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1 Siddhi (Dafna Moscati, a cura di), Che cos'è l'Illuminazione. Le interviste integrali a 10 maestri Il- luminati Viventi, Cesena, Macro Edizioni, 2007, 189 pp. Il libro contiene dieci interviste fatte nel 2005 da Dafna Moscati, alias Siddhi, a dieci "maestri Illuminati". La pubblicazione è uscita in concomitanza con il film-documentario Il Fiore del Nirva- na – Che cos'è l'Illuminazione, realizzato in collaborazione con Marco Mazzotti, alias Tao. Il film raccoglie estratti delle medesime interviste, intrecciate con il racconto del cammino di ricerca spiri- tuale che ha condotto Siddhi a incontrare i dieci maestri. Concepito come un "progetto artistico", realizzato per l'Istituto "Das Arts" di Amsterdam, anche il DVD del film è stato prodotto da Macro Edizioni. Il testo si articola in due parti: 1) le presentazioni degli intervistati scritte dai medesimi, seguite dalla bibliografia e/o dagli indirizzi dei siti web dedicati alle loro attività (pp. 7-26); 2) le trascrizio- ni integrali delle dieci interviste (pp. 27-187). I nomi degli intervistati sono di origine indiana: Avasa, Gangaji, Kalika, Madhukar, Maitreya, Pari, Prajnaji, Premananda, Samarpan, Satguru Sri Vast. Tuttavia, salvo l'ultimo della lista, si tratta di uomini e donne occidentali che, direttamente o indirettamente, si riallacciano a maestri indiani. In particolare, Gangaji, Madhukar, Pari, Prajnaji e Premananda riconoscono in Harilal W. L. Poonjaji (1910-1997), familiarmente conosciuto come Papaji, il loro unico o ultimo guru. Costui fu allievo laico del celebre mistico Ramana Maharshi (1879-1950), maestro nella tradizione "non duale" (a- dvaita) del vedānta. La prima domanda è la stessa in tutte e dieci le interviste: «Che cos'è l'Illuminazione?». Essa in- troduce il tema centrale intorno a cui si svolgono i dialoghi, ma non viene fatto nessun tentativo di chiarire il senso del termine "illuminazione" nel contesto delle spiritualità asiatiche a cui dovrebbe essere riferito. Le antiche e ricche tradizioni del vedānta e del buddhismo paiono irrilevanti di fron- te all'autorità dell'esperienza degli intervistati. Le loro affermazioni non sono articolate sulla base di una particolare dottrina filosofica o religiosa, eppure sembrano concordare su un punto: l'evento dell'illuminazione segna la sparizione del comune senso dell'io. Dice Avasa: «È svegliarsi finalmente alla realizzazione che "non c'è nessuno nel corpo", e che quella cosa a cui ti riferisci come "me" o "io" non c'è, non è ciò che credevi fosse» (p. 29). Gangaji: «L'Illuminazione è il riconoscimento che, per me, nella mia storia, colui che cercava la felicità in realtà non esiste nemmeno, non è veramente nulla, se non un insieme di pensieri nel flusso mentale […]. Quindi, in questo senso, la persona non poteva Illuminarsi perché non esisteva» (pp. 63-64). Kalika: «Devi lasciar andare le tue identificazioni, le tue idee, i tuoi credo, il tuo falso sé» (p. 78); «se non sono più qualcosa e se non ho più un movimento di pensieri, chi è che parla?» (p. 82). Ma- dhukar: «Se la persona dice "sono illuminata" è solo ego, l'ego che parla. Perché una persona non s'illumina mai. Una persona è solo una persona, solo un programma corpo-mente» (p. 107). Maitre- ya: «L'illusione primaria è l'identificazione con la tua mente come "me"» (p. 15). Pari: «Il mio pun- to è proprio di far vedere in qualche modo che non c'è nessuno presente, non c'è nessuno che esista in tutto l'universo, una tale cosa chiamata persona, un individuo che possa Illuminarsi. Semplice- mente non esiste!» (p. 135). Prajnaji: «ciò che è cambiato è questo "Io", questo "Me". Questo "mio" è un'illusione, come potrebbe essere "mio"?!» (p. 147). Premananda: «Il Risveglio significa che in un momento improvviso vedi che la vecchia storia della mia vita, del "me" in realtà non è mai stata vera» (p. 153). Samarpan: «Questa idea di me, di questo ego, di questa persona, di questa personali- tà, di questa struttura di corpo-mente non si Illumina. È solo che si toglie di mezzo e l'Illuminazione è» (p. 168). Sri Vast: «Una delle cose principali che è sparita è la paura, la paura della morte […]. Quando è accaduto questo riconoscimento, l'identificazione con il corpo è scomparsa, ti senti espan- so, infinito» (pp. 186-187). Parole come "illuminazione" e "risveglio" rimandano al buddhismo, dove normalmente tradu- cono il termine bodhi. Nel vocabolario dell'advaita vedānta troviamo abitualmente il termine bo- dha, per esempio nell'espressione ātmabodha: la conoscenza del (o il risveglio al) Sé, al di là dell'e- go (ahakāra) e non differenziabile dall'Assoluto (brahman). Tale conoscenza trascendente, però,

