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Giovanni Battista Belzoni Esotismo, spirito d'avventura, sete di conoscenza e atmosfere che ricordano i romanzi di Emilio Salgari. A cavallo tra Ottocento e Novecento, in piena epoca coloniale, le zone più selvagge e inesplorate dei cinque continenti vennero attraversate da coraggiosi scienziati italiani che dedicarono la loro vita allo studio della biodiversità della Terra. Personaggi spesso poco conosciuti al grande pubblico, che hanno dato un contributo fondamentale allo sviluppo delle discipline scientifiche allora emergenti. Odoardo Beccari: le sue opere ispireranno i romanzi di Emilio Salgari. Il furto della testa del faraone Ramses II. Belzoni racconta nelle sue memorie come abbia trafugato il gigantesco busto, lo abbia trainato, per terra e per fiume, per 15 giorni e con l’aiuto di 130 uomini. La testa oggi si trova al British Museum di Londra. C’erano una volta gli esploratori. E c’era anche il Grande Belzoni Scritto da Claudio Castellacci in Cultura pop | Permalink È il 18 ottobre 1817 quando Giovanni Battista Belzoni, uno dei personaggi più eclettici dell’egittologia, entra – sfondando l’ingresso con un tronco di palma usato a mo’ d’ariete – nella tomba del faraone Seti I . «Oltrepassata lo piccola apertura, ci trovammo in una bellissima sala nella quale vi erano quattro pilastri», scrive Belzoni nel suo diario. «Questa sala è ricoperta di figure che sono così perfette da sembrare disegnate il giorno prima. Notammo che le pitture diventavano più belle man mano che avanzavamo. I colori erano coperti da una specie di vernice lucida che produceva un bellissimo effetto. Da una parte e dall’altra di questa stanza se ne apre una più piccola. Chiamai quella a destra la “Camera di Iside”, perché vi si trova dipinta una grande vacca. Quella di sinistra la chiamai la “Stanza degli armadi” perché aveva una sporgenza lungo le pareti come una sorta di armadio, destinata forse a contenere gli oggetti necessari alla cerimonia funebre». La tomba di Seti I (ovvero di “colui che appartiene al dio Seth”, patrono dell’antico Egitto, il secondo faraone della XIX dinastia che regnò tra il 1320 e il 1200 a.C.) era rimasta intatta per tremila anni. L’importanza di quel ritrovamento è pari a quello della tomba di Tutankhamon che sarà scoperta solo un secolo più tardi da Howard Carter. Belzoni ha trentanove anni e una vita avventurosa alle spalle. È nato a Padova nel quartiere Portello, il suo vero nome è Bolzon, e ama spacciarsi per inglese. Ha lavorato come garzone nella bottega di barbiere del padre, è stato in seminario a Roma, ha militato nell’esercito prussiano ed è scappato in Inghilterra per evitare di finire coscritto in quello napoleonico. Giovanni Battista Belzoni, personaggio salgariano avanti lettera, racchiude in sé quella passione per i viaggi e per le avventure che di lì a poco si spargerà come un’epidemia anche nel nostro Paese, fino ad allora abbastanza restio a lasciarsi coinvolgere in questo tipo di attività tipicamente britannica. Eppure sono tanti gli italiani sconosciuti commercianti, avventurieri, missionari, cacciatori, militari, giornalisti, politici, ma anche scienziati di chiara fama, geografi, geologi, zoologi, botanici, antropologi – che, come Belzoni, andranno ad infittire, intorno alla seconda metà dell’Ottocento, un particolare periodo della storia d’Italia, quella schiera di esploratori che come scrive Stefano Mazzotti, divulgatore scientifico con all’attivo più di cento pubblicazioni di settore, in un libro curioso e affascinante, uscito da poco, dal titolo Esploratori perduti (Codice Edizioni, pagg.246, euro 16), erano accomunati «da un unico spirito di conoscenza e di esplorazione, da una curiosità che li rendeva irrequieti in patria e formidabili perlustratori e raccoglitori di nuove conoscenze, nelle più esotiche “terre incognite” e che avrebbero finito col dato un forte impulso alle conoscenze geografiche e scientifiche sul mondo». Si tratta per lo più di personaggi poco conosciuti dal grande pubblico, ma le cui storie non hanno niente da invidiare ai più noti nomi