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Cari animatori ed educatori tutti, anche quest

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Page 1: Cari animatori ed educatori tutti, anche quest
Page 2: Cari animatori ed educatori tutti, anche quest

Introduzione……………………………..…..……………………………………………………………………………………….Pagina 3

Struttura…………………………………...…..……………………………………………………………………………………….Pagina 4

Scheda 1. Cercatori di speranza…..……………………………………………………………………………………….Pagina 5

Scheda 2. Pellegrini dell’amore…...……………………………………………………………………………………..Pagina 10

Scheda 3. Chiamati a scegliere……………………………………………………………………………………………..Pagina 14

Scheda 4. Face to face……… ..……………………………….……………………………………………………………..Pagina 18

Voglio parlare al tuo cuore...…………………………………………………………………………...Pagina 21

Amati e chiamati ad amare………………..……………………………………………………………..Pagina 25

Lasciati sorprendere dall’Amore di Dio...………………………………………………………..Pagina 29

Alla scoperta di quel volto innamorato di noi………………………………………………….Pagina 33

Appendice………………………………………………..………………………………………………………….Pagina 38

Testimoni………………………………………………..………………………………………………………….Pagina 39

Page 3: Cari animatori ed educatori tutti, anche quest

Cari animatori ed educatori tutti, anche quest’anno, per il secondo anno consecutivo, abbiamo vissuto e viviamo un momento storico che ci ha privato di molte delle nostre abitudini e certezze, ma noi non ci lasciamo abbattere dalle situazioni che potrebbero sembrare negative anzi, da buoni seguaci di Gesù Cristo, abbiamo il dovere di trasformare in positivo tutto ciò che invece così non sembra. Ed eccoci nuovamente insieme, allora, a vivere un’esperienza unica, come quella GrEst Diocesano.

Il percorso di formazione degli animatori ha l’obiettivo di poter vivere delle tappe che li aiutino ad entrare dentro il tema e a predisporre il cuore, la mente e il corpo alla missione che il Signore ci affida nel prenderci cura dei ragazzi nei giorni del GrEst.

Noi come Giona, siamo chiamati a dire il nostro “eccomi” alla missione, ma come lui a volte non riusciamo ad entrare nella logica dell’amore di Dio, un amore che è senza confini e ci rende fratelli.

La formazione degli animatori è strutturata in quattro schede, tre incontri e un’esperienza di adorazione.

Il cammino proposto parte dall’invito alla speranza, dall’uscire dalle paure che schiacciano i sogni, per ri-scoprirci pellegrini dell’amore e quindi chiamati a scegliere di vivere “un amore senza confini”.

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Le prime tre schede offrono:

L’ultima scheda, “Face to face con Gesù”, offre quattro spunti di adorazione, poichè il messaggio del GrEst parla alla vita di ciascun animatore e per rispondere alla chiamata e poter partire per la missione con i più piccoli, bisogna prima fermarsi e mettersi davanti al Maestro che parla ai cuori.

Le schede non sono rigide, ma offrono diversi spunti per poter vivere la tematica con gli educatori in uno o più incontri. Sarà cura di ogni educatore far vivere la scheda nelle forme più adatte ai propri animatori.

I video delle testimonianze si trovano sul canale YouTube del centro per l’evangelizzazione. Gli approfondimenti sul “Libro di Giona” e l’enciclica “Fratelli tutti”, si trovano in appendice al “Sussidio per gli animatori”.

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In un tempo segnato dall’incubo della pandemia da Covid-19 dalla quale ci siamo tutti risvegliati più fragili e disorientati, abbiamo preso coscienza dei nostri limiti e soprattutto che le certezze sulle quali avevamo costruito la nostra autosufficienza economica, sociale ed esistenziale, fossero in realtà effimere e illusorie. È come se all’improvviso l’umanità si fosse scoperta orfana della capacità di sognare, di credere nelle proprie capacità, di stringersi attorno a quei valori capaci di elevarla, per volgere il suo sguardo oltre la precarietà del presente fino alla scoperta di quei nuovi orizzonti dai quali poter ripartire. Assistiamo così, sempre più, all'erosione continua di quei sogni, di quegli ideali- pace, amore, giustizia, solidarietà, bene comune- che vengono soppiantati da un vero e proprio decostruzionismo che tende a rimuovere il passato, promuovendo una cultura egoistica ed egocentrica dove l’altro non trova spazio. In questo modo, l’appello di papa Francesco diventa sempre più attuale perché ci invita ad andare verso l’altro, attraverso la cura del mondo e di se stessi, per riscoprire il valore della fraternità e dell’amicizia sociale, raggiungibile solo attraverso una conversione integrale e radicale dell’essere umano.

Vangelo secondo Luca 19, 1-10

Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «E' andato ad alloggiare da un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo; il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

L’incontro tra Gesù e Zaccheo continua ad affascinarci, ma soprattutto diventa una vera e propria icona che si contrappone all’incapacità dell’uomo moderno di andare verso l’altro, di superare i pregiudizi che ci separano e che ci inducono a distruggere gli altri attraverso un vortice di integralismo e fanatismo che uccide e anestetizza l’umanità. Nel brano, infatti, emerge un agire di Gesù che in ogni circostanza e in ogni suo gesto o sguardo promuove una nuova comunicazione, una nuova cultura, che squarcia gli stereotipi culturali e religiosi e frantuma tutto ciò che offende la dignità dell’essere umano, nonostante l’altro sia diverso o lontano da noi, non solo geograficamente, ma anche a livello esistenziale.

Già la sua entrata a Gerico, situata geograficamente nella più bassa latitudine del pianeta, appare come un vero e proprio manifesto di un nuovo umanesimo dove Dio si fa prossimo all'uomo, alle sue necessità, al suo senso di precarietà. Gerico così diventa la metafora di un’umanità fragile e bisognosa d’amore, ripiegata su un materialismo che monetizza e mercifica la vita e di cui Zaccheo è l’interprete principale, che incarna la tentazione dell’uomo di cercare la sua felicità escludendo gli altri, ma che allo stesso tempo sente un vuoto in se stesso che solo l’amore può colmare.

L’iniziativa di Gesù, allora, coglie di sorpresa i presenti ma soprattutto spiazza Zaccheo e il suo mondo sordo e cieco nei confronti del prossimo.

L’incipit di Gesù, così, diventa un invito alla speranza, ad uscire da quel confinamento e da tutte quelle paure che assalgono le nostre vite e che imprigionano e schiacciano i nostri sogni, creando

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così nuovi legami, relazioni aperte che includono e che cambiano la vita di tutti e delle realtà in cui viviamo “la vita sussiste dove c’è legame, comunione, fratellanza; ed è una vita più forte della morte quando è costruita su relazioni e legami di fedeltà. Al contrario, non c’è vita dove si ha la pretesa di appartenere solo a se stessi e di vivere come isole: in questi atteggiamenti prevale la morte”.

La reazione di Zaccheo, quindi è consequenziale all’agire di Gesù, perché “l’amore crea legami e allarga l’esistenza quando fa uscire la persona da se stessa verso l’altro”.

Più le nostre relazioni sono aperte, inclusive, solidali, capaci di prendersi cura e andare verso gli altri, più la nostra conversione sarà autentica e capace di generare amore.

(Da “Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale”, capitoli 1-2)

Don Michele Martorana (video testimonianza di Don Giuseppe Morreale)

Ignazio Amato (video testimonianza di Vincenzo Scrudato)

“Abbi cura di me” di Simone Cristicchi

Guardare il cielo in un’epoca che ci opprime con emergenze, drammi, cinismo pratico non è semplice tornare a guardare il cielo; scavare e riscoprire parole che potrebbero forse suonare banali è insomma un impegno difficile e complesso. Questo potrebbe essere uno dei significati di questo verso.

Ma potrebbe anche significare che queste parole sono parole fondanti, frutto di una ricerca profonda.

Una canzone che parla di perdono, sogno e speranza. In questo senso il significato della canzone rimanda direttamente a qualcosa di fortemente spirituale e religioso.

L'artista stesso ha dichiarato che la canzone è una preghiera d'amore universale e che può essere dedicato ad una compagna, ad un amico, al proprio Dio.

Un albero stilizzato con dei post-it a forma di foglia su cui sono scritte: fiducia, speranza, andare oltre, non fermarsi, agire con il cuore, amore, ripartire da se stessi, amicizia, andare verso l’altro, fraternità. Rappresenta la possibilità di uscire fuori da tutto ciò che ci impedisce di volgere il nostro sguardo verso il cielo.

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“Ai piedi del sicomoro”

Viviamo sempre più in una società materializzata, svuotata di ogni significato, frutto delle regole e dei valori che gli influencer di turno ci propongono, imponendoci così il loro pensiero che diventa sempre più una dittatura del pensiero unico. Riuscire così a svincolarci da questo meccanismo che tritura e annienta le nostre identità diventa sempre più difficile. Così come Zaccheo, finiamo per essere risucchiati da un sistema che vende e sponsorizza una felicità che dopo un’apparente sensazione di benessere, crea in noi un senso di disorientamento e come Zaccheo sentiamo il bisogno di elevarci e metterci alla ricerca di qualcosa che conta veramente: Dio.

Viene proposto agli animatori l’ascolto di un video con delle immagini che richiamano alla cultura del successo e dell’autoreferenzialismo. Una voce fuori campo legge alcuni brani estratti da libro “Sempre” di Maurizio Maggiani e don Luigi Verdi. Segue una riflessione da parte degli educatori e gli animatori riceveranno un foglio con la biografia di uomini e donne che hanno puntato tutto sul successo ma che poi hanno riconvertito la loro vita aprendola agli altri e alla solidarietà (es. Nicola Legrottaglie, Claudia Koll, Vittorio Messori, etc).

Verranno preparate delle domande usando la piattaforma “Mentimeter” (www.mentimeter.com) che offre la possibilità di rispondere usando il proprio smartphone e in forma anonima. Successivamente verrà chiesto agli animatori di rispondere alle domande precedentemente preparate. Le risposte potranno essere condivise su uno schermo e permetteranno di avviare un confronto.

“L’ultimo sogno” di Irwin Winkler, 2001 (durata 124 minuti).

Per tutta la vita l'architetto George Monroe non ha fatto altro che rincorrere il suo grande sogno: costruire una casa su una scogliera a picco sul mare. Ma il suo è un obiettivo pagato a caro prezzo: una famiglia distrutta ed una vita privata ridotta in macerie. Alla soglia dei cinquant'anni George scopre di essere malato di tumore allo stato terminale e di avere ormai poco tempo a disposizione. Decide allora di realizzare l'ultimo suo sogno: riappacificarsi con il figlio. Il film racconta così la difficile relazione e convivenza tra padre e figlio, in un continuo scontro generazionale che mette a nudo le loro fragilità, ma che porterà entrambi a una rilettura della propria vita attraverso una conversione dei propri stili di vita, fino alla scoperta della dimensione e del linguaggio dell’amore nel quale ritrovano se stessi e la loro identità.

“The family man” di Brett Ratner, 2000 (121 minuti)

Attraverso una commedia vivace e intelligente, il film ci invita a riflettere e a ripensare sulle nostre scelte e su come da esse dipenda la nostra vita e la nostra stessa felicità. È un invito a rileggere se stessi, il modo di vivere le proprie relazioni e il significato che diamo ad esse. Attraverso questo viaggio in un mondo alternativo, che è anche introspettivo, il protagonista scopre la bellezza di una vita vissuta e fatta solo di quella essenzialità che rende bella e piena la nostra vita: la famiglia, il donarsi gratuitamente agli altri, la gioia dello stare insieme che si contrappongono e svelano il vero volto di quei valori materiali che svuotano

e mercificano le nostre esistenze e le nostre relazioni rilegandoci in un egocentrismo dispotico illusorio che uccide la nostra anima.