Che cos'è l'Illuminazione - Recensione

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Recensione: Siddhi (Dafna Moscati, a cura di), Che cos'è l'Illuminazione. Le interviste integrali a 10 maestri Illuminati Viventi, Cesena, Macro Edizioni, 2007, 189 pp.

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Siddhi (Dafna Moscati, a cura di), Che cos'è l'Illuminazione. Le interviste integrali a 10 maestri Il-

luminati Viventi, Cesena, Macro Edizioni, 2007, 189 pp.

Il libro contiene dieci interviste fatte nel 2005 da Dafna Moscati, alias Siddhi, a dieci "maestri Illuminati". La pubblicazione è uscita in concomitanza con il film-documentario Il Fiore del Nirva-

na – Che cos'è l'Illuminazione, realizzato in collaborazione con Marco Mazzotti, alias Tao. Il film raccoglie estratti delle medesime interviste, intrecciate con il racconto del cammino di ricerca spiri-tuale che ha condotto Siddhi a incontrare i dieci maestri. Concepito come un "progetto artistico", realizzato per l'Istituto "Das Arts" di Amsterdam, anche il DVD del film è stato prodotto da Macro Edizioni.

Il testo si articola in due parti: 1) le presentazioni degli intervistati scritte dai medesimi, seguite dalla bibliografia e/o dagli indirizzi dei siti web dedicati alle loro attività (pp. 7-26); 2) le trascrizio-ni integrali delle dieci interviste (pp. 27-187).

I nomi degli intervistati sono di origine indiana: Avasa, Gangaji, Kalika, Madhukar, Maitreya, Pari, Prajnaji, Premananda, Samarpan, Satguru Sri Vast. Tuttavia, salvo l'ultimo della lista, si tratta di uomini e donne occidentali che, direttamente o indirettamente, si riallacciano a maestri indiani. In particolare, Gangaji, Madhukar, Pari, Prajnaji e Premananda riconoscono in Harilal W. L. Poonjaji (1910-1997), familiarmente conosciuto come Papaji, il loro unico o ultimo guru. Costui fu allievo laico del celebre mistico Ramana Maharshi (1879-1950), maestro nella tradizione "non duale" (a-

dvaita) del vedānta. La prima domanda è la stessa in tutte e dieci le interviste: «Che cos'è l'Illuminazione?». Essa in-

troduce il tema centrale intorno a cui si svolgono i dialoghi, ma non viene fatto nessun tentativo di chiarire il senso del termine "illuminazione" nel contesto delle spiritualità asiatiche a cui dovrebbe essere riferito. Le antiche e ricche tradizioni del vedānta e del buddhismo paiono irrilevanti di fron-te all'autorità dell'esperienza degli intervistati. Le loro affermazioni non sono articolate sulla base di una particolare dottrina filosofica o religiosa, eppure sembrano concordare su un punto: l'evento dell'illuminazione segna la sparizione del comune senso dell'io.

