellarsi e ad agire, come semplice fotocopia del partito sovietico, Mao impone la “specificità”
cinese come questione essenziale per la conduzione della guerra rivoluzionaria. Mao elabora il
marxismo e il leninismo dentro la cornice “particolare” alla quale la realtà cinese obbliga. Il
problema della rivoluzione non è poi così diverso da quello che ogni squadra di calcio deve
affrontare: fare goal e cercare di non subirne. Il problema, quindi, è come arrivare in porta a partire
dalle forze che si è in grado di mettere in campo e avendo in mente le qualità dell’avversario. Certo,
nessuno crea dal nulla una tattica di gioco e, in un modo o nell’altro, tutti hanno un modello di
riferimento dal quale attingere, ma ciò non significa che quel modello debba essere preso e
trapiantato meccanicamente dentro a qualunque contesto. È possibile usare strategicamente i cross
dalle fasce in assenza di una torre in mezzo all’area? Palesemente no. È possibile giocare di
fraseggio in assenza di palleggiatori di prim'ordine? Evidentemente no. È possibile schierare una
difesa a tre in assenza di centrali particolarmente veloci e tatticamente sapienti? Assolutamente no.
Chiunque, in virtù di una presunta ortodossia, optasse ugualmente per soluzioni simili non farebbe
altro che andare incontro a risultati catastrofici, meritando ampiamente l’esonero. Un allenatore,
così come un dirigente politico, deve schierare sempre una formazione in grado non di essere
accademicamente perfetta, bensì di vincere. Così come l’inferno è lastricato di buone intenzioni,
non pochi disastri calcistici sono lastricati di belle giocate.
Ma andare tra le masse non significa - come non pochi esempi di questi ultimi anni fornitici
in particolar modo dall’area postoperaista - fare inchiesta tra i propri amici o addirittura su se stessi.
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Fare inchiesta significa legarsi, imparando quindi a viverci dentro, a quell’insieme di figure sociali
che oggi abitano la metropoli. Queste, se non in parti infinitesimali, non abitano dentro i collettivi
universitari e sono difficilmente reperibili nei locali di tendenza. Queste stanno nelle sterminate
periferie, negli stadi, nelle palestre, per strada. Queste stanno nelle infinite micro imprese produttive
che caratterizzano una quota importante dell’attuale ciclo di produzione capitalista. Dentro queste
realtà occorre imparare a muoversi e attrezzarsi per essere in grado di farlo. Non si tratta di un
vezzo sociologico, ma di qualcosa che rimanda immediatamente a ciò che abbiamo chiamato
metodo leniniano. Centrale nella “linea di condotta” di Lenin è la costante attenzione alla
“concretezza” della classe e alle sue sembianze. La classe non solo non è data una volta per tutte
ma, dentro le obiettive trasformazioni proprie del divenire storico, la classe subisce continue
trasformazioni che, a loro volta, ne determinano lo stare nel mondo. Essere un operaio degli strati
privilegiati del proletariato inglese nella piena fase espansionistica dell’Impero Britannico non è la
stessa cosa che essere un proletario britannico dei settori “duri” della classe operaia, così come, al
contempo, essere un operaio indiano alle dipendenze di un’impresa britannica è condizione assai
diversa dall’essere un operaio bianco, altamente professionalizzato e sindacalizzato del Nord
America. Posizioni diverse che, per forza di cose, rimandano a prospettive politiche dissimili e, in
non pochi casi (specialmente dentro le fasi di crisi), addirittura in conflitto tra loro. La classe,
quindi, non è mai un corpo unitario e la ricerca dell’unità a tutti i costi, per lo più, ha comportato
l’egemonia degli strati operai superiori su tutti gli altri, con l’inevitabile imporsi dell’egemonia
socialdemocratica e opportunista sull’intero movimento operaio e proletario. Ciò che Lenin spezza
è esattamente questa egemonia la quale, a lungo, ha imperversato dentro il movimento operaio e la
Seconda Internazionale. Non va dimenticato che lo stesso Marx, nel momento in cui stila il noto
Critica al programma di Gotha, è ben lontano dall’influire in qualche modo sulle sorti della
socialdemocrazia tedesca la quale, in quel programma, intravede al massimo una curiosità
intellettuale. Avere a mente che cosa è nel presente la composizione di classe è, pertanto, l’apriori
indispensabile alla messa a punto di qualunque ipotesi politico–organizzativa. Ciò che
realisticamente pare essere una conseguenza diretta dell’era del capitalismo globale è la
