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21.02.2006 CORTE d'APPELLO di BOLOGNA - (i casi in cui il medico, in attivita' presso una casa di cura, puo' ragionevolmente richiedere il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato) § - Poiché l'attività di direzione di un reparto di una casa di cura può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro autonomo sia di un rapporto di lavoro subordinato, a seconda delle modalità del suo svolgimento, l'elemento centrale della distinzione dei due rapporti di collaborazione va ravvisato nella subordinazione da intendere, proprio in considerazione dell'elevato livello professionale della prestazione e dell'autonomia che intrinsecamente la caratterizza e qualifica, quale assoggettamento del primario al potere organizzativo, direttivo e disciplinare esercitato nei suoi confronti della direzione sanitaria. E' necessario cioè verificare se la Direzione Sanitaria della Casa di Cura si sia limitata a coordinare l'attività del medico con quella della impresa, oppure se, eccedendo le esigenze del mero coordinamento, abbia finito per dirigere, direttamente e continuativamente, la sua prestazione, conformandola cosi' nell'interesse esclusivo dell'impresa. (www.dirittosanitario.net) Sentenza depositata in Cancelleria il 7 gennaio 2005. Svolgimento del processo omissis Con ricorso depositato il 14 giugno 1995, il dott. ...ha convenuto in giudizio, dinanzi al Pretore di Piacenza, la Casa di Cura Privata .......s.r.l., esponendo quanto segue: - di essere medico chirurgo, con specializzazione in cardiologia e di avere conseguito l'idoneità a primario medico nel 1976; - nell'aprile dello stesso anno aveva cominciato a collaborare con la Casa di Cura Privata.... di Ponte dell'Olio in qualità di responsabile del reparto di medicina, con orario di quattro ore giornaliere (14 - 18) per quattro pomeriggi alla settimana e, dal 1979 al 1981, per tutti i pomeriggi, esercitando mansioni comportanti la direzione tecnica ed organizzativa del reparto alla stregua propria del primario, sotto la vigilanza della direzione sanitaria; - la retribuzione, erogata a seguito di emissione di fattura, era stata concordata in Lire 600.000 mensili oltre al corrispettivo delle prestazioni ambulatoriali, soggette alle variazioni esposte nel ricorso a pagina 2, sub 5; - dal 1979, in coincidenza con l'aumento dell'orario di lavoro, la retribuzione mensile era stata elevata a Lire 1.000.000; - a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro di medico dipendente della USL 54 della Lombardia, avvenuta il 4 gennaio 1982, era stato assunto dalla Casa di Cura ...con rapporto di lavoro subordinato - formalizzato dall'1 giugno 1982 ma, poi, regolarizzato, sotto il profilo assicurativo, dal gennaio 1982 dopo un intervento dell'INPS - in qualità di "responsabile medicina" e, cioè, del raggruppamento Pagina 1 di 33 Dettaglio News 21/02/2006 http://www.dirittosanitario.net/news/newsnotintera.php?newsid=753&areaname=

casa di cura e lavoro subordinato CORTE d'APPELLO di BOLOGNA - (i casi in cui il medico, in attivita' presso una casa di cura, puo' ragionevolmente richiedere il riconoscimento di

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21.02.2006 CORTE d'APPELLO di BOLOGNA - (i casi in cui il medico, in attivita' presso una casa di cura, puo' ragionevolmente richiedere il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato)

§ - Poiché l'attività di direzione di un reparto di una casa di cura può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro autonomo sia di un rapporto di lavoro subordinato, a seconda delle modalità del suo svolgimento, l'elemento centrale della distinzione dei due rapporti di collaborazione va ravvisato nella subordinazione da intendere, proprio in considerazione dell'elevato livello professionale della prestazione e dell'autonomia che intrinsecamente la caratterizza e qualifica, quale assoggettamento del primario al potere organizzativo, direttivo e disciplinare esercitato nei suoi confronti della direzione sanitaria. E' necessario cioè verificare se la Direzione Sanitaria della Casa di Cura si sia limitata a coordinare l'attività del medico con quella della impresa, oppure se, eccedendo le esigenze del mero coordinamento, abbia finito per dirigere, direttamente e continuativamente, la sua prestazione, conformandola cosi' nell'interesse esclusivo dell'impresa. (www.dirittosanitario.net) Sentenza depositata in Cancelleria il 7 gennaio 2005. Svolgimento del processo omissis Con ricorso depositato il 14 giugno 1995, il dott. ...ha convenuto in giudizio, dinanzi al Pretore di Piacenza, la Casa di Cura Privata .......s.r.l., esponendo quanto segue: - di essere medico chirurgo, con specializzazione in cardiologia e di avere conseguito l'idoneità a primario medico nel 1976; - nell'aprile dello stesso anno aveva cominciato a collaborare con la Casa di Cura Privata.... di Ponte dell'Olio in qualità di responsabile del reparto di medicina, con orario di quattro ore giornaliere (14 - 18) per quattro pomeriggi alla settimana e, dal 1979 al 1981, per tutti i pomeriggi, esercitando mansioni comportanti la direzione tecnica ed organizzativa del reparto alla stregua propria del primario, sotto la vigilanza della direzione sanitaria; - la retribuzione, erogata a seguito di emissione di fattura, era stata concordata in Lire 600.000 mensili oltre al corrispettivo delle prestazioni ambulatoriali, soggette alle variazioni esposte nel ricorso a pagina 2, sub 5; - dal 1979, in coincidenza con l'aumento dell'orario di lavoro, la retribuzione mensile era stata elevata a Lire 1.000.000; - a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro di medico dipendente della USL 54 della Lombardia, avvenuta il 4 gennaio 1982, era stato assunto dalla Casa di Cura ...con rapporto di lavoro subordinato - formalizzato dall'1 giugno 1982 ma, poi, regolarizzato, sotto il profilo assicurativo, dal gennaio 1982 dopo un intervento dell'INPS - in qualità di "responsabile medicina" e, cioè, del raggruppamento

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medico comprendente i reparti di medicina generale, cardiologia ed oncologia; - dal mese di gennaio 1982 in avanti aveva prestato la sua opera per almeno 28 ore settimanali senza alcun mutamento nella sua posizione e prestazione lavorativa, salvo che nella retribuzione, che era stata così composta: - un compenso fisso mensile, erogato in busta paga, corrispondente a quello minimo stabilito dal contratto di categoria per un primario in considerazione dell'orario di lavoro concordato; - un compenso fisso mensile, erogato "fuori busta" e contro il rilascio di fattura fino all'aprile 1994, pari a Lire 974.934 dal giugno 1982 all'ottobre 1984, a Lire 1.400.900 dal novembre 84 al dicembre 85 e a Lire 2.400.000 dal gennaio 1896; la corresponsione di tale compenso era stata sostituita, dal mese di maggio 1994 fino alla data di risoluzione del rapporto di lavoro, dal versamento della somma di Lire 1.944.000 regolarmente inserita nella busta paga; - un compenso, versato "fuori busta" e contro il rilascio di fattura, corrisposto fino al mese di dicembre 1992, pari alla percentuale del 50% di quanto incassato dalla casa di cura per prestazioni cardiologiche ambulatoriali. In relazione alle circostanze di fatto fin qui esposte, il dott. .... ha chiesto: - l'accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la casa di cura convenuta dall'aprile 1976 al dicembre 1981 e la regolarizzazione della sua posizione previdenziale ed assicurativa, con riguardo a tutte le retribuzioni percepite, comprese quelle "fuori busta", o che avrebbe avuto diritto a percepire o, in caso in cui la detta regolarizzazione fosse impossibile in tutto o in parte per intervenuta prescrizione, al risarcimento del danno; - la condanna della Casa di Cura Privata ... al pagamento di tutte le differenze retributive dovute, con particolare riferimento agli emolumenti percepiti fuori busta, con ogni incidenza sugli istituti retributivi indiretti e tenendosi conto che la tredicesima mensilità avrebbe dovuto essere proporzionata anche alle erogazioni "fuori busta" e che non aveva fruito di 99 giornate di ferie. Proseguendo nella sua esposizione, il ricorrente ha, altresì, dedotto che: - era stato licenziato, con lettera del 27 dicembre 1994, con dispensa dal periodo di preavviso e pagamento della relativa indennità sostitutiva, per soppressione del suo posto di lavoro conseguente alla radicale riconversione e ristrutturazione assetto societario ed aziendale con trasformazione della struttura da polispecialistica a monospecialistica nel settore della riabilitazione; - impugnato il licenziamento in data 2 gennaio 1995, aveva ricevuto, il 27 febbraio 1995, notizia dell'avvenuto accredito a suo favore della somma di Lire 29.504.119, accettata con riserva; - in seguito gli era stato trasmesso un prospetto paga nel quale la data di risoluzione del rapporto di lavoro era stata indicata nel 31 gennaio 1995 ed era stata esposta la somma complessiva netta di Lire 68.491.610 a titolo di indennità di preavviso, T.F.R., ratei tredicesima mensilità, ferie e indennità specialistica; - il licenziamento era da considerare illegittimo perché la trasformazione in struttura esclusivamente riabilitativa non aveva, certamente, reso superflua la sua collaborazione, tanto più che, fino alla data del recesso, era stato responsabile di un reparto medicina comprendente 74 letti, di cui oltre la metà destinati alla riabilitazione motoria e che, nella nuova struttura, alla riabilitazione motoria, erano state aggiunte le specialità di tipo cardiologico circolatorio e polmonare facenti parte delle sue specializzazioni. In relazione al licenziamento, il dott. ..... ha chiesto che questo fosse dichiarato illegittimo per difetto di giustificato motivo, che fosse disposta la sua reintegrazione nel posto di lavoro e che la casa di cura convenuta fosse condannata al risarcimento del danno nella misura prevista dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970; in via subordinata, ha chiesto, previo accertamento che il rapporto di lavoro era stato risolto il 31 marzo 1995, la condanna della predetta casa di cura al pagamento delle maggiori somme dovute per retribuzioni e quant'altro, anche ai fini previdenziali. Nel costituirsi in giudizio, la Casa di Cura Privata .... s.r.l. ha chiesto il rigetto di tutte le domande, contestando, in primo luogo, la natura subordinata del rapporto di lavoro nel periodo antecedente al 1981, precisando, poi, con riguardo all'elemento retributivo "fuori busta", "indipendente da ogni tipo di prestazione in partecipazione e corrisposto mensilmente in aggiunta al compenso relativo al contratto di lavoro subordinato" che "il nuovo C.d.A. ne"

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aveva "riconosciuto la natura di elemento retributivo, quindi facendolo oggetto di condono" e che, nel periodo successivo al maggio 1994, tale compenso non era stato ridotto "ma in virtù del suddetto riconoscimento" era stato gravato dai prelievi retributivi e contributivi di legge per essere quindi versato netto al dott. ... (v. memoria di costituzione in primo grado, pag. 5), ed, infine, rilevando, in ordine ai compensi per le prestazioni ambulatoriali, che essi erano stati corrisposti per l'attività libero professionale svolta dal ricorrente connessa a prestazioni ambulatoriali esterne di cardiologia, sospese dal 1993 in avanti. Quanto al licenziamento, la casa di cura convenuta ne ha ribadito la piena legittimità, per motivi oggettivi, derivanti dalla trasformazione dell'attività in struttura monospecialistica di riabilitazione, nel cui ambito la posizione professionale attribuita del dott.... era venuta meno. Eccepita la prescrizione quinquennale, la Casa di Cura Privata ....ha, infine, chiesto, in via riconvenzionale, la condanna del ricorrente a restituire quella parte del compenso fisso, incluso in busta paga nel maggio 1994, che avrebbe dovuto essere assoggettato - come reddito di lavoro dipendente - ai relativi oneri previdenziali e fiscali. Il Tribunale di Piacenza, con sentenza n. 90 del 3 aprile 2001, depositata il 23 aprile 2001, in parziale accoglimento della domanda, ha condannato la Casa di Cura Privata... al pagamento della somma di Lire 71.286.928 per i compensi ambulatoriali, in particolare per l'incidenza sulla tredicesima, retribuzione feriale nell'anno 1994 e sul T.F.R. dell'emolumento fisso mensile erogato fuori busta pagata fino all'aprile 1994 con conseguente obbligo di regolarizzare la posizione del ricorrente sotto il profilo previdenziale, oltre accessori; ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro alla data del 31 marzo 1995, a tutti gli effetti anche previdenziali e sugli istituti di retribuzione indiretta, sul T.F.R., sulla tredicesima e sulle ferie non godute, ed ha compensato le spese processuali. L'iter logico giuridico seguito nella motivazione della sentenza dal primo giudice può essere così sintetizzato: - in ordine alla qualificazione del rapporto di lavoro dal 1976 al maggio 1982: premesso che gli elementi normalmente caratterizzanti il rapporto di lavoro subordinato, quali la continuità della prestazione, l'inserimento nella organizzazione aziendale e la mancanza di rischio imprenditoriale, sono nella specie irrilevanti dato che il ricorrente aveva reso delle prestazioni di contenuto intellettuale che, per loro stessa natura, non richiedono alcuna organizzazione imprenditoriale né postulano l'assunzione di un rischio a carico del lavoratore, dovendosi invece valorizzare la volontà delle parti e la posizione tecnico gerarchica occupata dal professionista in correlazione al potere direttivo esercitato dal datore di lavoro, il Tribunale ha osservato, in primo luogo, che, essendo il dott. ... dipendente, fin dall'inizio del rapporto professionale, della USL 54 della Lombardia, egli si trovava nella impossibilità giuridica di svolgere, presso la casa di cura convenuta, una prestazione di lavoro subordinato, stante la incompatibilità legale del medico alla contestuale titolarità di un duplice rapporto di lavoro dipendente da una struttura pubblica e privata, con la conseguenza che la qualificazione di lavoratore autonomo andava imputata esclusivamente alla volontà del dott. ... e non a quella della Casa di Cura, la quale, al venir meno dell'impedimento, si era mostrata pienamente disponibile alla trasformazione del rapporto; che, inoltre, non era emersa alcuna soggezione del dott. ... al potere direttivo e disciplinare dell'azienda, avendo egli reso la sua prestazione nell'ambito di una assoluta autonomia tecnico - professionale e con elastiche modalità di frequenza e di retribuzione, compatibili con il potere di coordinazione, anche all'interno della struttura, proprio del committente, secondo la definizione dell'art. 409, n. 3 cod. proc. civ.; che, infine, lo stesso dott. ... aveva qualificato, nelle dichiarazioni rese all'udienza del 12 marzo 1998, il rapporto come una collaborazione coordinata e continuativa, aggiungendo di non avere richiesto, per questo motivo, alcuna autorizzazione alla USL di Cotogno; - in ordine al compenso fisso fuori busta: il Tribunale ha ritenuto fondata la relativa domanda, desumendo la natura retributiva dell'emolumento dalle modalità di corresponsione, fissa nell'importo e nella scadenza mensile, e dalla circostanza che essa non era risultata in qualche

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modo riferibile ad attività diversa da quella ordinaria svolta dal dott. ... come responsabile del reparto di medicina e valorizzando la presentazione della domanda di condono previdenziale da parte del nuovo Consiglio di Amministrazione della casa di cura; - in ordine al compenso per le prestazioni ambulatoriali: il Tribunale ha rigettato la relativa domanda perché le prove testimoniali avevano dimostrato che questi erano stati corrisposti al dott. XX per l'attività ambulatoriale per visite cardiologiche svolte a favore dei clienti esterni, per lo più fuori dall'orario di lavoro due volte la settimana; che erano di importo variabile ed erano correlati ad una prestazione libero professionale intra moenia pienamente consentita dalla legge e dal c.c.n.l. ed estranea ai compiti ordinari del dott. XX quale responsabile della struttura medica della clinica; il primo giudice ha ritenuto che, in presenza di una conforme volontà contrattuale e di una oggettiva differenziazione delle prestazioni rivolte ai pazienti esterni non era possibile ipotizzare una prestazione subordinata in luogo di quella voluta dalle parti e che, in relazione alle domande relative ai soli compensi per le prestazioni eseguite dal gennaio 1993 in avanti, per le quali la ASL eseguiva dei pagamenti imputati a favore del ricorrente nella misura del 50%, il dott. XX non aveva fornito alcuna prova in ordine all'effettivo svolgimento delle dette prestazioni da parte sua e che i dati relativi ai pagamenti effettuati dalla AUSL, non essendo stati oggetto di alcuna richiesta istruttoria di parte, non appartenevano al fascicolo e comunque non comprovavano la riferibilità dell'attività al dott. ...; - in ordine al licenziamento; il Tribunale ha ritenuto legittimo il licenziamento, con corresponsione della indennità sostituiva del preavviso, del dott. XX sul presupposto che l'appartenenza del sanitario all'area dirigenziale, desumibile dallo svolgimento da parte del lavoratore delle funzioni di primario, escludesse l'applicabilità al recesso di qualsisia forma di tutela reale ed obbligatoria; - il Tribunale ha, poi, accolto la domanda volta ad ottenere la differenza, per competenze di fine rapporto, tra la somma riconosciuta dalla casa di cura - Lire 68.491.610 - e quella effettivamente liquidata - Lire 29.504.119 -; - in ordine alla domanda riconvenzionale il Tribunale ha ribadito la decadenza della parte convenuta, ai sensi dell'art. 418 cod. proc. civ., per avere omesso di formulare l'apposita istanza per la fissazione di una nuova udienza; - in ordine alle eccezioni procedurali della parte convenuta sull'ammissione delle prove, il Tribunale ha precisato che non aveva ammesso l'interrogatorio formale essendo state le parti liberamente interrogate ed essendo state le dichiarazioni ritenute più che esaustive sulle questioni rilevanti; che aveva ridotto la lista dei testimoni e non aveva ammesso la deposizione del teste di riferimento D.C., avendo ritenuto, sulla base del proprio potere discrezionale di valutare l'istruttoria, raggiunta la prova e che, infine, la stessa parte era decaduta dalla possibilità di sentire il teste L. all'udienza del 17 aprile 2001. Avverso la detta decisione, non notificata, il dott. XX, con ricorso depositato il 17 aprile 2002, ha proposto appello, articolato su tre motivi, cui resiste la Casa di Cura Privata YY, chiedendo il rigetto del gravame. Con separato ricorso, depositato il 22 aprile 2002, la Casa di Cura Privata YY ha, a sua volta, proposto appello autonomo con quindici motivi, cui resiste il dott. XX, chiedendo il rigetto del gravame. All'udienza del 23 settembre 2004, le due impugnazioni sono state riunite; quindi i procuratori delle parti hanno concluso come in epigrafe e la causa, dopo la discussione orale, è stata decisa come da dispositivo, di cui è stata data lettura. Motivi della decisione I.1.1 Con il primo motivo dell'appello principale, il dott. XX censura l'impugnata sentenza nella parte in cui è stata esclusa l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato anche per il periodo dall'1 aprile 1976 al 31 dicembre 1981. L'appellante principale premette, al riguardo, di avere sempre negato di conoscere l'impedimento legale alla costituzione del rapporto di lavoro subordinato con la casa di cura e ravvisa l'erroneità della decisione del primo giudice

