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DI REPUBBLICA DOMENICA 20 MARZO 2016 NUMERO 575 Nuovo cinema La copertina. Da Bansky a Ferrante, elogio dell’anonimato Straparlando. Gian Piero Bona: “La lunga vita di un poeta” I tabù del mondo. Amleto, l’uomo che non sa agire ROMA C INECITTÀ È LÌ DI FRONTE. Giù in fondo i Castelli romani. In lontananza i pini dell’Appia Antica. Il Centro sperimen- tale di cinematografia, spie- tatamente razionalista, esageratamen- te basso, è incastrato nella periferia del- la capitale che una volta era campagna. Inaugurato dal Duce in persona nel 1935, ha compiuto ottant’anni. La città giovane lo guarda dall’alto di palazzi osceni e arroganti che lo tengono a di- stanza come un vecchio invalido. Invece quelle linee severe del Trenta, quei fine- stroni che Matisse avrebbe adorato, gli atri sconfinati e le aule immense (e il pi- no nel cortile, ottuagenario anch’esso) sono l’architettura più cool della Via Tu- scolana. Ciak, si studia: al Centro si veniva a im- parare, a Cinecittà a lavorare. Mica solo attori, soprattutto sceneggiatori, monta- tori, registi, costumisti, direttori della fo- tografia, tecnici del suono: attraversava- no la strada e passavano dalla fabbrica al sogno. L’equazione era matematica, og- gi non così scontata ma neppure dispera- ta con registi come Rosi, Sorrentino e Garrone che stanno riportando il talento italiano nel mondo e una nuova legge che dovrebbe garantire un sostanziale potenziamento del credito per il cinema. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE Italia GIUSEPPE VIDETTI Cult L A PRIMA VOLTA al Centro speri- mentale ci andai per tenere uno stage di poche settimane, e lì so- no rimasto. Quel luogo è un’oasi di tale meraviglia, dall’architet- tura serena, bella, luminosa, mai triste: ogni volta che vi entro attraversando la ro- tonda che sta all’ingresso mi sento bene. E poi sono affascinato dal tipo di lavoro, dalla gioia che mi dà il poter stare vicino ai giova- ni, dalla piacevole scoperta — una volta or- mai lasciato il cinema — che anche l’inse- gnamento potesse dare così tanta felicità. Chissà, a volte ci penso, forse se l’avessi im- maginato prima non avrei neppure fatto il costumista. Non credo di avere un metodo particola- re, e non so neppure cosa pensino di me i ra- gazzi — perché sono anche un pigro e a vol- te non racconto proprio niente, aspetto che siano loro a dirmi qualcosa, a parlarmi di un libro, o di un film. Ma del resto è solo in- segnando che si impara, e non è un modo di dire, non è retorica, è proprio così. È vero. Certamente non posso paragonare que- sti tempi ai tempi miei. Ho avuto la fortuna di vivere una delle stagioni più belle del no- stro cinema, con i registi più grandi, con at- trici e attori che evocavano una bellezza non più cercata tra gli interpreti di oggi, spesso sciatti, a volte anche bruttini. Ma una cosa, comunque, non è cambiata: è la passione. E ce ne vuole tanta. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE PIERO TOSI L’attualità. Simone Moro o quel che resta da scalare L’officina. Nel magico mondo di Brian Selznick Spettacoli. Autoritratto di Joni Mitchell Next. Nessuno sfuggirà a Mister Facebook L’incontro. Alessandro Mendini che al design preferì l’artigianato Tornerà la Dolce vita? Reportage da una scuola molto speciale ROMA, LA FONTANA DI TREVI IN UN BOZZETTO REALIZZATO DAGLI ALLIEVI DEL TERZO ANNO DEL CSC PER LA SCENOGRAFIA DI “CINACITTÀ”, FILM MAI REALIZZATO DI MARCO PONTI Repubblica Nazionale 2016-03-20

cinema Nuovo Italia PONTI - download.repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2016/20032016.pdf · Caterina D’Amico, lady di ferro del cinema di sangue blu, figlia della

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DIREPUBBLICADOMENICA 20 MARZO 2016NUMERO575

Nuovocinema

La copertina. Da Bansky a Ferrante, elogio dell’anonimatoStraparlando. Gian Piero Bona: “La lunga vita di un poeta”I tabù del mondo. Amleto, l’uomo che non sa agire

ROMA

CINECITTÀ È LÌ DI FRONTE. Giù in fondo i Castelli romani. In lontananza i pini dell’Appia Antica. Il Centro sperimen-tale di cinematografia, spie-

tatamente razionalista, esageratamen-te basso, è incastrato nella periferia del-la capitale che una volta era campagna. Inaugurato dal Duce in persona nel 1935, ha compiuto ottant’anni. La città giovane lo guarda dall’alto di palazzi osceni e arroganti che lo tengono a di-stanza come un vecchio invalido. Invece quelle linee severe del Trenta, quei fine-stroni che Matisse avrebbe adorato, gli atri sconfinati e le aule immense (e il pi-

no nel cortile, ottuagenario anch’esso) sono l’architettura più cool della Via Tu-scolana.

Ciak, si studia: al Centro si veniva a im-parare, a Cinecittà a lavorare. Mica solo attori, soprattutto sceneggiatori, monta-tori, registi, costumisti, direttori della fo-tografia, tecnici del suono: attraversava-no la strada e passavano dalla fabbrica al sogno. L’equazione era matematica, og-gi non così scontata ma neppure dispera-ta con registi come Rosi, Sorrentino e Garrone che stanno riportando il talento italiano nel mondo e una nuova legge che dovrebbe garantire un sostanziale potenziamento del credito per il cinema.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

Italia

G I U S E P P E V I D E T T I

Cult

LA PRIMA VOLTA al Centro speri-mentale ci andai per tenere uno stage di poche settimane, e lì so-no rimasto. Quel luogo è un’oasi di tale meraviglia, dall’architet-

tura serena, bella, luminosa, mai triste: ogni volta che vi entro attraversando la ro-tonda che sta all’ingresso mi sento bene. E poi sono affascinato dal tipo di lavoro, dalla gioia che mi dà il poter stare vicino ai giova-ni, dalla piacevole scoperta — una volta or-mai lasciato il cinema — che anche l’inse-gnamento potesse dare così tanta felicità. Chissà, a volte ci penso, forse se l’avessi im-maginato prima non avrei neppure fatto il costumista.

Non credo di avere un metodo particola-

re, e non so neppure cosa pensino di me i ra-gazzi — perché sono anche un pigro e a vol-te non racconto proprio niente, aspetto che siano loro a dirmi qualcosa, a parlarmi di un libro, o di un film. Ma del resto è solo in-segnando che si impara, e non è un modo di dire, non è retorica, è proprio così. È vero.

Certamente non posso paragonare que-sti tempi ai tempi miei. Ho avuto la fortuna di vivere una delle stagioni più belle del no-stro cinema, con i registi più grandi, con at-trici e attori che evocavano una bellezza non più cercata tra gli interpreti di oggi, spesso sciatti, a volte anche bruttini. Ma una cosa, comunque, non è cambiata: è la passione. E ce ne vuole tanta.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

P I E R O T O S I

L’attualità. Simone Moro o quel che resta da scalare L’officina. Nel magico mondo di Brian Selznick Spettacoli. Autoritratto di Joni Mitchell Next. Nessuno sfuggirà a Mister Facebook L’incontro. Alessandro Mendini che al design preferì l’artigianato

Tornerà la Dolce vita? Reportage da una scuolamolto speciale

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Repubblica Nazionale 2016-03-20

laRepubblicaDOMENICA 20 MARZO 2016 30LADOMENICA

PER DECENNI la gloria di Hol-lywood sul Tevere è stata appannata da troppe commedie e troppa tv, e gli allievi del Centro spes-so hanno preso il volo ver-so mete più lontane: Hol-lywood, quella vera, tie-ne d’occhio le nostre mae-stranze. Da sempre. Per-ché qui si lavora sodo, s’impara molto, non ci so-

no gli specchietti per le allodole che accecano le orde pop dei talent, e l’annessa Cineteca Nazionale è uno straordinario centro di documentazione per chiunque s’inoltri nel labirinto del cinema senza voler procedere alla cieca.

«Qui ne entrano sessanta all’anno, duecento nel triennio, più altri cento nelle sedi distaccate», spiega Caterina D’Amico, lady di ferro del cinema di sangue blu, figlia della sceneggiatrice Suso Cecchi, ora al terzo mandato come direttrice. «Non siamo alla ricerca del genio, ma di chi dalla scuola può trarre vantaggio. Il ta-lento naturale scombina gli equilibri, l’autore solitario rischia sempre più spesso di essere fagocitato». Ricor-da gli anni bui, quando arrivò al Centro — nel 1988, aveva quarant’anni — edifici inagibili, fuori norma, senza fondi né strutture. «La cosa più preziosa che ave-vo era la mia agenda telefonica» confessa, mentre sbir-cia sulla scrivania le date per le selezioni di aprile che apriranno le porte ai nuovi allievi del prossimo trien-nio. «Cominciai a succhiare idee dalle altre scuole, ma poi quanti talenti sono usciti da qui: Francesco Bruni (lo sceneggiatore di Virzì, Calopresti e Faenza), la scrit-trice Melania Mazzucco, i registi Gianfranco Pannone e Francesco Costabile — il suo corto Dentro Roma (2006) è una delle cose più belle prodotte al Centro. I professionisti che si sono formati qui lavorano tutti, scenografi, montatori, costumisti, vengono a cercarli ancor prima che finiscano il corso». Non nomina gli at-tori, sebbene i corsi di recitazione siano i più affollati e richiesti. «Quasi la metà delle domande», conferma, «ma per loro il percorso è più accidentato. Sono motiva-tissimi, nonostante la tv glorifichi l’improvvisazione, una débâcle iniziata negli anni Ottanta: l’orgoglio dell’ignoranza. L’impegno, la conoscenza, lo studio non destano né rispetto né ammirazione. Il Divo è chi che ha avuto fortuna per caso. Il modello? Fabrizio Co-rona». Mostra con ragionevole orgoglio i magnifici boz-zetti realizzati dagli allievi del terzo anno per la sceno-grafia di Cinacittà, un film di Marco Ponti mai realizza-to. Uno lo avete visto sulla copertina di questo servizio: immagini di una Roma bladerunnerizzata e divorata da cinesi, appena riconoscibili tra dragoni e pagode la Fontana di Trevi, il Colosseo, Piazza Navona, i magazzi-ni Mas di Piazza Vittorio trasformati in una cavernosa, peccaminosa discoteca di lap dance.