Dice Avasa: «È svegliarsi finalmente alla realizzazione che "non c'è nessuno nel corpo", e che quella cosa a cui ti riferisci come "me" o "io" non c'è, non è ciò che credevi fosse» (p. 29). Gangaji: «L'Illuminazione è il riconoscimento che, per me, nella mia storia, colui che cercava la felicità in realtà non esiste nemmeno, non è veramente nulla, se non un insieme di pensieri nel flusso mentale […]. Quindi, in questo senso, la persona non poteva Illuminarsi perché non esisteva» (pp. 63-64). Kalika: «Devi lasciar andare le tue identificazioni, le tue idee, i tuoi credo, il tuo falso sé» (p. 78); «se non sono più qualcosa e se non ho più un movimento di pensieri, chi è che parla?» (p. 82). Ma-dhukar: «Se la persona dice "sono illuminata" è solo ego, l'ego che parla. Perché una persona non s'illumina mai. Una persona è solo una persona, solo un programma corpo-mente» (p. 107). Maitre-ya: «L'illusione primaria è l'identificazione con la tua mente come "me"» (p. 15). Pari: «Il mio pun-to è proprio di far vedere in qualche modo che non c'è nessuno presente, non c'è nessuno che esista in tutto l'universo, una tale cosa chiamata persona, un individuo che possa Illuminarsi. Semplice-mente non esiste!» (p. 135). Prajnaji: «ciò che è cambiato è questo "Io", questo "Me". Questo "mio" è un'illusione, come potrebbe essere "mio"?!» (p. 147). Premananda: «Il Risveglio significa che in un momento improvviso vedi che la vecchia storia della mia vita, del "me" in realtà non è mai stata vera» (p. 153). Samarpan: «Questa idea di me, di questo ego, di questa persona, di questa personali-tà, di questa struttura di corpo-mente non si Illumina. È solo che si toglie di mezzo e l'Illuminazione è» (p. 168). Sri Vast: «Una delle cose principali che è sparita è la paura, la paura della morte […]. Quando è accaduto questo riconoscimento, l'identificazione con il corpo è scomparsa, ti senti espan-so, infinito» (pp. 186-187).

Parole come "illuminazione" e "risveglio" rimandano al buddhismo, dove normalmente tradu-cono il termine bodhi. Nel vocabolario dell'advaita vedānta troviamo abitualmente il termine bo-

dha, per esempio nell'espressione ātmabodha: la conoscenza del (o il risveglio al) Sé, al di là dell'e-go (ahaṃkāra) e non differenziabile dall'Assoluto (brahman). Tale conoscenza trascendente, però,

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non ha il significato definitivo della bodhi buddhista. Quest'ultima segna la piena realizzazione del nirvāṇa, la cessazione totale dell'ignoranza conseguita da un buddha/arhat al termine del cammino di liberazione dal ciclo delle rinascite.

Secondo l'advaita vedānta, l'ātmabodha non coincide necessariamente con la liberazione (mo-

kṣa). Come chiarisce Vidyāraṇya (sec. XIV) nel Jīvanmuktiviveka (La liberazione in vita, a cura di R. Donatoni, Milano, Adelphi, 1995, p. 105), chi già possiede la conoscenza del brahman, al fine di ottenere la liberazione in vita, deve rinunciare a tutte le cose che distraggono (si veda la lucida ana-lisi introduttiva del curatore, pp. 71-72). Secondo il buddhismo, non si può dire lo stesso di un bud-

dha/arhat, ma certamente di chi percepisce il nirvāṇa senza però averlo realizzato appieno. Nel the-

ravāda la conoscenza del nirvāṇa può avvenire a quattro livelli, il primo dei quali richiede l'abban-dono della credenza nell'ego, l'illusorio senso dell'io. Nel mahāyāna la visione diretta del “non sé” (anātman) o della “vacuità” (śūnyatā) accade al primo dei dieci livelli di bodhisattva, colui che è destinato a diventare un buddha. Questa conoscenza iniziale, distinta dalla realizzazione finale del nirvāṇa o "illuminazione", occupa nel buddhismo un posto analogo a quello dell'ātmabodha nell'a-

dvaita vedānta. Sia il buddhismo sia l'advaita vedānta riconoscono che tra l'iniziale conoscenza diretta e la pie-

na realizzazione o liberazione finale può trascorrere un periodo più o meno lungo in cui occorre col-tivare ciò che è stato conseguito all'inizio, purificando la mente dalle predisposizioni impure rimaste in essa come tracce latenti (vāsanā). Vidyāraṇya menziona il caso vedico di Yājñāvalkya che, pur avendo attinto la conoscenza del brahman, dimostrò con la propria condotta impura di non aver an-cora realizzato la liberazione: si narra infatti che, dominato da grande superbia intellettuale e sete di ricchezze, finì per uccidere con una maledizione un oppositore, anch'esso conoscitore del brahman (ibid., pp. 190-193).

Se la dissoluzione dell'illusorio senso dell'io è riconosciuta da buddhisti e advaitin come il se-gno inequivocabile e imprescindibile dell'iniziale conoscenza diretta della vacuità o del brahman, dato e non concesso che i personaggi intervistati da Moscati l'abbiano davvero realizzata, etichettar-li tout court come "Illuminati" dimostra a dir poco l'ignoranza dei capisaldi sia del buddhismo sia dell'advaita vedānta. Inoltre, l'accreditamento della loro "illuminazione" da parte di un maestro au-torevole, che trapela da alcune interviste, potrebbe essere confutato dal fatto che l'unico insegnante indiano citato in tal senso è Poonjaji, colui che nel 1993, solo quattro anni prima di morire, ebbe con l'allievo David Godman il seguente dialogo (Poonja, Dialoghi col Maestro, a cura di David Godman, Roma, Ubaldini, 1998, p. 171):

«David: Papaji, molte persone ti hanno sentito dire: "Non ho dato gli insegnamenti finali a nes-suno". Cosa sono questi insegnamenti finali e perché non li rendi noti?

