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1 Ninfeo Rosa 1 Collana di studi e ricerche della Biblioteca Comunale diretta da Alfredo Romano Maria Giovanna Craba CIVITA CASTELLANA 1789-1815 Dalla rivoluzione francese alla restaurazione pontificia: grandezze e Miserie di una comunità agli albori del suo processo industriale. Edizioni Biblioteca Comunale “EnricoMinio” Civita Castellana, 1994

Civita a Di G. Craba

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Ninfeo Rosa 1 Collana di studi e ricerche della Biblioteca

Comunale diretta da Alfredo Romano

Maria Giovanna Craba

CIVITA CASTELLANA 1789-1815

Dalla rivoluzione francese alla restaurazione

pontificia: grandezze e Miserie di una comunità agli albori del suo

processo industriale.

Edizioni Biblioteca Comunale “EnricoMinio” Civita Castellana, 1994

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Coordinamento editoriale, bozze, grafica, impaginazione: Alfredo Romano Collaborazione: Marina Iacobelli Tipografia: Tecnostampa, Sutri ISBN 88-86903-00-6 __________________________________________

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Ai miei genitori Nicolina e Antonio _____________________

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Indice

Capitolo I ............................................................................................................................Uno sguardo sulla prima restaurazione 7

Capitolo II ...........................................................................................................................La crisi del sistema pontificio 34

Capitolo III..........................................................................................................................La decadenza dei valori religiosi 61

Capitolo IV..........................................................................................................................La vita nella città 82

Capitolo V...........................................................................................................................Bibliografia .........................................................................................................................

Introduzione Al centro di questa ricerca non saranno le grandi

campagne dell'Armata Napoleonica o le storie della Roma dei papi e dei cardinali, ci sarà invece la vicenda di una comunità che della rivoluzione ha conosciuto soprattutto l'incubo della guerra e il peso delle requisizioni, ma, al tempo stesso, ha vissuto la sensazione di un mondo in rapido mutamento. Cambiano i nomi dei mesi, cambia il modo di contare gli anni: non più dalla nascita di Cristo ma dalla nascita della repubblica. Cambiano pure le grandi feste popolari, prima a carattere mistico religioso, ora a carattere pedagogico. E cambiano i governi alla guida della città: i pontifìci dapprima, poi i francesi, gli aretini, e gli imperiali.

I ruoli si confondono, la vecchia economia autarchico-vincolista lascia il posto ad una realtà più libera e moderna. Si va affermando il libero commercio, nascono i primi embrioni di conduzione capitalistica. Il tutto avviene mentre fuori, nello Stato Pontificio e in tutta Europa, si stanno verificando grandi eventi: la rivoluzione

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dell'Ottantanove in Francia, la declamazione della carta dei diritti dell'uomo e del cittadino, l'instaurazione di una repubblica sempre in Francia, e poi il giacobinismo, le guerre napoleoniche, il nascere di un nuovo impero.

In questo ambito la storia di una cittadina a nord di Roma come Civita Castellana, diventa uno specchio su cui si riflette un'immagine in piccolo dei grandi avvenimenti. Ed è interessante gettare uno sguardo a quest'immagine. Si è utilizzata a questo scopo tutta una serie di fonti locali le quali non si potevano non inquadrare nel contesto di una storiografia generale. Questa era da tenere presente come termine di confronto tra i grandi eventi e la vita della comunità, ma confronto anche tra gli scontri che opponevano la Chiesa e la rivoluzione e tutto ciò che invece ne percepiva la gente di una qualsiasi città come Civita Castellana.

I documenti utilizzati ai fini della ricerca sono stati ricavati essenzialmente dall'Archivio Diocesano di Civita Castellana, in piccola parte da quello di Orte, e dall'Archivio di Stato di Roma, dove è contenuto soprattutto materiale di tipo amministrativo, facente sempre riferimento cioè al potere ed ai rapporti di forza interni alla comunità di Civita Castellana. Il limite di una parte di questa documentazione è l'essere costituita da esposti e memorie di carattere anonimo. Tuttavia il numero e la frequenza di questi documenti, il loro qualificarsi quasi come espressione di un movimento degli "zelanti" o degli "amanti del pubblico bene", li rende comunque significativi di un clima generale instauratosi in città.

Il materiale ricavato dall'Archivio Diocesano, pur nella sua sistemazione ancora confusionaria e provvisoria, è più pertinente alla descrizione della vita della comunità, in particolare nei suoi aspetti religiosi. L'Archivio inoltre è abbastanza ricco: ci

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sono gli atti delle visite pastorali, la corrispondenza, i libri contabili del Monte di Pietà e delle confraternite, i processi per reati minori che coinvolsero laici ed ecclesiastici. È invece andato distrutto, purtroppo, l'Archivio Comunale, in seguito a varie vicende di guerra non ultima quella dell'invasione francese.

Un altro vuoto importante che pesa sulla documentazione è quello relativo al periodo repubblicano, di cui ci sono pervenute solo poche e sporadiche notizie. Ecco che allora a popolare le vicende repubblicane intervengono i dispacci tragici e apologetici delle battaglie provenienti dagli Archivi Francesi, o i racconti delle requisizioni e dei saccheggi, le lamentele degli osti rovinati dalla guerra, i disastri del bestiame disperso e dei campi non più coltivati: gli eventi del periodo repubblicano rievocati quando le truppe francesi avevano già abbandonato la città.

Ma, che cosa c'era dietro gli echi delle battaglie e l'astio per le violenze sofferte? Come fu in realtà il periodo repubblicano?

A queste domande l'unica risposta che si potrebbe dare sarebbe più immaginativa che documentaria. Da qui la scelta di iniziare la trattazione con uno sguardo agli anni della prima restaurazione, per poi tornare alla crisi degli ultimi anni del secolo e considerare anche il momento repubblicano alla luce dei suoi effetti. Tutto questo al fine di poterne trarre qualche indicazione oggettiva e plausibile.

Maria Giovanna Craba

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Capitolo I

Uno sguardo sulla prima restaurazione Il biennio repubblicano 98-99 Nel 1801 a Civita Castellana, dopo i concitati eventi

repubblicani, la vita sta lentamente tornando alla normalità. La popolazione non supera i tremila abitanti,1 la terra è coltivata secondo metodi antiquati, le attività artigianali non sono particolarmente fiorenti e quelle manifatturiere si trovano ancora allo stato embrionale. Accanto ai grandi proprietari ed ai ricchi commercianti brulica una folla di piccoli artigiani e braccianti agricoli che vivono di espedienti fidando sulle elargizioni del Monte di Pietà e di qualche opera pia.

Dal 1798, anno in cui viene proclamata la Repubblica romana, al 1801 sono passati solo pochi anni, ma nel frattempo Civita Castellana e tutto lo Stato Pontificio hanno vissuto eventi fuori dall'ordinario. Sull'onda della rivoluzione dell'Ottantanove le truppe francesi erano giunte in Italia alla guida di Napoleone Bonaparte. Il 10 febbraio 1798 erano alle porte di Roma e dettavano le condizioni della resa. Tali condizioni, che prevedevano tra l'altro la decadenza della Sacra Congregazione del Buon Governo, furono accettate e il 15 febbraio fu sancita la nascita della Repubblica romana.2 Vittorio Emanuele Giuntella così descrive quei momenti:

"E veramente la catastrofe non avrebbe potuto essere più grave, né più irreparabile la desolazione di quei giorni: Roma era in mano ai Francesi e governata da un regime repubblicano, che aveva chiuso i conventi, esiliato e disperso i religiosi, mentre si preparava a vendere i loro beni. Il papa era

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stato fatto partire con la forza e si capiva che il suo viaggio non era che una sosta di un più lungo e tragico viaggio"3

Anche a Civita Castellana, come a Roma, viene instaurato un governo repubblicano che dura dal febbraio 1798 all'agosto 1799. Le uniche tracce pervenute sino a noi di questa breve stagione rivoluzionaria sono costituite da alcuni dispacci di guerra, provenienti dagli Archivi Storici di Parigi, e dalle carte di un «processo informativo dell'era repubblicana» aperto nel maggio 1798 contro Giovanna Filati ed il sacerdote Sante Pasquetti.4 La donna è accusata di fuga dalla casa del marito e di furto domestico; il sacerdote di aver abusato del suo "stato sacerdotale" nel procurarle la fuga. Questo piccolo frammento di storia repubblicana, certamente insufficiente a ricostruire gli eventi del periodo, può tuttavia aiutarci ad immaginare l'atmosfera nuova che si respirava in città. Le prime innovazioni rispetto al passato emergono subito nell'intestazione delle carte processuali, che recano scritte in alto le due parole manifesto della rivoluzione francese: libertà ed uguaglianza.

Anche il calendario è cambiato: il primo giorno del processo viene indicato con due datazioni distinte, quella cristiana del 29 maggio 1798 e quella repubblicana del 10 pratile anno VI dell'era repubblicana. Alcuni testimoni, chiamati a deporre, devono prima prestare il giuramento di odio alla monarchia e fedeltà alla repubblica.

I vari personaggi che compaiono nel processo vengono tutti chiamati con l'appellativo di "cittadino": il cittadino Domenico Giunta, la cittadina Giovanna Filati e persino il cittadino Lorenzo De Dominicis, cioè il vescovo di Civita Castellana. Novità più sostanziali si evidenziano nell'emergere di nuove istituzioni di matrice repubblicana, come per esempio il Tribunale di Censura di fronte al quale si svolge il processo.

Personaggi nuovi sono alla guida della città: il prefetto consolare di Civita Castellana, cittadino Leggi, ed il capitano Muller, comandante della piazza di Civita Castellana. Il prefetto consolare, come figura, ricorda subito il direttorio di cinque consoli insediatosi a Roma a capo dell'esecutivo, ed a lui si rivolge il vescovo per informarlo di essere del tutto all'oscuro della fuga del sacerdote Sante Pasquetti.

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La lettera, nei toni e nella forma, attesta una sottomissione del vescovo alla nuova autorità. In essa De Dominicis si dice all'oscuro della fuga di Pasquetti e prega il cittadino Leggi di prendere i provvedimenti del caso" non avendo io forza e maniera di riparare tale sconcerto".5 Al capitano Muller si rivolgono, invece, i parenti di Giovanna Filati, che preoccupati per lo stato di salute della donna, chiedono che venga trasferita dal carcere alla foresteria del Monastero di Santa Chiara.

In passato tali suppliche, con le quali il popolo si appella direttamente alla suprema autorità per ottenere favori ed eccezioni, sarebbero state rivolte al vescovo, ora invece la suprema autorità riconosciuta è quella francese rappresentata dal capitano Muller. Eppure l'arrivo delle truppe rivoluzionarie era stato accolto dalla popolazione tra paura e diffidenza. La costituzione civile del clero prima, la persecuzione dei refrattari e lo scioglimento degli ordini religiosi poi avevano creato un solco profondo tra la Rivoluzione e la Chiesa.

Vittorio Emanuele Giuntella delinea in maniera chiara quanto nell'immaginario collettivo gli eventi rivoluzionari avessero assunto valenze terrificanti e sanguinarie quando scrive:

"Nella immaginazione popolare le notizie delle sanguinose giornate parigine e dei massacri nelle province assumevano una proporzione ossessiva, e del resto ben pochi conservavano un giudizio obiettivo, o consideravano ancora positivo il bilancio tra i vantaggi e i mali della rivoluzione". Egli comunque tiene a puntualizzare come alla creazione di questo clima di sospetto avesse contribuito una certa pubblicistica che presentava in maniera semplicistica gli eventi dell'Ottantanove facendone emergere una versione in qualche modo stereotipata6.

Se l'arrivo dei francesi a Roma fu accolto dalle masse popolari con sospetto, tanto più difficile dovette essere la loro penetrazione nella zona dei Cimini con i suoi paesi arroccati su speroni tufacei che la morfologia del luogo rendeva di difficile accesso e dove viveva gente che lo stesso Giuntella descrive fedele alla chiesa e alla religione. Per questa gente l'arrivo dei francesi non si tradusse in un generale miglioramento delle condizioni di vita, ma anzi in un loro peggioramento a causa della carestia e dei pesi della guerra e dell'occupazione.7

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A volte poi quest'insofferenza assunse il carattere di vere e proprie insurrezioni popolari, come a Nepi, un paese sito nelle vicinanze di Civita Castellana. Qui le masse popolari guidate dal clero cittadino si sollevarono contro i francesi nel dicembre del 1798. Il fatto è documentato in un dispaccio militare conservato negli Archivi Storici di Parigi e relativo alle vicende militari che alla fine del 1798 videro contrapporsi nella zona, francesi e napoletani.

In quei giorni era stata combattuta importante battaglia che aveva visto protagoniste, un'armata napoletana forte di 40000 uomini e la divisione del generale Mac Donald composta da due brigate: quella del generale Kellerman e quella del generale Mathieux per un totale di 6.000 uomini.

Lo scontro ebbe un esito sfavorevole per i napoletani che, benché sovrastanti in numero, furono costretti alla ritirata. Il 4 dicembre, un aiutante di campo del generale Mac Donald, scrive dal quartier generale di Civita Castellana ai "Cittadini Commissari" di Roma per metterli al corrente delle concitate fasi di questa vicenda. Arrivato a parlare di quanto accadde a Nepi scrive che lì era stata inviata la retroguardia del generale Kellerman per prendere posizione favorevole a schiacciare definitivamente il nemico, ma:

"Arrivando (...) presso il villaggio, le sue truppe furono accolte da una grandine di pallottole: erano gli abitanti che spinti dai loro preti, avevano già preso le armi contro di noi. Le poche truppe napoletane che stavano a Nepi alzarono le gambe ed abbandonarono gli abitanti. Questi abbandonati alla loro sorte, vollero comunque resistere ma invano: la morte di alcuni nostri soldati, che essi immolarono, rese gli altri furibondi, la città fu presa d'assalto, tutti gli uomini furono passati a fil di spada, il fuoco era già stato acceso dagli obici, fu lasciato propagarsi. Di questa città non rimane altro che macerie e della sua sventurata popolazione solo donne bambini. Questo tremendo esempio era di una crudeltà resa necessaria per intimorire quelli che vogliono levare od hanno già levato lo stendardo della rivolta".8

A Civita Castellana non si verificarono sollevazioni popolari, né vi furono feroci repressioni, ma i francesi vennero comunque

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accolti in un clima di generale diffidenza come confermano tante piccole frasi spezzate, tanti piccoli episodi.

In una lettera del gennaio 1794, indirizzata al Buon Governo a nome del popolo di Civita Castellana, si trova scritto ad esempio che la popolazione ed i luoghi pii erano oberati da troppe imposte e, lamentano i latori della lettera, "questo non si fa neppur in Francia".9 Talmente diffuso è il sospetto verso i francesi che, nel 1796, persino in un processo contro Pio Ciancarini accusato di aver percosso due sacerdoti, che riunendosi in segreto avevano messo in dubbio, con i loro racconti, la virtù delle donne del paese, l'uomo nel difendersi parla dell'ignobile "consiglio" da loro formato e lo definisce "talmente iniquo e sciagurato da poter essere paragonato all'assemblea francese".10

Ecco quindi come, nel senso comune, la rivoluzione e l'assemblea francese diventano l'emblema di tutti i mali e di tutte le nefandezze, per cui diviene luogo comune paragonare le situazioni più inique a quell'evento che nella mente dei più le comprende tutte. Per Giovanna Filati e Sante Pasquetti, però, la rivoluzione non è l'iniziativa di un gruppo di sbandati, al contrario essa diventa la speranza dei loro sogni e il nutrimento dei loro desideri oppressi.

La donna, interrogata dal presidente del Tribunale di Censura, spiega la sua fuga con le sevizie subite dal marito e dice "siccome dai preti non si è potuta aver giustizia, così mi son ridotta a ricorrere per dar riparo alli strapazzi che mi dava mio marito". Queste poche parole esprimono la disperazione di una donna, chiusa in un vincolo matrimoniale estremamente infelice, che non riesce a trovare vie d'uscita in un ambito istituzionale fondato su valori e principi religiosi, quali l'indissolubilità del matrimonio. Poi, improvvisamente, un evento per lei del tutto casuale ed estraneo, come la rivoluzione, non solo le dà la speranza di sciogliere quel vincolo, ma anche di coronare un amore giovanile con Sante Pasquetti. In seguito, infatti, la donna svela che il suo proposito era di recarsi a Roma dalle autorità costituite per ottenere il "permesso di fare un matrimonio democratico col (... ) Pasquetti".

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Diverso, per tutto il processo, è l'atteggiamento di Pasquetti, che dopo essersi fatto prendere la mano dall'entusiasmo ricorda di essere un sacerdote e tenta di discolparsi, prima attribuendo alla donna la responsabilità della fuga e poi raccontando di averla accompagnata mosso da compassione. Dice infatti il 18 messifero, davanti al Tribunale di Censura:

"non credo di aver fatto alcun male, ma di aver assistito una infelice coniugata, che presa dalla disperazione, voleva ricorrere alle autorità costituite per farsi rendere giustizia, e che talvolta senza la mia assistenza poteva dare in eccessi di funeste conseguenze".11

Il sacerdote, inoltre, sorvola sul proposito di lei di contrarre un matrimonio "democratico", ma tiene a puntualizzare di aver vissuto in castità per tutta la fuga. Atteggiamento questo condiviso, a sentire le parole dello storico francese Jean Paul Bertaud, da molti sacerdoti suoi conterranei che contrassero matrimonio durante il periodo rivoluzionario e rivendicarono in seguito di esser vissuti nel matrimonio in castità. Ma, si chiede Bertaud, come avrebbero potuto fare il contrario visto che chiedevano l'assoluzione e la reintegrazione?12 La repubblica però, come un fuoco di paglia, dura solo pochi mesi. Le truppe francesi nell'estate del 1799 indietreggiano incalzate dai napoletani e con loro se ne vanno le speranze e gli entusiasmi che avevano acceso.

Giovanna Filati torna con il marito. Il sacerdote Sante Pasquetti, che in seguito allo scalpore destato dalla sua fuga aveva deposto l'abito clericale e si era arruolato nella gendarmeria repubblicana, ritorna in seno alla chiesa dopo un breve periodo di ritiro spirituale. E al termine di queste vicende, nel 1800, il procuratore della donna nel difenderla attribuisce la responsabilità di quanto accaduto alla "calamità del tempo (... ) vale a dire al principio della vicenda repubblicana, in cui il fastoso titolo di libertà dava a credere alle anime debboli una libertina licenza di tutt'operare e disciogliere i contratti Sagri e civili massima di cui si confessa (colpevole) la donna che difendiamo".

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I primi tentativi di restaurazione a Civita Castellana Terminata l'esperienza repubblicana, seguono giorni confusi:

nell'agosto del 1799. Le truppe aretine, alleate degli austriaci, dopo un breve assedio, costringono i francesi alla fuga ed instaurano una loro reggenza durante la quale sottopongono la città a saccheggio aiutate dalle masse popolari.13

La reazione francese, però, non si fa attendere: un corpo di spedizione ristabilisce temporaneamente un governo repubblicano ed i cittadini più compromessi vengono passati per le armi. Ma è un governo che dura poco, le truppe imperiali austriache, infatti entrano in città, stabilmente questa volta e preparano il terreno al ritorno del governo pontificio. Dopo l'incalzare di tanti eventi che avevano visto lo Stato della Chiesa guidato da uomini e governi diversi, il 14 febbraio viene eletto papa Barnaba Chiaromonti con il nome di Pio VII. La sua elezione mette fine alla cosiddetta "sede vacante" e permette l'inizio di una nuova fase per lo Stato Pontificio, quella della restaurazione.14

Il ritorno delle vecchie istituzioni pontificie A Civita Castellana, come nelle altre comunità dello Stato e

come a Roma, la restaurazione coincide in primo luogo con la ricomposizione del vecchio sistema di governo risalente al 1592 e legato alla Sacra Congregazione del Buon Governo. Questo sistema si concretizzava in una serie di istituzioni e di cariche delineate da Elio Lodolini nel suo ormai classico «L'Archivio della S. Congregazione del Buon Governo».15

A proposito dei Consigli, le istituzioni preminenti della comunità, Elio Lodolini dice che erano di tre tipi: il Consiglio Generale rappresentava tutto il corpo della comunità, il Consiglio Pubblico era quello che amministrava normalmente la città ed era costituito da un magistrato pro tempore e da un numero fisso di consiglier, il consiglio particolare infine aveva funzioni e poteri diversi a seconda del luogo dove veniva costituito.

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Le "magistrature" che Lodolini dice simili alla nostra attuale Giunta comunale, erano formate da due o più cittadini ed erano rinnovate con notevole frequenza, generalmente ogni due o tre mesi. Accanto a queste, che erano le istituzioni centrali, gravitavano altri funzionari di notevole importanza.

Il fiscale generale aveva il compito di vigilare sull'osservanza degli ordini emanati dalla Congregazione e di sorvegliare la condotta dei segretari ed impiegati del Comune. Il segretario aveva diverse incombenze d'ufficio, ed il depositario aveva tra i suoi compiti principali quello di riscuotere le imposte. Gli agenti comunitativi dovevano accudire agli interessi della città nella curia di Roma e vigilare sull'esecuzione e la spedizione delle "tabelle", cioè i bilanci preventivi che, compilati di anno in anno, dovevano poi essere approvati dalla Sacra Congregazione. C'era poi il "Sindacato", che sottoponeva a giudizio tutti coloro che avevano amministrato denaro o beni della comunità.

Per quanto riguarda infine il governatore, Lodolini spiega che aveva funzioni più o meno simili a quelle del nostro attuale segretario comunale: egli rappresentava il potere centrale in seno alla comunità. Tornando a Civita Castellana si può osservare che la prima seduta consiliare tenuta dopo gli eventi repubblicani risale al 14 dicembre 1800, quando il "Consiglio Pubblico" si riunisce per deliberare su una richiesta di risarcimento presentata da un fornaio.

Dati più precisi sulla ricostituzione dell'amministrazione locale si ottengono dalla riunione del Consiglio Generale del 10 marzo 1801, tenutasi per decidere sul conferimento del depositariato a Filippo Paglia.16 Alla seduta partecipano: Lorenzo Morelli fiscale e governatore ad interim, Giovanni Finesi e Domenico Politi conservatori, sedici consiglieri ed un deputato ecclesiastico, Domenico Lepore.17 Da un passaggio del verbale della seduta, nel quale è annotato che:

"nella enumerazione dei voti ne furono trovati due di più del numero dei consiglieri intervenuti, e comunemente fu giudicato potessero essere stati quelli esistenti nella bussola e venutosi quindi a nuova pallottazione", si può dedurre che la composizione dei Consigli cittadini era regolata dal sistema della bussola.

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Grazie a questo sistema i nomi dei personaggi più illustri della città venivano inseriti in specifiche bussole ed estratti a sorte come consiglieri alla vigilia di ogni seduta consiliare.

Anche per le magistrature esisteva un apposito bussolo detto "degli spicciolati". Questo si rileva da una lettera inviata dal governatore alla Sacra Congregazione nel febbraio del 1802.

Nella lettera è scritto che sono stati estratti dal bussolo alla carica di magistrato due personaggi riconosciuti come debitori comunitativi nel sindacato fatto loro dall'avvocato Buttaoni, un inviato pontificio incaricato dalla Sacra Congregazione di mettere ordine nei conti della città18. Dal rincorrersi poi dei nomi dei diversi consiglieri e magistrati si può vedere come questi appartenessero per lo più alla classe dei notabili: proprietari terrieri o ricchi allevatori molti di loro erano stati anche direttori del Monte di Pietà o depositari. Accanto ai notabili c'era anche qualche grosso appaltatore degli esercizi commerciali e qualche professionista.

Questi personaggi, il più delle volte, esercitavano tali cariche anche per molti anni di seguito nonostante non godessero di una buona reputazione, fossero dichiarati incapaci in denuncie anonime o ancora fossero molto spesso dei debitori comunitativi, come nel caso dei due magistrati estratti nel 1802.

Una nuova etica nell'amministrazione pontificia Questo caso però segna una svolta, i due magistrati infatti

vengono rimossi dall'incarico ed al loro posto viene nominato un cittadino non debitore. Siamo nel 1802, nel cuore cioè di quella fase della prima restaurazione che sembra improntata a valori quali l'onestà e la rettitudine, in un tentativo di recupero etico che riguarda tutta l'amministrazione cittadina.

Il fatto poi diventa ancora più significativo se correlato ad altri episodi: nel 1802 il montista denuncia che il capo conservatore Augusto Paglia è da molti anni debitore del Monte di Pietà e non ha mai voluto pagare adducendo la propria povertà come scusa. Il governatore reagisce alla denuncia

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ordinando al Paglia di saldare il suo debito se vuole conservare l'incarico.19

Da un altro ordine della Sacra Congregazione inviato a Civita Castellana nell'aprile del 1802, si evidenzia come anche il figlio di Augusto Paglia, Filippo, il quale esercita la funzione di esattore, sia stato esautorato dal suo incarico per non aver presentato il rendimento dei conti dell'anno precedente.20

Mancanze come quelle attribuite ai Paglia solo pochi anni prima sarebbero passate del tutto inosservate, o al più avrebbero provocato qualche sentita quanto inutile protesta.

Ora, invece, non solo le denuncie non rimangono inascoltate, ma contro gli amministratori in difetto vengono presi seri provvedimenti.

Questa impressione è confermata anche dal fatto che nel 1802 si vuole ricostituire la Congregazione Economica, abolita dai francesi ma che in passato aveva svolto due importanti funzioni: quella di controllo sull'attività dei magistrati e del Consiglio Segreto, come quella di veto sulle loro decisioni.

La proposta viene avanzata da più parti in seguito ad una denuncia anonima del luglio 1802, che sottolineava la corruzione dilagante in città, in particolare tra i magistrati, giudicati persone inette e legate solo ai propri interessi e per giunta (accusa abbastanza grave per quei tempi se rivolta ad un amministratore pubblico) "impossidenti".

In particolare il vicario generale, in una missiva dell'agosto del 1802, si dice d'accordo con l'idea di dotare la comunità di un economo e di una Congregazione Economica composta come in passato da due laici e da due ecclesiastici.

Egli inoltre propone che questo nuovo organismo faccia delle ricerche sui crediti della comunità sia antecedenti che contemporanei all'invasione.

Il 25 agosto 1802 il delegato apostolico di Viterbo, Parido Giustiniani, dopo aver sentito il parere del vicario generale, scrive a proposito della denuncia del mese precedente:

"Il motivo principalmente degli sconcerti si ripetano non tanto nella inettezza di quei consiglieri che dal poco zelo, che hanno per il vantaggio del pubblico, e della popolazione".

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Egli con queste parole evidenzia come la causa dei gravi problemi della comunità non risieda tanto nell'incapacità e nell'impreparazione della classe amministrativa, quanto piuttosto nella sua scarsa responsabilità verso la cosa pubblica e, nella sua mancanza di senso morale. In quest'ottica appare naturale che Parido Giustiniani chieda di inviare a Civita Castellana un economo "in un soggetto fornito di tutta l'avvedutezza e di e quale onestà".

Questa maggiore incisività, questo spirito nuovo che caratterizza le azioni degli amministratori locali, non è altro che lo specchio di un progetto più ampio e globale, che a Roma stavano sperimentando papa Pio VII ed il suo segretario Ercole Consalvi nel tentativo di dare un nuovo vigore allo Stato Pontificio. Caracciolo e Caravale così li definiscono:

"Erano entrambi giovani poco esperti ma anche poco compromessi: poterono agire con una indipendenza di movimenti che non ne faceva tanto i restauratori quanto gli esponenti di un tentativo estremo di ridare vitalità allo Stato, respiro al paese".21

Clero e Popolazione nelle direttive morali del vescovo De

Dominicis In questa stessa direzione sembra muoversi Lorenzo De

Dominicis, vescovo di Civita Castellana, che con una visita pastorale indetta il 23 maggio 1800 intende attestare il suo ritorno agli impegni pastorali di sempre tra i fedeli. Nell'editto di apertura di questa prima visita pastorale dopo la repubblica egli esprime il suo sollievo nel poter tornare ad adempiere ai propri impegni:

"Giacché dopo l'universal disordine delle cose civili ed ecclesiastiche ci troviamo finalmente in stato di poter soddisfare i nostri indispensabili doveri colla presente visita pastorale".22

E dopo aver dichiarato aperta la sua visita secondo le formule di rito, torna su alcuni temi a lui particolarmente cari: l'officiatura del coro, i costumi degli ecclesiastici e l'educazione dei chierici.

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Sull'officiatura del coro interviene con un'editto del giugno 1802 che, al fine di rimuovere "la passata indolenza", detta regole molto severe per assicurare la partecipazione dei canonici a quella che egli definisce una delle funzioni "più essenziali per il buon servigio di questa nostra chiesa cattedrale".23

Con un altro editto del luglio 1802 il vescovo richiama gli ecclesiastici a più severe norme comportamentali, invitandoli ad un maggior rigore morale e ad un maggior rispetto della loro dignità ecclesiastica. A tal proposito, egli ripristina norme già precedentemente introdotte contro l'abitudine "di frequentare Luoghi Pubblici, ove si vende vino, ed ivi trattenersi a bevere in disdoro del sublime lor grado, e con i scandalo de Secolari". E ne introduce di nuove contro un'altra cattiva abitudine fattasi strada nel clero di Civita Castellana: quella di giocare d'azzardo "cosa, che ha recato ammirazione anche alle Truppe estere, che quivi hanno soggiornato".

Questo insieme di norme intende scoraggiare simili comportamenti con la minaccia della sospensione a divinis per gli ecclesiastici e della mancata promozione agli ordini per i chierici. Infine De Dominicis si sofferma su un tema che, come si vedrà in seguito, sembra stargli particolarmente a cuore: quello dell'educazione delle giovani leve del clero, i chierici appunto, che vengono invitati a dimostrare il loro spirito religioso frequentando assiduamente le messe, la scuola, la dottrina e gli oratori. Nemmeno i parrocchiani della cattedrale, rei di riunirsi in sagrestia a far chiacchere inutili intorno al fuoco, si sottraggono agli aspri richiami del vescovo. Con questo loro comportamento, secondo De Dominicis, essi mostrerebbero scarso rispetto per quei fedeli desiderosi di assistere alla messa e di confessarsi; il sagrestano viene perciò incaricato di allontanarli dalla chiesa senza troppi complimenti.

Questi provvedimenti del vescovo non sono nuovi nella sostanza, in quanto egli ne aveva emanati di simili già in precedenza, ma nuovo è il clima nel quale vengono accolti. Ora De Dominicis non è più isolato nei suoi sforzi di rialzare le sorti della vita morale della comunità. Il suo tentativo infatti trova vasta eco in un programma più ampio e globale che si sta

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sperimentando non solo a Civita Castellana, ma in tutto lo Stato Pontificio.

Il peso dell'occupazione francese ed il nascere di nuovi

conflitti fra centro e periferia Anche il Buon Governo, nel solco della restaurazione, mira a

riprendere in mano il controllo delle comunità sottoposte alla sua giurisdizione. E mostra questo suo proposito, in primo luogo, nei tentativi di riorganizzare il sistema tributario mosso anche dalla necessità di rimpinguare le finanze dello Stato. In questo suo intento però si trova a dover fronteggiare la determinata opposizione di una comunità che ha già pagato un prezzo altissimo per i tre anni di guerre combattute sul proprio territorio.

Si instaura così un rapporto conflittuale tra il potere centrale, che nel 1801, appena restaurato, pretende sia il pagamento delle tasse arretrate che quello di una nuova imposta sul terratico, e la comunità che dopo aver pagato a più riprese lo scotto della guerra non è più disposta a sottostare a nuovi balzelli.

Il contrasto risulta evidente dal testo di alcune lettere che i rappresentanti delle principali istituzioni cittadine, i rappresentanti del clero ed importanti funzionari locali inviano al Buon Governo nel marzo del 1801 per chiedere l'esenzione dalla nuova imposta sul terratico, come dal pagamento di tasse arretrate.

Il 15 marzo 1801 il governatore, Angelo Parisi, con una sua lettera informa il prefetto del Buon Governo di aver già fatto completare i riparti per la nuova tassa sul terratico e di aver consegnato i libretti di "esazione". Egli però teme che nemmeno con la forza si riuscirà ad ottenere il pagamento richiesto dalla Sacra Congregazione, in quanto sono venute meno le principali fonti di introito della collettività. Il bestiame "unica industria della comunità perché tolta questa altre entrate non sussistono" è stato oggetto di razzie ed uccisioni ed i fondi rustici "ora non danno quasi niente ai padroni". Egli quindi chiede se non la completa esenzione almeno una qualche dilazione visto che il

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pagamento dovrebbe essere effettuato entro dieci giorni.24 In un altro carteggio sono poi contenute altre tre suppliche: una a nome dell'economo, una a nome dei pubblici rappresentanti e un'altra a nome dei rappresentanti del clero cittadino.

L'economo nella sua lettera del 21 marzo 1801 compila una sorta di memoria sui tre anni passati, al fine di ottenere l'annullamento di alcuni dazi camerali arretrati.25 Egli riferisce che i francesi arrivarono a Civita Castellana nel febbraio 1798 e vi rimasero fino all'agosto 1799 pretendendo dalla popolazione il totale "mantenimento". Ai francesi subentrarono quelle che l'economo chiama " le masse degli insorgenti": truppe lealiste aretine appoggiate dalle masse disperate che misero a ferro e fuoco le campagne, uccisero e razziarono il bestiame, dilapidarono i generi di prima necessità, saccheggiarono le case e la città. Dopo di loro fu la volta degli "imperiali", che non furono in niente meno avidi dei francesi e rimasero in città per un periodo quasi corrispondente, pretendendo anche loro "il totale mantenimento". E sottolinea ancora l'economo:

"La reggenza imperiale di Ancona lungi dal prendere l'esigenza delle imposte camerali arretrate avea anzi data la speranza di risarcire le grandiose spese alle quali soggiaceva (la comunità) per il mantenimento della truppa e fortezza, le quali spese sebbene mediante un conteggio fatto davanti ad un commissario imperiale si trovassero ammontare alla vistosa somma di scudi 14.000 furono nondimeno militarmente ridotte ad una metà". Una volta tornata la città sotto il dominio della Santa Sede, "quando i poveri possidenti si lambiccavano il criterio non per rifabbricare l'incendiati abituri della campagna ma per principiare qualche coltivazione delle abbandonate terre, per ricomprare qualche bestia da lavoro, ecco scatenati i commissari della già tesoreria del Patrimonio", la cui amministrazione pretende il pagamento di 4.500 scudi per tasse camerali arretrate.

Ma, continua l'economo, "Fidati i communisti che niun danno sarebbe derivato a Pubblico da questa intimazione perché niuno è tenuto a dare quello che non ha, molto meno quando ha dato tutto quello che avea, erroneamente credevano di liberarsi dalle molestie con il pagare gli scavalchi ai

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commissari".26 Mentre però pendeva un ricorso della comunità di fronte al segretario di stato per ottenere la sospensione dal pagamento della somma di 4.500 scudi, i cittadini "si veggono eseguire la rappresaglia dal commissario (della tesoreria del patrimonio) dal quale (... ) hanno a stento ottenuta l'esenzione del bestiame dalla esecuzione".

Quello che più colpisce in questa lettera, oltre all'accanimento delle truppe straniere sulla città, è il senso di fiducia tradita nei confronti del Buon Governo. Infatti mentre "i communisti" e la cittadinanza tutta, si avviano fiduciosi alla ricostruzione dopo la guerra, tra le braccia di quella che considerano la propria madre tutrice, ecco che questa prende le sembianze degli spietati commissari della Tesoreria del Patrimonio la cui amministrazione pretende le tasse arretrate relative al triennio rivoluzionario. Così i cittadini, che prima avevano pagato ai francesi, poi agli aretini, poi ancora agli imperiali, ora non vogliono proprio credere di dover pagare anche al governo pontificio che l'economo qualifica come "madre tutrice" e "il più pietoso il più clemente dei sovrani". Il peso della guerra viene ancora sottolineato in una lettera che i "pubblici rappresentanti e la comunità di Civita Castellana" inviano al Buon Governo, questa volta per ottenere l'esenzione dalla nuova tassa sul terratico, sempre nel marzo del 1801.27

Dalla lettera emerge che la città conta 3.000 anime: il suo territorio viene definito " infelice", l'industria "poca" ed il paese "miserabile".

Anche prima dell'invasione dei repubblicani la città era oberata da un debito di 80.000 scudi: a cui si devono aggiungere ora i 50.000 spesi per i francesi ed i 14.000 spesi per i tedeschi, senza contare il mantenimento delle truppe napoletane, aretine e degli altri paesi, per comprendere il vertiginoso buco finanziario in cui ora essa si trova coinvolta.

I pubblici rappresentanti spiegano poi che la città fu sottoposta ad assedio per ben due volte: prima "dai francesi e dai napoletani" poi "dalle masse e dai repubblicani". Il bestiame, sull'allevamento del quale si basa l'economia cittadina, fu oggetto di furti e razzie. Gli olivi, le viti, i seminati furono sradicati, tagliati ed incendiati. "Le fabbriche" di campagna

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furono devastate e quelle di città risultano "molto pregiudicate". Le case dei "migliori possidenti" furono sottoposte a saccheggio dai francesi più volte, soprattutto durante il ritiro da Roma e poi ci fu il saccheggio generale fatto "dalle masse". In questa situazione, concludono i pubblici rappresentanti, la comunità si trova nella "fisica impotenza" a poter supplire al pagamento della nuova tassa sul terratico, almeno per il momento.

Anche coloro che dovrebbero essere i più solleciti nell'obbedire agli ordini della Sacra Congregazione, cioè i membri del capitolo e il clero secolare e regolare, gli amministratori dei luoghi pii e le monache di Civita Castellana, chiedono una dilazione sul pagamento della nuova tassa sul terratico.

Il fatto è documentato da una loro lettera inviata a Roma sempre nello stesso marzo 1801, che si limita ad elencare in maniera molto stringata i seguenti motivi a sostegno della richiesta: a) il saccheggio attuato da parte delle truppe straniere; b) i tre anni di guerra continua; c) la scarsezza di viveri.28

Che anche i rappresentanti del clero cittadino si uniscano alle richieste dei pubblici rappresentanti e dell'economo dà l'idea non di una casualità, ma di un'azione concertata volta a rafforzare un'istanza comune mediante la sua rappresentazione da tre diversi punti di vista: quello del clero, quello della cittadinanza per nome dei pubblici rappresentanti, e quello dell'economo che vigila sulle finanze cittadine.

Buon Governo e nuovo ordine amministrativo. Il problema

dell'evasione fiscale L'iniziativa della Sacra Congregazione però non si esaurisce

in arido fiscalismo mirato ad incamerare i proventi delle imposte arretrate.

Le emergenze create dalla guerra fanno sì che l'azione del Buon Governo acquisti un carattere più energico e nuovo rispetto al passato. Il testo della lettera dei pubblici rappresentanti, sopra citato, dice bene come Civita Castellana già prima del periodo precedente alla repubblica avesse un

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passivo di bilancio pari ad 80.000 scudi ed ora, a questa somma, bisogna aggiungere i danni provocati dalle truppe straniere che ammontano ad una cifra quasi corrispondente. Questo insieme di motivi rende ormai improrogabile una seria indagine sull'amministrazione delle finanze cittadine e la ricerca di eventuali falle.

Che il potere centrale si sia posto questi problemi è documentato in primo luogo da una lettera che il governatore scrive nel luglio del 1801, in risposta ad un ordine emanato dal Buon Governo il mese precedente.29

Il governatore assicura che, come ordinato, sta portando a termine la revisione dei conti degli esattori, magistrati, depositari, computista e segretario. Alla lettera egli poi allega una lista dei debitori comunitativi, coloro cioè che avevano dei conti in sospeso conla comunità per non aver pagato alcune imposte negli anni passati. La lista comprende i debitori già conteggiati ed include i nomi più illustri della città, quelli che più frequentemente si rincorrono tra magistrati, consiglieri, o depositari: i vari Ortensio Paglia, Paolo Rosa, Giovan Battista Ciotti, Domenico Paradisi, solo per citare i più significativi. I loro debiti risultano ammontare alla somma complessiva di scudi 3.822,79. Gli stessi, però, si dichiarano creditori della comunità per una somma di molto superiore, pari a 9.417,51 scudi, per le somministrazioni da loro elargite alle truppe straniere.

Nonostante questo e nonostante il fatto che molto spesso questi debitori siano tali da decenni ed a volte siano anche portatori di debiti che si tramandano di generazione in generazione, da padre in figlio senza essere mai pagati, il governatore ostenta ottimismo e si dice fiducioso che tutti adempiranno ai pagamenti dovuti.

Tanto ottimismo è dovuto al fatto che, dice il governatore, finora i debitori hanno ottemperato ai pagamenti previsti. L'ottimismo si stempera, però, l'anno successivo, quando la Sacra Congregazione riceve il resoconto dell'avvocato Buttaoni, un visitatore dalla stessa inviato a Civita Castellana con il compito di rivedere i conti dei diversi esattori ed amministratori del Monte di Pietà, stilando quindi una lista esatta dei debitori

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comunitativi.30 Sulla data dell'incarico mancano notizie precise: comunque il resoconto del Buttaoni è datato luglio 1802 e a questo punto l'inviato pontificio sembra giunto alla fine del proprio lavoro.