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nell'avere fatto discendere l'autonomia del rapporto dalla sua volontà piuttosto che da quella della società datrice di lavoro, sia perché nemmeno la Casa di Cura Privata YY aveva mai sostenuto di essersi vista imporre dal collaboratore la forma autonoma anziché quella subordinata, sia perché, al massimo, egli avrebbe rischiato - prima della declaratoria di decadenza dall'impiego pubblico - una semplice diffida. Secondo l'appellante principale, poi, il rapporto instaurato fra le parti aveva natura subordinata come poteva desumersi dal pagamento di un compenso fisso, dall'esistenza di un orario di lavoro fisso, dalle circostanze che egli aveva la responsabilità del reparto di medicina, coordinando i medici e gli infermieri che ne facevano parte, che la prestazione aveva dato luogo al suo stabile inserimento nella struttura aziendale, che i mezzi di produzione appartenevano alla casa di cura, che doveva rispettare l'orario di lavoro, che doveva rispondere alla Direzione Sanitaria, che non era gravato da alcun rischio e che, dopo la regolarizzazione del rapporto di lavoro, avvenuta dal gennaio 1982 a seguito dell'intervento dell'INPS, la prestazione aveva continuato a essere svolta secondo le consuete modalità, tranne che per l'orario minimo di lavoro, passato da 24 a 28 ore settimanali e la sua distribuzione settimanale. L'appellante principale sostiene, infine, che il primo giudice non ha, correttamente, valutato le risultanze istruttorie, ha male interpretato le dichiarazioni da lui rese all'udienza del 12 marzo 1998 e non ha tenuto conto che non può essere oggetto di confessione la qualificazione di un rapporto. I.1.2 Il motivo è infondato. Va premesso che, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, l'elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo, assumendo la funzione di parametro normativo di individuazione della natura subordinata del rapporto stesso, è l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell'organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva (v., da ultimo Cass. n. 15275/04). Il supremo Collegio, sempre ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato - ribadito per quest'ultimo il fondamentale requisito della subordinazione che si configura come vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, estrinsecantesi nell'emanazione di ordini specifici, oltre che nell'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni lavorative, da apprezzarsi concretamente con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione - ha, più volte, affermato che non deve prescindersi dalla volontà delle parti contraenti e che, sotto questo profilo, va tenuto presente il "nomen juris" utilizzato, il quale però non ha un rilievo assorbente, poiché deve tenersi altresì conto, sul piano della interpretazione della volontà delle stesse parti, del comportamento complessivo delle medesime, anche posteriore alla conclusione del contratto, ai sensi dell'art. 1362, secondo comma, cod. civ., e, in caso di contrasto fra dati formali e dati fattuali relativi alle caratteristiche e modalità della prestazione, è necessario dare prevalente rilievo ai secondi. Tuttavia, quando sia proprio la conformazione fattuale del rapporto ad apparire dubbia, non ben definita o non decisiva, l'indagine deve essere svolta in modo tanto più accurato sulla volontà espressa in sede di costituzione del rapporto (v., fra le tante, Cass. 13884/04). Poiché, nel caso in esame, il dott. XX - come non è in contestazione fra le parti - aveva attivato con la Casa di Cura Privata YY un rapporto di collaborazione avente ad oggetto lo svolgimento dell'attività di medico responsabile di reparto (primario), vanno, altresì, richiamati i principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, con riferimento alle prestazioni di contenuto intellettuale ed, in particolare, a quelle dei medici, che non richiedono alcuna organizzazione imprenditoriale ne' postulano un assunzione di rischio a carico del

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lavoratore, il criterio fondamentale per l'accertamento della natura (autonoma o subordinata) del rapporto di lavoro è costituito dall'esistenza di un potere direttivo del datore di lavoro che, pur nei limiti imposti dalla connotazione professionale della prestazione lavorativa, abbia un'ampiezza di estrinsecazione tale da consentirgli di disporre, in maniera piena, della stessa nell'ambito delle esigenze proprie della sua organizzazione produttiva (Cass. n. 5366/2002; n. 9764/04), e requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato - ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo - è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall'emanazione di ordini specifici, oltre che dall'esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative. L'esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo (v., Cass. n. 14664/01). Ed ancora, ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo, il fondamentale requisito della subordinazione si configura come vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale deve estrinsecarsi nell'emanazione di ordini specifici, oltre che nell'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni lavorative, e deve essere concretamente apprezzato con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione (v., Cass. 5989/01). Sullo specifico tema della qualificazione della natura - subordinata o autonoma - del rapporto di lavoro dei medici, significativa è la decisione della suprema Corte n. 3471/03, la quale, dopo avere riaffermato il principio che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro subordinato sia di un rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle modalità del suo svolgimento e che l'elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro con assoggettamento al potere disciplinare ed alle direttive da questo impartite circa le modalità di esecuzione dell'attività lavorativa, mentre gli altri elementi sussidiari - quali l'osservanza di un orario, l'assenza del rischio economico, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione - possono avere valore indicativo ma mai determinante, ha precisato - in motivazione - che l'esistenza del suddetto vincolo va concretamente apprezzata dal giudice …con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore ed al modo della sua attuazione. Secondo la giurisprudenza della suprema Corte, cioè, nelle fattispecie che riguardano le prestazioni dei medici, non sono configurabili gli elementi del rapporto di lavoro subordinato nel caso in cui le prestazioni necessarie per il perseguimento dei fini aziendali siano organizzate in maniera tale da non richiedere l'applicazione da parte del datore di lavoro di un potere gerarchico concretizzantesi in ordini e direttive e nell'esercizio del potere disciplinare (v., sul punto, anche Cass. n. 14947/00 e 4036/00) e non possono costituire elementi di qualificazione del rapporto come lavoro subordinato né la fissazione di un orario per le visite (che costituisce un criterio naturale di determinazione della prestazione dovuta) né eventuali controlli dell'adempimento della prestazione stessa, che non concretino l'esercizio del potere conformativo sul contenuto della prestazione proprio del datore di lavoro, dovendo in tale ipotesi, la sussistenza o meno dell'elemento della subordinazione essere verificata in relazione alla intensità della etero - organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l'organizzazione sia limitata al coordinamento dell'attività dei medici con quella dell'impresa, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall'interesse dell'impresa, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non dalla sola assicurazione di prestazioni altrui (v., sul punto, Cass. n. 5389/94, citata in motivazione da Cass. n. 3471/03). I.1.3 Ciò posto, va rilevato, come emerge dall'esame dell'atto introduttivo del giudizio nonché

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del presente ricorso in appello, che il dott. XX ha posto a fondamento della domanda - volta ad ottenere l'accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dall'1 aprile 1976 al 31 dicembre 1981, nel periodo antecedente alla sua formale assunzione - la circostanza che, da una certa data in avanti, le parti avevano consensualmente deciso di trasformare la sua collaborazione da autonoma a subordinata, mantenendo pressoché invariate le caratteristiche fattuali del rapporto. Pertanto, secondo l'appellante principale, ciò che è divenuto dal mese di aprile 1982 per volontà comune delle parti - in realtà dall'1 gennaio 1982 a seguito di un accertamento ispettivo dell'INPS che ha retrodatato la formale assunzione - un rapporto di lavoro subordinato, tale deve essere qualificato anche per il periodo precedente (1976 - 1981), dato che, anche riguardo al quel particolare periodo, sono ravvisabili molteplici elementi indicativi dell'esistenza della subordinazione, quali la percezione di un compenso fisso, l'esistenza di un orario di lavoro fisso, l'inserimento stabile nell'organizzazione aziendale, l'inesistenza del rischio di impresa, l'uso di mezzi di produzione del datore di lavoro, la dipendenza del lavoratore dalla Direzione Sanitaria ed il mantenimento delle medesime mansioni (v., appello, pag. 21-26). L'assunto dell'appellante principale non può, però, essere condiviso. Va, in primo luogo, osservato che - come ammette lo stesso dott. XX nell'atto introduttivo del giudizio (v., ricorso primo grado, pag. 4 e ss.) - a fare tempo dall'1 gennaio 1982 - cioè dalla data nella quale è pacifico che la collaborazione è stata trasformata in un rapporto di lavoro subordinato - sono variati sia l'impegno orario messo a disposizione dal sanitario a favore della Casa di Cura, elevato da un minimo di 16 ore settimanali ad un minimo di 28 ore settimanali, sia la distribuzione della prestazione nell'arco della settimana, resa, in precedenza, per quattro pomeriggi alla settimana o, dal 1978, per tutti i pomeriggi, e poi, dal gennaio 1982, sia al mattino sia al pomeriggio - dal lunedì al venerdì - e solo al mattino nella giornata di sabato. Risulta, quindi, evidente - e sulla base delle stesse allegazioni del dott. XX - che, a seguito della trasformazione della collaborazione - da autonoma a subordinata - si era verificata una non marginale trasformazione delle modalità esecutive delle prestazioni e la Casa di Cura aveva chiesto ed ottenuto dal sanitario una maggiore disponibilità ed una più intensa partecipazione nello svolgimento delle funzioni assegnate. Va, poi, posto in evidenza che - come è pacifico fra le parti e come risulta anche delle prove orali - il dott. XX, già idoneo fin dal 1976 allo svolgimento delle mansioni di primario medico (doc. 4 appellante principale), aveva iniziato la sua collaborazione autonoma in qualità di responsabile del reparto di medicina generale ed aveva mantenuto nel tempo tali mansioni, tanto che, quando il rapporto venne trasformato in subordinato, era stato iscritto a libro paga come "responsabile medicina" (doc. 13, fasc. I grado dott. XX), cioè come responsabile del raggruppamento medico che comprendeva i reparti di medicina generale, cardiologia e oncologia. Non può, quindi, essere trascurato - ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro relativamente al periodo dal 1976 al 1981 - che il dott. XX era stato chiamato a svolgere mansioni di elevato contenuto professionale, che lo stesso, in qualità di primario, era stato posto al vertice di un reparto, al quale erano addetti medici ed infermieri, e che, quindi, era connaturato alla sua funzione l'esercizio del potere organizzativo del raggruppamento da lui diretto e del potere direttivo sul personale sottoposto al suo coordinamento. A tale riguardo, gli stessi testimoni richiamati dal dott. XX (P., B., Ma., Mo., e U.), hanno avuto modo di confermare, anche relativamente agli anni 1976 - 1981, la preposizione del dott. XX al reparto con assunzione della connessa responsabilità e l'esercizio da parte sua del potere direttivo ed organizzativo. In tale prospettiva, la sussistenza del requisito della subordinazione non può essere verificata mediante il ricorso agli indicatori sussidiari ai quali, sostanzialmente, si è richiamato l'appellante principale, quale ad esempio l'assenza di rischio di impresa, l'esistenza di un orario di lavoro o di un compenso fisso o lo stabile inserimento nell'organizzazione imprenditoriale della Casa di Cura, trattandosi di criteri, nella specie, non decisivi perché rappresentano elementi naturali di determinazione della prestazione dovuta. Inoltre, proprio tenendo conto,

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che la prestazione professionale resa dal dott. XX non prevedeva, per la sua intrinseca natura, l'assunzione di un rischio di impresa e richiedeva, comunque, l'assunzione di responsabilità ed uno stabile inserimento nell'organizzazione aziendale, dato che comportava la direzione di un intero reparto e, cioè, di un'articolazione interna dell'impresa, gli indicatori sussidiari non sono, comunque, dirimenti per individuare la subordinazione, ma questa può essere accertata solo tramite la dimostrazione - con onere a carico del lavoratore - dell'effettivo esercizio, da parte della Casa di Cura, del potere conformativo della prestazione proprio del datore di lavoro, non potendo che discendere, nel caso in esame, la subordinazione del primario dalla intensità della etero - direzione della sua prestazione. In altri termini, poiché l'attività di direzione di un reparto di una Casa di Cura può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro autonomo sia di un rapporto di lavoro subordinato, a seconda delle modalità del suo svolgimento, l'elemento centrale della distinzione dei due rapporti di collaborazione va ravvisato nella subordinazione da intendere, proprio in considerazione dell'elevato livello professionale della prestazione e dell'autonomia che intrinsecamente la caratterizza e qualifica, quale assoggettamento del primario al potere organizzativo, direttivo e disciplinare esercitato nei suoi confronti della direzione sanitaria. E' necessario cioè verificare se la Direzione Sanitaria della Casa di Cura YY si era limitata a coordinare l'attività del dott. XX con quella della impresa, oppure se, eccedendo le esigenze del mero coordinamento, aveva finito per dirigere, direttamente e continuativamente, la sua prestazione, finendo così per conformarla nell'interesse esclusivo dell'impresa. Una siffatta prova, però, non è stata fornita dal dott. XX. Va, a tale proposito, evidenziato che i testimoni, ascoltati sul punto, si sono limitati a delle affermazioni generiche, dalle quali si può, soltanto, desumere che l'appellante principale aveva svolto, in modo autonomo, le mansioni di primario e che la direzione sanitaria si era limitata a coordinare - genericamente - la sua attività con le particolari esigenze dell'impresa. In tale prospettiva, debbono essere lette le dichiarazioni dei testi Ma. ("il dott. XX era un primario, quindi doveva rispondere alla Direzione Sanitaria tanto di orari, tanto di ..."), di Mo. e U., i quali hanno, sì, riferito della presenza di un orario di lavoro, di direttive impartite dalla direzione sanitaria e della necessità di comunicare le ferie, ma non hanno saputo, poi, concretamente, esplicitare in che cosa si estrinsecasse l'eventuale potere di direzione della prestazione del dott. XX da parte del Direttore Sanitario prof. L. Ed, in effetti, a specifica domanda del primo giudice al teste Ma. - per altro assunto solo dal 1981 - se ricordasse qualche episodio concreto di esercizio del potere direttivo da parte della Direzione Sanitaria, questi ha testualmente risposto "No, non lo so". Non diversamente il teste Mo., dopo aver ricordato che era compito della Direzione Sanitaria impartire disposizioni organizzative, ha, genericamente, riferito che dette disposizioni concernevano l'applicazione degli orari di lavoro, perché era previsto un orario di inizio e di termine delle attività di routine, e che il dott. XX era tenuto a comunicare, sempre alla direzione sanitaria, il programma delle ferie, elaborato sulla base delle sue esigenze, e che la Direzione poteva cambiare il periodo prescelto, anche se non ha saputo rammentare se tale facoltà era mai stata esercitata nei confronti del dott. XX. Infine, l'U. si è limitato ad affermare che il dott. XX doveva rispettare un orario perché "c'erano i suoi assistenti, aiuti che lo aspettavano e doveva rispettarlo per forza". In altri termini, l'esigenza del rispetto degli orari e della realizzazione di un piano ferie comune non dimostrano affatto la natura subordinata della prestazione del dott. XX, ma sono, al più, espressione del potere di coordinamento esercitato dalla Direzione Sanitaria al fine di porre in relazione l'attività del primario con quella della impresa. Infatti, i controlli esercitati dalla Direzione Sanitaria non erano finalizzati a limitare l'autonomia del dott. XX, nell'esercizio della professione medica o nella attività di coordinamento del reparto, ma erano essenzialmente volti ad assicurare l'ottimale funzionamento della struttura aziendale, ed erano necessari per assicurare l'ordinato e regolare svolgimento dell'impresa, operante in un settore particolarmente sensibile come quello della sanità, nel quale la buona organizzazione