della tradizione anglosassone. «Nell’Ottocento la passione per i viaggi e le esplorazioni si trasformò in una vera e propria moda», in quegli anni, annota Mazzotti, lui stesso esploratore e buon conoscitore di foreste tropicali, «nacquero le prime riviste specializzate e i giornali riportavano resoconti di viaggi esotici in paesi lontani facevano letteralmente viaggiare con la fantasia. Dal 1840, con le esposizioni internazionali e coloniali, tutti potevano vedere e toccare con mano oggetti naturali (rocce, minerali, serpenti e coccodrilli, uccelli dalle piume colorate e mammiferi) mai visti prima. In questo periodo si diffusero mappe, mappamondi, disegni e opere di raffigurazione realistica di paesaggi, animali e piante, ma soprattutto fotografie di uomini che, nell’immaginario collettivo (e non solo…), mettevano in contatto le belle signore della borghesia, con i loro cappellini ornati di graziose piume di uccelli del paradiso, con “feroci cannibali”. Si arrivò persino a esporre “esemplari viventi di selvaggi”, uomini di diverse etnie portati in Europa per soddisfare un perverso voyeurismo del pubblico di quei tempi La passione per i viaggi si diffuse anche grazie alla letteratura che in quel periodo trovò una potente fonte di ispirazione nei resoconti dettagliati dei primi esploratori naturalisti; è il periodo in cui il romanzo d’avventura conosce una notevole fioritura. Emilio Salgari, uno degli esponenti più noti di quel tipo di letteratura, trasse buona parte delle sue ambientazioni e dei personaggi dai resoconti delle esplorazioni scientifiche nel Borneo di Odoardo Beccari ». Beccari, naturalista e botanico, era partito per il Borneo nel 1865 al seguito di James Brooke, Rajah di Sarawak, dove soggiornerà per tre anni compiendo importanti studi di botanica. Nelle sue opere racconterà di foreste dove «gli abitanti conducono una vita primitiva ed in parte sono tutt’ora selvaggi dediti alla caccia dei loro simili di cui conservano le teste affumicate sospese nell’interno delle abitazioni», proprio quelle foreste che scateneranno la fantasia di Emilio Salgari e dei suoi contemporanei. Belzoni non fa parte dell’elenco degli esploratori studiati da Mazzotti perché fuori dagli schemi e fuori dal periodo in esame, ma Belzoni è il personaggio che più mi aveva interessato e di cui mi ero occupato qualche tempo fa. Ecco qui la sua storia che, idealmente, si aggiunge a quelle narrate da Mazzotti. Belzoni era alto 2 metri e dieci, di corporatura massiccia e con una folta chioma rossa aveva cominciato a lavorare come buffone nei circhi di Londra con il soprannome di Sansone Patagonico, facendo divertire con le sue piramidi umane e i suoi straordinari giochi d’acqua, grandi, bambini e pure i soldati di Wellington in marcia verso Waterloo. Con grande facciatosta Belzoni si presenta al califfo Mohammed Ali Pascià, ex mercenario albanese diventato vicerè d’Egitto, spacciandosi, senza successo, per profondo conoscitore di ingegneria idraulica. Scrive nel suo diario: «Mia moglie Sarah, io e James Curtin, un giovane che avevo condotto con me dall’Irlanda, salpammo da Malta il 19 maggio 1815 e arrivammo il 9 giugno ad Alessandria. Lo scopo principale del mio viaggio in Egitto era quello di costruire macchine idrauliche per irrigare i campi con un sistema molto più facile ed economico rispetto a quello in uso laggiù». Il fatto è che però il califfo scopre di trovarsi davanti un improvvisatore e lo caccia da corte. Ma la fortuna evidentemente assiste i temerari e Belzoni si imbatte nel diplomatico inglese Henry Salt, per conto del quale rimuoverà la testa della statua di Ramses II dal Ramesseum (il complesso architettonico dedicato al grande faraone nella piana di Deir el-Bahari) e la trasporterà al Cairo lungo il Nilo. L’impresa sarà descritta in Viaggio e scoperta in Egitto e in Nubia, dove Belzoni racconta come abbia trafugato il gigantesco busto, lo abbia trainato, per terra e per fiume, per 15 giorni e con l’aiuto di 130 uomini, precisando che «il complesso degli strumenti necessari all’impresa era consistito in pochi pali e corde di foglie di palma». Oggi