Egli infatti scrive che sta ultimando i sindacati dei pubblici esattori e che entro pochi giorni arriverà alla "liquidazione" dei diversi debitori comunitativi. Dove per "liquidazione" si intende l'accertamento del diritto del creditore sul piano giuridico e dell'entità del debito sul piano contabile.31

Buttaoni però è molto meno ottimista del governatore: i debitori comunitativi non hanno ottemperato ai pagamenti come previsto e per di più uno di loro, il marchese Andosilla, ha intenzione di servirsi dei crediti assunti nei confronti della comunità per le somministrazioni alle truppe straniere a estinzione dei suoi debiti arretrati.

A sostegno delle sue pretese Andosilla può esibire i buoni ricevuti da francesi ed aretini in cambio delle somministrazioni ai loro eserciti.

Buttaoni, inoltre prevede, che il caso del marchese non rimarrà isolato e che molto presto anche tutti gli altri debitori comunitativi presenteranno delle eccezioni simili alla sua. Ma, a complicare un possibile riordino delle finanze cittadine non è solo la questione dei debitori comunitativi, che ora pretendono di compensare i loro debiti con le somministrazioni alle truppe straniere. Il peso dell'occupazione straniera ha pesato su tutti e non ha risparmiato nessuno, creando una situazione tale che, chiunque abbia fornito anche pochi litri di vino o qualche "rubbia" di grano agli eserciti stranieri, o possa vantare antichi censi inesatti durante la repubblica, ora si fa avanti a chiedere la giusta mercede in una litania continua ed ossessionante.

Tra i documenti di cui è rimasta traccia nell'Archivio del Buon Governo, solo nel periodo che va dal 1801 al 1805, si possono mettere insieme circa settanta richieste di reintegrazione per "somministrazioni date", salari non pagati, frutti di censo inesatti. Il caso più documentato è quello della famiglia Leonori, che nel 1801 chiede il pagamento di alcuni frutti di censo inesatti durante il periodo repubblicano. A sostegno delle sue richieste la famiglia invia al Buon Governo una serie di

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suppliche: nella prima, risalente al 1801, Pietro Leonori, il capo famiglia, sottopone alla Sacra Congregazione una proposta presentata come estremamente vantaggiosa per la comunità di Civita Castellana: questa pagherà immediatamente la metà dei frutti di censo dovutigli ed egli si impegnerà ad abbonare il resto della somma. Leonori spiega la sua disponibilità a questo sacrificio con le difficili condizioni economiche in cui si trova, "per il saccheggio provato ed altre disgrazie sofferte nel tempo dell'intruso governo democratico, nel quale anche soffrì l'arresto e deportazione (... ) a motivo di essere l'o. re del partito reale ed Ecclesiastico".

La proposta viene però rifiutata dal Consiglio Cittadino a causa del "vuoto effettivo delle pubbliche casse che non permettono alla nostra comunità di pagare somma veruna".32 Nel settembre successivo, dopo la morte di Pietro Leonori, a rivolgersi alla Sacra Congregazione con una nuova supplica è la sua famiglia, una volta invidiata per ricchezza e nobiltà e ora ridotta in miseria a causa dei saccheggi, delle persecuzioni e delle detenzioni subite nel periodo repubblicano.

A sostegno delle proprie richieste ora presenta alla Sacra Congregazione un decreto del governo di Roma del 1800, dove i Leonori vengono indicati al papa come degni di ogni considerazione per la dedizione dimostrata alla "buona causa", insieme con un dispaccio della Regia Corte di Napoli con cui, sempre i Leonori, ricevono una menzione da parte del papa. Un ordine inviato alla comunità di Civita Castellana documenta che questa volta il Buon Governo ha ascoltato le suppliche dei Leonori. L'ordine infatti contiene l'intimazione a pagare loro i frutti di censo decorsi dal gennaio al giugno del 1801.

Ma a nulla valgono gli ordini della Sacra Congregazione, i dispacci della Regia Corte di Napoli, o i decreti del Governo di Roma: il Consiglio Cittadino nega di nuovo il suo assenso alle suppliche della famiglia Leonori giustificandolo ancora con il vuoto delle casse comunali.33

Solo nel 1803 la famiglia riuscirà ad ottenere il pagamento parziale dei frutti di censo del 1801. Il fatto trova riscontro nelle parole di una nuova supplica, inviata al Buon Governo nel gennaio del 1803 per chiedere il pagamento dei frutti di censo

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del 1802, dopo aver ricevuto la metà di quelli dell'anno precedente.34 Se le richieste per i frutti di censo arretrati riguardano soprattutto l'antica nobiltà, come i Leonori appunto, o opere pie, il quadro si allarga quando le richieste di rimborso riguardano le somministrazioni alle truppe straniere.

Queste provengono soprattutto da proprietari terrieri le cui culture sono state distrutte o requisite da allevatori il cui bestiame è stato razziato, da osti che nei tre anni di guerra hanno ospitato solo soldati rifornendoli di tutto il necessario, da commercianti costretti a consistenti somministrazioni alle truppe.

In uno di questi carteggi, risalente al febbraio 1801, la vedova Tarquini chiede al Buon Governo il risarcimento promesso di dieci rubbi e di biada somministrate "alla truppa imperiale".

Ma oltre a questo i Tarquini elargirono in favore delle truppe francesi una contribuzione di 1400 scudi e subirono l'incendio di un loro terreno durante la concitata fase della presa di Civita Castellana da parte dei repubblicani.35 Se esiste qualche speranza che la vedova Tarquini sia reintegrata della somministrazione concessa alle truppe imperiali, queste speranze scemano del tutto quando si tratta delle somministrazioni alle truppe francesi. Il dato viene confermato anche dalla copia di una risoluzione consiliare concernente le richieste di un fornaio, che prese in affitto il forno durante il periodo repubblicano e dovette somministrare alle truppe francesi pane, semola e contribuzioni in denaro, in osservanza dei tanti ordini speditigli "da quella allora detta munucipalità".

Il 14 dicembre 1800, per la prima volta dopo il periodo repubblicano, il pubblico Consiglio Cittadino si riunisce per deliberare sulla sua richiesta. Prende la parola il consigliere Domenico Coluzzi per affermare che "trattandosi di un credito dato in tempo della passata repubblica, trovandosi la comunità impossibilitata a soddisfare non solo questo, ma anche la multiciplità degli altri che ne verrebbero in seguito si contenti di ritirare un bono de nostri deputati".

Dall'approvazione della proposta di Coluzzi scaturisce una risoluzione consiliare che chiarifica subito ai cittadini di Civita Castellana come la loro municipalità non abbia nessuna

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intenzione di farsi carico delle somministrazioni elargite a favore dei francesi.36 La decisione presa in questo senso è ferrea, può poggiare su un ordine emanato in tal senso dal Buon Governo e non ammette eccezioni nemmeno di fronte ai casi più pietosi: come quello dell'ostessa Domenica Pini. La sua osteria ha rifornito le truppe francesi di fieno, biada e vino durante il periodo repubblicano e ora la signora Pini, vedova ed in miseria, si trova costretta a chiedere alla comunità almeno un sussidio mensile per poter sopravvivere.37

Alle richieste per i frutti di censo arretrati ed a quelle per il rimborso delle somministrazioni alle truppe straniere si aggiungono le richieste dei "salariati".

A questa categoria appartengono il medico, il chirurgo, il maestro di scuola, il segretario comunale, il computista ed altri professionisti stipendiati dal Comune.

Tutti parte di quella burocrazia legata alla Sacra Congregazione che, durante il periodo repubblicano, si ritrova improvvisamente privata di tutti i privilegi di cui aveva goduto sino ad allora. Tornato il governo pontificio le difficoltà dei salariati sono comprovate da alcuni documenti molto diversificati per genere. Quello in cui si fa un riferimento più diretto alla questione è una lettera inviata al Buon Governo a nome degli "zelanti del vero bene" nel febbraio del 1803. Secondo gli "zelanti", alcuni "salariati" a Civita Castellana "soffrono angustie indicibili per non esser pagati, onde avviene che ritardano nel prestare le loro opere a favore della comunità".38

Ma già nel marzo del 1801 il magistrato Franco Petti Antonisi aveva informato il Buon Governo circa estrema difficoltà nel far fronte alle retribuzioni dei salariati. Nella sua lettera il Petti descrive il formarsi di un circolo vizioso per cui nella necessità di garantire loro gli stipendi si devono incamerare gli affitti dei proventi pubblici (pascoli comuni, esercizi commerciali), sennonché gli affittuari pretendono di compensare gli affitti con i crediti assunti nei confronti della comunità per le somministrazioni alle truppe straniere.

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La questione viene poi ulteriormente approfondita dal governatore Angelo Parisi. Egli, nell'inviare al prefetto del Buon Governo il memoriale del magistrato, scrive il mese successivo:

"giacché la cassa di questo erario è non solo vuota affatto ma è anche gravata dai debiti correnti e mensuali e se non potranno esigersi i proventi ed i dazi comunitativi, ne verranno assurdi gravissimi, specialmente in quei che servono e non possono alla scadenza del mese essere pagati dalla comunità" A peggiorare la situazione, aggiunge il governatore, c'è il fatto che la comunità continua ad essere assoggettata all'obbligo di "alloggiamento" delle truppe straniere.39

La portata dei problemi economici e finanziari che la città si trova ad affrontare, in una situazione estremamente labile in cui i primi tentativi di restaurazione si mescolano al continuo passaggio di truppe straniere, rende difficile qualsiasi tentativo di risoluzione.

La comunità si trova stretta in una morsa con il Buon Governo da una parte che pretende di ristabilire l'ordine tributario, ed i propri cittadini dall'altra che non sono in grado di pagare nuovi balzelli, ma pretendono di essere reintegrati per i saccheggi subiti e le requisizioni estorte dalle truppe straniere. In questa situazione si scatena una lotta in cui tutti sono contro tutti, che vede opporsi la disperazione di chi ha perso tutto all'egoismo di chi ha conservato parte della propria ricchezza e la difende tenacemente. Così se da una parte Domenica Pini, ridotta in miseria dopo che la sua osteria per molti mesi ha ospitato solo soldati, è ora costretta a chiedere un sussidio mensile per poter andare avanti, dall'altra il marchese Andosilla, che pur tra requisizioni e saccheggi ha mantenuto parte della propria ricchezza, presenta alle autorità pontificie il conto delle somministrazioni fatte con tanto di "rescritti" dei governi stranieri. In molti poi hanno speculato sul mercato degli approvvigionamenti.

Ad avvalersi maggiormente di questo mercato furono alcuni proprietari che, certamente, subirono razzie di bestiame, saccheggi e requisizioni, ma anche poterono approfittare delle cariche assunte durante il periodo repubblicano, o di connivenze con quel regime, per gonfiare l'entità degli approvvigionamenti.

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Il problema del rimborso degli approvvigionamenti assume poi connotazioni particolari per il fatto che molto spesso i proventieri erano anche debitori comunitativi, che grazie alle somministrazioni poterono trasformarsi in creditori della comunità.

È il caso di Giovan Francesco Ettorre, debitore della comunità in solido con Giuseppe Minio per la somma di 1.057,8 scudi, che fu edile al tempo della repubblica. Egli nel 1802 chiede la bonifica del suo debito in ragione delle requisizioni e dei saccheggi subiti durante il biennio rivoluzionario. Ne nasce una controversia tra questi proventieri e la Sacra Congregazione che vede confondersi il problema del rimborso degli approvvigionamenti con quello dei debitori comunitativi.

I primi tentativi di riordino finanziario in seno alla

comunità Si è visto infatti nelle pagine precedenti che la comunità, già

prima dell'occupazione era oberata da un debito di 80.000 scudi addebitabile in parte alla cronica inefficienza del sistema tributario pontificio, ma anche ad un problema di evasione fiscale che assumeva proporzioni proccupanti.

Il Buon Governo tenta seriamente di porre rimedio alla questione solo dopo il periodo repubblicano, chiedendo la lista dei debitori comunitativi prima al governatore e poi al visitatore Buttaoni. Ma già il Buttaoni nel 1802 aveva espresso forti timori che questi debitori potessero sottrarsi ai pagamenti dovuti.

Ed i timori dell'inviato pontificio non si rivelano vani infatti: i debitori comunitativi ora, in virtù dei buoni ricevuti dalle autorità straniere, non solo possono estinguere i propri debiti arretrati, ma possono anche presentarsi come creditori della comunità.

Nel tentativo di porre argine al problema, la Sacra Congregazione nel 1805 incarica un esattore creato ad hoc per l'esazione delle tasse comunitative arretrate. Il suo nome è Francesco Petti ed è uno dei maggiori creditori della comunità per le somministrazioni alle truppe estere, tanto che il Buon

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Governo, per spingerlo ad un'azione rapida ed efficace, gli dà la possibilità di incamerare parte della somma esatta ad estinzione del suddetto credito. Nella sua azione però egli si trova in netta antitesi con i debitori comunitativi ed i nodi dei loro contrasti vengono alla luce quando due osti, i fratelli Antinori, denunciano alla Sacra Congregazione di aver ingiustamente ricevuto da Petti l'intimazione a pagare una gabella risalente al 1800 per la quale loro avevano ottenuto un abbuono da parte delle autorità imperiali. Il ricorso degli Antinori mette in moto tutto un meccanismo procedurale, che, esulando dal loro caso specifico, coinvolgerà tutta l'attività del Petti fino a metterne in discussione la sua stessa continuazione.

Infatti il vero problema che emerge dal procedimento non è tanto quello dei due osti, quanto quello dei vecchi debitori comunitativi che sembrano rimanere impermeabili a qualsiasi costrizione al pagamento. Perché, sottolinea il governatore in un suo memoriale contenuto nello stesso carteggio:

"Si dà la circostanza che la nota trasmessa (quella dei debitori comunitativi trasmessa dal governatore nel 1801, ibidem pag. 46) compone l'intero consiglio segreto e magistratura tanto che resta in mano di essi e a loro bell'agio, l'archivio i registri e documenti tutti comprovanti i loro liquidissimi debiti come ancor rimangono in loro libertà tutti li boni ritirati dall'amministrazione repubblicana nel qual tempo con pochi paoli ritraevasi da commissari corrotti qualunque dichiarazione anche di centinaio di scudi".

Grazie a brogli ed intrallazzi, conclude il governatore, questi individui finiscono col ritrovarsi creditori della comunità anziché suoi debitori.

La difficoltà della situazione era già del resto stata chiarita dallo stesso Francesco Petti Antonisi, l'esattore incaricato, in una lettera al Buon Governo dell'agosto 1805. Nella lettera Petti dichiarava la sua impossibilità ad adempiere al compito ricevuto perché i debitori "con l'aiuto di altri individui comunitativi anche loro debitori, coloriscono i rispettivi debiti in modo che svaniscano del tutto o si riducano a freddure". A compromettere definitivamente il lavoro di Francesco Petti intervengono voci ed illazioni tendenti a delegittimare la sua figura, e ad insinuare una

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collaborazione con il regime repubblicano, grazie alla quale egli stesso si sarebbe trasformato da debitore in creditore comunitativo.

A sostegno di queste voci viene utilizzata una memoria del Buttaoni, risalente al marzo 1804, nella quale il visitatore pontificio sostiene che il capitano Petti, fino all'invasione francese, era debitore della comunità per la somma di 1.699,75 scudi ed aveva perciò ceduto in "salviano" un suo terreno denominato Carcarasi.

Durante il biennio repubblicano, poi, Petti aveva assunto due distinti crediti nei confronti della comunità: il primo di 5.454,42 scudi a titolo di somministrazioni e in parte per razzie ed uccisioni a cui era andato soggetto il suo bestiame; il secondo di 8.747,47 scudi acquisito come amministratore delle sussistenze militari durante il periodo repubblicano.

Questo incarico egli dichiara, nella sua lettera dell'agosto 1805, di averlo assunto "obbligato a fare ciò a ragione dell'officio addossatole dalla comunità e da lui esercitato con il massimo impegno perché la patria non venisse saccheggiata dalle truppe quivi stazionanti" Buttaoni però non è molto convinto delle motivazioni patriottiche addotte dal capitano Petti.

In particolare, l'inviato pontificio sostiene che i sindaci deputati a controllare la sua amministrazione hanno ricevuto solo l'ammontare del suo credito e non il "dare", cioè quanto effettivamente egli elargì a favore delle truppe. E osserva che Petti, come amministratore delle sussistenze militari, era autorizzato ad imporre contribuzioni a tutti i paesi del Cantone. Perciò se non si conosce il suo dare non si potrà mai sapere quanto egli percepì e distribuì effettivamente in bestiame, biada e denaro.

Detto questo Buttaoni ritiene che Petti non debba essere rimborsato di questo suo credito e nemmeno dell'altro per le razzie di bestiame subite, perché i danni da lui denunciati sono talmente eccessivi da ingenerare sospetti di frode e perché comunque la Sacra Congregazione dichiarò "non emendabili" i danni di guerra.40 Il carteggio ora analizzato si limita a fornirci le notizie elencate.

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Comunque le difficoltà espresse da Petti nel costringere al pagamento i debitori comunitativi trovano riscontro in un episodio precedente.

Questo risulta da un memoriale che il governatore invia al Buon Governo nel settembre del 1804. Dal memoriale emerge che in agosto la Sacra Congregazione aveva dato l'ordine alla comunità di esigere dai suoi debitori la somma complessiva di 7.318,51 scudi entro tre anni.

Nello stesso tempo però la Sacra Congregazione, essendo stata informata della difficile situazione della comunità saccheggiata più volte nel periodo dell'invasione e stazione e luogo di presidio di molti eserciti stranieri, avrebbe voluto che i creditori per somministrazioni alle truppe straniere e per antichi censi od altro fossero soddisfatti. Ora il tutto, nella mente degli alti funzionari sarebbe dovuto avvenire in maniera sincronizzata. Una volta che la comunità avesse ricevuto le prime rate dai propri debiti, avrebbe poi dovuto elargirle a favore dei suoi creditori, che poi come si è visto erano molto spesso le stesse persone.

L'incaglio di questo complicato meccanismo era però dovuto al fatto che il Buon Governo concedeva spesso ai debitori comunitativi le dilazioni che questi richiedevano. Quindi, riflette il governatore, come potrà la comunità far fronte ai suoi molteplici crediti alle scadenze previste quando i debitori ottengono facilmente le dilazioni richieste?.41 Ma questo, così come la nomina dell'esattore Petti, non è che un episodio della lunga lotta che ora ed in seguito opporrà la comunità di Civita Castellana ai propri debitori.

La crisi amministrativa e la contesa per la guida del Monte

di Pietà Ricapitolando: la guerra intorno al mercato dei buoni che ha

trasformato ostinati debitori in creditori della comunità, la lotta

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dei possessori di censi e dei salariati per vedersi reintegrati, almeno in parte, di quello che non avevano ricevuto durante l'occupazione, la controversia tra il potere centrale e la municipalità sulla questione del riordino finanziario avevano creato una situazione estremamente instabile.

Se a questo si aggiunge l'effetto prorompente della rivoluzione con la rottura di equilibri già fragili e l'incertezza della situazione che ne è scaturita, si può ben comprendere il crearsi di un terreno fertile allo sviluppo di lotte intestine per il controllo delle principali istituzioni della comunità.

Così nei primi anni dell'Ottocento si scatena tra laici ed ecclesiastici la lotta per il controllo del Monte di Pietà.42

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Capitolo II

La crisi del sistema pontificio Abbiamo visto, nel precedente capitolo, abbattersi su Civita

Castellana quella che le testimonianze del tempo ci tramandano come una spaventosa calamità: l'invasione delle truppe francesi, con la successiva instaurazione del governo repubblicano e le requisizioni, le violenze, i saccheggi che ne seguirono. Ma già i contemporanei hanno la sensazione che questo evento non sia l'origine di tutti i mali per la comunità e perlo Stato Pontificio, quanto l'atto conclusivo di una crisi già in atto. Era una situazione alla quale sembra applicarsi perfettamente l'affermazione di Montesquieu ricordata da J. Le Goff:

"Se una causa particolare, come l'esito accidentale di una battaglia, ha condotto uno Stato alla rovina, (... ) esisteva una causa di carattere generale che provocò la caduta di quello Stato per colpa di una sola battaglia" («Storia e Memoria», pag. 31).

L'occupazione francese può essere considerata quindi quell'evento causale che ha provocato un'accelerazione nella crisi del sistema pontificio, non certamente l'origine della crisi stessa. Monsignor Sala, un prelato della curia romana poi divenuto cardinale, ne è talmente convinto, da vedere nell'arrivo dei francesi un segno provvidenziale che finalmente permetterà una vera riforma dello Stato e della Chiesa. Scrive infatti nel suo "Diario Romano degli anni 1798 - 1799:

"Il Principato e la Chiesa avevano bisogno di grandi riforme, non servivano più puntelli per sostenere la fabbrica cadente e il Signore vuole atterrarla del tutto per poi innalzare un nuovo edifizio. Pensarà egli a scegliere què materiali, che potranno mettersi di bel nuovo in opera escludendo gl'inutili calcinacci e i legnami atti solamente al fuoco".1

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Anche a Civita Castellana, come a Roma, serpeggia la sensazione che l'invasione straniera sia solo l'ultimo atto di una crisi più antica. La povertà della città e della gente è raccontata in termini drammatici nelle lettere che i pubblici rappresentanti e l'economo inviano al Buon Governo nel 1801. Eppur ammettendo l'esagerazione dei toni utilizzata in quelle lettere, cosa del resto naturale visto che erano rivolte ad ottenere esenzioni fiscali, il quadro che ne emerge è piuttosto cupo.

I pubblici rappresentanti parlano di un paese "miserabile" dove l'industria è "scarsa" ed il territorio "infelice". E precisano che questa situazione non è dipendente solo dall'occupazione francese quando scrivono che già prima del periodo repubblicano la comunità era oberata da un debito di 80.000 scudi a cui ora bisogna aggiungere i 50.000 spesi per i francesi, i 14.000 per i tedeschi e tutte le altre spese relative al "mantenimento" delle truppe aretine e napoletane. E l'economo nel raccontare gli eccidi di bestiame, i saccheggi e le distruzioni nelle campagne operate dalle truppe straniere, conclude dicendo che queste in sostanza "smunsero le tasche di individui già poveri".2

Ma è dal confronto di questi documenti con quelli antecedenti al periodo repubblicano che si trae l'immagine di una comunità in stato di estrema precarietà a cui l'occupazione ha contribuito in maniera pesante, ma non determinante. Del resto anche la storiografia generale individua la profonda crisi in cui versava lo Stato Pontificio e ne riscontra le sue caratteristiche più evidenti nell'inettitudine e nella corruzione di una classe dirigente incapace di rinnovarsi, nei disordini finanziari e nell'arretratezza economica.3

I preoccupanti dati relativi alle finanze cittadine, già evidenziati nella loro lettera dai pubblici rappresentanti, trovano riscontro in molti altri episodi: i ritardi, ad esempio, nel compilare le tabelle comunitative che, come detto nel capitolo precedente, erano dei bilanci preventivi redatti di anno in anno da ciascuna comunità. Questi bilanci, una volta approvati dal governatore o dal preside di provincia, venivano inviati alla Sacra Congregazione, che doveva a sua volta rivederli e, restituirli approvati entro dieci giorni.4

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A Civita Castellana non solo erano molto frequenti i ritardi nel trasmettere le tabelle, ma la loro compilazione era spesso del tutto trascurata, come sembra indicare la mancanza di qualsiasi documento relativo ai bilanci comunali nel corso di tanti anni anche successivi.

Tra i vari esempi si può citare quello del 1790 quando il segretario comunale nel rispondere alla Sacra Congregazione dei ritardi relativi alla stesura del bilancio dell'anno precedente, scrive che ciò accade perché il depositario non ha ancora presentato il rendimento dei conti del 1789.5 Così facendo il segretario ci porta al cuore del problema che è poi quello delle disfunzioni del sistema di esazione fiscale. Il depositario, scrive infatti Elio Lodolini, "aveva il compito di riscuotere tutti i crediti della Comunità e di pagarne i debiti: pesi camerali, interessi passivi, stipendi ai salariati". Veniva generalmente eletto per un anno ed alla fine del suo incarico doveva presentare un rendiconto del lavoro svolto.6 Egli era quindi una figura centrale ed essenziale al buon funzionamento del sistema daziale pontificio. Questo, almeno fino alla riforma del 1801, era basato: sulle gabelle camerali che venivano incamerate dalla Reverenda Camera Apostolica e sulle gabelle comunitative incamerate invece dal Comune. Queste ultime venivano stabilite dalla comunità con l'approvazione del Buon Governo. Dal pagamento dei dazi comunitativi erano esenti gli ecclesiastici e gli altri privilegiati; gli stessi però pagavano i dazi camerali.7

L'esazione di alcune gabelle comunitative poteva inoltre essere data in appalto al miglior "offerente". I depositari o anche esattori di imposte comunitative però, avevano difficoltà a portare a termine il loro lavoro, verificandosi in tal modo ritardi di molti anni. Questo dato emerge dal raffronto tra i diversi casi di depositari rimasti debitori, in seguito ad esazioni loro assegnate, e dalle numerosissime "richieste di mano regia", da loro avanzate alla Sacra Congregazione. Per mano regia, infatti, si intendeva un privilegio grazie al quale si poteva agire sui beni del debitore insolvente e, in alcuni casi, procedere al suo arresto. Era questo un privilegio che spettava alla comunità verso i propri debitori.

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Nel 1790, per esempio, Ortensio Paglia, che si era aggiudicato per il triennio 1786-1787 l'esazione della gabella del vino forestiero che pesava sul vino introdotto in città, essendogli rimaste ancora molte "esigenze" da fare, chiede la proroga della mano regia.8 Nel settembre 1791 un certo Federici, depositario del 1787, chiede alla Sacra Congregazione "la dovuta assistenza" avendo ancora molte "partite" da esigere. A volte poi i ritardi assumono carattere decennale, tanto che ancora nel luglio del 1796, Baldassarre Morelli, depositario del 1786, chiede la "valida assistenza" per poter agire contro i debitori insolventi9.

Le cose non migliorano neppure dopo la riforma fiscale attuata da Pio VII nel 1801 che, abolendo 32 cespiti d'entrata, basava il sistema fiscale pontificio su due sole imposte: la dativa reale e la dativa personale.10 Nonostante la riforma, infatti, nel 1804 Filippo Paglia, che si era impegnato all'esazione della dativa reale del triennio 1801-1803, è talmente impossibilitato a portare a termine il suo incarico che, propone di cedere al Comune un terreno di su.aproprietà ad estinzione del proprio debito.

Non sorprende quindi che nel febbraio del 1804 Domenico Gasperini scriva una colorita lettera alla Sacra Congregazione per essere esentato dall'ufficio di esattore della dativa reale affibbiatogli, dice lui, dal Consiglio di Civita Castellana. Nella lettera il Gasperini si dichiara convinto di essere stato scelto a tale incarico in base ad errate valutazioni sulla sua posizione patrimoniale e soprattutto perché i membri del Consiglio Cittadino non volevano che un tale spinoso incarico ricadesse su uno di loro. A scanso di equivoci egli che, "benché illetterato tanto ritiene una bottega aperta e sa far bene i suoi negozi", lascia intendere di non essere disposto a farsi irretire in un incarico così insidioso. E a sostegno di quanto dice alla sua lettera allega venticinque testimonianze scritte che certificano la sua posizione patrimoniale e quindi la sua impossibilità a far fronte all'incarico attribuitogli.11 Questi dati evidenziano in maniera sufficientemente omogenea difficoltà e ritardi nello svolgersi dell'esazione tributaria. Difficoltà che sembrano da imputarsi a tre fattori: la povertà della popolazione, la scarsa

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onestà degli esattori e l'impunità fiscale di alcuni debitori. Riguardo alla povertà le complicazioni erano legate al carattere aleatorio di attività quali l'agricoltura e l'allevamento, molto esposte ad eventi atmosferici, calamità e diffusione di epidemie di bestiame. Così molto spesso agricoltori ed allevatori colpiti da alluvioni o siccità, non erano in grado di ottemperare al pagamento dei dazi. L'estate del 1792, ad esempio, dovette essere caratterizzata da una forte siccità. Molti allevatori di Civita Castellana scrissero infatti alla Sacra Congregazione per ottenere dilazioni a pagare le "collette" dovute all'esattore Domenico Paradisi. Come risulta, in particolare, da una lettera del 4 agosto 1792 firmata da otto allevatori, che scrivono di non poter assolvere ai dazi dovuti "perché i prodotti avuti non sono sufficienti ne anche all'ametà (sic!) dell'anno di vivere colla loro propria famiglia, giacché come suol dirsi non gli è rimasto altro che il sangue nelle vene. Però umilmente ricorrono (alla Sacra Congregazione) a sollevarli dalle molestie del Paradisi, con ordinare che i medesimi O. ri non venghino molestati per non ridurli ad un atto di disperazione, e lasciare in mezzo alle strade la loro famiglia"12.

Accanto a questo problema, però, molte denuncie stanno adatte stare l'abitudine, diffusasi in città, di affidare i depositariati a debitori comunitativi. Motivo per cui proprio coloro che dovrebbero assicurare una corretta esazione fiscale sono i primi ad avere conti in sospeso con il fisco.

Nel gennaio del 1795, ad esempio, una lettera a nome del popolo di Civita Castellana denuncia alla Sacra Congregazione la nomina ad esattore di un certo Coluzzi, che nell'esercizio di questa funzione negli anni precedenti era rimasto debitore di 2.100 scudi. Il sospetto che aleggia nella lettera è che Coluzzi sia stato eletto con l'appoggio dell'economo al quale avrebbe elargito "capretti, latticini ed un calessaccio per farlo partire". I latori della lettera invitano la Sacra Congregazione a riflettere sul fatto che, mentre si verificano episodi del genere, la popolazione ed i luoghi pii sono oberati da troppe imposte.

I sospetti relativi alla selezione e all'onestà dei depositari vengono ancora espressi in una lettera a nome dei cittadini, del

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popolo e dei consiglieri di Civita Castellana, nel gennaio 1794. Recita il testo della lettera:

"I cittadini, consiglieri , e Popolo di Civita Castellana (... ) rispettosamente espongono, che nel consiglio segreto il di 17 gennaro corrente, si adunarno nella maggior parte appostamente i soli debitori della Comunità, per fare il Bussolo de pubblici esattori, ed in esso furono eletti Pavolo Rosa, il quale ha rinunciato, e che non avendo reso conto delli due anni del suo esattorato ora dimesso non si sa se sia creditore o debitore, l'Avvocato Gaspare Ciotti, che è in lite con la communità, Giovan Francesco Ettorre, che oltre essere debitore di essa somma rispettabile, è ancora ignorantissimo, e solennissimo impiccione, non possedendo di sua parte alcun Patrimonio, Domenico Paradisi debitore di somma cospicua, per titolo dello stesso Depositariato, oltre la prestanza che ha in mano per condurre questo pubblico Forno, Giovan Batt. a Ciotti ancor lui sotto l'istesso titolo debitore di non piccola somma per l'istessa ragione, ed impedito, e finalmente Dom. co Coluzzi come maggiore debitore di due anni suo Cammellengato, oltre la prestanza di scudi cinquecento, che ha in sue mani per provedere all'Affitto che ritiene di questo pubblico Macello. Compiuto dunque il numero di sei eletti, che piacquegli scegliere con l'Esclusiva delli non debitori della ridetta comunità (... ) vennero irregolarmente alla pregiudizievole estrazione delli due Depositari, cioè, il primo per la cassa Privileggiata in persona di Domenico Coluzzi, ed il secondo per il communitativo cadde in Giovan Franco Ettorre, ambedue accompagnati dalle sopraccennate prerogative".

L'immagine che si trae da questa lettera è quella di depositari debitori e per di più spesso nullatenenti quindi non in grado di offrire precise garanzie alla comunità in caso di mancata esazione. Ed è proprio su questo che si appuntano le inquietudini degli ignoti latori e cioè "sul dato certo che (questi depositari i soldi esatti) se li mangeranno come appunto han fatto in passato restando intanto i debiti sui possidenti, senza speranza di rivalersene contro di essi che detratti i debiti, che hanno con l'istessa comunità e i suoi frutti non han più verun capitale"13. Ecco quindi che questa lettera rende chiaro come la corruzione e

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l'inefficienza del sistema fiscale finisse poi col ricadere sulla popolazione costretta a sobbarcarsi debiti non propri. Ma all'origine di queste disfunzioni c'è il fatto che particolari categorie di cittadini siano praticamente esenti dal pagare le imposte grazie proprio a brogli e connivenze nei quali è facile immaginare che siano implicati anche gli esattori corrotti ed essi stessi debitori insolventi. Quest'ipotesi trova del resto conferma anche in una denuncia che gli "zelanti" inviano alla Sacra Congregazione il 14 agosto 1790. Scrivono gli zelanti che la città è continuamente "molestata" dai suoi creditori con mandati di vario tipo. E questo accade non perché le entrate non siano sufficienti, ma perché il denaro riscosso è male amministrato e perché non si costringono con metodi adeguati i debitori ad ottemperare ai pagamenti dovuti.

In una sua lettera del 1795, poi, l'economo di Civita Castellana (abbiamo già visto che era stato accusato di aver favorito la nomina di un debitore alla carica di depositario) nel difendersi da quelle accuse scrive che è molto difficile imporre le regole della buona economia a Civita Castellana quando, vi è una gran massa di debitori di cui una parte non vuol pagare né chiedere dilazioni, e l'altra parte, pur avendo ottenuto le dilazioni, non le rispetta e non paga le rate prescritte. Egli quindi invita la Sacra Congregazione a dare ordini chiari al segretario o al governatore perché prendano dei provvedimenti contro i debitori. Se il problema dei debitori comunitativi grava pesantemente sulle finanze cittadine, a peggiorare ancora la situazione ne interviene un altro: quello dei censi assunti dalla comunità in maniera copiosa.

L'assunzione di censi, cioè l'accensione di prestiti sui quali chi li assumeva si impegnava a pagare degli interessi (chiamati frutti di censo), era vista come l'unico modo che la comunità aveva per far fronte ai cospicui debiti accumulati. Ben lo mostra il testo di una richiesta presentata in tal senso dalla comunità alla Sacra Congregazione nel maggio del 1792.

Nella richiesta si fa presente che Civita Castellana non è in grado di far fronte ad un vecchio debito con il tesoriere provinciale, né ad alcuni pesi camerali, e neppure ad una tassa sulle strade; si chiede quindi di poter contrarre nuovi censi per

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una somma di 1.500 scudi.14 È così che la comunità viene condotta ad assumere in tutto 29 censi verso opere pie e nobili feudatari romani, come risulta da alcune ricevute inviate alla Sacra Congregazione dall'economo nel corso del 1790.15 Leggendo poi le carte del bilancio relativo al 1811 si viene a sapere che la comunità ha assunto censi per il valore complessivo di 41.106,91 scudi, gli interessi annui da pagare su questa cifra ammontano da soli a 1.141,54,3 scudi ai quali bisogna aggiungere gli interessi arretrati e non pagati ammontanti a 3.508,64,2 scudi.16 Ma come in un gioco di scatole cinesi le disfunzioni finanziarie nascondono al loro interno un altro problema: quello della corruzione della classe dirigente. Si è già parlato dei debitori nominati depositari, ma oltre che tra i depositari, i debitori erano la maggioranza anche tra magistrati e consiglieri. Lo dice bene il testo di una lettera inviata alla Sacra Congregazione nel febbraio del 1794. Scrivono i latori della lettera:

"I cittadini e Consiglieri di Civita Castellana (... ) con tutto rispetto espongono, che in essa città più non si conoscono gli ordini e le regole di cotesta Sacra Congregazione osservate, e rispettate in tutto lo Stato Pontificio, poiché i debitori Communitativi si ammettono francamente a tutte le cariche pubbliche, ed anche alle Magistrature, e pare anzi per esser ammessi, e per esercitarle, che sia un requisito di aver debiti con la Communità, motivo per cui i cittadini, e Consiglieri che non sono debitori, si veggono tenuti indietro, ed obbligati a desiderare, ed anche stimolati a contrar debiti con la Communità (... ) da qual abuso derivano gli gran sconcerti di questa povera Communità".

Quindi essi chiedono che non si ammettano più debitori comunitativi alle cariche pubbliche ed alle magistrature. E pregano la Sacra Congregazione di far pressioni in tal senso presso il governatore. Questi, Giovanni Santucci, chiamato in causa, si difende con una motivazione sconcertante e al tempo stesso significativa di un clima generale presente in città. In una sua lettera di chiarificazione egli infatti ammette che molti debitori sono ammessi alle cariche pubbliche, ma dichiara di non aver finora preso provvedimenti per non voler apparire "un

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novatore sulla condotta tenuta in questo articolo dai miei antecessori".17

Questo documento, seppur indirettamente, ci dà l'idea di quanto fosse radicato l'abuso. tanto da far apparire in qualche modo sovversivi i tentativi "novatori" rispetto all'ordine costituito. E questo nonostante gli amministratori locali godessero di una tale cattiva nomea che nel 1789, quando in seguito alla morte per "mal francese" del governatore spariscono dalla casa comunale suppellettili, mobili, letti e gli stipiti in pietra dei portali, i sospetti si appuntano tutti su di loro. I termini un po' paradossali di questa vicenda risultano da una denuncia inviata alla Sacra Congregazione a nome del popolo di Civita Castellana nell'aprile 1789. I latori scrivono che degli oggetti scomparsi non si sa se siano stati venduti o meno, né chi abbia autorizzato tale vendita e ritratto gli eventuali guadagni. Il vescovo, chiamato a por fine a voci e illazioni, precisa in una sua nota che i mobili e le suppellettili furono bruciati secondo gli ordini della Sacra Consulta della Sanità onde evitare rischi di contagio. Per quanto attiene agli stipiti, questi sono ora in possesso del depositario, insieme ad alcune piastrelle, a titolo di rimborso per lavori da lui fatti eseguire nella casa del governatore. Episodi come questo ed altri sopra citati, presumibilmente il frutto di semplici invidie e piccole vendette da parte degli esclusi nei confronti di chi è arrivato ad una posizione ambita, non vanno però sottovalutati o ridotti a semplici liti di cortile. Il loro numero e la quantità di soprusi in essi denunciati sono infatti il sintomo di un malessere più profondo che ormai lede le fondamenta della vita comunitativa. Quella che si ha di fronte è una situazione in cui lo smarrirsi di una coscienza per la cosa pubblica ha dato via libera allo scatenarsi di opposti e ciechi egoismi. E non importa se il bottino delle lotte sia costituito da un ambito posto di magistrato o da un materasso e una poltrona. Ecco quindi una lettera anonima fedele testimone di tutti gli stereotipi, che l'immaginario collettivo attribuiva agli amministratori cittadini. Il suo testo dice bene quanto fosse scossa e instabile la credibilità degli organi istituzionali comunitativi:

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"Il Popolo di Civita Castellana umilmente espone essersi dall'odierno governatore dato il possesso alli nuovi conservatori: Francesco Giovannoli, Pietro Paolo Midossi, Marciano Buttarelli: Soggetti tutti pieni di eccezzione non valutata (... ) Il primo Franc. Giovannoli oltre l'esser stato estratto con frode e irregolarmente, senza la presenza del Magistrato (... ) si aggiunga che niente, o poco possidente, mentre li pochi beni che ha sono dotali della sua defunta Moglie, e di poco senno, che comunemente si nomina per matto. Deve ancora restituire alla Communità li matarazzi: quali nell'occasione di esser stato mutato il Governatore furtivamente portò via (... ) Inoltre dal Pubblico Palazzo nello stesso modo portò via due sedie per commodo di sua casa. Più volte ma inutilmente è stato richiesto dalli magistrati successivi a restituire questa roba (... ) Ma sempre invano; a cui si aggiunga esservi pendente la lite colla comunità stessa sopra la introduzione di bestiame estero fraudolentemente fatto in suo nome. Marciano Butarelli Molinaro di Professione altro conservatore oltre la sua quasi decrepita età non possiede altro, che una soma di debiti, e viene sovvenuto, e ricettato dal Sacerdote Cioni. Esso ne giorni precedenti al Possesso della nuova carica fu carcerato ad Istanza de suoi creditori, che furono quietati, acciò dalle pubbliche carceri potesse passare alla Magistratura, ed a sua liberazione concorsero le preghiere di tutti li bettolanti atteso il quotidiano pregiudizio, che riceveva lo spaccio del vino per la di lui mancanza. Si aggiunga essere debitore della comunità con averne patito diverse esecuzioni ancor pendenti. L'altro finalmente Pietro Paolo Midossi nella Possessione di beni non è niente superiore. Non ha alcuna abilità, si mantiene colle sovvenzioni, che riceve dal proprio figlio (... ) e dal Fratello Curato. Ambedue frequentano continuamente le Bettole anche assieme con pubblico Famiglio obbligandolo dalla di loro superiorità a pagargli che bere, come pubblicamente se ne lagna".18

Ma se queste che abbiamo considerato erano le grottesche espressioni di un malessere che aveva le sue origini in una classe politica ormai elevatasi a casta con potere di scelta e di veto su qualsiasi intromissione esterna, se l'effetto che ne derivava era

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l'assurgere alle cariche più alte di personaggi poco credibili ed incompetenti, se l'unica critica che riusciva a farsi sentire era quella degli esclusi dai giochi di potere, i problemi non si fermavano alla soglia degli interessi occulti: le inefficienze finivano col riversarsi sulla popolazione costretta a pagare in prima persona i risultati delle malversazioni e del malgoverno. La posta in gioco, infatti, non era costituita solo dagli ambiti incarichi di consigliere o di magistrato cittadino. Interessi molto più concreti si nascondevano dietro le lotte per l'accaparramento di una di queste cariche: quelli economici legati alle gare d'appalto. I ruoli amministrativi venivano così generalmente considerati un mezzo per controllare le gare e dirigerle nel senso voluto. A quell'epoca, infatti, la comunità aveva il monopolio di molti generi e servizi pubblici che, anziché esercitare direttamente, usava dare in appalto. Venivano così concesse in appalto la vendita dei generi alimentari quali pane, carne, olio, castagne e dei generi detti di pizzicheria.19 Come in affitto venivano dati i mulini comunitativi dove si macinavano grano ed olive e si potevano lavorare le vernici. Un'altra attività che a Civita Castellana era d'uso concedere in appalto era il diritto esclusivo di pescare nel Treja, un fiume che scorre nei pressi dell'abitato cittadino.