“L’amore inatteso” di Anne Giafferi, 2010 (89 minuti)

L'amore inatteso apre una discussione pubblica sulla scoperta di Dio, su come la fede possa cambiare - in meglio - la nostra vita, sui pregiudizi che spesso circondano il fenomeno religioso. Lo fa attraverso una commedia dove una famiglia agiata, laica, disinteressata al tema delle fede, anzi, con l'attitudine a considerare la religione come una fiaba per anime belle e a deriderla, quando capita l'occasione con gli amici. In seguito al colloquio con l'insegnante del figlio Arthur, il padre Antoine comincia a frequentare, con scetticismo, un po' per inerzia, il catechismo parrocchiale. Sarà

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per lui l'inizio di un viaggio alla scoperta di Dio, della fede e di se stesso. La fede così diventa non un’esperienza astratta e fine a se stessa, ma bensì un’esperienza che si contrappone a quell'ambiente illuminista e intellettuale che continua ad etichettare e a emarginare Dio come un qualcosa di anacronistico, ma che invece diventa una realtà che tocca in profondità il cuore dell'uomo e lo porta a reimpostare la sua esistenza e i suoi rapporti alla luce di una "rivelazione" incomprensibile per quanti si limitano a osservare dalla superficie la questione della fede e di Dio.

“L’ultima estate” di Pete Jones, 2003 (90 minuti)

Pete è l’ultimo di sei figli di una tipica famiglia irlandese anni Settanta: è un ragazzo vivace e curioso, con il desiderio di scoprire e cambiare il mondo. Quando la sua insegnante suora gli intima di mettere fine alle sue marachelle per non incorrere nell’ira di Dio, Pete decide di guadagnarsi in Paradiso facendo convertire un non cristiano. Fa così la sua proposta a Danny, suo coetaneo e figlio del rabbino, a cui chiede di affrontare diverse prove perché entrambi possano andare in Paradiso. In realtà Danny è gravemente malato, tra i due si instaurerà una bella e profonda amicizia, che permetterà sì a Pete di conoscere Dio, ma non attraverso una serie di precetti da osservare, bensì attraverso la vita e le relazioni pienamente vissute. Crescere nella fede è essere tesi tra il desiderio “bambino” di giungere in Paradiso e la capacità “adulta” di distinguere i precetti osservati per mero timore dalla volontà di Dio ricercata nel quotidiano, attraverso il confronto con gli altri.

“Sulla fede” di Giorgio Pressburger, Einaudi Editore

La fede non è semplicemente una convinzione: è un sentimento di altra natura con una sua esplicita specificità, come ricorda Claudio Magris nella prefazione al saggio di Giorgio Pressburger. La fede afferra e fa afferrare, attrae e trasforma. Pressburger indaga il concetto di fede partendo da una personale autobiografia letteraria. I compagni di viaggio sono autori come Dostoevskij e Kafka, ma anche filosofi come Kant e scienziati come Einstein. Un percorso che va oltre la ricostruzione storica e religiosa e affronta la dinamica e il movimento che permettono agli uomini e alle loro opere di attraversare la grazia della fede. Da dove viene quell'enorme energia psichica e fisica? si chiede Pressburger. Quale immagine ha Dio? E come la scienza e la natura si rapportano nella fede? Un libro denso ma al tempo stesso suggestivo che lavora attorno all'irriducibilità di un concetto cardine. Un confronto obbligato fatto di ingegno e sofferenza, scienza e credenza, salute e malattia.

“Vite trasformate. Storie di conversione” di Mauro Aimassi, San Paolo Edizioni

Un libro che racconta cinque personaggi contemporanei di successo, cinque persone che, dopo aver trascorso parte della vita lontani dalla fede, si sono convertiti al cristianesimo: la nobildonna e scrittrice Alessandra Borghese, l'editore Leonardo Mondadori, il calciatore Nicola Legrottaglie, il giornalista Paolo Brosio e l'attrice Claudia Koll. Filo conduttore del volume, la convinzione che la felicità dell'uomo e la sua realizzazione consistano nel fare la volontà di Dio, che non è un'imposizione, ma un vero e proprio "manuale d'istruzioni" per la nostra vita. Di ciascun personaggio viene narrata sinteticamente la vicenda di conversione, citandone il racconto fatto da loro stessi in libri autobiografici o interviste. Il racconto di queste conversioni diventa occasione per parlare degli aspetti fondamentali di una vita vissuta cristianamente, disegnando così una sorta di "catechismo essenziale", "narrato" tramite la testimonianza di questi personaggi.

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“Leone” Paola Mastrocola, Einaudi

Lo spettacolo del mondo nelle mani di un bambino. Leone ha sei anni e ogni tanto, senza una ragione, si mette a pregare nei luoghi piú impensati. Lo fa perché ha paura, perché desidera, perché si sente solo? Sua madre, che non crede, continua a interrogarsi, mentre vive la sua vita frenetica di donna separata, tutta presa dal lavoro e dalle fatiche quotidiane. Leone prega, e le cose che chiede un po' si avverano. Si sarebbero avverate comunque? E quanto conta il filo segreto che lega una nonna e un nipotino? L'unica certezza è che il mondo intorno cambia, e nessuno sarà piú com'era. Paola Mastrocola ha scritto un romanzo sul potere dirompente del credere in qualcosa. E noi lettori siamo chiamati a chiederci cosa sia questa preghiera ingenua e laica, questo gesto cosí spontaneo e naturale che riguarda tutti noi, al di là di qualsiasi fede. Quale sia l'essenza della magia che, a volte, sembra circondare le nostre vite. Un quartiere che si chiama il Bussolo e può essere ovunque, in qualsiasi città. Oggi, ai giorni nostri. Una madre e un figlio. Lei, Katia, una donna sola di trentasei anni, presa dal lavoro, separata dal marito, pochi soldi, poco tempo, sempre di corsa, appesa a sogni nebulosi che non osa sognare fino in fondo. Lui, Leone, un bambino di sei anni solitario e timido, sottile come un giunco. Un giorno, in mezzo a tutta la gente che passa, alle auto, sotto le luci intermittenti degli alberi di Natale, si mette a pregare. E la madre scopre, con stupore e vergogna, che lo fa spesso, un po' ovunque. Si apparta, s'inginocchia, e prega. Per strada, al cinema, in bagno. Prega quand'è preoccupato, quando gli manca la nonna e il gioco del comò. O quando vorrebbe un bacio. O quando desidera aiutare qualcuno. La voce circola in fretta. Leone diventa «il bambino che prega», lo scandalo della scuola, del quartiere intero. Molti lo deridono, ma molti, anche, iniziano a confessargli i loro desideri. Come fa la vita, Leone può esaudire le richieste o deluderle, avverare i sogni o lasciarli inesauditi.

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Che vuol dire essere pellegrini dell’amore in questo tempo di stasi continua? O in questo tempo dove tutto viaggia sui binari del male? E come esserlo?

La missione che Cristo ci affida è quella di portare la sua Parola, fonte di vita e di verità che tutto rende puro con la sua immensa forza. Ma questo non è sempre facile, per tanti motivi, il giudizio degli altri, i vari ostacoli durante il percorso e soprattutto noi stessi, ecco perché non siamo soli, ma siamo invitati a percorrere la strada con qualcuno e mai soli. La comunità ci rende santi e capaci di amare tutti indistintamente.

La prima missione del cristiano è quello di essere santo con tutti i difetti che ha, poiché dall’accogliere questi si giunge ad accogliere noi stessi quindi e gli altri.

Vangelo secondo Marco 6, 7-13

Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient'altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Gesù non chiama a sé per trattenere, lontani dal mondo, coloro che gli rispondono, ma per inviarli in mezzo alla gente che potrà accoglierli oppure no. La vocazione è inscindibile dalla missione e deve sfociare in essa. L’esodo non è un optional, ma la necessaria irradiazione della vita spirituale. Sarebbe una significativa cartina di tornasole dell’autenticità della devozione di tanti “buoni cristiani”, che fedelmente vanno a messa ogni domenica, la loro tensione a comunicare la loro scoperta del Vangelo, con la visione della vita che esso comporta, in famiglia, in ufficio, a scuola…

Reciprocamente, però, può essere inviato solo chi Gesù ha chiamato «a sé». Se la missione non scaturisce da un’intimità col Signore si trasforma facilmente in un’impresa puramente umana. È stato ed è il destino di tante “opere missionarie” che colpiscono gli uomini per la loro grandiosità e la loro efficienza, ma che non emanano il profumo delicato del Vangelo, che è quello dell’amore.

Due segni evidenziano la differenza tra vera e falsa missione. Il primo, indicato da Marco, è il carattere comunitario: Gesù manda i suoi apostoli a due a due. È il germe della Chiesa. «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). L’individualismo e il protagonismo non trovano alcuno spazio in una prospettiva autenticamente cristiana, neppure quando si ammantano delle più nobili ragioni e sembrano produrre i frutti migliori, importante è il dialogo! Dice Papa Francesco a proposito di questo: “La mancanza di dialogo comporta che nessuno, nei singoli settori, si preoccupa del bene comune, bensì di ottenere i vantaggi che il potere procura, o, nel migliore dei casi, di imporre il proprio modo di pensare.” Il secondo segno è la povertà. I missionari devono contare solo sulla forza della Parola di conversione, capace di dominare anche gli spiriti impuri e di guarire gli infermi.

Il missionario deve essere pronto al rifiuto. Non è una prospettiva che deve scoraggiarlo. Come non scoraggiò i discepoli mandati da Gesù: «Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano».

(Da “Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale”, n202)

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Don Vincenzo Morinello

Nadia Antoniazzi

“Buon viaggio” di Cesare Cremonini

Il viaggio ha la caratteristica di avere il potere di aprire gli orizzonti non solo fisici ma anche culturali del viaggiatore, di permettergli di instaurare rapporti nuovi con quanto visto, di modificare la sua prospettiva sul mondo, di conoscere e capire; di modificare cioè le sue aspettative, il bagaglio di conoscenze con cui era partito. Il viaggio ha un forte ritorno causativo sui viaggiatori, ma anche sulla cultura che ne ha originato senso e modo attraverso la struttura (spazio, tempo e le tre fasi, i tre termini: partenza, transito, arrivo) e quindi su quel tipo di percezione che abbiamo chiamato culturale. Tutte le strade portano a Roma, e ogni viaggio porta a Dio, che sia un’andata o un ritorno, l’amore si incontra camminando e viaggiando, il pellegrino è colui che si apre all’ “hased” ovvero all’amore misericordioso di Dio, chi cammina con la comunità riscopre la fraternità della benevolenza del Padre, che tutti abbraccia.

Un bastone, un mappamondo e una sacca, sono i tre segni che formano il nucleo di questa scheda. Gli animatori vengono divisi in 3 gruppi, ad ognuno di questo verrà dato uno di questi segni…

“Camminiamo insieme”

Purtroppo ormai si comunica poco insieme, non riusciamo più a dire le cose che ci fanno stare bene o male, nessuno parla più faccia a faccia, preferiamo il telefono come scappatoia, ma come si fa comunità così? Come possiamo camminare e trovare l’amore vero stando dietro un telefono e non vedendo nessuno?

Per fare comunità bisogna raccontarsi ciò che ci succede ogni giorno o ciò che ci è successo in passato, quindi gli animatori, nei tre gruppi formati prima, condivideranno chi sono, il cammino della loro vita fatto, quale amore hanno sperimentato

I segni serviranno come aiuto, es.: su quale bastone mi sono poggiato sin ora? Dove sono stato? Cosa mi porto nella mia sacca?

Don Fabio Rosini sulla missione alla santità

https://www.youtube.com/watch?v=up-0IWha-SU

“Un giorno devi andare” di Giorgio Diritti, 2013 (durata 110 minuti).