Lo sceneggiatore Stefano Grasso (Più buio di mezza-notte, la serie tv Non uccidere) arrivò al Centro da Tori-no dieci anni fa, ne aveva ventiquattro, l’aspetto di un giovane Pierre Clementi alla ricerca della sua Via Lat-tea. «Qui è ancora tutto possibile, puoi sognare di di-ventare il nuovo Ennio Flaiano o il nuovo Mastroianni, è l’attimo prima della linea d’ombra», dice in una pau-sa del corso in cui gli tocca l’ingrato compito di selezio-nare sei su dodici aspiranti scrittori, ora che è stato ri-chiamato come docente. «In una Roma slabbrata, dove Via Veneto è un ricordo, dove Fellini e Rossellini non s’incontrano più e di osterie neanche l’ombra, la dolce vita si è rintanata nei salotti, e se un regista non t’invi-ta a casa, l’unico posto dove puoi conoscerlo è qui». Grasso s’incatena agli studenti, s’immerge nelle storie che provano a inventare. Era un giovane presuntuoso

quando tentò la prima volta — non fu scelto. Venne pre-se l’anno dopo, tanto determinato da risultare primo nelle graduatorie. «Avevo bisogno di quel bagno di umiltà», ammette, «non avevo capito l’importanza del-la bottega — Francesco Rosi assistente di Visconti che era stato assistente di Renoir. Il passaggio di testimo-ne da una generazione all’altra. Ora, stando dall’altra parte, vedo nei miei allievi la stessa voglia di emergere che avevo io, come il Rastignac di Balzac che gridava

“E ora a noi due!”, riferendosi al suo desiderio di conqui-stare Parigi. Non si fa cinema senza ambizione» .

È un magico volo a ritroso dentro il Gattopardo quando nel tardo pomeriggio arriva Piero Tosi (no-vant’anni il prossimo 10 aprile, premio Oscar alla car-riera, costumista di film come Rocco e i suoi fratelli e La caduta degli dei). Foulard al collo, passo incerto, lu-cidissimo e tagliente nei giudizi. Lo accompagnano su un set organizzato in team dai corsi di scenografia e di

fotografia. Gli basta uno sguardo per capire che «quei cuscini sono troppo bianchi, il damasco del fondale ina-deguato, il divanetto sbagliato. Tutto troppo chiaro» . Sceglie un bozzetto dai colori inevitabilmente viscon-tiani. Nel teatro accanto, Eljana Popova introduce i ra-gazzi del secondo anno di recitazione al metodo Stani-slavskij. Si lavora sull’Onegin di Puškin prendendo co-me traccia il film girato da Martha Fiennes nel 1999. Scambio delle parti frenetico, improvvisazioni a ruota

su questi schermi

La copertina. Nuovo cinema Italia

IL MAESTRO

IL PREMIO OSCAR PIERO TOSI,

COSTUMISTA

DI “GATTOPARDO”

E “ROCCO E I SUOI FRATELLI”,

DURANTE

UN SEMINARIO

AL CENTRO SPERIMENTALE

DI CINEMATOGRAFIA

A Roma, di fronte alle vecchie glorie di Cinecittà, c’è il Centro sperimentale di cinematografia

Prossimamente

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G I U S E P P E V I D E T T I

Repubblica Nazionale 2016-03-20

laRepubblicaDOMENICA 20 MARZO 2016 31

libera. Qualcuno in costume, altri in jeans e t-shirt. Tut-ti consapevoli che su un palcoscenico o davanti a una te-lecamera anche un gesto banale come sbottonarsi la camicia diventa solenne. Il chitarrista accenna un’a-ria, la cantante intona una malinconica, straziante To-

nada de luna llena. «Cercate tra tante persone una che vi accarezzi l’anima. Pensate a tutto ciò che avete sognato di avere, a un amore che non c’è», li incita la Po-pova. Dal caos, miracolo, prende forma una scena, poi un’altra — non c’è confine tra esultanza e struggimen-to. L’arte eleva e purifica, ne hai la certezza ammiran-do quella dozzina di attori che brancolano nel cubo ne-ro. Creativamente esaltante. Commovente. La Popova non si lascia incantare, li aggredisce: «Tutto qui? E Puškin dov’è finito?».

Pausa. I ragazzi sciamano nel corridoio. Anche Sa-muele Picchi, ventiduenne di Empoli, non ha desistito dopo la prima eliminazione e si è ripresentato l’anno dopo. «Il mio futuro? Il teatro. Potessi, camperei solo di teatro», dice superbo nella sua finanziera di scena. An-na Manuelli, vent’anni di Firenze, e Maria Vittoria Ca-sarotti Todeschini, venticinque di Padova, la pensano come lui: «Di questo vogliamo vivere. Non sapremmo immaginarci in nessun altro mestiere». Ma Mario Gros-si, che tiene un laboratorio sul cinema di Fellini, frena: «Gli attori hanno un grande limite rispetto agli altri al-lievi del Centro, sono costantemente proiettati verso

l’esterno, e questo li distrae dall’impegno didattico. I miei hanno già tutti un’agenzia, un book pronto. Vivo-no nell’ansia di perdere l’occasione giusta, la parte in un filmone. Li esorto alla tenacia con le parole che mi disse Ronconi: “Non smettete di studiare, di essere cu-riosi. Fatica e mestiere”». Roberto Antonelli, che ha il delicato compito di formare quelli del primo anno al mestiere dell’attore, acconsente: «Io sono il cattivo ser-gente. Lo sanno, non offro certezze. È nel dubbio che devono cercare di acchiappare qualcosa». In fondo è sempre stato così, Pietro Germi si diplomò attore poi trionfò da regista.

Ado Hasanovic, ventinove anni, bosniaco, terzo an-no del corso di regia, era già un fenomeno quando si è presentato al Centro con il corto Mama, premiato con la Golden Apple al BH New York Film Festival nel 2014. L’angelo di Srebrenica, come lo chiamano (ha perso molti familiari durante l’assedio del 1992-1995), si è iscritto al Centro dopo tre anni alla Sa-rajevo Film Academy. «Devo imparare di più per fare grande cinema. Sono infatuato del neorealismo, farò il regista, nessun piano B, pronto per il primo lungome-traggio. Il mio sogno? Fare film che siano un ponte tra i Balcani e il resto del mondo — la cultura vince su tutto, null’altro può compensare le nostre mancanze, non la religione né il nazionalismo, lo dice la Storia» .

I BOZZETTI

UNA ALLIEVA DEL CORSO DI COSTUME DISEGNA IL VESTITO CHE SARÀ POI USATO DURANTE LE PROVE(FOTO GRANDE)

IL TRUCCO

È IL MOMENTO DI PASSARE AL TRUCCO E PARRUCCO: DIRIGE IL PREMIO OSCAR PIERO TOSI (SEDUTO A SINISTRA)

LA SCENA

GLI ALLIEVI SISTEMANO LE LUCI E LA CARTA DA PARATI PER LA SCENOGRAFIA DEL SEMINARIO DI PIERO TOSI (FOTO GRANDE)

GLI ATTORI

TUTTI A TERRAPER LE PROVE RECITAZIONE: È LA LEZIONE PIÙ AFFOLLATA AL CSC, DOVE OGNI GESTO DIVENTA SOLENNE

LA SARTORIA

AL CORSO DI COSTUME SI IMPARANO ANCHE LE TECNICHE DI SARTORIA TEATRALE: È IL MOMENTODI CUCIRE IL VESTITO

I FONICI

A LEZIONE DI TECNICA DEL SUONO COL MAESTRO FEDERICO SAVINA (“LA VITA È BELLA”, “IO BALLO DA SOLA”)

©RIPRODUZIONE RISERVATA©RIPRODUZIONE RISERVATA

UN TEMPO QUESTO ERA UN MESTIERE prevalentemente maschile, mentre oggi sono le ragazze le più numerose. E sento il sacrificio di tante di loro che, dovendo pagare una retta abbastanza eleva-ta, magari lavorano fino a tarda notte in qualche ristorante, e poi la mattina vengono comunque a scuola, e i loro racconti mi riem-

piono di gioia e di tristezza. La selezione è dura, ma deve esserlo, perché quello del cinema non è un mestiere per tutti. Ci devi essere portato, ci vuole il talen-to e ci vuole l’amore, ed entrambi occorre averli tanto per il costume da indos-sare che per il personaggio che dovrà indossarlo.

Dopo tre anni di scuola molti dei miei allievi oggi lavorano, magari alcuni in piccoli film, ma vanno comunque avanti. E non so proprio dire se arriverà il giorno in cui eguaglieremo quella stagione passata e così grande, ma sono otti-mista: nonostante tutto il nostro cinema resiste, e tra i divertimenti è forse il solo irrinunciabile.

(Piero Tosi, costumista, ha ricevuto nel 2014 l’Oscar alla carriera.

Testo raccolto da Maria Pia Fusco)

Non è un mestiere per tutti

Qui nascono i Mastroianni, i Tosi e i Visconti di domani. Siamo andati a vederli in anteprima

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P I E R O T O S I

Le lezioni

Repubblica Nazionale 2016-03-20

laRepubblicaDOMENICA 20 MARZO 2016 32LADOMENICA

Prima salita:

31 luglio 1954

Compagnoni

e Lacedelli

Prima salita:

11 gennaio

1955

Band e Brown

Prima salita

invernale:

11 gennaio

1986

Wielicki

e Kukuczka

Prima salita:

18 maggio

1956

Luchsinger

e Reiss

Prima salita

invernale:

31 dicembre

1988

Wielicki

Prima salita:

15 maggio

1955

Couzy

e Terray

Prima salita

invernale:

9 febbraio

2009

Moro

e Urubko

Prima salita:

19 ottobre

1954

Loechler,Tichy

e Dawa Lama

Prima salita

invernale:

12 febbraio

1985

M. Pawlikowski e M. Berbeka

L’ultima

D A R I O C R E S T O - D I N A

montagna

Prima salita:

13 maggio

1960

Diemberger,

Schelbert,

Dorje e Forrer

Prima salita

invernale:

21 gennaio

1985 Czok, Kukuczka

Prima salita:

9 maggio

1956

Imanishi

e Norbu

Prima salita

invernale:

12 gennaio

1984

Berbeka

e Gajewski

BOLZANO

QUANDO CAMMINI IN MONTAGNA il primo consiglio che ti viene dato è di appoggiare dalla punta al tacco la pianta dello scar-pone sul sentiero. Il piede deve sentire la terra, come se vo-lesse imprimervi ad ogni passo la sua orma netta, precisa. È il primo allenamento alla pazienza, intesa come il patire che verrà ma il cui fardello è opportuno rimandare quanto più sarà possibile. Sali lentamente, ti dicono, non farti se-durre dalle scorciatoie e dall’ambizione. Sii umile. Non ta-gliare il pendio, affidati alla semplicità perché nelle cose semplici troverai più di quanto puoi immaginare. È la cas-

setta degli attrezzi che ci dobbiamo portare dietro dalla prima pietra fino all’ultima montagna. A Simone Moro

la cassetta venne consegnata quando aveva tredici anni alla base di una palestra di roccia naturale di Selvino, un paese che non raggiunge i mille metri di altitudine,

appena sopra la val Seriana. Quella parete è un torrione di cinquanta metri chiamato la Cornagera. Nel dialetto bergamasco significa roccia e ghiaia.