costituzione di un proletariato che, indipendentemente dai territori in cui è allocato, presenta
condizioni di notevole affinità. Con ogni probabilità, oggi, dentro le metropoli imperialiste del
Vecchio Continente abbiamo quote considerevoli di proletariato molto più vicino, simile e
omogeneo di un tempo alla condizione del proletariato presente su scala internazionale. Possiamo
pertanto dire che, oggi, tra Algeri e Parigi, Roma e Rabat, Londra e Tunisi esiste, per quote
consistenti di forza- lavoro, una condizione oggettiva di non poca similitudine. Un dato obiettivo
importante ben lontano, però, da rendere meccanicamente dato un processo di organizzazione
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politica su scala internazionale. Questo è un progetto complessivo che solo la soggettività politica è
in grado di fare poiché, per sua natura, la classe non può che muoversi all’interno di continue
parzialità. Per questo anche il migliore dei programmi politici non può ignorare che cosa sono e
come si percepiscono le masse all’interno delle loro parzialità. Saltare questo passaggio significa
ricadere nel più puro dottrinarismo condannando, sin da subito, anche la migliore delle ipotesi a
rimanere confinata tra le innumerevoli schiere delle sette propagandistiche. Un ruolo che, se in
alcune fasi storiche ha assolto una funzione positiva e necessaria, si mostrerebbe a dir poco suicida
in un contesto in cui la crisi sistemica del modo di produzione capitalista offre un assist
particolarmente ghiotto al proletariato e alle forze comuniste. Occorre saper cogliere l’occasione,
ma questo è compito che esula dal contesto di setta. Studiare la dimensione empirica della classe
diventa, pertanto, un aspetto centrale delle avanguardie comuniste. Un lavoro non facile rispetto al
quale, però, non partiamo da zero. Veniamo così ad affrontare il secondo punto di lavoro proposto.
La realtà che ci si pone di fronte, se le cose in precedenza sostenute hanno un senso, sembra
avere molto a che vedere con il “mondo coloniale”, ovviamente con tutte le necessarie tare del caso.
In questo senso, allora, il “mondo nuovo” non è del tutto sconosciuto. La rilettura e lo studio di
alcune esperienze del passato possono diventare uno strumento prezioso per l’agire del presente.
Sostanzialmente sono tre le esperienze che possono raccontare qualche cosa di utile:
a) le vicende algerine e l’esperienza del FLN
b) la storia e la pratica del Black Panther
c) le vicende nordirlandesi
Il punto a) è quello che, per molti versi, si mostra a noi più vicino. In particolare, aspetto sul
quale sarebbe importante svolgere un lavoro analitico in profondità, il modello politico effellenista
sembra avere molto a che fare con importanti aspetti politici delle vicende di lotta della banlieue,
oltre che, come ovvio, ad essere continuamente reiterato nei mondi del nord Africa e nelle realtà
politiche presenti in Medio Oriente. Ma non solo. Molte caratteristiche delle organizzazioni a
matrice musulmana presenti nei nostri mondi da quell’esperienza sembrano trarne suggestioni non
secondarie. Infine, proprio il “modello – FLN”, considerato vero e proprio paradigma della guerra
asimmetrica, è oggetto di studio e analisi da parte degli strateghi della controrivoluzione, il
Pentagono in primis. Ciò significa che quell’esperienza, oggi, è parte costitutiva e costituente della
messa in forma del conflitto e che, pertanto, le forze comuniste non la possono ignorare.
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Il punto b) è, con ogni probabilità, quello dal quale possiamo apprendere non pochi tratti
propri del presente. La storia del Black Panther Party è la storia della “colonia interna”, una storia
che, nel momento in cui si è data, appariva come un caso più unico che raro. L’esistenza, in un
Paese a capitalismo avanzato come gli USA, di una realtà interna di tipo coloniale sembrava
rimandare, non senza una qualche ragione, a una particolarità spiegabile solo con la storia di quel
Paese. Non sembrava possibile che quel modello potesse essere oggetto di una generalizzazione.
Oggi, invece, il modo di produzione capitalista si organizza, anche dentro le metropoli imperialiste,
attraverso la continua costituzione di “colonie”, all’interno delle quali sono confinati segmenti
sempre più ampi di forza–lavoro. Per questo lo studio dell’esperienza del BPP diventa un passaggio
necessario per le avanguardie comuniste, le quali, nel loro agire, si ritrovano ad affrontare aspetti
pratici non distanti e dissimili da quelli affrontati dai militanti neri.