L'appalto era generalmente conferito per asta pubblica e, proprio intorno alle aste si scatenavano gli interessi di concorrenti ed amministratori corrotti. E gli echi di queste lotte terminavano regolarmente davanti al tribunale del Buon Governo con accuse di brogli e connivenze. E non c'era gara d'appalto che non venisse sfiorata da queste accuse.

Tra i tanti episodi che si potrebbero citare se n'è scelto uno relativo al forno del pan venale, sia per la completezza della documentazione che lo riguarda, sia per l'importanza del genere che era alla base dell'alimentazione. Il materiale a cui si fa riferimento è una denuncia anonima presentata al Buon Governo nel 1789 il cui testo recita così: "la domenica scadente si venne furtivamente alla delibera del Pubblico Forno del Pan venale senza aver fatto precedere le solite notificazioni, e bannimenti per la città, e molto meno nell'atto della delibera secondo il solito (... ) ma maliziosamente dalla fenestra del Pubblico

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Palazzo, ove è solito il Balivo, senza la solita Tromba, ma a sola voce pubblicò - chi vol attendere all'appalto delle bandite e Castagneria venga adesso adesso, che s'accenderà la candela - fatta occultare la pubblicazione del Provento del Forno (... ) comparve a bella posta un'offerta data dal Governatore senza nome sù della quale fu accesa la candela senza che nessuno sapesse il bannimento di detto forno. Vi era però persona che a bella posta, e con intesa fu fatto intervenire solo. Tutto in pregiudizio della Communità, e Popolo O. re". I latori della lettera, oltre a descrivere il modo fraudolento in cui era avvenuta la gara d'appalto, tengono anche ad evidenziare che se fossero intervenuti altri concorrenti si sarebbero ottenute migliori condizioni a favore della popolazione sia in relazione alla qualità che al peso del pane. Onde evitare poi nuove anomalie essi chiedono che a giudice della gara venga scelto un soggetto diverso dal governatore definito "parziale per l'oblatore che ha offerto".20

A confermare poi la frequenza con cui si ripetevano episodi del genere, l'anno successivo, a gara d'appalto avvenuta, di nuovo puntuali si presentano sospetti su eventuali irregolarità.

Questa volta è il concorrente escluso a presentare la protesta alla Sacra Congregazione sostenendo in un serrato confronto essere la sua offerta più valida di quella del vincitore. Infatti analizzando le proprie opzioni parallele mente a quelle del suo concorrente, certo Paradisi, e gli mostra come pur garantendo "lo sfamo della popolazione", le due offerte si equivalessero solo per il pane bianco. Non così per il pane bruno che, tiene a precisare il concorrente escluso, è quello di cui fa più uso la popolazione indigente dove egli, per lo stesso prezzo del Paradisi, "offriva" il pane ad un peso superiore: dieci once per tutto l'anno, contro le otto once per undici mesi, e nove per un mese promesse dal Paradisi. Ed anche per l'affitto del forno la propria offerta era solo apparentemente inferiore a quella del Paradisi. Infatti sebbene quest'ultimo si fosse impegnato a pagare un affitto annuo di 280 scudi contro i suoi 240, da questa cifra bisognava poi detrarre il guadagno delle "salte" che il suo concorrente si preparava ad intascare, come una sorta di premio, per aver superato sia la sua offerta che quelle degli altri

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concorrenti. In base a questo nuovo calcolo l'affitto del Paradisi si sarebbe ridotto dagli originari 280 scudi a soli 226.

I pubblici rappresentanti però, in una loro replica presentata nell'agosto del 1790, sostengono di aver preferito l'offerta di Paradisi per la migliore qualità del pane che egli si impegnava a produrre, a ciò incoraggiati anche dalla fame di "villoso e litigioso" che accompagnava il concorrente escluso. Le loro giustificazioni vengono però smentite da una lettera a nome del popolo di Civita Castellana del settembre 1790. I latori della lettera infatti, protestano perché Paradisi non ha mai panificato quel pane di "puro fiore" che si era impegnato a produrre, mentre a nulla erano serviti i ricorsi al governatore e al magistrato perché questi proteggevano il Paradisi.21

Questi documenti concorrono tutti insieme a dare l'immagine dei meccanismi mediante i quali venivano gestite le gare d'appalto: ingredienti essenziali erano la connivenza di amministratori consenzienti, quali i magistrati ed il governatore, la "protezione" di cui godevano alcuni partecipanti alle gare e piccoli sotterfugi. Ma soprattutto la fedeltà agli impegni presi che rendeva inutili le denuncie alla Sacra Congregazione ed impossibili i suoi interventi all'interno del terreno melmoso delle connivenze locali.

I sospetti relativi alle gare d'appalto non si limitano peraltro ai soli esercizi commerciali, ma riguardano anche i lavori pubblici. Questa situazione può essere meglio esemplificata mediante un ricorso presentato al cardinal Carandini, prefetto del Buon Governo, su presunte irregolarità nell'appalto dei lavori ad un ponte.

Il ponte era stato danneggiato durante le alluvioni che nell'autunno del 1789 avevano colpito Civita Castellana. I lavori però iniziano, dopo varie perizie, solo nel 1795 ed in quell'anno il capo mastro Vaselli presenta una sua denuncia. Egli in particolare dubita che i "communisti" si siano opposti ad una sua offerta per poter trarre illeciti guadagni da quei lavori. L'economo di Civita Castellana, però, respinge la protesta del Vaselli e dichiara che la sua proposta è stata giustamente rifiutata, sia perché voleva eseguire i lavori facendo riferimento ad una perizia che prevedeva costi eccessivi, sia perché

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pretendeva un'esorbitante anticipo di 300 scudi.22 Altro punto dolente dell'amministrazione cittadina è l'ufficio del segretario. In particolare nel corso del 1789 viene messa in discussione la persona del segretario Salvatore Sensini che, sostiene in una sua lettera alla Sacra Congregazione un anonimo latore, sarebbe stato nominato fraudolentemente a tale incarico e "Essendo garantito e protetto, regola tutto a suo capriccio". Secondo la denuncia l'abuso nasce dal fatto che, nonostante lo statuto cittadino proibisca ai nativi di Civita Castellana di esercitare tale incarico, egli benché nativo lo esercita ugualmente.

Inoltre, sempre contro le regole delle statuto, il Sensini cumula le due cariche di segretario e cancelliere del governatore, e nonostante tutto, da molti anni, le autorità cittadine mancano di organizzare concorsi per trovare un nuovo segretario.23 Il vescovo, interpellato sulla questione, scrive il 4 aprile 1789 ad un procuratore della Sacra Congregazione essere vero che il Sensini esercita tali cariche contrariamente alle leggi dello statuto cittadino, ma aggiunge : "Se bene o male, se va utile, o danno della communità, e Popolazione a me non costa". La nota del vescovo conferma anche i dati relativi alla mancata organizzazione di un concorso, nonostante si siano presentati molti concorrenti, uno dei quali si è anche rivolto a lui personalmente. Ma in conclusione De Dominicis non si sbilancia in una testimonianza negativa riguardo al Sensini: "io non ho cosa in contrario, seppur non potesse dirsi forse troppo condiscendente ai consiglieri, in gran parte debitori di grosse somme della communità, lo che senza meno in grave danno della popolazione, la quale a causa di tanti debitori, che da molti anni ritengono il pubblico denaro, rimane sempre più aggravata da nuove Tasse e Dazi oramai insopportabili". 24

La Sacra Congregazione, visto che la comunità non riesce ad organizzare un nuovo concorso, impone un segretario di sua nomina, tale Giandomenico Ciuccetti. Questi però diviene ben presto oggetto di dure critiche ed attacchi feroci tanto che viene esautorato dal suo incarico da parte del Consiglio Cittadino.

Ed i motivi della pervicace opposizione al nuovo segretario vengono spiegati dal governatore di Civita Castellana al monsignor Todeschi il 18 dicembre 1793: "Se Giandomenico

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Ciuccetti non si trovasse destinato a questa Communità in Segretario dall'Autorità Suprema di cotesta Sagra Congre. (... ) destinazione, che è stata da alcuni sempre riguardata con disgusto, come ledente il diritto de pubblici elettori, se qualche soggetto paesano non vivesse nella lusinga di occupare, come Tavola del di lui naufragio, siffatta nicchia, se il Ciucceti si fosse unito con gli empi usurpatori delle pubbliche sostanze, ed avesse contribuito dal suo canto alle sporchezze delle di loro Cabale, che sin ora son stati i mezzi del di loro ingrandimento, egli non avrebbe subita quella riprovazione, che nel consiglio generale dei 8 del corrente composto nella maggior parte da gente plebea, e venale, gli fu con massimo infame studio procurata".25 In questa sua lettera il governatore esemplifica in maniera chiara quel nesso tra particolarismo municipale e connivenza che è l'elemento preminente delle vicende della comunità di Civita Castellana. Nella lettera egli, infatti, evidenzia come le autorità locali rifiutino ipso facto la nomina del Ciuccetti solo perché voluta dalla Sacra Congregazione. Nomina che rischia di infrangere quel muro di estraneità e distacco che sempre la comunità era riuscita ad opporre al potere centrale. Per di più, continua il governatore, il nuovo segretario rifiuta di entrare nel gioco delle cabale e degli occulti interessi cittadini, motivo scatenante questo di una dura opposizione alla sua persona che si placa solo quando il Ciuccetti viene escluso dal suo incarico.

Il 17 dicembre è lo stesso Ciuccetti a chiarire così le ragioni del suo allontanamento in una lettera alla Sacra Congregazione: "Ho mancato di unirmi con taluno nel sagrificare l'interesse della communità, ed i Pubblici Proventi. Le recenti guerre sul proposito di questo Pubblico Forno, e delle pubbliche Bandite26 sono le cagioni delle di loro amarezze e per conseguenza della sud. mia esclusiva (... ) Ecco i miei delitti. Mio delitto ancora è il trovarmi in questa Segreteria postovi dalla Autorità della S. Congregazione. (Essendo) gelosi i vari consiglieri del proprio diritto di eleggere, han sempre riguardato con odio la destinazione mia, e l'han sempre riguardata come lesiva dei diritti pubblici. E non potendo reagire contro il prelodato Supremo Tribunale, han cercato di reagire contro di me".27

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Ciuccetti viene quindi confermato nel suo ufficio, ma solo temporaneamente, mentre le polemiche sul suo conto non si placano. In particolare nel 1794 viene presentata una denuncia contro di lui a nome dei soliti "zelanti". Gli zelanti scrivono che il suo comportamento non è più tollerabile e che il segretario "reca grave pregiudizio alla città ed al popolo aggravando in ogni modo chiunque le si presenti davanti per esempio approfittando del suo officio per esigere da diverse persone più del dovuto, cosa notoria in tutta la città".28 Ed al termine di questa complessa vicenda Giandomenico Ciuccetti viene definitivamente sospeso dal suo incarico, come risulta da una nota che nell'ottobre del 1794 la Sacra Congregazione invia a Civita Castellana per chiedere spiegazioni sulla sospensione del segretario avvenuta all'insaputa di magistrato e governatore.29 Ora dal confronto di questo caso con quello del segretario Sensini, voluto e protetto dalle istituzioni locali perché "cittadino" e perché condiscendente ai loro disegni si trae l'idea di una burocrazia sentita come mezzo e affare privato da parte degli amministratori locali. Essa diventa nelle loro mani uno strumento indispensabile a dar esecuzione ai loro progetti, ed a questo fine selezionata e protetta. Diviene naturale in questo contesto l'esautoramento del Ciucceti segretario voluto e nominato dal Buon Governo restio a partecipare agli interessi cittadini.

Nemmeno il Monte di Pietà ed il Monte Frumentario sono esenti dalla grave crisi che coinvolge l'amministrazione della comunità. Sui due istituti, che dovrebbero avere soprattutto funzione di aiuto e sovvenzione ai poveri, ma che sono anche centro di gestione e distribuzione di denaro e grano, ci provengono notizie a partire dal 1790. In quell'anno un anonimo riferisce con una sua lettera alla Sacra Congregazione che il Monte di Pietà e il Monte frumentario hanno quasi del tutto esaurito i loro capitali tra i molti debitori che "ritengono il grano" e si sono indebitamente appropriati dei depositi del Monte dei Pegni.30 E nel febbraio 1796 i membri del Consiglio Cittadino chiedono l'approvazione di una risoluzione consiliare che prevede un prestito di 50 scudi al Monte di Pietà al fine di alleviare le difficoltà della popolazione indigente che non trova

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più chi gli dia sussidi, nemmeno ora in prossimità delle feste di Pasqua, visto che il Monte ha esaurito tutti i suoi fondi.31 Di seguito a questo il Monte riceve un altro prestito in grano: lo documenta il testo di una lettera del giugno 1796 con la quale l'economo cittadino chiede, nell'avvicinarsi della stagione dei raccolti, il rimborso di questo come dell'altro prestito su riferito.32

Altre notizie riguardanti il Monte provengono da una visita che il vescovo fa nell'istituto nell'aprile 1795. Le circostanze e i risultati della visita confermano quanto già detto, dal momento che il vescovo riceve l'incarico di fare questa visita dalla Sacra Congregazione, proprio perché preoccupata dalle notizie che riguardavano lo stato dell'istituto. La Sacra Congregazione a sua volta era stata sollecitata dall'economo con una lettera del marzo 1795, in cui chiedeva che il vescovo, oltre che della visita al Monte del Pegni, fosse incaricato anche della Visita al Monte Frumentario, poiché questo istituto aveva ormai esaurito i suoi capitali a causa dei debitori che non restituivano i prestiti ricevuti.33

Di questa visita ci è rimasto un ampio resoconto, nel quale De Dominicis scrive di aver trovato il Monte di Pietà, istituito per dar sollievo ai poveri, in uno stato di profondo degrado. I pegni rimasti, dopo un grave furto nel 1770, sono pochissimi. Ma quello che più sconcerta il vescovo è che i pochi residui fondi vengano conservati nella più completa incuria, senza nessuna indicazione della loro provenienza.

Egli quindi, sentendosi in dovere di garantire una corretta amministrazione di quello che definisce il "Patrimonio dei Poveri", in primo luogo ordina ai "communisti", sui quali finora si era retta l'amministrazione del Monte, un esatto rendimento dei conti di tutti i precedenti amministratori. Alla fine De Dominicis riesce ad ottenere i sindacati dell'amministrazione di alcuni montisti, dai quali emerge che il Monte non è mai stato reintegrato del furto subito nel 1770, perché ancora non è stato portato a termine il processo intentato a tal proposito. Nei sindacati poi si riscontrano pesanti passivi da parte dei precedenti amministratori che hanno lasciato quasi vuote le casse. Il misero capitale rimasto nelle casse del Monte di Pietà è

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infatti di 21,13 scudi, del tutto insufficienti a realizzare i fini dell'istituto. Per questo il vescovo De Dominicis emana una serie di decreti riguardanti il Monte di Pietà e il Monte Frumentario, tesi ad assicurare una loro più efficiente amministrazione.34 Tra questi alcuni riguardano il montista e gli altri funzionari. Due sembrano particolarmente interessanti: con il primo il vescovo, onde evitare le lotte intestine tra laici ed ecclesiastici per l'accaparramento della carica di montista, ordina che l'elezione, sua e degli altri "officiali", avvenga nei termini prescritti. Altrimenti sia l'uno che gli altri verranno nominati ex officio dallo stesso vescovo. Ed in effetti proprio nel 1795 De Dominicis elegge alla carica di montista una persona di sua fiducia, l'ecclesiastico Don Antonio Paradisi, rompendo così la tradizione che vedeva ormai da anni l'istituto diretto da laici. E già questo attesta il clima di freddezza creatosi tra il vescovo e gli amministratori cittadini. De Dominicis vuole inoltre evitare il formarsi di quei legami clientelari che sono premessa fondamentale al diffondersi di corruzione e brogli molto spesso legati a gestioni troppo prolungate nel tempo. Quindi ordina che i nuovi amministratori non rimangano in carica per più di un anno. E vieta altresì l'inserimento nel bussolo dei montisiti di debitori od anche semplicemente di non "benestanti".35 Il vescovo poi emana una serie di provvedimenti di carattere tecnico che dovrebbero permettere al Monte di Pietà di reintegrarsi dei propri crediti. In particolare ordina che uno dei suoi massimi debitori, Ortensio Paglia, paghi in rate annuali il suo debito ed in primo luogo reintegri la cassa dei pegni della somma di scudi 191,51. Eguale provvedimento viene preso nei confronti del precedente montista chiamato a rifondere l'istituto del passivo del suo bilancio. Tutti gli altri debitori saranno chiamati a restituire i depositi mancanti di cui si sono indebitamente appropriati. Al fine poi di evitare il ripetersi di una situazione che ha portato l'istituto allo stato attuale di crisi e che è stata originata dal modo arbitrario con cui i precedenti amministratori avevano utilizzato i vari depositi ed elargito i prestiti, il vescovo chiede una maggiore accortezza e vieta il ripetersi di simili leggerezze.36

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Nel marzo del 1796, però, il Monte di Pietà viene implicato in un complesso affare. Un suo amministratore, certo Morelli, che aveva lasciato un pesante passivo in seguito alla dimissione del suo incarico, si trova coinvolto in una controversia con Giuseppe Federici che aveva versato un cospicuo deposito nelle casse dell'istituto ed ora non sa come reintegrarsene. Giuseppe Federici, prima si rivolge contro il Morelli, e poi contro la comunità sequestrando le rendite dei proventi comunitativi. Contemporaneamente il Federici va esigendo per la città partite di imposta di pertinenza dello stesso Morelli che alcuni anni prima era stato depositario rimanendo, anche in quel caso, debitore di una somma considerevole.

Questo è quanto scrive l'economo alla Sacra Congregazione per concludere che la comunità si ritrova con i proventi sotto sequestro ed impossibilitata ad affidare l'esazione delle imposte al nuovo depositario per cui non può pagare gli stipendi ai salariati, né supplire ai dazi camerali. Ed è in questi frangenti che l'economo chiede lumi al Buon Governo. Da Roma si risponde che non esiste alcuna legge che proibisca ai creditori della comunità di sequestrare le rendite dei proventi. Si suggerisce quindi di appellarsi direttamente al segretario del Buon Governo che potrà procedere alla rimozione del sequestro per ragioni politiche ed economiche. Ragioni che trovano la loro giustificazione nel fatto che non è possibile mettere in forse l'esigenza delle imposte, gli stipendi dei salariati e "la quiete del popolo" per una causa intercorrente tra la collettività ed un suo creditore. Questa nuova situazione, porta probabilmente a giudicare insufficienti le misure precedentemente prese e De Dominicis è costretto ad emanarne di nuove nell'aprile del 1796. In primo luogo egli compie una nuova ispezione nel Monte Frumentario che viene trovato in pessimo stato: i suoi capitali sono stati dispersi dai precedenti montisti che li hanno distribuiti in modo arbitrario e in assenza di qualsiasi garanzia, motivo per cui ora i destinatari di quei prestiti sono impossibilitati a qualsiasi restituzione. Il capitale rimasto è del tutto insufficiente a qualsiasi elargizione in favore dei poveri, e anche se sarebbe necessaria una completa reintegrazione da parte dei debitori, la stagione dei raccolti è stata talmente negativa da far ritenere

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impensabile qualsiasi restituzione del grano prestato negli anni precedenti. In queste circostanze al vescovo non resta altro che prendere dei provvedimenti pro tempore ordinando al rettore del Monte di non dare grano a chi sia già debitore, nemmeno in occasione delle due distribuzioni annuali che, generalmente, vengono fatte in favore dei poveri. Da questo provvedimento sono naturalmente esclusi coloro che si trovano in stato di vera indigenza. Quanto al rimborso degli antichi prestiti, verranno presi provvedimenti a tempo debito. Altre misure del vescovo sono rivolte ad assicurare una più corretta amministrazione dell'istituto: una vieta che d'ora in poi i capitali del Monte Frumentario e del Monte dei Pegni siano confusi, l'altra è una precisa minaccia di accusa di furto e di scomunica contro quei futuri amministratori che abbiano la tentazione di convogliare i depositi in grano nelle proprie tasche anziché nelle casse del Monte. Misura quest'ultima che può essere considerata una spia dell'uso alla mala amministrazione dei precedenti montisti e della coscienza che doveva essersene fatta De Dominicis.37

Per quanto riguarda il Monte dei Pegni poi de Dominicis dà, nel luglio 1796, l'ordine di vendere i vecchi pegni, a meno che i loro possessori non li reintegrino entro il termine di venti giorni. Qualora poi dalla vendita all'asta non si ricavasse per ogni singolo pegno il suo prezzo intero, si dovrà agire con la mano regia contro il debitore moroso o contro il montista che ha autorizzato il pegno. Provvedimento questo che da solo, dà l'idea di quanto si fossero deteriorati i rapporti all'interno della comunità e che allo stesso tempo dimostra un atteggiamento di caparbia resistenza da parte dei debitori morosi a reintegrare i propri pegni.38 Il vescovo prende anche delle serie misure tese a garantire una maggiore responsabilizzazione del montista. Infatti ordina che qualora questi effettui prestiti a proprio arbitrio e senza le dovute garanzie sia tenuto lui di persona a risarcire il Monte.39

Con un'altra iniziativa il vescovo si rivolge direttamente alla comunità nel tentativo di reperire i capitali necessari perché l'istituto possa adempiere alle proprie funzioni. Egli propone ai "comunisti" di stabilire una nuova regola per le gare d'appalto e cioè che all'interno di ogni singola "offerta" sia contenuta

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un'elargizione suppletiva, in quota fissa, a favore del Monte di Pietà. Dai "comunisti" arriva però una risposta negativa giustificata con il fatto che i guadagni derivanti dai proventi sono già piuttosto esigui, per cui i partecipanti alle gare d'appalto sarebbero indotti, da questa misura, a proporre offerte minori sugli affitti degli spacci pubblici. Si suggerisce piuttosto di imporre una tassa fissa su tutti i "Testatori" obbligandoli a lasciare ai Monti una certa somma come già accade per la mensa vescovile.

Comunque l'atteggiamento negativo espresso dagli amministratori locali non frena la determinazione del vescovo a fare in modo che i suoi provvedimenti non rimangano lettera morta. Lo dimostra il resoconto di una riunione della Congregazione Economica del Monte di Pietà tenuta nel corso del 1797. Tale congregazione era una sorta di organo di controllo dell'amministrazione dell'istituto composta da dieci laici e, in base ai nuovi provvedimenti vescovili del 1796, anche da due ecclesiastici. Ebbene, questo organismo, riunitosi il 27 agosto 1797, decide di autorizzare il montista a vendere i pegni vecchi di almeno 15 anni che non fossero stati reintegrati dai suoi possessori.40

Dal quadro sin qui esposto, risulta che Civita Castellana era governata da una classe dirigente inetta e corrotta con consiglieri speculatori, magistrati e segretari compiacenti, esattori insolventi e debitori, titolo, quest'ultimo, che sembrava peraltro essere diventato un requisito necessario e sufficiente per avere accesso a tutte le cariche pubbliche. L'esito di questo diffuso malgoverno finiva col ricadere sugli appalti degli spacci pubblici con un peggioramento della qualità e del prezzo della merce venduta, sugli appalti dei lavori pubblici con il lievitare dei prezzi ed anche su un istituto di primaria importanza quale il Monte di Pietà che non era più in grado di adempiere alla sua funzione principale, cioè quella di soccorso ai poveri.

E che dire allora della Congregazione Economica, quel supremo organo che avrebbe dovuto vigilare sugli atti di consiglieri e magistrati e porre eventualmente il suo veto?

I suoi stessi membri non godevano del prestigio e del buon nome dovuti al loro ruolo. Come si può dedurre dal testo

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dell'ennesima denuncia anonima contro due suoi membri, Paolo Petti e Gaetano Mazzoni, datata marzo 1795. I due vengono in realtà accusati di colpe minime, come aver concesso sussidi non previsti al medico, o non essersi occupati dell'affitto di un provento comunitativo.

Qualche mese dopo però, Paolo Petti è di nuovo oggetto di una denuncia anonima. La denuncia non si riferisce tanto a sue eventuali mancanze nell'esercizio di membro della Congregazione, quanto all'arroganza e alla prepotenza di cui si è reso protagonista approfittando dell'uso di questa carica. Egli per di più avrebbe preteso una remunerazione esorbitante per un lavoro preso in appalto: per questo e per altri motivi, quali l'essere un debitore pubblico, egli viene ritenuto indegno di qualsiasi carica ed ufficio e se ne chiede quindi la rimozione. Ma è un'altra denuncia inviata alla Sacra Congregazione a nome degli "zelanti", nel marzo del 1795, a mettere in pessima luce tutta la personalità del Petti. Recita il testo della lettera:

"Egli passò la sua gioventù parte da Frate Minore conventuale, parte vagando per il mondo (... ) parte nelle relazioni, e carceri, e parte nelle dissolutezze, che avendo avuta la sorte di succedere detto Petti doppo la morte di Fabbio di lui padre al commissariato della RC di Ancona cresce sempre più nella sua iniquità, ed abusatosi della somma di circa 30. 000 scudi in d. suo officio ristretto però nelle carceri Nuove di Roma, e si dovette dimettere con averle accordato una dilazione per non aver come poter soddisfare un tal debito, a cui tuttavia è soggetto. E lo stesso Petti ristretto altra volta nelle carceri della Terra Padronale di Campagnano per cospicuo debito ignominosamente (dovette) fare la cessione de beni (si aggiunga) che il ridetto Petti usurpò a detta Comunità di Civita Castellana somma considerabilissima (si aggiunga) che essendo governatore di d. città di Civita Castellana Gio. Batt. a Santucci a questi ben affetto il sud. Petti lo deputò sopra intendente al riattamento delli Pubblici Aquedotti, e della strada di Ponte Nuovo, quale riattamento fece si capricciosamente abusandosi della ristretta licenza (del prefetto del Buon Governo) e senza alcuna intelligenza de Magistrato e communisti con una spesa

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eccessiva ed esorbitante nonché inutile, poiché l'acque son torbide come prima, e la strada più dificoltosa".41

Pur ammettendo il carattere denigratorio della denuncia che, comunque trova ampi riscontri nella carcerazione del Petti e nel passivo da questi lasciato nei vari incarichi ricoperti, il dato che qui interessa è che ad essere messi in discussione siano due personaggi che ricoprono incarichi dall'importanza fondamentale al fine di assicurare una corretta amministrazione della città. Uno infatti è il Petti, membro della Congregazione Economica, quel supremo organo cioè che dovrebbe vigilare sulla correttezza ed onestà di consiglieri e magistrati; l'altro è il governatore Santucci, che avrebbe il compito di controllare gli amministratori locali per conto del Buon Governo.

Se neppure la Congregazione Economica si impegna a mettere ordine alla situazione, le residue speranze di una sferzata moralizzatrice vanno affidate al cosiddetto movimento degli "zelanti". Questi dal numero delle denuncie che inviano alla Sacra Congregazione, sembrano essersi costituiti come movimento fustigatore dei cattivi costumi in città. Ma nonostante i loro sforzi, gli "zelanti" rimangono inascoltati: i segretari corrotti, i magistrati debitori ed i governatori consenzienti rimangono al loro posto.

Ben altro effetto avrà su un sistema, che il Sala definiva imputridito, l'arrivo delle truppe francesi. Si è visto nel capitolo precedente come al loro arrivo tutto il sistema pontificio entri in crisi e come, passata la rivoluzione, prenda forma un progetto di riorganizzazione politica ed amministrativa su nuove basi morali che sembra portare una ventata di quella ricostruzione auspicata dal Sala.

C'è ora da chiedersi quale esito abbiano avuto quei tentativi riformatori che Sala auspicava e che Pio VII, insieme al cardinal Consalvi, tentò di realizzare. Sembra che questi tentativi a Civita Castellana non abbiano avuto molto seguito perché, passata l'emergenza rivoluzionaria, la tensione riformatrice va allentandosi, mentre riprende forma con i suoi vizi ed i suoi difetti il vecchio sistema amministrativo. Così nel marzo del 1807, gli "amanti del pubblico bene" parlano di nuovo di un corpo consiliare formato in gran parte da debitori comunitativi.

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In questa prospettiva la lotta intrapresa contro di loro dalla Sacra Congregazione, mediante il conferimento di uno speciale incarico a Francesco Petti Antonisi, assume un'importanza fondamentale. E lo stesso Petti sembra rendersene conto quando, nel chiedere l'esautoramento di un magistrato iscritto nella lista dei debitori comunitativi, scrive al Buon Governo nel 1807 :

"finché non ci sarà un ordine della Sacra Congregazione che vieti la ammissione alle cariche pubbliche dei debitori non si vedrà mai ordine nelle amministrazioni comunitative".

Il potere centrale si rende conto di quanto sia importante andare fino in fondo nella lotta ai debitori comunitativi se si vuole imporre un certo ordine nell'amministrazione cittadina. Così invia a Civita Castellana nel 1808 un proprio visitatore, Giovanni Rappaini, ma la sua visita viene bruscamente interrotta dal ritorno delle truppe francesi. Impossibilitato a continuare, Rappaini consegna un resoconto del lavoro già svolto alla magistratura cittadina. Ma i magistrati, vedendo che quel resoconto "feriva" i loro interessi e quelli dei propri parenti, non lo inviarono mai alla Sacra Congregazione, come avrebbero dovuto. Questo perlomeno è quanto insinua in una sua lettera alla Sacra Congregazione il governatore di Civita Castellana nel 1814, nello spiegare dopo la nuova cacciata dei francesi il motivo per cui quei resoconti, stilati nel 1808, vengono inviati al Buon Governo con tanto ritardo.

Nel 1815 la Sacra Congregazione invia di nuovo un proprio visitatore a Civita Castellana che, nel resoconto della sua visita, mette l'accento sugli stessi mali che da tempo affliggevano la comunità: la corruzione e l'incompetenza della classe amministrativa e, il male forse più grave, l'incapacità di rinnovarsi che emerge dal ciclico ripetersi degli stessi episodi. Il nome del nuovo visitatore è Luigi Del Frate ed il suo incarico nel 1815 non appare casuale, soprattutto se riferito a quello del 1801 dell'avvocato Buttaoni.

Anche questa volta, in occasione della seconda e definitiva restaurazione il Buon Governo invia a Civita Castellana un proprio visitatore con l'incarico di far luce sul modo con cui viene amministrata la comunità; la completezza e la minuziosità del resoconto di Del Frate invece, rispetto a quello del Buttaoni,

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fanno pensare ad una più energica azione del potere centrale. Dal resoconto di Del Frate, in particolare, risulta che ha visitato il palazzo comunale con la segreteria, gli acquedotti e le scuole pubbliche. Quanto al palazzo comunale scrive che è "ridotto in stato deplorabile e improprio a contenere le carte, libri ed altro di tanta gelosia giacché vi piove da ogni banda in maniera che infradicia le carte e tra la polvere in cui sono avvolte per la poca o niente custodia che se ne ha con un poco più di tempo vanno a ridursi quasi al niente (... ) In secondo luogo molte carte sono in mano altrui e quelle che vi sono stanno tutte alla rinfusa. È mancante perfino lo statuto di questa Commune".42

Quanto al segretario, viene da lui definito "ridotto in uno stato di imbecillità", quindi suggerisce di trovarne uno nuovo e di dargli un buon emolumento, onde evitare gli scompensi derivanti da paghe troppo basse. Accingendosi poi a controllare i sindacati relativi agli anni 1801-1803, Del Frate li trova molto in disordine ed in gran parte incompleti. Chiestane notizia al segretario, questi risponde che si trovano in casa di Francesco Petti Antonisi personaggio che, come abbiamo visto, aveva ricoperto molti incarichi pubblici. L'inviato pontificio quindi, dopo aver avvertito Petti di voler vedere quelle carte, si reca in casa sua. Ed è a questo punto che il suo racconto assume contorni grotteschi. Egli racconta che, una volta entrato in casa, Francesco Petti lo fece attendere in anticamera e "con somma fretta sortì dal suo studio ed immediatamente chiuse a chiave venendogli incontro (... ) lo fermò in mezzo di detta anticamera. Sapeva egli già ciò che andava a fare poiché dalla mattina stessa essendo stato dell'esponente gli aveva fatto la dimanda di alcune carte la nota delle quali gli avrebbe portato in sua casa il giorno e così pervenuto gli fa trovare sopra un tavolino di detta anticamera alcune delle medesime, ed ecco avverato in qualche parte che egli custodisce delle carte appartenenti alla Commune. Siccome poi non vi era dove porsi da sedere volendo egli far cosa grata riaprì il suo studio contiguo di d. anticamera e tirò fuori una delle poche sedie che nel medesimo vi aveva e gliela presentò. In tal contrattempo il Del Frate scorse cogli occhi nel medesimo studio e vide sistere (sic!) un non piccolo Archivio di carte e libri ben situati in tante scansie e che per la

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distanza in cui era non potè comprendere i titoli delle posizioni ivi contenute (... ) La prevenzione l'esibita di qualche carta ed una tal gelosia tutto dà motivo di fondato sospetto che egli possa avere quello che dal segretario non solo, ma dagli individui della Commune stessa si asserisce. Tanti irregolari atti vengono ad involvere maggiormente gl'interessi della Commune, motivo per cui si trova all'estremo danneggiata". E al termine del suo resoconto Del Frate si lascia andare ad un'appassionata considerazione:

"Ecco poi da dove derivano la Miscredenza e la Scostumatezza giunta tant'oltre a giorni nostri. Questi sono individui (gli amministratori cittadini) a cui basta soltanto il proprio interesse, profittare della dabbenaggine dei magistrati, quali si cercano di far regnare per dilapidare la povera Commune e spogliarla di tutto. Se potessero onde è che la Commune si trova in uno stato il più deplorabile".

Del Frate in questo suo resoconto si mostra estremamente lucido nel comprendere l'origine dei problemi della città, innanzitutto la corruzione dei suoi amministratori, e poi nell'individuare i rapporti di forza esistenti al suo interno con i magistrati che, si potrebbe dire, regnano ma non governano ed i consiglieri a tessere occultamente ed indisturbati le fila degli interessi privati.

In questa situazione egli non vede altra soluzione che porre la città sotto un'amministrazione speciale, da sottoporre essa stessa a controllo annuale per verificare eventuali mancanze da parte sua. Ed alla fine di questo capitolo la testimonianza di Del Frate assume un valore conclusivo. Se finora l'inettitudine, la corruzione, il malgoverno tanto diffusi in città erano stati documentati soprattutto da denuncie anonime, ora è un inviato del Buon Governo a parlare. Il suo giudizio è quello di un funzionario governativo, di una persona al di sopra delle parti e non il risultato di attacchi dal carattere personale rivolti ora contro questo, ora contro l'altro amministratore. È un giudizio morale quello che egli esprime, ed è nel tramonto dei fondamentali valori etici nella "miscredenza" e nella "scostumatezza" della classe politica che egli vede le ragioni dell'odierno decadimento della città.

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Capitolo III

La decadenza dei valori religiosi

Si è parlato nel capitolo precedente del disfacimento delle

strutture amministrative della comunità come conseguenza dei mali del sistema pontificio: l'inettitudine e la corruzione di una classe dirigente incapace di rinnovarsi, nonché i disordini finanziari. Ma già l'inviato pontificio, Luigi del Frate, pensava che queste fossero solo le manifestazioni di un malessere più profondo che era invece di natura morale. Questo giudizio trova riscontro anche in alcune osservazioni di Vittorio Emanuele Giuntella. Egli ritiene che per cogliere la vera origine della crisi del sistema pontificio sia necessario andare oltre le sue espressioni più esteriori ed appariscenti che sono il dissesto economico e l'inettitudine degli amministratori. E scrive:

"Non si potrà comprendere (... ) la decadenza settecentesca del Papato se non nel quadro di una crisi più vasta che è di natura religiosa: è lo scadimento dell'impegno religioso che influisce sul disfacimento dello Stato. Perciò i contemporanei più sensibili affermano con chiarezza che la riforma più urgente non è quella dello Stato, ma quella della Chiesa".1

In proposito egli parla di un ceto ecclesiastico eccessivamente compromesso con il mondo e descrive: il lusso di cui si circondano alcuni cardinali, le molte preoccupazioni per avanzamenti di carriera, le poche vocazioni sincere, la povertà della formazione spirituale e l'inadeguatezza del clero di fronte alle esigenze pastorali fondamentali. Questo ceto ecclesiastico a Civita Castellana è a dire il vero numeroso ed attivo. Abbiamo già visto che per sette anni, dal 1795 al 1802, il Monte di Pietà è diretto da un ecclesiastico, Don Antonio Paradisi. Il chierico Sensini, che ci è apparso tanto contestato nel capitolo precedente, per molti anni svolge la funzione di segretario

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comunitativo. L'economo nominato nel 1794, Pietro Forretti, è un abate. Sono quasi esclusivamente ecclesiastici coloro che compilano le sentenze sindacatorie.

Non bisogna poi dimenticare la presenza stabile di due esponenti del clero alle sedute consiliari nelle quali essi portano il peso di tutto il "partito ecclesiastico". Un esempio nella seduta del 26 gennaio 1802, convocata per decidere tra privativa e libero commercio delle carni, quando il deputato ecclesiastico Giovanni Morelli, sostenendo la tesi del libero commercio, precisa di farlo a nome di tutto il clero cittadino. Questo difatti il giorno prima, nella sagrestia della cattedrale, aveva votato compatto per la stessa tesi.

Dai resoconti delle visite pastorali, che coinvolgevano il vescovo in ispezioni alle varie chiese ed opere pie, il territorio risulta diviso in quattro parrocchie; di molto maggiore era però il numero delle chiese. Oltre alla cattedrale, capolavoro dei Cosmati, a Civita Castellana si concentravano altre diciotto chiese, il monastero di Santa Chiara ed un seminario che si dedicava all'educazione dei giovani e dei chierici.

Dalla lettura dell'elenco dei "nomina ecclesiasticorum" redatto in occasione della seconda visita pastorale di De Dominicis, si rileva che a Civita Castellana, oltre ai curati delle diverse parrocchie, operavano diciotto canonici, otto presbiteri e tredici chierici. Per non contare i dieci "assenti" che pur appartenendo al clero cittadino sono altrove al momento della visita di De Dominicis intrapresa nel 1790.2

Questo ceto ecclesiastico però, pur così numeroso ed attivo, come già detto, non gode del rispetto e del prestigio dovuti al suo ruolo. Ciò anche perché sono tante le vicende poco edificanti nelle quali si trova coinvolto. Queste sono documentate da una serie variegata di fonti: la corrispondenza di De Dominicis, gli editti da lui emanati per correggere i costumi del clero e i "criminalia", cioè gli atti dei procedimenti giudiziari svoltisi davanti al vicario generale per reati minori.

Tra i "criminalia", un caso particolarmente inquietante riguarda i racconti erotici di un gruppo composto per lo più da chierici e sacerdoti.3 Le prime notizie riguardanti il fatto risalgono all'aprile 1796, quando davanti al vicario generale si

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presenta Pio Ciancarini per querelare i due sacerdoti Sante Pasquetti e Clemente Colonnesi, alcuni chierici e due laici tutti rei di aver formato una cricca che aveva infamato con le sue dicerie molte donne della città ed in particolare la moglie Rosa.

Ciancarini racconta che i membri della cricca erano soliti riunirsi nella sartoria di uno di loro, un certo Selli. Il chierico Laimberger a cui era stato dato l'incarico di "Balivo", cioè un tuttofare, con l'accensione di una candela dava inizio ad una sorta di rito segreto consistente nel mettere all'asta le donne del paese. Il "Balivo" le nominava ad una ad una ed ognuno dei membri del circolo, presa in mano la candela, raccontava le avventure a sfondo erotico avute con la donna. A conclusione del rito la signora in questione veniva dichiarata "meretrice" o "donna pubblica".

Il racconto del Ciancarini trova piena conferma in molte altre testimonianze raccolte dal vicario generale: Angelo Cicuti il 21 aprile racconta come l'esistenza di questa congrega sia un fatto che "si è ormai reso pubblico e notorio in questa città, e chiunque l'ha sentito si è scandalizzato fortemente molto più che vi sono intervenuti, e vi hanno interloquito li detti due sacerdoti D. Sante Pasquetti e D. Clemente Colonnesi".