«Era il mio Everest. Avevo un martello, avevo dei chiodi, ero legato a una fune, era una domenica pomeriggio illuminata dal sole. La dea di cui mi

ero invaghito aveva accolto il mio amore, mi sentivo corrisposto». An-dava a scuola dai preti. La Casa dello studente, proprietà della curia,

un potere immenso a Bergamo, 430 allievi, tutti maschi, campetto di calcio e tavolo per il ping pong. Racconta Emilio Previtali che

fu suo compagno alle medie: «In classe Simone non parlava

con nessuno, non ci sembrava per nulla simpatico». Combatteva la solitudine iso-landosi. «Mi piaceva giocare da solo, invece di andare alle feste di compleanno mi na-scondevo nel bosco. Era la mia savana. Co-struivo case sugli alberi e ponti di corde, ri-salivo torrenti scalzo fino a farmi congelare le dita dei piedi». Non era bello né ricco, por-tava gli occhiali da miope, le ragazze non lo filavano, ma aveva fame. «E avevo una fe-de, volevo diventare un grande alpinista anche se a sbarrarmi il mio già limitato oriz-zonte c’erano le prealpi Orobie, robetta di 2500 metri. Me le sarei andate a cercare, le montagne vere, come aveva fatto Walter Bonatti».

L’infatuazione era cominciata sei anni prima. Vacanze nelle Dolomiti con mam-

ma Teresa, casalinga, e papà Franco, impie-gato di banca, ex campione italiano di cicli-smo su strada, categoria amatori. Le tre set-timane in campeggio, prima tenda e poi roulotte, erano interminabili, sprofondate nella noia. Avevi voglia di scarpinare per gi-te ai laghi e dell’andar per funghi, il rito do-mestico con il quale si riempiva il tempo lo portò su una ferrata in fila con i turisti in pe-dule, sotto il profilo arcano della Tofana e del Cristallo. Cominciò a raccogliere e con-servare le cartoline di scalatori appesi a un costone o con il primo piano dei loro volti bruciati. Rientrato a Bergamo si fece rega-lare dalla madre un poster di Messner e lo appese sopra il letto, poi fu la volta dei suoi libri, Reinhold diventò il suo Jack London. A sedici anni gli scrisse una lettera: «Lo invi-tavo a ripetere con me la via del Sass d’la Crusc in Val Badia, un passaggio dolomiti-co di ottavo grado che Messner aveva aper-

Prima salita:

26 febbraio

1953

Buhl

Prima salita

invernale:

26 febbraio

2016

Moro,

Ali Sadpara e Txikon

L’attualità. Cime tempestose

Prima salita:

29 maggio

1953

Hillary

e Norgay

Prima salita

invernale:

17 febbraio

1980

Wielicki

e Cichy

Prima salita:

3 giugno 1950

Herzog

e Lachenal

Prima salita

invernale:

3 febbraio

1987

Kukuczka

e Hajzer

Prima salita:

5 luglio 1958

Kauffman

e Schoening

Prima salita

invernale:

9 marzo 2012

Bielecki

e Golab

Ora che ha conquistato il Nanga Parbat

Simone Moro lancia la sua nuova sfida:

“Basta con gli ottomila. A settemila metri

ci sono cento vette ancora da scalare”

Le vette conquistate

Repubblica Nazionale 2016-03-20

laRepubblicaDOMENICA 20 MARZO 2016 33

Prima salita:

2 maggio 1964

Ching, Yonten

Chun-yen, Doji,

Fuzhou, Trashi,

Tien-liang, Doji,

Tsung-yue, San

Prima salita

invernale:

14 gennaio 2005

Morawski, Moro

Prima salita:

8 agosto 1786

Balmat

e Paccard

Prima salita:

1 agosto 1855

Birkbeck,

Hudson,

Stevenson,

Christopher

e James

G. Smyth

Prima salita:

14 luglio 1865

Hudson,

Whymper,

Douglas,

Hadow,

Taugwalder

e Croz

Prima salita:

7 luglio 1956

Moravec,

Larch

e Willenpart

Prima salita

invernale:

2 febbraio

2011

Moro, Urubko

e Richards

Prima salita:

30 luglio 1859

Sainte Claire

Deville,

Dorsaz,

Daniel,

Emanuel

e Gaspard

Balleys

Prima salita:

3 agosto 1811

Volken, Bortis,

Hieronymous

e Johann

Rudolf Meyer

Prima salita:

4 settembre

1860

Cowell,

Dundas,

Payot

e Tairraz

Prima salita:

11 agosto

1858

Barrington,

Almer

e Bohren

Infografica a cura di Leonardo Bizzaro

Fonti: “8000 metri di vita” di Simone Moro (Grafica & Arte); “On Top of the World. The New Millennium” di R. Sale, E. Jurgalski, G. Rodway (Snowfinch);“Mountaineering in Antarctica” di D. Gildea (Nevicata);“A est del romanticismo” di F. Torchio, R. Decarli (Accademia della Montagna del Trentino)

Prima salita:

9 giugno 1957

Wintersteller,

Buhl, Schmuck,

e Diemberger

Prima salita

invernale:

5 marzo 2013

Berbeka,

Bielecki, Malek,

Kowalski

to assieme al fratello Gunther». Messner gli rispose declinando cortesemente l’offer-ta. Era ormai un alpinista, non più un roc-ciatore. Gettarono i primi semi di un’amici-zia. «Se a Bonatti ho rubato la consapevolez-za che puoi inseguire l’idea delle grandi al-tezze anche se sei nato in una cantina nel posto più basso del mondo, da Messner ho appreso la professionalità del mestiere. Il successo e la notorietà non mi sono mai in-teressati, con la montagna ci volevo man-giare».

La prosa scaccia la poesia. C’è riuscito a procacciarsi il cibo e molto altro, e sono po-chi ad averlo fatto, è sufficiente pensare che solo il Nanga Parbat gli è costato settan-tamila euro. La semplicità porta con sé una serie di scelte. Scuole serali per lavorare la mattina. «In un’agenzia di pratiche auto-mobilistiche prima, poi nel disgaggio dei paravalanghe». Imbrigliava crostoni di montagna con maglie d’acciaio, guadagna-va fino a 500mila lire al giorno, lasciò sul campo la falange di un dito. La laurea in scienze motorie, una vita tra Bergamo, Bol-zano — il luogo del cuore e quello dell’effi-cienza — e l’Himalaya, portare a scuola i fi-gli Martina di diciassette anni e Jonas di sei, dare retta alla preveggenza sciamani-ca e onirica della moglie Barbara, la donna del sesto senso, che gli dice lascia stare il K2, Simone: «Ho fatto un sogno e nel sogno non tornavi». Meglio non andare a control-lare, smorzare il desiderio come si fa con la fiamma della candela, riempire l’anima con il valore della rinuncia. «Perché la mon-tagna non è per i solitari, le nostre mani so-no fatte per stringere altre mani». Arren-dersi è un gesto di generosità prima di tut-to verso se stessi. È il potere della sopravvi-

venza. Sul Nanga Parbat, la montagna nu-da in lingua indu, l’ha fatto Tamara Lun-ger, ventinove anni, un passato da atleta sugli sci, che lo scorso febbraio era con Mo-ro, il basco Alex Txikon e il pachistano Alì Sadpara. Mancavano settanta metri alla ci-ma quando si è fermata. «Non eravamo as-sieme in quel momento, ci eravamo parlati mezz’ora prima, eravamo tutti al limite del-le forze. Mi sa che se arrivo lassù mi dovre-te aiutare a scendere, mi ha confessato Ta-mara». Un pericolo troppo grosso, il profu-mo amaro della fine, il soffio della morte. Niente rabbia, non una lacrima. «Le ho spie-gato che doveva essere orgogliosa di essere lì, alla quota che percorrono i jumbo. In montagna è fondamentale avere paura, la paura è il contachilometri dell’autoconser-vazione e la rinuncia è un virtuosismo».

C’è un attimo in cui bisogna sforzarsi di capire che è giunta l’ora di smettere, quan-do scocca il cinquantanovesimo secondo. «Ho 48 anni, sono entrato nell’età giurassi-ca dell’alpinismo. Me ne concedo altri quat-tro, non di più. Non voglio rischiare di sem-brare patetico». Moro è alto un metro e 74 centimetri, pesa 69 chili, «non posso per-mettermi di veder comparire il numero 7 sulla bilancia», non fuma, non beve alcolici, si fa due ore di palestra ogni giorno e corre almeno 140 chilometri la settimana. Ma non basta, un giorno non basterà più. Su questo tema lo ha messo in guardia Mario Curnis, ottant’anni, con lui sull’Everest, un patrimonio d’ironia: «C’è un tempo per so-gnare e un tempo per prepararsi a morire». Grande carissimo maestro e amico, Curnis. Gli altri sono Nives Meroi, Hervé Barmas-se, Silvio Mondinelli. E poi il polacco Adam Bielecki e il kazako Denis Urubko.

La Compagnia del desiderio, per dirla con Tolkien. «Ho desiderato il Nanga Par-bat come si può solo desiderare una perso-na. Non avevo mai provato un sentimento così profondo. Avevo già fallito in due prece-denti tentativi, ma questa volta ero certo che ce l’avrei fatta. Potevo scriverlo il gior-no in cui sono partito dall’Italia, mettere il foglio in una busta e consegnarla al notaio. Quando sono arrivato in vetta non ho esul-tato né pianto, né piantato una piccozza o preso un sasso per ricordo. Ce l’avevo fatta, tutta la vita mi ribolliva dentro lo stomaco: i miei sogni di bambino, la fatica, i sacrifici, le bufere, il dolore per la morte di mio pa-dre e quella di tanti compagni. Ho sentito che ero arrivato al termine di un percorso

felice». C’era il silenzio della neve, il cielo freddo e iridato, un mondo pieno di stupori che scorrono come segni e lui era il fortuna-to che stava lì e poteva osservarli. Lo dove-va ai suoi genitori che non gli avevano fran-tumato il sogno, alla famiglia che gli aveva lasciato lo spazio e sopportato il vuoto delle sue sconfinate assenze. Lo doveva a Mes-sner che nel 1970 era salito lungo il versan-te opposto, il Rupal, una cattedrale di quasi cinque chilometri verticali, e che nella di-scesa aveva perso il fratello Gunther, 24 an-ni, trascinato via da una valanga. Sul Nan-ga Parbat Moro si trova a sfiorare lo dzi che porta al collo, un’agata fossile tibetana comprata nel 1997 da una vecchia signora in un villaggio sherpa, l’amuleto distintivo degli alpinisti himalayani che secondo la leggenda porta impressi sulla superficie gli occhi del Buddha.

Nell’alpinismo dei super atleti, del mar-keting e degli affari, degli spot e dei reality tv, da quale montagna ci faremo persegui-tare adesso? Proprio Reinhold Messner qualche tempo fa si è domandato dove si possa andare oggi «se anche le montagne più alte vengono attrezzate per le ascensio-ni turistiche di massa». Io ho avuto la fortu-na, ha scritto l’alpinista altoatesino, di esse-re nato prima. Una risposta Moro crede di averla. I settemila, dice, sarà sufficiente scendere di qualche gradino, limare la pre-sunzione: «Mentre ci sono quaranta perso-ne che hanno fatto tutti i quattordici otto-mila, non esiste ancora il principe dei sette-mila. A quella quota restano inviolate un centinaio di vette. Eppoi la parete Est del K2; sull’Everest la Fantasy Ridge che nessu-no ha mai percorso; la traversata, senza os-sigeno, delle quattro vette del Kangchen-junga; la cresta Nord del Lhotse; la diretta sulla parete nord-ovest dell’Annapurna; la traversata in Pakistan dal Gasherbrum II al Gasherbrum III». Ma nella sua mappa del tesoro sono indicate anche le vecchie Al-pi, le ripetute su Marmolada e Civetta, il Bianco e il Cervino dei pionieri, la terribile parete Nord dell’Eiger che lo ha già respin-to una volta «e che va fatta d’inverno, in ve-locità», la Norvegia e la Groenlandia. Ma l’ultima montagna sarà un ritorno. La più limpida di tutte, l’indimenticata perché in-dimenticabile. Mount Vinson, Antartide, 4892 metri. Un’alba e un tramonto in un anno. «La purezza del mondo. Troppo bella anche solo per guardarla».