Infine il punto c). Ciò che dell’esperienza nordirlandese sembra importante recuperare è
soprattutto il lavoro svolto dentro il territorio. E in questo occorre notare alcune non secondarie
similitudini con il FLN algerino. Si tratta di studiare, senza dogmatismi di sorta, le esperienze che
sono state in grado di esercitare un contropotere di massa effettivo, capace di delegittimare gli
ambiti del potere costituito. Si tratta di studiare, dentro questa esperienza, attraverso quali passaggi
e procedure si sia reso possibile il costituirsi di un luogo comune in grado di mettere in atto un
dualismo di poteri legittimato tra le masse.
Uno studio, una discussione e una sistematizzazione di queste esperienze potrebbe servire a
fornire una base di partenza comune, al fine di costruire un background teorico/analitico in grado di
omogeneizzare il lavoro di inchiesta sul campo. Proviamo a delineare alcune linee di ragionamento.
Tra le tre, l’esperienza maggiormente affine alla realtà contemporanea è rappresentata dal BPP.
L’organizzazione delle masse algerine e nordirlandesi ha sullo sfondo un fatto ben preciso: la
conquista e la dominazione, mentre, per quanto riguarda il proletariato dei ghetti neri, la loro
condizione è il frutto di un meccanismo di esclusione interno all’organizzazione politica
statunitense. Il fatto non è secondario. La prima economia del mondo capitalista inaugura,
all’interno dei propri confini, un modello di gestione di una quota di forza-lavoro fondato sul
principio dell’esclusione. Negli Usa, fianco a fianco, convivono due modelli di relazione
industriale, uno deputato alla classe operaia bianca, l’altro alla “comunità nera”. Un modello che,
volta per volta, verrà esteso alle diverse minoranze etniche, e in particolare a quelle del Centro e
Sud America, approdate negli States in cerca di occupazione. Ciò a cui oggi assistiamo è una sorta
di “universalizzazione” di quel modello, con una differenza non secondaria: quel modello, in
tendenza, si avvia a essere la storia comune della forza-lavoro subordinata a livello mondiale. Ma
perché è importante rivisitare per intero, senza mancare per altro di evidenziarne i limiti e gli errori,
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l’esperienza del BPP? Innanzi tutto perché è stata la prima esperienza dichiaratamente politica da
parte di una “colonia interna”. Va infatti ricordato come il BPP sia stato in grado di emanciparsi sia
dalle logiche e dalle retoriche religiose, nonostante l’Islam abbia giocato un ruolo non secondario
nel suo “romanzo di formazione”, sia dalle sirene nazionaliste e culturaliste che, per un certo
periodo, avevano esercitato una certa attrattiva tra il proletariato black. Altro aspetto di notevole
interesse e importanza è stato il carattere e la visione internazionalista assunta dal BPP e il suo
legame con tutte le lotte dei popoli colonizzati. A fronte di una classe operaia bianca in gran parte
favorevole alla guerra del Vietnam, il proletariato nero, grazie all’azione del BPP, si ritrovò in gran
parte schierato dalla parte del popolo vietnamita, lasciandosi così alle spalle ogni tipo di retorica
“razziale”. Infine, ma non per ultimo, l’altro grande insegnamento che va colto dall’esperienza del
BPP è il tentativo di costruire organismi di massa, finalizzati alla realizzazione di strutture e
rapporti sociali autonomi e indipendenti, dentro i quartieri neri. Aver dato vita, insomma, a un
processo di contropotere in grado di farsi carico dei problemi del riso e del sale della propria
popolazione. In sostanza ciò che il BPP è stato in grado di realizzare è stata la costituzione di
un’organizzazione di massa ispirata al marxismo e al leninismo nel centro nevralgico
dell’imperialismo. I limiti di questa esperienza, probabilmente insuperabili, non sono certo pochi e
lo stesso modo in cui il BPP è stato alla fine liquidato deve far riflettere, e non poco. Da un lato la
facilità con cui l’Fbi riuscì a inserire nell’organizzazione tutta una serie di informatori e provocatori
la dice lunga sull’ingenuità e l’inesperienza che nel BPP albergava. Allo steso tempo, le guerre
personalistiche che a un certo punto presero forma, sino a dilaniare dall’interno la stessa struttura
dell’organizzazione, raccontano qualcosa di non secondario sulla limitata capacità avuta dal BPP di
costruire quadri politici complessivi degni di questo nome e in grado di arginare e soffocare sul
nascere ogni tendenza intrisa di soggettivismo, così come una certa propensione e infatuazione per il
militarismo non ha trovato l’adeguata capacità politica di ricondurre nelle file dell’organizzazione il
velleitarismo armato e piegarlo alle esigenze di un rafforzamento del “lavoro di massa”. Si tratta di
limiti ed errori non certo di poco conto ma che, con ogni probabilità, quell’esperienza è stata