quella testa è in mostra al British Museum di Londra. La personale sfrontatezza di Belzoni, la sua morbosa sete di conoscenza, il suo spirito vagabondo unito alla totale mancanza di regole che al tempo regnava nel campo dell’archeologia permettono all’avventuriero padovano di trasformarsi in esploratore e diventare, nel giro di pochi anni e suo malgrado, una delle maggiori figure dell’egittologia. Consapevole delle proprie doti, oltre che della sua stazza, si fa chiamare The Great Belzoni, il Grande Belzoni. Una mania di grandezza che lo porta a “firmare” le sue scoperte. Scalfisce il suo nome dietro l’orecchio della testa di Ramses II, nonché sul piede sinistro della statua in granito nero di Amenofi, così come sull’altare delle sei divinità del tempio di Montu sottratto a Karnak, e perfino su una delle pareti della stanza funeraria della tomba di Seti I. Un graffitaro avanti lettera e anche un buon preveggente nel volersi attribuire la scoperte visto che, a distanza di due secoli, il British Museum si guarda bene dal farlo. Soprattutto dall’informare che, all’epoca, i dirigenti del museo snobbarono l’offerta di Belzoni di acquistare, per 2000 sterline, il sarcofago in alabastro del faraone Seti I che Belzoni si era portato dietro in Inghilterra. Il sarcofago venne poi acquistato dall’architetto John Soane nel cui palazzo si trova tutt’oggi. Ma le lacune e la trascuratezza degli inglesi non sono accidentali e ancora oggi sembra che nulla riesca a riscattare la grandezza di Belzoni il cui grande torto, ai loro occhi, era di essere italiano. A nulla gli era servito aver liberato dalla sabbia, nel 1817, il sito di Abu Simbel – 280 chilometri a sud di Assuan, sulla riva occidentale del Nilo, oggi vicino al lago artificiale Nasser e riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’Umanità – i cui due templi furono ricavati dalla montagna dal faraone Ramses II, figlio di Seti I, nel XIII secolo a.C. Non è servito neppure aver scoperto l’ingresso alla tomba di Chefren ed esserci entrato per primo. La storia dell’antico Egitto degli ultimi duecento anni continua a ignorarlo. Il suo diario di viaggio pubblicato a Londra nel 1820, molto apprezzato all’epoca, non è stato quasi più ristampato. Sembra che gli addetti ai lavori anglo-egiziani si siano anche dimenticati che Belzoni organizzò la prima mostra al mondo di antichità egizie e tutta Londra potè ammirare i disegni che lui stesso aveva ricopiato nella tomba di Seti I. Un vuoto inspiegabile, questo boicottaggio, anche perché Belzoni, oltre a essere un personaggio affascinante è, forse, il primo esploratore a operare con rigore scientifico, pur non avendo alcuna cognizione in materia. Un autodidatta promosso archeologo sul campo. Forse Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia, di mestiere mercante di tappeti, era uno studioso? Per la cronaca, a Belzoni si deve anche la replica di due delle stanze della tomba di Seti I che sono esposte nella Egyptian Hall del British Museum. E proprio lo scoperta della tomba di Seti I provocherà in Europa un’ondata di Egittomania pari a quella che poco più di un secolo dopo, nel 1922, si scatenerà in seguito alla scoperta della tomba di Tutankhamon da parte del britannico Howard Carter Oggi la tomba di Seti I, identificata dagli archeologi con il codice KV17 e soprannominata «Tomba Belzoni», viene anche chiamata la Cappella Sistina egizia per le sue eccezionali decorazioni e proprio per l’importanza di questo sito e il suo enorme valore storico e artistico, la tomba, già degradata nel corso degli ultimi secoli, non è aperta al pubblico: vi sono ammessi solo capi di Stato in visita in Egitto. Il 3 dicembre 1823 Giovanni Battista Belzoni muore improvvisamente colpito da febbri misteriose a Gwato, in Nigeria, ai confini del Benin, sulla strada per Timbuctù, durante una spedizione alla ricerca delle sorgenti del Nilo, senza essere mai diventato ricco. E purtroppo neanche famoso. TAG: British Museum, Egittomania, Emilio Salgari, Howard Carter, James Brooke, Odoardo Beccari, Rajah di Sarawak, Ramesseum, Ramses II, Sansone Patagonico, Seth, Seti I