Dolorose vicende familiari spingono Augusta (Jasmine Trinca), una giovane donna italiana, a mettere in discussione le certezze su cui aveva costruito la sua esistenza. Su una piccola barca e nell’immensità della natura amazzonica inizia un viaggio accompagnando suor Franca, un’amica della madre, nella sua missione presso i villaggi indios, scoprendo anche in questa terra remota i tentativi di conquista del mondo occidentale….

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“Sette anime” di Gabriele Muccino del 2008 (durata 123 minuti)

Ben Thomas è un giovane uomo che ha commesso un tragico errore. Ossessionato dalla sua colpa è deciso a redimersi risanando la vita di sette persone meritevoli. Osservate e individuate le sette anime, Ben si prende amorevolmente cura di loro, donandogli una parte di sé e una seconda possibilità. Sarà però la bella Emily Posa, colpita al cuore da Ben e da (gravi) scompensi cardiaci, a innamorarlo e a distrarlo dal suo disegno originale. A Ben non resterà che decidere se tornare a vivere o lasciare vivere.

“L' attimo fuggente" di Peter Weir del 1989 (Durata 129 minuti)

Nell'autunno del 1959, John Keating (Robin Williams), un giovane insegnante di letteratura, viene trasferito nel prestigioso collegio maschile Welton, nel Vermont. L'arrivo del professore, ex allievo della scuola, scombussola l’ordine e il rigore che da sempre caratterizzano quel luogo: egli infatti utilizza fin da subito un approccio didattico non proprio conforme ai rigidi principi dell'accademia.

John desidera che i ragazzi apprendano i veri valori della vita, insegnando loro a vivere momento per momento, perché ogni secondo che passa non tornerà mai più. Cogliere l’attimo e vivere senza rimorsi è ciò che veramente conta secondo il professore, il quale cerca di stimolare lo spirito creativo dei ragazzi attraverso il potere della poesia.

L’entusiasmo di Keating conquista lo studente Neil Perry (Robert Sean Leonard), un diciassettenne da sempre oppresso da un padre autoritario, che scopre in se stesso la vocazione per il teatro. Così come Neil, anche altri studenti seguono con particolare interesse gli stravaganti insegnamenti di John: Todd (Ethan Hawke) e altri cinque ragazzi decidono di riportare in vita la Setta dei Poeti Estinti, un gruppo dedito alla poesia che si riunisce clandestinamente, di cui in passato anche Keating faceva parte.

Non tutti però gradiscono il nuovo stato di cose: i metodi di Keating e le azioni dei suoi allievi non vengono visti di buon occhio dai genitori e dal preside Nolan (Norman Lloyd), poiché si scontrano con le rigide regole conformiste che da sempre la scuola vuole inculcare agli studenti...

“L’arte di essere fragili” di Alessandro D’avenia, Mondadori

Leopardi è spesso frettolosamente liquidato come pessimista e sfortunato. Fu invece un giovane uomo affamato di vita e di infinito, capace di restare fedele alla propria vocazione poetica e di lottare per affermarla, nonostante l'indifferenza e perfino la derisione dei contemporanei. Nella sua vita e nei suoi versi, D'Avenia trova folgorazioni e provocazioni, nostalgia ed energia vitale. E ne trae lo spunto per rispondere ai tanti e cruciali interrogativi che da molti anni si sente rivolgere da ragazzi di ogni parte d'Italia, tutti alla ricerca di se stessi e di un senso profondo del vivere. Domande che sono poi le stesse dei personaggi leopardiani: Saffo e il pastore errante, Nerina e Silvia, Cristoforo Colombo e l'Islandese... Domande che non hanno risposte semplici, ma che, come una bussola, se non le tacitiamo possono orientare la nostra esistenza.

“Il coraggio di non piacere” di Ichiro Kishimi, Deagostini

Nel corso di cinque notti, un giovane uomo insoddisfatto interroga un saggio maestro circa la possibilità di essere felici. Il giovane uomo crede che la felicità sia un’illusione sfuggente, in un mondo caotico e pieno di contraddizioni, in cui tutti vogliono apparire e si sentono in perenne competizione tra loro. Il saggio invece è convinto che il mondo sia un luogo semplice, in fondo, e che la felicità sia alla portata di tutti: basta vivere nel presente lasciando andare il passato, essere se stessi senza farsi condizionare dal giudizio o dalle aspettative degli altri, non voler sembrare sempre i migliori. Che cosa serve dunque? Il coraggio. Di scegliere, di cambiare, di essere liberi. In questo dialogo lungo cinque notti, eppure senza tempo, è racchiuso un segreto. Un segreto che riguarda tutti noi, e che ci trasformerà, se saremo aperti ad accoglierlo. Un segreto che ci permetterà di guardare a fondo dentro noi stessi con sincerità assoluta, di liberare tutto il nostro potenziale e infine di ritrovarci, senza sforzarci di piacere per forza a tutti. Un segreto che ci condurrà all’essenza stessa della felicità. «Il coraggio di non piacere accompagna i lettori nel

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cammino verso la felicità e un cambiamento duraturo. A chi è alla ricerca di risposte su se stesso e sulla vita, Kishimi e Koga offrono una conversazione davvero illuminante.» - tutti noi, al di là di qualsiasi fede. Quale sia l'essenza della magia che, a volte, sembra circondare le nostre vite. Un quartiere che si chiama il Bussolo e può essere ovunque, in qualsiasi città. Oggi, ai giorni nostri. Una madre e un figlio. Lei, Katia, una donna sola di trentasei anni, presa dal lavoro, separata dal marito, pochi soldi, poco tempo, sempre di corsa, appesa a sogni nebulosi che non osa sognare fino in fondo. Lui, Leone, un bambino di sei anni solitario e timido, sottile come un giunco. Un giorno, in mezzo a tutta la gente che passa, alle auto, sotto le luci intermittenti degli alberi di Natale, si mette a pregare. E la madre scopre, con stupore e vergogna, che lo fa spesso, un po' ovunque. Si apparta, s'inginocchia, e prega. Per strada, al cinema, in bagno. Prega quand'è preoccupato, quando gli manca la nonna e il gioco del comò. O quando vorrebbe un bacio. O quando desidera aiutare qualcuno. La voce circola in fretta. Leone diventa «il bambino che prega», lo scandalo della scuola, del quartiere intero. Molti lo deridono, ma molti, anche, iniziano a confessargli i loro desideri. Come fa la vita, Leone può esaudire le richieste o deluderle, avverare i sogni o lasciarli inesauditi.

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Il profeta Giona sarà il nostro compagno di viaggio nei giorni del GrEst. Con Giona (in ebraico “Yonah” che vuol dire colomba, uomo scelto da Dio perché parli al popolo), inizieremo un percorso che ci metterà di fronte ad alcune scelte e diversi interrogativi. Giona viene chiamato da Dio, il quale gli affida una missione. Ciascuno di noi è sulla Terra per compiere una missione, quella di amare il prossimo ed evangelizzare con le parole e soprattutto con i fatti la parola di Dio. Siamo, dunque, responsabili delle nostre azioni. Ma responsabili cosa significa? Responsabilità deriva dal latino <<respondere>>, rispondere. E a chi dobbiamo rispondere? È chiaro, al Padre nostro che è nei cieli! Ma prima di rispondere alla chiamata della nostra missione è bene capire quale è questa missione, con che animo affrontarla e soprattutto se si è davvero disposti a compierla. Bisogna fare discernimento, separare le varie opzioni e scegliere. Dalla storia di Giona apprenderemo che lui inizialmente non ha fatto discernimento e non è stato subito responsabile, e questo lo ha portato a sbagliare. E noi siamo qui insieme per soffermarci e riflettere su chi siamo, cosa vogliamo essere, perché e soprattutto cosa stiamo facendo per poterlo realizzare. Mettiamoci in ascolto della Parola ed incamminiamoci in un universo d’amore dove ci dobbiamo sentire “fratelli tutti”.

Lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi (Fil 2, 3,15)

Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l'interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio,non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!, a gloria di Dio Padre. Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore. È Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo il suo disegno d'amore. Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa.

La Parola di Dio, anche oggi come allora, scuote la nostra esistenza e ci chiama a renderci artefici e protagonisti della nostra vita. Una vita, però, che sia capace di saper rispondere alle difficoltà e ai bisogni degli altri, ovvero che sia capace di saper scegliere bene, promuovendo una prossimità aperta ed inclusiva. Una vita che va capita da dentro. Solo se sapremmo comprendere noi stessi avremmo la possibilità di capire chi ci sta accanto. Capire, scoprire, accettare e mettere in pratica la volontà di Dio nel cammino della nostra vita è il primo vero passo verso la comprensione di se stessi e degli altri, attraverso il discernimento. Discernere, vuol dire scoprire cosa Dio vuole da ognuno di noi per la nostra vita. Un buon discernimento passa però attraverso la capacità di saper comprendere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Saper scegliere bene nel contesto sociale attuale però è davvero complicato. I buoni esempi scarseggiano per cui dobbiamo fare tesoro di quelle poche figure umane che hanno sacrificato la propria esistenza in nome del senso di responsabilità. Attraverso quest’ultima si identifica il vero seguace di Cristo Gesù. Non dobbiamo per forza fare grossi sacrifici e immolarci come ha fatto Gesù. La responsabilità si mette in pratica ogni giorno compiendo semplici azioni: a scuola, comportandoti bene, a casa, facendo sempre i compiti, senza che qualcuno te lo ricordi; a lavoro, svolgendo bene il proprio ruolo; quando sei fuori con gli amici e scegli di non fare cose inappropriate e inviti i tuoi amici a fare altrettanto. Troppo spesso si vedono video pubblicati sui social con scene di bullismo. La cosa che fa più male è vedere come in decine e decine stanno a guardare mentre la violenza si consuma ed alcuni addirittura filmano tutto per una futura condivisione. Non si può stare a guardare cari ragazzi e ragazze, abbiamo il dovere di agire in nome di Dio, in nome di quel Gesù che si lasciò uccidere per renderci

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liberi, e fermare ogni scia di violenza fisica o verbale. Dobbiamo saper discernere da quale parte stare facendo tutto <<senza mormorare e senza esitare>> con l’aiuto della nostra fede responsabile, per migliorare la nostra vita e di quella di chi ci sta accanto.

A proposito di questo Papa Francesco, nell’enciclica “Fratelli tutti” afferma che la consapevolezza di essere tutti connessi non è sufficiente, se non si apre alla qualità etica di questo legame, cioè alla responsabilità reciproca a tutti livelli, da quello personale, che resta insostituibile, a quello strutturale e istituzionale, fino a quello delle relazioni internazionali. La pandemia che il mondo intero sta attraversando ce lo sta mostrando con evidenza inconfutabile: “siamo tutti sulla stessa barca” non significa solo che siamo tutti – ricchi e poveri, bianchi e neri, giovani e anziani – ugualmente esposti al contagio, ma anche che i comportamenti di ciascuno hanno un impatto immediato su tutti gli altri, contribuendo a proteggerli o a metterli in pericolo.

L’assunzione della responsabilità reciproca non può non chiamare in causa la coscienza. Al compito di leggere la realtà si affianca quello di trovare le energie a cui attingere, di scoprire le motivazioni su cui fare leva. Il cammino della fraternità riguarda la mente e il cuore, la razionalità e le passioni: coinvolge la persona nella sua integralità.

Beato Rosario Angelo Livatino

Franco Galia

“La linea d’ombra” di Jovanotti

La linea d’ombra è quella che separa l’adolescenza dalla maturità, tale passaggio è visto come un viaggio in mare dove per la prima volta, si prende il comando della nave, si avverte il peso della responsabilità e si è tentati di abbandonarsi a una condizione di non scelta, in cui spesso si fugge, proprio come fa Giona. Invece, cari ragazzi, questo è il tempo per voi della formazione, delle scelte importanti, dell’impegno, perché noi in quanto cristiani, battezzati e chiamati all’evangelizzazione siamo responsabili verso Dio nei riguardi dei suoi figli. Siamo chiamati a creare un mondo migliore.

