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Ah, per me, dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra. William Shakespeare Coriolano Vita e morte, pace e guerra, creazione e distruzione: ognuno di noi sa bene da quale lato schierarsi, ma ci si dimentica che vista dall’altro, di lato, la medaglia è sempre la stessa. Era il 1961 quando Stanley Kramer portava sul grande schermo un film – Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg) – che andava ad analizzare l’ultima fase dei processi di Norimberga. Certamente il taglio sobrio e elegante del regista newyorkese, e la sua capacità di mantenere una quieta “convivenza” tra interpreti del calibro di Spencer Tracy, Burt Lancaster, Maximilian Schell, Marlene Dietrich, Judy Garland e Montgomery Clift, ha permesso alla pellicola di superare la sempre ardua prova del tempo. Tuttavia il punto di forza di questo film va ricercato altrove: nella sceneggiatura di Abby Mann che, oltre a valergli un Oscar, consentì a Kramer di raccogliere ben 178 minuti di girato, in cui la facile retorica e i comodi schieramenti venivano completamente accantonati. Sia chiaro, il buon senso suggerisce allo spettatore da quale lato penda la bilancia, ma la (quasi) totale assenza di giudizio della pellicola consente di cogliere cause ed effetti di uno dei momenti più bui dell’umanità scegliendo di soffermarsi

che vista dall’altro, di lato, andava ad analizzare l ... · Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di democrazia e pace, e cos’hanno prodotto?

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Page 1: che vista dall’altro, di lato, andava ad analizzare l ... · Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di democrazia e pace, e cos’hanno prodotto?

Ah, per me, dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il

giorno è migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce,

è piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile,

assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra.

— William Shakespeare Coriolano

Vita e morte, pace e guerra, creazione e distruzione: ognuno di noi sa bene

da quale lato schierarsi, ma ci si dimentica che vista dall’altro, di lato, la

medaglia è sempre la stessa. Era il 1961 quando Stanley Kramer portava sul

grande schermo un film – Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg) – che

andava ad analizzare l’ultima fase dei processi di Norimberga. Certamente il

taglio sobrio e elegante del regista newyorkese, e la sua capacità di

mantenere una quieta “convivenza” tra interpreti del calibro di Spencer

Tracy, Burt Lancaster, Maximilian Schell, Marlene Dietrich, Judy Garland

e Montgomery Clift, ha permesso alla pellicola di superare la sempre ardua

prova del tempo.

Tuttavia il punto di forza di questo film va ricercato altrove: nella

sceneggiatura di Abby Mann che, oltre a valergli un Oscar, consentì a Kramer

di raccogliere ben 178 minuti di girato, in cui la facile retorica e i comodi

schieramenti venivano completamente accantonati. Sia chiaro, il buon

senso suggerisce allo spettatore da quale lato penda la bilancia, ma la (quasi)

totale assenza di giudizio della pellicola consente di cogliere cause ed

effetti di uno dei momenti più bui dell’umanità scegliendo di soffermarsi

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sui “piccoli” servi obbedienti che con la loro passiva coerenza hanno

alimentato la visione dei grandi fautori dello scempio. Ne nasce un viaggio

nella coscienza dei vinti, ormai costretti a dover fare i conti con le

scelleratezze consentite o ignorate durante il loro ruolo ormai perduto di

vincitori.

Stanley Kramer Judgment at Nuremberg [Vincitori e vinti] (1961)

Un rovesciamento della medaglia e una presa di coscienza spesso

possibili quando i conti sono ormai chiusi e, quindi, difficilmente percepibili là

dove l’acritica (il)logicità del presente offusca la visione d’insieme. E

nell’ultimo lavoro dell’Odin Teatret di Eugenio Barba – L’albero – la

sensazione è quella di essere vittime di una trappola tutta contemporanea

dalla quale proprio non si riesce a fuggire.

We’re caught in a trap, I can’t walk out

[siamo caduti in una trappola, non riesco a uscirne]

intona infatti, fisarmonica alla mano, il signore della guerra europeo –

controfigura della “tigre” Arkan – riprendendo e travisando Suspicious Mind di

Elvis Presley dopo aver terminato una gelida arringa a sua difesa culminata

con un esplicito

Avete il diritto di uccidermi, di torturarmi. Ma non avete il diritto di giudicarmi.

Di qui in poi si sveleranno lentamente tutti i personaggi dell’opera, con le

loro solide, imperturbabili ed eterogenee prese di posizione che proprio non

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consentono di evitare uno scontro ideologico.