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rappresenta un valore primario e l'ottimizzazione delle risorse disponibili è indispensabile più che altrove per il raggiungimento delle finalità imprenditoriali che le sono proprie. In tale contesto, la circostanza che la collaborazione sia stata trasformata in rapporto di lavoro subordinato dal mese di maggio 1982, anche se la decorrenza è stata in seguito retrodatata al gennaio 1982 per effetto di un verbale ispettivo dell'INPS, non può assumere alcuna rilevanza ai fini della qualificazione del rapporto, relativamente al periodo 1976 - 1981, sia perché le parti sono sempre libere di dare una diversa regolazione ai rapporti tra loro intercorrenti, sia perché, nella specie, l'instaurazione del rapporto di lavoro subordinato aveva coinciso con un maggiore impegno quantitativo da parte del sanitario e con una diversa distribuzione della prestazione settimanale, sia perché, infine, si era nel frattempo verificata una rilevante modificazione della situazione professionale del dott. XX, di per sé idonea a giustificare il nuovo assetto degli interessi definito dalle parti del rapporto. Va solo precisato che è arbitrario desumere - come ha fatto l'appellante principale - dalla retrodatazione dell'inizio del rapporto di lavoro subordinato dal maggio al gennaio 1982, attuata dalla Casa di Cura YY a seguito della più volte ricordata ispezione dell'INPS, l'esistenza della subordinazione anche per il periodo antecedente, ante 1982, per il quale la società attuale appellante incidentale ha sempre e fermamente sostenuto la natura autonoma del rapporto. In altri termini, in assenza di un riconoscimento in ordine alla natura subordinata del rapporto proveniente dalla Casa di Cura, l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato per il periodo 1976 - 1981 può essere accertata solo a seguito della prova - incombente sul lavoratore - della subordinazione; prova che - tenuto conto della particolare qualificazione professionale del dott. XX e dell'incarico assegnatogli di primario - non può che essere particolarmente rigorosa e non può, quindi, essere desunta sulla base di un ragionamento puramente teorico, per di più infondato nel suo presupposto di partenza. In ordine alla volontà delle parti, va rilevato che essa non risulta formalizzata in atti scritti. Tuttavia, in coerenza con l'insegnamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione (v., Cass. n. 3471/03), possono essere valorizzate, ai fini della individuazione della volontà delle parti e, quindi, della qualificazione del rapporto, sia le modalità di pagamento sia il regime fiscale adottato. Dall'esame della documentazione prodotta dall'appellante principale (v., doc. da 5 a 10), risulta che, negli anni dal 1976 al 1981, le competenze del dott. XX sono state saldate dietro emissione di fattura e sono state assoggettate al trattamento fiscale previsto per il lavoro autonomo. Come ha ammesso lo stesso dott. XX nel ricorso di primo grado (pag. 4), nel periodo in questa sede rilevante - cioè fino al 1981 - l'appellante principale è stato considerato come un "libero professionista". Tale circostanza, non in contrasto con altre risultanze istruttorie, avvalora l'ipotesi che la volontà delle parti fosse, inizialmente, orientata nel senso di volere stipulare una collaborazione in forma autonoma e che tale volontà sia stata tenuta ferma anche in seguito, quanto meno fino al mese di dicembre 1981. Ulteriore elemento che avvalora l'ipotesi che la volontà delle parti era indirizzata verso la costituzione di una forma autonoma di collaborazione è rappresentato dalla circostanza che, nel corso del 1976 e fino al 31 dicembre 1981, il dott. XX - come non è in contestazione - intratteneva un rapporto di pubblico impiego con la USL n. 54 della Lombardia. Secondo la normativa all'epoca vigente (art. 43, legge 12 febbraio 1968, n. 132 e art. 27 d.p.r. n. 76/79, che richiama le disposizioni del t.u. sul pubblico impiego n. 3 del 1957), il rapporto di dipendenza con una struttura pubblica era per il sanitario incompatibile con l'assunzione di altri rapporti di impiego presso altri enti pubblici e l'esercizio professionale in case di cura private. Era però consentito l'esercizio dell'attività libero professionale, anche fuori dai servizi o dalle strutture pubbliche, purché tale attività non fosse prestata con rapporto di lavoro subordinato, non fosse in contrasto con gli interessi ed i fini istituzionali delle stesse USL, e non fosse incompatibile con gli orari di lavoro (art. 35, lettera c), d.p.r. n. 761/79). Da questa previsione normativa, il primo giudice ha fatto, erroneamente, discendere la conseguenza che, nel caso di specie, il dott. ... si trovasse nella impossibilità giuridica di svolgere un lavoro dipendente presso la Casa di Cura e che, pertanto, avesse atteggiato la sua

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volontà negoziale in tal senso, finendo così per imporre la sua volontà, volta ad ottenere la qualificazione di lavoratore autonomo, a quella della Casa di Cura. Come evidenziato dalla difesa dell'appellante principale, l'affermazione del primo giudice non solo è infondata in fatto perché la Casa di Cura .... non ha mai sostenuto di essersi vista imporre dal dott. ...la forma autonoma anziché quella subordinata; ma è anche erronea in diritto perché l'inosservanza del dovere di esclusività poteva dare luogo, al massimo, alla applicazione di una sanzione disciplinare (nella specie: la decadenza dall'impiego), che però avrebbe dovuto essere preceduta dalla diffida, con invito al dipendente a cessare dalla situazione di incompatibilità e che poteva essere inflitta solo allorché l'impiegato, nonostante la diffida, avesse continuato a mantenere la situazione di incompatibilità. In altri termini, l'esclusività del rapporto con la USL n. 54 della Lombardia poteva avere incidenza soltanto interna sul quel particolare rapporto di lavoro, nel senso che la violazione da parte del dipendente di quel particolare obbligo poteva dare luogo alla inflizione di una sanzione disciplinare, ma non era, affatto, preclusiva alla stipulazione di un rapporto di lavoro subordinato con una casa di cura privata. Tale circostanza, tuttavia, anche se di per sé non può essere utilizzata per la qualificazione del rapporto di collaborazione instaurato dal dott.....con la Casa di Cura...., è utile per ricostruire la volontà delle parti e per confermare che questa si era effettivamente indirizzata verso una collaborazione libero professionale, come per altro avvalorato dalle modalità di pagamento e dal regime fiscale applicato al rapporto. Va, poi, aggiunto che, una volta venuto meno il rapporto di pubblico impiego e, quindi, la situazione di incompatibilità, a seguito delle dimissioni rassegnate dal dott..... alla fine dell'anno 1981, le parti hanno rivisto l'assetto dei loro interessi e, nel prevedere una più intensa collaborazione da parte del primario - impegnato a favore della Casa di Cura per un maggior numero di ore diversamente distribuite nell'arco della settimana in modo da coprire sia la mattina sia il pomeriggio - hanno deciso di trasformare la collaborazione da autonoma a subordinata. Circostanza questa che ulteriormente conferma che la iniziale volontà delle parti, condizionata (ma non vincolata) dal rapporto di pubblico impiego, era stata concordemente volta alla instaurazione di un rapporto libero professionale. Da ultimo, va aggiunto che lo stesso dott. ..., nelle dichiarazioni da lui spontaneamente rilasciate all'udienza del 15 ottobre 1998 (e non del 12 marzo 1998 come erroneamente indicato dal primo giudice), ha evidenziato di non avere mai chiesto alla USL n. 54 di essere autorizzato a svolgere attività di lavoro dipendente perché egli "intratteneva con la Casa di Cura .... un rapporto di collaborazione". Tale affermazione, che certamente non integra una confessione sia perché non è stata provocata in sede di interrogatorio formale sia perché non ha ad oggetto un fatto, bensì una qualificazione giuridica di un rapporto, costituisce comunque indice significativo idoneo ad avvalorare l'ipotesi che la volontà delle parti, prima della formale assunzione conseguita alla cessazione del rapporto di impiego pubblico, era nel senso di attribuire natura autonoma al rapporto di collaborazione. Non può pertanto essere accolta la domanda proposta dal dott. ... volta ad ottenere il riconoscimento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dall'1 aprile 1976 al 31 dicembre 1981. I.2.1 Con il secondo, complesso motivo, il dott. ....si duole per il mancato riconoscimento del diritto al pagamento del corrispettivo delle prestazioni ambulatoriali svolte dal gennaio 1993 in avanti e del diritto all'incidenza dei compensi erogati a tale titolo sugli istituti retributivi indiretti e sul T.F.R. Al riguardo, l'appellante principale sostiene che la Casa di Cura ... era gravata dall'onere di provare la riferibilità delle prestazioni ambulatoriali da lui rese ad un rapporto libero professionale anziché al rapporto di lavoro subordinato in essere fra le parti almeno fin dal 1982; che il compenso corrisposto per tali prestazioni inerisce al rapporto di lavoro subordinato, in essere fra le parti, essendo stato erogato, come provato, per prestazioni rese in coincidenza con un rapporto di lavoro subordinato, nell'ambito e con le strutture della casa di cura, e da questa remunerate; e che quella cardiologica ambulatoriale era una delle attività alle quali era tenuto durante il suo tempo di lavoro senza possibili distinzioni. In relazione al periodo successivo al 1993, il dott..... pone in evidenza che non doveva a provare

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di avere svolto le prestazioni ambulatoriali da quella data in avanti e che, anzi, era la Casa di Cura che doveva eccepire che la ragione della mancata erogazione del compenso, fino ad allora pagato, stava nel fatto che egli si era sottratto all'esecuzione specifica della prestazione in questione; ha, poi, sostenuto che dalla documentazione trasmessa dalla ASL di Piacenza, risulta che la convenzione era stata sospesa nel gennaio 1995 in coincidenza con la risoluzione del suo rapporto di lavoro e che, pertanto, questa attività è stata svolta almeno fino al 31 dicembre 1994, come confermato dal teste Ma. Il dott. ....sostiene, quindi, che le relative istanze istruttorie erano state ritualmente formulate ed, in ogni caso, che il giudice aveva supplito a tale contestata carenza con la sua iniziativa ufficiale ex art. 421 cod. proc. civ. (ordinanze 2.2.99 e 18.1.00); formula comunque le relative istanze istruttorie; e deferisce, per il caso in cui non si fosse ritenuta pienamente provata la circostanza per cui egli aveva continuato, anche negli anni 1993 e 1994, a svolgere le prestazioni ambulatoriali di cui trattasi, il giuramento suppletorio o, in via subordinata, quello decisorio de veritate. Infine, il dott. ... sostiene che l'eccezione di prescrizione, comunque relativa solo alla tredicesima dovuta fino al 1989 ed alle ferie godute fino al giugno 1990, è inammissibile perché male formulata ed in ogni caso non può essere estesa alle domande risarcitorie a quelle previdenziali ed al TFR. I.2.2 Il motivo è infondato. Con il motivo in esame, il dott. XX prospetta, in realtà, due distinte questioni, la prima relativa al riferibilità delle prestazioni ambulatoriali, da lui rese, al rapporto di lavoro subordinato ed al conseguente conglobamento - a tutti gli effetti - nella retribuzione dei compensi a tale titolo percepiti e la seconda avente ad oggetto il mancato pagamento, da parte della Casa di Cura, delle suddette prestazioni rese dal gennaio 1993 in avanti, pur perdurando la relativa convenzione con l'Unità Sanitaria Locale. In ordine alla prima delle due questioni dedotte dall'appellante principale, va premesso che il fondamento giuridico della relativa domanda è stato ravvisato dal dott. XX nella struttura normalmente onerosa del rapporto di lavoro subordinato e nella presunzione di onerosità della prestazione da cui conseguirebbe il principio che ogni elemento di attribuzione pecuniaria di dubbia natura deve essere attratto nell'orbita del corrispettivo. Nella specie, quindi, poiché le prestazioni cardiologiche ambulatoriali erano state da lui svolte nell'ambito dell'orario di lavoro, in coincidenza con il rapporto di lavoro subordinato, avvalendosi delle strutture della Casa di Cura e ricevendo un compenso dallo stesso datore di lavoro, queste, essendo collegate con un vincolo di accessorietà a quelle tipiche del rapporto di lavoro subordinato, non possono essere inquadrate in un distinto rapporto. Tale assunto non può essere condiviso. Giova, infatti, procedere - ancora una volta - dalla particolare natura dell'attività svolta da un professionista medico, ad elevata specializzazione, come certamente deve essere considerato l'attuale appellante principale. Va, infatti, tenuto presente che la professione medica, per sua intrinseca natura, non solo può essere svolta in regime di lavoro autonomo, come libero professionista o come collaboratore parasubordinato, o con il vincolo della subordinazione, come dipendente, ma che, secondo il nostro ordinamento giuridico, il medico può, contemporaneamente, intrattenere un rapporto di lavoro subordinato e svolgere attività libero professionale, anche utilizzando le strutture messe a sua disposizione dal datore di lavoro. Come ben evidenziato dal primo giudice, l'istituto del "plus orario" ospedaliero, disciplinato dagli articoli 59-66 del d.p.r. 25 giugno 1983, n. 348, previsto per i medici dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale e che si sostanzia nell'attività professionale svolta "intra moenia" a favore di pazienti non ricoverati, retribuito con incentivi determinati secondo un sistema di compartecipazione, costituisce - pacificamente - un'attività libero professionale di natura privatistica ed autonoma, nettamente distinta dal rapporto pubblicistico di impiego (v., ad esempio, Cass. S.U. n. 4947/89). Nel settore privato, poi, a partire dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per il Personale

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Medico Dipendente da Case di Cura Private del 19 novembre 1990, avente decorrenza dal primo gennaio 1988, e successivi rinnovi è stato espressamente previsto che il medico, alle dipendenze della Casa di Cura, può svolgere, nell'ambito della stessa struttura, oltre l'orario di servizio attività libero professionale nei confronti dei propri pazienti (art. 14). Inoltre, l'art. 12 dell'Accordo Collettivo Nazionale per la regolamentazione del rapporto libero professionale dei medici nelle case di cura private convenzionate del 24 ottobre 1988, espressamente, consente al medico ad alla Casa di Cura di "consensualmente convenire di trasformare il rapporto libero professionale in rapporto di lavoro subordinato", prevedendo, in tal caso, che "il periodo di collaborazione esplicato a regime professionale ..." non venga "computato ai fini della disciplina dell'instaurando nuovo rapporto" (doc. 37 dott. XX). L'esame complessivo di questa normativa - pubblicistica e privatistica - consente di confermare la particolare specificità della professionale medica ed evidenzia la possibilità che tra le stesse parti possano coesistere, proprio in ragione della peculiarità della professione, un rapporto di lavoro subordinato e forme di attività libero professionali. Ciò posto, non può, poi, essere trascurato che il dott. XX non solo è in possesso di un elevato titolo di studio (laurea in medicina e successivi diplomi e specializzazioni), ma che è anche uno stimato professionista con specifiche competenze ed idoneità a svolgere mansioni di elevato contenuto tecnico come quelle di primario medico. Ne deriva, quindi, che il particolare assetto contrattuale delineato dalle parti, che hanno previsto due distinte tipologie di rapporti di collaborazione, la prima per lo svolgimento dell'attività di direzione del reparto di medicina, inizialmente inquadrata nello schema della subordinazione e quindi ricondotta ad un rapporto di lavoro autonomo, e la seconda per le prestazioni ambulatoriali nel settore cardiologico, collocata nell'ambito di un rapporto libero professionale, non può che costituire significativa manifestazione della libertà contrattuale di entrambi contraenti e, quindi, anche del dott. XX, sicuramente in condizione, proprio in ragione della peculiarità delle prestazioni che avrebbe dovuto svolgere, di imporre alla Casa di Cura il suo particolare interesse economico. Del resto, come testimonia la documentazione fiscale prodotta dallo stesso appellante principale, per lunghi anni - dal 1976 quanto meno al mese di dicembre 1993 - il rapporto di collaborazione si è sviluppato, senza particolari contestazioni, consentendo al sanitario di svolgere, in aggiunta alla prestazione principale di primario - prima in regime di autonomia e poi di subordinazione - una diversa attività di natura libero professionale, consistente in prestazioni ambulatoriali di tipo cardiologico. E, considerando il ruolo apicale svolto dal dott. XX nell'ambito della Casa di Cura, non riesce difficile ritenere che, se il primario di medicina generale non fosse stato pienamente soddisfatto della sua situazione contrattuale, non avrebbe esitato a chiedere e, presumibilmente, ad ottenere una revisione delle intese a suo tempo raggiunte (come dimostra la riferita soppressione - da alcuni testimoni, ad es. Pr. e Mo. - del cartellino marcatempo, praticamente imposta dal dott. XX alla Direzione Sanitaria perché non di suo gradimento). Ma di siffatte richieste non vi è alcuna traccia nella istruttoria condotta dal primo giudice. Va, altresì, aggiunto che i due rapporti in esame possono essere, agevolmente, distinti l'uno dall'altro, quanto ad oggetto, a struttura del compenso e a tempi di esecuzione. Sotto il primo profilo, va rilevato che il primo rapporto aveva ad oggetto - come è pacifico fra le parti ed è provato dall'istruttoria - lo svolgimento della prestazione di direzione del reparto di medicina generale. L'altro rapporto prevedeva lo svolgimento di attività libero professionale a favore di clienti esterni, paganti in proprio o inviati dalla competente AUSL, e non consulenze a favore di ricoverati. E' ben vero, come risulta delle prove orali, che le prestazioni professionali del dott. XX erano rese all'interno della Casa di Cura, con l'uso di strutture, personale e attrezzature della società appellante incidentale, ma è altresì vero che le dette prestazioni avevano ad oggetto visite eseguite a persone non ricoverate nella struttura ma esterne. Questo dato di fatto risulta incontestabilmente dalla istruttoria (v., dep. P., B., Ma., Mo., U. e P.). Non è, quindi, seriamente sostenibile - come vorrebbe l'appellante principale - che le prestazioni ambulatoriali fossero collegate da un vincolo di accessorietà rispetto a quelle oggetto del