“Cambiamenti” – Vasco Rossi

Vasco con questo brano ci dice che ci sono cambiamenti che si possono fare in maniera più o meno semplice ma solo cambiando “se stessi” cioè il proprio modo di pensare e quindi le nostre menti si possono fare grandi cose: “Si può cambiare solo se stessi, Sembra poco ma se ci riuscissi faresti la rivoluzione”

Dei post-it a forma di freccia su cui gli animatori dovranno scrivere la direzione che vorrebbero far prendere alle loro vite, assumendosi la responsabilità delle loro scelte per il bene loro e del prossimo.

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“Fidati di me”

Se osserviamo quante persone hanno reale difficoltà a fidarsi degli altri, ci accorgiamo facilmente che si tratta di un gesto che prevede un certo rischio. Significa rinunciare alla sicurezza, assumersi il rischio di essere traditi proprio da chi può ferire profondamente. Quindi, cosa ci spinge a fidarci degli altri? Cosa ci porta a compiere questo piccolo atto di fede?

Viene proposto agli animatori di dividersi in coppie. Precedentemente viene creato un percorso ad ostacoli. Uno dei due della coppia viene bendato, mentre l’altro dovrà guidare il compagno fino al traguardo.

“Il discorso di Dio alla moglie di Noè di New York”

https://www.youtube.com/watch?v=VfiLpp-ZJOo

(Tratto dal film “ Un’impresa da Dio” , film del 2007 diretto da Tom Shadyac)

“Un sogno per domani” di Mimi Leder, 2000 (123 minuti)

Questo film, tratto dal libro “La formula del cuore” ha come protagonista un ragazzino che, partendo dalla consegna di un compito assegnato a scuola, inventa una formula per cambiare il mondo, mettendola in pratica: trovare tre persone a cui fare del bene e chiedere loro di fare altrettanto, scatenando una reazione a catena. Troviamo dunque la responsabilità verso l’altro, il voler agire in nome dell’amore.

“L’attimo fuggente” di Peter Weir, 1989 (128 minuti)

John Keating è un insegnante di letteratura che viene destinato in un collegio maschile. Ha un metodo molto particolare e diretto con i suoi allievi: li spinge a seguire le proprie ambizioni e i propri desideri.

“La ricerca della felicità” di Gabriele Muccino, 2006 (117 minuti)

Uno dei film motivazionali più belli in assoluto, ma anche di crescita personale, sul lavoro e sulla vita e con un gran significato, che raccontano come non si deve mollare mai. Racconta di un uomo, Chris Gardner, padre di un bambino, abbandonato dalla moglie proprio nel momento di difficoltà economica. Chris sarà costretto a fare tanti sacrifici per lavorare, studiare per avere un futuro migliore per sé e per suo figlio, e nel frattempo far crescere in un ambiente salubre il figlioletto, anche se non sempre ci riuscirà.

“Testa o cuore? - L'arte del discernimento (Abc della vita cristiana)” - di Gaetano Piccolo

Descrizione: Il testo, agile nella forma e fresco nel linguaggio, si presenta come un'occasione favorevole per mettere ordine nella propria vita, invitando pensieri e sentimenti a fare pace tra loro. Come? Attraverso la preghiera e il discernimento. È un cammino in cinque tappe per diventare più consapevoli di quello che si muove dentro. Ogni tappa-incontro offre indicazioni concrete per conoscersi meglio e spunti biblici per pregare, riflettere e percorrere le vie nuove indicate dallo Spirito.

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“Morale per ragazzi. I temi dimenticati (Mondo giovani)” - di Barrès Armelle

Descrizione: Come sensibilizzare il ragazzo a principi fondamentali come l'uguaglianza, il rispetto per gli altri, il valore del lavoro? Come dare vigore e autorità alle regole più semplici della vita di ogni giorno: compiere il proprio dovere, essere attenti, terminare ciò che si è cominciato, conoscere il valore delle cose? Il volume risponde a queste domande di fondo. Il testo si articola in 15 temi, ognuno dei quali viene sviluppato attraverso un racconto, un esempio concreto, riferimenti letterari, illustrazioni, elementi di cultura generale, attività. Questi diversi riferimenti permettono al ragazzo di riflettere e di fare propri i valori e le regole che costituiscono la base della vita in comune. Un libro concreto, divertente e impegnativo che aiuta i ragazzi a vivere meglio con gli altri.

“Il coraggio di essere responsabili. Diventare grandi facendo cose giuste, anche quando non ci si guadagna” di Domenico Barrilà, Emanuela Bussolati.

Descrizione: Intorno a noi ci sono persone, animali, piante. Così numerosi che non basta una vita per contarli tutti. Siamo tanti e non ci somigliamo quasi per nulla, ma ci unisce un grande bisogno: vorremmo che gli altri capissero quanto è importante la nostra piccola vita e ci trattassero con senso di responsabilità. Lo vogliono anche le coccinelle, le formiche e persino la pianta di gerani che teniamo nel vaso o addirittura il pianeta che abitiamo. Ciò che vive desidera essere rispettato, così com'è. Essere responsabili significa avere chiaro questo, ma anche sapere bene che obbedire a tale richiamo non comporta premi speciali, salvo la certezza che le creature verso le quali siamo stati responsabili potrebbero provare a imitarci, diventando più responsabili verso gli altri esseri viventi. Che giostra meravigliosa potrebbe nascere se fossimo responsabili. Anche solo un poco.

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Il GrEst non è, e non può essere solamente vissuto come un luogo o un momento di aggregazione, di uno stare insieme spensierato o fuori dalla realtà in cui divertirsi, scherzare ecc… dimenticando i nostri problemi o peggio ancora fuggendo dalle nostre responsabilità familiari.

Anzi esso deve diventare per tutti, il momento in cui ognuno di noi si carica della sua consapevolezza di essere cristiano, per riscoprire e vivere quel di più che non si trova altrove, per ritornare nelle nostre realtà: famiglia, scuola, amici ecc…, con una capacità di vivere le nostre responsabilità illuminati proprio dallo stesso messaggio con il quale ci siamo confrontati e che dobbiamo accogliere: il Vangelo… Gesù!

Per fare ciò allora, la prima cosa da fare è quella di capire che il GrEst parlerà di Dio, o meglio, Dio parlerà attraverso il GrEst con:

· Le nostre parole;

· I nostri volti;

· I nostri gesti;

· Il nostro impegno libero e gratuito;

· Ma soprattutto attraverso il modo con cui saremo capaci di lavorare insieme.

Pertanto dobbiamo capire che il messaggio del GrEst è rivolto innanzitutto a noi e alla nostra storia personale. Un messaggio che deve essere accolto, compreso, ragionato, che ci deve portare a cercare Dio per poi alla fine comunicarlo ai più piccoli. Tutto questo ci permetterà non solo di essere credibili, ma soprattutto di essere autentici anche quando inevitabilmente commetteremo degli sbagli o ci perderemo nei vicoli ciechi dell’orgoglio, causati dalla fatica o dalla tentazione di mollare tutto. I testimoni che i ragazzi incontreranno giorno dopo giorno sono legati da un filo rosso che, nonostante il tempo e le distanze, li accomuna: l’incontro vivo con Gesù. Non si tratta di qualcosa di concettualizzato, astratto o indescrivibile, ma bensì di un continuo riconoscere e servire il Figlio di Dio non solo negli altri e nel creato, dei quali si sono fatti prossimi, ma nella contemplazione del Santissimo Sacramento nel quale hanno saputo ritrovare il volto del Maestro che li ha spinti ad andare e orientare le loro scelte per dare pienezza e sostegno alle loro fatiche e dare senso al loro agire attraverso quella disponibilità a mettersi in gioco richiesta dal Signore (Evangelii gaudium 120) per essere “accoglienti per scelta”. Accompagnati da Giona riscopriremo così quella Misericordia di Dio che non tiene conto dei nostri schemi ma apre strade sempre nuove nella vita di ciascuno e che non ci lascia mai da soli. Una Misericordia, un agire con il cuore che ritroviamo nella sua massima manifestazione in Gesù Eucarestia. Animati così da questi sentimenti e soprattutto dalla consapevolezza che senza un vero incontro con Gesù le nostre iniziative, per quanto belle e significative perdono il loro senso, proporremo ai nostri animatori l’esperienza intima e comunitaria di vivere l’incontro intimo e personale con Gesù, nel silenzio della preghiera con Gesù nel Santissimo Sacramento. Pertanto, nel rispetto della normativa di contenimento del Covid19, proporremo ai nostri animatori l’esperienza forte e intima di 24 ore di Adorazione Eucaristica, nella quale, ognuno di loro, avrà modo di vivere l’occasione di mettersi in ascolto di loro stessi e di Dio. È sicuramente un'iniziativa di un certo impegno, che può essere fatta totalmente o in parte, ma non dobbiamo avere paura di puntare in alto e di chiedere molto ai nostri animatori, potrebbero davvero sorprenderci! Sarebbe opportuno organizzare una turnazione, scegliendo una chiesa (possibilmente una rettoria, per evitare di interferire con la vita della parrocchia) con dei locali all’interno dei quali potersi organizzare con sacchi a pelo, per permettere agli animatori di trasformare l’attesa del proprio turno in un’occasione per vivere un momento di fraternità.

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NOTE TECNICHE

1. Organizzazione

È importante spiegare agli animatori il senso di questa esperienza forte di preghiera, specificando i vari momenti che vivranno.

Ogni gruppo inizierà con un breve momento di silenzio che ci aiuterà a liberarci di tutte le distrazioni e i pensieri e a spronare il nostro impegno a dedicare le ore successive solo ed unicamente al Signore, mettendo da parte tutto il resto. Si potrebbe fare una consegna simbolica agli animatori: una sorta di quaderno spirituale che può accompagnarli nell'esperienza, in cui possono annotare le loro fatiche, i loro pensieri, le loro preghiere ed illuminazioni. Vissuto questo momento introduttivo ci si può recare in chiesa o in cappella per la celebrazione penitenziale.

A questa introduzione alleghiamo quattro schemi di adorazione, strutturati attorno a dei brani del Vangelo che ci porteranno a scoprire il volto misericordioso di un Dio che ci guarda con Amore. Ogni gruppo può utilizzare lo schema che ritiene più adatto per i propri ragazzi, o, nel corso delle 24 ore, utilizzarli tutti e quattro:

a. “Voglio parlare al tuo cuore”;

b. “Amati e chiamati ad amare”;

c. “Lasciati sorprendere dall’Amore di Dio”:

d. “Alla scoperta di quel volto innamorato di noi”.

2. Materiali per i segni

a. “Voglio parlare al tuo cuore”:

Momento di deserto; una brocca d’acqua ai piedi dell’altare; dei post-it a forma di cuore con la scritta “Voglio parlare al tuo cuore” da dare alla fine del momento; ascolto personale (con gli auricolari) del brano “Di sole e d’Azzurro” di Giorgia alla fine del momento di adorazione.

b. “Amati e chiamati ad amare”:

Preparare un puzzle da mettere ai piedi dell’altare con i volti di alcuni uomini e donne che hanno testimoniato e vissuto l’amore di Dio nella loro vita, fino al perdono “estremo” dell’altro. Ecco alcune proposte di testimoni (le storie si trovano in appendice in questo libretto):

- Suor Leonella Sgorbati;

- Mira Garcia;

- Reginald e Margaret Green;

- Claude Zerez;

- Giovanni Bachelet;

- Gemma Capra, vedova CAlabresi;

- Lucia Montanini;

- Zijo Ribic;

- Beato Padre Pino Puglisi;

- San Giovanni Paolo II.