«Poonja: Non ci sono persone all'altezza. Nessuno è all'altezza di riceverli. Perché, secondo la mia esperienza, tutti si sono dimostrati arroganti ed egoisti […]. Se un re invia un messaggero in un altro paese, il suo unico compito è quello di consegnare il messaggio. Io ho mandato un messaggero in Occidente, ma ha tentato di diventare un re. Molte persone hanno avuto problemi per questo mo-tivo. Ho visto molti casi simili».

Comunque sia, se il lettore desidera ammettere la possibilità che qualcuno degli intervistati ab-bia davvero conseguito ciò che il buddhismo chiama "illuminazione" o l'advaita vedānta definisce "liberazione in vita", dovrebbe riflettere anche sui dati umanamente più terreni riscontrabili nelle interviste. Per esempio, una domanda rivolta a quasi tutti i maestri chiede se possano essere gelosi. Gangaji risponde: «Sì! Posso essere gelosa, posso essere arrabbiata, posso invidiare le tue scarpe se indossi delle belle scarpe» (p. 64). Madhukar: «Di una donna come te probabilmente sì!». Pari: «Certamente! Non sono forse un normale essere umano? Arrabbiato, geloso, certo […]. Se cerchi di liberarti di queste emozioni, per fare in modo di purificarti, allora sicuramente hai un lavoro molto pesante davanti». Prajnaji: «La gelosia appare, ma io non lo sono». Premananda: «Sì! ma non io! Perché non c'è nessun "io"! La gelosia, la tristezza, tutte le emozioni possono accadere, ma non c'è nessun attaccamento a questo».

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Altre affermazioni gettano luce sull'ovvia relatività o presuntuosa assolutezza della conoscenza degli intervistati, oppure lasciano intravedere spazi profanamente poco illuminati. Dice Avasa: «continuare a imparare è un processo che va avanti» (p. 46). Gangaji: «ho dei momenti infelici, ma non toccano "il campo di gioia"» (p. 62); «Ho dei problemi perché sono coinvolta nel mondo e mi preoccupo delle guerre e delle sofferenze» (p. 63); «Ci sono molti maestri che abusano delle loro esperienze di Illuminazione, e abusano dei loro studenti […]. Ci sono dei "cosiddetti" maestri illu-minati. Io non accetto la loro Illuminazione […]. Il mio Maestro mi ha detto che è sempre possibile per l'ego reclamare l'Illuminazione, e che la vigilanza è necessaria fino all'ultimo respiro» (p. 67). Kalika: «Talvolta accade che faccio delle cose molto stupide, ma le permetto perché so che dietro quello che viene definito stupido, c'è una saggezza più profonda che non si può vedere attraverso la mente» (p. 87). Maitreya: «per persone come me non c'è più da imparare… In termini di espandere i limiti della Consapevolezza, forse non c'è molto più in là dove andare» (p. 110).

Un'ultima riflessione riguarda l'immediatezza dell'esperienza di "illuminazione" riferita dalla maggior parte dei maestri e l'assenza di gradualità nel loro "insegnamento". Per esempio, secondo Avasa: «Non puoi arrivare al silenzio con una pratica o un metodo o una tecnica» (p. 41). Madhu-kar: «Un insegnante ti dirà: "Fai questo, fai quello, devi ancora purificare questo, devi pulire quello, devi fare questa pratica etc. etc.". Il Maestro non parla così, ti mostra direttamente che tu sei la Li-bertà stessa» (p. 100). Pari: «Ci sono molti insegnamenti che spiegano cosa fare per Illuminarsi e cosa non fare, cosa lasciar andare. Questo indica che c'è qualcosa che puoi fare o non fare per Illu-minarti… Il mio punto è dichiarare che c'è solo Illuminazione, la nostra natura, la nostra essenza» (p. 124). Premananda: «Non chiamerei il Risveglio un processo, direi che il Risveglio accade in un secondo, è una rottura improvvisa. Improvvisamente ti risvegli! Quindi questo è il Risveglio: in quel momento vedi senza alcun dubbio che tu non sei la storia» (p. 153). Sri Vast: «Una persona non si può preparare per l'Illuminazione, questo è molto importante da comprendere. Non puoi dare una certa pratica a una persona in modo che il risultato finale sia che egli si Illumini» (p. 181).