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rapporto di lavoro subordinato, dato che si trattava di un'attività svolta a favore di clienti esterni e non di ricoverati e, quindi, non solo ben distinguibile rispetto a quella di direzione del reparto di medicina, ma soprattutto priva di qualunque collegamento - funzionale e strutturale - con le esigenze connesse alla organizzazione della Casa di Cura in relazione alle quali il dott. XX era stato assunto. Ed, infatti, come si può ben evincere dalla deposizione del teste Mo., che pure era un medico alle dipendenze della società appellante incidentale, nell'ambito delle prestazioni ordinarie del dott. XX rientranti nelle mansioni di primario era prevista l'attività di consulenza a favore dei pazienti interni, ricoverati presso il suo reparto o presso altri reparti; a ciò si aggiungeva un'attività ambulatoriale a favore di clienti esterni, svolta comunque nell'ambito delle strutture della Casa di Cura. A ciò si aggiunga che le due attività erano diversamente compensate, nel senso che quella primariale era remunerata con la retribuzione pattuita e con l'altro speciale compenso - ricondotto dal primo giudice al lavoro subordinato in ragione sia delle sua modalità di corresponsione sia della sua non riferibilità ad attività diversa da quella ordinaria, mentre per quella libero professionale la Casa di Cura retrocedeva al dott. XX la metà di quanto incassato dalla AUSL o dai clienti paganti in proprio, come ha ammesso lo stesso appellante principale fin dal ricorso di primo grado (v., pag. 5). Le specifiche modalità di pagamento delle prestazioni di direzione del reparto e dell'attività libero professionale evidenziano, quindi, l'esistenza di una diversità sostanziale fra le due prestazioni. Nel primo caso, infatti, era remunerata l'opera svolta in quanto tale, senza l'assunzione di alcun rischio a carico del dipendente; nell'altro, il dott. XX partecipava al rischio proprio dello svolgimento di qualunque libera professione, nel senso che avrebbe avuto diritto a percepire maggiori introiti quanto più alto era il numero dei clienti esterni - paganti in proprio o avviati dalla AUSL - che si sarebbero rivolti a lui per essere visitati. Ed, anzi, in tale prospettiva, la circostanza che la Casa di Cura trattenesse la metà di quanto percepito dalla clientela esterna, avvalora ulteriormente l'ipotesi che le prestazioni ambulatoriali non avessero alcuna relazione con le prestazioni inerenti alla direzione del reparto, giacché una siffatta trattenuta si spiega solo osservando che, in tale modo, la Casa di Cura otteneva il pagamento da parte del dott. XX per l'uso dei mezzi materiali (studio ed attrezzature) e delle risorse umane (personale infermieristico), che aveva messo a sua disposizione per consentirgli l'esercizio intramurario dell'attività professionale. Sotto tale profilo - se si considera che il compenso era fissato sulla base di quanto pagavano i clienti in proprio o versava la AUSL sulla base della convenzione e si incrementava quando l'attività del professionista si faceva più intensa - non può essere condivisa l'affermazione della difesa dell'appellante principale, secondo cui queste prestazioni ricevevano dal medesimo datore di lavoro il loro corrispettivo. Va, infine, posto in evidenza - come risulta dalle dichiarazioni dei testimoni già richiamati - che le prestazioni ambulatoriali venivano svolte dal dott. XX per due pomeriggi alla settimana - il martedì ed il giovedì - dalle ore 14.00 in avanti. La difesa dell'appellante principale, speculando sulla genericità di alcuni passaggi delle deposizioni dei testi già indicati dovute alla insicurezza del ricordo e sull'equivoco (sul quale si tornerà più diffusamente trattando del licenziamento) fra l'attività del dott. XX come primario e quella come medico specializzato in cardiologia e medicina interna, ha cercato di accreditare l'ipotesi che le prestazioni ambulatoriali erano state, in realtà, rese durante l'orario di servizio. Tale assunto non può assolutamente essere condiviso perché contrasta con le modalità con le quali erano organizzate le visite ai pazienti esterni. Poiché queste non potevano che avvenire previa prenotazione per i clienti avviati dalla AUSL o previo appuntamento per i paganti in proprio, era assolutamente necessario che il dott. XX fissasse in anticipo le giornate e gli orari da destinare alle prestazioni libero professionali, di guisa che queste non potevano mai essere collocate in coincidenza con l'impegno orario che doveva riservare alla sua attività di primario. A parte il rilievo che alcuni testimoni possono avere talvolta confuso le consulenze rivolte ai pazienti ricoverati con le prestazioni ambulatoriali agli esterni, va posto in evidenza che le testimonianze raccolte sembrano avvalorare l'ipotesi che, fra l'attività di lavoro dipendente e

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quella professionale, vi fosse una certa continuità temporale, nel senso che alla prima poteva seguire la seconda e a questa l'altra, ma ciò non significa assolutamente che vi poteva essere confusione o sovrapposizione fra le due attività o che quella cardiologica ambulatoriale fosse una delle prestazioni cui il dott. XX era tenuto durante il suo tempo complessivo di lavoro senza possibili distinzioni. Questo perché l'appellante principale come primario era tenuto a rendere una prestazione a favore della Casa di Cura, dirigendo ed organizzando il reparto e rendendo consulenze ai clienti ricoverati, mentre come libero professionista operava nel suo interesse nei confronti di pazienti che non avevano alcuna relazione con l'attività svolta dalla Casa di Cura e che si rivolgevano a lui come professionista. Va da ultimo osservato che - come riferito dai testimoni - le prestazioni ambulatoriali incominciavano alle ore 14,00 ed andavano avanti fino all'esaurimento dei pazienti, il che avveniva verso le ore 17,00 o anche più tardi, quando gli esterni da visitare erano molti. Ciò detto, si appalesa del tutto irrilevante la deduzione della difesa del dott. XX, secondo cui, se egli "avesse reso tali prestazioni fuori dall'orario di lavoro seguito presso il reparto di medicina si sarebbe trovato segnato sul libro presenze, al martedì ed al venerdì, un tempo di lavoro largamente inferiore alle consuete cinque ore" (v. appello principale, pag. 35). Al riguardo, è sufficiente osservare che tale assunto non solo difetta di prova non avendo il dott. XX dimostrato se ed in quali giorni egli aveva concretamente superato l'arco temporale compreso tra le 14,00 e le 17,00 per le visite ai pazienti esterni, ma soprattutto che non è di alcuna utilità per provare che nei giorni di ambulatorio non cambiava nulla circa le ordinarie cadenze della prestazione lavorative, dato che non si può escludere o, quanto meno, nessun elemento istruttorio consente di escludere che, anche in caso di superamento delle ore 17,00 per le prestazioni ambulatoriali, l'appellante principale esaurisse comunque il suo debito di orario come lavoratore dipendente nell'esercizio delle mansioni di primario. Pertanto, il compenso percepito dal dott. ... per le prestazioni ambulatoriali non può essere conglobato con il corrispettivo erogato per l'attività di lavoratore dipendente. I.2.3 Per quanto concerne la seconda censura, quella relativa al mancato pagamento delle prestazioni ambulatoriali per il periodo successivo al gennaio 1993, va premesso che, ai sensi dell'art. 2697 cod. civ., costituisce specifico onere dell'appellante principale, già ricorrente in primo grado, fornire la prova dei fatti costitutivi del suo diritto e, quindi, dimostrare il numero e l'entità delle prestazioni effettivamente svolte. Sotto tale profilo, il dott. XX si è limitato ad affermare, nell'atto introduttivo del giudizio (pag. 6), che il compenso per le prestazioni ambulatoriali, dopo il 31 dicembre 1992, non era "più stato erogato, nonostante ogni protesta ..." e che una c.t.u. sarebbe valsa "a determinare l'importo delle prestazioni in questione dal gennaio '93 alla risoluzione del rapporto". Nelle conclusioni istruttorie, rassegnate nel ricorso di primo grado, il dott. XX non ha avanzato alcuna richiesta volta alla ammissione di particolari mezzi di prova atti ad individuare, in modo più preciso, la natura, l'entità e le caratteristiche delle prestazioni ambulatoriali asseritamente svolte dal gennaio 1993, con eccezione di una generica istanza di assunzione di testimoni sulla circostanza dedotta al punto 11 dell'atto introduttivo. Poiché il punto 11, lettera c), del ricorso non è un vero e proprio capitolo di prova, bensì uno dei passaggi attraverso i quali si snoda l'esposizione dei fatti, non è semplice individuare la circostanza oggetto della prova orale. Dall'esame di questo punto 11, si può, in buona approssimazione, ritenere che al teste avrebbe dovuto essere formulata questa domanda: "Vero che in seguito - cioè dopo il mese di dicembre 1992 - il compenso fuori busta, ma sempre contro rilascio di fattura, pari ad una percentuale del 50% di quanto incassato dalla Casa di Cura per prestazioni cardiologiche ambulatoriali, non è più stato erogato, nonostante le proteste del dott. XX?". Il capitolo si incentra, quindi, sul mancato pagamento di una prestazione asseritamente resa, e, dunque, non sembra essere rilevante per dimostrare se ed in che misura la predetta prestazione venne effettivamente resa. Va, poi, osservato che questa duplice carenza - espositiva e istruttoria - non è mai stata sanata dal dott. XX nei successivi atti compiuti nel corso del procedimento di primo grado. Nel caso in esame, quindi, le questione non può essere posta in termini di inesatta quantificazione di

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una pretesa economica, dato che l'attuale appellante principale si è limitato a dedurre - oltre tutto in modo estremamente generico - di avere continuato ad eseguire anche dopo il dicembre 1992 le prestazioni ambulatoriali a favore dei clienti esterni, senza precisarne i termini di espletamento. Pertanto la domanda contenuta nell'atto introduttivo del giudizio si appalesa carente - nella allegazione e nella prova - relativamente ai fatti costitutivi del diritto fatto valere al pagamento del correlato corrispettivo, non contenendo alcuna precisazione in ordine alle modalità di svolgimento delle prestazione ambulatoriali asseritamente rese dal gennaio 1993 in avanti ed, espressamente, rinviando per questo scopo ad una espletanda consulenza tecnica d'ufficio che avrebbe dovuto essere ammessa nel corso del procedimento. Va, però, precisato che, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità (v., da ultimo, Cass. n. 9060/03, n. 4993/04), la consulenza tecnica d'ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di aiutare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, pertanto il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati; mentre al limite costituito dal divieto di compiere indagini esplorative è consentito derogare unicamente quando l'accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con l'ausilio di speciali cognizioni tecniche: in questo caso - nella specie non ricorrente - è consentito all'ausiliare anche acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori e rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere dalle medesime provati. Nella specie, quindi, poiché la consulenza tecnica d'ufficio chiesta dal dott. XX - e poi ammessa dal primo giudice - aveva l'inammissibile scopo - in parte qua - di sanare la carenza del ricorso introduttivo nella esposizione degli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento della domanda e, quindi, l'originaria violazione dall'art. 414 cod. proc. civ., non possono essere considerati come utilmente acquisiti al processo i risultati - per altro di per sé non decisivi - ottenuti dall'ausiliare. Va, altresì, posto in evidenza che il potere officioso del giudice di ordinare, ai sensi degli artt. 210 e 421 cod. proc. civ., alla parte l'esibizione di documenti sufficientemente individuati, ha carattere discrezionale e, non potendo sopperire all'inerzia della parte nel dedurre mezzi di prova, può essere esercitato solo se la prova del fatto che si intende dimostrare non sia acquisibile "aliunde", non anche per fini meramente esplorativi. Il mancato esercizio da parte del giudice del relativo potere, anche se sollecitato, non è censurabile in sede di legittimità neppure se il giudice abbia omesso di motivare al riguardo (v., sul punto, Cass. n. 5908/04). Nella specie, l'allora ricorrente in primo grado ha formulato l'apposita istanza, ex art. 210 cod. proc. civ., volta ad ottenere l'acquisizione di determinati documenti non già nell'atto introduttivo del giudizio, bensì nelle note autorizzate dell'8 marzo 2001, dopo che il processo aveva avuto una certa evoluzione. Il primo giudice, infatti, all'udienza dell'8 giugno 1999, ha integrato il quesito, a suo tempo, formulato al consulente tecnico d'ufficio, estendendo l'indagine alla verifica dell'ammontare dei compensi dovuti al dott. XX per l'attività ambulatoriale di cardiologia svolta negli anni 1993 e 1994 e consentendo all'ausiliare di prendere visione di tutti gli atti utili e di esperire ogni opportuna indagine. Nella successiva udienza del 18 gennaio 2000, provvedendo sulla istanza della società allora convenuta di parziale revoca della precedente ordinanza per non essere stata preceduta dalla preventiva formulazione della istanza ex art. 210 cod. proc. civ., lo stesso primo giudice ha confermato il proprio provvedimento ordinatorio, dichiarando, espressamente, di utilizzare i poteri di iniziativa istruttoria previsti dall'articolo 421 cod. proc. civ., dato che, nella specie, essendo

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stati i fatti allegati dalla parte, "tale potere rappresenta solo l'esercizio della possibilità prevista di scelta del mezzo probatorio più adatto, alla verifica della tesi di parte". Nella specie, quindi, va evidenziato che non solo l'istanza ex art. 210 cod. proc. civ. è stata tardivamente proposta dalla difesa del dott. XX - addirittura dopo che il giudice del lavoro aveva esercitato i poteri officiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. consentendo l'acquisizione della documentazione necessaria da parte del consulente contabile - ma anche che lo stesso Tribunale è incorso, nella predetta ordinanza del 18 gennaio 2000, in un grave equivoco, poiché, quanto alle prestazioni ambulatoriali cardiologiche dal gennaio 1993 in avanti, l'attuale appellante principale non aveva mai neppure allegato nel ricorso gli elementi di fatto costitutivi del suo diritto, di guisa che l'indagine tecnica affidata al consulente ha finito per assumere - in parte qua - una finalità meramente esplorativa, essendo volta alla ricerca di fatti che avrebbero dovuto essere provati dalla parte. Va, poi, evidenziato che la difesa del dott. XX ed il primo giudice sono incorsi in un ulteriore equivoco, perché hanno confuso la finalità della consulenza tecnica d'ufficio con quella della istanza di esibizione dei documenti ex art. 210 cod. proc. civ. Posto, infatti, che l'ordine di esibizione previsto dall'art. 210 cod. proc. civ., è finalizzato all'accertamento di fatti rilevanti ai fini della causa e non a scopi meramente esplorativi e che concerne documenti specificamente indicati dalla parte indispensabili ai fini della prova, non diversamente acquisibile, dei fatti controversi (v., Cass. n. 9715/95, 6778/04), non può essere condivisa l'affermazione del dott. XX, secondo cui nella istanza volta ad ottenere la consulenza tecnica contabile d'ufficio, era implicita anche la richiesta di esibizione dei documenti necessari per individuare le prestazioni ambulatoriali rese ai pazienti esterni (v., appello, pag. 47 e 48) e del primo giudice nella più volte citata ordinanza del 18 gennaio 2000, secondo cui la generica opposizione del difensore della Casa di Cura alla ammissione della consulenza tecnica chiesta nel ricorso, sostanzialmente, legittima la "verifica della tesi della parte" pur in mancanza della allegazione dei fatti costitutivi del diritto. I.2.4 Ciò posto, passando all'esame degli elementi istruttori raccolti nel corso del giudizio di primo grado, deve ritenersi che non sia stata, comunque, raggiunta la prova che il dott. XX abbia svolto anche dopo il mese di dicembre 1992 prestazioni ambulatoriali a favore di pazienti esterni. Tenuto conto che la società appellante incidentale ha sostenuto, nella memoria di costituzione di primo grado (memoria difensiva pag. 6) che le Case di Cura avevano sospeso in via cautelativa, le visite ambulatoriali ovvero ne avevano diversamente disciplinato il rapporto a seguito delle pesanti contestazioni sollevate dall'INPS nel corso delle indagini ispettive svolte in tutto il paese, va detto che i dati istruttori disponibili sono, soltanto, tre. Il primo di questi è rappresentato dalla documentazione trasmessa dall'AUSL di Piacenza, dalla quale risulta che la convenzione con la Casa di Cura Privata YY per le prestazioni cardiologiche ambulatoriali era stata sospesa solo nel gennaio 1995 perché il rapporto di lavoro con il dott. XX era stato risolto. Va detto, però, che il permanere della convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale fino al 31 dicembre 1994, è indicativa soltanto della facoltà delle competenti AUSL di avvalersi della struttura della Casa di Cura Privata YY per le prestazioni ambulatoriali cardiologiche, e, cioè, non significa che fossero stati, in concreto, avviati pazienti convenzionati e, soprattutto, che il dott. XX avesse svolto personalmente le visite e reso le dovute prestazioni professionali. Né questa carenza probatoria può essere colmata dalla deposizione del Ma. (secondo elemento istruttorio), perché il predetto testimone si è limitato a confermare - solo genericamente - che il dott. XX aveva svolto prestazioni ambulatoriali a favore dei propri clienti e di pazienti esterni avviati dalle AUSL, senza, però, fornire qualche ragguaglio utile per definire in modo preciso l'arco temporale al quale aveva fatto riferimento o chiarire se l'appellante principale avesse continuato a svolgere l'attività in questione anche dal gennaio 1993 in avanti. Rimane, infine, il terzo elemento istruttorio, rappresentato dalle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, dalla quale è emerso che, negli anni 1993 - 94, la Casa di Cura ha incassato delle somme - meglio descritte nella relazione e nel supplemento - dalle competenti strutture pubbliche per