Chi ha sparato a JFK? L'indagine parallela C’erano una

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Giovanni Battista Belzoni

Esotismo, spirito d'avventura, sete diconoscenza e atmosfere che ricordano iromanzi di Emilio Salgari. A cavallo traOttocento e Novecento, in piena epoca

coloniale, le zone più selvagge e inesploratedei cinque continenti vennero attraversate dacoraggiosi scienziati italiani che dedicarono

la loro vita allo studio della biodiversità dellaTerra. Personaggi spesso poco conosciuti al

grande pubblico, che hanno dato uncontributo fondamentale allo sviluppo delle

discipline scientifiche allora emergenti.

Odoardo Beccari: le sue opere ispireranno iromanzi di Emilio Salgari.

Il furto della testa del faraone Ramses II. Belzoni racconta nelle sue memorie comeabbia trafugato il gigantesco busto, lo abbia trainato, per terra e per fiume, per 15

giorni e con l’aiuto di 130 uomini. La testa oggi si trova al British Museum diLondra.

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C’erano una volta gli esploratori. Ec’era anche il Grande BelzoniScritto da Claudio Castellacci in Cultura pop | Permalink

È il 18 ottobre 1817 quando Giovanni BattistaBelzoni, uno dei personaggi più eclettici dell’egittologia,entra – sfondando l’ingresso con un tronco di palma usato amo’ d’ariete – nella tomba del faraone Seti I.

«Oltrepassata lo piccola apertura, ci trovammo inuna bellissima sala nella quale vi erano quattropilastri», scrive Belzoni nel suo diario. «Questa sala èricoperta di figure che sono così perfette da sembraredisegnate il giorno prima. Notammo che le pitturediventavano più belle man mano che avanzavamo. I colorierano coperti da una specie di vernice lucida che producevaun bellissimo effetto. Da una parte e dall’altra di questastanza se ne apre una più piccola. Chiamai quella a destra la“Camera di Iside”, perché vi si trova dipinta una grandevacca. Quella di sinistra la chiamai la “Stanza degli armadi”perché aveva una sporgenza lungo le pareti come una sorta

di armadio, destinata forse a contenere gli oggetti necessari alla cerimonia funebre».

La tomba di Seti I (ovvero di “colui che appartiene al dio Seth”, patrono dell’antico Egitto, ilsecondo faraone della XIX dinastia che regnò tra il 1320 e il 1200 a.C.) era rimasta intatta pertremila anni. L’importanza di quel ritrovamento è pari a quello della tomba di Tutankhamon chesarà scoperta solo un secolo più tardi da Howard Carter.

Belzoni ha trentanove anni e una vita avventurosa alle spalle. È nato a Padova nelquartiere Portello, il suo vero nome è Bolzon, e ama spacciarsi per inglese. Ha lavorato comegarzone nella bottega di barbiere del padre, è stato in seminario a Roma, ha militatonell’esercito prussiano ed è scappato in Inghilterra per evitare di finire coscritto in quellonapoleonico. Giovanni Battista Belzoni, personaggio salgariano avanti lettera, racchiudein sé quella passione per i viaggi e per le avventure che di lì a poco si spargerà come un’epidemiaanche nel nostro Paese, fino ad allora abbastanza restio a lasciarsi coinvolgere in questo tipo diattività tipicamente britannica.

Eppure sono tanti gli italiani sconosciuti –commercianti, avventurieri, missionari, cacciatori, militari,giornalisti, politici, ma anche scienziati di chiara fama,geografi, geologi, zoologi, botanici, antropologi – che, comeBelzoni, andranno ad infittire, intorno alla seconda metàdell’Ottocento, un particolare periodo della storia d’Italia,quella schiera di esploratori che come scrive StefanoMazzotti, divulgatore scientifico con all’attivo più di centopubblicazioni di settore, in un libro curioso e affascinante,uscito da poco, dal titolo Esploratori perduti (CodiceEdizioni, pagg.246, euro 16), erano accomunati «da ununico spirito di conoscenza e di esplorazione, da unacuriosità che li rendeva irrequieti in patria e formidabiliperlustratori e raccoglitori di nuove conoscenze, nelle piùesotiche “terre incognite” e che avrebbero finito col dato unforte impulso alle conoscenze geografiche e scientifiche sulmondo». Si tratta per lo più di personaggi poco conosciutidal grande pubblico, ma le cui storie non hanno niente dainvidiare ai più noti nomi della tradizione anglosassone.