obbligata a fare. Un partito rivoluzionario non è mai frutto di un parto indolore. Perché una simile
“macchina da guerra” possa essere felicemente messa a regime occorrono anni e anni di esperienza,
insieme a un retroterra storico, una memoria di classe e una tradizione dai quali attingere a piene
mani. Tutto ciò agli eroici militanti del BPP indubbiamente mancava e in loro aiuto, per di più, non
venne nessuno. Nonostante negli Usa la presenza di una serie di “intellettuali marxisti” fosse
piuttosto folta non risultano, tra questi e il BPP, contaminazioni di un qualche tipo. Allo stesso
modo le reti del Partito Comunista Americano non sembrano aver osservato con particolare buon
occhio la nascita della formazione black. Reiterando gli errori consumati di fronte alla Rivoluzione
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algerina dal PCF e dal PCA, il partito statunitense non colse minimamente l’occasione che il BPP
offriva per il radicamento di una prassi rivoluzionaria di massa dentro il cuore strategico
dell’imperialismo. Gli errori e le ingenuità commesse dal BPP e dai suoi quadri dirigenti, pertanto,
erano quasi inevitabili. Tuttavia, quell’esperienza, per quanto fallimentare, rimane fondamentale per
venire a capo delle questioni del presente. Essa ci mostra una concreta linea di intervento di massa
tra un proletariato socialmente escluso e la possibilità di portarlo sul terreno del marxismo, del
leninismo e dell’internazionalismo proletario. Ma questo, perché sia possibile - e da qua
l’importanza strategica che il lavoro di inchiesta riveste - deve avere la pazienza e la tenacia di
sapersi radicare, giorno dopo giorno, attraverso un lavorio che non abbia paura dei suoi tratti grigi e
monotoni. Occorre saper organizzare, educare ma anche ascoltare i bisogni che le masse esprimono
e, in particolar modo, comprenderne le istanze politiche. Per farlo occorre essere per intero dentro la
classe, coltivare i quadri potenziali che questa esprime e dedicare non poche energie a far sì che tale
potenzialità si trasformi in realtà. Ma perché tutto ciò sia possibile occorre avere un’idea – forza, un
progetto politico capace di attrarre e sintetizzare le istanze che, spontaneamente, provengono dalla
classe. È in questo senso che, allora, l’esperienza del FLN algerino si fa particolarmente preziosa.
Qual è stata l’arma strategica del FLN? Ripensiamo alla disparità delle forze in campo all’inizio
della guerra. Una disparità di tali proporzioni da far dubitare le forze colonialiste francesi sulla
natura politica di quanto accaduto la notte del 1° novembre 1954. Un dubbio non proprio illegittimo
poiché quelle micro azioni militari neppure portate interamente a buon fine, difficilmente potevano
far immaginare che, di lì a otto anni, uno degli eserciti meglio armati del mondo avrebbe dovuto
mestamente abbandonare la scena. La debolezza militare e organizzativa del FLN era evidente.
Pochi uomini, modestamente addestrati, poche armi e un logistico praticamente tutto da inventare.
In apparenza iniziare una guerra in quelle condizioni, contro un esercito e un Paese come quello
francese, poteva sembrare un’avventura senza storia. Questi sono fatti obiettivi che nessuno può
porre in discussione. Che cos’è, allora, che ha fatto sì che le cose andassero in tutt’altro modo? Da
dove provenivano le (invisibili) risorse strategiche del FLN? Banalmente da un fatto. Il FLN aveva
dato alle masse algerine qualcosa che non poteva essere piegato, distrutto, annichilito: il senso della
dignità. Nonostante il prezzo di sangue che quel senso della dignità avrebbe comportato per il
popolo algerino, questi non sembrò mai in procinto di piegarsi. Quell’idea – forza lo aveva fornito
della più micidiale delle armi: il senso di appartenere al tempo storico. Quell’arma i francesi non
riuscirono mai a piegarla. Eppure stiamo parlando di una situazione in cui ciò che oggi sarebbe
chiamato degrado sociale era qualcosa che per essere documentato non aveva bisogno di alcun
specialista in scienze sociali. Ancor più che materialmente era la condizione morale dell’algerino a
essere a dir poco disastrosa. Ciò era vero in Algeria e forse ancor più tra le masse di operai
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immigrati che popolavano le bidonvilles metropolitane. L’esistenza degli algerini era talmente
infima e fuori dalle retoriche della civiltà che, per i più, quella massa informe di corpi non andava
oltre la curiosità antropologica. Ben difficile il solo immaginare che da quel magma indefinito
potesse giungere un qualche pericolo reale per la Francia. Eppure quella massa di straccioni e
pezzenti, ogni mese, raccoglieva centinaia di migliaia di franchi per sostenere la lotta del FLN.