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prestazioni ambulatoriali. Tuttavia, a parte il fatto che queste risultanze della consulenza tecnica d'ufficio non possono essere poste a fondamento della decisione perché costituiscono una inammissibile integrazione delle carenze di allegazione e di prova contenute nel ricorso di primo grado, va detto che - se anche si dovesse ammettere che delle somme furono erogate per prestazioni ambulatoriali dalle competenti AUSL negli anni 1993 e 1994, ciò non dimostrerebbe che si trattava dei corrispettivi per prestazioni ambulatoriali per visite cardiologiche (attesa anche la contraddittorietà tra la relazione di consulenza - pag. 4 - in cui il perito parla di "prospetti di liquidazione specialistica convenzionata esterna" senza ulteriori precisazioni in ordine al tipo di prestazione resa ed il supplemento nel quale lo stesso consulente, senza gli ulteriori e necessari chiarimenti, riferisce la somma di Lire 14.809.100, pari al 50% di quanto incassato dalla Casa di Cura, di poco inferiore a quella calcolata nella relazione di Lire 15.635.860, alle sole prestazioni ambulatoriali cardiologiche); e, soprattutto, che era stato proprio il dott. XX personalmente - e non anche un altro medico, ad esempio uno dei suoi assistenti, - ad eseguire quelle medesime prestazioni. Ciò posto, vanno disattese, perché, inammissibili essendo state formulate tardivamente e, comunque, perché integrano nuove prove, tutte le istanze istruttorie formulate dal dott. XX con l'appello. Va, poi, rigettata l'istanza di ammissione del giuramento suppletorio, non ricorrendo le condizioni previste per la sua ammissione dall'art. 2736, n. 2, cod. civ. Il giuramento suppletorio, infatti, è un mezzo istruttorio integrativo, destinato a colmare le lacune e le deficienze della prova offerta, e postula non un accertamento circa la possibilità o meno di dare la piena prova della domanda o dell'eccezione, bensì la valutazione in concreto della sussistenza del requisito della semiplena probatio e della opportunità di valersi di tale mezzo di prova, rimessa al potere discrezionale del giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità (v., Cass. n. 13454/04, n. 101/03). Per altro, il giuramento suppletorio, pur essendo ammissibile sussistendo presunzioni semplici (v., Cass. n. 9380/03; n. 2939/01), non può essere deferito qualora la parte sia venuta completamente meno al proprio onere probatorio (v., Cass. n. 4593/82; n. 3164/79; n. 1227/73). Nella specie, questa Corte ritiene che non sussista, per le ragioni in precedenza ampiamente esposte, il requisito della semiplena probatio e che la richiesta di ammissione di tale mezzo di prova rappresenti, da parte della difesa del dott. XX, un estremo rimedio per sopperire alla già riscontrare carenze nella allegazione e nella prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio. In altri termini, il giuramento suppletorio verrebbe non già a colmare le lacune e le deficienze della prova offerta, anche per presunzioni, ma verrebbe a sanare la decadenza nella quale è incorsa la parte appellante principale nell'adempimento dell'onere probatorio posto dalla legge a suo carico. Infine, va dichiarata inammissibile anche l'istanza di deferimento del giuramento decisorio "de veritate" al legale rappresentante della Casa di Cura attuale appellante incidentale, dott. Me., formulata in via di estremo subordine dalla difesa del dott. XX. L'appellante principale prospetta, al riguardo, una formula avente ad oggetto l'affermazione (o la negazione) dello svolgimento da parte sua delle prestazioni ambulatoriali cardiologiche in favore di mutuati e paganti in proprio remunerate alla Casa di Cura con complessive Lire 21.410.200 nell'anno 1993 e complessive Lire 9.861.520 nell'anno 1994. Il giuramento decisorio de veritate, così come deferito dal dott. XX, non è però ammissibile perché, come risulta dai documenti allegati agli atti di causa (ed in particolare dalla visura camerale dell'8 aprile 2002 prodotta dallo stesso appellante principale), l'attuale legale rappresentante della Casa di Cura Privata YY, dott. M.G., ha assunto la carica di presidente del Consiglio di Amministrazione soltanto dal 30 giugno 1999. In precedenza, quindi, ed in particolare negli anni 1993 e 1994 - cui si riferisce la formula del giuramento decisorio - la carica di legale rappresentante della società attuale appellante incidentale doveva essere rivestita da altra persona. In ogni caso non risulta che, in quegli anni, il dott. M.G. fosse comunque il legale rappresentante della Casa di Cura. Ciò posto, va rilevato che, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione (v., Cass. n. 11491/92 e n. 4365/95), il giuramento decisorio deferito al legale rappresentante di una persona giuridica su fatti inerenti alla stessa

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non può configurarsi come giuramento de veritate se non quando verta su fatti propri della persona fisica che nella detta qualità è chiamato a prestarlo, né questi può essere considerato autore o partecipe di fatti che, pur riferendosi alla società, non siano stati posti in esse da lui personalmente. Ne consegue che il giuramento su fatti anteriori all'assunzione della legale rappresentanza dell'ente, di cui il rappresentante abbia avuto conoscenza nella sua qualità attraverso informazioni o consultazioni di atti o documenti della società, può essere configurato soltanto come giuramento de scientia. Nella specie, poi, il deferito giuramento decisorio è, altresì, inammissibile per difetto del requisito della decisorietà totale o parziale della causa, espressamente previsto dall'art. 2736 cod. civ. Nel caso in esame, infatti, una volta ammesso e prestato il giuramento, la controversia non sarebbe stata, automaticamente, decisa in tutto o in parte su questo capo della domanda, perché, dovendosi ammettere il giuramento soltanto sul fatto storico costituito dello svolgimento, da parte del dott. XX, di prestazioni ambulatoriali e cardiologiche negli anni 1993 e 1994, avrebbe dovuto essere, comunque, accertato se tutte le somme incassate dalla Casa di Cura in quel periodo per prestazioni ambulatoriali dovessero essere riferite all'attività del dott. XX e non anche a quella di altri medici liberi professionisti. Pertanto, assorbita ogni altra questione dedotta con il motivo in rassegna, va confermata la statuizione del primo giudice di rigetto della domanda volta ad ottenere il conglobamento nella retribuzione dei compensi per le prestazioni ambulatoriali svolte in regime libero professionale e il pagamento dei corrispettivi per le prestazioni asseritamente svolte negli anni 1993 e 1994. I.3.1 Con il terzo motivo, il dott. XX, in ordine alla mancata declaratoria di invalidità del licenziamento intimato in relazione alla pretesa esistenza di un potere di recesso ad nutum della datrice di lavoro conseguente all'inquadramento del lavoratore nella qualifica dirigenziale, sostiene che: - il primo giudice lo ha erroneamente qualificato d'ufficio come dirigente, senza che la Casa di Cura YY avesse mai tempestivamente proposto l'eccezione, non rilevabile d'ufficio, dell'esclusiva applicabilità del regime della libera recedibilità al rapporto di lavoro dedotto in causa; - l'inquadramento nella qualifica dirigenziale non può essere dedotto, come ha fatto il primo giudice, dalle norme speciali dettate per il pubblico impiego che non sono applicabili neppure in via analogica; - la contrattazione collettiva del settore non inquadra nella categoria dei dirigenti il personale medico, anche se chiamato a svolgere le funzioni di primario; inoltre l'art. 30 del d.p.c.m. 27 giugno 1986, avente come destinatarie le Regioni, ha una funzione organizzativa e non incide sulla classificazione del rapporti di lavoro; - il primario di casa di cura non può, certamente, essere considerato dirigente, sulla base delle mansioni a lui attribuite dal contratto collettivo, non disponendo di poteri decisionali di entità tale da influenzare l'andamento dell'attività aziendale non essendo a capo di un ramo autonomo dell'impresa, ma svolgendo attività tecnica di alta specializzazione e responsabilità professionale, riconducibile alla categoria legale dei quadri; - l'intimato licenziamento è illegittimo perché la Casa di Cura non ha dimostrato il giustificato motivo oggettivo, anzi, nell'offrirgli di proseguire il rapporto per 7/8 mesi dopo il licenziamento, ha riconosciuto che né al 27 dicembre 1994 né al 31 maggio 1995 (scadenza del preavviso) esisteva la necessità di risolvere il rapporto di lavoro; inoltre l'offerta di collaborare come consulente autonomo, dimostra che per lui vi era ancora spazio occupazionale; infine, la sua mancata partecipazione ad un corso di aggiornamento non è in alcun modo rilevante; - le dimissioni dei due medici del 20 maggio 1993, perché non regolarmente pagati, dimostrano soltanto che la Casa di Cura aveva, a quella data, difficoltà di cassa; ma ciò non può essere messo in relazione con un licenziamento avvenuto 19 mesi dopo; - la procedura di mobilità, relativa a 15 dipendenti, avviata nel febbraio 1993, aveva comportato un solo licenziamento e per il resto erano stati stipulati contratti di solidarietà e adottate altre misure organizzative; - non risulta che la ristrutturazione dell'attività fosse già operativa alla fine del 1994, mentre la Casa di Cura aveva mantenuto le specializzazioni di medicina generale, cardiologia ed ecocardiologia delle quali era in possesso; - poiché la convezione con la USL relativa alla cardiologia era da ritenere prorogata per il

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1995 e la Casa di Cura doveva mantenere quel servizio, il licenziamento del medico al quale tale servizio era stato affidato è illegittimo e privo di causa; tanto più che la Casa di Cura si era avvalsa di un consulente didattico organizzativo per la sezione cardiologia (dott. C.) e che è autorizzata, nell'ambito di recupero e rieducazione funzionale, a ricoveri per i postumi di interventi di cardio - chirurgia e cardiopatie post infartuati, affidati alla dott. D.C. per tanti anni suo aiuto. I.3.2 Il motivo è infondato. Giova premettere che l'affermazione del primo giudice, secondo cui la figura di responsabile del reparto di medicina generale, con funzioni di primario, ricoperta dal dott. XX, deve essere ricompresa nella categoria dei dirigenti, "essendo indubbia la funzione apicale della stessa in relazione ai poteri gestori organizzativi e decisionali sul personale e sulla struttura nonché alla responsabilità connessa sia come culpa in vigilando che in eligendo" (v., sentenza app. pag. 18), nonché la conseguenza da essa tratta e, cioè, che l'appartenenza dell'attuale appellante principale all'area dirigenziale escluderebbe che al suo licenziamento, intimato con la corresponsione della indennità sostitutiva del preavviso, sia applicabile qualsiasi tutela reale o obbligatoria diversa da quella prevista dall'art. 2119 cod. civ., e che, dunque, vertendosi nell'area del libero recesso, la Casa di Cura era tenuta al solo rispetto dell'obbligo del preavviso (v., sentenza app. pag. 19), non può essere condivisa. Ha, infatti, errato il Tribunale di Piacenza sia nell'attribuire d'ufficio al dott. XX la qualifica di dirigente, in assenza di una qualsivoglia domanda od eccezione in tal senso prospettata dall'una o dall'altra parte, dato che né la difesa del lavoratore né quella della Casa di Cura hanno mai posto la questione della riconducibilità della mansioni di responsabile di reparto alla categoria dirigenziale o per ottenere il trattamento economico, normativo o previdenziale proprio dei dirigenti, o per escludere l'applicabilità, nella specie, della tutela reale rivendicata dall'allora ricorrente in primo grado con l'atto introduttivo del giudizio; sia nel pervenire ad una siffatta conclusione, con l'applicazione - in via analogica - della normativa speciale concernente il pubblico impiego ed, in particolare, quella dettata per la dirigenza del ruolo sanitario, che, quale disciplina speciale nello stesso comparto pubblico, non può essere estesa oltre i confini positivamente stabiliti dalle disposizioni che la prevedono. ______________ Va, poi, posto in evidenza che né l'articolo 30 del d.p.c.m. 27 giugno 1986 - che ha, per altro, come destinatarie le Regioni e non contiene norme regolanti il rapporto di lavoro di diritto privato - né la contrattazione collettiva nazionale del settore (v., c.c.n.l. per i medici dipendenti delle Case di Cura private stipulato il 19 novembre 1990) - in generale - né ulteriori elementi documentali desumibili dalla gestione dello specifico rapporto di lavoro - buste paga e risultanze libri obbligatori - legittimano la riconducibilità dell'inquadramento del dott. XX alla categoria dei dirigenti. Al riguardo, è sufficiente osservare che l'articolo 7 del c.c.n.l. del settore, nell'individuare le mansioni proprie del responsabile del reparto, non prevede - espressamente - l'inquadramento di tali funzioni nell'ambito della categoria dei dirigenti e che, nello specifico rapporto di lavoro, la qualifica di dirigente non risulta essere mai stata attribuita, anche con atto unilaterale, dalla Casa di Cura Privata YY al dott. XX. I.3.3 Ciò posto, va rilevato che il dott. XX è stato licenziato con lettera del 27 dicembre 1994 (doc. 30, appellante principale), con la quale il provvedimento di recesso è stato così giustificato: la nostra Casa di Cura, al fine anche di ovviare ad una difficile situazione già determinatasi e caratterizzata da una insufficiente utilizzazione delle strutture preesistenti, ha posto in essere una radicale riconversione e ristrutturazione dell'aspetto societario ed aziendale, con una conseguente trasformazione della struttura stessa da polispecialistica a monospecialistica e con una radicale modifica di indirizzo delle tipologie medico - assistenziali in esercizio. Invero sono stati soppressi i reparti di Chirurgia, di Ostetricia e Ginecologia, di Ortopedia e di Oncologia con il servizio di cobaltoterapia, mentre con la fine dell'anno è prevista la chiusura dei reparti di Medicina Generale, di Pneumologia e di Cardiologia, dovendo la Casa di Cura Privata YY caratterizzarsi ed operare con una struttura esclusivamente Riabilitativa.

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Nell'ambito della trasformazione dell'azienda, della radicale modifica di indirizzo della Casa di Cura e delle tipologie mediche operanti all'interno di essa alla stregua dell'operanda riconversione del Reparto di Medicina (cui Ella è il responsabile) in una unità di Recupero e Rieducazione Funzionale, con la conseguente necessità impostaci dalla normativa vigente (atto di indirizzo Regionale del 10 gennaio 1983 che recependo i requisiti stabiliti dallo schema di convenzione Regioni - Case di Cura detta che il Responsabile abbia la specializzazione in quella branca dove vi è il maggior numero di posti letto, e cioè la fisiatria), viene meno la necessità del protrarsi della Sua opera alle dipendenze della nostra Casa di Cura, venendo soppresso il posto di lavoro sino ad oggi da Lei occupato. Pertanto, non essendo più possibile una proficua utilizzazione della Sua opera all'interno della riconvertita struttura e venendo eliminata la posizione lavorativa da Lei precedentemente occupata, siamo spiacenti di comunicarLe che abbiamo adottato nei Suoi confronti il provvedimento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 legge 15 luglio 1966 n. 604 e dei principi generali di diritto vigenti in materia ...". Giova premettere, alla luce della più recente giurisprudenza in materia, che il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, è determinato non da un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto a che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo - organizzativo e non ad un mero incremento di profitti e che dimostri, inoltre, la impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale.(v., Cass. n. 12514/04) La suprema Corte ha, altresì, ribadito che, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 3 della legge n. 604 del 1966), grava sul datore di lavoro l'onere di provare, le ragioni poste a fondamento del licenziamento e l'impossibilità di impiego del dipendente da licenziare nell'ambito dell'organizzazione aziendale, spettando al giudice di verificarne l'effettiva ricorrenza attraverso un apprezzamento delle prove incensurabile in sede di legittimità, se effettuato con motivazione coerente e completa (v., Cass. n. 10916/04); l'onere probatorio sul punto va assolto mediante la dimostrazione di inequivoci elementi volti a dimostrare che nell'ambito della organizzazione aziendale, esistente all'epoca del licenziamento, non vi erano altre possibilità di evitare la risoluzione del rapporto se non quella, vietata dall'art. 2103 Cod. Civ., di adibire il lavoratore ad una mansione dequalificante rispetto a quella dallo stesso esercitata prima della ristrutturazione aziendale (v., Cass. n. 12270/03) Più specificamente, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l'onere di provare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo, e deve inoltre dimostrare di non avere effettuato per un congruo periodo di tempo successivo al recesso alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato (v., Cass. n. 12367/03) Infine, il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l'ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell'impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa; ne consegue che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto