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Alla fine del momento, ogni partecipante, riceverà una pergamena arrotolata con la biografia di uno dei testimoni per riflettere e orientare la propria vita verso la logica di Dio.

c. “Lasciati sorprendere dall’Amore di Dio”:

Un pacco dono con all’interno un palloncino gonfiato a elio. I ragazzi ricevono un post-it sul quale scriveranno il nome di una persona che ha segnato la loro vita e alla quale vorrebbero dire grazie.

d. “Alla scoperta di quel volto innamorato di noi”:

Un albero stilizzato da porre ai piedi dell’altare. I ragazzi riceveranno dei post-it a forma di foglia sui quali scrivono un impegno che si vogliono assumere. Le foglie saranno poi attaccate all’albero durante un canto.

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: Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

R. Amen.

: Stasera siamo qui, chiamati da Dio, che misteriosamente si serve delle situazioni, delle persone, dei fatti e degli eventi più impensati per incontrare l’uomo e per mostrare il suo progetto d’amore a tutti noi. Questo momento così assume un significato per noi e per la nostra vita se ri-scopriamo la dimensione del dono, della gratuità e ci poniamo in un atteggiamento di ascolto (“lascia parlare, una volta tanto, anche Dio, dentro te”).

: Invochiamo lo Spirito Santo affinché possa aprire i nostri occhi per riconoscere la ciò di cui abbiamo veramente bisogno per rendere e vivere la nostra vita in pienezza.

Ripetiamo insieme …

Concedimi Signore,

di stare alla Tua presenza e adorarTi

nel profondo del cuore.

Aiutami a far silenzio,

intorno a me e dentro di me,

per poter meglio ascoltare la Tua voce.

Ispira Tu i miei pensieri, sentimenti, desideri e

Decisioni affinché io cerchi,

sempre ed unicamente, quello che è più gradito a Te.

Spirito Santo, dono del Padre,

crea in me un cuore nuovo,

libero per donarmi senza riserve,

seguendo Cristo umile e povero.

Maria, Madre di Gesù e Madre della Chiesa,

modello di disponibilità alla voce di Dio,

aiuta la mia preghiera con la tua preghiera.

Amen.

: Dio è importante nella mia vita, nella mia esperienza concreta di ogni giorno? Incide nelle mie scelte, nelle mie decisioni, nel rapporto con me stesso e con gli altri...? Cosa faccio per conoscere, scoprire e aderire sempre più al suo progetto per me? Sono domande e risposte personali, che ognuno porta dentro se, “un tesoro prezioso” che ci viene difficile mostrare a tutti quanti per paura che qualcuno ce lo rubi oppure ci possa deridere: Tante volte non servono le parole....purché parli la vita...!!

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: Si può correre il pericolo di pensare che siamo noi “a darci da fare” per incontrare Dio. Più precisamente è il contrario: è Lui che si fa vicino all’uomo, si “incarna” nelle situazioni più strane per incontrarsi con noi. L’incontro con Dio è un dono, perché è Lui che prende l’iniziativa e a noi spetta creare le condizioni perché questo avvenga nel migliore dei modi.

Guida: Ognuno di noi si perde molto spesso in silenzi e solitudini che ci imprigionano. Ma ci sono silenzi che possono invece diventare occasione di riflessione e che ci portano alla scoperta del suono della voce di Dio che parla sempre a noi. Facciamo così una piccola esperienza di deserto ….

Deserto di preghiera….

Dal Vangelo secondo Giovanni (4, 1-10)

Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni - sebbene non fosse Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli -, lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. Doveva perciò attraversare la Samaria. Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c'era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attinge- re acqua. Le disse Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. Gesù le rispose: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva».

: Molte volte siamo vittime inconsapevoli delle nostre scelte, del nostro modo di vivere la vita e ancora di più di tutte quelle incomprensioni che non riusciamo a superare e che lasciano ferite più o meno profonde nella nostra vita. Le domande impegnative della vita restano sepolte sotto la fatica del lavoro di ogni giorno, sotto gli impegni, gli incontri, le responsabilità; e può anche darsi che da lì non riemergano più; la scarsa fiducia di poter trovare ad esse una risposta fa sì che spesso preferiamo dimenticarle. Gesù invece riporta alla coscienza di ognuno di noi, come per la Samaritana la "sete" che continua a tormentarla: è la sete di un senso, di un amore, di una prospettiva di vita... che duri per sempre, che vada oltre l'orizzonte angusto di questo mondo.

: La nostra vita, Signore, anela al bene, al bello, al vero, ma non possiamo soddisfare questa sete di infinito senza la tua grazia. Ripetiamo insieme: Colma la nostra sete, Signore.

Il nostro cuore Signore ha sete della tua giustizia, quante volte i giornali riportano fatti di omicidi, vendette consumate per un vano desiderio di giustizia. Dona al mondo Signore la sete della tua giustizia divina e non quella dell’uomo. Rit.

Signore fatti trovare e colma la sete della ricerca di un punto fermo a tutti quei giovani che finiscono nel tunnel della droga e dell’alcool. Rit.

Signore, per tutti noi che abbiamo sete di amore e troviamo invano fonti che non dissetano, fa sì che scopriamo in Te l’unica Sorgente d’acqua Viva. Rit.

Signore ti preghiamo perché la nostra sete di santità si trasformi in un operato concreto nel mondo in cui siamo chiamati a vivere da cristiani e a dare testimonianza del tuo amore. Rit

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Dal Vangelo secondo Giovanni (4,11-15)

Gli disse la donna: «Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest'acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?». Rispose Gesù: «Chiunque beve di quest'ac- qua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore, gli disse la donna, dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua».

Riflessione del Celebrante e silenzio di adorazione

: Dagli scritti di Madre Teresa

Ti ho trovato in tanti posti, Signore. Ho sentito il battito

del tuo cuore nella quiete perfetta dei campi,

nel tabernacolo oscuro di una cattedrale vuota, nell'unità

di cuore e di mente

di un'assemblea di persone che ti amano.

Ti ho trovato nella gioia, dove ti cerco e spesso ti trovo.

Ma sempre ti trovo nella sofferenza.

La sofferenza è come il rintocco della campana

che chiama la sposa di Dio alla preghiera.

Signore, ti ho trovato nella terribile grandezza

della sofferenza degli altri.

Ti ho visto nella sublime accettazione

e nell'inspiegabile gioia

di coloro la cui vita è tormentata dal dolore.

Ma non sono riuscito a trovarti

nei miei piccoli mali e nei miei banali dispiaceri.

Nella mia fatica

ho lasciato passare inutilmente

il dramma della tua passione redentrice,

e la vitalità gioiosa della tua Pasqua è soffocata

dal grigiore della mia autocommiserazione.

Signore io credo. Ma aiuta tu la mia fede.

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Dal Vangelo secondo Giovanni (4, 16-26)

Le disse: «Và a chiamare tuo marito e poi ritorna qui». Rispose la donna: «Non ho marito». Le disse Gesù: «Hai detto bene "non ho marito"; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replicò la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adora-tori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa». Le dis-se Gesù: «Sono io, che ti parlo».

Riflessione del celebrante e silenzio di adorazione

: È impossibile riconoscere il Dio del Vangelo se ci si aspetta di vederlo in segni potenti e gloriosi. Il Dio fatto uomo si manifesta a noi nelle pieghe della nostra esistenza: nel viaggio, nel-la sete, nella strada, nella fatica, nella fragilità, nel bisogno... E tutto questo non fa che dare un va-lore più grande alla nostra umanità, che il Signore Gesù ha voluto totalmente condividere anche nelle sue dimensioni più deboli.

Preghiera comunitaria

È toccato anche a me, Gesù: Un giorno ti ho incontrato come un povero,

come un assetato, come un viandante stanco che chiede aiuto.

Hai dovuto vincere le mie reticenze, i miei sospetti ed i miei dubbi

per offrirmi una possibilità nuova: un’acqua che zampilla per la vita eterna.

Un po’ alla volta tu mi hai aperto gli occhi sulla mia esistenza,

mi hai fatto riconoscere i miei fallimenti e le mie ferite, i miei peccati e le mie infedeltà.

Ho cercato di resisterti, ho accampato discussioni fatte apposta per

guadagnare tempo, per portare altrove l’attenzione.

Tu mi hai condotto all’essenziale, a quello che conta veramente

e ti sei rivelato non solo come un saggio, come un maestro spirituale,

o addirittura un profeta, ma come l’Inviato di Dio, il Messia, il suo Cristo.

È toccato anche a me, Signore, ad uno dei pozzi della storia di incontrarti e di

riconoscerti come il Salvatore, come l’Unico capace di colmare

la mia sete più profonda.

Aspettaci, Signore, al pozzo del convegno, nell’ora provvidenziale che scocca per ognuno.

Presentati e parlaci per primo, tu mendicante ricco dell’unica acqua viva.

Distoglici, pian piano, da tanti desideri, da tanti amori effimeri che ancora ci trattengono.

Sciogli l’indifferenza, i pregiudizi, i dubbi e le paure, libera la fede.

Scava in noi il vuoto, riempilo di desiderio.

Fa’ emergere la sete, attraici con il tuo dono. Dilata il nostro cuore, infiammane l’attesa.

Da’ nome a quella sete che dentro ci brucia, senza che sappiamo chiamarla

con il suo vero nome. Riportaci in noi stessi, nel centro più segreto dove nessun altro giunge.

Tra le dure pietre dell’orgoglio, il fango dei compromessi, la sabbia dei rimandi,

scava tu stesso un varco al tuo Santo Spirito.

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: Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

R. Amen.

: Il recente viaggio di Papa Francesco in Iraq, in questa terra martoriata e lacerata dalla guerra, ci offre nuovi spunti di riflessione per interrogarci, soprattutto sul nostro rapporto con il nostro prossimo. Molte volte infatti il nostro cuore rima-ne indifferente alla sofferenza degli altri, fino a chiudersi quando viene ferito o deluso. La nostra idea di amore così diventa astratta, confusa, personalizzata, fino a diventare proiezione di noi stessi. Assistiamo così alla perdita della nostra umanità. Quell’umanità sognata da Dio e che Gesù ha incarnato nella sua vita e che con Lui è stata inchiodata sulla croce.

: All’inizio di questo momento di preghiera davanti a Gesù eucarestia, invochia-mo lo Spirito Santo perché accenda in ciascuno di noi il fuoco dell’amore, perché apra i nostri occhi e curi i nostri cuori malati d’amore che non sanno più amare e perdonare.

Ripetiamo insieme …

Amore, che mi formasti

a immagine dell'Iddio che non ha volto,

Amore che sì teneramente

mi ricomponesti dopo la rovina,

Amore, ecco, mi arrendo:

sarò il tuo splendore eterno.

Amore, che mi hai eletto fin dal giorno

che le tue mani plasmarono il corpo mio,

Amore, celato nell'umana carne,

ora simile a me interamente sei,

Amore ecco, mi arrendo:

sarò il tuo possesso eterno.

Amore, che al tuo giogo

anima e sensi, tutto m'hai piegato,

Amore, tu m'involi nel gorgo tuo,

il cuore mio non resiste più,

ecco, mi arrendo, Amore:

mia vita ormai eterna.

Di Davide Maria Turoldo

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: Molte volte il nostro cuore sprofonda nella palude dell’indifferenza, quasi anestetizzato di fronte al dolore degli altri, chiuso nel suo egoismo e sempre più insensibile alla logica del linguaggio dell’amore. Chiediamoci, nel nostro silenzio: la mia vita riflette veramente l’amore di Dio? Sono capace di amare gli altri gratuitamente di un amore disinteressato? Che significa per amare? Che cos’è per me l’amore?