Una volta accertata l'esistenza della congrega il vicario generale vuole andare più a fondo, indagando in particolare sulla posizione dei due sacerdoti. A tal proposito il Cicuti interrogato risponde:

"veramente secondo me, e secondo anche l'oppinione di molti li detti due sacerdoti Pasquetti e Colonnesi si portano poco bene poiché essi invece di dare il buon esempio all'altri danno motivo ed occasione di scandalo come hanno fatto con detto conseglio, ed in altre occasione, tanto che si suol dire che vestano solamente da sacerdoti, ed i loro costumi sono affatto diversi".

Così attestando Angelo Cicuti, oltre a confermare l'esistenza della cricca, testimonia anche il comportamento degenerato dei due sacerdoti non addicendosi al ruolo che essi ricoprono. In città poi è divenuto luogo comune dire che i due sono sacerdoti ormai solo di nome. Alla luce di queste parole diventa difficile credere agli accusati quando tentano di ridurre la questione ad un fatto episodico, ad uno scherzo tra amici. Il chierico Domenico

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Rosa, interrogato dal vicario generale, definisce il caso in cui è stato coinvolto "una ragazzata da me con altri miei compagni fatta nella bottega di Antonio Selli sartore". Queste difese, a giudicare dalla sicurezza con cui sono condotte, danno l'idea dell'assenza di dubbi o ripensamenti sul proprio ruolo. Il sacerdote Clemente Colonnesi, quando il vicario generale gli chiede se ritenga o meno di essere incorso nelle pene stabilite dai canoni, dalle costituzioni sinodali o da altre leggi, risponde:

"Io dico e rispondo di non essere incorso in pena alcuna perché (il racconto relativo a Rosa Ciancarini) fu fatto ciarlando e per ridere solamente".

L'atteggiamento degli accusati del resto trova buon gioco nel clima di assuefazione alle "sordide" storie di sacerdoti beoni e libertini e, allo scandalo da esse provocato. Tutto avviene tra l'indifferenza generale, anche quella di un ceto ecclesiastico che evita di denunciare, come dovrebbe, il fatto alle autorità competenti. Solo Pio Ciancarini presenta querela contro i membri della congrega, ma non tanto perché colpito nella sua sensibilità etica e religiosa, quanto perché esasperato dal fatto che l'oggetto preferito dei racconti inquisiti fosse proprio la moglie, a causa probabilmente di un vecchio contenzioso con il sacerdote Clemente Colonnesi.

Del resto la chiara dimostrazione del prosperare di certi comportamenti la si trova nell'assenza di qualsiasi serio provvedimento disciplinare nei confronti degli accusati. Fa eccezione l'ordine di "tenere la propria casa come carcere" durante il processo.

Ma c'è anche chi denuncia tali comportamenti devianti. Lo si deduce dalla corrispondenza del vescovo, dove è compresa una lettera che il 4 aprile 1805 il curato della cattedrale, Don Antonio Cicuti, invia al vescovo per informarlo del comportamento scorretto di un suddiacono, tale Gregorio Minio, che da tempo conduce una relazione con una donna sposata, incurante dell'ammonizione del vescovo e di un antecedente richiamo dello stesso Cicuti. Anzi, precisa il curato, tali interventi "hanno fatto sì che con maggior frequenza abbia frequentato una tale scandalosa amicizia, posponendo gli obblighi del proprio Stato con tralasciare ispessissimo il coro,

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la scuola (e) essendosi reso su di ciò audace in guisa, che è giunto persino a far portare a detta donna la sedia nella cattedrale dai chierici inservienti allorché interveniva". Il curato Cicuti, non potendo più tollerare la situazione, fa ricorso anche al vicario generale. La denuncia, però, giunge all'orecchio di un amico del suddiacono che, ovviamente ne viene informato. E, continua il curato:

"ciò fu bastante acciò il Suddiacono Minio mi aspettasse la mattina, allorché andavo a celebrare la S. Messa, e con aria minaccevole con termini impropri fortemente m'insultasse (... ) nella pubblica piazza della cattedrale".4

Il comportamento del suddiacono sembra in qualche modo riflettere quello dei sacerdoti precedentemente inquisiti. Anzi il Minio nel bel mezzo di una funzione in cattedrale arriva ad ostentare la sua relazione con la donna facendole porgere una sedia non appena entrata in chiesa. Anche la donna non è da meno, quasi che il fatto di avere una relazione adulterina con un uomo di chiesa, non sia in contrasto col partecipare alle funzioni religiose.

Ma al di là di questi comportamenti, che corrispondono a vere e proprie violazioni di precetti di vita sacerdotale, sono anche frequenti i casi in cui gli ecclesiastici si trovano coinvolti in risse, litigi ed altri episodi del genere che, per il loro numero e frequenza stanno a denotare un generale scadimento dei costumi.

Un episodio, ad esempio, è estratto dai "criminalia", dove è classificato come un procedimento per vita poco ferrea. Nel 1809 coinvolge proprio quel curato Antonio Cicuti che pochi anni prima aveva denunciato il comportamento scorretto di un suddiacono.5 Si tratta di una querela presentata contro di lui da Luigi Morelli, esattore delle imposte, che dichiara di essere stato insultato e preso a male parole dal curato con l'accusa di essere un ladro pubblico e di aver avvelenato tre persone al fine di trarre indebiti guadagni dalle loro eredità.

La denuncia di Luigi Morelli trova conferma in molte testimonianze raccolte dal vicario generale. In particolare Gregorio Minio, divenuto sacerdote, chiarisce come il motivo di tanta acrimonia del curato nei confronti di Luigi Morelli sia un mandato di mano regia. L'ex suddiacono, adesso testimone

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d'accusa, precisa che la violenta reazione del Cicuti non si scatenò tanto di fronte al rischio che il mandato colpisse i beni che aveva in casa, quanto di fronte alla minaccia di pignoramento su un suo piccolo calesse. Fu allora che il curato iniziò ad inveire contro l'esattore, lanciandogli accuse infamanti. Il curato poi, non contento degli insulti lanciati contro Luigi Morelli se la prende con tutta la sua famiglia. Come documenta la testimonianza resa davanti al vicario generale dal fratello di Luigi, l'arciprete Giovanni Morelli, l'8 febbraio 1809. Egli così racconta lo spiacevole incontro avuto con il curato la sera prima verso la mezzanotte:

"si presentò (... ) colle mani alli fianchi, e faciendo come suol dirsi la cianchetta e con occhio torvo e minaccioso in aria di uomo sopraffatto dal vino e dalla collera, che va per occidere un suo nimico".

Alla fine, continua Giovanni Morelli, la cosa finì bene, ma solo grazie al suo sangue freddo e alla sua pazienza, visto che non era la prima volta che riceveva insulti e minacce da Antonio Cicuti. Infatti, continua nel suo racconto l'arciprete Morelli:

"nel dì appresso il 31 decembre pochi momenti prima che io finissi un discorso in ringraziamento del felice compimento dell'anno nella cattedrale, egli essendo entrato in chiesa egli fece la seguente espressione cioè - andiamo a sentire questo cane barbone - (... ) il giorno dell'ottava delli SS. Patroni ild. Curato ebbe il coraggio di farmi il solito complimento condirmi che mi teneva sotto la sola delle scarpe senza aver riguardo al luogo Santo cioè in Sagrestia, e agl'abiti che tenevo indosso".

Ma il caso del Cicuti (sacerdote aduso alle scenate e che, a sentire la testimonianza dell'arciprete Morelli, non disdegnerebbe i piaceri conviviali del "divino Bacco") non è un caso isolato. È proprio il frequente ripetersi di episodi simili ad assumere maggiore rilevanza e a dare l'idea di un malcostume diffuso tra gli ecclesiastici. Sempre dai "criminalia" risulta che nel 1805 il chierico Matteo Schioppetti partecipa alla rissa dei suoi genitori e fratelli contro una zia vedova stabilitasi temporaneamente presso di loro. Nell'agosto del 1815 il chierico laico Silvestro Rezzoli viene accusato dal suo padrone di casa di disturbi agli altri condomini anche a notte inoltrata.

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Altri testimoni raccontano che spesso viene sentito profferir bestemmie ed ha fama di ladro. Infine, sembra che sua moglie abbia una relazione con un sacerdote. Ancora nell'ottobre del 1815 il canonico Saverio de Carolis viene accusato di aver utilizzato metodi non proprio ortodossi nel tentativo di ricondurre a casa la moglie del fratello Egidio. E la diffusione di questi comportamenti è palpabile in una serie di editti che il vescovo di Civita Castellana, Lorenzo de Dominicis, emana in occasione delle sue visite pastorali per la diocesi.

Dalla lettura di questi editti, siglati come "volti a correggere i costumi del clero", emerge la figura di un vescovo sensibile a quelle correnti di rinnovamento spirituale che operavano in Roma nel corso del Settecento e che ritenevano essenziale una riforma interna della chiesa attraverso un ritorno ai valori delle origini, quelli evangelici, con la riaffemazione della missione spirituale della chiesa compromessa dagli impegni mondani.6

Un richiamo piuttosto chiaro ai valori originari presenti nei vangeli è contenuto in un editto emanato nel 1792, con cui De Dominicis ammonisce le religiose del Monastero di Santa Chiara al rispetto del voto di povertà.7 Egli, nel richiamare le religiose ad un precetto tanto importante (ricordiamo che il monastero apparteneva all'ordine dei francescani) scrive di ritenere "che uno de principali impedimenti al profitto spirituale delle Religiose nei Monasteri alla nostra Pastoral cura affidati (... ) proviene dalle spese, che son costrette a fare le Monache particolari in occasione dei loro offici, dal che provengono molte inquietudini, e disordini, che direttamente si oppongono all'osservanza delle Regole, con pregiudizio anche de voto di Povertà". Il vescovo quindi, "anche per quiete delle di loro coscienze, e per liberarsi ( le suore ) dalli continui scrupoli, che insorgono, e dalle sollecitudini, e distrazioni che ne provengono a danno dell'Orazione, e culto di Dio, e della osservanza dell SS Regole, e specialmente della S. Povertà, alla quale devono attendere in adempimento degli obblighi dello Stato di Perfezione a cui sono incamminate", vieta loro di fare qualsiasi spesa a titolo di donativo od altro in occasione degli offici religiosi. Anzi, qualsiasi spesa debba farsi per la celebrazione di questi offici, dovrà essere fatta con le rendite del monastero e

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senza contrarre debiti. Ed al fine di evitare il minimo sperpero dispone che i vitalizi assegnati a ciascuna religiosa siano depositati nelle casse del monastero a disposizione della madre superiora. Questa li assegnerà a colei a cui sono stati destinati limitatamente alle sue necessità religiose, mentre il resto resterà nelle casse comuni.

Ma è soprattutto in occasione della sua terza visita pastorale, intrapresa l'8 dicembre 1792, che Lorenzo De Dominicis emana una serie composita di editti volti ad inculcare una nuova sensibilità etica al clero cittadino. Questa sua volontà si concreta in un editto dal titolo «Ordini e Provvisioni per il Capitolo e Clero di Civita Castellana».8 In esso sono contenute una serie di norme di carattere disciplinare volte ad ottenere una maggiore morigeratezza nei costumi degli ecclesiastici. In primo luogo nell'editto trova piena conferma il generale malcostume diffusosi tra gli ecclesiastici, quando il vescovo scrive di aver dovuto sentire, ed anche osservato direttamente, che alcuni di loro "si arbitrano di andare per la città il giorno dopo pranzo, e talvolta anche la mattina con abiti di colore, quali sono loro espressamente proibiti dai Sagri Canoni, e dal Sinodo Diocesano".

In proposito De Dominicis ordina che gli ecclesiastici facciano uso esclusivamente dell'abito nero lungo, nel corso della mattinata "specialmente per andare a celebrare le messa", e corto durante il giorno. Ed inoltre, "avendo l'ecclesiastici nell'iscriversi alla Sagra Milizia rinunciato alle vanità secolaresche, dovranno ben guardarsi dal far uso di certi fibbioni a simiglianza di quelli che portano le persone secolari, anche più vili, come anche dall'attillatura di chiome, e dalle incipriature di esse troppo indecenti al di lor grado, e specialmente alli sacerdoti nel celebrare la S. Messa".

Anche a Roma, da lungo tempo, si stava conducendo una lotta in tal senso. Giuntella ricorda quella contro l'uso della parrucca ed il caso di un cardinale che osò presentarsi con questo orpello in testa alla cerimonia del Corpus Domini e ne fu fatto allontanare da papa Benedetto XIII.9

Continuando nell'esame degli editti di De Dominicis, ne risulta come questi abbia saputo che alcuni membri del clero

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cittadino "si facciano lecito alle volte di dare il braccio alle donne di notte od anche di giorno con avvilimento del proprio carattere (... ) che altri si trattengano nel pubblico caffè, ed altre botteghe (... ) con ammirazione de secolari (... ), dell'abuso introdottosi di andare a bevere vino ne luoghi pubblici".

Per questi comportamenti egli minaccia pene pecuniarie, e, per l'abuso nel bere, la sospensione a divinis di tre giorni. Ma la compromissione con il mondo, non riguarda soltanto l'acquisizione dei vizi e degli eccessi del tempo; essa porta spesso gli ecclesiastici a privilegiare gli impegni temporali rispetto a quelli religiosi. Scrive infatti il vescovo, di aver "più volte dovuto sentire" che gli ecclesiastici sono distratti nei loro doveri pastorali da incombenze burocratiche, quali quelle relative alla cancelleria civile e criminale a cui competeva rogare gli atti concernenti gli interessi della comunità. Ritenendo che questa possa essere una cosa "atta a cagionare loro amarezze disgusto, ed anche dissezioni (sic!)", egli proibisce di fare alcun attestato alle parti in causa senza la dovuta licenza scritta, rilasciata da lui o dal vicario generale.

Il ceto ecclesiastico, dal tenore di questi documenti, sembra composto da individui in cui la compromissione con le questioni temporali e mondane abbia totalmente svilito l'impegno pastorale ed umanitario propri del ruolo sacerdotale.

Vittorio Emanuele Giuntella individua le ragioni dello scadimento del ruolo ecclesiastico nell'avvio al sacerdozio senza una vera vocazione, nella scarsa formazione religiosa, come nella inadeguata preparazione culturale e morale. De Dominicis con la sua sensibilità e le sue prescrizioni pastorali ci mostra il rilievo che avevano queste problematiche e specialmente l'importanza di quelle concernenti l'educazione religiosa. Si veda, per esempio, l'editto da lui emanato il 12 luglio 1794 per favorire una maggiore frequenza della dottrina da parte dei più giovani.10 Il vescovo, avendo sentito con "rincrescimento" che la dottrina è poco frequentata, al fine di convincere anche i genitori più negligenti all'adempimento "di un dovere così senziale verso de loro figli" come quello di mandarli a scuola di dottrina, reintroduce alcune norme che prevedevano una multa di 10 baiocchi per ogni assenza dei ragazzi.

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Ed a spiegare l'essenzialità di una buona istruzione religiosa De Dominicis ammonisce che: "ognuno deve restar persuaso della ragionevolezza di questo nostro ordine, poiché dalla mancanza di istruzione delle cose necessarie a sapersi della nostra Religione provengono la maggior parte de peccati, ed altri disordini".

Un richiamo all'intendimento del vangelo e della dottrina cristiana, come del catechismo, non manca neppure nell'editto precedentemente citato sotto il titolo di «Ordini e Provvisioni per il Capitolo e Clero di Civita Castellana». In esso il vescovo ordina che i bambini prima di essere ammessi alla prima comunione, e così pure gli sposi prima del matrimonio, vengano esaminati da alcuni suoi "deputati", per accertare che abbiano conseguito una preparazione adeguata al sacramento a cui si stanno accostando.

Con questa serie di provvedimenti De Dominicis sembra convinto che solo il recupero dei valori religiosi fondamentali, mediante un'adeguata istruzione, renda possibile una vera riforma religiosa. Quanto all'effetto sortito da tali disposizioni il vescovo se ne dichiara soddisfatto in un'editto del 1802, dove si trova scritto che quello del 1794 «Ordini e Provvisioni» ha dato buoni risultati. Nello stesso tempo, però, egli registra la diffusione di nuovi comportamenti emendabili, come quello di giocare d'azzardo, ed emana nuove norme di carattere disciplinare. Indagare più approfonditamente per vedere se le sue iniziative abbiano alla lunga portato i frutti sperati, è reso difficile anche dalla scarsa presenza di documentazione relativa al periodo imperiale.

Ma certo dal numero di risse e litigi in cui gli ecclesiastici vengono coinvolti nel 1815, non si direbbe che gli editti del vescovo abbiano avuto effetti risolutivi o determinanti. Vista l'importanza che De Dominicis attribuisce all'istruzione religiosa, non sorprende la sua attenzione nei confronti del seminario, che egli stesso era stato costretto a far chiudere nel 1789, due anni dopo essere stato nominato vescovo. Ferma restò in lui però l'intenzione di riaprirlo al più presto, vista la sua importanza, come già detto, per l'educazione dei giovani e dei

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chierici. Questo è quello che De Dominicis scrive in una notificazione per la sua riapertura, datata 6 giugno 1792.11

Il medesimo documento ci dà poi una traccia di quello che sarà il futuro dell'istituto. Questo verrà riaperto il primo novembre 1792 e le spese relative al suo mantenimento saranno sostenute da tutta la diocesi con una tassa detta "del seminario". Inoltre l'istituto potrà contare sulle rette degli studenti: 36 scudi annui per gli alunni diocesani e 40 per gli altri. Le materie oggetto di studio saranno: teologia, umanità, retorica, prima e seconda scuola di grammatica, canto. È anche prevista l'introduzione dello studio della legge civile e canonica.

Le altre notizie riguardanti il seminario provengono dai libri "d'entrata ed esito", cioè dai libri contabili dell'istituto con annotate tutte le spese e gli introiti.12 Si tratta di materiale ricco di dati e cifre, ma povero di notizie di vita vissuta. Dai fogli d'entrata del 1789, comunque, si evidenzia la difficile situazione economica in cui versava il seminario e che costrinse il vescovo prima ad elargire in suo favore 50 scudi e poi a chiuderlo.

L'anno successivo l'istituto conta solo tre studenti contro i 14 del 1789. Nei fogli d'esito del 1792, invece, sono segnate le spese per il restauro dell'edificio in vista della sua prossima riapertura. Le stanze vengono imbiancate e rimesse a nuovo, gli acquedotti del cortile vengono rinnovati contemporaneamente all'esecuzione di molti altri lavori di ristrutturazione. Nelle note di spesa tornano a comparire tutte le voci più minute: la legna ed il carbone per l'inverno come la carne, il vino ed il pane, o le crostatine ed i "gallinacci" per il Natale: tutti generi destinati al vitto degli studenti. Il numero dei seminaristi riprende a farsi consistente: se ne contano 20 nel 1793, e 26 l'anno successivo. Le entrate economiche del seminario risultano provenire in primo luogo dalle rette degli studenti e poi dalla nuova tassa voluta dal vescovo che ammonta a circa 120 scudi annui per tutta la diocesi.

Altre fonti di reddito provengono dal capitale investito in "luoghi dei Monti" grazie al quale l'istituto percepisce interessi di circa 60 scudi l'anno.13 Il seminario può inoltre contare sulle rendite della chiesa del Carmine i cui beni sono in comune e su

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quelle della chiesa del SS. Sacramento di Vallerano e di San Leonardo di Borghetto, una frazione di Civita Castellana.

Tra le varie opere pie la confraternita del Santissimo Sacramento di Civita Castellana partecipa al mantenimento del seminario con un contributo annuo, mentre l'ospedale di San Giovanni di Caprarola, paese nei pressi di Civita Castellana, sovvenziona due studenti pagando loro la metà della retta.

Se il 1792 segna l'anno della rinascita per questo istituto, il biennio 1798-1799 segna l'inizio di una profonda crisi determinata dagli eventi di guerra. Nel 1798 le entrate si assottigliano a 13 scudi, che provengono dalla vendita delle canape (con queste si produceva il lino), dall'olio, o almeno da quello che, come si legge nei libri contabili, non è stato "derrubato nella venuta de francesi".

Altrettanto esigue sono le uscite limitate a dieci scudi spesi per la macinatura delle olive e per la benedizione del Sabato Santo. Scompaiono dai "libri d'entrata" le rette degli studenti, da quelli " d'esito" le spese per il vitto e l'alloggio, così pure le remunerazioni per gli insegnanti. La crisi dura fino al 1813, e si può presumere che nel frattempo il seminario resti probabilmente chiuso e sopravviva grazie alle rendite delle chiese del SS. Crocifisso di Vallerano e di San Leonardo in Borghetto, ma soprattutto grazie ad una serie di beni accorpati al seminario, che rendono ogni anno delle entrate in affitti.

Nei fogli contabili delle uscite si rinvengono però, per l'anno 1812, una serie di spese di ristrutturazione. In particolare vengono riedificati l'appartamento del rettore, la cappella, il refettorio, mentre il portone principale e la cucina ricevono i lavori necessari ad essere ridestinati al loro scopo: il che prelude ad una prossima riapertura.

Nel 1813, infatti, benché manchino notificazioni ufficiali ad attestare l'avvenuta riapertura, il seminario risulta frequentato da 17 studenti. Ognuno all'atto d'ingresso paga una retta di tredici scudi e cinquanta baiocchi per tre mesi anticipati. L'introito complessivo tra il 1813 e il 1815 è di scudi 897,20.

Insieme alle rette degli studenti tornano a figurare le spese per gli alimenti e l'emolumento per il rettore, mentre viene introdotta una figura nuova, quella del prefetto, carica di chiara matrice

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francese e che i francesi avevano adottato ispirandosi a loro volta al mondo romano. Mancano invece nelle annotazioni dei libri contabili le gratifiche per gli insegnanti.

Un aspetto più marcatamente formalistico l'azione del vescovo lo mostra negli editti dedicati al coro della cattedrale, con un incalzare di richiami e di moniti rivolti ai canonici "che si sbrigano troppo, che non rispondono, che ciarlano e si assentano dal coro senza motivo". L'insistenza sull'officiatura delle funzioni religiose nella cattedrale potrebbe anche sorprendere in una personalità come quella di De Dominicis tutta tesa ad un recupero morale ed interiore del ceto ecclesiastico. Essa è però significativa dell'importanza che il fasto e la teatralità delle cerimonie religiose assumevano nel corso del Settecento.

Vittorio Emanuele Giuntella, in particolare, descrive l'importanza delle cerimonie religiose nel costume e nella sensibilità di questo secolo. E racconta come nelle basiliche fossero famosi i canti spettacolari, le grandi cerimonie a cui partecipavano il clero e le confraternite tra il suono di campane e gli squilli di tromba e il modo in cui abitanti di Roma e forestieri vi accorressero come a degli spettacoli di intrattenimento mondano.14

A Civita Castellana particolarmente sentiti erano il carnevale, la festa dei patroni e la peregrinazione primaverile nella chiesa della Madonna delle Piagge, poco fuori dal centro abitato, a cui la popolazione era particolarmente devota. In occasione del carnevale, che ha radici antichissime nel territorio falisco, venivano organizzati all'interno del centro abitato passatempi e giochi proibiti nel resto dell'anno, come si può leggere anche negli statuti comunali.15

Negli ultimi tre giorni della festa il camerlengo dava il via a gare d'abilità e prestanza fisica come la corsa dell'anello o il tiro a bersaglio con la balestra. I festeggiamenti proseguivano poi con balli organizzati nelle case dei privati a cui partecipavano in molti, non esclusi gli uomini di chiesa, a cui però non era concesso ballare. La festa aveva anche risvolti religiosi: infatti in quest'occasione avveniva "l'esposizione delle quaranta ore", una cerimonia durante la quale erano esposti grandi ceri e

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suppellettili nella chiesa cattedrale con la partecipazione di tutte le confraternite. Tra il 16 ed il 18 settembre veniva invece celebrata la festa dei patroni, i martiri Marciano e Giovanni, con la novena, l'ostensione delle reliquie nella cattedrale e una solenne processione per la città.

Significativa nella vita religiosa popolare era la presenza delle confraternite. Vittorio Emanuele Giuntella nel descrivere quanto fosse importante per il romano del Settecento questa forma di esperienza religiosa racconta come vi si entrasse da adolescenti per passarvi tutta la vita, e come i legami continuassero anche dopo la morte con l'accompagnamento alla sepoltura, che spesso avveniva in un luogo situato nella chiesa della confraternita.

Giuntella ravvisa l'elemento più interessante di questa esperienza nella comunanza tra poveri e benestanti, tra colti ed analfabeti. Nello stesso tempo però riconosce che questi benefici effetti non riuscivano a compensare la carenza di una formazione religiosa troppo spesso sommaria e basata su aspetti esteriori. Al contrario un frutto positivo di questa esperienza egli lo individua nell'esercizio della carità a favore dei poveri.16

A Civita Castellana erano presenti cinque confraternite: quella del SS. Rosario, quella del SS. Salvatore, la confraternita di San Giovanni e Marciano e la confraternita della Buona Morte, tutte legate alla chiesa cattedrale. La confraternita di San Giovanni Decollato, invece, aveva come punto di riferimento la chiesa omonima e l'omonimo ospedale cittadino. Essa, al contrario delle altre, anteponeva ai fini di culto le opere di carità quali l'assistenza ai poveri, malati e carcerati.

Le uniche notizie riguardanti le confraternite provengono dai libri contabili conservati nell'Archivio Diocesano: si tratta quindi di un materiale scarno, contabile, privo di riferimenti alla vita spirituale che animava queste associazioni. Le confraternite con prevalenti finalità di culto, si dedicavano per lo più alla celebrazione dei santi o dei sacramenti a cui erano dedicate. La devozione contemplava l'addobbo della chiesa e della cappella con particolari paramenti e l'esposizione della "macchina" ornata di immagini sacre. La loro attività però non si limitava alla celebrazione di una particolare festività. La confraternita del SS.

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Rosario, ad esempio, aveva l'obbligo di fornire cera per le processioni della prima domenica del mese e di far celebrare cinque messe in occasione di particolari festività: l'Assunzione, la Purificazione, la Natività, l'Annunciazione ed un'altra da stabilirsi.

Per far fronte a tutte queste incombenze i confratelli potevano contare su diverse entrate provenienti da beni stabili, "luoghi dei Monti", contribuzioni comunitative e le abituali questue annue che avvenivano o in chiesa o per la città. La confraternita di San Giovanni e Marciano dedita alla celebrazione dei due Santi Patroni, ad esempio, ricavava la gran parte dei propri utili dalle quattro questue effettuate per la città; la confraternita del SS Rosario, invece, usufruiva dell'affitto di alcuni beni stabili e di un capitale investito in "luoghi dei Monti". I membri della confraternita del SS Rosario organizzavano, inoltre, due questue l'anno per la città: una la prima domenica dell'Avvento, e l'altra la terza domenica di Quaresima.

Notizie più precise si potrebbero ricavare dagli statuti, ma l'unico pervenuto sino a noi è quello della confraternita del Santissimo Salvatore, della quale si viene così a sapere che dopo essersi estinta negli anni, fu ricostituita nel 1768 dagli agricoltori di Civita Castellana. In quella data gli adepti erano in tutto 26 e tra i loro compiti si distingueva in particolare quello di celebrare la festa dell'Assunzione, il 15 agosto, esponendo nella chiesa cattedrale la "macchina", accompagnando poi il congegno in una solenne processione per la città.

I confratelli da parte loro dovevano intervenire muniti di un grande cero. Per l'organizzazione di questa festa, ogni anno, veniva estratto a sorte colui che sarebbe stato "il signore della festa" dell'anno successivo, con compiti organizzativi e di nomina degli altri "officiali", come il signore pro tempore ed il depositario pro tempore. L'elezione di entrambi gli ufficiali era legata alla particolare origine sociale dei suoi fondatori: il depositario pro tempore doveva infatti raccogliere ogni anno dagli altri confratelli un certo quantitativo di grano per solennizzare la festa. Al signore pro tempore, invece, competeva far pressione presso i "communisti" perché venissero deputati ogni anno i soliti guardiani per la custodia dei seminati. In

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questo modo la confraternita si ergeva anche a gruppo di pressione sociale presso gli amministratori cittadini che erano chiamati a precisi impegni nei suoi confronti e quindi anche nei confronti di tutti gli agricoltori di Civita Castellana. La solidarietà tra i confratelli era molto stretta e continuava anche dopo la morte. Al momento della dipartita di uno di loro, infatti, tutti gli altri erano tenuti a fargli celebrare una messa ciascuno.

Anche le entrate economiche dell'istituto erano collegate alla sua particolare matrice sociale. Infatti, passando dallo Statuto alla lettura dei libri contabili si rileva che la maggior parte delle entrate provenivano dall'affitto della "guardia dei grani". Oltre a questo, a partire dal 1795, il Consiglio Comunale decise di accordargli una contribuzione di dieci scudi annui a cui si aggiungevano i frutti della questua effettuata di anno in anno per la città.17

Un caso diverso è quello della confraternita della Buona Morte, nata non dalla volontà di un gruppo unito da comuni intenti, ma da una donazione. Questo dato lo si ricava dalla lettura dell'inventario dei beni della compagnia, consistenti soprattutto in censi donati da un certo Onofrio Pedroni, il quale sottopose la donazione ed i suoi benefici all'impegno dei confratelli all'esposizione del Santissimo Sacramento della Buona Morte. Il dato viene confermato dalla lettura dei libri contabili dove si può vedere che le entrate provengono quasi totalmente dai frutti di censo e che uno dei compiti preminenti della compagnia era quello dell'esposizione del SS Sacramento. I confratelli però, si dedicavano anche ad opere di carità relative ai servizi funebri. Infatti a partire dal 1797 iniziano a figurare tra le entrate contributi per questi servizi. La confraternita forniva in prestito la coltre per la cerimonia di sepoltura al prezzo di uno scudo per i poveri e di tre per gli altri.

Il carattere di opera caritativa di quest'attività è confermato dal fatto che la maggior parte di coloro che si rivolgevano alla compagnia per i servizi funebri appartenevano alle classi meno abbienti, dal momento che nei libri d'entrata raramente figurano persone che abbiano pagato i tre scudi.

Non veniva però trascurata la celebrazione dei Santi Patroni e l'esposizione di carnevale, come detto, quella "delle quaranta

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ore". In questa occasione i confratelli provvedevano di ceri sia la propria cappella che quella del Sacramento.18

Diversa rispetto alle altre è la confraternita di San Giovanni Decollato che, come abbiamo già visto, svolge prevalentemente pratiche caritative. I suoi beni sono un tutt'uno con quelli dell'ospedale di San Giovanni Decollato. Proprio per questo è possibile trarre notizie relative alla compagnia dalle carte del bilancio comunale del 1811 (redatto in periodo imperiale sotto le autorità francesi) relative all'ospedale e conservate nell'Archivio di Stato di Roma.19

Queste carte rivelano come l'ospedale fosse stato fondato in seguito ad una donazione. La donazione, però, era sottoposta a particolari obblighi: fare una processione il Venerdì Santo, adempiere a diversi legati ed in particolare a svolgere opere di carità a favore di poveri e di ammalati. Ai confratelli, competeva anche l'amministrazione dell'ospedale, non potendola esercitare direttamente essi nominavano ogni anno un amministratore che poi sottoponevano a sindacato. L'opera di controllo sull'amministrazione di questo istituto di vitale importanza per la città era poi completata anche da una visita del vescovo che avveniva ogni tre anni.

Tornando alla lettura dei libri di bilancio si vedrà che la compagnia, in comune con l'ospedale, godeva di una serie piuttosto cospicua di affitti per stanze, stalle, cantine, terreni, vigne, case da cui provenivano gran parte delle entrate. Questi dati del resto trovano piena conferma nella lettura di un inventario redatto nell'aprile del 1811, dove i singoli beni si trovano annotati con precisa meticolosità e distinti per categoria.

Altre entrate però provengono dalla vendita dei panni per i defunti e dal diritto di trattenere i pochi denari trovati in loro possesso. Esisteva poi un contratto particolare con la Reverenda Camera Apostolica (che si occupava della direzione economica delle carceri di Civita Castellana), secondo il quale alla confraternita venivano rimborsate le spese per l'affitto di lenzuola e materassi a favore dei carcerati.

Anche gli impegni legati al culto erano coerenti con le particolari finalità della compagnia. Questi si concretizzavano nella raccolta delle regalie per la celebrazione del Sabato Santo e

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nell'elargizione di elemosine in favore dei poveri in occasione del Natale e del Carnevale. In coincidenza di tutte le feste, poi, i confratelli distribuivano ciambelle di grano. Ma sono soprattutto i libri d'esito a mostrare in maniera omogenea l'opera caritativa svolta dalla compagnia. Le entrate venivano infatti devolute all'amministrazione dell'ospedale, al vitto per gli ammalati, agli stipendi degli ospedalieri e all'acquisto di medicinali, a cui comunque non mancava di contribuire anche la comunità.

Un'altra opera caritativa in cui si impegnava la confraternita era quella della sepoltura dei defunti. In particolare questi dati emergono dai libri contabili dove compaiono spesso introiti derivanti dalla concessione "dei panni dei morti" ai prigionieri delle carceri di Civita Castellana, ed anche dai panni venduti ai "particolari".

Si è detto finora che le fonti a nostra disposizione non ci permettono di esaminare la vita religiosa che animava le confraternite, ciò a causa della qualità del materiale. Tuttavia queste stesse fonti denotano un certo andamento ciclico della vita e delle attività delle confraternite coincidente con gli eventi di guerra che per ben due volte sconvolsero il trentennio qui analizzato.

Si assiste ad un progressivo rallentamento dell'attività nel biennio 1798-99 e ad una successiva ripresa nel 1801. Poi di nuovo un affievolirsi delle attività a partire dal 1807 fino al 1814, in corrispondenza del periodo imperiale, laddove alle tradizionali feste religiose, viene contrapposta quella per la celebrazione dell'incoronazione di Napoleone. Per fare un esempio, l'introito della confraternita del SS Rosario varia dal 1798 al 1800: in quest'ultimo anno raggiunge la punta minima.

Più tranquillo sembra il periodo imperiale durante il quale non si rilevano drastiche riduzioni di bilancio. La confraternita della Buona Morte sembra invece proseguire normalmente la propria attività nel periodo repubblicano e risentire una più drastica riduzione delle entrate nel periodo imperiale. Ma forse il fatto è collegato all'alta mortalità che la comunità registrò nel biennio rivoluzionario. La confraternita su cui si hanno più notizie, però, è quella del Santissimo Salvatore. Questa sembra risentire della pesante inflazione che nel biennio repubblicano

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interessò tutto lo Stato Pontificio. La comunità, che era solita elargire in suo favore una contribuzione annua di dieci scudi, la eroga inquell'anno sotto forma di cedola. Questa purtroppo non rappresenta una corrente forma di pagamento per il mercante della cera.

Ma un'altra controversia con l'amministratore dell'istituto aveva avuto origine l'anno prima, quando questi non aveva utilizzato una cedola che in seguito alla demonetizzazione, avvenuta nel giugno del 1798, "gli è rimasta in mano". In realtà, si legge nei libri d'esito, il valore di scambio delle cedole era di molto inferiore a quello nominalmente stabilito per legge. Gli eventi della guerra finiscono con l'avere pesanti effetti anche sulla vita religiosa della città a causa del contenzioso che opponeva la chiesa alle nuove autorità rivoluzionarie.

Per quanto risulta dai dati in nostro possesso sembra che questo contenzioso abbia permeato la vita delle confraternite oltre che del seminario. In particolare nei libri contabili della confraternita del Santissimo Salvatore si legge che nel 1798 venne effettuata una sola questua, e a livello "privato" invece che "pubblico". Il che può far supporre due cose: o che le attività religiose, ed in particolare quelle dei confratelli, si svolgessero in un clima di quasi "clandestinità", o più semplicemente che le nuove autorità francesi tollerassero la continuazione delle normali attività religiose anche se non in maniera aperta.

Nel 1799, poi, mentre "la città era occupata da perfidi legionari ed era circondata dalli insorgenti" la comunità non elargì a favore della confraternita del Santissimo Salvatore la solita contribuzione di dieci scudi. E nel 1800 "non fu fatta la solita questua per non inquietare il popolo che era nell'estremo di ogni miseria". Ma la comunità pagò lo stesso i soliti 10 scudi.

Ma le vicende della guerra incidono anche sulla vita religiosa della città e sull'attività più propriamente religiosa delle confreternite. La celebrazione della festa dell'Assunzione da parte della confraternita del Santissimo Salvatore avviene ad esempio in tono minore negli anni che vanno dal 1795 al 1800.

Nel 1799 la confraternita non paga al capitolo la solita messa cantata per il giorno dell'Assunzione, e la celebrazione di quel 15 agosto si riduce all'esposizione della macchina con la poca

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cera avanzata dall'anno precedente. In più non viene nemmeno addobbata la chiesa. Lo stesso accade nel 1800, periodo "di massima confusione di governi", quando viene restaurato il governo pontificio: evidentemente si risentono ancora i riflessi del periodo repubblicano.

Nel 1801 però la situazione va normalizzandosi. I confratelli tornano tranquillamente ad effettuare le solite due questue per la città, mentre la comunità riprende ad elargire regolarmente le solite contribuzioni a favore delle opere pie. Gli stessi problemi si fanno sentire, anche se in maniera meno cruenta, durante il periodo imperiale, in particolare negli anni dal 1811 al 1813, quando le elargizioni della comunità avvengono in franchi e sembrano di minore entità. Inoltre si ha l'impressione di una mano più morbida usata dai francesi e di una loro maggiore tolleranza nei confronti delle diverse forme di espressione religiosa. Ciò, nonostante le imposte celebrazioni per l'incoronazione di sua maestà l'imperatore Napoleone.

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Capitolo IV

La vita nella città

Nel suo «Viaggio in Italia» J. W. Goethe ci tramanda

quest'immagine di Civita Castellana raccolta il 28 ottobre 1786: "la città è costruita su tufo vulcanico, nel quale m'è parso di

ravvisare cenere, pomice e frammenti di lava. Bellissima la vista dal castello: il monte Soratte, una massa calcarea che probabilmente fa parte della catena appenninica, si erge solitario e pittoresco. Le zone vulcaniche sono molto più basse degli Appennini, e solo i corsi d'acqua, scorrendo impetuosi, le hanno incise creando rilievi e dirupi in forme stupendamente plastiche, roccioni a precipizio e un paesaggio tutto discontinuità e fratture".1

Ma dall'altra parte di questo stupendo scenario c'è la realtà di una città di vicoli ed acqua marcia, come ce la descrive l'inviato pontificio Luigi del Frate nel luglio del 1815:

"La piazza principale è una vera conca per la incuria di mantenerla e nell'inverno specialmente vi rimane fissamente un deposito di acquitrinio fangoso che i carri (... ) la scansano e che oltre l'essere impratticabile produce ancora (per gli abitanti) un'aria insalubre al loro proprio individuo (... ) Gli acquedotti sono nella masima parte rovinati e scoperti tanto che l'acqua che getta dalla fontana pubblica con cui s'alimentano i cittadini non è che perpetuamente torbida. E più esservi l'incuria massima degl'individui che non curano la loro propria salute con pascersi di un'acqua che quando è nel perfettissimo suo chiaro non è meno che del colore di un'acqua limonata".2

Questa relazione, per la sua ampiezza e per il momento in cui viene compilata, nell'estate del 1815, assume un significato centrale nell'ambito della nuova e definitiva restaurazione che il

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potere pontificio sta attuando dopo la fine dell'Impero Napoleonico.

È lo stesso Luigi del Frate, a scrivere di essersi recato a Civita Castellana su incarico del Buon Governo con il compito di "visitare" i vari istituti della città come le scuole, le macine comunali, il palazzo del Comune e alcuni terreni di proprietà comunitativa. Delle scuole pubbliche riferisce che sono del tutto trascurate dagli amministratori cittadini e che mancano di maestri capaci ed abili che sappiano insegnare agli alunni "i doveri dell'uomo catolicus e Sociale da cui dipende l'utilità al bene pubblico".

Anche i mulini comunitativi, che dovevano servire alla macinatura di grano ed olive, vengono trovati in stato di completo abbandono. Questi costituivano uno di quegli esercizi di "prerogativa pubblica" che la comunità preferiva affittare, anziché esercitare direttamente. Ma lo stato di degrado in cui sono ridotti ne rende impossibile il funzionamento ed aleatorio l'affitto. Infatti scrive del Frate:

"Le mole sono in un deperimento tale e specialmente quella di Ponte di Treja (un fiume che scorre poco fuori dell'abitato) la più cospicua, e la più utile agl'interessi della Commune che ha bisogno di un sollecito riparo se non vuol perdersi il profitto che dà la medesima oltre che si anderà incontro ad una molto maggiore spesa (per) riattarla".

Il visitatore pontificio, poi, si sofferma su una caso particolare: quello dei terreni comunitativi ceduti al Comune da alcuni debitori comunitativi ad estinzione dei propri debiti. E scrive:

"I terreni presi dalla Comune in solutum dai (... ) debitori sopra cui la stessa Commune vi paga i dazi, sono affatto dimenticati, non avendo mai procurato di ritrarre alcun vantaggio e che essendo stati così inoperosi per tanti anni si sono ancora resi di peggior condizione di quando furono presi".