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organizzativo operato, né essendo necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite.(v., Cass. n. 16163/04, n. 5808/04; n. 28/04). I.3.4 Quanto al caso in esame, la riconversione della Casa di Cura Privata YY da struttura polispecialistica a monospecialistica, operante nel settore della riabilitazione, nonché la chiusura del reparto di medicina, cui il dott. XX era responsabile, risultano documentalmente provate. Va, al riguardo, posto in evidenza che, già con provvedimento del 29 dicembre 1993 (doc. 11, appellante incidentale), il Sindaco del Comune di xxx aveva autorizzato, con decorrenza dall'1 gennaio 1994, la "trasformazione della struttura da polispecialistica parametro 120 in monospecialistica medica parametro 100" e quindi la costituzione di un raggruppamento medico di 92 posti letto, di cui 40 assegnati alle due unità funzionali di Recupero e di Riabilitazione ed i restanti 52 alle unità funzionali di Medicina generale (22), Pneumologia (10), Cardiologia (10) ed Oncologia (10). Con successivo provvedimento del 31 dicembre 1994 (v. doc. 12 fasc. appellante incidentale), lo stesso Sindaco aveva autorizzato, dal primo gennaio 1995 - e cioè da epoca coincidente con quella del licenziamento -, la costituzione di un raggruppamento medico ad indirizzo riabilitativo di 92 posti letto assegnati alle unità funzionali di Recupero e Rieducazione. Ciò significa, quindi, che, dal mese di gennaio 1995, non solo non era più autorizzata la costituzione della unità funzionale di Medicina Generale - alla quale era preposto il dott. XX - ma che non vi erano più posti letto disponibili per ricoveri in quel medesimo reparto. Riesce, quindi, difficile pensare - salvo prova contraria che, nella specie, avrebbe dovuto essere fornita dal lavoratore - che, dopo quella data, esistesse ancora un reparto di medicina generale con pazienti sottoposti alle cure dell'appellante principale. Del resto, anche la documentazione proveniente dalla Azienda Unità sanitaria Locale di Piacenza - ed acquisita d'ufficio dal primo giudice -, conferma che dal mese di gennaio 1995 la Casa di Cura Privata YY era classificata come struttura monospecialistica ad indirizzo riabilitativo - parametro 120 - fascia A. In tal senso depone, in particolare, la determinazione dei contenuti economici con le case di cura private per l'anno 1994, assunta dalla Giunta della Regione Emilia Romagna il 26 aprile 1995 n. 1526, successivamente trasmessa per l'esecuzione ai Direttori Generali delle Aziende USL ed alle Case di Cura interessate, alla quale è allegato l'elenco delle strutture private operanti sul territorio regionale, nel quale, per la provincia di Piacenza, la Casa di Cura Privata YY è classificata riabilitativa in fascia A, parametro 120, con 74 posti letto convenzionati su 94 autorizzati. Ulteriore conferma della operatività già nell'anno 1995 della Casa di Cura appellante incidentale come struttura monospecialistica riabilitativa è data dalla convenzione, stipulata il 13 novembre 1995 tra la stessa casa di cura e la locale AUSL, con la quale la predetta "Casa di Cura Privata YY ...monospecialistica ad indirizzo riabilitativo - parametro 120 - fascia A -", già convenzionata con 74 posti letto, si era impegnata a porre a disposizione in regime di convenzionamento ulteriori sei posti letto. Tale documentazione dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio e tenuto conto che le Case di Cura private possono operare soltanto sulla base di specifiche autorizzazioni rilasciate dalla competente autorità amministrativa e sono soggette a severa vigilanza, che, già nel corso del 1995 ed in particolare dal mese di gennaio 1995, la riconversione della struttura da polispecialistica a monospecialistica nel settore riabilitativo si era del tutto compiuta e che, pertanto, la soppressione del reparto di medicina generale, cui il dott. XX era preposto, era stata effettiva. Né, in senso contrario, possono essere interpretate le dichiarazioni dell'infermiere professionale Ma. che, per come lette dalla difesa del dott. XX, rasentano gli estremi della falsa testimonianza trovandosi in insanabile contrasto con le risultanze della documentazione ufficiale già esaminata. In realtà, e assai più limitatamente, il Ma. ha sostenuto che la trasformazione della struttura nel corso del 1995 è stata progressiva ed, a parte la sua affermazione secondo la quale dal 1994 alla fine del 1995 egli avrebbe lavorato con dei malati

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tassativamente medici, - da considerare, comunque, non pienamente attendibile sia per la sua qualità professionale, non essendo un medico, sia perché contenente un giudizio -, queste sue dichiarazioni non sono, tuttavia, idonee a dimostrare che il reparto di medicina generale avesse continuato ad essere operativo anche dopo il mese di gennaio 1995 e, soprattutto, che nuovi pazienti di medicina generale avessero continuato ad essere ospitati presso la struttura, con violazione delle autorizzazioni sindacali e con il rischio di non ricevere - per quelli convenzionati - il rimborso delle rette per la degenza da parte dell'AUSL, per la quale la YY era - nel 1995 - una Casa di Cura ad indirizzo riabilitativo. Le dichiarazioni del Ma. non sono, quindi, utilizzabili perché o non sono ben orientate nel tempo, nel senso che il teste può avere confuso le date ed i tempi, come lascia pensare l'altra sua affermazione che i primi pazienti di riabilitazione cardiologica erano entrati alla fine del 1995, contrastante con la circostanza che già nel 1994 erano operative due unità funzionali di Recupero e Riabilitazione per 40 letti, come risulta dalla autorizzazione sindacale del 29 dicembre 1993, e che comunque non tiene conto che la fisiatria ha uno spettro di applicazione non limitato alla sola riabilitazione cardiologica ma molto più ampio; oppure, se anche si volessero leggere nel senso che, pure nel 1995, fosse stato ricoverato qualche malato di medicina generale, sono comunque troppo generiche per fare da esse discendere la conseguenza che in quello stesso anno esistesse ancora un reparto di medicina generale pienamente operativo, con necessità di un primario. Va, per altro, evidenziato che, il teste Ze., medico fisiatra, ha confermato, nella sua deposizione, che, dal mese di gennaio 1995, tutti i letti a disposizione erano "di riabilitazione". Le dichiarazioni del dott. Ze. sono, altresì, importanti perché hanno posto in evidenza che le vigenti disposizioni di legge prevedono che i letti di medicina riabilitativa siano tenuti dallo specialista fisiatra e che il posto apicale, cioè quello di primario o responsabile di reparto, può essere ricoperto solo dopo avere ottenuto una specifica idoneità, alla quale si può accedere soltanto se l'interessato è in possesso della specialità nella materia o in discipline affini. Il predetto teste ha, anche, precisato che il fisiatra ha una visione della medicina molto ampia, più funzionale che statica, perché, nella sua preparazione, entrano la neurologia, l'ortopedia, la reumatologia, la psichiatria, la psicologia, la cardiologia e la pneumologia. Il fisiatra, quindi, è in condizione di risolvere i problemi del paziente spaziando su più campi e si avvale, di regola, della consulenza di specialisti di altri settori soltanto quando necessita una conoscenza particolarmente approfondita, che esula dalla sua preparazione professionale. Il dott. Ze. ha, poi, precisato che, dopo il licenziamento del dott. XX, l'incarico di primario responsabile venne assunto dal prof. Ca., ortopedico in possesso di "specialità e di idoneità nazionale in riabilitazione". La deposizione del dott. Ze. è, quindi, significativa perché evidenzia come il dott. XX - pacificamente non in possesso della specialità e della abilitazione nazionale in fisiatria - non potesse più assumere la responsabilità delle unità funzionali di Riabilitazione e Terapia, le sole operanti presso la Casa di Cura Privata YY dal mese di gennaio 1995. Di conseguenza, non solo la società datrice di lavoro ha provato che il reparto diretto dal dott. XX non poteva più essere operativo dal mese di gennaio 1995, per effetto della trasformazione della struttura da polispecialistica a monospecialistica nel settore della riabilitazione, ma ha, altresì, dimostrato che il lavoratore - non esistendo più il reparto di medicina generale - non poteva essere utilmente reimpiegato nelle mansioni di primario, in ragione delle quali era stato assunto, perché non era in possesso della specialità e della idoneità nazionale a svolgere la funzioni apicali nel settore della fisiatria. Va, al riguardo, posto in evidenza che l'appellante principale, ancora una volta speculando sull'equivoco fra le mansioni di responsabile di reparto, per le quali era stato assunto, e le specialità in medicina generale e cardiologia, delle quali era ed è in possesso, ha cercato di sostenere che, essendo stata prorogata per il 1995 la convenzione con la AUSL relativa alla cardiologia (v., delibera del 29 giugno 1995 del Direttore Generale dell'AUSL), con conseguente obbligo per la Casa di Cura di mantenere il relativo servizio, il licenziamento del medico, cui tale servizio era stato affidato, era da considerare illegittimo

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perché privo di causa, come dimostrato dalla circostanza che la stessa Casa di Cura, per non incorrere in sanzioni, aveva dovuto sostenere che il servizio era venuto meno perché il dott. XX si era dimesso (come testualmente è scritto nella citata delibera), mentre invece il dipendente era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo. Il rilievo non è, però, pertinente per due ragioni. In primo luogo va premesso che, come risulta dalla lettera dell'8 febbraio 1995 (doc. 18 Casa di Cura) inviata dalla YY al Direttore Generale dell'AUSL, a fare tempo dall'1 febbraio 1995, era stato sospeso il "Servizio Ambulatoriale di Cardiologia". Di conseguenza, sia la citata lettera dell'8 febbraio 1995 sia la successiva delibera del Direttore Generale AUSL del 29 giugno 1995, di sospensione della convenzione per la branca di cardiologia per le dimissioni del dott. XX, concernono il rapporto di convenzionamento esterno. Tali atti, quindi, hanno riferimento al rapporto libero professionale in essere tra la Casa di Cura ed il dott. XX - di cui si è ampiamente già trattato -, in base al quale il dott. XX si era impegnato a svolgere prestazioni professionali nel settore cardiologico a favore di pazienti, convenzionati o non, esterni, e, pertanto, non possono avere alcuna incidenza sul rapporto di lavoro subordinato in essere fra le parti e coesistente con quello libero - professionale. Va, inoltre, evidenziato che il dott. XX era stato assunto per svolgere le mansioni di responsabile del reparto di medicina. Di conseguenza, la legittimità del licenziamento intimato con lettera del 27 dicembre 1994 deve essere valutata avendo come principale riferimento le mansioni che costituivano, nella specie, l'oggetto principale delle funzioni assegnate al lavoratore. Pertanto, poiché la riconversione e la ristrutturazione della Casa di Cura avevano comportato l'effettiva soppressione del reparto di medicina generale cui il dott. XX era stato preposto come primario, consegue che il licenziamento non può che essere considerato legittimo perché il posto di lavoro del dipendente venne effettivamente soppresso e perché, non esistendo più un altro reparto cui l'appellante principale, avrebbe potuto essere utilmente adibito, dato che tutte le unità funzionali erano destinate ad operare nel settore del recupero e della riabilitazione, cioè in uno specifico settore della medicina per il quale l'interessato non era in possesso della specialità e della idoneità nazionale come primario, non vi era altra possibilità di evitare la risoluzione del rapporto di lavoro, se non quella di assegnare il lavoratore a mansioni di livello inferiore. Il dott. XX, infatti, avrebbe potuto essere mantenuto in servizio al massimo come aiuto, operando come consulente cardiologo, ma, certamente, non avrebbe più potuto svolgere le mansioni di primario, per le quali era stato assunto e che per lunghi anni aveva svolto. In sostanza, si vuole dire che la ristrutturazione e la riconversione della struttura da polispecialistica a monospecialistica nel settore della riabilitazione avevano comportato l'effettiva soppressione, fin dal mese di gennaio 1995, della unità funzionale di medicina diretta dall'attuale appellante principale e, quindi, avevano fatto venire meno l'esigenza per la Casa di Cura di mantenere in servizio il primario di quel reparto, rendendo così inevitabile la risoluzione del rapporto di lavoro con il dott. XX, le cui prestazioni, in qualità di responsabile di raggruppamento, non potevano più essere utilmente reimpiegate nell'ambito della struttura aziendale, dato che il sanitario non era in possesso della specialità e della idoneità nazionale necessarie per dirigere una delle unità funzionali di Terapia e Riabilitazione costituite dal 1995 in avanti. La circostanza che la Casa di Cura avesse, comunque, necessità delle prestazioni di un cardiologo non è idonea ad escludere la legittimità del licenziamento non solo perché il dott. XX avrebbe dovuto essere utilizzato in mansioni inferiori - quanto meno di aiuto - rispetto a quelle di assunzione come responsabile ma, soprattutto, perché non è necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo oggettivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite, come è avvenuto nel caso di specie, con riguardo però alla attività di medico cardiologo, diversa ed inferiore a quella di primario di medicina a suo tempo assegnata all'appellante principale. In tale contesto, le circostanze, allegate dal dott. XX, che dopo il

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licenziamento del 27 dicembre 1994, gli sarebbe stato offerto di proseguire il rapporto di lavoro subordinato per altri sette o otto mesi o di collaborare quale consulente esterno, si appalesano del tutto irrilevanti per dimostrare l'insussistenza del giustificato motivo, anche perché esse, presumibilmente, si inseriscono nell'ambito di trattative avviate tra le parti per pervenire ad una amichevole composizione della vertenza, delle quali si ha cenno nella lettera del 12 gennaio 1995 redatta dal legale della Casa di Cura e prodotta - sub. 32 - dallo stesso appellante principale. Da ultimo, va posto in evidenza che la Casa di Cura Privata YY ha dimostrato che, nel corso dell'anno 1993, si era venuta a trovare in una situazione di difficoltà finanziaria, che aveva reso necessari alcuni interventi organizzativi. In particolare, la gravità della situazione della cassa e, quindi, la difficoltà a soddisfare anche le obbligazioni correnti, risulta dalla lettera del 29 maggio 1993 (v., doc. 7 Casa di Cura) con la quale i medici G. e P. hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa, motivando questa loro decisione anche per il "cronico ritardo nel pagamento delle spettanze, che ha ormai raggiunto livelli intollerabili". In precedenza, il 10 febbraio 1993 (doc. 8 Casa di Cura), l'attuale appellante incidentale aveva attivato una procedura, preceduta da una riduzione dell'organico attuata mediante lo strumento alternativo delle dimissioni incentivate, per la messa in mobilità di 15 lavoratori, denunciando una situazione di crisi finanziaria derivante dalla "drastica e repentina revisione dei posti letto convenzionati operata dalla Giunta Regionale Emilia Romagna (da 80 a 74 p.l.), nonché dall'ulteriore ridimensionamento delle prestazioni di degenza sanitaria, di laboratorio ..." ed implicante una riduzione dell'attività in tutte "le aree specifiche di presenza". Sebbene la predetta procedura di mobilità si sia conclusa (come risulta dal verbale dell'accordo del 30 giugno 1993 - doc. 9 Casa di Cura), con un solo licenziamento e con l'attivazione di 23 contratti di solidarietà con riduzione dell'orario di lavoro sia per 15 lavoratori a tempo pieno sia per 8 lavoratori già a tempo parziale, la sua attivazione ed anche la stessa intesa raggiunta con le organizzazioni sindacali dimostrano che, già nell'anno 1993, sussistevano le condizioni economiche derivanti dallo squilibrio fra costi e ricavi che ben potevano legittimare la scelta imprenditoriale, operata dai responsabili della società attuale appellante incidentale, comunque non sindacabile in questa sede, di attuare una riconversione dell'attività, passando da una struttura polispecialistica, cioè operante in diverse aree di intervento, ad una monospecialistica, con specifiche competenze. Se, dunque, non sussistono fondati elementi per escludere la serietà della riconversione e ristrutturazione aziendale, consegue che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimato al primario del reparto di medicina, dott. XX, deve essere considerato legittimo, essendo venute meno le mansioni per le quali il dipendente era stato assunto e non potendo essere più utilmente reimpiegato il sanitario come responsabile di raggruppamento - cioè in mansioni equivalenti - non essendo egli in possesso di della specialità e della idoneità necessarie per dirigere i reparti di fisiatria, costituiti per l'anno 1995 all'interno della Casa di Cura. L'appello principale va, quindi, rigettato. II.1 Con il primo motivo dell'appello incidentale, la Casa di Cura Privata YY sostiene che l'impugnata sentenza è illegittima nella parte in cui omette la trascrizione delle conclusioni formulate dalla stessa resistente nella memoria conclusionale del 27 febbraio 2001, riguardanti le istanze istruttorie, ciò determinando a) violazione dell'art. 132, primo comma, cod. proc. civ., b) violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. e c) vizio di difetto di motivazione su punto decisivo della controversia. Il motivo è infondato. La giurisprudenza della Corte di Cassazione (v., Cass. n. 13785/04; n. 5024/02; n. 12036/00 ed altre) è ferma nel ritenere che la mancata o incompleta trascrizione, nell'epigrafe della sentenza, delle conclusioni delle parti costituisce una semplice imperfezione formale