: All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso quest'avvenimento con le seguenti parole: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui ... abbia la vita eterna». Con la centralità dell'amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d'Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza. … Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell'a-more di Dio con quello dell'amore del prossimo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Siccome Dio ci ha amati per primo, l'amore adesso non è più solo un «comandamento», ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro. (Deus Caritas est)

: L'amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita e pone do-mande decisive su chi è Dio e chi siamo noi. Al riguardo, ci ostacola innanzitutto un problema di linguaggio. Il termine «amore» è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. … Ricordiamo in primo luogo il vasto campo semantico della parola «amore»: si parla di amor di patria, di amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell'amore per il prossimo e dell'amore per Dio. (Deus Caritas est) Ma che cos’è l’amore? E che significa amare? …

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (3, 7-8. 19-21)

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. … Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il pro-prio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comanda-mento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello.

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: Il nostro egoismo si contrappone all’amore, ma soprattutto a Dio. Esso è simile alla lebbra che deturpa e toglie dignità all’uomo. Illuminati dalle parole del Vangelo facciamo nostre le parole di Raoul Follereau, filosofo e giornalista cattolico del secolo scorso, che spese tutta la sua vita servendo gli ultimi e soprattutto per diritti dei malati di lebbra. Preghiamo, a cori alterni, per essere guariti dalla malattia dell’indifferenza che spegne in noi la fiamma dell’amore.

Signore insegnaci a non amare (solo) noi stessi,

a non amare soltanto i nostri,

a non amare soltanto quelli che amiamo.

Insegnaci a pensare agli altri,

ad amare quelli che nessuno ama.

Signore, facci soffrire della sofferenza altrui.

Facci la grazia di capire che ad ogni istante,

mentre noi viviamo una vita troppo felice,

protetta da Te,

ci sono milioni di esseri umani,

che sono pure tuoi figli e nostri fratelli,

che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame,

che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.

Signore, abbi pietà di tutti i poveri del mondo.

Abbi pietà dei lebbrosi,

ai quali Tu così spesso hai sorriso

quand’eri su questa terra;

pietà dei milioni di lebbrosi,

che tendono verso la tua misericordia

le mani senza dita, le braccia senza mani …

E perdona a noi di averli,

per una irragionevole paura, abbandonati.

E non permettere più, Signore,

che noi viviamo felici da soli.

Facci sentire l’angoscia della miseria universale,

e liberaci da noi stessi. Così sia!

: Se amare significa andare verso l’altro, accoglierlo nel rispetto della sua identità e diversità; se amare significa fare spazio all’altro nel nostro cuore e nella nostra vita facendoci carico della sua fragilità e pur vero che molte volte questa prossimità viene ferita, disattesa, fraintesa, offesa e delusa. Le ferite del cuore sono quelle che fanno più male, soprattutto quando, l’amore, ci chiede di essere più forti dell’offesa subita. Perché amare come Gesù significa anche perdonare.

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Dal Vangelo secondo Matteo (18, 21-22)

In quel tempo, Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello com-mette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette vol-te?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

: Il perdono non implica il dimenticare. Diciamo piuttosto che quando c’è qualcosa che in nessun modo può essere negato, relativizzato o dissimulato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa che mai dev’essere tollerato, giustificato o scusato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa che per nessuna ragione dobbiamo permetterci di dimenticare, tuttavia, possiamo perdonare. Il per-dono libero e sincero è una grandezza che riflette l’immensità del perdono divino. Se il perdono è gratuito, allora si può perdonare anche a chi stenta a pentirsi ed è incapace di chiedere perdono. (Fratelli tutti n.250)

: Quanti perdonano davvero non dimenticano, ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto loro del male. Spezzano il circolo vizioso, frenano l’avanzare delle forze della distruzione. Decidono di non continua-re a inoculare nella società l’energia della vendetta, che prima o poi finisce per ricadere ancora una volta su loro stessi. Infatti, la vendetta non sazia mai veramente l’insoddisfazione delle vittime. Ci sono crimini così orrendi e crudeli, che far soffri-re chi li ha commessi non serve per sentire che si è riparato il delitto; e nemmeno basterebbe uccidere il criminale, né si potrebbero trovare torture equiparabili a ciò che ha potuto soffrire la vittima. La vendetta non risolve nulla. (Fratelli tutti n. 251)

: Papa Francesco nella sua enciclica ci richiama e disintonizzare il nostro cuore sulle frequenze dell’amore di Dio per riscoprirci tutti fratelli: preghiamo insieme:

: Amare significa desiderare il meglio dell’altro, anche quando le motivazioni sono diverse.

: Perdonaci Signore per tutte le volte che non siamo capaci di gioire per la felicità dell’altro o quanto essa ci rende infelici.

: Amare significa ascoltare, capire, sostenere, farsi da parte e rispettare la libertà dell’altro.

: Perdonaci Signore per tutte volte che non siamo capaci di ascoltare, di farci prossimi

: Amare significa … amare come Gesù: sempre, comunque e nonostante tutto.

: Perdonaci Signore tutte le volte che ci lasciamo anestetizzare dal nostro egoismo e chiudiamo il nostro cuore a Dio e a gli altri.

: Amare significa perdonare, cioè donare per … curare le ferite, chiarire gli equivoci, salvare le nostre relazioni dall’orgoglio che ci divide

: Perdonaci Signore per tutte le volte che ci dimentichiamo che noi per primi siamo stati perdonati da Te sulla croce per sempre.

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: Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

. Amen.

: In questa sera ai piedi di Gesù Eucarestia, impegniamoci a lasciarci stupire da Dio. Lasciamoci cogliere di sorpresa. Permettiamogli di irrompere nelle nostre vite complicate, frenetiche, risucchiate in un vortice di cose vuote con le quali ci illudiamo di essere felici. Apriamo a Lui i nostri cuori feriti, delusi per fare un incontro di scoperta e stupore.

: Invochiamo lo Spirito Santo affinché apra le nostre labbra e i nostri cuori e susciti nelle nostre vite il desiderio di Dio.

Ripetiamo insieme …

Vieni, o Spirito Santo

e donami un cuore puro,

pronto ad amare Cristo Signore

con la pienezza, la profondità e la gioia

che tu solo sai infondere.

Donami un cuore puro,

come quello di un fanciullo

che non conosce il male

se non per combatterla e fuggirlo.

Vieni, o Spirito Santo

e donami un cuore grande,

aperto alla tua parola ispiratrice

e chiuso ad ogni meschina ambizione.

Donami un cuore grande e forte

capace di amare tutti,

deciso a sostenere per loro

ogni prova, noia e stanchezza,

ogni delusione e offesa.

Donami un cuore grande,

forte e costante fino al sacrificio,

felice solo di palpitare con il cuore di Cristo

e di compiere umilmente, fedelmente

e coraggiosamente la volontà di Dio.

Amen.

(Preghiera allo Spirito Santo di Paolo VI)

: Invochiamo la tua presenza…

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: Il vero amore è amare e lasciarmi amare. È più difficile lasciarsi amare che amare. Per questo è tanto difficile arrivare all’amore perfetto di Dio, perché possiamo amarlo, ma la cosa importante è lasciarsi amare da Lui. Il vero amore è aprirsi a questo amore che ci precede e che ci provoca una sorpresa. Se voi avete solo tutta l’informazione siete chiusi alle sorprese; l’amore ti apre alle sorprese, l’amore è sempre una sorpresa perché presuppone un dialogo a due. Tra chi ama e chi è amato. E di Dio diciamo che è il Dio delle sorprese perché Lui ci ha amati per primo e ci aspetta con una sorpresa. Dio ci sorprende. Lasciamoci sorprendere da Dio! E non abbiamo la psicologia del computer di credere di sapere tutto. Com’è questa cosa? Un attimo e il computer ti dà tutte le risposte, nessuna sorpresa.

: Nella sfida dell’amore Dio si manifesta con delle sorprese. Pensiamo a san Matteo: era un buon commerciante, in più tradiva la sua patria perché prendeva le tasse dei giudei per darle ai romani, era pieno di soldi e prendeva le tasse. Passa Gesù, lo guarda e gli dice: vieni! Quelli che stavano con Lui dicono: Chiama questo che è un traditore, un infame? E lui si attacca al denaro. Ma la sorpresa di essere amato lo vince e segue Gesù. Quella mattina quando aveva salutato sua moglie non avrebbe mai pensato che sarebbe tornato senza denaro e di fretta per dire a sua moglie di preparare un banchetto. Il banchetto per colui che lo aveva amato per primo. Che lo aveva sorpreso con qualcosa di più importante di tutti i soldi che aveva.

Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, mentre andava via, Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sede- va a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». Parola del Signore

: Senza confini

: Lasciati sorprendere dall’amore di Dio! Non abbiate paura delle sorprese, che ti scuotono, ti mettono in crisi, ma ci mettono in cammino. Il vero amore ti spinge a spendere la vita anche a costo di rimanere a mani vuote. Pensiamo a san Francesco: lasciò tutto, morì con le mani vuote ma con il cuore pieno. D’accordo? Non giovani da museo, ma giovani sapienti. Per essere sapienti, usate i tre linguaggi: pensare bene, sentire bene e fare bene. E poi lasciatevi sorprendere dall’amore di Dio, e spendete bene la vostra vita!

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Salmo 118

: ripetiamo insieme:

Beato chi cammina nella legge del Signore.

Beato chi è integro nella sua via

e cammina nella legge del Signore.

Beato chi custodisce i suoi insegnamenti

e lo cerca con tutto il cuore.

Tu hai promulgato i tuoi precetti

perché siano osservati interamente.

Siano stabili le mie vie

nel custodire i tuoi decreti.

Sii benevolo con il tuo servo e avrò vita,

osserverò la tua parola.

Aprimi gli occhi perché io consideri

le meraviglie della tua legge.

Insegnami, Signore, la via dei tuoi decreti

e la custodirò sino alla fine.

Dammi intelligenza, perché io custodisca la tua legge

e la osservi con tutto il cuore.

Dal Vangelo secondo Marco (10, 17-23)

Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!».

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: Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, c’è una frase che per me è la più importante di tutte: dice il Vangelo che Gesù, quel giovane, lo guardò e lo amò (cfr Mc 10,21). Ognuno di noi ascolti in silenzio questa parola di Gesù: «Una cosa sola ti manca». Che cosa mi manca? A tutti quelli che Gesù ama tanto perché danno tanto agli altri io domando: voi lasciate che gli altri vi diano di quell’altra ricchezza che voi non avete? I sadducei, i dottori della legge dell’epoca di Gesù davano molto al popolo, davano la legge, insegnavano, ma non hanno mai lasciato che il popolo desse loro qualcosa. È dovuto venire Gesù per lasciarsi commuovere dal popolo. Quanti giovani come voi che sono qui sanno dare però non sono altrettanto capaci di ricevere!

: «Una cosa sola ti manca». Questo è ciò che ci manca: imparare a mendi- care da quelli a cui diamo. Questo non è facile da capire: imparare a mendicare. Imparare a ricevere dall’umiltà di quelli che aiutiamo. Imparare ad essere evangelizzati dai poveri. Le persone che aiutiamo, poveri, malati, orfani, hanno molto da darci. Mi faccio mendicante e chiedo anche questo? Oppure sono autosufficiente e so soltanto dare? Voi che vivete dando sempre e credete che non avete bisogno di niente, sapete che siete veramente poveri? Sapete che avete una grande povertà e bisogno di ricevere? Ti lasci aiutare dai poveri, dai malati e da quelli che aiuti? Questo è ciò che aiuta a maturare i giovani impegnati come nel lavoro di dare agli altri: imparare a tendere la mano a partire dalla propria miseria.