Quella massa politicamente irrappresentabile andava a riempire in continuazione le fila della
guerriglia e delle sue diramazioni civili. Ciò che il FLN è stato in grado di fare è stato dare un corpo
e un’anima a una massa la cui esistenza, fino a quel momento, poteva solo augurarsi di vivere come
un servo non troppo oltraggiato. Ciò che dobbiamo studiare con attenzione e cura è proprio il modo
in cui il FLN si mette in grado di trasformare una massa apparentemente informe in soggetto storico
e politico conquistandosi, per prima cosa, un elevato grado di autorevolezza sociale e morale tra le
masse. Perché ciò sia qualcosa di più di una bella speranza occorre che le avanguardie politiche si
conquistino, sul campo, tali riconoscimenti e che la classe li percepisca immediatamente come un
loro distaccamento.
Ed è questo che, in fondo, ci racconta l’esperienza nordirlandese. Tra le molte cose che di
questa vanno studiate e rivisitate una, per il nostro lavoro, diventa particolarmente significativa:
l’esercizio di un contropotere dentro i territori urbani. È soprattutto l’esperienza dell’IRA post
militarista a sembrare degna di attenzione perché, proprio nella sua declinazione maggiormente
politica e sociale, il movimento di resistenza irlandese ha mostrato capacità non indifferenti. Intere
aree urbane riuscivano a essere “governate” dalle forze rivoluzionarie e, questo l’aspetto
interessante, ciò avveniva dentro città europee e non in zone montagnose o di campagna, collocate
in immensi territori, dove la lontananza dal potere centrale rende sempre obiettivamente facilitato il
lavoro delle avanguardie rivoluzionarie. Per riassumere, ciò che pare utile iniziare a prendere
concretamente in considerazione sono le esperienze in cui il proletariato ha lottato dentro una
condizione, pur diversamente declinata, di tipo coloniale. Di queste esperienze dobbiamo, anche se
in maniera critica, fare tesoro. Due aspetti essenziali i quali, però, assumono una valenza strategica
solo se questo lavoro si pone, sin da subito, l’obiettivo cardine del movimento comunista: la
costruzione di quadri politici complessivi. Veniamo così ad affrontare l’ultimo e fondamentale
snodo di questo lavoro.
Attento studio della composizione di classe, rivisitazione critica di alcune esperienze dei
movimenti rivoluzionari e di classe e internità alla classe sono tutti aspetti imprescindibili ma, di per
sé, non sufficienti a concretizzare una idea – forza in grado di indicare alle masse l’obiettivo
strategico della conquista del potere politico e, quindi, di dare forma a una soggettività in grado di
porsi alle testa delle masse. Ciò che rende possibile e concreta una simile operazione è la
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costruzione di quadri politici complessivi, poiché è sulle spalle dei quadri di partito che poggia per
intero il peso dello scontro di classe. Eludere questo passaggio, pensare che i “quadri verranno da
sé”, significa cadere in quell’ipotesi della “organizzazione processo” contro la quale non poco
polemizzò e combatté Lenin . La questione dei quadri va posta qua e ora così come, di pari passo,
occorre lavorare tenacemente per unificare tutte le avanguardie e le realtà che si pongono sul
terreno della lotta di classe per il comunismo. Senza fretta e pressapochismi, ma anche con la
massima determinazione a centrare l’obiettivo. Verso questa direzione dobbiamo costruire il
prossimo passaggio.
Certo, quanto sopra non è tutto, ma è certamente qualcosa. Solo lavorando con tenacia in
questa direzione la nostra asserzione Noi saremo tutto può diventare programma finalizzato alla
conquista del potere politico. Solo rimettendo in circolo un’idea - forza in grado di far albeggiare
una finalizzazione risolutiva delle lotte, dentro la composizione di classe del presente, diventa
possibile costruire il partito in grado di guidare vittoriosamente la guerra di classe internazionalista
per il comunismo. Solo così Noi saremo tutto!
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