Il palazzo comunale, sede del governatore e della segreteria, dove probabilmente si tenevano le sedute consiliari, viene descritto come "ridotto in stato deplorabile ed improprio a contenere le carte, libri ed altro di tanta gelosia, giacché vi piove da ogni (parte) in maniera che infradicia le carte e tra la

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polvere in cui sono avvolte per la poca o niente custodia che se ne ha con un poco più di tempo vanno a ridursi quasi al niente". E quanto alle strade cittadine l'inviato pontificio si limita a dire che sono "al pari bisognose di Rifacimento".

Passando ora dal quadro generale alla considerazione dei singoli aspetti della vita cittadina, diciamo subito che non si terrà conto di preoccupazioni di carattere cronologico e questo per due ordini di motivi: il primo perché qui interessa una descrizione per vie generali della comunità, per cui il fatto che la fonte si riferisca al 1790 o al 1815 riveste un'importanza secondaria rispetto alla situazione di cui essa è testimone; il secondo è per l'estrema frammentarietà del materiale a nostra disposizione e questo perché le fonti non fanno tanto riferimento alla vita della comunità quanto al rapporto cittadino-potere.

Si tratta di relazioni di governatori o visitatori pontifici al Buon Governo, dispacci o repliche degli amministratori cittadini, suppliche rivolte dai privati alla Sacra Congregazione. Da tutto ciò solo indirettamente potranno trarsi notizie sulle attività economiche o sulla vita materiale. È stato quindi necessario ripercorrere quei materiali cogliendo un diverso rapporto rispetto a fonti documentali già utilizzate in maniera diretta, ma nelle quali il dato ulteriore che adesso interessa non è più legato al fine principale per cui quel documento è stato creato, ma a tutto un insieme di notizie secondarie che pur da quel documento si possono trarre.

Realtà contadine Accingendoci quindi a descrivere i singoli aspetti della vita

nella città, pare giusto iniziare dalla realtà contadina, principale fonte di lavoro e di reddito per la popolazione. Ben lo mostra il testo di una lettera del governatore, datata marzo 1801, nella quale egli giustifica una sua richiesta di sgravio fiscale a favore della comunità con la devastazione dei terreni e le razzie di bestiame subite nel periodo repubblicano.

E a chiarire quanto questo sia stato pregiudizievole per la popolazione, il governatore spiega che tolti gli introiti derivanti

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dalla coltivazione e dall'allevamento "altre entrate non sussistono".3

Questa realtà agricola, prevalente nel Lazio e in tutto lo Stato Pontificio, era caratterizzata da una diffusa arretratezza. Il Candeloro nel descriverla parla di una netta predominanza della grande proprietà immobiliare ed ecclesiastica coltivata per lo più estensivamente a grano o tenuta a pascolo.

Solo in alcune zone collinose poco estese avevano trovato sviluppo la cultura della vite, dell'olivo o degli alberi da frutto. I proprietari inoltre tralasciavano per lo più di occuparsi delle proprie terre, preferendo affittarle ai mercanti di campagna che, a loro volta, le sfruttavano più spesso a grano, il resto a pascolo. I terreni rendevano lauti guadagni ai mercanti di campagna, grazie e ai ricavati dei subaffitti e al basso costo della manodopera. Per questo non c'era alcun interesse a sostenere spese d'investimento come quelle necessarie di bonifica.

Diversa, scrive il Candeloro, era la situazione in alcune zone del Viterbese e dei Castelli romani, dove potevano trovarsi dei contadini benestanti, in prevalenza enfiteuti, che si dedicavano alla conduzione diretta dell'azienda mediante l'impiego di salariati, formando dei nuclei di piccola borghesia rurale destinati ad un certo sviluppo in un futuro non lontano.4

Le forme di conduzione agricola presenti a Civita Castellana sembrano iscriversi di più in questa realtà che non in quella dell'Agro romano. Come fosse frammentata la proprietà lo si può dedurre in base ad una nota che il governatore cittadino nel marzo del 1789 presenta alla Sacra Congregazione. Nella nota la classe dei "possidenti" viene distinta a seconda dell'imposta da pagare sul terratico. Da questo documento la proprietà agricola risulta distinta in «jus pascendi», beni laici, ecclesiastici "di prima erezione", ecclesiastici "di secondo acquisto" e beni patrimoniali.

Vi era una netta preminenza dei beni laici per un valore del terratico pari a circa 243.711 scudi. Lo «jus pascendi» invece è pari a 40.000 scudi. Gli ecclesiastici "di prima e seconda elezione" poi possono contare su un valore di circa 20.000 scudi.5

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Tra i laici gli unici grandi feudatari presenti in città erano gli Andosilla ed i Bonaccorsi. Ma la figura che emerge tra le altre è quella dell'allevatore. Questi per certe sue caratteristiche sembra avvicinarsi al mercante di campagna. Non si tratta né di ecclesiastici, né di aristocratici, ma più genericamente di possidenti.

La preminenza di questa figura nella vita cittadina acquista però maggior significato se si pensa al ruolo chiave che rivestiva nella politica cittadina. È quanto emerge dai verbali dei consigli comunali laddove i nomi di molti allevatori si identificano con quelli degli amministratori cittadini. Molti di questi nomi si possono trarre da due suppliche firmate ed inviate al Buon Governo nell'agosto del 1792. Le due lettere firmate da due gruppi distinti di allevatori, il primo di otto ed il secondo di sei, attestano già la loro discreta presenza sul territorio.

Nel numero dei quattordici firmatari sono Mario de Carolis, Ludovico e Francesco Ettorre, Franco Petti Antonisi e Michelangelo Paradisi, tanto per citare i più significativi. Erano questi personaggi che generalmente venivano selezionati ad incarichi di massima importanza, quali quello di consigliere, conservatore od esattore. Lo si faceva, come già detto, mediante il sistema del bussolo, in base al censo ed alla "possidenza". Michelangelo Paradisi è un notaio e nel 1802 verrà selezionato dai pubblici rappresentanti alla carica di montista. Tale nomina è significativa perché si realizza nel corso della vivace controversia che opponeva gli amministratori al vescovo per la direzione del Monte di Pietà. Egli inoltre partecipa come consigliere ad una riunione del Consiglio Generale nel corso del 1801.

Mario de Carolis diventa esattore della comunità nel 1800, ed è consigliere sia durante l'amministrazione pontificia che durante il periodo imperiale, quando diventa uno dei membri della municipalità cittadina voluta dai francesi.

Il nome di Franco Petti Antonisi lo ritroviamo come capitano dei dragoni e conservatore nel 1801; nel 1805 invece riceverà uno speciale incarico dalla Sacra Congregazione per costringere al pagamento i debitori comunitativi. Francesco Ettorre è oggetto nel 1794 di critiche per essere stato estratto come

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esattore benché fosse un debitore comunitativo. Ma nonostante le passate polemiche lo ritroviamo tra i membri del Consiglio Generale nel 1801. Filippo Cicuti oltre ad essere un allevatore è anche un piccolo proprietario terriero.

Per quanto attiene poi alla gestione dell'attività agricola, questa si presenta in maniera molto diversificata. Non ci sono notizie di aziende a conduzione familiare. Più frequenti sono invece i proprietari che ricorrono alla manodopera di coloni e operai stagionali denominati "avventizi".

Augusto Paglia è uno dei più grandi proprietari terrieri presenti in città. Questi, tra l'altro, in una sua lettera del 1791 alla Sacra Congregazione, si dice costretto a cedere al Comune un proprio terreno denominato Sant'Agata, ad estinzione di un suo debito per tasse arretrate. Il motivo è che non è riuscito a trovare manodopera per la semina, e questo fatto, unito alla siccità ed ai cattivi raccolti, gli rende ora impossibile trarre guadagni dallo sfruttamento di quel terreno. Anzi si potrebbe dire dal tenore della sua lettera che tale sfruttamento produce un reddito del tutto passivo in quanto non è neppure sufficiente a pagare le imposte sul terreno.

Questo dato, se confrontato con le due lettere che gli allevatori cittadini avevano inviato alla Sacra Congregazione per chiedere esenzioni fiscali, dà l'idea di una certa precarietà dei raccolti rispetto ad intemperie stagionali quali siccità ed alluvioni. Gli autori delle due lettere, infatti, lamentano di non poter pagare le imposte loro assegnate per la scarsità dei raccolti che, scrivono, "non sono sufficienti neanche all'ametà (sic!) dell'anno di vivere colla propria famiglia".6

Accade poi spesso che i proprietari dei terreni preferiscano o siano costretti ad affittarli ad enfiteuti. È l'esempio dei fratelli Ettorre, due proprietari che, a garanzia della loro solvibilità a pagare un debito per tasse arretrate, esibiscono il contratto di affitto su un loro terreno.

A questo punto emerge forse la figura più interessante che è quella dell'enfiteuta. Questi, spiegano nella lettera i due fratelli Ettorre, nel contratto di affitto si è impegnato a pagare un canone di 20 scudi annui per un periodo di sette anni, un canone corrispondente alla durata del contratto che loro utilizzeranno

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per pagare i debiti arretrati. Ecco quindi che alla figura dei proprietari terrieri, che magari non sanno far rendere le proprie terre, si sostituisce quella dell'enfiteuta.7

Sempre da enfiteuti venivano per lo più sfruttati i terreni appartenenti alle opere pie come il seminario, le confraternite ed alcune chiese. A dire il vero, da un elenco dei proprietari di fondi rustici redatto nel 1809 a fini fiscali, sembra che tra i più grandi proprietari di fondi vi siano in particolare: la chiesa cattedrale, la mensa vescovile, i conventuali ed il seminario. Si è già visto nei capitoli precedenti che alcuni di questi istituti traevano i propri introiti o dall'affitto dei fondi, o dalla vendita dei prodotti che ne ricavavano (soprattutto grano, olive e canapa).

Il resto delle terre era di proprietà comunitativa e tra queste particolare rilevanza assumevano le bandite: pascoli estivi per il bestiame che di anno in anno venivano affittate al miglior offerente, dopo lo svolgimento di aste pubbliche. Dalle controversie che sorgevano in relazione alla regolarità delle aste e dai numerosi ricorsi che pendevano in proposito davanti al Buon Governo, si trae l'idea che le gare d'appalto fossero spesso inficiate da abusi ed irregolarità.

Un altro dato che si rileva è che le bandite cittadine erano in tutto nove, per una superfice complessiva di 800 rubbie, con la più piccola che contava nove rubbie e la più grande più di 300.

Notizie particolari sui pascoli comuni ci provengono dalla documentazione del periodo francese. Nel bilancio del 1812, al titolo terzo, vengono considerati "i beni rurali comunali" che, è scritto, consistono in un diritto di pascolo sul territorio diviso in tante "bandite", le quali vengono affittate dal mese di ottobre a tutto maggio. Questo diritto di pascolo aveva avuto origine dalla cessione di alcuni terreni fatta dai privati "i quali prima godevano del rittratto e ne pagavano lo importo". Nato poi un contenzioso sulla proprietà di questi pascoli, nell' 801 si pervenne ad un accordo per cui i terreni furono ceduti in enfiteusi al Comune, insieme alle mole comunitative, per il canone annuo di 330 scudi.8 In realtà sembra che questa vicenda sia da inquadrarsi nella vendita dei beni nazionali effettuata durante il periodo repubblicano, quando, scrive Lodolini, i beni

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della comunità furono incamerati dall'Erario e venduti appunto come beni nazionali.

Restaurato il governo pontificio le vendite furono dichiarate nulle, senza che fosse riconosciuto alcun diritto di rimborso ai compratori.

Con il «Motu Proprio» del 1801 che modificava il sistema daziale, tutti i beni della comunità furono avocati allo Stato. Questi beni erano però gravati da pesanti debiti accumulati per decenni e notevolmente accresciuti durante la Repubblica per le forniture militari. I debiti furono quindi trasferiti dalle comunità alla Reverenda Camera Apostolica. Alla Sacra Congregazione sarebbe spettato invece "liquidarli". Tutta questa operazione fu pensata a favore delle comunità, basandosi sul dato certo che l'entità dei debiti fosse di gran lunga superiore al valore dei beni comunitativi.

In realtà la dimissione del debito comunitativo diede spesso luogo a vivaci contrasti tra la Sacra Congregazione da una parte, la quale si opponeva all'incameramento dei beni nell'interesse delle comunità, e la Reverenda Camera Apostolica e la Segreteria di Stato dall'altra: quest'ultime miravano ad incamerare i beni comunitativi.

Ed è proprio nel contesto di questa controversia che torna a presentarsi la situazione a Civita Castellana durante il periodo imperiale, quando ormai la stessa controversia si era risolta in seno all'amministrazione pontificia dando vita a un'enfiteusi perpetua. Proprio nel 1813 il maire (sindaco: è detto in francese, n.d.c.) di Civita Castellana scrive al barone De Tournon manifestandogli la preoccupazione per la minaccia che il ricevitore del demanio si impossessi dei terreni dati in enfiteusi. Egli suppone che appartengano al Comune e rientrino quindi "nella classe di quei tali beni alienabili per disposizione del Decreto del 20 marzo 1813 emanato da sua maestà il rè". In particolare, continua il maire, sono i proprietari di terreni ad essere preoccupati "da tale innovazione" e che per questo hanno incaricato Francesco Petti a rappresentare le loro ragioni a Roma, onde ottenere la sospensione della presa di possesso da parte del ricevitore del demanio. E, si dice sicuro il maire, "Il ridetto deputato farà costare con evidentissimi documenti che i

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pascoli nel territorio di Civita Castellana non mai sono stati di proprietà della Comune ma che soltanto appartengono alli rispettivi proprietari dei Fondi. Dimostrerà egli con cosa giudicata sin dall'anno 1801 l'offertiva indetta in qual'Epoca dal Buon Governo pretendeva comprendere detti Pascoli fra le proprietà Comunitative ed incamerabili, (e) come esegui del tutt'altro; che apparteneva alla Comune esclusi sempre detti Pascoli; e discusso giudizialmente in seguito l'articolo de medesimi Pascoli nell'anno 1805 il dì 10 ottobre piacque al Buon Governo di troncare ogni dispendioso litigio, e si risolse transigere mediante pubblico Istromento con la Comune (e) cedette a la detta Comune due Molini de Grano, la fabbrica del forno, magazzeni annessi e tutti gli attrezzi occorrenti su detto stabile ed ancora le botteghe appartenenti alla Comune, e de quali fondi erasi già impossessata dal 1801, formandone una perpetua enfiteusi con il canone annuo di scudi trecentotrenta ed in detto Istromento rimangono incluse le pretensioni che potea avere la Comune su de Pascoli e fu da questa rinunicato dal Buon Governo".9

Anche da una controversia relativa alla spettanza di alcuni lavori al forno del pan venale (che qui non interessa riportare) risulta che le mole comunitative (dette del ponte Treja), una bottega di proprietà del Comune ed il forno stesso, furono oggetto della vendita dei beni nazionali.

Ad impossessarsi del forno fu Augusto Paglia, in cambio di una partita di fieno requisitagli dalle truppe francesi. È proprio da una nota dei possessori di terreni, redatta a fini fiscali nel 1809, che il Paglia appare come un grande proprietario terriero. Egli, inoltre, fu parte degli organi consiliari cittadini in due momenti cruciali della storia di Civita Castellana: nel 1801, come membro del Consiglio Generale, nel 1815 come membro del Consiglio Segreto.

A prendere possesso della bottega di proprietà comunale furono, invece, i due fratelli Morelli. Lo si deduce da una lettera che nel febbraio del 1803 Lorenzo e Liberato Morelli scrivono alla Sacra Congregazione. Nella lettera i due dichiarano di aver acquistato la bottega in periodo repubblicano e di esserne stati spogliati in seguito dalla Sacra Congregazione. Interessante è

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cercare di scoprire a che categoria sociale ed economica appartenevano i due fratelli. Dal confronto e dall'analisi di diversi documenti che li riguardano si può dedurre che i due erano dei piccoli proprietari terrieri e più volte ebbero incarichi nell'amministrazione cittadina.

Lorenzo Morelli fu membro del Consiglio Generale e governatore ad interim. La loro famiglia contava inoltre molti esponenti all'interno del ceto ecclesiastico. In particolare l'arciprete Giovanni Morelli fu più volte deputato ecclesiastico all'interno dei Consigli Cittadini, nonché l'unico a rifiutarsi di prestare giuramento all'imperatore e ad essere deportato tra gli ecclesiastici di Civita Castellana. I Morelli inoltre furono tra i più strenui detrattori del libero commercio, sia quando furono membri dell'amministrazione cittadina, sia per il fatto che alcuni di loro tentarono più volte di condurre i commerci con le privative anche dopo il 1801 (quando cioè era stato dato il via alla liberalizzazione dei commerci). Più volte infine i membri della famiglia Morelli assunsero la prelazione del sale.

Da tutti questi dati si trae l'idea che i Morelli appartenessero alla vecchia casta dei "possidenti", che per anni tennero il governo della città e trassero i propri guadagni dall'agricoltura e dalla distribuzione delle merci, prima che il sistema vincolista entrasse in crisi per lasciar spazio ai liberi commerci. Ora, dal confronto di questo caso con quello precedente (gli unici documentabili), si può dedurre che ad approfittare della vendita dei beni nazionali furono i più ricchi, a volte anche in ragione della loro posizione nella fornitura degli approvvigionamenti alle truppe francesi.

Si è parlato finora dei soggetti che animavano la realtà contadina di Civita Castellana, nonché della distribuzione della proprietà agricola. Volendo ora parlare dei lavori nei campi e delle diverse modalità utilizzate nel lavorare la terra, occorre premettere che i dati sono molto frammentari.

Può, però, venirci in aiuto lo scritto di uno studioso di storia locale, Oronte Del Frate, vissuto nella seconda metà dell'Ottocento. Nel suo «Miscellanea Civitonica», Del Frate descrive i ritmi e le abitudini che animavano la vita dei campi. Egli inizia col dire che i lavori agricoli erano sottoposti a ritmi

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stabiliti a cui dovevano sottostare tutti i proprietari di fondi. Questi ritmi erano legati al sistema della rotazione che si basava sull'alternanza delle diverse colture sul terreno, in modo da poterne ottenere più proficui raccolti.Questo sistema già nel corso del Settecento era stato già ampiamente superato.

Lo storico Renzo de Felice dice bene quanto presso i contadini fosse atavica la diffidenza verso qualsiasi pratica che non fosse la semplice ripetizione di quelle che da sempre erano state praticate dai propri avi. E le nuove tecniche di lavorazione nei campi venivano respinte nella testarda convinzione di essere i soli a conoscere i segreti della lavorazione della terra.

Tornando alla rotazione, questa avveniva secondo regole ben precise che tutti i proprietari di fondi dovevano rispettare. Ciò perché le singole proprietà dell'agro comunitativo venivano considerate un tutt'uno. Perciò ogni singolo proprietario doveva seminare a turno il proprio appezzamento per poi lasciarlo all'uso comune e al pascolo del bestiame a scadenze che potevano essere triennali o quadriennali. Le arature per la semina erano poco profonde: le semine a maggese erano precedute da cinque o sei arature e da lunghi periodi di riposo, mentre le "semine a colto" erano precedute da una o due arature e da pochi mesi di riposo. I terreni con colture arboree erano coltivati per lo più a vite, olivi ed alberi fruttiferi.

Per quanto attiene più specificamente alla diffusione delle colture a Civita Castellana possono venirci in soccorso anche i libri contabili del seminario e delle confraternite. Si è detto che queste opere pie spesso traevano le loro entrate dall'affitto di beni rustici di loro proprietà o direttamente dalla coltivazione di questi fondi e dalla vendita dei loro prodotti. Nei libri d'entrata del seminario, ad esempio, possono ritrovarsi entrate provenienti dalla vendita di canape per la produzione del lino o di olive. Questo conferma l'ipotesi che queste colture avessero una certa diffusione sul territorio. Ugualmente diffusa doveva essere la coltura del grano, ed è proprio intorno a questa coltura che ruotano molte delleattività della confraternita del Santissimo Salvatore, formata esclusivamente da agricoltori. Per cui le donazioni in grano fatte dai confratelli o dai guardiani dei campi nominati dagli amministratori locali avevano un carattere quasi

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feticista. Tra i terreni tenuti in affitto dalle diverse confraternite prevalevano le vigne ed i "terreni lavorativi", ma erano presenti anche noccioleti e semplici terreni prativi, da cui si potevano ricavare entrate con la vendita delle erbe o delle ghiande per i maiali. Quest'ultimo allevamento, pur non essendo preminente, era abbastanza diffuso in città.

Attorno al mondo contadino, poi, gravitavano anche altre professioni. Una delle più caratteristiche era senz'altro quella di guardiano dei seminati. Professione che allora aveva un ruolo molto importante in quanto accadeva di sovente che i seminati fossero distrutti dagli armenti che sconfinavano dai terreni loro assegnati. Questi potevano essere cavalli, buoi, pecore ed anche maiali. I guardiani dovevano accompagnare il bestiame al pascolo ed evitare che sconfinasse nei terreni seminati. A loro competeva anche inibire "l'introduzione di bestiame forestiero" e cioè di quel bestiame i cui proprietari non erano cittadini di Civita Castellana e non avevano quindi diritto di far pascolare i loro armenti entro i confini cittadini. A volte, però, i proprietari forestieri, grazie alla complività di un residente, facevano sconfinare il loro bestiame. Il residente molto spesso era egli stesso un allevatore al cui nome veniva di diritto introdotto il bestiame in città.

Citiamo il caso di Francesco Giovannoli, conservatore cittadino, che nell'aprile del 1789 viene accusato di essere parte in causa "sopra la introduzione di bestiame estero fraudolentemente fatta in suo nome"10.

C'erano poi dei casi in cui erano gli stessi guardiani a rendersi protagonisti di illecite introduzioni di bestiame forestiero. Ciò risulta da una lettera che il governatore scrive alla Sacra Congregazione nel febbraio 1790. Nella lettera egli spiega che il Consiglio Cittadino aveva deciso di assegnare ai guardiani dei seminati un premio di 50 baiocchi per ogni "fiocca" di bestiame minuto forestiero, catturato mentre pascolava abusivamente entro i confini cittadini, e un premio di trenta baiocchi per ogni bestia "grossa". I guardiani a questo punto però, attratti dal facile guadagno della ricompensa, invece di lavorare con più diligenza presero l'abitudine di andare a catturare il bestiame nei paesi

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vicini, facendo figurare la cattura come avvenuta nel territorio di Civita Castellana.

Per questo motivo, spiega il governatore, il Consiglio Cittadino tornò sulla sua decisione limitando i premi per ogni bestia catturata.11

Un'altra professione caratteristica legata al mondo contadino era quella di "lupaio", cioè uccisore di lupi. Il "lupaio" otteneva un premio per ogni lupo ucciso. Il fatto risulta da un ricorso che Giovanni Ranieri, di professione "lupaio" appunto, presenta al Buon Governo nel 1795 al fine di ottenere dalla comunità di Civita Castellana la regalia stabilita per ogni lupo ammazzato. La regalia era stabilita in 25 scudi per una lupa femmina e 20 scudi per un lupo maschio. Un premio piuttosto alto, come si vede, a cui il Ranieri dichiara di aver diritto per aver ucciso due lupi, maschio e femmina. Sulla questione però nasce una controversia in quanto gli amminitratori locali sostengono che i lupi non sono stati uccisi nel territorio cittadino e per dare ulteriore sostegno alle loro ragioni, insinuano che il Rainieri abbia già ottenuto un compenso dagli allevatori di bestiame: motivo per cui avrebbe perso il diritto alla regalia promessa dal Comune.12

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Le manifatture Un'altra attività economica che caratterizza Civita Castellana

è quella manifatturiera, destinata in un futuro non lontano a divenire quella cardine nell'economia della città.

Quest'attività a Civita Castellana è legata in particolare alla lavorazione delle ceramiche. La prima menzione dei "vascellari", coloro cioè che sono addetti alla lavorazione del materiale ceramico, la si ritrova negli statuti comunali risalenti al Cinquecento, laddove si stabiliscono l'ordine e la successione delle corporazioni d'arte cittadine durante la processione dei Santi Patroni.13

Ma il primo passo importante nella storia della ceramica locale è la visita che fece in città nel marzo del 1791 il signor Giuseppe Valadier alla ricerca di un luogo adatto ad impiantare una fabbrica di terraglia inglese per la produzione della ceramica. E questo è già significativo di per sé, perché rappresenta il primo tentativo di distaccarsi da una tradizione artigianale e localistica per lanciarsi verso forme di produzione industriali.

Da un parere sul progetto, redatto dall'architetto del Buon Governo Virginio Bracci, risulta che Valadier pensava di installare la sua manifattura in uno dei mulini comunitativi andati distrutti durante le alluvioni del 1789. Sfruttando le strutture già esistenti si trattava di impiantare una ruota motrice necessaria per la lavorazione della terraglia. L'ordigno sarebbe rimasto separato rispetto alle ruote del mulino in modo da evitare che andasse ad intralciare il lavoro delle macine comunitative. Nel fare questa propostaValadier si impegnava ad assumersi le spese d'impianto e di ristrutturazione del mulino distrutto, erogando 150 scudi a favore della comunità. In cambio egli avrebbe potuto utilizzare l'acqua del fiume che scorreva sotto il mulino senza andar soggetto ad alcun dazio.14

Questo progetto non incontrò opposizioni da parte degli amministratori cittadini ed il relativo contratto dovette essere approvato, se è vero che nel maggio del 1792 , con chirografo pontificio, ai signori Giuseppe Valadier, Giuseppe Francesco ed Antonio Mizzelli venne concessa in perpetuo la privativa per

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l'estrazione dell'argilla atta alla fabbricazione della terraglia ad uso inglese.

Nel frattempo la Reverenda Camera Apostolica erogò a favore dell'impresa un mutuo di 6.000 scudi da restituirsi entro cinque anni. Ad occuparsi della gestione dell'azienda impiantata da Valadier intervenne ben presto un cittadino, certo Coramusi, come risulta anche da una lista degli esercizi commerciali e manifatturieri redatta a fini fiscali nel 1809. Nella lista si riscontra come i signori Valadier, Mizzelli ed eredi Federici siano i proprietari della manifatura, mentre l'esercente è il Coramusi.

È lo stesso Coramusi poi a scrivere alla Sacra Congregazione nel settembre del 1808 per richiedere un esenzione da un'imposta fiscale dicendo "di aver dovuto intraprendere spese enormi non solo per ristabilire quella fabrica, ma per pote rricostruire la mola per macinare le vernici ed espone anche che quella fabbrica finora non è stata sottoposta al pagamento della tassa sestennale, trattandosi di un'industria, la quale specialmente al riguardo della terraglia ad uso d' Inghilterra sembra che debba meritare tutto l'incoraggiamento del governo, molto più perché l'O. re per riuscire nell'impresa deve ora assoggettarsi a spese gravissime".

Dal che si può dedurre che a Civita Castellana il Coramusi stesse tentando un primo esperimento di tipo capitalistico che comportava grosse spese d'investimento, avendo l'appoggio in questo dello Stato Pontificio, soprattutto per la produzione della "terraglia ad uso Inghilterra". Era opinione comune che questo tipo di terraglia fosse un bene facilmente esportabile e destinato ad allargare il mercato e che la qualità delle ceramiche prodotte in quella fabbrica dovesse essere piuttosto buona.

A questo proposito, Renzo de Felice, riferendo di alcuni testi del Colizzi, scrive che le terraglie prodotte in Civita Castellana "dal signor Carnamasi con la sola argilla della cava locale mista a pietra focale erano ottime e molto resistenti". Lo stesso Coramusi, o Carnamasi, teneva in affitto una cava che come caratteristiche ricordava molto quella di Wegwood in Inghilterra.15

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Oltre a questa, poi, a Civita Castellana venne impiantata un'altra manifattura ad opera di Giovanni Trevisan detto il Volpato, un abile imprenditore veneto che operò soprattuto a Venezia e Roma, dove aprì una bottega di stampe con relativa scuola di incisione nei pressi di piazza di Spagna. Notizie più precise sull'attività del Volpato si possono ottenere da un articolo di Eros Biavati pubblicato sulla rivista di ceramica "Faenza".

Scrive Biavati che il Volpato, con la collaborazione del figlio Giuseppe, aprì nel 1801 a Civita Castellana una manifattura ceramica in cui si lavoravano contemporaneamente la terraglia e la maiolica.16 Egli cita anche una nota dei prezzi stabiliti per la vendita delle terraglie e maioliche della fabbrica di Civita Castellana. Da tale nota, conservata nei Civici Musei di Milano tra le stampe di Achille Bertarelli, si può dedurre che in quella fabbrica si lavoravano prodotti di carattere dozzinale e legati al facile smercio, come si arguisce dai bassi prezzi. Inoltre da un confronto tariffario, prendendo in esame vari articoli, si può osservare un primo innalzamento dei prezzi di vendita che il Biavati attribuisce all'inflazione, e successivamente invece una riduzione conseguente al deterioramento degli articoli prodotti in fabbrica. I piatti piccoli, ad esempio, che costavano 50 baiocchi la dozzina nel 1796, passano a 70 tra il 1805 e il 1810, per abbassarsi poi a 60 baiocchi nel 1815. Le fruttiere che costavano 25 baiocchi nel 1796 passano a 30 nel 1805 ed a 60 nel 1815.

L'attività manifatturiera nel periodo qui analizzato rimane ancora di carattere marginale, però già i contemporanei avevano la percezione delle sue intrinseche possibilità di sviluppo e immaginavano i positivi effetti che avrebbe potuto avere sull'economia cittadina. In particolare il tesoriere generale della Sacra Congregazione, nel dare un parere favorevole all'impianto della fabbrica di Valadier, scrive il 3 marzo 1791:

"la Comunità (se fosse impiantata l'attività) avrebbe il vantaggio di veder stabilita nel suo territorio una nuova manifattura il che sarebbe utile sia per la popolazione di Civita Castellana che per tutto lo stato".

Il resto dell'attività manifatturiera era legata alle mole comunitative che erano tre in tutta la città e venivano utilizzate

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per la macinatura del grano e delle olive, in seguito anche per la lavorazione delle vernici. Per il loro funzionamento utilizzavano la forza motrice dell'acqua e per questo venivano costruite sul greto dei fiumi, per cui avvenne che furono particolarmente colpite dalle alluvioni del 1789 che provocarono gravi danni anche in città. Dopo di allora le mole poterono funzionare solo a regime limitato e ancora nel 1815 l'inviato pontificio Luigi del Frate, in un suo resoconto, le descrive in stato di completo abbandono e ne suggerisce una immediata ristrutturazione.

La vita materiale Si sono analizzate finora le forze in campo e i personaggi

preminenti della vita cittadina. Si è anche parlato della manifattura ceramica e del suo avvio verso forme di produzione industriale. Volendo ora parlare della vita materiale entro cui si muoveva la popolazione di Civita Castellana, si farà riferimento a concetti quali quello della casa, dell'alimentazione, dell' istruzione e dell'assistenza sanitaria.

In un contesto di precarietà ed abbandono dove l'unica risorsa era l'attività agricola, la vita materiale si concretizzava in poche cose. La casa innanzitutto ha un'importanza primaria: è il teatro della rappresentazione della vita familiare. Ciò anche se nel Settecento esisteva un concetto di abitabilità del tutto diverso dal nostro, essendo molto più difficile allora avere un tetto sotto cui abitare.

Nel 1808 il governatore cittadino fece redigere un elenco delle abitazioni presenti in città, nella necessità di trovare un alloggio alle truppe francesi in arrivo. Vi si parla di sei abitazioni degne di ospitare l'alta ufficialità francese (tra queste il palazzo vescovile e il palazzo cittadino del marchese Andosilla), e di altre quaranta per gli ufficiali di secondo rango. È da presumere che tali alloggi fossero gli unici a presentare soluzioni di "abitabilità". 17 Non molto se riferito ad una popolazione di 2.000 abitanti nel 1801. Ma Civita Castellana ne contava 6.000 prima del periodo repubblicano. Proprio da una

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lettera del maire pare che nel 1813 fossero 300 le case abitabili in tutta la città.18

A quei tempi l'esempio più vicino al nostro concetto di casa doveva essere il cosiddetto "tinello", un abitacolo vero e proprio, che molto spesso figurava tra i beni di proprietà di confraternite ed opere pie che solevano darlo in affitto. Le case più grandi che risultano dagli elenchi delle abitazioni affittate erano al più di due stanze.

Sotto la casa o nelle sue vicinanze si aggiungeva spesso una cantina, scavata nel tufo, che serviva a conservare il vino, i cibi, i raccolti degli orti e la farina per il pane. Ugualmente diverse erano le abitudini alimentari che consistevano nella consumazione di due pasti al giorno: mezzogiorno e sera. Le pietanze erano frugali e basate su pochi generi. Ecco per esempio il pasto giornaliero che consumava "la famiglia bassa del monastero": per il fattore era prevista la minestra ed una fetta di carne salata o di formaggio per il pranzo; minestra o insalata e qualche frutto per la cena. Più povero era il pranzo della fatoressa: minestra ed una pietanza a seconda dei casi. Il vino era previsto solo durante i pasti e preferibilmente mescolato con l'acqua.19

Egualmente spartane e basate su pochi generi erano le abitudini alimentari degli alunni del seminario: scartabellando tra i libri di bilancio si scopre che i loro pasti erano basati su legumi, castagne, formaggio, lardo, frutta secca e poca carne. Altro alimento fondamentale era il pane, che allora veniva lavorato in proprio in quanto solo la parte più benestante della popolazione poteva permettersi di comprarlo al forno. Il periodo di Quaresima veniva rispettato mangiando soprattutto pesce invece della carne. In particolare i seminaristi consumavano "caviale", che probabilmente nulla aveva a che fare con il caviale dei nostri tempi.

Eccezioni al solito magro pasto erano previste soltanto in occasione delle festività. Per le feste di Natale ad esempio, nel seminario si preparavano delle speciali crostatine e venivano serviti due "gallinacci": uno per Natale e l'altro per l'Epifania.

Legata allo spaccio ed allo smercio dei generi alimentari era l'attività del commercio, che prima del biennio repubblicano, pur

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essendo una prerogativa pubblica, la comunità la dava in appalto anziché esercitarla direttamente. A tal fine venivano organizzate appunto delle gare d'appalto il cui vincitore otteneva il diritto esclusivo di vendere un bene in città. Questo bene poteva essere la carne, il pane, l'olio o i generi detti di "pizzicaria", cioè salumi, pesce conservato o formaggi. In cambio della "privativa" l'appaltatore si impegnava a pagare un canone annuo e a garantire il sicuro approvvigionamento della popolazione. Ma questo sistema "autarchico-vincolista", come lo chiama De Felice, doveva entrare in crisi, perché la preoccupazione fondamentale del governo era di assicurarsi l'approvvigionamento. Ciò andava a danno della produzione agricola che aveva bisogno invece di espandersi con il libero commercio.20 Tutto questo non avrebbe potuto che provocare profondi mutamenti nell'ecomomia della città. Una spinta decisiva in tal senso viene propriodall'esperienza rivoluzionaria, almeno per quel che riguarda Civita Castellana, laddove la liberalizzazione dei commerci inizia a trovare pratica attuazione nei primi anni dell'Ottocento.

In questa materia furono pubblicati una serie di editti come quello del 2 settembre 1800, nel quale già si rivelavano chiare le linee di un liberismo che sarebbe stato più chiaro in quello del 4 novembre 1801. Quest'ultimo si richiamava esplicitamente al principio che "non vi è bilancia più sicura per giudicare con esattezza dell'abbondanza o della deficienza del genere, quanto la cognizione dell'alzamento o dell'abbassamento del prezzo che il commercio liberamente gli assegna".

Scrivono in proposito Caravale e Caracciolo che "Lo sbocco autenticamente riformatore sulle basi di un liberismo economico e di un interesse produttivistico, che ancora al Cardinal Ruffo e con Pio VI era parso subito perdersi, veniva trovato ora, grazie alle emergenze che la vicenda rivoluzionaria imponeva anche ai più tenaci conservatori".21

Con la liberalizzazione dei commerci si sviluppa un gruppo socialmente nuovo: è costituito da uomini dotati di una buona dose di ambizione e intraprendenza, impegnati ad aprirsi un varco nell'insidioso intreccio di vincoli feudali che fino ad allora aveva frenato qualsiasi mobilità sociale. Con la loro entrata in

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scena, accanto alla vecchia dialettica tra potere centrale e potere locale, se ne instaura una nuova che sta tra vecchie e giovani classi economiche. Queste ultime sono ben decise a conquistarsi stabili posizioni di controllo economico; le prime invece impegnate a mantenere i propri privilegi. Nello svolgersi di questo confronto si crea un sistema spurio, nel quale accanto al libero commercio, continueranno a convivere le privative, seppure con modalità e funzioni diverse rispetto al passato.

Il libero commercio, a Civita Castellana, inizia col diffondersi attraverso i generi di "pizzicaria". La prima controversia che vede opporsi fautori e detrattori del libero commercio è datata 1801. Nasce da una protesta di Giusto Colonnelli contro la comunità che aveva respinto una sua offerta per l'appalto della pubblica pizzicheria. Il mese successivo il governatore notificherà detta protesta alla Sacra Congregazione, allegando la risoluzione consiliare contraria all'offerta del Colonnelli.

Da quel verbale si può vedere come i consiglieri abbiano rifiutato la sua offerta in favore del libero commercio per i prezzi eccessivi da lui proposti. Il governatore comunque, oltre ad inviare gli atti del contenzioso, esprime anche un proprio giudizio sulla questione dicendosi contrario al libero commercio, perché "la libertà non conferisce alcun vantaggio al Popolo, e (... ) questa permettendosi (... ) il più delle volte accade, che nulla troverebesi a comprare, si ancora, che mandandosi senza limitazione de prezzi, e senza alcuna soggezione al giudice, sarebbe irreprensibile l'avidità dei venditori (... ) mentre se vi è l'affitto vi è qualche risposta per la comunità e la sicurezza de generi per il popolo, ed il giudice può farlo stare a ragione se manca al suo dovere".

In questa lettera il governatore esprime con completezza e precisione molte delle obiezioni che d'ora in poi verranno mosse al libero commercio e che si possono ridurre sostanzialmente a due: in primo luogo il libero commercio è poco affidabile; in secondo luogo priva la comunità delle comode entrate fiscali prima assicurate dagli appaltatori pubblici con i loro affitti.22

Di tutt'altro avviso, rispetto alle opinioni espresse dal governatore, sono però i latori di una lettera inviata alla Sacra

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Congregazione a nome del popolo di Civita Castellana nel giugno del 1801, che scrivono :

"in questa città, non si vuole osservare alli bandi sopra di poter negoziare per utile e vantaggio delli poveri, ma per via di cinque o sei di questa città, che vonno fare leggi a loro modo non si dà eseguzion ealli sud. ordini (... ), che non pensano altro che ingiuriare il povero, e mai di procurare il vantaggio per il povero ma sempre cercano il di loro lucro". Il carteggio contenente questa dura accusatoria include anche la replica dei pubblici rappresentanti, che si difendono spiegando i motivi per cui non hanno potuto fino a quel momento dare esecuzione al motu proprio papale sul libero commercio. Questi motivi sono sostanzialemente tre: primo, il timore dell'improvvisa deficienza dei generi; secondo, il gran numero di malati che da sempre nella stagione estiva affollano Civita Castellana; terzo, il continuo passaggio di truppe straniere.

I pubblici rappresentanti, però, assicurano di aver cercato di applicare tutti i dispacci sul libero commercio e di aver abolito tutte le gabelle che si opponevano a questa nuova pratica, tanto checoncludono: " Tutte le grascie in questa città si vendono apiacere e liberamente".

Se la lettera dei pubblici rappresentanti completa la seriedi dubbi sul libero commercio, per il timore della deficienza dei generi in una città affollata di malati e di truppe straniere, la lettera a nome del popolo di Civita Castellanaesprime un modo di pensare del tutto diverso. Qui non si vedenella liberalizzazione dei commerci una fonte di sciagure per una popolazione già afflitta; al contrario la si giudica unospiraglio per i più poveri tanto da definirla "l'arte di poternegoziare per utile e vantaggio delli poveri".

Un'altra lettera del dicembre 1801, a nome della popolazionedi Civita Castellana, sembra inoltre contraddire la visionepositiva e rassicurante espressa dal governatore sul sistema delle antiche privative. Nella lettera, infatti, il fornaiopubblico viene accusato di vendere per pane un misto immangiabiledi tritello, semola, fave e granturco, per di più imbrogliando sul peso23. Molto più significatica, perché scritta dai treconservatori e controfirmata da ottantaquattro cittadini

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appartenenti alle più disparate categorie sociali, è ancora unalettera del 19 dicembre 1801 inviata al papa24. Tra i firmatarivi sono Giovan Battista e Bonaventura Ciotti consiglieri, Giacomo Trojani pizzicagnolo, Francesco Giovannoli maniscalco e ancoraAntonio Buscante "bifolco" e Paolo Mancini "contadino" che sifirmano con una croce. Con questa lettera: " Li conservatori e Popolo di Civita Castellana (espongono al papa) come nellasuddetta città con vantaggio notabilissimo di tutta lapopolazione Oratrice, in forza del Moto Proprio emanato dalla Santità Vostra relativamente al libero commercio oltre i diversispacciatori di carne che vi erano in detta città, si eraperanche separatamente aperto altro macello dai Franco Politi, Ortenzio Guglielmi e Silvestro Lardi (... ) per il che vendevansile carni di ottima qualità ad un baiocco meno la libra apreferenza degl'altri venditori, ne risentiva la popolazione oratrice con tale emulazione i più vantaggiosi effetti".