«Nell’Ottocento la passione per i viaggi e leesplorazioni si trasformò in una vera e propriamoda», in quegli anni, annota Mazzotti, lui stessoesploratore e buon conoscitore di foreste tropicali,«nacquero le prime riviste specializzate e i giornaliriportavano resoconti di viaggi esotici in paesi lontanifacevano letteralmente viaggiare con la fantasia. Dal 1840,con le esposizioni internazionali e coloniali, tutti potevanovedere e toccare con mano oggetti naturali (rocce, minerali,serpenti e coccodrilli, uccelli dalle piume colorate e

mammiferi) mai visti prima. In questo periodo si diffusero mappe, mappamondi, disegni eopere di raffigurazione realistica di paesaggi, animali e piante, ma soprattutto fotografie diuomini che, nell’immaginario collettivo (e non solo…), mettevano in contatto le belle signoredella borghesia, con i loro cappellini ornati di graziose piume di uccelli del paradiso, con “ferocicannibali”. Si arrivò persino a esporre “esemplari viventi di selvaggi”, uomini di diverseetnie portati in Europa per soddisfare un perverso voyeurismo del pubblico di quei tempi Lapassione per i viaggi si diffuse anche grazie alla letteratura che in quel periodo trovò una potentefonte di ispirazione nei resoconti dettagliati dei primi esploratori naturalisti; è il periodo in cui ilromanzo d’avventura conosce una notevole fioritura. Emilio Salgari, uno degli esponenti piùnoti di quel tipo di letteratura, trasse buona parte delle sue ambientazioni e dei personaggi dairesoconti delle esplorazioni scientifiche nel Borneo di Odoardo Beccari».

Beccari, naturalista e botanico, era partito per ilBorneo nel 1865 al seguito di James Brooke, Rajah diSarawak, dove soggiornerà per tre anni compiendoimportanti studi di botanica. Nelle sue opere racconterà diforeste dove «gli abitanti conducono una vita primitiva ed inparte sono tutt’ora selvaggi dediti alla caccia dei loro similidi cui conservano le teste affumicate sospese nell’internodelle abitazioni», proprio quelle foreste che scateneranno lafantasia di Emilio Salgari e dei suoi contemporanei.

Belzoni non fa parte dell’elenco degli esploratoristudiati da Mazzotti perché fuori dagli schemi e fuori dalperiodo in esame, ma Belzoni è il personaggio che più miaveva interessato e di cui mi ero occupato qualche tempo fa.Ecco qui la sua storia che, idealmente, si aggiunge a quellenarrate da Mazzotti.

Belzoni era alto 2 metri e dieci, di corporaturamassiccia e con una folta chioma rossa aveva cominciato a

lavorare come buffone nei circhi di Londra con il soprannome di Sansone Patagonico,facendo divertire con le sue piramidi umane e i suoi straordinari giochi d’acqua, grandi, bambinie pure i soldati di Wellington in marcia verso Waterloo.

Con grande facciatosta Belzoni si presenta al califfo Mohammed Ali Pascià, exmercenario albanese diventato vicerè d’Egitto, spacciandosi, senza successo, per profondoconoscitore di ingegneria idraulica. Scrive nel suo diario: «Mia moglie Sarah, io e James Curtin,un giovane che avevo condotto con me dall’Irlanda, salpammo da Malta il 19 maggio 1815 earrivammo il 9 giugno ad Alessandria. Lo scopo principale del mio viaggio in Egitto era quello dicostruire macchine idrauliche per irrigare i campi con un sistema molto più facile edeconomico rispetto a quello in uso laggiù». Il fatto è che però il califfo scopre di trovarsi davantiun improvvisatore e lo caccia da corte.

Ma la fortuna evidentementeassiste i temerari e Belzoni siimbatte nel diplomatico ingleseHenry Salt, per conto del qualerimuoverà la testa della statua diRamses II dal Ramesseum (ilcomplesso architettonico dedicatoal grande faraone nella piana diDeir el-Bahari) e la trasporterà alCairo lungo il Nilo. L’impresa saràdescritta in Viaggio e scopertain Egitto e in Nubia, doveBelzoni racconta come abbiatrafugato il gigantesco busto, loabbia trainato, per terra e perfiume, per 15 giorni e con l’aiuto di130 uomini, precisando che «ilcomplesso degli strumentinecessari all’impresa era consistito

in pochi pali e corde di foglie di palma». Oggi quella testa è in mostra al British Museum diLondra.

La personale sfrontatezza di Belzoni, la sua morbosa sete di conoscenza, il suo spiritovagabondo unito alla totale mancanza di regole che al tempo regnava nel campo dell’archeologiapermettono all’avventuriero padovano di trasformarsi in esploratore e diventare, nel giro dipochi anni e suo malgrado, una delle maggiori figure dell’egittologia.