P A O L O R U M I Z

IL PROTAGONISTA

SIMONE MORO, 48 ANNI,

DURANTE UNA SCALATA

SUL GASHERBRUM II NEL 2011

NELLA FOTO DI CORY

RICHARDS E IN UN RITRATTO

DI MATTEO ZANGA

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Dalla partedel portatorenepalese

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GUARDATELO BENE. È un portatore nepalese-tipo. Smilzo, di sessanta chili. Ebbene, quell’uomo è capace di portare il doppio del suo peso dai quattro ai cinquemila metri di quota in un giorno

solo, nutrendosi di una manciata di albicocche secche. Nessun grande alpinista occidentale ne sarebbe capace. Penso a questo e mi dico che la nuova frontiera dell’alpinismo è ritrovare l’umiltà dei suoi limiti. Una frontiera che non sta da nessuna parte, è dentro di noi.

Ho arrampicato anch’io, quarant’anni fa. Ho aperto vie estreme con un grande alpinista triestino e so cosa significa sentirsi sperduti su un lenzuolo infinito di neve da ramponare o su una parete immensa giallo-grigia senza sapere cosa ci sarà dopo lo strapiombo. Ma poi ho smesso. Il mondo degli scalatori palestrati mi aveva stancato. Mi lasciava un grande vuoto, e l’impressione di non aver mai conosciuto il silenzio dell’Alpe. Ho smesso anche di leggere libri di montagna. Produzioni letterarie immense su scalate estreme, nelle quali l’unica cosa da notare era la ripetizione dell’io. Il fascismo era finito, ma c’era ancora quella cosa ridicola dell’uomo a torso nudo che mostra i muscoli alla montagna e le dice “Io ti vincerò”. E, troppo spesso, quelle spedizioni milionarie capaci di lasciarsi dietro solo immondizie e zero riconoscenza per i portatori di quota. Non ce n’era una tra le star di allora, e ce ne sono pochissime anche oggi, capaci di orientare, col loro carisma e la visibilità di cui godono, l’opinione pubblica verso un approccio all’Altissimo che non sia di saccheggio. La parola d’ordine è rimasta l’abbattimento del limite. Più veloce, più ripido, sempre più su, fino al settimo, ottavo, nono grado con prospettiva di arrivare al ventesimo salendo sui polpastrelli, senza scarpe, d’inverno e a testa in giù.

Questa corsa verticale porta all’illusione blasfema che non vi siano più limiti, come accade per l’espansione del Pil e la bugia della crescita inarrestabile in un mondo dalle risorse in esaurimento. Ma a me che me ne importa di scalare vertiginose pareti himalayane se nel frattempo l’Appennino si desertifica e i ghiacciai scompaiono mostrando lo stato di sofferenza della Terra? A che mi serve andare in montagna se non per capire la mia nullità rispetto alla natura e il mio obbligo di difenderla? Basta con i superuomini. A me basta somigliare solo al più misero dei portatori nepalesi.

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A N T O N I O M O N D A

NEW YORK

BRIAN SELZNICK È CONSAPEVOLE di avere il cinema nel sangue: il suo cogno-me è quello del leggendario produttore di Via col vento, cugino del non-no. Ma ha nel sangue anche la letteratura e il disegno: ogni suo progetto nasce dalla combinazione di queste passioni e dall’ibridazione di questi diversi linguaggi. Si tratta di una scelta di forma che riflette anche una questione di sostanza: le sue opere mescolano personaggi reali ad altri immaginari, all’interno di vicende romanzate che si sviluppano sullo sfondo di avvenimenti storici. Succede ancora una volta con Il tesoro dei Marvel che esce a otto anni di distanza da La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, adattato sullo schermo da Martin Scorsese, e a cinque da La stanza delle meraviglie, che sta per essere realizzato da Todd Hay-nes. Il libro ha una prima parte, lunga circa quattrocento pagine, svilup-

pata attraverso disegni, e una seconda, di circa duecentocinquanta, scritta secondo i canoni del roman-zo. La storia, che segue per duecento anni la vicenda di una famiglia di teatranti chiamata Marvel, pro-pone un ulteriore gioco di specchi: l’ambientazione principale è la Dennis Severs House, un’attrazione turistica londinese nella quale viene ricreata una immaginaria casa di lavoratori di seta ugonotti. Il li-bro si sviluppa attraverso grandi avvenimenti e sentimenti: si passa da un naufragio alla scoperta del teatro, dalle citazioni di Yeats e Shakespeare alla tragedia dell’Aids. Lo sguardo è incantato e umani-sta, e Il tesoro dei Marvel, definito dal Publisher Weekly «un vero e proprio capolavoro», farebbe certa-mente piacere al prozio produttore per la perfetta mescolanza di spettacolo e qualità, fantasia e reali-smo, professionalità e sentimento.

Proveniente da una famiglia di ebrei lituani trapiantati nel New Jersey, Selznick ha scelto di vivere a Brooklyn, dove mi accoglie in una casa su due piani, nella quale spiccano una collezione di riproduzioni dell’Empire State Building, un teatro in miniatura, un ritratto di Truffaut, una raccolta di francobolli di mostri del cinema, il primordiale robot utiliz-zato da Scorsese in Hugo e molti cimeli di Hou-dini, al quale ha dedicato il suo primo libro. Sor-ridente e gentile, ci tiene a specificare subito che il nonno Ben non andava affatto d’accordo con il cugino produttore: «Una volta i parenti tentarono un riavvicinamento in occasione di un matrimonio», mi racconta mentre mi mo-stra un puzzle ispirato al libro, «ma i due rifiuta-rono persino di parlare, nonostante gli sforzi delle rispettive mogli, e in particolare di Jenni-fer Jones, che era sposata con lo zio David».

Comunque qualcosina della tradizione fami-liare che ha formato la sua creatività c’è, giusto? «Non si sfugge alla famiglia, mai. Io sono cre-

sciuto vedendo scorrere il mio cognome sullo

invenzioneLa straordinaria

di Brian Selznick

L’officina. Parole & immagini

Quattrocento pagine di disegni, poi inizia il racconto

È la formula scelta dall’autore del libro che ispiròMartin Scorsese. E che ora nella sua casa di Brooklyn

ci spiega perché “è meglio vivere di fantasia che di realtà”

IL LIBRO

“IL TESORO DEI MARVEL” DI BRIAN SELZNICK (MONDADORI, TRADUZIONE DI LOREDANA BALDINUCCI, 640 PAGINE, 18 EURO), DA CUI SONO TRATTE MOLTE DELLE IMMAGINI DI QUESTE PAGINE, SARÀ IN LIBRERIA DA MARTEDÌ 22. A SINISTRA, DUE DISEGNI DA “LA STRAORDINARIA INVENZIONE DI HUGO CABRET” SCRITTO DA SELZNICKNEL 2007 DA CUI IL FILM DI SCORSESE DEL 2011. A DESTRA UN AUTORITRATTO DELL’AUTORE

“Così mischio Hugo CabretLeonardo e Via col vento”

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schermo prima di film mitici come Rebecca, Via col vento, Duello al sole».

Come nasce “Il tesoro dei Marvel”?«Dalla voglia di scrivere qualcosa sulla Den-

nis Severs House, un posto che mi ha segnato indelebilmente. Mi aveva consigliato di visitar-la un amico studioso di Whitman, e all’inizio credevo che si trattasse di una trappola per tu-risti. Poi ho capito che in quel luogo c’era qual-cosa di unico, che mi toccava nel profondo: il fatto che un americano come me aveva dedica-to la vita a quel progetto, tentando di capire e farlo rivivere, mentre mescolava il realismo con la fantasia».

Il fascino per lo spettacolo è un tema ricor-rente dei suoi libri.«Mi affascina la rappresentazione: non è un

caso che sia anche un burattinaio. Mi diletto spesso con il mio piccolo teatro nel quale sono il regista, il costumista, lo scenografo e anche l’interprete: anche per questo ho voluto raccon-tare la storia di una famiglia di teatranti».

Perché mescola realtà a episodi reali?«Immagino solo vicende possibili, ma ciò

non significa che siano necessariamente false. Una delle più grandi emozioni della mia infan-zia è stata vedere Il viaggio nella luna di Mél-iès. Certo, si tratta di una fantasia, ma ci sono molti elementi più belli di quelli reali, e mi chie-do cosa ci impedisca di viverli».

È vero che ha studiato a lungo Leonardo Da Vinci?«Sì ne sono ossessionato, e ho anche realizza-

to alcuni disegni ispirati ai suoi capolavori, in particolare La Vergine delle Rocce».

Ci sono altri modelli, nel suo lavoro? «Non oso definire Leonardo un modello. Per

quanto riguarda le influenze penso ad artisti fantasy come Frank Frazetta e a un autore di poster cinematografici come Richard Amsel: il meraviglioso manifesto dei Predatori dell’ar-ca perduta spiega meglio di ogni esempio l’i-

bridazione di realismo e fantasia».Perché ha definito questo romanzo come la terza parte di una trilogia?«Le vicende in realtà sono molto diverse, ma

oltre alla mescolanza di realtà e finzione hanno in comune un tema per me fondamentale: l’i-dea di costruire una famiglia come vogliamo che sia, con persone che amiamo o semplice-mente con amici, anche di età molto diversa. Penso sempre a quella scena notturna in Gio-ventù Bruciata nella quale, per poche ore, Ja-mes Dean e Natalie Wood si illudono di creare la famiglia perfetta. Quando ho scritto Hugo non avevo affatto in mente una trilogia, né ho mai pensato di scrivere un libro partendo dal tema: a me interessano le emozioni».

Il libro è diviso in due parti distinte.«Quando ho cominciato a farlo circolare, un

amico regista mi ha detto che dopo quattrocen-to pagine di illustrazioni i ragazzi si sarebbero sentiti traditi dall’inizio improvviso di un libro di narrativa. Ho tentato di invertire i blocchi, ma poi ho capito che la riuscita della prima par-te avrebbe dato sostanza alla seconda».

È vero che in origine “Hugo” era un roman-zo breve puramente narrativo?«Sì, ma a un certo punto ho capito che molte

descrizioni potevano avvenire per immagini, cosa che è stata valida anche per questo ultimo libro. Anche in quel caso volevo trasmettere un’emozione, che Scorsese è riuscito a comuni-care magistralmente nel film: la celebrazione del cinema, dei libri e degli archivi che li tra-mandano».

Il motto della Dennis Devers House è “O ve-di o non vedi”.«È quello che penso dei miei libri: io offro tut-

te le chiavi, ma sta al lettore poi interpretare». Si considera uno scrittore o un artista figura-tivo?«Un narratore di storie».