Ma ecco che l'avvocato Alessandro Buttaoni ordina di metterea privativa il provento del macello. L'appalto è vinto da un certo Capotonni che visto l'epiteto di "unico ed eternoofferente della privativa", pare goda da molti anni delprivilegio di suddetto esercizio. Capotonni è un esponente di quella vecchia casta di appaltatori pubblici che avevano ilmonopolio del commercio in città e al quale ora non sonodisposti a rinunciare, nonostante non siano in grado di reggere alla concorrenza dei liberi venditori. Di fatto, continuano il latori della lettera, il ritornodella privativa aveva fatto lievitare i prezzi della carne, mentre scadeva la sua qualità e diventava sempre più arduoreperirla in città, vista la scarsa disponibilità del pubblicomacello. Sicché alla fine: " si è dovuto rilevare per fino seguire la carcerazione per il macellaio suddetto sì per ilprezzo che cattiva qualità e totale deficienza delle carni".

Questa lettera , appositamente fatta controfirmare da gente appartenente a tutte le categorie sociali viene inviata al papaper dimostrare il largo consenso nella popolazione per il liberocommercio. Questa, dei pubblici venditori, ricordava soprattutto i brogli sul peso e la scadente qualità delle merci. Ma anchegli esponenti del partito ecclesiastico e buona parte

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deiconsiglieri vanno nella stessa direzione, seppur con le dovute regole. Lo conferma il testo di alcuni documenti acclusi allalettera in questione. Vi è la copia di una risoluzione consiliare presa nella seduta del 26 gennaio 1802, a proposito della discussione traprivativa e libero commercio, a seguito dei trambusti che nelmese precedente avevano portato all'arresto del macellaio pubblico.25 Alla seduta del "Pubblico General Consiglio" partecipano il vice governatore, due conservatori e ventiquattroconsiglieri tra cui i due deputati ecclesiastici.

Nella riunione, particolarmente movimentata, peculiare risonanza assumono le parole del deputato ecclesiastico, il qualeriferisce che il suo "partito", riunitosi nella sagrestia della chiesa cattedrale, ha già votato compatto a favore del liberocommercio "come più vantaggioso per la popolazione, sempre fermaperò l'obbligazione del mantenimento e dello spaccio continuo e mai mancante delle carni". Sottoposto poi alla votazione del pubblico consiglio il tipo di regime che dovesse adottarsi per ilcommercio delle carni, risultarono 14 voti a favore del libero commercio e 10 contrari. Questo voto, in base al principio cheun terzo dei voti bastava a porre "l'esclusiva" su qualsiasidecisione della maggioranza, di fatto confermava le vecchie privative. Sulla validità di questa seduta consiliare, però, ifautori del libero commercio esprimono i loro dubbi in una lettera inviata al prefetto del Buon Governo il 27 gennaio 1802.

Scrivendo a nome del popolo e dei consiglieri di CivitaCastellana, denunciano come quel consiglio fosse stato fraudolentemente riunito "per parte dei pochi fautori contrariper eternarsi a danno della povera popolazione a ritenere, pubblici proventi, indicibili furono i tumulti che tali Soggetti per le vie tentarono a ottenere l'intento (... ) Ma a fronte dimille timori, e grida all'arringo soggetto nel pubblicoConsiglio adesivamente (?) al libero commercio il numero de consiglieri soltanto ventiquattro, e molti dolosamente nonintimati ne furono riportati voti quattordici per la confermadella libera vendita delle carni e numero 10 per la privativa"26. Con questo si vuole ribadire che ormai in città i fautoridelle privative costituiscono una minoranza. E questa

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sembra una ragione sufficiente per chiedere la liberalizzazione delcommercio della carne. Ciò al di là del voto consiliare, sul quale gravava il sospetto di brogli.

I documenti sinora analizzati, oltre ad essere l'espressionedi un generale consenso alla liberalizzazione dei commerci, contraddicono anche le paure ed i dubbi espressi dai suoi detrattori. Solo pochi mesi prima il governatore di Civita Castellana aveva espresso forti timori sulla liberalizzazione dei commerci: innalzamento incontrollato dei prezzi, deficienza dei generi, impossibilità di controllo sull'avidità dei liberi venditori, mancate entrate fiscali per la comunità. La liberalizzazione dei commerci delle carni però dimostra il contrario: i prezzinon sono affatto aumentati, anzi sono diminuiti grazie allalibera concorrenza. Inoltre i liberi commercianti vendono ad un prezzo inferiore rispetto agli altri per cui la popolazione "nerisentiva (... ) con tale emulazione i più vantaggiosieffetti", come scrivono i conservatori nella lettera del 19 dicembre 1801. E nemmeno si presenta il problema di quella"deficienza dei generi" che tanto aveva impensierito ilgovernatore Morelli, il quale aveva scritto nel febbraio del 1801 "che nulla troverebesi a comprare" una volta liberalizzati icommerci. Quello che si va affermando tuttavia è un sistema misto, tra libero commercio e privative, particolarmente vantaggioso perla comunità. Tale sistema garantisce il sicuroapprovvigionamento dei generi, grazie all'impegno assunto dagli appaltatori pubblici allo "sfamo della popolazione"; ma nellostesso tempo assicura un miglioramento della qualità dei generied un abbassamento dei loro prezzi grazie alla libera concorrenza. Un problema a dire il vero che la liberalizzazione deicommerci effettivamente crea è quello delle mancate entrate tributarie conseguenti all'abolizione del commercio basato sugli appalti. La questione potrebbe essere risolta mediante unamodifica del sistema daziale, con l'imposizione di nuove gabelle sui liberi commercianti. Ed in questa direzione sembra muoversiil Consiglio Segreto con la creazione di una nuova tassa detta"di consumazione" sulla vendita dei generi alimentari, da cui sarebbero stati esentati i pubblici commercianti che si fosseroimpegnati "al mantenimento della popolazione". Questo sistema, nelle

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intenzioni dei suoi promotori, avrebbe permesso il mantenimento della libertà di commercio edallo stesso tempo favorito il reinserimento degli appaltatoripubblici nei commerci. Il Consiglio Generale del settembre del 1803, però, in una seduta avente per oggetto il commercio delpane abroga le decisioni del Consiglio Segreto a proposito del"mantenimento". Così ad un fornaio che rientrava in questo caso fu deciso di concedere a titolo di prestito solo l'uso del fornoe stanze annesse, ma non l'esenzione dalla nuova tassa27.

Le nuove gabelle sulla "consumazione" vengono invece del tutto abolite e questo dovette generare forti tensioni all'interno della comunità, tanto che il capo conservatore, Franco Petti Antonisi, il 4 settembre 1803 così descrive in una sua lettera il Consiglio Generale che ha preso la decisione: "composto in ogni ceto in buona parte di quelle persone interessate e che nella piazza tutto giorno vendono i generi a loro capriccio, la erano e sono impuniti da qualunque dazio".28

Questa testimonianza, oltre ad essere una spia delle tensioni che animavano la vita cittadina, è anche significativa di una mobilità sociale impensabile prima del periodo rivoluzionario. Questo non solo ha permesso ai "liberi venditori" di prenderei n mano i commerci della città, ma ha dato loro la possibilità di essere adeguatamente rappresentati ai vertici del potere politico cittadino.

Ben inteso, questo non significa che ormai i liberi commercianti abbiano preso in mano le redini del potere. La decisione che essi hanno influenzato è una decisione del Consiglio Generale, che, per sua stessa natura, come dice Lodolini, tende a rappresentare tutta l'universalità, quindi tutti i ceti sociali presenti in città. Non bisogna comunque sottovalutare le parole del Petti quando dice che quel Consiglio era formato "in buona parte" da gente che vendeva la propria merce nella pubblica piazza ed era esente da qualsiasi dazio, cioè a dire i liberi commercianti. Intanto già da questa controversia emerge un altro problema: quello della competitività dei commercianti pubblici chiamati a garantire il sicuro approvvigionamento e non più beneficiari di un diritto di vendita esclusivo.

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Questo clima è ben esemplificato in una lettera che il capo conservatore, Franco Petti Antonisi, invia alla Sacra Congregazione il 17 settembre1803. Nella lettera egli informa il Buon Governo che ormai in città è stato attivato il libero commercio del pane "il quale viene producendosi molto bene e con molto genio e soddisfazione degl'abitanti".

Contemporaneamente, però, la città ha preferito mantenere un fornaio pubblico "obbligato al mantenimento ed a tariffa", che però dice il Petti "ha venduto poco o niente di pane, perché i comperatori hanno desiderato provvedersi piuttosto del pane casareccio, e del pane che vendono i venditori liberi".

E mentre si avvicina il momento di appaltare di nuovo il forno pubblico, Petti prevede che questo "al più potrà vendere a capo dell'anno un centinaio di rubbie di grano". Diventa quindi estremamente difficile trovare qualcuno che si impegni a prendere in affitto il forno e contemporaneamente a garantire il sicuroapprovvigionamento della popolazione. E quanto ciò sia difficile viene chiaramente espresso da Petti quando scrive: "Dopo possibili tentativi fu rinvenuto a Ronciglione (cittadina nelle vicinanze di Civita Castellana) un Tedesco fornaro Gabriele Pach il quale a forza di prattiche e maniere fu indotto ad offerire al mantenimento del forno colla libertà di commercio, ed a tariffa, e con la sovvenzione avvisata di dispensarlo dal pagamento della metà del dazio del macinato".

La Sacra Congregazione però, ritenendo eccessiva l'esenzione dalla metà del dazio sul macinato non dà la sua approvazione al contratto e riguardo al Pach che viene a conoscenza della decisione del Buon Governo, continua il Petti, "al momento se n'è partito, rallegrandosi di quest'esclusiva, e dicendo di aver fatto un sproposito nell'essersi antecedentemente vincolato con questa comunità".29

Il comportamento del Pach è da solo rivelatore della crisi che coinvolge i commerci pubblici. Solo pochi anni prima, infatti, la mancata approvazione da parte del Buon Governo di un contratto già stipulato, avrebbe provocato vive proteste e richieste di risarcimento da parte dell'appaltatore escluso che vedeva svanire nel nulla lauti guadagni. Ora, invece, Pach informatosi sull'andamento del forno del pan venale non solo

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non accenna al benché minimo segno di protesta, ma è ben contento che il suo contratto sia stato stralciato. Pur di fronte a queste difficoltà, però, gli appaltatori pubblici non accettano di perdere le posizioni di privilegio che il lungo esercizio esclusivo dei commerci aveva concesso loro. Ecco quindi che tentano vie traverse per ripristinare le antiche privative.

Questo almeno è quel che insinua Apollonio Tarquini, uno dei conservatori cittadini in una sua denuncia del marzo 1804 alla Sacra Congregazione. Egli avanza il sospetto che ci siano stati dei brogli da parte del capo conservatore per concedere la privativa sul commercio delle carni a favore del fratello Lorenzo Morelli. A sostegno di questa sua accusa egli racconta i sotterfugi e le intimidazioni operate dai suoi colleghi a fronte del suo tentativo di far chiarezza sulla questione. Ed in particolare scrive che quando richiese al segretario una copia della risoluzione consiliare favorevole alla privativa, questi si rifiutò di consegnarla dicendo di aver ricevuto ordini in tal senso dagli altri due conservatori. Sostiene Tarquini infatti che "Luigi Morelli capo conservatore (... ) è uno ch'aderisce alla privativa di tali generi".30

Si instaura così un gioco che vede la progressiva affermazione del libero commercio intercalata ed a volte interrotta ddl temporaneo ripristino delle antiche privative, nel tentativo magari di porre rimedio a gravi disordini finanziari.

Nel 1804, infatti, viene sancito il ritorno agli appalti pubblici nella necessità di reperire i fondi per riparare una strada interna alla città. Contro questa nuova risoluzione consiliare Francesco Politi, un piccolo proprietario terriero che nel 1801 aveva aperto il primo macello con la libertà di commercio, scrive al governatore il 22 gennaio 1804: "la pizzicheria, essendo il libero commercio vi sono circa sei o sette persone, che la tengono, ed il popolo e pubblico si sceglie ove più le aggrada per comprare ciò che le piace, lo che sarebbe di gran dispiacere comprare da un solo colla privativa mentre si è veduto per lo passato che giornalmente venivano de ricorsi a questo Signor Governatore per lo strapazzo che si faceva dal Proventiere tanto della Pizzicaria, che del macello, ed ora con un generale appaluso questi vengono garantiti, si vede oculatamente per la pubblica

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piazza vendere per ogni dove Pane a prezzo vilissimo, ma buono, due macelli sempre aperti, oltre l'altri che avventiziamente vengono, chi vende in casa l'agnello a baj 4 la libra, chi il maiale nella pubblica piazza".

In questa lettera il Politi evidenzia due cose importanti per la loro novità: un certo rifiorire dei commerci con molti negozi aperti e la nuova libertà di scegliere dove acquistare i prodotti.

Oltre a questo Politi tiene a specificare come siano quasi scomparsi tutti quei ricorsi contro i proventieri pubblici che prima assillavano il governatore e la Sacra Congregazione con lamentele sulla qualità e sul prezzo delle merci da loro vendute. Tali lamentele comunque non erano soltanto l'espressione del malcontento dei concorrenti esclusi dalle gare d'appalto, come potrebbe far pensare il fatto che fossero anonime. Il numero e la frequenza di queste denunce le rende metafora del cattivo funzionamento di un sistema che permetteva agli appaltatori pubblici di ovviare agli impegni presi, quando brogliando sul peso e sul prezzo delle merci, quando ottenendo benefici o defalchi sulle "risposte" da pagare.

Politi, infine, è talmente entusiasta del libero commercio che nel chiederne il ripristino gli attribuisce perfino qualità miracolose, quando dice che il popolo grazie ad esso "pare che dalla tomba sia rinvenuto".31

Forse il libero commercio non avrà le qualità miracolistiche attribuitegli da Politi, però la sua affermazione trova conferma in una missiva del governatore inviata alla Sacra Congregazione e datata 1804. La lettera del govenatore non aggiunge niente di nuovo rispetto a quanto detto dal Politi, ma assume una sua importanza trattandosi di un documento pubblico e ufficiale, e avendo il carattere di informazione al Buon Governo.

Il governatore scrive che il commercio dei generi di pizzicheria procede in libertà da ormai un anno, e quello delle carni da più di due anni. Anche per quanto riguarda il forno è ormai cessato il regime delle privative, anche se ultimamente il Consiglio Cittadino, a causa di una qualche deficienza del genere, ha concesso di nuovo la privativa al pubblico fornaio per i mesi di agosto e settembre, "quelli meno importanti", sottolinea

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però il governatore. Questi probabilmente si riferiva al fatto che in quel periodo la città era meno affollata.

Dalla lettera emerge poi chiaramente l'adozione del sistema misto: infatti continuano a rimanere sia il pubblico macello che il forno del pan venale entrambi impegnati a garantire "lo sfamo della popolazione". E la progressiva affermazione del libero commercio continua anche negli anni successivi, protetta dal ritorno delle truppe francesi.

Nel 1808, quando sorge una controversia tra un macellaio pubblico che è riuscito a conquistare la privativa e alcuni suoi concorrenti che si dedicano al libero commercio, le truppe francesi intervengono a favore di questi ultimi e permettono loro di continuare indisturbati i propri commerci in barba alla privativa e con il favore della popolazione.

Ma la miglior prova dell'affermazione del libero commercio è che solo nel 1815 tornerà a presentarsi una richiesta di ripristino delle privative a nome di un certo Anacleto del Frate che chiede l'appalto della pizzicheria. Ma, pur nel contesto della nuova restaurazione pontificia, il Consiglio Generale decide di continuare con il libero commercio.32 Queste richieste inoltre si fanno via via più rade ed hanno ben poche speranze di venir soddisfatte.

Lo spaccio dei generi alimentari è strettamente legato anche al fatto che Civita Castellana è una città di passaggio verso Roma e i commercianti devono tenere ciò in debito conto nel rifornirsi delle scorte necessarie a garantire il "sicuro approvvigionamento" sia dei cittadini che dei forestieri. Anzi l'essere Civita Castellana una città di transito costituì uno dei principali argomenti contro il libero commercio da parte dei suoi detrattori. Così, nel settembre del 1803, in una lettera alla Sacra Congregazione il capo conservatore Franco Petti Antonisi, pur esprimendo la sua soddisfazione per la liberalizzazione del commercio del pane, dichiara che è necessario mantenre un fornaio pubblico "perché Civita Castellana Paese di gran passo, collocato in mezzo alle strade corriere, sopra un genere di prima necessità, non deve porsi all'azzardo e riposare sopra l'incertezza dei venditori liberi".33

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E come l'arte di commerciare è una delle principali fonti di lavoro in città, così l'ospitalità data ai viandanti che passano per Civita Castellana diretti verso Roma, dà lavoro a molti osti e albergatori. La presenza in città di 5 osterie e 4 bettolini è sicuramente documentata da una lista redatta a fini fiscali nel 1809, dove tra gli altri esercizi commerciali e manifatturieri risultano anche 5 osterie, tutte gestite dagli stessi proprietari, e 4 bettolini di proprietà di Mario de Carolis, ma affittati a 4 diversi gestori.34

Nel periodo da noi analizzato però l'attività non dovette dare dei grandi guadagni, in quanto i bettolanti erano impegnati nell'alloggiamento ed approvvigionamento delle truppe straniere. Per quanto riguarda gli osti invece, stando ad un'informazione del governatore del dicembre 1805, essi subirono danni incalcolabili durante l'invasione francese, tanto che lo stesso governatore, riguardo alla questione delle tasse arretrate, scrive che la comunità sarebbe stata ben contenta di non molestare più "questa gente".35

E queste difficoltà sono confermate anche dalla mole di richieste di reintegrazione per somministrazioni alle truppe straniere presentate da osti ed albergatori alla Sacra Congregazione di cui già si è trattato.

A viaggiare, oltre ai soldati, c'erano coloro che mossi dalla passione religiosa o dall'amore per l'arte prendevano la strada verso Roma, e allora Civita Castellana diveniva una tappa importante ed un luogo di sosta.

C'era poi chi viaggiava per motivi legati ai commerci. A tal proposito c'è da supporre che Civita Castellana proprio per la sua posizione fosse un centro di scambi e di commerci soprattutto per i paesi vicini. Lo dimostra una supplica inviata al Buon Governo nel giugno del 1790 a nome dei "popoli di Vignanello, Vallerano, Canepina, Carbognano e Fabbrica", nella quale si chiede il riattamento delle strade che portano a CivitaCastellana, definita una tappa fondamentale per il commercio dei loro prodotti che sono: vino, grano, castagne ed altri generi agricoli.36 Quest'ipotesi è anche parzialmente confermata da Candeloro nel suo Storia dell'Italia Moderna

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quando scrive che le città laziali erano dei centri amministrativi o mercati locali di prodotti agricoli.

Un'altra categoria che traeva guadagni dalla strada era quella dei maestri di posta, che asssicuravano il cambio dei cavalli lungo il percorso. Essi traevano dall'attività un duplice guadagno prima affittando i posti sulle diligenze e poi i cavalli.

A Civita Castellana "l'enfiteuta" della posta era il conte Alessandro Bonaccorsi. Come risulta da un ricorso da lui presentato al segretario generale del ministero degli Interni contro i suoi subaffittuari, i fratelli Ciancarini, che vorrebbero recedere dal contratto.37

E naturalmente tra coloro che vivevano delle strade non possono non considerarsi i briganti. Il problema principale da essi creato a Civita Castellana è quello della sicurezza delle strade. Per il periodo qui considerato, una prima traccia della loro presenza risale al maggio 1792, quando il governatore, in una sua lettera alla Sacra Congregazione, dichiara di aver ricevuto l'ordine dalla Sacra Consulta di far battere la strada consolare della città dai birri per inseguire i malviventi e far scortare i corrieri pontifici. Il governatore spiega però che a Civita Castellana i birri sono molto pochi e la loro opera viene richiesta anche per la custodia dei carcerati rinchiusi nella fortezza della città. Per questo chiede che per il controllo delle strade vengano impiegati i soldati a cavallo.38

Questo problema si presenta di nuovo nel gennaio del 1802 quando il bargello in una sua lettera esprime il timore che possano verificarsi degli "incidenti" durante la scorta dei corrieri ordinari delle lettere. Questi infatti sono accompagnati solo da due guardie a cavallo ed i birri "al momento del bisogno" potrebbero essere impegnati nella guardia delle campagne. Per questo, avendo saputo che sono stati assegnati cinque birri a cavallo al Comune di Otricoli, chiede che due di questi siano destinati a Civita Castellana.39

E infine un discorso su chi vive e trae guadagni dalle strade non può trascurare una breve descrizione della rete viaria che collegava Civita Castellana a Roma ed ai paesi circostanti. Tale rete viaria subì gravissimi danni in seguito ad un periodo di violente alluvioni nel 1789. Alcune perizie del 1790, non solo

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sulle strade, ma anche sugli acquedotti e sulle macine comunitative, presentano una situazione di estrema precarietà, sia per quanto attiene alla viabilità, che per la potabilità dell'acqua e le condizioni dei mulini. In particolare un architetto della Sacra Congregazione, Bracci, in una sua perizia scrive nel 1791 che il ponte detto Ritorto, che passa sul fiume Treja e porta alla Sabina, è "rovesciato" per metà della sua larghezza ed i carri non vi possono passare. Il ponte detto di Valle che conduce al Tevere è stato completamente demolito, come quello che passa sul Rio Filetto e conduce a Castel Sant'Elia.40

Se i danni poi risalgono al 1789 i lavori di rifacimento iniziano molto più tardi, e subito generano dubbi e controversie sulla regolarità delle gare d'appalto e sugli illeciti guadagni di coloro che se le sono aggiudicate, come si è già visto nei capitoli precedenti.

Ma oltre alle assi principali che collegavano Civita Castellana ai paesi vicini e a Roma, anche le strade interne della città erano in pessimo stato. In una loro missiva del 1797 i conservatori informano il Buon Governo che una delle principali arterie interne, quella che dal ponte detto della Porta conduce alla piazza principale, è molto dissestata e bisognosa di rifacimenti. Motivo per cui chiedono, dopo aver fatto stilare una perizia, che la Sacra Congregazione approvi i lavori necessari.41

Si è parlato finora della città in generale descrivendone le principali attività economiche, la diffusione del libero commercio, le condizioni delle strade, e si è visto come la figura emergente sia quella dell'allevatore amministratore, che non è un ecclesiastico, non è un nobile, non è un proprietario terriero, eppure, oltre a tenere le redini dell'economia ha pure in mano il governo della città.

Ma accanto a questa c'è un'altra figura che emerge tra le altre, non certo per la sua importanza, nè per il suo potere, ma certamente per il suo numero e la portata dei problemi che la sua presenza comporta: il povero. E' questa una presenza in città latente, ma che viene fuori da tanti piccoli episodi riportati soprattutto nell'Archivio Diocesano di Civita Castellana. È il caso di donne costrette ad aborti clandestini in seguito a relazioni adulterine, mentre il marito era in carcere o dopo essere

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rimaste vedove. È il caso dei neonati abbandonati ad opere pie mediante il sistema della ruota, o del povero Domenico Perini, significativamente detto "fulminapagnotte", che dopo essere stato ospitato in una cascina limitrofa alla chiesa cattedrale, viene sorpreso a rubare nel palazzo vescovile. L'avvocato dei poveri, incaricato della sua difesa, chiede per lui l'assoluzione in quanto, dice, ha commesso il fatto per fame e povertà. E poi, aggiunge, anche se gli venisse comminata una pena pecuniaria, non sarebbe in grado di pagarla. Quanto poi alla pena corporale che dovrebbe essere comminata al posto di quella pecuniaria, non ha egli già sofferto abbastanza in carcere?

A volte poi gli indigenti diventano oggetto di particolari iniziative a carattere caritativo molto diffuse ancora agli inizi dell'0ttocento. Sono iniziative mosse anche da reale spirito religioso, oltre che dalla speranza di ottenere particolari indulgenze grazie alle preghiere dei beneficiari. È il caso di un'anonima donazione di 90 scudi romani elargita nel 1800 a favore dei poveri della città per pietà religiosa, forse acuita dalle recenti circostanze e nella speranza di un segreto favore da parte del Supremo dopo la morte. L'ignoto autore del lascito, infatti, ha un'unica richiesta da fare ai suoi beneficiari e cioè che preghino per la salute della sua anima e del suo corpo.

La presenza del povero è palpabile anche in qualcuna delle suppliche o delle lettere inviate alla Sacra Congregazione. Da una supplica del settembre 1790, ad esempio, si può rilevare che i guadagni dei meno abbienti non sono sufficienti neppure a comprare il pane giornaliero. Il tutto mentre i proprietari terrieri imboscano il grano per speculare sui prezzi e nel contempo la popolazione soffre la fame.42 La presenza del povero infine, diventa palpabile in tutta la sua drammaticità nella documentazione relativa al periodo francese, quando nei bilanci annuali viene annotata con minuziosità e precisione tutta una serie di misure a favore dei poveri.

La necessità di assumere un medico ed un chirurgo condotti, ad esempio, viene spiegata con il fatto che la città è composta in prevalenza da poveri che non potrebbero permettersi un medico privato. Nel processo verbale del bilancio del 1811, al capitolo V dedicato ai soccorsi pubblici, si giustifica così la necessità di

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assumere un medico fisso oltre al titolare della condotta: "Visto che la classe indigente forma la massima parte della Comune e che è troppo necessario avere un medico fisso specialmente nell'estate, in cui le malattie segnatamente delli poveri contadini che tornano dalle campagne maremmane, e per la poca salubrità dell'aria".

Ad aggravare la situazione si aggiunge quindi anche la diffusione di un'epidemia, che a scadenza annuale colpisce la popolazione nei mesi estivi. Si tratta forse di febbri malariche. Ma oltre che al Comune il sistema sanitario cittadino è legato anche all'ospedale di San Giovanni Decollato, come si legge nel verbale del bilancio del 1811 dove è scritto: "Questo luogo pio è stato istituito dalla Pietà di diversi individui che hanno lasciato i loro beni alla confraternita di detta chiesa di San Giovanni Decollato con l'obbligo di mantenere la chiesa, adempire diversi legati, fare una processione di Venerdì Santo sotto pena di decadimento, mantenere gli ammalati poveri del paese e quelli che sono trasportati da Narni".

Per quanto riguarda la sua gestione la donazione prevedeva che l'ospedale fosse amministrato direttamente dalla confraternita. Infatti è scritto, sempre nel citato bilancio del 1811, che: "L'amministraziione di questo luogo Pio era (... ) presso la confraternita (... ) la quale eleggeva l'amministratore o sia il depositario che veniva ogni anno sindacato da due sindaci membri di detta confraternita, e ogni tre anni si assoggettava alla visita del Vescovo Diocesano". Notizie più particolareggiate circa le caratteristiche dell'ospedale si traggono dalla lettura del verbale relativo al bilancio 1812. Qui l'ospedale viene descritto come costituito da una corsia con otto posti letto, mentre collegate alla corsia sono due piccole stanze laterali che a loro volta possono ospitare due letti ciascuna per un totale di 12 posti letto.

L'edificio comprende anche altre quattro stanze ai piani superiori, che però non sono utilizzabili, e anzi necessitano di essere "soffittate". Il locale viene giudicato "di sufficiente aria salubre", il che nella terminologia del tempo doveva significare che rispettava le fondamentali condizioni igieniche.

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Inoltre, in base ad un calcolo sulle entrate dell'ospedale previste nella donazione e sulle spese necessarie per il soggiorno di un ammalato, il Consiglio Cittadino giunge alla conclusione che l'istituto può ospitare non più di due ammalati al giorno. Ma confrontando questi dati con l'affollamento dell'ospedale calcolato nel 1811 si scopre che l'istituto, a quella data, ospita ben 72 degenti. Sono molti di più dei 12 posti letto disponibili e dei due malati che il bilancio dell'istituto permette di ospitare, calcolando le spese per il vitto, le cure degli ammalati, l'assistenza ai moribondi da parte di un curato cappellano e altre per il personale, come l'economo innanzitutto, poi i medici, gli infermieri ed anche un fattore di campagna.

L'ospedale deve sostenere inoltre le spese per il trasporto dei malati anche da alcuni paesi limitrofi, nonché quelle legate al culto ed in particolare alla festa di San Giovanni Decollato.43

Nella realtà appena descritta, con un così alto numero di indigenti, non possono sorprendere i dati relativi all'alta mortalità durante il periodo da noi analizzato. Mortalità certo determinata da eventi di guerra, ma senza dubbio accentuata dalle deplorevoli condizioni di vita.

Quest'ipotesi viene del resto confermata anche dalla mancanza, nella storia dell'occupazione straniera a Civita Castellana, di episodi di sangue particolarmente cruenti, a parte la fucilazione nel 1799 ad opera dei francesi, di alcuni cittadini più compromessi con gli austro-aretini.

Prima del 1798 la città doveva contare circa 6.000 abitanti per poi ridursi drasticamente dopo il biennio repubblicano. In base a dati risalenti al 1801, infatti, sembra che la popolazione raggiunga appena i 3.000 abitanti.44 C'è da dire che nel luglio dell'anno successivo, Alessandro Buttaoni, un inviato pontificio, fa una stima inferiore, secondo la quale Civita Castellana non supera le 2031 anime. Tale stima, e per la sua puntigliosa precisione, e per la carica ricoperta da colui che la redige, sembra la più attendibile.

Ma è solo da documenti ancora posteriori che si ricava la notizia di una drastica riduzione della popolazione. Nel 1806, dopo l'inizio della seconda fase dell'occupazione francese (quella che coinciderà con la formazione dell'Impero), in una lettera a

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nome del popolo di Civita Castellana si parla di una popolazione ridotta di un terzo rispetto a quella del periodo prerivoluzionario.45

La nuova ondata di occupazioni farà scendere gli abitanti a 1700 nel 1809. Così risulta da una lettera che nel febbraio del 1809 il capo conservatore di Civita Castellana invia al pro segretario di stato, chiedendo come possa una città di così pochi abitanti ospitare 1.000 soldati in arrivo.46

Se questa diminuzione non è attribuibile, come si è detto, a fatti di sangue non resta che addebitarla ai saccheggi, alle requisizioni, alla penuria di generi alimentari conseguenti alla guerra. Mancano tra l'altro notizie su eventuali ondate migratorie in seguito alla guerra.

Tra le misure di tipo assistenziale prese dalla comunità a favore degli indigenti vi sono quelle relative all'istruzione pubblica. A questo compito, infatti, solo in parte riesce a supplire il seminario che resta a lungo chiuso nel periodo qui considerato, sia per difficoltà economiche proprie che per le vicende della guerra. A fronte di queste difficoltà, però, nel corso del Settecento il concetto di scuola come tappa fondamentale nell'educazione del futuro uomo "catolicus e sociale" è già stato acquisito. Non a caso è proprio Luigi del Frate, il visitatore pontificio inviato a Civita Castellana nel 1815, ad utilizzare queste parole e ad esprimere preoccupazioni circa la mancata educazione scolastica dei più giovani.

E misure comunitative a favore dell'istruzione pubblica sono senz'altro presenti nei bilanci redatti nel 1811 e nel 1812, durante il periodo imperiale. In particolare nel processo verbale del bilancio del 1812, nella sezione dedicata alle spese municipali ordinarie, si può leggere: " Avendo a cuore ilconsiglio municipale l'educazione e l'istruzione pubblica per lagioventù di una Comune per la maggior parte composta di popolazione indigente, e che manca di mezzo onde supplirvi, hacreduto esser necessari tre maestri di scuola, uno cioè perimpararle a leggere ed a scrivere ed un poco di aritmetica; l'altro di grammatica eloquenza e belle lettere ed il terzo difilosofia e Teologia" L'emolumento previsto in loro favore è di1000 franchi annui.

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Una certa sensibilità viene dimostrata anche nei confronti dell'educazione femminile. Si può leggere in proposito semprenelle stesse carte di bilancio: "Il consiglio municipale vista l'urgenza di aver un maestro per le ragazze di sesso femminile acciò ancor queste possano avere i principi di educazione ha accordato la solita annuale provvisione di franchi 214 annui". Oltre a questo sono previsti anche premi di incoraggiamento pergli alunni più diligenti per i quali viene erogata la somma di100 franchi47.

Misure a favore dell'istruzione pubblica venivano peròprese anche in seno all'amministrazione pontificia, come si puòdedurre da una polemica sorta nel dicembre 1804 su una decisione del Consiglio Cittadino definito come composto da "villici, artigiani e persone poco pulite" che avevano escluso dal suoincarico il maestro di teologia e morale. Ad avanzare la proposta era stato il deputato ecclesiastico, il quale aveva sostenuto inconsiglio la tesi che Civita Castellana non avesse bisogno ditale maestro.

In realtà dietro questa decisione si nascondevano problemi di carattere finanziario. Era infatti molto difficile per unacomunità in costante passivo sostenere le spese per l'istruzione pubblica, anche se gli emolumenti dei maestri erano generalmentemolto bassi ed era perciò difficile reperire istruttori abili ecapaci.

Queste difficoltà sono chiaramente individuabili in unalettera che i tre maestri cittadini inviano alla SacraCongregazione nel gennaio del 1807, minacciando di abbandonare il proprio impiego a causa dei ritardi anche di anni con cui vengonoloro pagati gli stipendi. In più, lamentano i maestri, la loro paga annuale, pari a 100 scudi da dividere in tre, è tropppo bassa. Motivo per cui essi dubitano che la comunità riuscirà atrovare altri istruttori desiderosi di sostituirli. Quindiritengono che la misura più conveniente, anche per la Sacra Congregazione, sia prendere provvedimenti in loro favore ondeevitare danni all'educazione dei giovani a causa di un loropossibile abbandono48.

Spesso educatore dei giovani era il curato a cui incombevanoaltre occupazioni. Per questo aveva poco tempo da dedicare alla scuola.

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Nel novembre del 1801, ad esempio, il canonico FrancescoMorelli presenta alla Sacra Congregazione una denuncia contro unodei maestri comunitativi, padre Bernucci, giudicato inidoneo ad esericitare tale incarico. A conferma di quanto sostiene egliacclude alla sua lettera la testimonianza degli alunni: " Noi Sottoscritti Scolari nell'anno scorso del Padre Giammaria Bernucci Minore Conventuale, ed attuale pubblico Maestro della Comunità di questa Città di CivitaCastellana, attestiamo mediante anche il nostro giuramento, che il sud. in tutto il tempo che ci ha fatto scuola, non ci haistruiti nella maniera, che si richiede, nè ci ha fattofare alcuno esercizio respettivamente nè nella gramatica, nè nell'umanità, e Rettorica, anzi tali scuole ha eglisostanzialmente trascurato: per il che non si è fatto alcunprofitto. Aggiungiamo di più che il medesimo in vece di istruirci nelle lettere, ci ha molto scandalizzato colla suacondotta, per la amicizia che ha di una Donna (... ) labettoliera, del che mormora tutto il Popolo, fino a farci far da mezzani de reciproci regali fra di loro; e con introdurla unavolta dove noi con tutti gli altri scolari stavamo in onestaconversazione, ed ivi con esso lei faceva dè scherzi illeciti con meraviglia, e scandalo di noi tutti. Per le quali cose tutte, e specialmente per il cattivo esempio, che egli ci dà, abbiamolasciato la sua scuola, e col consenso dei nostri, cui è noto il tutto, ci siamo scelti altro particolare maestro"49. Altri alunni ancora scrivono di aver trovato padreBernucci"oscuro nelle spiegazioni , e di poca iniziativa".

E questo caso non è un'eccezione. Non sono infatti piùfortunati gli alunni del 1805, quando un consigliere di CivitaCastellana, e padre di famiglia, scrive alla Sacra Congregazione a proposito della cattiva condotta dei due maestri di grammaticae morale: " i due Maestri di Grammatica Can. D. Francesco Morelli; e di Morale Curato D. Filippo Midossi (... ) primieramente occupandodue Ecclesiastiche Prebende di continua briga, l'impedisce ilpotere fare il suo dovere, con i suoi discepoli. Per la mancanza del necessario tempo sono costretti a fare le scuole nell'ore nonconvenevoli, e di restringere le occupazioni ai Scolari, tanto che ne viene a risentire un pubblico danno la Popolazione, perché vede che i suoi Figli in

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queste scuole nulla profittano. Riconosciuto l'anno Scorso ed appresso dal pubblico Consiglio inparte il cattivo regolamento di questi due Soggetti, quello di Morale fu escluso, e poi fu rintegrato al Posto dall EE. VV. Si prega dunque la S. Congregazione del Buon Governo di obbligare ilCanonico a soggiacere all'appuntature, tanto più che si restringono a sole otto o nove il Mese. L'altro poi cioè ilCurato, che debba lasciare qualcuno incombensato a far le di luiveci in tempo di Scuola, e ché vi si possino occupare di proposito all'oggetto che la Comunità e Popolazione ne vada arisentire vantaggio col vedere l'acquisto delle Scienze nei suoiFigli"50.

Bisogna aspettare l'ottobre del 1815, dopo che anchel'inviato pontificio Del Frate aveva espresso nel suo resocontoun pessimo giudizio sul modo in cui la comunità gestiva l'istruzione scolastica, esprimendo in particolare duri giudizisulla competenza e preparazione dei maestri, per vedere il Consiglio Segreto deciso ad emanare nuove regole sulla scuola.

Risulta evidente dal verbale della seduta consiliare tenutaappunto nell'ottobre del 1815. Per prima cosa si indice un nuovoconcorso per l'assunzione del maestro di grammatica, materia definita "la più necessaria tra le altre". Per questo si vuoltrovare un maestro "eloquente ed erudito". Per un maggior controllo sugli insegnanti inoltre si crea una speciale "deputazione scolastica", composta dal capomagistrato e dai tre più eruditi maestri reperibili in città. Dovrebbe vigilare sulle capacità e sul lavoro svolto dai maestri, con particolare attenzione a che vengano rispettati gliorari di lezione. Viene poi riconosciuta la diversa professionalità degli insegnanti differenziando gli emolumenti a seconda delle loro capacità e della difficoltà della materia insegnata: 30 scudial maestro di ABC, 80 al maestro di grammatica e 100 a quello di retorica. Ancora la scuola viene trasferrita in locali più idonei eatti a far svolgere le lezioni in un unico edificio. Sarà pure ripristinato l'uso del campanello per segnalare l'inizio dellelezioni. Questo suono, avvertito anche dai genitori, avrebbescoraggiato le assenze degli scolari che spesso disertavano la scuola con l'inganno che era chiusa. Quanto poi al problema dell'assunzione o meno di un maestrodi filosofia e morale, già sollevato in

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precedenza, si propone di risolverlo integrando i programmi della scuola comunale conquelli del seminario. Alla scuola sarebbero spettati solo gliinsegnamenti basilari, al seminario quelli successivi51.

Si è iniziato questo capitolo dicendo che non ci saremmoposti peoccupazioni di carattere cronologico. La problematica ci è però alla fine proposta non dall'argomento trattato, ma dalla qualità della documentazione utilizzata. Emerge infatti unanetta differenza tra quella del periodo pontificio (dalla qualepossono trarsi notizie sulla vita della comunità solo in maniera indiretta e comunque secondaria rispetto alle finalità prime del documento), e l'altra relativa al periodo francese, particolarmente al periodo che va dal 1810 al 1814, essendo andato perduto il materiale del periodo repubblicano. È quiinfatti che emerge con maggiore chiarezza la vita dellacomunità, la sua storia e la storia delle sue principali istituzioni. Merito anche degli stessi francesi che, accingendosi al governo della città ebbero bisogno di scopriretutti i meccanismi del suo funzionamento per poter poi adottare quelle misure atte ad instaurare una gestione diversa da quella pontificia. Capitolo V

La comunità e i francesi Non è un caso che nel capitolo precedente la gran parte

dellenotizie riguardanti la politica sanitaria, l'istruzione el'assistenza ai poveri provengano dai fogli di bilancio del 1811 e del 1812. Questo periodo coincide infatti con l'assestamentodel governo francese e con l'inizio di quella fase di indaginee di censimento che nelle intenzioni dei nuovi amministratori avrebbe dovuto aprire le porte ad un periodo di profonde riformein quelle che ormai erano divenute le province dell'Impero. Nel 1811 questa fase di studio entra nel vivo con la compilazione del primo bilancio, proseguita poi nel 1812:

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entrambi questilavori ebbero una forte valenza conoscitiva per il governofrancese, ma la hanno anche oggi per chi volesse trovare notizie complete ed omogenee sulla realtà e le origini di molte istituzioni cittadine. Viene qui ricostruita in maniera moltochiara, ad esempio, la storia dell'ospedale di San Giovanni Decollato, di cui nel capitolo precedente si è potutadescrivere l'origine ed i forti legami con l'omonimaconfraternita. La redazione dei bilanci però è anche occasione di consuntivi e di chiarificazioni. Vengono ad esempio censiticon precisione i debiti a carico della comunità. Questi sonodistinti in debiti "fruttiferi, così denominati perché derivanti dai frutti di censo che prevedevano il pagamento dideterminati interessi annui, e in "debiti secchi", quando eranorelativi alle tasse arretrate ed erano costituiti dai debiti provenienti dalle mensualità non corrisposte. In più, venneroannotati, quei debiti che sarebbero potuti derivare dalla perditadella causa intentata dal marchese Andosilla contro la comunità di fronte al Tribunale del Buon Governo per ottenere irimborsi per le somministrazioni date alle truppe francesi e austriache.