(Papa Francesco, dal discorso ai Giovani delle Filippine, Gennaio 2015)

: Dio, il nostro Dio, è un Dio delle parole, è un Dio dei gesti, è un Dio dei silenzi. Dio ci parla, ci cerca. Il Dio dei gesti è il Dio che ci chiama per nome, che ci conosce meglio di noi stessi, che sempre ci aspetta, che sempre ci perdona, che sempre ci capisce con gesti di tenerezza. E poi è il Dio del silenzio. Il più grande silenzio di Dio è la Croce. Il nostro Dio è anche il Dio dei silenzi e ci sono silenzi di Dio che non si possono spiegare se tu non guardi il Crocifisso. Il nostro Dio sta anche in silenzio. Ricordati: è il Dio delle parole, il Dio dei gesti e il Dio dei silenzi, queste tre cose devi unirle nella tua vita.

(Papa Francesco, dal discorso ai giovani sulla Rotonda Diaz, Napoli, 21 marzo 2015)

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: Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

R. Amen.

: Questa sera cercheremo di ridare voce all’uomo interiore che vive in ciascuno di noi. Come è difficile per una persona capire che, accanto alle innumerevoli preoccupazioni della vita, ci debba essere spazio anche per ascoltare il nostro io più profondo, il nostro cuore, i nostri silenzi. Un silenzio dal quale fuggiamo perenne-mente e che cerchiamo di anestetizzare con la frenesia delle nostre vite complicate.

: Invochiamo lo Spirito Santo affinché possa aiutarci a trovare il coraggio e la forza di ascoltare i nostri silenzi nei quali ci perdiamo e dai quali siamo in fuga.

Ripetiamo insieme …

Vieni, o Spirito Santo

irrompi nella mia vita

e strappa il velo che la avvolge,

che chiude la mia bocca e soffoca le mie parole;

Vieni, o Spirito Santo

a dare voce al mio cuore,

a liberalo da tutte quelle parole incomprese

che mi porto dentro e che non riesco a pronunciare.

Vieni, o Spirito Santo

ad abitare le mie giornate confuse, frenetiche, annoiate,

consumate dentro la cornice di un bar

e sature di sorrisi e abbracci finti.

Vieni, o Spirito Santo

ad asciugare le mie lacrime trattenute, nascoste

nelle quali si perdono le mie delusioni,

le mie amicizie tradite, i miei sogni infranti.

Vieni, o Spirito Santo

a liberarmi da tutte le mie certezze illusorie

che riempiono le mie mani

ma che svuotano la mia anima.

Vieni, o Spirito Santo

a farti mio compagno di viaggio

mio confidente nelle mie fragilità,

sostegno nelle difficoltà di ogni giorno.

Amen.

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:

: Ci sono momenti nei quali mi sento invisibile, quasi come se gli altri non percepissero la mia presenza. Sono sicuro che, se dovessi sparire o mancare, nessuno si accorgerebbe della mia assenza, talmente sono ripiegati e concentrati su stessi. Si accorgono di me solo quando mi devono fissare con i loro sguardi inquisitori; quando, annoiati della loro vita, si divertono ad indagare, quasi a scandagliare la tua vita per cercarvi qualsiasi errore, o innocente stravaganza per coglierne l’occasione, il gusto di giudicarti, etichettarti, segnarti con il marchio del loro giudizio, della loro pseudo supponenza. Ogni loro sguardo ti schiaccia, ti isola ti fa senti-re sbagliato fuori posto. Eppure parlano di Dio, sfoggiano la loro fede quasi come ne avessero il copyright. Un Dio però che non conoscono e non amano.

: Dietro quella maschera di apparente sicurezza, di chi ha sempre tutto sotto controllo e trova sempre le parole e scelte giuste per ogni situazione, sono riuscito a nascondere le mie fragilità, i miei problemi, il mio piccolo mondo in rovina nel quale mi sento solo, anzi sono solo. Mi trovo così prigioniero di una solitudine che io stesso ho costruito e nel quale non c’è posto nemmeno per Dio. Il suo silenzio mi ha confuso. Faccio fatica a fissare il suo sguardo, ad aprirgli il mio cuore e a svuotarlo da tutto ciò che lo opprime, dal peso di tutte le mie fatiche, delusioni e da tutti i miei errori. Eppure vorrei tanto che qualcuno mi strappasse questa maschera, che riuscisse a leggere nei miei occhi la mia solitudine, il mio vuoto, il mio bisogno di comprensione. Ma negli sguardi che mi circonda non trovo amore, non c’è vita o forse ho solo paura di non essere capito.

: Le scelte quotidiane della vita, hanno il sapore della libertà, esprimono tutta la mia ansia di non perdere nessun momento, di coglierne solo ciò che mi fa star bene. Le mie scelte, i miei amici raccontano così la mia spensieratezza, la vo-glia di godermi questa vita. Eppure, nonostante tutto, sento sempre dentro il mio cuore una voce che chiede aiuto, una profonda insoddisfazione che cerco sempre di soffocare con i miei aperitivi al bar, con le mie relazioni nelle quali non credo nemmeno io, con quella superficialità che non mi appartiene e che mi spinge a varcare sempre di più ogni limite, quasi come se la vita fosse solo un continuo eccedere. Immersa così nel frastuono delle mie serate, compressa in quella folla nella quale perdo la mia identità, sono alla ricerca di uno sguardo che mi sia veramente amico, che mi riporti alla vita.

Dal Vangelo secondo Luca

Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia.

Parola del Dio

: Come un prodigio

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: In quel … “attraversava la città” ritroviamo tutto l’agire, la sensibilità e l’umanità di Gesù; non di uno spettatore indifferente, distratto e chiuso nel suo io, ma di un uomo capace di leggere, nella realtà che vive, il dramma e il dolore dei suoi protagonisti. Gesù continua, infatti, ad attraversare le nostre vite. Non come un’ospite fugace. Non come un conoscente occasionale, ma come un amico che percepisce le nostre ansie, le nostre inquietudini; che sa cogliere il peso delle fatiche che custodisce il nostro cuore. In quel … “attraversava la città” è racchiusa così l’iniziativa di Dio, che non si ferma davanti ai nostri schemi, ai nostri pregiudizi, ma continua a sorprenderci, ad abbattere e a frantumare la nostra idea di Dio per far posto alla sua prossimità e capacità di amarci così come siamo.

: Illuminati dalla luce della Parola, preghiamo insieme a cori alterni :

Donami, Signore,

occhi capaci di riconoscerti nella mia vita.

Concedimi la pazienza del cuore per attenderti

in tutte le situazioni in cui faccio fatica a sentirti presente.

Donami Signore, la vigilanza,

affinché ponga nella mia vita il costante desiderio di Te,

di incontrarti, di vederti,

di toccarti in tutto ciò che vivo, faccio e sento.

Donami Signore di vederti come sei,

di vedere quello che tu dici,

di capire le ragioni che ti conducono ad agire così

per mettere in discussione la mia logica e il mio amare.

Donami Signore di capire,

non come si capisce un’idea,

ma lasciandomi stupire dalla bellezza di scoprirmi amato,

cercato, desiderato e atteso da Te.

: Te al centro del mio cuore

Dal Vangelo secondo Luca

Vedendo ciò, tutti mormoravano: «E' andato ad alloggiare da un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo; il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Parola di Dio

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: La folla, quel giorno, ha giudicato Zaccheo, lo ha guardato dall’alto in basso; Gesù, invece, ha fatto il contrario: ha alzato lo sguardo verso di lui (v. 5). Lo sguardo di Gesù va oltre i difetti e vede la persona; non si ferma al male del passa-to, ma intravede il bene nel futuro; non si rassegna di fronte alle chiusure, ma ricerca la via dell’unità e della comunione; in mezzo a tutti, non si ferma alle apparenze, ma guarda al cuore. Gesù guarda il nostro cuore, il tuo cuore, il mio cuore. Con questo sguardo di Gesù, voi potete far crescere un’altra umanità, senza aspettare che vi dicano “bravi”, ma cercando il bene per sé stesso, contenti di conservare il cuore pulito e di lottare pacificamente per l’onestà e la giustizia. Non fermatevi alla superficie delle cose e diffidate delle liturgie mondane dell’apparire, dal maquillage dell’anima per sembrare migliori. Invece, installate bene la connessione più stabile, quella di un cuore che vede e trasmette il bene senza stancarsi. E quella gioia che gratuitamente avete ricevuto da Dio, per favore, gratuitamente donatela (cfr Mt 10,8), perché tanti la attendono! E la attendono da voi.

Omelia di papa Francesco alla Messa conclusiva della Giornata mondiale della Gioventù di Cracovia

: Rumore di Diodato. Concordare con il celebrante le modalità di ascolto: o durante l’adorazione o a conclusione di essa.

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: Sicuri che lo sguardo di Dio non ci abbandona mai, preghiamo insieme a cori alterni:

Eccoci davanti a te Signore Gesù.

La folla ci impediva di guardare il tuo volto.

Ora possiamo contemplarti; possiamo fare esperienza

di quanto ci vuoi bene, di quanto ci ami.

Possiamo scoprire che prima ancora che noi ti cerchiamo,

tu ti metti sulla nostra strada e ci vieni incontro.

Non stancarti di cercarci Signore Gesù!

In questo pane eucaristico noi riconosciamo la tua presenza viva.

Aiutaci a non perdere il passo lungo il cammino che porta all’incontro con te.

Abbiamo bisogno di te, la nostra vita non vale nulla se non ci sei tu.

Il nostro cuore ha bisogno di te, per amare come ami tu.

I nostri occhi hanno bisogno di te, per guardare il mondo come lo guardi tu.

La nostra bocca ha bisogno di te, per parlare al mondo come parli tu.

Tutto di noi ha bisogno di te, perché tu realizzi i desideri più profondi del nostro cuore,

i desideri di bene per noi, per la nostra vita, per quello che realizzeremo.

Stai con noi Signore, e non temeremo di solcare il mare della nostra esistenza, perché sarai tu a guidarci in questo viaggio. Amen

: Ognuno riceve un messaggio dove sarà chiamato a scrivere l’impegno che intende prendere completandolo con il suo nome e attaccandolo su un albero stilizzato ai piedi dell’altare.

….

….

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SUOR LEONELLA SGORBATI

“Una pallottola con il mio nome»: chi era suor Leonella Sgorbati”

«Mogadiscio è ancora una zona molto “calda” di pallottole e varie altre attività poco sagge. La gente povera è veramente stanca e ridotta agli estremi. La gioventù ha perso le speranze e desidera una vita che non abbia più violenza». Così scriveva in una lettera inviata al Centro missionario della diocesi di Piacenza-Bobbio suor Leonella Sgorbati, la missionaria della Consolata uccisa in Somalia il 17 settembre del 2006 di cui è stato riconosciuto il martirio “in odium fidei”.

Suor Leonella il 26 maggio sarà proclamata beata nella Cattedrale di Piacenza. La celebrazione sarà presieduta dal cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le cause dei santi. Saranno presenti i presuli legati alle diocesi in cui la missionaria ha vissuto: il vescovo di Piacenza-Bobbio Gianni Ambrosio, l’arcivescovo di Milano Mario Delpini, il cardinale di Nairobi John Njue, il vescovo di Meru e quello di Nyeri, in Kenya, Antony Muheria e Salesius Mugambi, il vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio Giorgio Bertin. Si tratta della prima beatificazione che la diocesi vive sul territorio.

Suor Leonella, al secolo Rosa Maria Sgorbati, nasce a Rezzanello, sulle colline piacentine, il 9 dicembre 1940. A dieci anni la famiglia si trasferisce a Sesto San Giovanni, nel Milanese. Attivissima nella parrocchia di San Giuseppe, la sua vocazione missionaria nasce ascoltando in oratorio le testimonianze di sacerdoti e suore della Consolata, la Congregazione fondata dal beato Allamano per portare l’amore di Gesù nei luoghi più abbandonati del mondo. Entra nell’Istituto a vent’anni e, dopo un periodo di studi in Inghilterra, approda in Kenya nel 1970. Passerà in Africa 36 anni, come infermiera, ostetrica – farà nascere oltre quattromila bambini – e direttrice di scuole per infermieri.