JOSEPH SI CONCENTRÒ SUL PALCOSCENICO E BEN PRESTO VENNE INTERAMENTE CATTURATO DALL’AZIONE. OSSERVÒ SBIGOTTITO LA STATUA DELLA REGINA SPALANCARE LE BRACCIAE ACCOGLIERE IL MARITO PENTITO QUANDO SI ALZARONO LE LUCI FU COME USCIRE DA UNO STATO DI TRANCE

IL PALCOSCENICO ERA ENORME, CON UN AMPIO SIPARIO ROSSO E ORO. CENTINAIA DI PERSONE ERANO SEDUTE SU POLTRONCINE DI VELLUTO ROSSO E IN PALCHETTI FILIGRANATI. FRANKIE INTERRUPPE CON IL MENTO: “RIESCI A CAPIRE CHE COSA STA SUCCEDENDO?”

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MitchellAutoritratto

Spettacoli. Ladies of the canyon

di signora

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La ragazzacon in testaSchuberte Miles Davis

IL LIBRO

“JONI MITCHELL - BOTH SIDES. CONVERSAZIONI SULLA VITA, L’ARTE, LA MUSICA”, A CURA DI MALKA MAROM (BIGSUR, TRADUZIONE DI FRANCESCO GRAZIOSI, 377 PAGINE, 20 EURO) È ORA IN LIBRERIA. NELLA PAGINA A DESTRA IL TESTO AUTOGRAFO DI “WOODSTOCK” (1970)

APORTARLA IN CALIFORNIA,

ancora di fatto

sconosciuta, fu David

Crosby, che la scoprì in

un locale folk in Florida e

se ne invaghì all’istante. Come molti

altri dopo di lui. La leggenda racconta

un episodio che la dice lunga sullo

stupore provocato dalla giovane

cantautrice. Sembra che Crosby,

approfittando proprio del fatto che la

ragazza fosse del tutto sconosciuta, si

divertisse a invitare gli amici e solo

dopo aver offerto generose dosi di

marijuana chiedeva a Joni se

gentilmente le andava di prendere la

chitarra e suonare qualcosa. Lei

ovviamente accettava e ogni volta

puntualmente lasciava i presenti

senza fiato. Perché Joni Mitchell era

un prodigio, da ogni punto di vista,

una cantautrice che aveva in testa

Schubert e Miles Davis, con una

mobilità vocale sorprendente, una

scrittura audace e complessa, un

talento esorbitante, raro anche in

un’epoca in cui la musica sembrava la

nuova polvere magica in grado di

trasformare il pianeta e ogni giorno

nascevano canzoni in grado di

rimanere nella storia. A sentire lei

oggi, con la rabbia che ha accumulato

in anni di ingiustizie, turlupinature,

cinismo dell’industria, solo il fatto di

essere donna le ha impedito di essere

considerata al pari, se non più, di Bob

Dylan e Leonard Cohen. C’è un

pizzico di presunzione è ovvio, ma è

verissimo che all’epoca il mondo della

musica era profondamente

maschilista, e una donna così

autorevole, indipendente,

emancipata, un poco di imbarazzo lo

creava. I musicisti però stravedevano

per lei, ne erano soggiogati, le hanno

dedicato molte canzoni, la più

romantica delle quali, “Our house”, la

scrisse Graham Nash creando il più

delizioso quadretto domestico mai

immaginato in campo rock. Lei

fuggiva, prendeva il volo in

continuazione, nomade

dell’esistenza per natura e

vocazione indomabile, convinta

fino a oggi di essere soprattutto

una pittrice, e questa inquieta

personalità la trasferiva

magistralmente nelle sue

canzoni che sembravano

sempre flussi cangianti,

inafferrabili, mai realmente

fermi, una dinamica che non

casualmente ha affascinato anche

alcuni grandi jazzman come Charlie

Mingus che la spronò a spingere

ancora oltre i suoi orizzonti. Fu grazie

a lui che incise un disco intitolato

appunto “Mingus”, un tributo

meraviglioso, ma anche uno dei

dischi dove si può percepire con

maggiore forza la libera vertigine di

cui è capace la canzone quando osa,

quando non ha paura di volare, più in

alto del cielo.

I QUADRI

LA COVER DI “LADIES OF THE CANYON” (1970) OPERA DI JONI MITCHELL COME ANCHE GLI ALTRI DIPINTI PUBBLICATI IN QUESTE PAGINE. DALL’ALTO IN SENSO ORARIO: “BOTH SIDES” 1 E 2 (1999); “TAMING THE TIGER” (1997); “WILD THINGS RUN FAST” (1981); “TURBULENT INDIGO” (1995)

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HO VISSUTO LA FINE DELLA CIVILTÀ DELLE CARROZZE. L’acqua e il latte ce li conse-gnavano ancora con i cavalli, e a Natale arrivava un cumulo di pacchi sopra una slitta. In paese c’erano solo due negozi. Mio padre gestiva l’alimentari e il papà di Marilyn McGee l’emporio. Io e lei chiamavamo il catalogo di Simpsons-Sears (una catena di grandi magazzini, ndr) “il libro dei sogni”. Da bambina, quando avevo quattro o cinque anni, lo trovavo splendido. Ce ne stavamo sdraiate a pancia in giù a guardare ogni pagina, e in ciascuna sceglievamo il nostro articolo preferito: il nostro busto, il nostro seghetto o il nostro martello preferito. Siccome però razionavamo ogni cosa, quando tutti lo avevano letto diventava carta igienica. Perfino il sindaco, renditi conto, si puliva il culo con il catalogo di Simpsons-Sears. Tutta quella carta patinata a colori. Noi invece all’alimentari cercavamo di mettere da parte

gli involucri delle arance. Le arance erano incartate in foglietti arancioni. Cercavamo di farne scorta per usarli come carta igienica. In paese non c’era una re-te fognaria. Era come nel Klondike: marciapiedi di legno e elettricità ma niente acqua corrente né ci-sterne né gabinetti con lo scarico.

Non sono una storpia, non sono una storpia L’anno dopo mi presi la polio, e quando scopriro-

no cos’avevo mi spedirono fuori dal paese, a cento chilometri di distanza. Quando mi fecero capire che non avrei mai più camminato — non lo dissero mai apertamente, ma me lo lasciò intendere un signore che non avrebbe mai più camminato, un signore in carrozzella — io non volli accettare quella sorte e mi dissi: «Non sono una storpia. Non sono una stor-pia». Mi alzerò e camminerò, per Dio. «Non sono una storpia... non sono una storpia...». Lo ripetevo a un albero di Natale che mia madre aveva sistemato nella stanza — l’unica volta che era venuta a trovar-mi. Mi aveva portato quell’alberello e se n’era anda-ta. Mio padre invece non venne mai a trovarmi in ospedale. E intanto ero costretta lì, con il Natale alle porte. Dato che eravamo contagiosissimi, dividevo la stanza in un tendone fuori dall’ospedale con un bambino di sei anni che stava sempre col muso lun-go e non faceva che mettersi le dita nel naso. Un giorno mi avevano dato non so che cura e mi aveva-no lasciato seduta sul bordo del letto, tutta storta, con le gambe paralizzate penzoloni. Arriva di corsa una suora e mi dà della svergognata, mi spinge ver-so la testiera del letto e mi copre le gambe. E io pen-sai: «Che male c’è se mi vede le gambe?». Quella se-ra, quando spensero le luci, dissi all’albero: «Non so-no una storpia, uscirò di qui... Non sono una storpia, uscirò di qui...». Era un rituale privato: pregavo per riavere le mie gambe. Non era Gesù né Dio che pre-gavo. «Ti ripagherò», dicevo a qualcuno. Non so a chi. Forse all’albero? «Ti ripagherò. Tu fammi solo uscire di qui. Fammi riavere le mie gambe». Un an-no dopo, finalmente, mi alzai per davvero e cammi-navo abbastanza bene, così mi lasciarono tornare a casa. Mantenni la promessa. Quando mi chiesero di entrare nel coro della chiesa, dissi di sì. Avevo già partecipato alle prove due o tre volte quando una bambina portò un pacchetto di sigarette e ce ne an-dammo tutti giù al laghetto prosciugato della chie-sa e ce le passammo. Una bambina vomitò. Tutto un gran tossire. Io feci un tiro e pensai: «Ma è fanta-stico!». Fumo da allora, da quando avevo nove anni.

Ecco, fa proprio come BobQuella foto di noi due che ci abbracciamo al festi-

val del folk di Newport... Leonard (Cohen, ndr) suo-nò Suzanne. Ci eravamo incontrati e io gli feci: «Quella canzone la adoro. È un gran pezzo». Davve-ro. Suzanne era una delle canzoni più belle che aves-si mai sentito. Perciò ero tutta fiera di incontrare un vero artista. Mi fece sentire piccola, perché ascol-tando la sua canzone pensai: «Caspita. Al confronto tutti i miei pezzi sembrano così ingenui». Mi sem-brava che lui fosse molto più raffinato. Così gli dissi: «Devo leggere un po’ di libri», e lui fece: «Che libri?» «Be’, sento sempre parlare di libri, e mi è rimasto il tarlo di essere una stupida perché tutti ne hanno letti un sacco e io no. Dammi un elenco di cose da leggere». Lui disse: «Scrivi proprio bene per essere una che non ha letto nulla. Magari è meglio che con-tinui così». Mi diede un elenco, tutti libri bellissimi: Camus, Lo straniero; l’I Ching, che ho usato per tut-ta la vita; Il gioco delle perle di vetro; Siddharta. Un elenco meraviglioso. Purtroppo, però, in quello di Camus scoprii che Leonard aveva rubato delle frasi. «Walk me to the corner, our steps will always...» è una frase di Camus, testuale. E così pensai: ecco, fa come Bob Dylan.

Io e te siamo troppo avantiQuando mi resi conto che Bob e Leonard rubava-

no versi, rimasi molto delusa. Poi pensai che c’è qualcosa di moralista nel dire: tu sei un plagiario e io no. Anzi, Leonard si arrabbiò con me perché ave-

vo inserito una sua battuta, una cosa detta da lui, in una delle mie canzoni. Ma per me quello non è un plagio. Si ruba dai libri o si ruba dalla vita. Con la vi-ta è ammissibile, con i libri no. Questa è la mia per-sonale opinione. Non rubare dall’opera di qualcun altro, se no stai barando. Ruba dalla vita, quella è a disposizione di tutti, no? Una volta andai a cena con Leonard. Era sempre difficile parlargli. Fra noi c’e-ra stato un breve legame sentimentale, ma lui era così distaccato, così irraggiungibile. Non c’era un gran rapporto al di fuori della camera da letto. Inve-ce per me doveva esserci di più. Perciò gli facevo un sacco di domande, per venirne a capo. Ricordo che mi diceva: «Ah, Joni, che domande bellissime fai», però poi era evasivo. Diventammo lo stesso amici, e ogni tanto lui si fermava a Laurel Canyon per venir-mi a trovare. Ma con il passare degli anni lo vidi sem-pre meno, finché quella sera non andammo a cena e quasi non mi rivolse la parola. Io ero a disagio, per la prima volta mi sembrava ci fosse dell’ostilità, e gli chiesi: «Ma io ti piaccio?». Lui rispose: «Be’, cosa c’è da dire a una vecchia amante?». Io dissi: «È un po’ un peccato. Dovrebbero esserci tante cose». E lui: «Sei tu quella a cui piacciono le idee». E io: «Se è per questo tu non riesci quasi ad aprire bocca senza che ne esca fuori un’idea». Così, da allora, non ha fatto che dirmi: «Joni, io e te siamo troppo avanti». Non ha mai più detto altro. «Joni, io e te siamo trop-po avanti».