Oltre all'elenco dei debiti viene stilato con precisioneanche l'elenco delle rendite ordinarie della comunità: l'affittodei beni enfiteutici del Comune come i pascoli, il diritto di depositeria del bestiame, il dazio dell'entratura e dell'uscitura(a cui erano sottoposti tutti coloro che introducevano merci aCivita Castellana per venderle nel mercato), l'affitto delle due mole comunitative, tanto per citare i più importanti. Emerge daquesto quadro in maniera più chiara ed omogenea la situazionefinanziaria della comunità e, fatto questo, si può passare alla previsione delle "spese municipali ordinarie" quali quelleper l'istruzione, o quelle per i "soccorsi pubblici" come lasanità, o ancora per il culto.

La stessa procedura viene utilizzata nella compilazione delbilancio del 1812: prima il debito municipale poi le renditemunicipali ordinarie e quelle straordinarie. Viene inoltre stilato l' esatto elenco dei debitori comunitativi "illiquidi elitigiosi "avanti l'anno VIII" nel 1811, e quello dei debitoricomunitativi "dopo l'anno VIII" nel 1812. Tra questi sono presenti: Augusto Paglia debitore dal 1803 per reliquato del

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suodepositariato e Angelo Cicuti debitore dal 1808 per un residuosull'affitto delle mole comunitative.

Considerata in tal senso questa prima fase assume la valenzadi periodo preparatorio alla programmazione di azioni future chepermetteranno un risanamento della situazione finanziaria ed un futuro inquadramento della comunità nell'ambitodell'amministrazione imperiale francese. Sembra questo ilpreludio ad una nuova forma di governo che i francesi, trasformatisi in una sorta di architetto demiurgo, tentano diesportare in tutta Europa, dopo averla sperimentata in patria. Elemento essenziale alla realizzazione di questo progetto è l'unione tra la razionalità, la capacità di programmazione e pianificazione, il senso dello stato acquisiti dai francesi e, la realtà amministrativa delle nuove province dell'Impero.

Ma quello che nasce da quest'unione non è un incontro, bensì uno scontro, anche se non si tratta di un brutale corpo acorpo, ma di una sottile lotta che vede la comunità opporsi ad una realtà che non conosce per difendere, ancora una voltatenacemente, quel particolarismo municipale che l'aveva oppostaanche alla Sacra Congregazione.

Si instaura così di nuovo un rapporto conflittuale tracentro e periferia il cui dispiegarsi è molto simile a quelloche oppose la comunità alla Sacra Congregazione nel 1801. Il nuovo governo imperiale per prima cosa costituisce una nuovaamministrazione cittadina e ne individua il responsabile nelmaire. Questi sarà sottoposto ad un controllo concentrico da Roma e da Viterbo sempre più stretto finché non si adeguerà adun nuovo modulo di governo: quello voluto dai francesi.

Le prime resistenze da parte della comunità però si rivelano già nella lettura dei libri di bilancio del 1811 neiquali, ad esempio, è contenuta una controversia tra il maire edi suoi diretti superiori: il sottoprefetto di Viterbo ed il prefetto di Roma. Il maire vorrebbe introdurre in città alcunidazi non previsti nel bilancio del 1811, ma il sottoprefetto diViterbo lo ammonisce che questi nuovi dazi devono essere immediatamente aboliti, non essendo stati introdotti nelbilancio. Poi nel maggio del 1811 il prefetto di Roma negadefinitivamente l'approvazione a questi nuovi dazi. Il tutto nonostante il maire

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avesse giustificato la sua richiesta con gliscarsi profitti ottenuti da una delle principali imposte dellacomunità.

Un'altra controversia che sorge tra le autorità cittadine equelle francesi è relativa alle spese di amministrazione. Itermini della vicenda sono ben chiariti dal testo di una lettera che il maire invia al prefetto di Roma il 23 gennaio 1810, nellaquale egli lamenta che la cifra fissata per le spese diamministrazione, è del tutto insufficiente. Nel modello inviatogli dal sottoprefetto di Viterbo, infatti, per questespese si prevedeva una quota di 9 baiocchi per ogni abitante. Il maire obietta che questa cifra potrebbe anche essere sufficiente in una città dalla popolazione numerosa, non certoa Civita Castellana che conta solo 1800 abitanti. In base alleprevisioni del modello, infatti, si potranno ricavare tutt'al più 172 scudi per le spese di amministrazione, mentre solo lostipendio dei due segretari comunitativi richiede la somma di264 scudi. Senza considerare le spese relative al mantenimento di un corpo di polizia ed alla compilazione dei registri di statocivile, o gli emolumenti per i domestici ed il trombettiere, oancora le spese più minute come quella per la carta. Il maire, in conclusione, chiede di poter supplire a queste spese con altre rendite comunitative, ma il prefetto di Roma rispondenegativamente a tali richieste facendo presente l'esistenza di alcune disposizioni di legge che non possono essere eluse. Per dipiù, egli è del parere che un solo segretario a CivitaCastellana sia più che sufficiente e che gli emolumenti fissati dal Consiglio Cittadino siano eccessivi per un piccoloComune. Il contrasto si presenta di nuovo nel settembre del 1811. Lo mostra il testo di una nota che il sottoprefetto del circondariodi Viterbo invia al prefetto di Roma, facendosi portavoce dellarichiesta del maire di disporre dei 300 franchi destinati nel bilancio all'istruzione, per le spese di amministrazione. Larichiesta è motivata con l'esaurimento dei fondi assegnati aquesto scopo. Da Roma però si risponde che la quota fissata per legge per le spese di amministrazione è di 50 centesimi perabitante e che questa cifra è invariabile.

E ancora nel settembre del 1812 una nota del sottoprefetto di Viterbo ci informa delle lamentele del maire circa l'esiguitàdella cifra destinata in bilancio alle spese di amministrazione. In

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particolare, il maire rende noto che questi fondi sono ormai del tutto esauriti e manca anche il necessario per pagare gliimpiegati. Chiede quindi che gli sia messa a disposizione unasomma di 350 franchi, ma ancora una volta la risposta che viene da Roma è negativa, e si suggerisce tutt'al più di far presentela questione in consiglio municipale in vista della compilazionedel bilancio per il 1813.

Questa controversia non si caratterizza tanto per il fattonuovo in se stesso, cioè le richieste di modifiche al bilancioavanzate dalla la comunità verso il centro, cioè Roma, quanto per il diverso rapporto che si instaura tra le due entità. Quello che legava la comunità al sistema pontificio era unrapporto quasi paternalistico da parte di quest'ultimo per cui ci si poteva tranquillamente rivolgere a Roma ed avanzare richiestedi modifiche sui bilanci redatti con un anno di anticipo (vedisgravi sulle tasse o defalchi sugli affitti dei proventi comunitativi) attraverso una procedura con la quale la comunitàtrovava in conclusione buon gioco nel sottrarsi agli impegni neiconfronti del potere centrale. Il trascinarsi della questione dei debitori comunitativi, i ritardi nel trasmettere le tabellecomunitative, le orecchie da mercante che gli amministratorilocali opponevano agli ordini della Sacra Congregazione ne sono un chiaro esempio. Ora si assiste, invece, alla rottura di questo rapporto. Lacomunità è chiamata a rispettare i propri impegni e le suppliche al prefetto di Roma sono inutili e non trovanoascolto. Ed è qui che il tentativo di riforma operato daifrancesi si differenzia da quello pontificio del 1801 il quale era tutto improntato al recupero dei fondamentali valori etici e morali su cui si basava lo Stato della Chiesa. In questaconvinzione l'azione del Buon Governo trovava la sua forza, ma anche il suo limite: si ricercavano uomini onesti e probi damettere alla guida della città, mentre le formule di governocontinuavano a rimanere le stesse. Certo ci fu la riforma fiscale del 1801, ma l'esazione fiscale continuava ad essere affidata aidepositari e le formule di controllo erano sempre legate allavecchia Congregazione Economica secondo moduli già sperimentati.

Non è questo, quindi, il semplice ripetersi della vecchiadialettica tra centro e periferia che tanto spazio aveva

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trovatonel sistema pontificio. Qui si assiste allo scontro tra due opposte mentalità: quella francese, che ha ormai acquisitocapacità di pianificazione e programmazione politica e unaseverità burocratica contraria a qualsiasi stravolgimento delle disposizioni prese, e quella degli amministratori locali, avvezziall'arte del lasciar fare ed abituati a porre riparo a qualsiasi inconveniente inviando suppliche su suppliche al Buon Governo per ottenere esenzioni sulle tasse da pagare, aggiustamenti di bilancio, rimborsi su somministrazioniinesistenti od altro. E se anche il silenzio può parlare, qui a parlare è l'assenza di quella serie di documentazione, tantoampia in seno all'amministrazione pontificia, che potrebbe essereclassificata come "carte di doglianza". Assenza che già da sola attesta l'instaurarsi di un nuovo rapporto tra centro eperiferia, scevro da paternalismi ed assistenzialismi ocompiacenti negligenze.

Le nuove autorità, poi, oltre ad essere contrarie aqualsiasi eccezione sulle disposizioni già prese, pretendonoanche che queste siano stilate con la massima compiutezza e precisione. Lo conferma in particolare un episodio legato aquella stretta corrispondenza che intercorreva tra ilsottoprefetto di Viterbo ed il prefetto di Roma, barone De Tournon. Da una lettera del sottoprefetto al barone de Tournoni rileva come quest'ultimo avesse rifiutato l'approvazione deicontratti d'affitto dei pascoli comunitativi perché non era stata indicata in essi neppure la data d'inizio e di finedell'affitto. Ora, con una lettera del novembre 1812 ilsottoprefetto i Viterbo assicura il barone De Tournon che si è provveduto stabilendo l'inizio dell'affitto al primo ottobre 1811ed il termine al 21 aprile 1812. Lo scontro tra le due opposte mentalità e il contesto di guerra in cui le nuove autorità si trovano ad operare, costituiscono un ostacolo ai tentativi di riorganizzazione delgoverno da parte dei francesi. Questo periodo coincide infatti, con una nuova ondata di conquiste napoleoniche: quella che va dal1805 al 1809. Viene allora smantellata l'amministrazione pontificia, mandati in esilio molti cardinali ed incorporati al Regno d'Italia i dipartimenti del Metauro, del Musone e del Tronto. La situazione precipita poi nel maggio del 1809 quando si dichiara decaduto il potere

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temporale dei papi. Alladichiarazione segue l'annessione di Roma e dei residui territoridello Stato Pontificio all'Impero.

Al termine di queste vicende lo Stato della Chiesa nonesiste più: il papa è di nuovo in esilio, mentre le provincesettentrionali ed adriatiche sono state incorporate al Regno d'Italia, Roma è la seconda città dell'Impero e Umbria e Laziodiventano province di Francia1. Le vicende della guerra tornanoad incidere in maniera determinante sulla vita di Civita Castellana. Basti in proposito ricordare, come già detto, che nel 1809da questa comunità che conta 1700 abitanti si pretende l'alloggiamento di 1000 soldati. Tanto che il magistrato in una sua lettera al pro segretario di stato, il 25 febbraio, chiede come possa l'amministrazione cittadina trovare 1000 letti per i francesi afronte delle 1700 persone che abitano Civita Castellana. Quanto alui ed al pubblico general consiglio non hanno trovato altra soluzione che inviare "una spedita supplica" al pro segretario distato "affinché degni riparare alla funestissime conseguenze chesicuramente prodotte verrebbero dalle truppe"2.

In questo contesto la prima a risentirne è la già fragileeconomia cittadina che ancora subisce gli effetti del periodorepubblicano e dei saccheggi e delle requisizioni che ne seguirono. Scrivono nel 1809 i pubblici rappresentanti : " La città è piena di miseria, territorio abbandonato per mancanza di braccia ed una popolazione non maggiore di 1500 anime(... ) In oggi l'economia della nostra città è fallita affatto enon si sa vedere la maniera , come poter più pagare alcuno e come molto meno resistere alle frequenti spese di casermaggio. Sela lodata S. Congregazione non accorda e manda sollecitamente icompensi delle spese già fatte, la comunità di Civita Castellana andarà come suol dirsi a fiamme ed a fuoco". Quanto poi l'occupazione abbia pesato sulla popolazioneviene dettagliatamente spiegato in una lettera del marzo 1809 a nome dei conservatori e dei cittadini di Civita Castellana. Questi scrivono: " Sono più di 10 anni che questa piccola città composta di non più di 1500 anime ha dovuto continuamente alloggiare e Francesie Tedeschi e Napoletani e Italiani e Turchi e Russi e finalmentei briganti, che gli devastano tutto il territorio, e gli diedero il saccheggio nella città. A questi

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aggravi finora questadesolata città ha resistito con depauperarsi affatto per noncompromettere se stessa, ed il Principato (... ) ma ora è ridotta all'impossibile e domanda Pietà (... ) che continuandosi nellapresente maniera oltre ai disordini che possono nascere resteràin tal guisa travagliata che non potrà pagare i dazi dovuti al principato per la sua povertà e dovrà abbandonare i lavoridelle campagne ed i propri interessi necessitando per l'alloggionon solo il consumo di biancheria ed altro ma l'assistenza continua per servire gli ospiti e stare attenti all'onore dellefamiglie con impiegare le giornate, e dormire per terra la nottee rendersi impossibilitati al lavorio della campagna"3.

Che le attività nelle campagne siano ormai abbandonate èconfermato anche da una lettera del "deliberatario dell'affittodel danno dato", Giuseppe Mariangeli, che nel marzo del 1806 chiede un defalco rispetto all'affitto pattuito. Egli, in cambiodi una corrisposta annua, riceve il diritto di recepire iriscatti che gli allevatori di bestiame pagano su ogni bestia che è stata sequestrata, per essere stata trovata a pascolare nei terreni seminativi. Giuseppe Mariangeli spiega, però, che è ormai superfluo controllare che buoi e cavalli non distruggano i seminati, inquanto gli armenti sono stati tutti requisiti ed impiegati per lenecessità dell'armata francese4.

Ma non sono solo le attività nelle campagne ad esserebloccate dall'arrivo delle truppe napoleoniche. Sempre nel marzo del 1806, infatti, l'affittuario della castagneria, che in cambio di una corrisposta annua acquisiva ildiritto esclusivo di distribuire castagne in città, chiede undefalco dall'affitto stabilito.

Egli giustifica questa sua richiesta con il fatto che almomento della stipulazione del contratto non era stato previstoil passaggio di truppe straniere; mentre è proprio questo ora a rendergli impossibile la continuazione dei propri commerci. Questo avviene non tanto perché ci sia penuria di castagne, quanto perché la deficienza di mezzi, requisiti dalle truppe, e la pericolosità delle strade, invase dai soldati, gli rendeimpossibile procurarsi il genere5. Emerge da queste suppliche una città stravolta nella propria realtà economica e sociale, essendo

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qualsiasi attivitàsospesa, mentre ormai l'unica preoccupazione è diventata quelladi far fronte all'alloggiamento dei francesi.

Questi disagi si riflettono naturalmente sulla giàcompromessa situazione finanziaria della comunità. Le difficoltà sono tali anzi da impedire una qualsiasi previsione finanziaria. Nell'aprile del 1806, infatti, lacomunità giustifica una richiesta di dilazione sullacompilazione del bilancio a causa del passaggio "numerosissimo" di truppe straniere. Fatto che ha provocato l'esaurimento deifondi pubblici rendendo difficile qualsiasi previsione6. A peggiorare la situazione si aggiunga ancora che Civita Castellana è una "località di passaggio", come scrivono ipubblici rappresentanti nell'agosto del 1806 alla SacraCongregazione. Motivo per cui è particolarmente esposta al transito di truppe straniere che assorbono tutte le sue risorsefinanziarie, cosicché le casse pubbliche sono talmente esausteda rendere impossibile persino il pagamento dei "salariati"7.

La stessa situazione si presenta il mese successivo quando iconsiglieri cittadini spiegano in una lettera alla SacraCongregazione di essere stati costretti a far anticipare l'affitto di un provento comunitativo per poter pagare gliemolumenti dei salariati. Infatti solo grazie all'anticipo di 300 scudi versato dall'affittuario del provento si potrà venire incontro allerichieste dei dipendenti comunitativi8. È naturale in questi frangenti il contrapporsi di opposti egoismi per cui ognuno pensa di aver più diritto degli altri e particolari esenzioni, mentre l'obbligo di alloggiamento e dirifornimento di generi alle truppe pesa su ognuno: privati cittadini, locandieri, opere pie e a volte perfino le chiese. Ma sono gli albergatori o osti, locandieri, o "bettolanti", come vengono chiamati, a sentirne il peso maggiore.

Nel luglio del 1807 Salvatore Antinori scrive una lettera alsegretario di stato dalla quale risulta che da ormai più di unanno il suo albergo ospita ininterrottamente soldati. Nonostante le spese sostenute, però, egli non ha ricevuto in cambio alcunrimborso. E il caso di Antinori non fa eccezione: il governatore, nell'inviare al Buon Governo un'informazione in

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proposito, nell'agosto del 1807 scrive che ormai è divenuta prassi comuneper tutte le locande ospitare solo soldati.

Ma pur riconoscendo i sacrifici degli albergatori eglispiega che: " le spese di casermaggio in questa Tappa hanno portato finora la spesa di circa 9000 scudi per le quali la comunità ha vuotato tutte le casse, ha contratti debiti immensiper i quali non può più andare innanzi così nè al Ricorrentenè agli altri albergatori può darsi sussidio di sorte alcuna"9. A volte poi la tensione degli albergatori giunge al limite, come quando nel 1815 il chierico Vincenzo Minio, che svolge la funzione di commissario di guerra, viene assalito da unbettolante irritato dal dover dare alloggio a un sergentemaggiore della disciolta armata napoletana.

Ma oltre agli abergatori si fanno sentire anche i "particolari", cioè i privati cittadini costrettiall'alloggiamento dei militari nelle proprie case.

Ed è facile immaginare che, fra tutti, a farsi piùascoltare siano coloro che hanno maggior voce in capitolo. Nel settembre del 1808, ad esempio, è il marchese Andosilla a protestare perché, a suo dire, il peso degli alloggidell'ufficialità francese viene fatto ricadere iniquamente sutre o quattro "possidenti".

Il fatto è documentato in un suo ricorso inviato alla SacraCongregazione nel settembre del 1808, con il quale egli chiedeuna più equa ripartizione di tale onere.

Non si fa attendere la replica da parte della magistraturacittadina che risponde alle insinuazioni dell'Andosillaassicurando che per lo smistamento dei militari è stata creata un'apposita Deputazione composta da tre individui fra i quali unecclesiastico ed un segretario. Il Consiglio Cittadino ha inoltreordinato una nota di tutti i proprietari di case presenti a Civita Castellana "non esclusi i poveri gli artisti e icontadini". È proprio da questa nota, come detto nel capitolo precedente, che sono state poi scelte sei case per gli ufficiali dello stato maggiore, tra cui il palazzo dell'Andosilla e laresidenza vescovile, e quaranta case per gli ufficiali di secondo rango. L'organizzazione degli alloggi poi, è affidata ad unprocedimento meccanico scevro da qualsiasi favoritismo. Infatti a ciascun militare, appena arrivato in città, viene

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assegnato unbiglietto con un numero progressivo con il quale dovrà poipresentarsi all'alloggio a cui è stato destinato10.

La presenza in città di un'apposita Deputazione per losmistamento dei militari in arrivo viene confermata anche daaltri documenti.

In particolare da una richiesta di emolumento del capodeputazione, Franco Petti Antonisi, del maggio 1809, si puòrilevare che questa è composta da tre uomini ricompensati con un emolumento mensile. Il suo scopo è quello di garantire il"Buon Ordine" e la "Pubblica Tranquillità".

A sentire però le molteplici proteste da parte di privati, albergatori ed opere pie, non sembra che la Deputazione riesca adassicurare quell'ordine e quella tranquillità ai quali era statadelegata.

Lo conferma un foglio che i pubblici rappresentanti diCivita Castellana inviano alla Sacra Congregazione nel gennaiodel 1809, per spiegare i motivi per cui l'abitazione del vescovo, che pur aveva ottenuto direttamente dal Buon Governo l'esenzionedall'obbligo di alloggiamento, è invece ora sottoposta a questoonere.

I pubblici rappresentanti danno sul caso una spiegazionesemplice ed allo stesso tempo significativa, e cioè che latruppa militare francese "a di lei capriccio vuol essere alloggiata"11. Questa breve frase è una spiegazione chiara ed allo stessotempo rivelatrice di come ormai le autorità cittadine siano completamente sovrastate dagli eserciti stranieri stabilitisi incittà. Una realtà che è confermata da altri due episodi. Il primo risale al 1808 e riguarda il pubblico macellaio Luigi Caprinozzi, che non riesce ad usufruire in maniera pienadel diritto alla privativa conquistato nell'ultima gara d'appaltoper la macelleria. La questione viene chiarita al Buon Governo dai conservatori cittadini. A loro detta il Caprinozzi si èaggiudicato in maniera non regolare la gara d'appalto, facendoprima un'offerta suppletiva a quella presentata dai propri concorrenti e poi, a gara vinta, procurandosi dalla SacraCongregazione il permesso per aumentare i prezzi. E scrivono i pubblici rappresentanti: " Una tal sovrana Risoluzione amareggiò di molto la classe Indigente, ma conrassegnazione si adattò a Decreti superiori. L'emoli

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delCaprinozzi vedendosi esclusi dal provento, assunsero la fornitura della Truppa Francese ed aprirono altro macello a dispetto di esso somministrando la carne alli militari, qui stazionati o dipassaggio, senza voler andare soggetti al dazio di consumazione col titolo di scannatura e non contenti pretendono di vendereanche la carne all'abitanti impunemente (... ) per un baj meno la libra".

Il Caprinozzi, indispettitto dalla "sleale" concorrenza, prima chiede il rispetto della privativa e poi, avendo ottenuto "un fraude" contro i concorrenti, tenta non solo di far chiudere loro il negozio, ma anche di farli arrestare. Ma mentre i birri si accingono a catturare i concorrenti intervengono le truppe francesi che costringono i birri alla fuga. Dopo questo episodio il Caprinozzi, infuriato, minaccia dichiudere il macello pubblico, mentre i suoi rivali continuano tranquillamente a vendere carne alla popolazione sotto laprotezione francese. Ma alla fine il titolare della privativa è costretto ad accettare la realtà dei fatti, come dimostra un suo foglio nel quale dichiara di rinunciare alla privativa mantenendol'impegno a garantire la "salubrità" e la qualità delle carnivendute in cambio di un abbuono sulla tassa di scannatura12.

Un altro episodio, forse più significativo, risale all'annosuccessivo, quando nel marzo del 1809 il marchese Andosilla chiede di essere sollevato dall'obbligo di ospitare nel suo palazzo un capo battaglione dell'armata francese. Questi daormai più di un mese vive nella residenza cittadina delmarchese con moglie, figli e domestici, rendendogli impossibile dimorarvi quando si reca a Civita Castellana. Rispondono alle sue rimostranze i magistrati cittadini conuna loro lettera alla Sacra Congregazione del gennaio 1809, spiegando che l'ufficiale francese, arrivato in città insiemecon un commilitone, fu alloggiato nella residenza del marchese credendo trattarsi di una sistemazione temporanea, come altrettanto il compagno nella residenza vescovile. Però: " Nei giorni seguenti con sorpresa si viddero qui rimanere e riunirsi ambedue nel Palazzo Andosilla senza la minima intelligenza della Deputazione, fattane dell'accaduto a noirappresentanza dal Ministro di detto Signor Marchese ciindustriammo a

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persuaderlo che la nostra abilità non era sufficiente a persuadere detti ufficiali per cambiare alloggio, ma bensì che eravamo pronti a compensare l'incommodo che imedesimi officiali recavano al Signor Marchese (col) somministrarle lumi e fuoco ed anche un compenso per il consumodella biancheria (... ) Più di questo non puol pratticarsi dallaMagistratura, e codesto S. Consesso meglio di noi conoscerà che non possiamo avere sufficiente potere per indurre detti ufficialia cambiare alloggio"13. Veramente poco invidiabile la situazione dei magistrati di Civita Castellana stretti tra le rimostranze di un nobile feudatario, il marchese Andosilla, e la boria degli ufficialifrancesi che non hanno nessuna intenzione di cambiare residenza. Ma al di là della situazione esteriore, indicative di una certarealtà sono anche le parole usate dai magistrati. In particolarese ne evidenziano due: abilità e potere.

Il potere è quello che manca alle autorità cittadine perimporsi agli ufficiali francesi e "l'abilita", qui intesa comearte diplomatica, è l'unica arma a loro disposizione. Un'arma spuntata però, perché non sostenuta da una forza reale ed èper questo che i magistrati non riescono a convincere i dueufficiali ad abbandonare il palazzo dell'Andosilla.

Dai documenti in questione, nel primo la debolezza delleautorità cittadine emerge dai fatti senza mai esseredichiarata, nel secondo sono gli stessi amministratori a riconoscere di non aver potere sufficiente ad imporsi suifrancesi.

È in tali circostanze che il vescovo, Lorenzo de Dominicis, decide di giurare fedeltà all'imperatore, contravvenendo a precise disposizioni papali ma seguito dallamaggioranza del clero cittadino. Così può desumersi da un elenco di sacerdoti, riferito a tutta la diocesi, che furonodeportati per non aver accettato di prestare il giuramento, elenco che alla voce Civita Castellana reca un solo deportato, l'arciprete Giovanni Morelli. Questi fu condotto prima a Piacenzae poi a Corte per essere giudicato a Badia ed infine trasferito aCalvi14.

Indagare ora sulle motivazioni che portarono il vescovo DeDominicis al giuramento è estremamente difficile sia per lacarenza di documentazione, che per la delicatezza stessa della scelta. Lo storico francese Jean Paul Bertaud, analizzando

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lasituazione del clero francese posto di fronte al giuramento alla costituzione civile del clero del 1790, descrive una realtà incui è impossibile distinguere "giurati" e "refrattari" in dueblocchi distinti.

I motivi che guidarono le decisioni degli uni e degli altrifurono infatti molto diversi. Accanto a uomini certamente legati all'antico regime, che si opposero al giuramento per motivi di principio, si trovavanocoloro che pur avendo inizialmente aderito alla rivoluzione se neallontanarono in seguito temendo un'eccessiva intromissione del politico in campo religioso. Dall'altra parte molti refrattarifurono condotti al giuramento dal timore di non veder garantitol'esercizio del culto. Alcuni sacerdoti giurati, inoltre ritrattarono in un secondo momento perché irritati dallapresenza al loro posto tra i fedeli di "intrusi" provenienti daaltre regioni.

Tra i vescovi, però, la percentuale di coloro che giurarono fu molto bassa: Bertaud ne conta sette in tutta laFrancia.

Più ampia fu l'adesione del clero con una metà deisacerdoti costituzionale e l'altra metà composta darefrattari15.

Quanto al caso del vescovo Lorenzo de Dominicis, Delfo Gioacchini nel suo Lorenzo de Dominicis vescovo giurato sostiene che questi fu indotto al giuramento dalla volontà di rimanere accanto ai propri fedeli e poter garantire lorol'esercizio del culto e della religione. In realtà Delfo Gioacchini, pur senza dargli troppo credito, accenna anche a supposte frequentazioni di De Dominiciscon Scipione dè Ricci, il promotore del giansenismo italiano cheaveva espresso simpatia per la posizione dei vescovi giurati in Francia16. Ma al di là delle diverse supposizioni che possono farsi,

gli unici testi che possono aiutarci a far luce sulle scelte di De Dominicis sono quelli relativi alla sua ritrattazione. La ritrattazione avviene il 23 marzo 1814 nella chiesacattedrale di Orte, di fronte ai fedeli e a quattro canonici che avevano anche loro giurato fedeltà all'imperatore. Così recita il testo della ritrattazione: " Io sottoscritto costretto dalla forza militare armata al giuramento di ubbidienza e fedeltà voluto da S. M. NapoleoneImperator dè Francesi, mi soggettai per timore di mali peggioria sottoscriverlo, colla dichiarazione però in voce,

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che tal giuramento dovesse valere soltanto per le cose lecite, e noncontrarie alle leggi di Dio , e della Chiesa, quale fu da merinnovata con lettera speciale diretta al sotto prefetto di Viterbo, e poi anche allo stesso prefetto di Roma Barone diTournon in voce allorché fu alloggiato nel mio Episcopio diCivita Castellana, lo che si è da me osservato religiosamente sempre, e senza veruna contraddizione di quel governo. Ora poifacendo migliori riflessioni, e dubitando di aver forsi(sic)mancato con tal giuramento sebbene come sopra limitato, per quiete di mia coscienza, lo ritratto, e revoco in tutta la suaestensione, ed intendo che si abbia ad aver per nullo, e come nonfatto, protestandomi di essere ubbidiente, e fedele alla sola S. Sede Apostolica Romana, e per essa al Sommo Pontefice Papa PioVII e Successori, dè quali mi glorio di essere suddito, e semprepronto ad ubbidire ai commandi di Loro e della Chiesa, come ho dichiarato alla presenza di Rev. mi Canonici di questa mia chiesacattedrale Anzi a riparo di qualunque scandalo possa essere derivato dalla mia condotta come sopra procurerò per quanto possa, l'istessa ritrattazione di quelle Persone Ecclesiastiche, che amia insinuazione, in vigore del mio esempio abbiano prestato il medesimo giuramento, ed affinché costi sempre di questa mia voltontà, intendo che la presente si conservi negli atti dellamia Cancelleria, munita del mio sigillo, con tutte le altre ritrattazioni che saranno per sopravvenire"17. La lettura di questo testo apre uno spiraglio sui motiviche portarono il vescovo al giuramento, quando egli dice "mi sogettai per timore di mali peggiori". Questa frase, unita a quel "costretto dalla forza militare", fa pensare ad una scelta dettata dal timore dello scatenarsi della forza militare francese contro la popolazione se questa sifosse ribellata guidata dal clero. Del resto quell'aiutante di campo del generale Mac Donald che nel primo capitolo descrive l'eccidio di Nepi non parla forsedi "Crudeltà necessaria" a giustificare la violenta repressionefrancese? Crudeltà che egli appunto giustifica con la necessità di intimorire coloro che in altri luoghi e in altri momentisarebbero stati tentati di sollevare gli stendardi della rivolta.

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Quei mali peggiori però potrebbero riferirsi ad un contesto più propriamente religioso. Cioè al timore per la popolazioneche, priva della propria guida religiosa e spirituale nonavrebbe, forse, avuto la possibilità di esercitare il culto, nè di proseguire una normale vita religiosa. Fatto tanto più grave nella realtà dell'epoca quando lavita religiosa era un momento fondamentale di incontro e di scambio di esperienze. La partecipazione alle cerimonie religiose e alleprocessioni delle confraternite era molto alta e tutti prendevano parte alla loro preparazione. Prima e dopo le messe, e talvolta nel corso della lorocelebrazione, ci si riuniva in sagrestia soprattutto d'inverno attorno al fuoco a parlare, a scambiarsi le idee. Rompere queste tradizioni avrebbe segnato quindi un gravecolpo per la vita cittadina e non solo dal punto di vista religioso. Il vescovo poi, quasi ad attestare che quel giuramento inlui non ha minimamente inficiato i propri valori religiosi, dichiara di averlo sì sottoscritto, ma di averlo accompagnatocon la dichiarazione in voce che questo non dovesse essere valido"per le cose contrarie alle leggi di Dio, e della Chiesa". E afferma di essersi sempre attenuto a questa dichiarazione invoce "E senza veruna contraddizione di quel governo". In realtà anche la chiesa non sempre ebbe un atteggiamento univoco sulla questione del giuramento e delle formule da usare. Durante la guerra della seconda coalizione il cardinal Boni, Provice gerente di Roma, mentre la situazione appariva estremamente precaria, asseriva che non era lecito puramente e semplicementegiurare secondo la formula "Giuro odio alla Monarchia e allaAnarchia, fedeltà e attaccamento alla Repubblica e alla Costituzione".

Però dichiarava che era possibile giurare secondo un'altraformula e cioè: " giuro che non avrò parte in qualsivolgia Congiura, Complotto o Sedizione per il ristabilimento dellaMonarchia o contro la Repubblica che attaulmente comanda, odioalla monarchia, fedeltà e attaccamento alla Repubblica e alla Costituzione, salva peraltro la Religione Cattolica Romana". Ma quando nel 1808 le truppe francesi penetrarono in Romafu il papa stesso a mettere fine a ogni dubbio ed ambiguità.

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Egli di fronte ad una delegazione dei vescovi delle Marcheche avevano deciso di giurare, accompagnando quel giuramento aduna dichiarazione in voce di non compromissione con il regime francese e di rispetto per la religione cattolica, disse che nonera questione di formule: " Voi peraltro comprenderete da voimedesimi che la difficoltà non consiste nel senso della formula in se stessa, ma bensì nei rapporti che in questo particolarecaso ha il giuramento, quali sono le qualità del governo che lo esige, l'oggetto per cui lo esige, il Paese a cui appartengono le persone dalle quali si esige (... ) Tali rapporti restano comesono, nè vengono meno con una semplice dichiarazione generica, verbale o staccata dal giuramento18.

Nel fare tutte queste considerazioni sul testo dellaritrattazione, però, bisogna considerare che si tratta di undocumento ufficiale, rispettoso perciò di formule già codificate ed in qualche modo impersonali, per cui le paroledette dal vescovo potrebbero essere il risultato più di unaformula standard che di proprie considerazioni personali. Ecco perché più significativa della ritrattazione stessa appare unalettera pastorale che egli scrive nel settembre del 1814. Sitratta di una lettera aperta in cui De Dominicis parla di fronte ai propri fedeli del difficile percorso che lo portò prima algiuramento e poi alla ritrattazione. Eccone il testo: "La venerazione, e l'obbedienza, che al glorioso ritorno delnostro supremo Pastore, Padre Pio VII felicemente regnante, cisiamo affrettati a prestar di persona all'augusta dignità di Vicario di Gesù Cristo, (... ) ci ravviva il coraggio perritornare a voi, dilettissimi fratelli e Figli, e di parlarvi pervostra esortazione e salute. Non può essere piena la fiducia del nostro cuore, nè il ravvicinamento della vostra figlialcondidenza verso di noi, se dopo l'epoca infelice del terrore edella prepotenza, che fra le tenebre e glìinganni di ogni tentazione ci trascinò a prestare all'empio abolito Governo ilgiuramento, che la prelodata Santità Sua aveva condannato Noinon veniamo a ripetervi i sentimenti della nostra disapprovazione, e dell'amaro cordoglio, che ne avremo fino allamorte, per aver dato alla Chiesa ed a voi un tale scandalo. Già vi rammenterete, dilettissimi Fratelli, e Figli, come Noi per Divina Misericordia, anche prima che avessimo la bella sorte di

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rivedere il Sommo Pontefice nel mezzo a noi, e fin dalmese dello scorso Marzo di quel nostro fatal giuramento avevamo premesse due formali ritrattazioni avanti i ReverendissimiCanonici delle due nostre Concattedrali di Civita Castellana e diOrte: e altre due ne ripetemmo nel seguente mese di Aprile pubblicamente in giorni festivi in tempo di Messa solenne, einnanzi all'affollato popolo accorso in ciascuna delle nostreChiese indicate. Lo stesso praticarono sul nostro esempio i Canonici, e tutti quelli del Clero e delle Chiese medesime, checi avevano imitato nella prima caduta: e noi stessi, tenendodietro, come era dovere, a tutte le diramazioni del nostro scandalo, con lettere circolari per tutte le nostre Diocesi, ciaffaticammo a persuadere i ripari medesimi a tutti gliEcclesiastici e Secolari che si trovassero nel medesimo caso (... ) Ora dunque, che in questa nostra cadente età, e dopo 28 anni del Pastoral Ministero che Dio ci ha confidato sopra di Voi, la clemenza del Sommo Pontefice, più sollecita del Vostrobene, che non memore della nostra indegnità e insufficienza, siè degnata permetterci che ritorniamo a consumare nel laborioso officio què pochi giorni che ancor ci dividono dalla nostraeternità, eccoci di nuovo a voi, carissimi Fratelli e Figli diGesù Cristo, con i sentimenti medesimi di disapprovazione e di pentimento, che vi esprimemmo circa il riprovabile eriprovato giuramento, nelle sopraesposte occasioni. Ritrattiamoe disapproviamo coerentemente e nel modo medesimo, qualunque atto, insinuazione, impegno, ed adesione, che in seguito alnostro errore avessimo fatto o dimostrato in quel governousurpatore, e come preghiamo, e speriamo dalla Misericordia di Dio il perdono del nostro fallo così lo imploriamo da Voi, edalle vostre orazioni, nostri dilettissimi Fratelli e Figli"19. Dalla lettera pastorale emerge un uomo diverso da quello che si era intravisto nella ritrattazione. Egli esprime ora i propri timori sui giudizi che i fedeli potrebbero dare su di lui, una trepidazione che affiora quando parla di "coraggio per ritornare a voi", o quando si dichiarainsicuro di poter riconquistare la loro "figlial confidenza". In tutto il testo poi si rincorrono parole come: indegnità, insufficienza, disapprovazione, pentimento. Parole che assumono quasi il valore di una catarsi che ilvescovo,

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mediante questa lettera, compie di fronte ai suoi fedeli per poter di nuovo essere degno di esercitare il prorpioruolo di pastore fra le anime. Scompare ora dal testo quel timore di mali peggiori per lasciar posto a quel "fra le tenebre e gl'inganni di ognitentazione (che) ci trascinò a prestare all'empio abolitogoverno il giuramento". E pare ora insinuarsi in de Dominicis il dubbio di non essere stato all'altezza del ruolo che la sua carica ed il particolare momento storico gli hanno assegnato. Dubbi e timori che forse sono il frutto di una detenzione e di unprocesso tenuto contro di lui a Roma. Delfo Gioacchini infatti scrive che, dopo la ritrattazione, De Dominicis fu trattenuto aRoma per un periodo di cinque mesi. Non si sa quel che accadde in quel lasso di tempo. Però in una relazione "ad limina" del 1816 De Dominicis usa l'espressione "fui tenuto a Roma", che avvalora l'ipotesi di un'eventualedetenzione. Ma forse questo diverso spirito con cui il vescovo guarda alla sua esperienza passata nasce anche dal dubbio diaver sottovalutato l'effetto di offesa al papa che il giuramentoavrebbe assunto nello scontro che, in quel periodo, opponeva la Chiesa a Napoleone. Se anche l'episodio del vescovo De Dominicis può essereconsiderato un esempio dell'esautoramento delle autorità locali da parte dei francesi, c'è da dire che questo ben presto si concreta in una sostituzione formale della vecchia reggenzapontificia con una nuova di stretto controllo francese.

L'atto di insediamento di questa nuova reggenza può essereconsiderato una lettera che nel novembre del 1809 il maire diCivita Castellana, a capo della municipalità, scrive al prefetto di Roma: " Con infinito mio giubilo ho ricevuto la circolare di V. E. indata 19 corrente. In corrispettività di quanto in essa contiene, mi farò un dovere di contribuire con tutte le mie forze a faramare e rispettare la nostra Santa Religione, il Nostro AugustoSovrano, al mantenimento del Buon ordine, ed alla prosperità della popolazione, per cui sarò sempre in stretta corrispondenzacon l'E. V. "20. Dati ulteriori sulla nuova reggenza si traggono dal verbale del bilancio del 1811, da dove emerge che Civita Castellana èretta da un consiglio municipale di cui fanno parte: il maire Francesco Maria Antonisi Rosa, Giovan Battista Paglia aggiunto e nove consiglieri, Mario de

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Carolis, Augusto Paglia, PietroCiotti, Pio Germani, Silvio Sacchi, Clemente Carosi, BarolomeoVerzaschi, Giuseppe Coluzzi e Paolo Ciotti.

Dal confronto di questi nomi con quelli degli amministratoripontifici si rileva una certa continuità nella gestione delpotere: Augusto Paglia, ad esempio, è membro del Consiglio Generale del 1801 e diventa conservatore nel 1802. Egli è ungrosso proprietario terriero e durante il periodo repubblicano, grazie alla legge sulla vendita dei beni nazionali, si appropria del forno del pan venale che era di proprietà comunitativa, incompenso di alcune somministrazioni alle truppe francesi. Mario de Carolis, oltre all'essere un grosso proprietario terriero, è il proprietario dei cinque "bettolini" esistenti incittà, ma anziché esercitare direttamente l'attività diristoratore, preferisce affittare i "bettolini" a cinque diversi gestori. Anche lui risulta essere un membro del consigliogenerale del 1801. E comunque nomi come Ciotti, Sacchi, Coluzzi, Antonisi Rosa, tanto per citarne alcuni, si rincorrono sempre tra quelli degli amministratori cittadini. Nel complesso emerge una certa disponibilità della classepolitica pontificia, composta per lo più da "possidenti" e notabili, a collaborare con le nuove autorità francesi. Certol'adesione non è totale, ma comunque è piuttosto ampia. Detto questo, se gli uomini al governo della città rimangono sempre gli stessi, anche i problemi non cambiano. Lo conferma una denuncia presentata nel corso del 1810 daFrancesco Petti: colui che, come si ricorderà, era stato incaricato dalla Sacra Congregazione di costringere al pagamentoi debitori comunitativi. Egli scrive al prefetto del dipartimento di Roma, di cui Civita Castellana fa parte, che la nuova municipalità è costituita, come in passato, in prevalenza da debitoricomunitativi vincolati tra loro da stretti legami di parentela.