Se è vero che nel buddhismo indiano il termine bodhi si riferisce alla liberazione conseguita da un buddha/arhat al termine di un lungo percorso, nondimeno gli sviluppi del mahāyāna avvenuti in Cina a opera di esponenti della tradizione Ch'an hanno fatto emergere la controversa nozione della cosiddetta "illuminazione subitanea" (tun-wu).

Hui-neng (638-713) fu il primo, celebre divulgatore della via non graduale dell'illuminazione subitanea, ma è al discepolo Shen-hui (687-758) che si deve la diffusione di tale dottrina. Eviden-temente, non fu facile neppure per i buddhisti contemporanei comprenderne il senso effettivo, a giudicare dagli atteggiamenti settari che opposero il Ch'an e le tradizioni scolastiche (Hua-yen e T'ien-t'ai) o che alimentarono rivalità tra diverse scuole dello stesso Ch'an. Fu in questi frangenti che Kuei-feng Tsung-mi (780-841), storico del Ch'an e autorevole esponente del lignaggio di Shen-hui, avvertendo la necessità di fare chiarezza sulla questione dell'illuminazione subitanea versus l'il-luminazione graduale, suddivise i differenti approcci buddhisti in cinque modalità. L'insegnamento fondamentale di Shen-hui fu fatto rientrare nella modalità dell'illuminazione subitanea seguita dalla coltivazione graduale, ovvero dalla pratica meditativa intesa a sviluppare ciò che è stato realizzato repentinamente all'inizio. Qui "illuminazione" si riferisce all'esperienza dell'iniziale comprensione diretta della "vacuità". Perciò, secondo Tsung-mi, tale illuminazione deve essere distinta dalla bodhi completa che segna unicamente la conclusione del processo di coltivazione. A questo riguardo, si veda l'articolo di Peter N. Gregory, "Sudden Enlightenment Followed by Gradual Cultivation:

Tsung-mi's Analysis of Mind", in Peter N. Gregory (a cura di), Sudden and Gradual, Delhi, Motilal Banarsidass, 1991, pp. 279-320.

La possibilità che tanto l'illuminazione quanto la coltivazione siano subitanee, senza alcuna gra-dualità né antecedente né successiva, fu accettata da Tsung-mi, ma solo come una modalità rara, accessibile unicamente a chi abbia già percorso il cammino di coltivazione spirituale nelle vite pas-sate. Questo approccio caratterizzò invece l'insegnamento di Ma-tsu Tao-i (709-788), la cui scuola sopravvisse alla soppressione del buddhismo voluta dall'imperatore Wu-tsung nell'845, mentre la scuola di Shen-hui cessò. Pertanto, tutti gli sviluppi successivi del Ch'an/Zen si riconosceranno nel-

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l'istanza dell'illuminazione subitanea predicata da Hui-neng, senza però basarsi su Tsung-mi. Un'ec-cezione importante è rappresentata dalla scuola coreana di Chinul (1158-1210), che farà propria la modalità dell'illuminazione subitanea seguita dalla coltivazione graduale. Ma non è questa l'idea di illuminazione che si è diffusa in Occidente con il Ch'an/Zen.

In Che cos'è l'Illuminazione affiorano problematiche simili a quelle discusse da Vidyāraṇya e Tsung-mi, tuttavia nessuno dei dieci "illuminati" e neppure la devota Siddhi pare curarsi di attingere alla preziosa eredità dei grandi maestri dell'advaita vedānta o del buddhismo.

Nonostante il confusionario utilizzo del termine "illuminazione" da parte dell'intervistatrice e degli intervistati, il materiale raccolto nel libro è di grande interesse. Esso costituisce la prima pub-blicazione italiana a tentare d'indagare, quantunque timidamente, un fenomeno psico-mistico che non ha precedenti in Occidente e che si sta diffondendo soprattutto nei paesi di cultura anglosasso-ne; un movimento genericamente spirituale ma trasversale rispetto alle religioni tradizionali, da cui desume alcuni elementi riconducibili al concetto di "non dualità", rielaborandoli però liberamente nel format del satsang, l'incontro-dialogo con il guru moderno del "neoadvaita".

Il libro Che cos'è l'Illuminazione, più che rispondere a un quesito così pretenzioso, solleva molte questioni che, comunque, potrebbero ispirare riflessioni non comuni sulla natura della psiche e, for-se, indurre anche a saggiare la limpidezza dei "neoilluminati".

Giuseppe Baroetto