Meglio essere una dilettanteSono stata scomunicata da tutte le scuola di mu-

sica. Mi avevano scomunicata da Nashville per aver portato un gruppo jazz: pensavano fossi una cantan-te country o folk finché non mi sono messa a fare quella che chiamavano musica pop — che è sempli-cemente la mia musica con l’accompagnamento di una band. Poi, quando ho iniziato a lavorare con mu-sicisti jazz, ci cacciavano via perché eravamo un ibrido. Ma l’ibridazione è l’unica strada che condu-ce a qualcosa di nuovo. Fino all’uscita di Court and Spark non mi passavano alle radio perché nei miei pezzi non c’era la batteria. Allora ci ho messo la bat-teria, e quando ho avuto un po’ di passaggi radiofo-nici all’improvviso era tutto troppo jazz e quando ho fatto Mingus mi hanno detto: «Con un disco del genere ti taglieranno fuori da tutte le radio». In que-sta società di specialisti, il mio destino è quello di es-sere considerata una dilettante.

E alla fine arrivò il successoA un certo punto ho avuto difficoltà ad accettare

la mia ricchezza e il mio successo, persino esprimer-li mi sembrava una cosa di cattivo gusto. Avevo an-cora l’idea stereotipata che il successo avrebbe gua-stato il talento, che il lusso mi avrebbe fatto adagia-re troppo e accomodare troppo e che il mio dono ne avrebbe risentito. Poi però ho scoperto che ero in grado di esprimere questa cosa nei miei testi. Per esempio: “Stanotte ho dormito in un bell’albergo/ Oggi sono andata a comprarmi dei gioielli”. Insom-ma, l’unico modo in cui potevo far pace con me stes-sa e la mia arte era dire: ora è così che vivo. Arrivo ai concerti in limousine. È un dato di fatto.

Ehi, volevate vedere la mia faccia?Ho cominciato a dipingere io le copertine dei

miei album. Mi dicevano: «Ah, non metterci un qua-dro. La gente vuole vedere la tua faccia. Si vendono più copie con la tua foto in copertina. Sul primo di-sco insistevano per avere una foto, così ho preso un mio disegno e ci ho messo al centro una foto col fi-sh-eye. Per il secondo si sono impuntati che voleva-no la mia faccia, così ho dipinto l’autoritratto di Clouds, in cui guardo dritto davanti a me. Volevate vedere la mia faccia? Eccola qua, vi sta guardando.

© Malka Marom, 2014 © Sur, 2016

SUL PRIMO DISCO INSISTEVANO PER AVERE

UNA FOTO, COSÌ HO PRESO UN MIO DISEGNO E CI MISI AL CENTRO UNA FOTO COL FISH-EYE PER IL SECONDO SI SONO IMPUNTATI: VOLEVANO LA MIA FACCIA, COSÌ HO DIPINTO UN RITRATTO IN CUI GUARDO DRITTO DAVANTI A ME: ECCOLA LA MIA FACCIA, VI STA GUARDANDO

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QUANDO CONOBBI LEONARD COHENMI SENTII PICCOLA

PERCHÉ ASCOLTANDO LE SUE CANZONI PENSAI: CASPITA, AL CONFRONTO TUTTI I MIEI PEZZI SEMBRANO COSÌ INGENUI GLI FECI: DEVO LEGGERE UN PO’ DI LIBRI. E LUI: CHE LIBRI? PER ESSERE UNA CHE NON LEGGE LIBRI SCRIVI ABBASTANZA BENE. MEGLIO CHE CONTINUI COSÌ

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J O N I M I T C H E L L

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L’infanzia poverissima, la prima sigaretta,

un grande amore e le due passioni più forti:

musica e pittura. In un libro-intervista

le confessioni della più sofisticata tra le ribelli

Repubblica Nazionale 2016-03-20

laRepubblicaDOMENICA 20 MARZO 2016 38LADOMENICA

Next. Grandi fratelli

J A I M E D ’ A L E S S A N D R O

QUEL CHE RESTA FUORI DELL’UMANITÀ, l’umanità com’era prima dell’avven-to dei social network e degli smartphone. Al presente mancano all’ap-pello in quattro miliardi: non usano il web né hanno il telefono e di loro non sappiamo quasi nulla. Ma non per molto: sta per essere assemblata una mappa ad alta risoluzione per individuarli e contarli, talmente grande che per contenerla servirebbe l’equivalente di seicento compu-ter portatili.

Parliamo di quattro miliardi di persone sui sette miliardi e mezzo di abitanti sulla Terra. La maggioranza, che veste però i panni di una mi-noranza fuori dalla Storia. Sembrano nomadi delle steppe, come gli Sci-ti raccontati da Erodoto. Incidentalmente entravano in contatto con le civiltà stanziali ed erano loro che, malamente e a singhiozzo, ne regi-

stravano la voce. Oggi essere al margine significa essere fuori dal flusso di informazioni che sta pla-smando tutto. Forse lo ricorderete, nel 2012 si disse che quell’anno erano stati creati più dati che nei precedenti cinquanta secoli. In realtà è poca cosa rispetto a quel che ci aspetta. Secondo la Cisco, il no-vanta per cento dei dati in circolazione sono stati prodotti dal 2014 a oggi. E sono pari a tre e mezzo zet-tabyte, che nel 2020 diventeranno quarantaquattro zettabyte. Già, lo zettabyte. Dice poco o nulla an-che sapendo che è un numero a ventidue cifre. Basterà dire allora che equivale a centottanta milioni di volte i documenti contenuti nella Biblioteca del Congresso a Washington. Ecco, è da questo flusso gi-

gantesco che oggi sono ancora esclusi quattro mi-liardi di persone. Ma Facebook, con il suo progetto Telecom Infra Project appena annunciato al Mobi-le World Congress di Barcellona, intende rimedia-re. Per farlo ricorre a uno dei linguaggi più anti-chi, quello delle mappe. In queste pagine, in ante-prima, vi mostriamo un dettaglio (mappa n. 3) della cartina degli insediamenti dove attualmen-te vive l’umanità non connessa. È una elaborazio-ne di quindici miliardi di foto satellitari in alta riso-luzione della DigitalGlobe, sulle quali gli algorit-mi di Facebook hanno individuato tutte le case, una a una, su un territorio che per vastità è settan-ta volte quello dell’Italia. In assenza di connessio-ni telefoniche mobili o fisse, solo le case possono infatti rivelare la presenza di persone in aree del pianeta che sappiamo essere popolate ma non con altrettanta precisione. Iniziando dall’Asia Centrale degli Sciti e dei Cimmeri.

«L’analisi è stata fatta dai computer grazie al deep learning, l’apprendimento delle macchine,

GRAZIE AL DEEP LEARNING RIUSCIAMO A TROVARE LE ABITAZIONI SCOLLEGATECON UN MARGINE DI ERRORE INFERIORE ALLO 0,2%

Tutto il mondo

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Come e perché anche gli ultimi finiranno nella rete

Facebook sta individuando (casa per casa) i quattro miliardi di persone senza telefono e web

(sarà) connesso

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YAEL MAGUIRE

CONNECTIVITY LAB

DI FACEBOOK

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reti neurali sintetiche che imparano a svolgere un compito specifico riuscendo in questo caso a trova-re le abitazioni con un margine di errore inferiore allo 0,2 per cento», racconta Yael Maguire, a capo del Connectivity Lab di Facebook. Singolare che il risultato alla fine ricordi un’altra mappa ben più antica, la vista dall’alto a volo d’uccello delle abita-zioni di Çatalhöyük, villaggio anatolico del seimi-la avanti Cristo. Pittura rupestre considerata da molti, ma non da tutti, fra i primi esempi di carto-grafia. Facebook in realtà parte da una costatazio-ne pratica, anche se la sua mappa ha implicazioni ben più profonde dell’uso per la quale è stata con-cepita. «Se vogliamo connettere tutta l’umanità», spiega Jay Parikh, a capo della divisone infrastrut-ture della multinazionale americana, «dobbiamo trovare un modo per farlo che sia economicamen-te vantaggioso per le aziende di telecomunicazio-ne. Nel mondo ci sono aree densamente popolate, ma con centri abitati relativamente piccoli. Senza una stima precisa e la dislocazione esatta degli

edifici è impossibile valutare quale sia la soluzio-ne migliore per portare connettività. Sulla carta, stando alle informazioni generiche che avevamo fino a ieri, ogni operazione del genere rischiava di essere un’operazione in perdita per un operatore. Con il nostro aiuto, fornito gratuitamente, ora si può valutare casa per casa. Capendo dove vale la pena portare la fibra, dove un cavo di rame, dove offrire la copertura con altri sistemi».

La prima rappresentazione dell’umanità non connessa, trecentocinquanta terabyte che mo-strano metro per metro venti paesi e i loro ventu-no milioni di chilometri quadrati, nasce quindi per convincere gli operatori telefonici a portare banda lì dove non è mai arrivata, fornendogli tut-to il sapere di Facebook in fatto di connessioni e modelli di business. Fédéric Martel, nel suo Smart: Inchiesta sulle reti, racconta di una gigan-tesca mappa interattiva nella sede del colosso Ali-baba a Hangzhou: dodici metri per dieci dove in tempo reale compaiono tutte le transazioni che

vengono compiute sul sito di e-commerce per le aziende fondato da Jack Ma. Ecco, grazie a Face-book fra qualche anno potremmo avere una map-pa del genere, magari ancora più grande. Che, al posto di ordini e acquisti, avrà tutti i movimenti e gli scambi di dati fra oltre sette miliardi di perso-ne. Non resteranno fuori nemmeno i nomadi, gra-zie a un sistema di droni alimentati da energia so-lare in grado di volare a diecimila metri di altezza per tre mesi consecutivi in circoli di sei chilometri offrendo a terra un’area di connessione mobile 3G con un raggio di cento chilometri. Satelliti di bassa quota e a basso costo. Progetto simile a Loon di Google, che usa invece palloni aerostatici. «Le infrastrutture del cielo», le ha chiamate Rajan Anandan, managing director per l’India di Goo-gle. Quando e se riusciranno, l’umanità a quel punto sarà interamente connessa. Se sogno o in-cubo come descritto ne Il Cerchio di Dave Eggers, lo lasciamo decidere a voi.

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SE VOGLIAMO DAVVERO CONNETTERE TUTTA L’UMANITÀ DOBBIAMO TROVARE UN MODO CHE SIA VANTAGGIOSO PER LE AZIENDE

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Grazie a un sistema di droni saranno mappate anche le popolazioni nomadi. Sogno o incubo?

JAY PARIKH.

DIVISIONE

INFRASTRUTTURE

FACEBOOK

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laRepubblicaDOMENICA 20 MARZO 2016 40LADOMENICA

PapaveroLe foglie del rosolaccio

(rosa dei campi) disposte a ventaglio,

vanno raccolte piccole, prima della fioritura.