Motivo per cui, anche ora, egli non riesce a portare atermine l'incarico a cui era stato deputato dal Buon Governo nelmarzo del 1805.

E questo perche, ' fin dall'inizio, le cause intentateglidai debitori comunitativi, tra cui il marchese Andosilla e PaoloRosa, padre dell'attuale maire, gli avevano sempre impedito di portare

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a compimento il suo incarico. Ora poi questi debitori comunitativi hanno trovato il modo"di farsi ascrivere nel ceto dei consiglieri e municipalisti", per cui continuano a godere di quegli stessi privilegi cheavevano prima. Perché, scrive Petti, è davvero improbabile che il maire a cui è riconosciuto il potere di concedere la mano regia, sottoscriva tale atto contro suo padre, uno dei principali e più morosi debitori comunitativi.

Ed è per questo che Petti si decide a scavalcare leautorità cittadine chiedendo, con la stessa lettera, la manoregia direttamente al sottoprefetto di Viterbo.

Da una missiva che questi invia nel febbraio del 1810 albarone De Tournon risulta che il sottoprefetto è favorevole aconcedere al Petti la mano regia per quei debitori già "liquidati". Per quanto attiene a quelli che avevano delle pendenze conla Sacra Congregazione al momento dell'instaurazione del nuovo governo ritiene invece che ciò non sia possibile21. Alla fine il Petti ottiene la mano regia nell'aprile del1811, come confermano i verbali del bilancio 1811. Da questi, però, emerge anche come egli ancora non riesca nel propriointento per le "manovre" dei debitori. Quando poi il prefetto di Roma propone di sottoporre la questione al consiglio municipale il sotto prefetto di Viterbo, in una sua missiva del luglio 1811, gli fa capire che non è unabuona idea visto che il Consiglio Cittadino è composto per lo più da debitori. In questo modo, anzi si darebbe loro lapossibilità di escludere del tutto l'esistenza dei lorodebiti22.

Per il resto, nella documentazione disponibile, l'amministrazione francese della cosa pubblica si nota più inepisodi di dettaglio che nella sostanza delle cose.

La corrispondenza tra Civita Castellana, Viterbo e Romainizia sempre con la formula di rito "In nome di Sua MaestàNapoleone I Imperatore dei Francesi Re d'Italia e Protettore della Confederazione del Reno" ad attestare una nuova realtàgeopolitica non solo dello Stato Pontificio, ma del restod'Italia e d'Europa.

Alle tradizionali feste religiose viene acccompagnata la festa per l'incoronazione di Sua Maestà Napoleone Imperatorecome documenta il rendiconto delle spese municipali ordinarie nel

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bilancio del 181123. C'è poi soprattutto l'impressione di un controllo piùserrato del centro verso la periferia. Ora infatti il rapporto non è più mediato dalla figura del governatore: è il maire, a capo di un Consiglio Cittadino, ad essere direttamenteresponsabile verso il potere centrale.

Lo conferma la fitta corrispondenza che intercorre tra ilmaire, il sottoprefetto di Viterbo, capo del circondario, ed ilprefetto di Roma.

Ed è questo l'iter che le delibere cittadine devono seguireprima di essere definitivamente approvate. Il maire le indirizzaa Roma, ma queste prima passano per Viterbo dove vengono vagliate e, se il caso, spedite a Roma per il definitivo benestare. Solo dopo l'assenso di Roma le delibere cittadine che possono riguardare i bilanci comunali o nuove imposte o l'affitto dei proventi comunitativi, diventano per così dire "perfette" epossono essere applicate. Il 2 settembre 1810 il maire invia al sotto prefetto di Viterbo il verbale della gara d'appalto per l'affitto delle molecomunitative che è stato concesso ad un certo SerafinoSpadaccioli.

A Viterbo il sottoprefetto ne chiede l'autorizzazione daRoma e solo dopo aver ricevuto il nulla osta anche da Roma ladelibera può dirsi definitiva24.

In questa situazione il controllo del centro verso laperiferia diventa più efficace e soprattutto più direttoperché non è più affidato ad una figura intermedia, come quella del governatore. Si è visto che questi, una voltainsediatosi in città, poteva entrare a far parte egli stessodelle cabale dei consiglieri cittadini contravvenendo così all'incarico a cui era stato deputato. Una spinta più innovativa l'amministrazione francese lamostra nel laicizzare la direzione di alcuni importanti istituti: quali l'ospedale e il Monte di Pietà. I verbali del bilancio 1811 documentano come l'ospedale diSan Giovanni Decollato, le cui rendite ed i cui "pesi" erano promiscui con quelli dell'omonima confraternita, sia sottopostoad una nuova amministrazione. Fino ad allora era statoamministrato direttamente dai confratelli, che di anno in anno eleggevano l'amministratore e lo sottoponevano a sindacato. Ora, invece, l'ospedale viene affidato ad una nuovaamministrazione. Nel 1811, infatti, viene installata una

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apposita commissione amministrativa composta da Mario deCarolis, Marciano Coluzzi, Antonio Sacchi e da dueecclesiastici: Raffaele Filati e Marcellino Sacchi25.

Anche il Monte di Pietà viene affidato ad una nuova gestione. Lo documenta il verbale di una riunione dellaCongregazione del Sacro Monte, una sorta di organo di controllo creato dal vescovo, tenuta il 13 novembre 1811. Mentre nel 1802 icongregati erano: Don Tommaso Sartori vicario generale, l'arciprete Ambrogio Sperandio, il Canonico Giovanni Morelli (questi ultimi due deputati ecclesiastici), il canonico AntonioParadisi (montista) ed inoltre Paolo Petti, Giovan FrancescoEttorre, Domenico Coluzzi, Domenico Scotini e Michele Paradisi; nel 1811 invece i partecipanti alla riunione sono: il vescovo, ilmaire ed i deputati, Mario de Carolis, Don Raffaele Filati, Pietro Ciotti e Don Marcellino Sacchi.

È vero che i nomi dei partecipanti cambiano e cambiano leloro cariche, è anche vero però che manca un vero ricambiosociale. Alla guida della direzione del Monte ed al controllo della sua attività sono sempre il vescovo, alcuni ecclesiasticie personaggi come Mario de Carolis, o Pietro Ciotti, che da tempo ricoprono cariche di rilievo in città.

Questi non si differenziano tanto dai vecchi amministratoriper una diversa provenienza sociale e culturale quanto per averaccettato, al contrario di altri, di lavorare in collaborazione con le autorità francesi. Chi invece non accetta di collaborare con il nuovo governoè il vecchio montista, Don Antonio Paradisi, e infatti la congregazione nel novembre del 1811 è stata riunita proprio perscegliere un nuovo montista, dopo che il Paradisi ha rinunciatoall'incarico.

Il maire propone al suo posto la candidatura di PietroCiotti, candidatura che viene accettata in voce dagli altrideputati26.

Conclusioni Il 1815 segna l'anno della definitiva restaurazione. Lanuova

realtà è molto diversa da quella che gli ispiratori delmovimento rivoluzionario avevano auspicato.

Terminata l'epopea napoleonica la rivoluzione appareincompiuta, comunque essa avrà un'influenza notevole sui destinidell'Europa. Le strutture feudali lasciano ormai il posto

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alla libertà economica. Questa, a sua volta, aprirà la strada alcapitalismo in un processo che l'esperienza riivoluzionariaaveva accelerato.

Le condizioni di vita della comunità di Civita Castellanasotto l'Impero napoleonico non sono molto diverse da quellevissute sotto il dominio papale. È ancora la stessa città, a prevalente economia contadina, pur passando attraverso diverseamministrazioni ha mantenuto una certa continuità nella gestionedel potere. Problemi come quello dei debitori comunitativi si ripresentano sempre uguali. Ma l'epoca repubblicana segnal'avvio al libero commercio insieme all'avvento di uomini nuovi, anche se bisognerà attendere la rivoluzione industriale e i primi anni del Novecento, perché l'economia cittadina subiscadei profondi mutamenti trasformandosi da agricola inindustriale.

Volendo ora tracciare un consuntivo dei tentativi di riformaoperati prima dal governo pontificio nel 1801 e poi dai francesiin periodo imperiale, iniziamo subito col dire che le autorità pontificie, terminato il periodo repubblicano, voglionodimostrare di essere in grado di riprendere in mano il controllodella comunità. Contemporaneamente sentono, però, anche l'esigenza di una profonda riforma interna allo Stato Pontificio. È ormai maturata la convinzione che lo Stato della Chiesanon si sarebbe così facilmente sgretolato sotto il peso degli eserciti stranieri, se non fosse stato fragile al suo interno. Fragilità che sembra attribuita al decadimento morale che datempo attanagliava Roma e i suoi domini, tanto che monsignor Sala, un prelato della curia romana, vide nell'invasionerepubblicana un evento provvidenziale che avrebbe permesso unaricostruzione dello Stato e della Chiesa dalle fondamenta.

E forse lo Stato della Chiesa basato su tradizioni etiche, morali e religiose non avrebbe potuto cercare altrove l'originedei propri mali. Per questo la Sacra Congregazione avvia un tentativo di riforma ispirato al recupero di valori morali ereligiosi ormai perduti. Questo programma si concretizzanell'epurazione di amministratori effettivamente inetti e disonesti e nel tentativo di dare nuove possibilità a

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personaggidalla più limpida reputazione. Il tutto però, almeno per quanto riguarda la comunità di Civita Castellana, si esaurisce nella proclamazione di valorimorali, nella ricerca di uomini onesti e probi da porre allaguida della città e non sfocia nella costituzione di nuovi strumenti di governo. Certo c'è la riforma fiscale del 1801, unaserie di editti papali che favoriscono la libertà di commercio, ma gli strumenti fondamentali di governo non cambiano. Il tentativo di riforma non si traduce in un nuovo linguaggiopolitico che permetta allo Stato Pontificio di superare lapropria storia e le proprie tradizioni per rinnovarsi ed esprimere una concezione di governo più moderna, al passo conl'evoluzione degli stati nazionali e con i nuovi dettami delladottrina illuministica.

Non cambiano le cariche al governo della città, non cambiala sua organizzazione, il sistema di esazione fiscale continua adessere affidato ai depositari, non cambia la gestione di importanti istituti quali il Monte di Pietà, cambiano solo gliuomini che la esercitano. Ecco quindi che ben presto si ritorna allo status quo, alla vecchia dialettica paternalistica fra centro e periferia, aivecchi annosi problemi: corruzione, malgoverno, isolamentodella comunità rispetto a Roma, indisponibilità a qualsiasi ordine e disposizione che venga dal centro. Forse anche perché questo tentativo di riforma non è natoall'interno della comunità o in seguito ad un processo di maturazione storica e politica, che avrebbe potuto mettere inluce la grave situazione determinatasi dal malgoverno e daun'allegra gestione finanziaria.

Su tutto, però, ha gravato non indifferente il peso della guerra. Le requisizioni, i saccheggi, l'impoverimento generale della popolazione, l'alta mortalità che seguì alle campagne degli eserciti, i pesanti debiti assunti dalla comunità che siandarono ad assommare a quelli già cospicui che possedeva, insterilirono sul nascere gli alti proclami di riforma morale ed etica lanciati dal governo pontificio nel 1801. Non a caso i tentativi di riordino finanziario approntati dalla SacraCongregazione si andarono ad incagliare sulla questione dei debitori comunitativi e sui crediti da questi assunti per gliapprovvigionamenti delle truppe

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straniere. Cosa che li trasformòda debitori in creditori della comunità.

E la guerra pesò anche sui tentativi di riforma operatidai francesi nel periodo imperiale. In maniera diversa però. Mentre infatti il governo pontificio sembra in qualche modo subire il peso della guerra, l'amministrazione francese ne èpiù direttamente responsabile.

L'arrivo delle truppe francesi si fece sentire, infatti, non tanto per gli ideali di libertà, fraternità ed uguaglianza cheavrebbero dovuto viaggiare per l'Europa insieme agli eserciti, quanto per le requisizioni, i problemi di alloggiamento, la distruzione dei seminati, la dispersione degli armenti, l'inibizione ai commerci impossibilitati a continuare su vie dicomunicazione rese pericolose dal continuo passaggio degli eserciti. Al tutto si aggiunga lo stato di estrema indigenza incui versava la città già prima dell'occupazione straniera, per comprendere come gli ideali della rivoluzione si siano potutidisperdere in maniera tale da non giustificare fame esofferenze.

Questa mancata penetrazione delle idee rivoluzionarie, però, oltre che nel peso della guerra trova la sua radice anchenel fatto che il giacobinismo penetrò in Italia quando già aveva perso gran parte della propria carica innovativa peraprirsi all'egemonia borghese, come fa notare Candeloro. Inproposito, egli rileva che già secondo alcuni patrioti unitari italiani la rivoluzione in Italia era fallita perché non erastata condotta in modo "veramente rivoluzionario", essendo statainficiata la volontà riformatrice da spirito di cupidigia e di conquista. Ed in effetti in seguito alla nuova ondata di conquistenapoleoniche, quella che va dal 1805 al 1809, ai francesi non interessa tanto trasmettere gli ideali cardine della rivoluzione, cioè la sostanza della loro esperienza, quanto la forma. Questaconsiste in un determinato modulo di governo a cui sottoporre una nuova municipalità di chiara fedeltà alla Francia. In questoambito si instaura di nuovo un rapporto conflittualecentro-periferia, con un governo centrale che tenta di imporre le proprie direttive alle quali la periferia tenta di sottrarsi.

E nel riproporsi di questa conflittualità, la storia dellacomunità segue l'andamento ciclico delle guerre e delle

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conquiste. Dapprima c'è la restaurazione pontificia che tentadi imporre alla comunità recalcitrante tentativi di riforma equindi la sua sottomissione ad un più stretto control

lo da Roma; seguita quindi la riconquista della propria

indipendenza omeglio del proprio estraneamento rispetto al centro politico; colritorno dei francesi la comunità viene sottoposta di nuovo ad una stretta disciplina. Il controllo dei francesi, però, oltre ad essere molto piùferreo di quello esercitato dai pontifici si differenzia per un altro motivo: a loro interessa innanzitutto individuare unresponsabile dell'amministrazione cittadina, il maire, e poicostringerlo a sottostare a determinate regole mediante un sistema di controllo burocratico prima da parte del sottoprefettodi Viterbo e poi da parte del prefetto di Roma. Ecco quindi, ad esempio, che i contratti d'affitto per le bandite non vengono approvati prima che siano precisamentedeterminati l'inizio, il termine degli impegni e i confini dellesingole unità da affittare. Le eccezioni, i defalchi, gli aggiustamenti ai bilanci inoltre non vengono più permessi. Al di là, però, dell'imposizione di un modulo di governo edella ricerca di un responsabile del governo cittadino, le autorità francesi sembrano paradossalmente non aver fretta diriformare radicalmente il modo di fare politica e di intenderela cosa pubblica in città. Forse perché non interessava loro in quel momento controllare più a fondo una comunitàperiferica, forse nell'illusione di una maggior durata e quindi di un lasso di tempo più ampio a disposizione per realizzare i propri programmi. Il tempo però fu molto minore di quello sperato: la secondacampagna d'Italia era iniziata nel 1805, e nel 1813, dopo la ritirata dalla Russia, crolla il grande Impero sotto il pesodelle sconfitte militari. Il 25 gennaio 1814 Napoleone abbandonaParigi e l'11 aprile, dopo il trattato di Fointainebleau, gli rimangono solo il titolo di imperatore ed il governo dell'isolad'Elba. Nel 1815, dopo la sua caduta, il Congresso di Viennadecide una nuova sistemazione politica e territoriale dell'Europa. Diverse variabili seguirono i mutamenti di carattereeconomico e sociale che in quegli anni visse la comunità. Mutamenti che avevano iniziato a germinare

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all'interno del mondofeudale, ma che poterono dispiegarsi in tutta la loro ampiezza inquesto preiodo.

La crisi del vecchio sistema autarchico-vincolista, sostieneDe Felice, aveva già avuto origine all'interno dello StatoPontificio verso la metà del Settecento. Preoccupazione primaria di questo vecchio sistema non era la produzione, mal'approvvigionamento per Roma e per le altre località urbane. Mamentre si fa sempre più pressante l'esigenza di aumentare la produzione, si apre la strada al superamento dei vecchi vincolifeudali ed alla liberalizzazione dei commerci. A Civita Castellana un grande impulso in questa direzione viene dal periodo repubblicano. Ma già in epoca precedente lasituazione economico sociale della città aveva maturato una suaevoluzione. La classe dominante era quella degli allevatori-amministratori, che non erano nè grossi proprietari, nè nobili , nè ecclesiastici e traevano gran parte dei propriguadagni non dal possesso della terra, ma dall'allevamento del bestiame che avveniva per lo più su terreni comunitativi opresi in affitto. Allevatori che, forse, si equiparavano almercante di campagna, la figura più dinamica che lo Stato Pontificio esprimerà ancora nel corso del Settecento. Questoparagone, però, andrebbe meglio approfondito, studiandola diffusione della figura dell'allevatore anche nelle zone vicine a Civita Castellana. Questi personaggi, poi, all'attività economica, alternavanoquella politica. E mediante l'assunzione di importanti funzioni di governo, potevano controllare l'amministrazione dellacittà, l'esazione fiscale, le gare degli appalti ed ancheimportanti istituti come il Monte di Pietà. Essi erano anche uomini di una buona cultura e preparazione tanto che spessofungevano da notaio, procuratore, depositario. A Civita Castellana, poi, all'inizio dell'ultimo decennio del Settecento viene installata una manifattura ceramica adopera di Giuseppe Valadier, operazione questa moltointeressante già per il distaccarsi dalla tradizione artigianale localistica, con riferimento invece alla lavorazionedella terraglia "ad uso d'Inghilterra". Ciò avrebbe aperto lastrada a nuove forme di produzione di tipo industriale e aperto lo sbocco a nuovi mercati. Questo processo di ammodernamento economico che si era giàavviato nella

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comunità, trova però una forte accelerazione in epoca repubblicana con lo sviluppo dei liberi commerci. E questoper due ordini di motivi: perché l'eperienza rivoluzionaria, quando le truppe francesi arrivano in Italia, aveva già fatto grandi passi avanti nell'affermazione della nuova classe borghesee perché l'arrivo delle truppe francesi, con l'instaurarsi di unnuovo governo, sconvolse il tessuto cittadino. Ciò creò una situazione labile ed incerta nella quale il vecchio ordinepolitico e sociale venne messo in discussione, favorendol'intraprendenza e la capacità di uomini nuovi che seppero approfittare delle prospettive che la situazione offriva loro. Ecco quindi il rifiorire dei commerci e l'emergere di concettinuovi: bottega privata, libera concorrenza, liberi prezzi.

L'esperienza rivoluzionaria, però, oltre ad accelerareprocessi econimici già in corso, apre anche nuove prospettivedal punto di vista politico. In seguito alla stagione napoleonica se ne aprirà infatti un'altra; quella dei movimentinazionalistici che porteranno alla formazione del Regno d'Italia. Ai tentativi di riforma delle autorità pontificie nel 1801 era mancata un'idea forte, che permettesse di superare l'inerzia delpassato e della tradizione, nonché il rigido particolarismodella comunità. Idea forte che inizierà invece giusto ad affacciarsi ora con le imminenti spinte all'unificazionenazionale. E sarebbe interessante aprire un secondo capitolo diquesta ricerca per vedere come il particolarismo localistico della comunità di Civita Castellana si sarebbe incontrato equindi scontrato con i movimenti risorgimentali.

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1136 Serie III Buon Governo, LE AMMINISTRAZIONI

PROVVISORIE FRANCESI, busta 22 ARCHIVIO DIOCESANO CIVITA CASTELLANA Serie G (visite pastorali) buste 20/41, 21 Serie VII (criminalia) busta 15 Serie C (Inventari) buste 15, 15 bis, 16 ter, 17 ter, 18, 37, 41,

42 Corrispondenza: la sistemazione dell'Archivio Diocesano di

Civita Castellana è ancora provvisoria per cui, pur essendo stata prevista la formazione di una serie dedicata alla corrispondenza, questa ancora non è stata formata, esiste comunque il materiale relativo a questa serie che è stato utilizzato

ARCHIVIO DIOCESANO DI ORTE, fascicolo ritrattazioni. ARCHIVES HISTORIQUES PARIS, le fotocopie di alcuni

dispacci di guerra relativi al periodo repubblicano sono conservati presso la biblioteca comunale di Civita Castellana

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Indice

Capitolo I.............................................................................................................................Capitolo II............................................................................................................................Capitolo III ..........................................................................................................................La decadenza dei valori religiosi.........................................................................................Capitolo IV..........................................................................................................................La vita nella città .................................................................................................................Capitolo V ...........................................................................................................................Bibliografia..........................................................................................................................

1 I dati sulla popolazione sono in realtà piuttosto contraddittori. Da un carteggio del 1801 risulta che gli abitanti sarebbero 3000, nello stesso periodo però un inviato della SC sostiene che gli abitanti non sarebbero più di 2031 2 Sugli eventi che portarono alla formazione della Repubblica romana a vedi M. Caravale A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, in Storia d'Italia Torino 1978 pagg. 569-570 3 V. E. Giuntella, Roma nel Settecento, Bologna, Cappelli, 1971 pag. 1 4 ADCC serie VII b.15, Processo informativo dell'era repubblicana, maggio 1798 5 ADCC serie VII b.15 lettera del vescovo contenuta nello stesso carteggio relativo al processo 6 V. E. Giuntella op. cit. pag. 183 7 V. E. Giuntella, L'insorgenza antifrancese a Viterbo e nel suo territorio, sta in studi offerti a Giovanni Incisa Rocchetta, Roma 1973 8 Archives Historiques Paris, dispacci militari relativi al periodo repubblicano le cui fotocopie sono conservate presso la biblioteca comunale di Civita Castellana 9 ASR BG serie II b.1132, lettera a nome del popolo di Civita Castellana, gennaio 1794 10 ADCC serie VII b.15 procedimento per percosse, 1796 11 ADCC serie VII b.15, testimonianza del Pasquetti contenuta tra le carte del processo relativo all'era repubblicana, 1798 12 J. P. Bertaud, La vita quotidiana in Francia al tempo della rivoluzione, Milano, BUR, 1988 pagg. 82-83 13 A proposito dell'armata aretina, il Candeloro scrive che al seguito degli austriaci partecipò alla cacciata dei francesi da ampie zone dell'Italia centrale e si rese protagonista di molti eccidi, soprattutto a Firenze nei confronti degli ebrei e giacobini, forse anche perché fanatizzata da un certo numero di preti e frati al suo seguito. vedi G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, Varese, Feltrinelli, 1975, pagg. 272-273

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14 cfr. M. Caravale, A. Caracciolo, op. cit. pag. 576 15 E. Lodolini, L'archivio della S. Congregazione del Buon Governo, Roma, ed. Ministero dell'Interno, 1956 16 ASR BG serie II b.1133, verbale delibera consiliare, 10 marzo 1801 17 I conservatorati erano le cariche in cui veniva organizzata la magistratura a Civita Castellana: essa era composta da un capo conservatore e da altri due conservatori che duravano in carica generalmente per un periodo di tre mesi. 18 ASR BG serie II b.1133, carteggio relativo alla scelta di un nuovo magistrato, febbraio 1802 19 ASR BG serie II b. 1133, carteggio contenente la lettera del montista e la risposta del governatore, agosto 1802 20 ASR BG serie II b. 1133, richiesta di esautoramento di un depositario, aprile 1802 21 A. Caracciolo, M. Caravale, op. cit. pag. 577. 22 ADCC serie G b. 21, editto per l'apertura della quinta visita Pastorale di De Dominicis, maggio 1800. 23 ADCC serie G b. 21, editto per la frequenza della funzione corale, giugno 1802. 24 ASR BG serie II b .1133, informazione del governatore al prefetto del Buon Governo, 15 marzo 1801. 25 ASR BG serie II b. 1133, lettera dell'economo alla SCBG, marzo 1801. 26 Gli scavalchi nella terminologia corrente corrispondevano più o meno ai nostri attuali interessi. 27 ASR BG serie II b. 1133, lettera dei pubblici rappresentanti alla SCBG, marzo 1801. 28 ASR BG serie II b.1133, lettera dei membri delle principali istituzioni religiose alla Sacra Congregazione, 15 marzo 1801. 29 ASR BG serie II b.1135, lettera del governatore alla Sacra Congregazione, luglio 1801. 30 ASR BG serie II b. 1133, resoconto dell'inviato pontificio Buttaoni alla Sacra Congregazione, 20 luglio 1802. 31 E. Lodolini, op, cit, pag. CXXIII. 32 ASR BG serie II b. 1133, supplica della famiglia Leonori alla Sacra Congregazione, 1801 con allegata risoluzione consiliare, gennaio 1801. 33 ASR BG serie II b. 1133, carteggio contenente nuova supplica famiglia Leonori e la notificazione proveniente dal palazzo comunale, novembre 1801. 34 ASR BG serie II b. 1134, supplica della famiglia Leonori al Buon Governo, gennaio 1803, riguardo ai frutti di censo del biennio rivoluzionario dalla documentazione riguardante la famiglia Leonori e da altre si deduce che

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anche con ordine del Buon Governo, questi furono condonati la comunità quindi non è tenuta a risponderne. 35 ASR BG serie II b. 1133, supplica inviata al Buon Governo dalla vedova Tarquini febbraio 1801. 36 ASR BG serie II b.1133, richiesta di indennizzo a nome del deliberatario del forno del periodo repubblicano e copia di una risoluzione consiliare, dicembre 1800. 37 ASR BG serie II b.1133, supplica a nome dell'ostessa Domenica Pini, 5 settembre 1801. 38 ASR BG serie II b.1134, memoriale degli zelanti al Buon Governo, febbraio 1803. 39 ASR BG serie II b.1133, carteggio relativo alla questione dei salariati, aprile 1801. 40 ASR BG serie II b.1134, carteggio relativo alla questione dei debitori comunitativi e dei crediti da questi assunti durante l'occupazione, 1805. 41 ASR BG serie II b.1134, riflessioni del governatore sulla questione dell'esigenza dei crediti arretrati ed il contemporaneo pagamento dei debiti comunitativi, settembre 1804. 42 ASR BG serie II b.1133, carteggio relativo all'elezione di un secolare alla direzione del Monte di Pietà, 1802 1 V. E. Giuntella Roma nel Settecento, Bologna, . Cappelli. 1971 pag. 1 2 ASR BG serie II b. 1133, Carteggio contenente la lettera dei pubblici rappresentanti e dell'economo alla SC, marzo 1801 3 V. E. Giuntella op. cit. cap I 4 E. Lodolini, L'Archivio della S. Congregazione del Buon Governo, Roma, ed. Ministero dell'Interno, 1956, pag. XXXIII 5 ASR BG serie II b.1131, lettera del segretario al BG, settembre 1790 6 E. Lodolini op. cit. pag. XXX 7 E. Lodolini op. cit. pagg. XLVlII-XLIX 8 ASR BG serie II b. 1131, richiesta di mano regia, giugno 1790 9 ASR BG serie II b. 1132, richiesta di assistenza da parte di un depositario, luglio 1796 10 A. Caracciolo M. Caravale, Lo Stato Pontificio da Martino V a Pio IX, sta in Storia d'Italia Torino 1978, pag. 579 11 ASR BG serie II b.1134, richiesta di esenzione dall'incarico di esattore della dativa reale, febbraio 1804 12 ASR BG serie II b.1132, supplica di alcuni debitori rivolta alla SC, agosto 1792 13 ASR BG serie II b.1132, protesta contro l'elezione di alcuni debitori alla carico di depositario, gennaio 1794

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14 ASR BG serie II b.1132, richiesta a nome della comunità, maggio 1792 15 ASR BG b.1131, ricevute inviate dall'economo alla SC, 1790 16 ASR BG serie II b.1136, carte relative al bilancio 1811 17 ASR BG serie b.1132, carteggio relativo all'uso di eleggere debitori comunitativi alle cariche pubbliche con denuncia anonima, febbraio 1794 e replica del governatore, aprile 1794 18 ASR BG serie II b.1131, lettera anonima contro l'estrazione di tre conservatori, 19 settembre 1789 19 E. Lodolini op. cit. pag. XL 20 ASR BG serie II b. 1131. denuncia contro l'irregolarità della gara d'appalto per il forno del pan venale, 1789 21 ASR BG serie II b.1131, carteggio relativo all'appalto del forno del pan venale, 1790 22 ASR BG serie II 1132, carteggio relativo all'appalto di un lavoro, 1795 il mese è mancante 23 ASR BG serie II b.1131, denuncia contro gli abusi del segretario comunale, 1789 il mese è incomprensibile 24 ASR BG serie II b.1131, lettera del vescovo aprile 1789 25 ASR BG serie II b.1131, lettera del governatore, dicembre 1793 26 Pascoli comuni affittati ogni anno dalla comunità a privati 27 ASR BG serie II b.1132, lettera del segretario, dicembre 1793 28 ASR BG serie II b.1132, lettera degli zelanti, ottobre 1794 29 ASR BG serie II b. 1132, missiva della SC, ottobre 1794 30 ASR BG serie II b.1131, lettera anonima, 1790 il mese non è indicato 31 ASR BG serie II b. 1132, lettera del governatore, febbraio 1796 32 ASR serie II BG b.1132, lettera dell'economo, giugno 1796 ASR serie II BG b.1132, lettera dell'economo, giugno 1796 33 ASR BG serie II b.1132, lettera dell'economo, marzo 1795 34 ASR BG serie II b.1132, resoconto di De Dominicis sulla sua visita al Monte di Pietà, aprile 1795 35 ASR BG serie II b.1132, Provvisioni ed ordini per il depositario ed altri ufficiali del Monte, aprile 1795 36 ASR BG serie II b.1132, Provvedimenti ed ordini per il Monte a denari, aprile 1795 37 ASR BG serie II b.1132, Provvedimenti ed ordini per il Monte Frumentario, aprile 1796 38 ASR BG serie II b.1132, Decreti per il Monte dei Pegni, luglio 1796 39 ASR BG serie II b.1132, Decreti per l'uno e l'altro Monte, luglio 1796 40 ADCC serie C, verbale di una seduta della congregazione economica del Monte di Pietà, agosto 1797

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41 ASR serie II BG b. 1132, dubbi su un membro della Congregazione economica, marzo 1795 42 ASR BG serie II b. 1136, resoconto della visita di Del Frate, luglio 1815 1 V. E. Giuntella, Roma nel Settecento, Bologna, Cappelli 1971, cit. pag. 11 2 ADCC serie G b.20/41, nomina ecclesiasticorum, stilato in occasione della II visita Pastorale di De Dominicis 1790 3 ADCC serie VII b.15, Ingiurie contro donne, aprile 1796 4 ADCC corrispondenza De Dominicis, lettera di un curato, aprile 1805 5 ADCC serie VII b.15, Vita poco ferrea, febbraio 1809 6 V. E. Giuntella op, cit., pag. 16 7 ADCC serie G b.20/41, richiamo al rispetto del voto di povertà, aprile 1792 8 ADCC serie G, Ordini e Provvisioni per il clero cittadino, 15 luglio 1794 9 V. E. Giuntella op. cit. pag. 154 10 ADCC serie G b.20/41, editto volto a favorire la frequenza della dottrina, 12 luglio 1794 11 ADCC serie G, notificazione per la riapertura del seminario, 6 giugno 1792 12 ADCC serie C b.32, libri contabili del seminario b.37 1789-1795 e b.18 1795-1815 13 Cfr. E. Lodolini, L'Archivio della S. Congregazione del Buon Governo, Roma, Ministero dell'Interno, 1956, cap VIII (i Monti) 14 V. E. Giuntella Op. cit. pagg. 143-146 15 Gli statuti comunali risalenti al periodo medievale e rinascimentale sono attualmente conservati presso la biblioteca comunale di Civita Castellana. 16 V. E. Giuntella op. cit. pagg. 149-150 17 ADCC serie C b. 42, Statuto della confraternita del SS. Salvatore 18 ADCC serie C b. 15 bis, Entrata ed esito della confraternita della Buona Morte 19 ASR serie III BG b.22, Bilancio 1811, notizie relative all'ospedale di San Giovanni Decollato 1 J. W. Goethe, Viaggio in Italia, ed. Mondadori 1983 pag. 136 2 ASR BG serie II b.1136, resoconto di un inviato pontificio al Buon Governo, luglio 1815 3 ASR BG serie II b.1133, lettera del governatore, marzo 1801 4 G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, Varese, Feltrinelli 1975 pagg. 126-128

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5 ASR BG serie II b.1131, informazione del governatore alla Sacra Congregazione con allegato foglio intitolato, Della quantità e del valore del terratico a Civita Castellana, 1789 6 ASR BG serie II b.1132, suppliche da parte di alcuni debitori al Buon Governo, agosto 1792 7 ASR BG serie II b.1132, richiesta di dilazione a pagare un debito, 1796 8 ASR BG serie II b.1136, bilancio 1812, rendite municipali ordinarie, 9 ASR BG serie III b. 22 corrispondenza tra il maire ed il prefetto di Roma, ottobre 1813 10 ASR BG serie II b.1131, denuncia a nome del popolo di Civita Castellana,, aprile 1789 11 ASR BG serie II b.1131, lettera del governatore, febbraio 1790 12 ASR BG serie II b.1132, ricorso di un uccisore di lupi, febbraio 1795 13 Gli statuti comunali libro degli offici, gli statuti sono attualmente conservati presso la biblioteca comunale. 14 ASR BG serie II b.1131, carte relative alla visita di Giuseppe Valadier, marzo 1791 15 R. De Felice, Aspetti e momenti della vita economica di Roma e del Lazio nei secoli XVIII e XIX, Roma, edizioni storia e letteratura, 1965, pag. 257 16 Faenza, Bollettino del Museo internazionale delle ceramiche in Faenza, Eros Biavati, Giovanni Volpato da Bassano (1732-1803), 1977 fascicolo n.6 pagg. 132-140 17 ASR BG serie II b.1135, lettera del governatore, novembre 1808 18 ASR serie III BG b.22, lettera del maire al sotto prefetto di Viterbo, dicembre 1813 19 ADCC serie G. b.20/41, provvedimenti emanati dal vescovo per il monastero, dicembre 1792 20 R. De Felice op. cit. pag. 1 21 M. Caravale A. Caracciolo, Lo Stato Pontificio da Martino V a Pio IX, sta in Storia d'Italia, Torino 1978, pagg. 578-579 22 ASR BG serie II b.1133, carteggio inviato dal governatore alla Sacra Congregazione nel febbraio 1801 contenente copia di una risoluzione consiliare, 26 dicembre 1800, lettera del Colonnelli gennaio 1801 23 ASR BG serie II b. 1133, lamentele sulla qualità e peso del pane a nome della popolazione, dicembre 1801 24 ASR BG Serie II b.11133, lettera a nome del popolo di Civita Castellana inviata al papa, 19 dicembre 1801 25 ASR BG serie II b.1133, verbale della risoluzione consiliare, 26 gennaio 1802

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26 ASR BG serie II b. 1133, lettera a nome del popolo di Civita Castellana al prefetto del Buon Governo 27 gennaio 1802 27 ASR BG serie II b.1134, verbale risoluzione consiliare settembre 1803 28 ASR BG serie IIb. 1134, lettera del capo conservatore settembre 1803 29 ASR BG serie II b.1134, lettera del capo conservatore alla Sacra Congregazione, settembre 1803 30 ASR BG serie II b.1134, denuncia del capo conservatore alla Sacra Congregazione, marzo 1804 31 ASR BG serie II b.1134, lettera del Politi al Buon Governo gennaio 1804 32 ASR BG serie II b.1136, lettera di del Frate alla Sacra Congregazione, marzo 1815 e risposta dei Pubblici Rappresentanti, marzo 1815 33 ASR BG serie II b.1134, lettera del capo conservatore settembre 1803 34 ASR BG serie II b.1133, cartella relativa ai diversi esercizi commerciali presenti in città, marzo 1809 35 ASR BG serie III b.1135, carteggio sulla questione dei debitori comunitativi e sui crediti da questi assunti durante l'occupazione, lettera del governatore, dicembre 1805 36 ASR BG serie II b. 1131, lettera a nome degli abitanti dei paesi vicini a Civita Castellana, giugno 1790 37 ASR BG serie III b.22, ricorso dell'enfiteuta della posta, marzo 1810 38 ASR BG serie II b.1132, lettera del governatore, maggio 1792, i birri , scrive Elio Lodolini, erano dei carabinieri di campagna generalmente organizzati in pattuglie formate da quattro o cinque uomini 39 ASR BG serie II b.1133, lettera del bargello di Civita Castellana gennaio 1802 40 ASR BG serie II b.1131, perizia dell'architetto Bracci 1791 41 ASR BG serie II b.1133, lettera dei conservatori alla Sacra Congregazione, giugno 1797 42 ASR BG serie II b. 1131, supplica al Buon Governo, settembre 1790 43 ASR BG serie II b.1136, bilancio 1812 sull'oggetto dell'ospizio 44 ASR BG serie II b.1133, lettera dei Pubblici Rappresentanti alla Sacra Congregazione, marzo 1801 45 ASR BG b. serie II b.1135, lettera a nome del popolo di Civita Castellana aprile 1806 46 ASR BG serie II b.1135, lettera del capo conservatore al pro segretario di stato, febbraio 1809 47 ASR BG serie II b. 1136, bilancio 1812, spese municipali ordinarie

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48 ASR BG serie II b. 1135, lettera dei maestri alla SCBG, gennaio 1807 49 ASR BG serie II b. 1133, lettera allegata alla denuncia di Francesco Morelli e da lui inviata alla SCBG, novembre 1801 50 ASR BG serie II b.1135, lettera di un consigliere alla SCBG, dicembre 1805 51 ASR BG serie II b. 1136, resoconto di una seduta consiliare, 1815 1 M. Caravale A. Caracciolo, Lo Stato Pontificio da Martino V a Pio IX, in Storia d'Italia Torino 1978 pag. 585 2 ASR BG serie II b.1135, supplica del magistrato al pro segretario di stato, febbraio 1809 3 ASR BG serie II b 1135, lettera a nome dei conservatori e cittadini, marzo 1809 4 ASR BG serie II b. 1135, supplica del deliberatario del danno dato, marzo 1806 5 ASR BB serie II b. 1135, supplica del deliberatario dell'affitto della castagneria, marzo 1806 6 ASR BG serie II b. 1135, lettera degli incaricati a compilare i bilanci comunitativi, aprile 1806. 7 ASR BG serie II b. 1135, lettera dei pubblici rappresentanti, agosto 1806 8 ASR BG serie II b 1135, lettera dei consiglieri settembre, 1806 9 ASR BG serie II, carteggio relativo alle difficoltà degli albergatori, 1807. 10 ASR BG serie II b. 1135, carteggio contenente una lettera di protesta del marchese Andosilla ed il "discarico" dei magistrati cittadini, 1808 11 ASR BG serie II b. 1135, lettera dei pubblici rappresentanti, gennaio 1809 12 ASR BG serie II b. 1135, carteggio relativo al libero commercio delle carni, 1808 13 ASR BG serie II b.1135, carteggio relativo a due ufficiali alloggiati nel palazzo cittadino del marchese Andosilla, 1809 14 Archivio Diocesano Orte, lista dei sacerdoti deportati in tutta la diocesi, fascicolo ritrattazioni 15 J. P. Bertaud La vita quotidiana in Francia al tempo della rivoluzione Milano BUR 1988 pagg. 82-83 16 Delfo Gioacchini Lorenzo De Dominicis Vescovo Giurato, pubblicato nella deputazione di storia patria per l'Umbria Perugia 1967 pag. 175 17 ADO, fascicolo ritrattazioni, ritrattazione di De Dominicis, marzo 1814 18 D. Gioacchini op. cit. pag. 150

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19 ADO, fascicolo ritrattazioni, lettera pastorale di De Dominicis, settembre 1814 20 ASR BG serie III b. 22, lettera del maire al prefetto di Roma, 26 novembre 1809 21 ASR BG serie III b. 22, carteggio relativo all'esigenza del Petti 1810 22 ASR BG serie III b. 22, verbali bilancio 1811 23 ASR BG serie III b. 22 bilancio 1811, spese municipali ordinarie 24 ASR BG serie III b. 22, carteggio riguardante l'affitto delle mole comunitative, 1810 25 ASR BG serie III b. 22, processo verbale bilancio 1811, gli ospizi 26 ADCC serie C b. 41, verbale della riunione della nuova congregazione del Monte di Pietà, novembre 1811.