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irrilevante ai fini della validità della sentenza, occorrendo, perché siffatta omissione o incompletezza possa tradursi in un vizio tale da determinare un effetto invalidante sulla sentenza, che l'omissione abbia in concreto inciso sulla attività del giudice, nel senso di avere comportato o una mancata pronuncia sulle domande o sulle eccezioni oppure un difetto di motivazione in ordine a punti decisivi prospettati. Nella specie, l'appellante incidentale lamenta, con il motivo in rassegna, che il difetto di trascrizione di tutte le domande ed istanze istruttorie abbia impedito al primo giudice di esaminare la richiesta di escussione dei testi fondamentali quali il prof. L. e la dott. D.C. e di motivare adeguatamente sull'argomento. Va, però, evidenziato che il Tribunale non è incorso nel prospettato vizio di motivazione, perché, come risulta a pagina 21 della sentenza impugnata, il primo giudice ha dato ampia ed articolata spiegazione in ordine alle ragioni che lo avevano indotto a non escutere il prof. L. e la dott. D.C. II.2 Con il secondo motivo, l'appellante incidentale sostiene che la sentenza è illegittima perché, non ammettendo le istanze istruttorie formulate dalla allora convenuta, il primo giudice è incorso nella violazione dell'obbligo di accertamento della verità imposto, nel processo del lavoro, dal codice di rito; la Casa di Cura Provata YY si duole, in particolare, per la mancata audizione dei testi L. e D.C. (di riferimento); per la mancata ammissione della prova per interpello del legale rappresentante della società; e per la riduzione d'ufficio della lista testi. Con il terzo motivo, l'appellante incidentale censura la sentenza di primo grado per omissione dell'obbligo di accertamento della verità, imposto dall'art. 421 cod. proc. civ., in presenza di significative piste di indagine; in particolare insiste per l'audizione del teste L., direttore sanitario fino al 1996, e a conoscenza, in modo approfondito, dei fatti di causa, come risulta dai verbali prodotti di altro giudizio, tra l'INPS e la stessa Casa di Cura, nel corso del quale il predetto teste ha reso circostanziata deposizione in ordine ai fatti di causa con specifico riguardo agli accordi raggiunti tra le parti. Il primo giudice, quindi, a seguito della produzione delle copie autentiche degli atti raccolti nell'altro procedimento, avrebbe dovuto revocare l'ordinanza di riduzione della lista testimoniale ed escutere il prof. L., anche perché, sui capitoli di prova dedotti dalla controparte, era stato l'unico testimone indicato a controprova. La Casa di Cura Privata YY si duole, poi, per l'erroneità dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, con la quale il primo giudice ha dichiarato la decadenza dall'audizione dei testi L. e D.C., sia perché tali testi erano stati regolarmente citati, sia perché la suddetta decadenza è stata pronunziata d'ufficio e non ad istanza della parte avversaria. I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro evidente connessione, sono infondati. Va premesso che il primo giudice (v., sentenza, pag. 21) ha ridotto la lista dei testimoni perché ha ritenuto sufficientemente raggiunta la prova, sulla base del suo libero convincimento in ordine all'esame ed alla valutazione della prova e che, per lo stesso motivo, non ha sentito la teste di riferimento D.C. Il Tribunale, inoltre, ha dichiarato la decadenza dell'allora società convenuta dalla facoltà di sentire i testimoni non ascoltati - con particolare riguardo al prof. L. - perché, all'udienza del 17 aprile 1997, fissata per l'assunzione della prova orale, essa non aveva provveduto a citare i suoi quattro testimoni. Ciò premesso, in ordine alla doglianza secondo la quale il primo giudice avrebbe errato nel pronunciare tale decadenza in mancanza della apposita istanza della controparte, va detto che la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (v., Cass. 3690/04) ha puntualizzato che l'art. 104 disp. att. cod. proc. civ., prevedente la decadenza in ipotesi di mancata intimazione dei testimoni per l'udienza prefissata, va interpretato nel senso che il giudice dichiara la decadenza d'ufficio, senza necessità di preventiva istanza della controparte, salvo che quest'ultima richieda espressamente l'esame del teste non intimato, da espletare in una successiva udienza, dovendo per ragioni di coerenza ritenersi applicabile a tale ipotesi lo stesso meccanismo previsto dall'art. 208 cod. proc. civ. per l'ipotesi di non comparizione del difensore che ha intimato i testimoni, meccanismo che contempera le regole di speditezza e di concentrazione dell'assunzione dei mezzi di prova con il rispetto del principio di acquisizione. Va, poi, evidenziato che, nella specie, il Tribunale ha pronunciato correttamente la decadenza

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della parte allora convenuta dalla prova. Infatti, come risulta dalla ordinanza riservata dell'11 giugno 1996, il primo giudice aveva ammesso le richieste istruttorie per le prove orali formulate nella memoria di costituzione dalla Casa di Cura resistente e consistenti nell'istanza per l'ammissione di sette capitoli di prova con tre testimoni (Za., Ze. e Me.) e di due altri testimoni (L. e Ba.) a riprova sui capitoli indotti dall'allora ricorrente, contestualmente fissando l'udienza del 17 aprile 1997 per l'audizione di quattro testimoni per parte. All'udienza del 17 aprile 1997, la difesa della Casa di Cura ha citato quattro testimoni, di cui soltanto due (Ze. e Za.) sono stati sentiti; gli altri due (L. e Ba.), infatti, non sono comparsi. Il primo giudice ha, allora, rinviato per la prosecuzione della prova, per l'audizione di altri cinque testimoni, alla successiva udienza del 12 marzo 1998, per la quale però l'attuale appellante incidentale non solo non ha citato alcun testimone, ma non è neppure comparso; ha, quindi, fissato l'udienza del 15 ottobre 1998 per l'audizione di altri otto testimoni. Alla udienza successiva del 15 ottobre 1998, la Casa di Cura ha citato come testimoni la dott. D.C. e Ba., i quali, però, non sono comparsi; nella medesima udienza il primo giudice ha dichiarato chiusa l'istruttoria, ritenendo la causa sufficientemente istruita. Deve, quindi, ritenersi, alla luce della precedente ricostruzione dell'andamento dell'istruttoria, che il Tribunale abbia correttamente dichiarato la decadenza della Casa di Cura Privata YY dalla prova, ai sensi dell'art. 208 cod. proc. civ., perché all'udienza del 12 marzo 1998, fissata per l'audizione di cinque testimoni, ne sono stati ascoltati soltanto due (Mo. ed U.), entrambi citati dalla difesa del dott. XX, e la parte (Casa di Cura) ad istanza della quale doveva essere proseguita la prova non si è presentata ed ha omesso di citare i suoi testimoni. Ed, in tale prospettiva, è significativo osservare che, come risulta dal verbale della successiva udienza del 15 ottobre 1998, la parte interessata si è limitata a citare due testi - per altro non comparsi -; non ha, in qualche modo cercato di giustificare la propria condotta omissiva osservata alla precedente udienza, e, a fronte del provvedimento ordinatorio di chiusura dell'istruttoria, non ha neppure chiesto la prosecuzione della prova per testi. Ed, ancora, alla successiva udienza del 2 febbraio 1999, la difesa della Casa di Cura non si è doluta dell'ordinanza, resa nella precedente udienza del 15 ottobre 1998, con la quale il primo giudice aveva dichiarato chiusa l'istruttoria, e non ha insistito perché venissero ascoltati i testimoni non ancora ascoltati, mostrando, così, di accettare la decisione di chiudere l'istruttoria e, soprattutto, di non avere comunque interesse alla prosecuzione della prova. Richiamata, quindi, la giurisprudenza di legittimità secondo cui nel provvedimento di chiusura dell'istruttoria è implicita la declaratoria di decadenza della parte da una prova testimoniale già ammessa (v., Cass. n. 3502/87; n. 1740/99), va detto che, nella specie, per effetto della decadenza in cui è incorsa la parte attuale appellante incidentale, espressamente dichiarata dal primo giudice, non è possibile, in questo grado del giudizio, il ricorso ai poteri officiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. Infatti, come più volte ribadito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (v., Cass. 11873/03; n. 1719/01; n. 3355/01; n. 3505/02), non può essere riproposta in appello l'istanza volta ad ottenere l'ammissione di una prova testimoniale, dalla quale la parte sia già stata dichiarata decaduta in primo grado (nella specie per decadenza dalla assunzione), non vertendosi in una ipotesi di prova nuova ex art. 345 e 437 cod. proc. civ. Infatti, nei processi soggetti al rito del lavoro, la disposizione di cui all'art. 437, secondo comma, c.p.c. - in base alla quale l'ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova è subordinata alla tassativa condizione che essi siano ritenuti dal Collegio, anche d'ufficio, indispensabili ai fini della decisione della causa - deve essere interpretata nel senso che la suddetta ammissione non è consentita relativamente ai mezzi di prova rispetto ai quali le parti siano già incorse in una decadenza formalmente dichiarata dal giudice nel pregresso grado del giudizio, atteso che la natura della decadenza legale è inconciliabile con il concetto di revocabilità, soprattutto nel processo del lavoro, in cui la preclusione che consegue alla decadenza dall'esercizio di facoltà processuali è funzionale alle esigenze di concentrazione e rapidità che informano il suddetto rito (v., Cass. n. 11873/03). Di conseguenza, va confermata

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la decadenza dalla prova orale, già dichiarata dal primo giudice; va rilevato che l'attuale appellante incidentale - non avendo immediatamente contestato la ordinanza di chiusura dell'istruttoria pronunciata dal primo giudice - ha accettato il suddetto provvedimento istruttorio, implicitamente rinunciando all'escussione degli altri testimoni da essa indicati; e che, infine, l'ammissione d'ufficio dei testimoni L. e D.C. è preclusa, nel presente grado del giudizio, per effetto della decadenza dalla prova espressamente dichiarata dal Tribunale. Infine, in ordine alla mancata ammissione dell'interrogatorio formale del legale rappresentante della Casa di Cura, formulata dalla difesa della stessa parte, è sufficiente osservare che l'interrogatorio formale, così come previsto dagli articoli 228 e seguenti cod. proc. civ., è un mezzo di prova finalizzato a provocare la confessione giudiziale della parte avversaria, cioè la dichiarazione, volta a formare piena prova contro colui che l'ha resa ( art. 2733, comma 2, cod. civ.), sulla verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte ( art. 2730 cod. civ.). Di conseguenza, poiché l'interrogatorio formale è finalizzato a provocare la confessione giudiziale della parte avversaria, la Casa di Cura Privata YY non ha alcun interesse a dolersi del mancato espletamento nei confronti del suo legale rappresentante di questo mezzo di prova nel corso del giudizio di primo grado, dato che, in sostanza, ne ha tratto un vantaggio processuale, non avendo avuto l'occasione per rendere dichiarazioni ad essa sfavorevoli e favorevoli al dott. XX, destinate, come tali, a costituire piena prova contro di lei. II.3 Con il quarto motivo, l'appellante incidentale sostiene l'illegittimità della sentenza nella parte in cui ha acquisito, in via probatoria, le prove testimoniali ex adverso indotte nelle note di replica alla riconvenzionale del 14 maggio 1996, trattandosi di note non autorizzate ed il cui esame non poteva essere consentito atteso che il primo giudice aveva dichiarato non ammissibile la domanda riconvenzionale. Il motivo è infondato. Premesso che la Casa di Cura Privata YY non ha denunciato questo vizio, consistente, in sostanza, nella ammissione di una prova testimoniale irritualmente dedotta, entro la prima udienza successiva all'ammissione della prova ma, per la prima volta, soltanto con l'appello incidentale, va rilevato che trattasi di una nullità relativa, il cui verificarsi andava tempestivamente eccepito dalla parte interessata, ai sensi dell'art. 157, secondo comma cod. proc. civ., nella prima istanza o difesa successiva e che non può essere fatta valere in sede di impugnazione. La giurisprudenza della suprema Corte è, infatti, ferma nel ritenere che le nullità concernenti l'ammissione e l'espletamento della prova testimoniale hanno carattere relativo, derivando dalla violazione di formalità stabilite non per ragioni di ordine pubblico, bensì nell'esclusivo interesse delle parti e, pertanto, non sono rilevabili d'ufficio dal giudice, ma, ai sensi dell'art. 157, secondo comma, cod. proc. civ., vanno denunciate dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva al loro verificarsi (o alla conoscenza delle nullità stesse); intendendosi per istanza, ai fini della citata norma, anche la richiesta di un provvedimento ordinatorio di mero rinvio e la formulazione delle conclusioni dinanzi al giudice di primo grado. Ne consegue che dette nullità non possono essere fatte valere in sede di impugnazione (v., Cass. n. 15554/03; n. 17294/02). II.4 Con il quinto motivo, l'appellante incidentale denuncia l'illegittimità di ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio esplorativa volta ad acquisire dei documenti per i quali l'allora ricorrente non aveva richiesto l'esibizione ex art. 210 cod. proc. civ.; trattasi della documentazione relativa alle visite cardiologiche, eseguite in regime libero professionale, per le quali il dott. XX si era limitato ad affermare di non avere percepito i relativi compensi. Con il sesto motivo, l'appellante deduce la nullità della sentenza nella parte in cui il primo giudice, senza l'istanza ex art. 210 cod. proc. civ., ha ordinato d'ufficio alla Casa di Cura di esibire dei documenti. I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro intima connessione, sono inammissibili per carenza di interesse. Infatti, la doglianza della società appellante incidentale ha riferimento ad un capo della domanda del dott. XX, quello volto ad ottenere il riconoscimento della natura subordinata delle prestazioni ambulatoriali resa in regime libero professionale ed il pagamento dei compensi per l'attività asseritamente svolta negli anni 1993 -

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1994, che non ha trovato accoglimento ed è stata respinta. Ne consegue che la Casa di Cura appellante non è titolare di alcun interesse attuale per censurare le decisioni istruttorie assunte dal primo giudice al riguardo. Per altro, già si è detto, trattando l'appello principale, in ordine alla irritualità dell'ordine di esibizione dei documenti e della ammissione della consulenza tecnica d'ufficio nonché in ordine alla non utilizzabilità nel processo della documentazione così acquisita (v., pag. 61 e seguenti). II.5 Con il settimo motivo, l'appellante incidentale si duole che il primo giudice abbia conglobato nella retribuzione spettante come lavoratore dipendente il compenso che le parti avevano, espressamente, finalizzato a remunerare prestazioni di natura libero professionale, valorizzando elementi, quali le modalità di pagamento e l'importo fisso, di per sé non rilevanti e decisivi. Secondo la Casa di Cura, il primo giudice ha errato nell'attribuire maggiore peso alla dichiarazione dell'allora ricorrente anziché considerarla alla stessa stregua di quella opposta manifestata dal legale rappresentante della casa di cura dato che nessuna norma di legge né alcuna disposizione del c.c.n.l. 24 ottobre 1988 può legittimare tale interpretazione di favore; ha, altresì, errato nel non prendere in considerazione i documenti fiscali prodotti, relativi ad un arco temporale considerevole, in relazione alla condotta tenuta per anni delle due parti. La motivazione della sentenza è, sul punto, anche contraddittoria e insufficiente perché il primo giudice, senza alcuna indagine in ordine alla volontà contrattuale delle parti, - ma solo sulla base delle dichiarazioni di parte - ha ritenuto connesse alle prestazioni di lavoro dipendente quelle compensate, dal 1982, con una remunerazione "fuori busta", omettendo, altresì di considerare che, per il periodo precedente, quelle stesse prestazioni erano state ritenute di natura autonoma. Con l'ottavo motivo, l'appellante incidentale sostiene che la voce retributiva indennità professionale è stata introdotta solo dal contratto collettivo del 1991 e pertanto il primo giudice non poteva riconoscerla fin dal 1982. Il Tribunale era, altresì, tenuto a spiegare, in modo convincente, la qualificazione della voce retributiva indennità professionale, in relazione alla circostanza che - per contratto collettivo - detta voce può rientrare in busta o in fattura; tale accertamento era indispensabile perché il primo giudice aveva già escluso che la stessa voce potesse costituire retribuzione in busta per il primo periodo del rapporto di collaborazione sia perché, in busta, la detta voce è stata inserita solo nel 1994. Con il nono motivo, l'appellante incidentale denuncia l'illegittimità della sentenza nella parte in cui applica al contratto di collaborazione tra le parti la disciplina del pubblico impiego anziché quella propria del contratto collettivo del settore. Nella specie, poi, non può, nella specie, essere riconosciuta la tredicesima mensilità sull'indennità specialistica posto che le indennità di cui agli articoli 41 - 45 del c.c.n.l. devono essere corrisposte solo per 12 mesi. Con il decimo motivo, la società appellante denuncia l'errore di diritto nella parte della sentenza nella quale il primo giudice ha attribuito valore riconoscitivo o confessorio ad una frase estratta dalla comparsa costitutiva, di valenza contraria alle difese esplicitate in corso di causa ed in violazione di norma avente contenuto e finalità di presunzione legale nonché in violazione dell'art. 115 cod. proc. civ. in riferimento all'art. 2728 cod. civ. Trattasi della frase nella quale era stato riferito che il nuovo Consiglio di Amministrazione aveva riconosciuto la natura di elemento retributivo di un particolare emolumento corrisposto al dott. XX, facendolo oggetto di condono. Il primo giudice non ha, però, considerato che detto condono era stato proposto con riserva di ripetizione. Con l'undicesimo motivo, la Casa di Cura Privata YY denuncia l'illegittimità della sentenza nella parte in cui il primo giudice - sempre con riferimento al compenso per le prestazioni libero professionali, ha applicato il principio della non riducibilità della retribuzione, trattandosi di un compenso relativo ad un rapporto libero professionale non soggetto alle disposizioni contenute nell'art. 2103 c.c., che per contratto collettivo non poteva essere valutato nel caso di trasformazione del rapporto da libero professionale a subordinato (trasformazione nella specie avvenuta dall'1 maggio 1994). I cinque motivi, da esaminare congiuntamente perché vertono tutti sul compenso fisso erogato "fuori busta" al dott. XX, sono infondati. Va premesso che il primo giudice ha ritenuto la