Tenere e delicate, si immergono

in pastella per farne frittelle

Asparago Il germoglio dell’antica

Persia (asparag) a crescita spontanea

ha stelo sottile, consistenza tenera,

gusto intenso, venato d’amarognolo,per la più primaverile

delle frittate

8I mercati

TORINOMercato ContadinoVia Galliari-Piazza

Madama Cristina

MILANOMercato

MetropolitanoVia Valenza 2

VENEZIAMercato di Rialto

Capo della Pescheria

VERONAMercatino

dell’ArsenalePiazza Arsenale

FIRENZEMercato

di Sant’AmbrogioPiazza Ghiberti

ROMAMercato

di Campagna Amica

Ex Mercato Ebraico del Pesce

Via di San Teodoro 74

NAPOLIMercato

del contadinoParco Virgiliano

(Posillipo)

PALERMOSanlorenzo

Mercato Via San

Lorenzo 288

primizie&

piatti

Sapori. Selvatici

L’appuntamento

Weekend all’insegna dell’extravergine a Lecce,

fino a domani, con il premio internazionale Biol, dedicato

alle produzioni biologiche. Tema dell’anno, l’olivocoltura, messa a dura prova nel Salento

dal batterio Xylella fastidiosa

«AMO L’AGRICOLTURA NON ADDOMESTICATA», sentenzia Pie-tro Leemann, uno dei più colti e visionari cuochi vegeta-riani in circolazione. «L’assenza di irrigazione rende i gu-sti netti e allo stesso tempo fini, i principi nutrizionali so-no integri e si può meglio lavorare sui sapori originari, tanto che perfino l’amaro riesce gradevole e interessan-te». Il primo giorno di primavera è una finestra che si spa-lanca sul mondo delle verdure. Un tempo si chiamavano primizie, con tanto di negozi così battezzati per certifica-re l’amore incondizionato nei confronti di gemme e boc-cioli, baccelli in miniatura e foglioline, colori pastello e te-nere consistenze che quasi non reggevano la cottura.

La sindrome da onnipotenza alimentare ha trasformato le primizie in sempreverdi più o meno artefat-ti, progettate nei laboratori e coltivate in serra, disponibili tutto l’anno e in tutti i formati, le stagioni vissu-te come un optional quasi fastidioso, acqua in quantità e terra strettamente indispensabile, tanta chimica e poco sole. Così, erbe, verdure e bacche spontanee sono diventate l’ultimo avamposto di resistenza botani-ca a cui aggrapparsi per restituire senso al ritmo delle vegetazioni e resettare il collegamento ancestrale tra corpo e natura.

L’agricoltura seriale odia profondamente le fioriture selvatiche, che impediscono l’omogeneità delle monocolture e rallentano i raccolti meccanizzati. Basta un’occhiata per capire l’approccio agricolo di un campo o di una vigna: dove non occhieggiano i papa-veri e latita il tarassaco, erbicida ci cova.

Eppure, non occorre richiamarsi alle pozioni di Amelia Fattucchiera che Ammalia — la pseudo in-namorata di Paperone — per sapere quanto le erbe possano essere ammiccanti e tentatrici, tanto pove-re quanto golose e salutari. Per secoli, la cucina po-polare ha declinato ortica e mirto, cicoria e achillea, senape e acetosella con la stessa spudorata confi-denza oggi destinata a spinaci e lattuga.

Piante resistenti al freddo, pronte a far capolino alla fine delle gelate, capaci di crescere e ricrescere un taglio dopo l’altro, oppure da raccogliere un atti-mo prima di veder trasformati i germogli in foglie e gli steli in fusti. Una tavolozza di sapori intatti da tradurre in piatti semplici, ma in grado di fissarsi in-delebilmente nella memoria gustativa d’infanzia.

È il recupero di quegli stessi sapori ad animare la ricerca gastronomica della ristorazione d’autore, che oggi si traduce in orti a gestione personalizzata

e accordi con piccoli produttori virtuosi, ispirati in entrambi i casi dai più rigorosi principi dell’agricol-tura biologica e biodinamica, regno incontrastato delle erbe spontanee.

Se la passione per la natura solletica la vostra cu-riosità botanica, comprate un buon manuale per imparare a riconoscere le erbe e sperimentatelo sul campo, meglio se in compagnia di un amico esper-to, almeno all’inizio, per evitare sgradevoli sorpre-se al vostro stomaco.

In caso di scarsa pratica erboristica, prenotate un tavolo da “Joia”, il ristorante milanese di Pietro Leemann, che raccoglie le erbe spontanee in Valle Maggia (Canton Ticino) per preparare la sua ver-sione di wild insieme agli asparagi bianchi (rigoro-samente bio) e a una spuma soffice di aglio orsino (appena sbucato dalla neve). Il sole vi bacerà in fronte.

Sbollentare cavolfiori, carciofi e broccoli, lasciandoli croccanti. Passarli in acqua e ghiaccio. Unire puntarel-le e cicoria crude, condire con citronette alla senape.

Frullare gli ingredienti per la gelatina e passare al colino per ottenere la base. Aggiungere 0,6 g. di agar agar per ogni 100 g. di base, bollire e versare su una placca calda. Tagliare la ge-latina fredda con un coppa-pasta tondo. Per il gelato bollire il latte, spegnere e lasciare in infusione mezz’ora il rafa-no. Filtrare e versare sulle uova, a fuoco lento unire gli altri ingredienti, mantecare in gelatiera. Nel piatto: un disco di gelatina, al centro il gelato, intorno le ver-dure.

PRONTE A FAR CAPOLINO ALLA FINE

DELLE GELATE, TANTO POVERE QUANTO SALUTARI, ECCO

COME ERBE, VERDURE E BACCHE SPONTANEE

POSSONO TRADURSI IN PIATTI SEMPLICI

E DI STAGIONE DAI RAVIOLI

ALLE FRITTATE E ALLE INSALATE

La novità

Piatti improntati all’alimentazione naturale ai tavoli di “Naturalmente

a Milano”, il nuovo locale aperto dalla bio-azienda di miele e conserve di frutta Rigoni

di Asiago. Nelle ricette,verdure, erbe spontanee, latte

di pascolo e farine integrali

L’iniziativa

Il portale Life Gate ha lanciato il progetto I Feel Food, per uno stile

alimentare sostenibile. A partire dalla consapevolezza che il cibo

portato in tavola deve nutrire anche la nostra Terra, vengono

suggeriti i comportamenti virtuosi e le app per scegliere i cibi giusti

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La ricetta.Broccoli, carciofi, puntarelle: il mio ortocon gelatina di barbabietola e rafano

LO CHEF

ERNESTO

IACCARINO

GUIDA LA CUCINA

DEL BISTELLATO

“DON ALFONSO”,

SANT’AGATA

DEI DUE GOLFI (NA),

DOVE I PIATTI HANNO

I COLORI E I SAPORI

DELL’ORTO

BIOLOGICO

DI FAMIGLIA,

TRA VERDURE

COLTIVATE ED ERBE

SPONTANEE

L I C I A G R A N E L L O

INGREDIENTI:

12 CIME DI CAVOLFIORI; 12 CIME DI BROCCOLI CALABRESI; 12 CIME DI PUNTARELLE

3 CUORI DI CARCIOFI TAGLIATI A SPICCHI; 12 CIMETTE DI CICORIA SELVATICA

PER LA GELATINA DI BARBABIETOLA:

150 G. D’ACQUA; 100 G. DI BARBABIETOLA; 2 G. DI SALE

5 G. DI ACETO BALSAMICO; 3 G. DI ACETO DI RISO

PER IL GELATO DI RAFANO:1 L. DI LATTE; 9 TUORLI D’UOVO; 70 G. DI RAFANO GRATTUGIATO FINE

30 G. DI GLUCOSIO; 12 G. DI MIELE; 2 G. DI SALE

60 G. DI KUZU (ADDENSANTE NATURALE)

Into the wild. Asparagirucola, ortica e finocchiettiDomani è già primavera

Repubblica Nazionale 2016-03-20

laRepubblicaDOMENICA 20 MARZO 2016 41

FragolineOspiti del sottoboscofino a duemila metri, i frutti della fragaria

vesca sono ricchi di vitamina C,

calcio e fosforo. Per esaltarle, una goccia

di aceto tradizionale balsamico

SenapeLe foglie di sinapis arvensis vantano

un’originale sapore dolce-amaro,

con finale lievemente piccante (meno intenso

dei semi). Ottime spadellate con aglio, olio e peperoncino

BorraginePianta rustica,

resistente alla siccità. Le foglie, dal colore sgargiante, hanno una sottile peluria

a ricoprirle. Il gusto è fresco, aromatico, ideale

come ripieno dei ravioli

RucolaFiori gialli e foglie

evidentemente dentellate per la diplotaxis

tenuifolia, diuretica, digestiva, ricca

di vitamine e sali minerali. Il gusto acceso arricchisce zuppe e vellutate

SE AVETE AVUTO la fortuna di mangiare al “Noma”, il ristorante di René Redzepi a Copenaghen che prima di chiudere si è guadagnato il

primo posto nella classifica dei migliori ristoranti del mondo, sapete di cosa stiamo parlando. Queste classifiche sono assurde (lo stesso Redzepi ha ammesso che «sarebbe come decidere qual è il colore più bello») ma il caso è interessante, perché capovolge luoghi comuni e modi di pensare che parevano fuori discussione. Per esempio l’idea che l’Europa del nord non abbia una cucina degna di questo nome, anche per una “naturale” ristrettezza di risorse alimentari. La stessa intitolazione del “Noma” — abbreviazione di “Nordisk mad” che in danese significa “cibo nordico” — è un manifesto per affermare il contrario. Che un cibo del nord esiste, e una cucina pure.

L’interesse di questa provocazione sta nel rovesciamento di un paradigma culturale che risale all’antichità. È il paradigma della civiltà mediterranea, cresciuta sull’idea che il lavoro agricolo e la coltivazione della terra possano “addomesticare” e migliorare la natura, creando alimenti tanto più gradevoli e raffinati quanto più lontani dallo stato selvatico. Esattamente questa fu l’idea di “civiltà” costruita nel Mediterraneo antico: dar vita a ciò che in natura non esiste. A cominciare dal pane, dal vino e dall’olio, i tre grandi miti della civiltà greca e romana.

Il modello culinario lanciato nei paesi scandinavi — in Danimarca così come in Norvegia e in Svezia — propone un mito di segno opposto: un “ritorno alla natura” che abbandoni l’artificio per la spontaneità, il domestico per il selvatico, il cotto per il crudo. Dalle cucine di Noma uscivano bacche selvatiche e fiori, erbe e radici del sottobosco, gamberetti di fiordo serviti crudi o addirittura vivi, così come le formiche raccolte fra le dune marine. Un esercito di raccoglitori era stato reclutato per rifornire il ristorante di Redzepi. Una nuova idea di educazione alimentare si proponeva di mostrare (anche ai bambini) che “tutto è commestibile”: basta saperlo riconoscere nell’ambiente che ci circonda.