Ma procediamo per ordine. Al centro della scena ci sono pezzi di un

albero, tronco al centro e rami sparsi accanto, che verrà ricomposto sin da

subito, così come il dramma che due cantastorie, una violinista punk e una

cantrice indiana, introdurranno. Siamo al cospetto di un albero vivo e

altresì morto, ma la vera tragedia è che sopra di esso non volano più gli

uccelli, hanno smesso di cantare: scelto di abbandonare un luogo o

un’umanità in cui l’innocenza e l’immoralità sono in costante sfida senza

esclusione di colpi. Ecco dunque avvicendarsi e congiungersi i vari

personaggi, tutti contraddistinti da un naso rosso un po’ clownesco, un po’ di

chi è costretto a subire la fatica ma soprattutto il freddo di questi tempi.

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Prima di proseguire, solo un’ultima citazione cinematografica tratta da Il

terzo uomo (The Third Man, Carol Reed, 1949), protagonista Orson Welles:

In Italia, per trent’anni, sotto i Borgia ci furono guerre, terrore, omicidi e

carneficine ma ne vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il

Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di

democrazia e pace, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù.

Una provocazione, come quella sopraccitata del Coriolano, ma anche un

paradosso rievocato e rimodellato dallo spettacolo della compagnia di

Holstebro che riesce nello stesso tempo a ridurre e a esasperarne la

componente prettamente pessimistica. Il Bene e il Male, le guerre e i sogni, la

tragedia e la speranza si alternano, si attraggono, si fondono quindi nelle

voci e nei corpi di Iben, figlia del poeta che piantò quell’albero, nonché

tenera innocente donna che da bambina sognava di sfidare il Barone Rosso; o

di un signore della guerra africano a capo di un esercito di bambini-

soldato che promette l’invulnerabilità attraverso il sacrificio umano; di una

donna nigeriana, con la testa decapitata di suo figlio, avvolto in un fagotto,

portata in capo e in grembo; del già citato signore della guerra europea e di

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due monaci yazidi, alle prese con l’ostinata volontà di rivedere quell’albero

fiorire nuovamente.

In questo perenne scontro ideologico il pubblico è letteralmente

catapultato nel gioco delle parti.

Due grandi tele chiudono il soffitto di uno spazio scenico delimitato da quinte

arancioni, mentre gli spettatori prendono posto su dei grandi tubi di

plastica gonfiabile disposti l’uno di fronte all’altro in prossimità della scena.

Uno spazio ristretto, in cui i pochi spettatori (massimo 90 a replica)

riescono, da posizione privilegiata, a osservare e a osservarsi mediante gli

occhi di chi sta sul lato contrapposto. Impossibile, infatti, non scorgere tra

il pubblico gli sguardi ammaliati dai leggiadri voli di Iben o quelli inorriditi

dalle azioni dei signori della guerra o, ancora, quelli speranzosi che osservano

i rituali dei monaci. Sguardi e volti che saranno poi decapitati dagli stessi

teli che inizialmente li sovrastavano in modo da ritrovarsi a contemplare

con estrema lucidità l’inumano, raccapricciante, sbalorditivo splendore

dell’umanità.

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Un teatro dalla forte valenza politica, pre-potente, tutto giocato su

contrasti di silenzi e repentine accensioni, su opposizioni verbali, linguistiche

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e melodiche, in cui ogni piccolo gesto e dettaglio ha un determinato peso

specifico. E alla fine, in questa eterna partita tra vincitori e vinti, in

questo continuo conflitto fatto di abbaglianti e terrificanti visioni

poetiche tornano anche gli uccelli. Loro (forse) torneranno sempre. Spesso

non come li avevamo immaginati. Già, ma a quale prezzo?

Ascolto consigliato

Cantieri Teatrali Koreja, Lecce – 8 ottobre 2017

L’ALBERO

con: Luis Alonso, Donald Kitt, Julia Varley, Kai Bredholt, I Wayan

Bawa, Roberta Carreri, Iben Nagel Rasmussen, Carolina Pizarro,

Parvathy Baul, Elena Floris, Fausto Pro

Scenografia: Luca Ruzza, Odin Teatret

Disegno luci: Luca Ruzza, OpenLab Company

Consulente luci: Jesper Kongshaug

Disegno e realizzazione dell’albero: Giovanna Amoroso e Istvan

Zimmermann, Plastikart

Programmazione software: Massimo Zomparelli

Costumi e oggetti: Odin Teatret

Manifesto: Barbara Kaczmarek

Direzione musicale: Elena Floris

Direttore tecnico: Fausto Pro

Marionette: Niels Kristian Brinth, Fabio Butera, Samir Muhamad, I Gusti

Made Lod

Teste delle bambole: Signe Herlevsen

Foto: Rina Skeel

Drammaturgo: Thomas Bredsdorff

Consulente letterario: Nando Taviani

Testo: Odin Teatret

Assistenti alla regia: Elena Floris, Julia Varley

Regia: Eugenio Barba

http://www.paperstreet.it/il-bene-e-il-male-dellodin-teatret/