Consapevole delle proprie doti, oltre che della sua stazza, si fa chiamare The GreatBelzoni, il Grande Belzoni. Una mania di grandezza che lo porta a “firmare” le sue scoperte.Scalfisce il suo nome dietro l’orecchio della testa di Ramses II, nonché sul piede sinistro dellastatua in granito nero di Amenofi, così come sull’altare delle sei divinità del tempio di Montusottratto a Karnak, e perfino su una delle pareti della stanza funeraria della tomba di Seti I. Ungraffitaro avanti lettera e anche un buon preveggente nel volersi attribuire la scoperte vistoche, a distanza di due secoli, il British Museum si guarda bene dal farlo. Soprattuttodall’informare che, all’epoca, i dirigenti del museo snobbarono l’offerta di Belzoni diacquistare, per 2000 sterline, il sarcofago in alabastro del faraone Seti I che Belzoni si eraportato dietro in Inghilterra. Il sarcofago venne poi acquistato dall’architetto John Soane nelcui palazzo si trova tutt’oggi.

Ma le lacune e la trascuratezza degli inglesi non sono accidentali e ancora oggisembra che nulla riesca a riscattare la grandezza di Belzoni il cui grande torto, ai loro occhi, eradi essere italiano. A nulla gli era servito aver liberato dalla sabbia, nel 1817, il sito di AbuSimbel – 280 chilometri a sud di Assuan, sulla riva occidentale del Nilo, oggi vicino al lagoartificiale Nasser e riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’Umanità – i cui due templifurono ricavati dalla montagna dal faraone Ramses II, figlio di Seti I, nel XIII secolo a.C.

Non è servito neppure aver scoperto l’ingresso alla tomba di Chefren ed essercientrato per primo. La storia dell’antico Egitto degli ultimi duecento anni continua a ignorarlo. Ilsuo diario di viaggio pubblicato a Londra nel 1820, molto apprezzato all’epoca, non è stato quasipiù ristampato. Sembra che gli addetti ai lavori anglo-egiziani si siano anche dimenticati cheBelzoni organizzò la prima mostra al mondo di antichità egizie e tutta Londra potè ammirare idisegni che lui stesso aveva ricopiato nella tomba di Seti I. Un vuoto inspiegabile, questoboicottaggio, anche perché Belzoni, oltre a essere un personaggio affascinante è, forse, ilprimo esploratore a operare con rigore scientifico, pur non avendo alcuna cognizione in materia.Un autodidatta promosso archeologo sul campo. Forse Heinrich Schliemann, lo scopritore diTroia, di mestiere mercante di tappeti, era uno studioso?

Per la cronaca, a Belzoni si deve anche la replica di due delle stanze della tomba di Seti I chesono esposte nella Egyptian Hall del British Museum. E proprio lo scoperta della tomba di Seti Iprovocherà in Europa un’ondata di Egittomania pari a quella che poco più di un secolo dopo,nel 1922, si scatenerà in seguito alla scoperta della tomba di Tutankhamon da parte delbritannico Howard Carter

Oggi la tomba di Seti I, identificata dagli archeologi con il codice KV17 e soprannominata«Tomba Belzoni», viene anche chiamata la Cappella Sistina egizia per le sue eccezionalidecorazioni e proprio per l’importanza di questo sito e il suo enorme valore storico e artistico, latomba, già degradata nel corso degli ultimi secoli, non è aperta al pubblico: vi sono ammessisolo capi di Stato in visita in Egitto.

Il 3 dicembre 1823 Giovanni Battista Belzoni muore improvvisamente colpito da febbrimisteriose a Gwato, in Nigeria, ai confini del Benin, sulla strada per Timbuctù, durante unaspedizione alla ricerca delle sorgenti del Nilo, senza essere mai diventato ricco. E purtropponeanche famoso.

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COMMENTI DELL'ARTICOLO (2)

mowrer | 5 febbraio 2012 alle 12:46giusto ricordare questi grandi italiani, in parte misconosciuti; cito Pietro Savorgnan di Brazzà, da cui ha preso il nomela città di Brazzaville, detto anche il Lawrence italiano.

Ornella54 | 5 febbraio 2012 alle 13:57Penso che al discredito di Belzoni abbia contribuito, in gran parte, il giudizio negativo che diede (sui suoi metodi pocoortodossi come, ad esempio, sfondare a colpi di ariete le porte dei templi e delle tombe) il giornalista-divulgatore KurtWilhelm Marek, che firmava Ceram i suoi testi di archeologia come “Civiltà sepolte” che fu, negli anni ’50-’60 un bestseller. La ringrazio per avermi fornito notizie più ampie su questa singolare figura di esploratore.

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