Una proposta non priva di contraddizioni, come sempre accade quando gli uomini optano per la natura contro la cultura, facendolo però in modo consapevole e ricercato, con una mediazione intellettuale (culturale) lontanissima dalla dimensione “naturale” che si pretenderebbe di rievocare. Lo stesso accadeva agli eremiti medievali, quando sceglievano — per consapevole scelta culturale — di vivere nella foresta affidandosi alla provvidenza divina, cioè alla natura, piuttosto che al lavoro, cioè alla cultura. Che la storia sia il luogo delle contraddizioni non crea certo stupore. In ogni caso, l’esperimento di René Redzepi resta un fenomeno di grande interesse, che crea scompiglio nelle nostre certezze.

FinocchiettoDiffuso lungo le zone

costiere, il foeniculum vulgare ha proprietà stimolanti, digestive

e anti-gonfiore. Le foglie, tenere

e filiformi, profumano la siciliana pasta

con le sarde

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TarassacoDiuretico (da cui il nome contadino “piscialetto”),

antinfiammatorio e ricco di ferro, il dente di leone

ha foglie dallo spiccato accento amaro,

che rilevano il sapore delicato dell’insalata

Re Redzepie la leggendadel ritornoalla natura

M A S S I M O M O N T A N A R I

Repubblica Nazionale 2016-03-20

laRepubblicaDOMENICA 20 MARZO 2016 42LADOMENICA

MILANO

SE NE STA SEDUTO AL SUO TAVOLO fra libri, disegni, quadri, cerami-che e matite colorate in cima al soppalco del suo atelier, un intrico di scale, balconcini e scalette tra Blade Runner e Piranesi, a due passi da Porta Romana. Appoggiato a un cassettone del Settecen-to c’è un suo ritratto firmato da Mimmo Paladino. E poi ancora al-

tri disegni, e lampade, incluse le ultime, quelle che ha progettato per un gio-vane imprenditore coreano. Blu, rosse e gialle sembrano luminose orbite pla-netarie.

Al piano di sotto c’è il suo laboratorio, simile a quello di un artigiano. Per-ché Alessandro Mendini, uno degli uomini che hanno inventato la cultura del design contemporaneo, due volte vincitore del Compasso d’oro, creatore di oggetti cult (è lui quello del cavatappi Anna G. di Alessi, 1994) e di vere e pro-prie icone del Postmoderno (dalla poltrona Proust, 1976, al Groninger Mu-seum, 1984) pur continuando a lavorare per grandi aziende (prima Alessi, ora Samsung e Swatch) a ottantaquattro anni è proprio nell’artigianato che vede nuove potenzialità per il design. Occhiali rotondi, giacca tirolese, panta-loni di velluto a coste, spiega l’apparente paradosso: «Oggi il design indu-striale è quello di Apple, di Samsung e delle automobili. Quanto al desi-gn del mobile, se consideriamo che le aziende storiche sono ormai de-gli editori di pezzi in tiratura limitata, a livello industriale resta Ikea che però, partita con un concetto interessante, da tempo

non ha un alto livello progettuale. Poi ci sono i ma-kers, una sorta di controcultura contemporanea che progetta e produce con alta tecnologia virtuale. E infi-ne c’è l’artigianato, forse l’ambito più interessante e difficile da definire, perché è qui che si crea il pezzo unico, l’opera d’arte, o comunque il pezzo che è border-line con l’arte. E questo è quello che faccio io. Le dico di più: forse è proprio dalla grande tradizione artigianale, e dai suoi valori antropologici, che si dovrà ripartire».

La storia del design Mendini inizia a scriverla nell’anno 1968, studio di Marcello Nizzoli, via Rossini 3, a Porta Ve-nezia, Milano. «Quello era un momento molto particolare, c’era tutto un sistema di contestazioni, da quelle studentesche a quelle sociali, che in qualche modo si opponevano al consumismo, a quello che allora si

chiamava il bel design. E in questa direzione si andava formando un movi-mento, non solo in Italia, intendiamoci, ma dall’Austria e fino a Los Angeles. Fu in quel periodo e in quel contesto che mi chiesero di dirigere Casabella e fu lì che cominciai a incontrare le persone che poi hanno formato il cosiddetto Design Radicale. C’erano quelli di Archizoom: Andrea Branzi, Paolo Deganel-lo, Massimo Morozzi e altri ancora. C’erano Ettore Sottsass, Riccardo Dalisi, Gianni Pettena. A Londra il gruppo degli Archigram, e poi anche Cedric Pri-ce, Buckminster Fuller. Ma mica solo architetti e designer, c’erano anche gli artisti Paolo Scheggi, Getulio Alviani...». Al piano di sotto il telefono squilla, sale Beatrice che lavora con lui da anni, c’è un’immagine da inviare al volo a Domus che festeggia il numero mille. Mendini dà le indicazioni del caso e poi continua sul filo di una vita che dalle riviste di architettura è stata scandita: dopo la direzione di Casabella, la direzione di Modo e poi, dal ‘79, proprio quel-la di Domus: «Diciamo che Casabella è stato il periodo del Contro Design, Mo-do, che era una rivistina piccola, è stato il periodo della Trasversalità, e Do-mus sicuramente il Postmoderno» sintetizza Mendini con la lucidità e la natu-ralezza di chi quei concetti e quei movimenti li ha sostanzialmente inventati.

In questi giorni l’architetto e designer ha ben due libri in uscita, per Electa un Codice Mendini e per Publimedia Scritti di domenica — «è l’unico giorno in cui mi capita di stare in studio da solo e allora posso scrivere». Per raccon-tarsi parte dall’idea del Postmodernismo, di cui è uno dei protagonisti più in-teressanti. «Non credo di avere uno stile, semmai un sistema di stili sfuggen-ti, che continuano a scappare. Sono curioso delle trasformazioni dei metodi di vita, delle arti, dei cambiamenti delle mentalità, inseguo sempre la logica del-la trasformazione che coniuga elementi nuovi e altri che appartengono ad al-tre epoche». Ha un’empatia speciale, che ti mette subito a tuo agio, la stessa che si percepisce nei suoi oggetti e progetti. «È proprio questo il Postmoderni-smo, è il riconoscimento che la cultura è circolare o, meglio, labirintica, mi-schia elementi di epoche diverse. Non ha il senso moderno dell’andare avanti su un’unica strada giusta e implacabile, ma gira attorno alle incertezze».

È la stessa cultura circolare che Mendini distilla in questo suo laboratorio parlandoci di grandi utopie, di estetica, e poi di nuovi progetti, di amici, e na-turalmente di designer e di architetti. Li ha conosciuti tutti, e tutti li ha invita-ti in una bella mostra che fece qualche anno fa al Triennale Design Museum. Si intitolava Quali cose siamo. Già, quali cose siamo? Il design come identità: «Nel ’68 il design era un grande progetto politico. Era l’utopia del socialismo alla francese, con l’idea del falansterio, le grandi architetture comuni che avrebbero unito vita e produzione, la fabbrica perfetta. Su questo versante c’erano Paolo Deganello, Aldo Rossi, c’era Enzo Mari che sosteneva, come tut-ti noi, la nobiltà del gesto, del lavoro, del fare. Ognuno, poi, declinava l’utopia a suo modo. C’era il monocromo di Branzi e c’era l’India di Sottsass». E intan-to scorrevano gli anni Settanta con Archizoom, Superstudio, Archigram: «Quelli di Archigram assomigliavano ai Beatles, e i Beatles riprendevano il Decò, anche nei vestiti. Erano strani ma tirati, i Beatles intendo dire, e infatti poi sono diventati Sir». Quindi gli anni Ottanta, quando Mendini fonda il gruppo Alchimia: «È il periodo dei colori e di un nuovo progetto, sempre radi-

cale ma su un piano diverso. A quel punto non c’era più la destra e la sinistra, iniziò un lavoro di corrosione tragicomica, un po’ da teatro dell’arte, un’occu-pazione dello spazio urbano in modo molto scenografico ma come fatto con piccole endovenose».

E a proposito di spazio urbano, l’architetto milanese per l’estate prossima sta preparando una mostra in uno degli appartamenti della Unité d’habita-tion di Le Corbusier, a Marsiglia. «L’intero edificio venne progettato dal

protagonista del Modernismo. Ma questo particolare appartamento, il numero 50, era quello abitato dalla maestra dell’asilo, che era

amica di Le Corbusier che quando veniva a Marsiglia era sem-pre suo ospite. Dunque la casa è stata conservata in ogni det-taglio, e in più accuratamente restaurata. Ogni anno ospita una mostra, e quest’anno toccherà a me. Sto lavorando ad al-

cune ceramiche negli otto colori con cui l’architetto france-se realizzò il suo progetto». Il colore per Mendini è sem-

pre stato importante, è evidente guardando i suoi og-getti sgargianti e luminosi. «L’ho assorbito in via Jan, a casa dei miei zii, Antonio Boschi, ingegnere e dicia-

mo così anche mio maestro di violino, e Marieda Di Ste-fano. Avevano una straordinaria collezione di quadri che fu poi donata al Comune di Milano». È dal Cubismo, ma anche da Steiner e dai colori pastello, e poi dal Puntini-smo francese, e dai dipinti di Georges Seurat conservati

in quella casa oggi aperta al pubblico che Mendini arrive-rà più tardi alla famosa poltrona Proust, dipinta a mano e con minuscole pennellate.

Ora però l’orologio multifunzione e multischermo che ha disegnato per Samsung lampeggia insistentemente sulle

15.49. «Mi segnala se oggi mi sono mosso poco oppure abbastanza. Può fare di tutto». Ride.

Tra le tante altre cose (poltrone, musei, lampade, piscine, stazio-

ni...) è l’uomo che è riuscito a rendere famoso nel mondo persino

un cavatappi (e a dargli un nome: Anna G.). Ora, a ottantaquattro

anni, dopo aver vinto due volte il Compasso d’oro, diretto tre rivi-

ste, lavorato per i marchi più celebri, fondato movimenti culturali

e inventato concetti teorici, questo grande designer e architetto è

piuttosto nell’artigianato che confida le sue speranze: “Sì, perché

ormai è soltanto nel lavoro arti-

gianale che si può creare il pez-

zo unico, e quindi l’opera d’arte,

o almeno l’oggetto che più si av-

vicina all’arte. E in fondo è que-

sto quello che faccio io”

OGGI IL DESIGN INDUSTRIALE È QUELLO CHE FA APPLE E I MOBILI SONO QUELLI FATTI (SEMPRE MENO BENE)DA IKEA. E POI CI SONO I MAKERS, CONTROCULTURA CONTEMPORANEA CHE PROGETTA E PRODUCE GRAZIE ALL’USO DELL’ALTA TECNOLOGIA

Alessandro

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NON CREDO DI AVERE UNO STILE,

PIUTTOSTO UN SISTEMA

DI STILI SFUGGENTI CHE CONTINUANO

A SCAPPARE DA OGNI PARTESONO CURIOSO,

QUESTO SÌ, DI QUALSIASI TIPO

DI TRASFORMAZIONE

IL POSTMODERNO È PROPRIO QUESTO. È IL RICONOSCIMENTO CHE LA CULTURA È CIRCOLARE O, MEGLIO, LABIRINTICA CIOÈ CHE NON VA AVANTI SU UN’UNICA STRADA MA GIRA ATTORNO ALLE INCERTEZZE

C L O E P I C C O L I

Mendini

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L’incontro. Maestri

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