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natura retributiva del compenso fisso mensile - erogato fuori busta e dietro rilascio di fattura, pari dal mese di giugno 1982 a Lire 974.934, ed in seguito progressivamente elevato, sia sulla base delle modalità di corresponsione, sia perché lo ha considerato riferibile esclusivamente alle mansioni di responsabile del reparto di medicina espletate dal dott. XX come lavoratore dipendente dal gennaio 1982. Il Tribunale ha, poi, avvalorato il suo convincimento osservando che lo stesso Consiglio di Amministrazione della Casa di Cura ne aveva riconosciuto la natura retributiva, facendolo oggetto di condono previdenziale; ha, quindi, ritenuto l'importo di tale compenso, per il periodo successivo alla sua formale inclusione nella busta paga del lavoratore, dovesse essere calcolato in Lire 2.400.000 e che, pertanto, fosse illegittima la decurtazione a Lire 1.950.000 operata dalla società appellante incidentale; ha, infine, statuito che il predetto emolumento fosse considerato anche ai fini del computo delle voci retributive indirette, ivi compresa la tredicesima. Ciò detto, il primo argomento prospettato dalla società appellante incidentale, secondo cui il giudice avrebbe errato nel desumere la natura retributiva dell'emolumento dalle sue modalità di corresponsione, trascurando la volontà delle parti e le disposizioni contrattuali collettive contenute nel c.c.n.l. del 24 ottobre 1988, in forza delle quali i medici dipendenti delle Case di Cura possono contemporaneamente svolgere attività libero professionale e, in caso di trasformazione del rapporto da autonomo a subordinato, il periodo di collaborazione esplicato presso la Casa di Cura non può essere computato ai fini della disciplina dell'instaurando nuovo rapporto di lavoro subordinato, è palesemente infondato. A parte il rilievo che, in ordine alla natura di questo compenso fisso, istituito nel giugno 1982, non sembra logicamente possibile trarre argomenti dalle disposizioni contenute in contratti collettivi stipulati in epoca ampiamente successiva, va, al riguardo, posto in evidenza che il primo giudice ha collegato la natura retributiva del compenso fisso non solo alle sue modalità di erogazione, ma osservando che questo non era riferibile ad attività diverse da quella ordinaria svolta dal dott. XX come responsabile del reparto di medicina. L'affermazione del Tribunale merita di essere condivisa soprattutto perché risulta coerente con le risultanze della prova orale, dalle quali è emerso che il dott. XX era stato chiamato a rendere, per conto della Casa di Cura, due diversi tipi di prestazione; una prima - di natura subordinata -, quella di responsabile di raggruppamento, avente ad oggetto la direzione, l'organizzazione del reparto di medicina e lo svolgimento delle mansioni proprie di medico, fra le quali anche quelle di consulenza a favore di pazienti interni ricoverati anche presso altri reparti; ed una seconda - di natura libero professionale - concernente attività ambulatoriale cardiologica svolta per clienti esterni, paganti in proprio o in regime di convenzione. Poiché le concordanti deposizioni di tutti i testimoni (P., B., Ma., Mo., U., Pr. e P.) hanno posto in luce che, nell'ambito dell'orario di lavoro svolto in qualità di dipendente, il dott. XX dirigeva il reparto di medicina e, se richiesto, rendeva consulenze ai pazienti ricoverati anche in altri reparti, deve ritenersi che, ancorché corrisposto dietro emissione di fattura, il compenso fisso, di cui trattasi, debba essere collegato al rapporto di lavoro subordinato, come, del resto, confermato anche della sue concrete modalità di erogazione. Nella fattispecie, tenuto, altresì, conto che le consulenze ai pazienti ricoverati erano svolte nel corso dell'orario di lavoro ed erano prestazioni accessorie a quelle tipiche del medico, può essere utilmente invocato il principio, secondo cui nel caso di espletamento da parte del lavoratore subordinato di una pluralità di mansioni in favore del medesimo datore di lavoro, sono riconducibili nell'ambito di un unico rapporto, secondo la qualifica corrispondente alla mansione principale, le attività a queste collegate da un vincolo di accessorietà, mentre sono inquadrabili in un distinto rapporto le prestazioni che siano svolte in orari diversi e siano autonomamente contemplate dalla contrattazione collettiva (v., Cass. n. 14502/00). Nella specie, poi, neppure le sopravvenute disposizioni contrattuali collettive del 1988, invocate dall'appellante incidentale, contraddicono queste conclusioni, dato che l'articolo 14 del contratto collettivo si limita ad ammettere la possibilità di coesistenza, nell'ambito del rapporto di lavoro dei medici presso le case di cura private, di attività libero - professionali e

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l'art. 12 stabilisce che, in caso di trasformazione del rapporto da autonomo a subordinato, il periodo di collaborazione espletata a regime professionale non può essere computata ai fini della disciplina dell'instaurando rapporto. La seconda disposizione, infatti, non è all'evidenza applicabile nel caso in esame, nel quale si discute della natura di un compenso pattuito fra le parti (nel giugno 1982) dopo la trasformazione del rapporto da libero professionale a subordinato, avvenuta nel precedente mese di maggio 1982 e, poi, retrodatata al gennaio 1982; mentre la prima si limita a consentire l'astratta possibilità della coesistenza, fra le stesse parti, di due distinti rapporti aventi differenti natura, senza, però, fornire elementi utili per chiarire la natura del compenso di cui trattasi. Anzi, poiché nel caso di specie, il compenso fisso veniva erogato per le prestazioni di lavoro subordinato rese dal dott. XX, né è stata dimostrata l'esistenza di una specifica ed ulteriore causale autonoma, come sarebbe stato necessario giacché il medico già aveva in corso con la casa di cura una rapporto di lavoro subordinato ed uno libero professionale, deve ritenersi che, correttamente, il primo giudice abbia attribuito natura retributiva all'emolumento di cui trattasi. Tale conclusione è, indirettamente, confermata dal comportamento tenuto dalla Casa di Cura appellante incidentale, che - come è testualmente riportato nella sua memoria di costituzione in primo grado (pag. 15) - "ne ha riconosciuto la natura di elemento retributivo facendolo oggetto di condono previdenziale come risulta dalla documentazione allegata". In ordine alla questione del condono previdenziale, va precisato che nelle domande di regolarizzazione presentante all'INPS ed all'INAIL, prodotte con la memoria di costituzione in primo grado (doc. 25 e 26), non vi è traccia della clausola di riserva di ripetizione. Anche nel successivo corso del presente giudizio, non risulta provata l'esistenza di un'autonoma clausola di ripetizione, contenuta in un diverso documento. Infatti si ha traccia della riserva di ripetizione soltanto dalla copia del verbale di udienza del 4 ottobre 1995 di un diverso procedimento promosso dalla Casa di Cura YY contro l'INPS (doc. 10, prodotto dalla Casa di Cura in allegato alla memoria depositata il 28 febbraio 2001). Per altro, dall'attenta lettura di quel verbale d'udienza, emerge che, anche in quella sede, non venne depositato un documento contenente la riserva di ripetizione, ma che fu soltanto allegato - neppure dal legale rappresentante della Casa di Cura bensì dal difensore - che si sarebbe trattato di "domanda effettuata senza riconoscimento alcuno delle pretese dell'INPS". In altri termini, non solo non vi è prova dell'apposizione alla domanda di condono di una clausola di riserva di ripetizione ma, stando al tenore letterale della riportata dichiarazione del difensore della Casa di Cura, sussistono più che fondati dubbi per ritenere che l'attuale appellante incidentale avesse, realmente, la volontà non tanto di contestare astrattamente la pretesa dell'INPS bensì di agire concretamente in giudizio per ottenere la ripetizione delle somme pagate in esecuzione del condono. Ciò posto, ed osservato che l'appellante incidentale non ha provato né di essersi concretamente avvalsa della detta clausola né l'esistenza di una un provvedimento giudiziario, anche non definitivo, che abbia ritenuto che l'emolumento in questione non era riconducibile al rapporto di lavoro subordinato intercorrente tra le parti, va evidenziato che, quale che sia il valore giuridico da attribuire alla domanda di condono, l'elemento essenziale per la qualificazione del compenso è costituito dal fatto che le prestazioni specifiche che esso valeva a remunerare erano state rese durante l'orario di lavoro ed avevano natura accessoria rispetto all'attività principale di responsabile del reparto. Ne consegue, quindi, che la presentazione della domanda di condono, seguita dall'effettivo pagamento del debito e dal mancato esercizio dell'azione di ripetizione, pur non potendo assumere valore confessorio e di per sé decisivo, rappresenta per sempre un rilevante elemento indiziario, che, essendo coerente con le altre risultanze istruttorie, avvalora le conclusioni raggiunte. Ed, ancora, va osservato che il predetto compenso, come è pacifico in causa ed emerge dalle buste paga, è stato conglobato nella retribuzione a fare tempo dal mese di maggio 1994, sia pure nella più ridotta misura di Lire 1.944.000, rispetto al più elevato importo di Lire 2.400.000 nel frattempo pattuito. Anche tale comportamento della Casa di Cura è significativo, nel senso che conferma la natura retributiva di questo compenso fisso. Infatti, come si può

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evincere dall'esame della memoria di costituzione dell'appellante incidentale in primo grado (pag. 5) l'inserimento in busta paga non è conseguito ad un contrattuale accordo novativo, ma è dipeso da una iniziativa unilaterale del datore di lavoro, che volle gravare la detta somma di Lire 2.400.000 "dei prelievi retributivi e contributivi di legge" per poi versarla "al netto" al dott. XX. Sulla base di tale premessa, risultano, poi, infondate due ulteriori censure mosse dall'appellante incidentale. In ordine alla prima, secondo cui non poteva essere riconosciuta la tredicesima mensilità su questo compenso fisso, inserito in busta paga come "indennità specialistica", perché le vigenti disposizioni contrattuali collettive (art. da 41 a 45 e art. 50 del c.c.n.l. del 1988) espressamente prevedono che queste speciali indennità vengano corrisposte per dodici mesi e non le includono nella base retributiva per il calcolo della tredicesima, va osservato che il compenso fisso di cui trattasi, nemmeno quando è stato inserito in busta paga, può essere ricondotto ad una delle speciali indennità erogabili per solo dodici mesi; non a quelle previste negli articoli 41 e 42 (indennità di medico di casa di cura e indennità professionale) perché esse riguardano personale con orario di lavoro di almeno 38 ore; non a quelle regolamentate negli articoli 44 e 45 (indennità medica per aiuti ed assistenti e indennità di direzione sanitaria per i medici responsabili) perché esse spettano a categorie di lavoratori con incarichi diversi da quello ricoperto dal dott. XX; non infine, a quella di cui all'art. 43 lett. b (indennità di medico responsabile) perché essa è stata istituita dal primo gennaio 1991, cioè da epoca ampiamente successiva a quella (giugno 1982) nella quale è stato pattuito fra le parti il compenso fisso di cui trattasi. L'unica norma rilevante è, pertanto, l'articolo 50, che include nella base di calcolo della tredicesima lo stipendio mensile, le classi stipendiali e gli aumenti periodici, l'indennità integrativa speciale, l'eventuale assegno ad personam e il superminimo. Nella specie, poiché l'elemento retributivo di cui trattasi è stato erogato quale corrispettivo della prestazione complessivamente resa dal dott. XX ed aveva la funzione di compensare le mansioni contrattuali ordinarie del medico, consegue che esso rientra tra le spettanti facenti parte, ai sensi del citato articolo 50 del c.c.n.l., della retribuzione imponibile ai fini del calcolo della tredicesima. Ed, ancora, è infondata la censura secondo cui, poiché fino al 30 aprile 1994, il detto compenso sarebbe stato connesso ad un rapporto di lavoro autonomo, le parti erano libere dall'1 maggio 1994 di ricondurre l'emolumento al lavoro subordinato, riducendone l'importo senza violare il principio della non riducibilità della retribuzione. In senso contrario è, però, sufficiente osservare che, anche prima del mese di maggio 1994, il compenso di cui trattasi era collegato alla prestazione resa nell'ambito di un preesistente rapporto di lavoro subordinato, di guisa che il suo inserimento in busta paga - per altro quale effetto di una decisione unilaterale del datore di lavoro - non poteva determinarne alcuna riduzione in termini quantitativi, non potendo che essere erogato, stante il divieto di riduzione previsto dall'art. 2103 cod. civ., nel medesimo e precedente valore numerario. Va, poi, escluso che il dott. XX, avendo percepito per nove mesi (dall'1 maggio 1994 al 31 gennaio 1995) la somma di Lire 21.384.000 avrebbe migliorato la propria posizione economica rispetto a quella risultante nel precedente e corrispondente periodo di nove mesi, nel quale aveva ottenuto Lire 19.200.000. Se, sotto il profilo matematico, l'affermazione dell'appellante incidentale non pare esatta perché il prodotto di 9 - quanti sono i mesi in considerazione - per Lire 1.944.000 dà Lire 17.496.000 ed il prodotto di 9 per Lire 2.400.000 dà la somma superiore di Lire 21.600.000, va posto in evidenza che il maggior guadagno per il medico prospettato dalla Casa di Cura dipende dall'inserimento in busta paga della somma di Lire 1.944.000, dal quale è conseguito un effetto riflesso sulla tredicesima e sul trattamento di fine rapporto. L'infondatezza della deduzione appare, allora, evidente qualora si consideri che tali effetti - su tredicesima e t.f.r. - li avrebbe comunque prodotti - ed in misura maggiore - anche la somma di Lire 2.400.000. II.6 Con il dodicesimo motivo, l'appellante incidentale sostiene che la sentenza è illegittima nella parte in cui ha condannato la casa di cura al pagamento della somma di Lire 71.286.928,

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sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, senza prendere in considerazione le eccezioni della resistente, formulate sulla base dei rilievi del proprio consulente di parte. Il motivo è infondato. Al riguardo, è sufficiente evidenziare che, secondo costante giurisprudenza della Suprema Corte (v. Cass. n. 5151/98; n. 1863/95; n. 245/95; n. 3527/89 ed altre), le consulenze di parte costituiscono semplici allegazioni difensive a contenuto tecnico, in relazione alle quali il giudice non è tenuto a discuterne i risultati, così come non è tenuto, qualora ponga a base del suo convincimento, conclusioni incompatibili con quelle della consulenza di parte ed esponga le fonti e le regioni del proprio convincimento, ad indicare i motivi per cui disattende la diversa opinione di detto consulente, dovendo questa ritenersi rifiutata anche per implicito. Nella specie, il primo giudice, nel riportarsi integralmente alle conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio (v., sentenza pag. 14), ha posto a fondamento della sua decisione gli esiti della indagine tecnica d'ufficio incompatibili con quelli della consulenza di parte, ed, implicitamente, ne ha disatteso i rilievi. II.7 Con il tredicesimo motivo, l'appellante incidentale censura l'impugnata sentenza per difetto di motivazione in ordine alla eccezione di prescrizione quinquennale. Il motivo è infondato. In realtà, il primo giudice (v., sentenza pag. 20) ha respinto l'eccezione di prescrizione quinquennale sollevata dalla resistente Casa di Cura, osservando che "la qualità di dirigente, che comporta la non applicabilità della tutela reale, impedisce allora anche l'applicabilità della prescrizione quinquennale nel corso del rapporto, questa pertanto comincia a decorrere dalla cessazione del rapporto". Il Tribunale di Piacenza, rigettando l'eccezione di prescrizione quinquennale sulla base di un'argomentazione in diritto - più o meno fondata -, non è, quindi, incorso nel denunciato vizio di omessa motivazione e, poiché l'affermazione del primo giudicante, secondo cui, nella specie, il termine di prescrizione avrebbe cominciato a decorrere dalla cessazione del rapporto, non è stata espressamente censurata dall'appellante incidentale, rimane precluso, per la formazione sul punto del giudicato interno, l'esame di ogni ulteriore questione relativa alla predetta eccezione di prescrizione quinquennale. II.8 Con il quattordicesimo motivo, l'appellante incidentale si duole della compensazione delle spese disposta dal primo giudice; con il quindicesimo motivo lamenta l'illegittimità della sentenza, nella parte in cui le spese per la consulenza tecnica sono state poste a carico delle due parti in eguale misura. Entrambi i motivi sono infondati. Va premesso che l'art. 91, primo comma, del codice di procedura civile stabilisce che il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, "condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parta e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa". L'art. 92, comma II, cod. proc. civ. consente al giudice di compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti, se "vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi". Secondo la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione (v. Cass. n. 9840/96; n. 2124/94 e numerose altre) in tema di regolamento delle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che, soltanto, la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, neanche per una minima quota, al pagamento delle spese stesse, mentre, qualora ricorra soccombenza reciproca, è rimesso all'apprezzamento del giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità, decidere quale delle parti debba essere condannata e se ed in quale misura debba farsi luogo a compensazione. Inoltre, i giusti motivi di compensazione delle spese processuali non presuppongono necessariamente la reciproca soccombenza e possono sussistere anche nei confronti della parte totalmente vittoriosa; infine poiché la compensazione delle spese corrisponde ad una valutazione discrezionale del giudice, il relativo potere non richiede una specifica motivazione ed è incensurabile in sede di legittimità, salvo che i motivi addotti risultino illogici o contraddittori (v. Cass. n. 4997/1998). Quanto al caso di specie, questa Corte condivide la decisione del primo giudice di disporre la compensazione delle spese e di porre quelle per la consulenza tecnica a carico di entrambe le parti in eguale

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misura, in considerazione della particolare complessità della controversia e del solo parziale accoglimento delle domande prospettate dal dott. XX. L'appello incidentale proposto dalla Casa di Cura Privata YY va quindi rigettato. II.9 Va, infine, disattesa l'eccezione - sollevata dall'appellante incidentale all'udienza di discussione - di tardività della costituzione del dott. XX nel procedimento avviato a seguito della proposizione dell'appello autonomo da parte della Casa di Cura, osservando che, per costante giurisprudenza della Corte di Cassazione (v., Cass. n. 5015/02; n. 11389/98 ed altre), secondo quanto disposto dalla legge n. 742 del 1969, le controversie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatoria non sono soggette alla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, anche in relazione all'appello e al ricorso per cassazione. Poiché sono stati rigettati entrambi gli appelli, principale ed incidentale, si stima equo compensare integralmente fra le parti anche le spese del presente grado del giudizio. P.Q.M. La Corte, ogni contraria istanza disattesa e respinta, definitivamente decidendo, rigetta gli appelli principale ed incidentale rispettivamente proposti da ... e dalla Casa di Cura Privata .... s.r.l. avverso la sentenza del Tribunale di Piacenza del 3 aprile 2001 n. 90; compensa le spese del presente grado del giudizio. Così deciso in Bologna il 23 settembre 2004.

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