Nel 2001 la ong “SOS Villaggio dei Bambini” le propone di avviare una scuola per infermieri a Mogadiscio. Un sogno da molti ritenuto impossibile. Le Missionarie della Consolata sono le sole religiose rimaste dopo la caduta del dittatore Siad Barre nel ‘91. Suor Leonella accompagna gli allievi negli studi, li sprona a dare il meglio perché li vuole protagonisti della ricostruzione della Somalia. Riesce perfino ad ottenere il riconoscimento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la scuola. Sente però crescere attorno a sé l’ostilità dei fondamentalisti, che non vedono di buon occhio questa suora che passa tanto tempo con i giovani. Temono ne approfitti per fare proselitismo. Suor Leonella, invece, crede nel dialogo tra fedi e culture. «Dove c’è paura – ripete – non c’è amore»

Il 17 settembre 2006 è investita da una raffica di mitra mentre sta tornando a casa dopo le lezioni. Nel tentativo di proteggerla, trova la morte Mohamed Mahamud, la sua guardia del corpo: il sangue di una consacrata cristiana e di un padre di famiglia musulmano mescolati insieme, vittime entrambi di un cieco fanatismo. Una profezia per i nostri tempi, come le ultime parole di suor Leonella: «perdono, perdono perdono»

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MIRA GARCIA

"Così ho perdonato e curato i carnefici dei miei cari"

La testimonianza di Mira Garcia ad “Aiuto alla Chiesa che Soffre” non è umanamente comprensibile se non nella prospettiva di un dono immenso chiesto e ricevuto da Dio e di una capacità di grande sacrificio per accoglierlo. Perché questa donna non ha solo perdonato l'assassino di suo padre, ma ha fatto molto ma molto di più.

Perdonare quando viene chiesto perdono di un male grave a cui non si può rimediare è già fuori dalle capacità di un uomo, ma forse è ancora tollerabile. Ma perdonare prima che sia stato chiesto perdono di atrocità indicibili è una cosa assolutamente divina: solo Dio può continuare a soffrire e struggersi per i suoi figli che più lo odiano e lo rifiutano. Perciò la testimonianza di Mira Garcia, colombiana, ad “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (Acs) non è umanamente comprensibile se non nella prospettiva di un dono immenso chiesto e ricevuto da Dio, di un’esperienza d’amore straordinaria e di una capacità di grande sacrificio per accoglierla. Perché Garcia non ha solo perdonato un assassino, quello di suo padre, ma ha fatto molto ma molto di più.

«Il 4 aprile del 1960 - ha raccontato la donna - mio padre Francisco Mira fu ucciso dai politici dello schieramento a lui rivale. Avevo 4 anni quando nove bimbi furono costretti ad assistere al suo omicidio. Buttando mia madre in là, gli spararono alla tempia di fronte a noi». La donna trovò forza nella fede della madre, che però morì di un attacco cardiaco quando Garcia aveva 43 anni. Il motivo? Sempre la paura della persecuzione politica: «Nel 1999 la colpì un infarto, quando i militanti di una delle frange più pericolose del paese bussarono alla nostra porta». La Colombia, infatti, per 60 anni è stata vittima della guerriglia marxista schierata contro le truppe governative e i militari.

Scandalizza forse, ma non fu questo l'apice del male ricevuto, perché solo due anni più tardi sua figlia fu rapita con la nipote di 5 anni da alcuni militanti politici e, mentre la piccola fu rilasciata, per anni la famiglia è andata in cerca della madre: «Siamo riusciti a recuperare il suo corpo - ha continuato Garcia - dopo sette anni passati a camminare su e giù per le montagne». Ma la tragedia non sembrava avere ancora fine e non si comprende come questa donna possa avere ancora la forza per parlare, mentre spiega che «anche mio fratello minore è stato sequestrato su un'autostrada e né lui né le persone che hanno viaggiato con lui sono mai riapparsi», mentre nel 2005 «un gruppo armato ha preso mio figlio di 18 anni e lo ha sequestrato per 15 giorni. Poi lo hanno ucciso e lo hanno lasciato disteso sulla strada».

Così, mentre la reazione normale sarebbe stata la vendetta, l’odio, la disperazione e anche una possibile rabbia verso Dio, questa donna ha fatto qualcosa che davvero pare al limite del credibile e che si può definire solo come un miracolo: «In quel momento dissi: “Signore, te lo restituisco”». Lei che grazie alla madre aveva già perdonato l’assassino di suo padre («non abbiamo il diritto di fargli nulla», le disse la donna) quando scoprì chi era, andò a casa sua, dove lo trovò in uno stato pietoso: «Sarebbe stato facile, date le circostanze in cui si trovava, avvelenarlo o cercare un modo per ucciderlo, ma fortunatamente avevo ricevuto quell’insegnamento da mia madre».

Ma Garcia non si fermò a quelle parole, perché sulla strada di casa, dopo aver pianto fece qualcosa che non le era chiesto: «Decisi che sarei andata a visitarlo con chi si occupa dei malati per aiutarlo a guarire, portargli cibo e vestiti. Lo facemmo per molto tempo». Quando poi l’uomo scoprì che Garcia era l’orfana di un uomo che aveva ucciso non riuscì più a guardarla negli occhi «e lì capii che la colpa è peggio del dolore».

La donna rifece lo stesso con l’assassino del figlio, convinta che sia stata la Madonna a renderla capace di tanto. Infatti, mentre guardava l'immagine di una Pietà, chiese perdono per aver pianto la morte del figlio invece che ricorrere a Lei. «Tre giorni dopo, mentre tornavo a casa, vidi un giovane membro dei gruppi dei guerriglieri (antigovernativi, ndr). Era ferito e piangeva dal dolore. Lo portammo a casa. Aveva fame e gli diedi del cibo e del caffè, un paio di pantaloni e una maglietta che appartenevano a mio figlio». L’uomo era nel letto del figlio quando alzando gli occhi vide la sua foto e chiese: «Perché ci sono qui le foto del tipo che abbiamo ucciso pochi giorni fa?». Un dolore

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lancinante e lo sgomento presero Garcia: «Io e mia figlia e il ragazzo cominciammo a piangere». A quel punto l’umanità della donna stava per esplodere. Ma pregò di nuovo Dio di essere aiutata e «alla fine dissi al giovane: “Questo è il tuo letto e questa è la tua camera”». Il ragazzo piangeva e quelle parole per lui «furono come un pestaggio violento. Gli passai il telefono e gli dissi: “C’è una madre preoccupata per te da qualche parte, per favore chiamala”».

Come comprensibile però le figlie di Garcia non erano d’accordo, lo volevano morto. Allora lei le provocò: «”Ditemi quello che volte che faccia, ma garantitemi che quando ho finito mio figlio sarà seduto qui con noi”, capirono che l’“occhio per occhio” era inutile». Il ragazzo fu poi ricoverato ma morì più tardi in un incidente di droga: «La madre venne a prendere il corpo e la aiutai a riportarlo nella sua città», perché «Dio trasforma il cuore di coloro che credono che con Cristo tutto può cambiare».

Non c’è nulla di umanamente spiegabile in tutto ciò, se non con il cristianesimo puro, quello dei primi martiri cristiani che morivano pieni di una grazia che li rendeva capaci di chiedere perdono per i loro assassini come fece Cristo in Croce. Garcia ha potuto tutto questo solo per un amore coltivato e totale per Cristo e per un dono ricevuto, come dimostrò durante il viaggio del papa in Colombia nel 2017, quando durante una testimonianza unì il suo dolore e le sofferenze alle migliaia di vittime della guerra civile e, ponendola ai piedi di Gesù Crocifisso, pregò che si trasformassero in una benedizione e nella capacità di perdonare e spezzare il ciclo di violenza nel suo paese.

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REGINALD E MARGARET GREEN

Trapianti. Nicholas, 25 anni dopo. «Così continua a vivere»

A colloquio con papà Reginald e mamma Margaret, che in questi giorni sono in viaggio tra Sicilia e Calabria per ricordare il loro piccolo: «Abbiamo conosciuto le persone che si sono salvate grazie a lui. È una benedizione» A sinistra, il piccolo Nicholas Green insieme alla mamma Maggie e al papà Reginald. Che oggi sono in Italia per ricordare loro figlio.

C’è un “prima” e un “dopo” nella vita di Reginald e Margaret Green. “Prima” del 29 settembre, “dopo” il 1° ottobre di 25 anni fa. «Non ho scordato nulla di quei giorni, ogni piccolo dettaglio è fissato nella mia mente. E in quei due giorni sconvolgenti, non ho mai pensato che Nicholas potesse morire», racconta Reginald Green in collegamento Skype dalla sua casa di Los Angeles, California. Al suo fianco la moglie: «I medici ci avevano detto che nostro figlio era grave, ma noi desideravamo con tutto il cuore che tutto tornasse come prima».

“Prima” c’era una vacanza in Italia, una giovane madre, un padre più maturo, un bambino e la sorellina. C’era un’auto a noleggio e un viaggio itinerante in Italia. Firenze, Roma, Pompei, poi direzione Sicilia. Lungo la Salerno-Reggio Calabria una banda di rapinatori incrocia la vettura dei Green, la scambia per quella di un gioielliere. L’assalto, le pallottole, Nicholas ferito, la corsa prima all’ospedale di Polistena, poi al Policlinico di Messina. L’attesa, la morte e dopo la decisione di donare cuore, fegato, pancreas, reni e cornee; il trapianto su 7 per- sone malate, 5 delle quali molto gravi (4 erano adolescenti) e 2 adulti che stavano diventando ciechi… Il “poi” è la storia di un piccolo miracolo, quell’“effetto Nicholas” che in 25 anni ha portato i tassi di donazione di organi a triplicare. Mai nessun Paese ha raggiunto un tale traguardo.

Ma oggi è la giornata dei ricordi. «Nicholas in quei due giorni di fine settembre non si riprese mai. Il proiettile di fatto fermò la sua vita». Pregaste perché accadesse un miracolo? «Avevo paura di chiedere troppo – risponde Maggie –, così ho pregato il Padre Nostro, 'sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra'».

Chi ha preso la drammatica decisione di donare gli organi del bambino? «Dopo la sparatoria i dottori ci dissero che non c’era più attività cerebrale – risponde Reginald –, abbiamo chiesto: siete sicuri? Loro risposero di sì, ma che dovevano fare altri test nelle successive 24 ore. Abbiamo cercato di assorbire quel tremendo cambiamento che stava accadendo nelle nostre vite. Non abbiamo parlato molto, ma ci siamo tenuti per mano. Dopo 40 minuti i medici sono tornati e hanno ripetuto: non c’è attività cerebrale. In quel momento ho realizzato che non avrei più stretto le mani a Nicholas, che lui non mi avrebbe più detto 'buona notte papino'. A quel punto Meggie diventò pensierosa: sappiamo che è morto, possiamo donare gli organi. Qualcosa di buono poteva nascere, qualcosa poteva essere salvato da tutto quel male. Chiamammo i dottori e gli dicemmo: questo è quello che vogliamo fare. Possiamo? Loro dissero: sì, certo. Fu un bel sollievo».

Nicholas aveva 7 anni, sua sorella 4. Oggi Eleonor è una giovane insegnante di scuola superiore che ha scelto di sposarsi, l’anno scorso, accanto alla Children’s Bell Tower, il monumento che la famiglia ha fatto costruire in memoria di Nicholas e di tutti i bambini del mondo a Bodega Bay, nel nord della California, dove vivevano nel 1994. Dopo la tragedia nacquero due gemelli, Laura e Martin. Nel nostro Paese oltre 100 tra scuole, strade, palestre e parchi giochi sono dedicati a lui. Nicholas è ormai un figlio d’Italia, il bambino grazie al quale la donazione di organi è diventata nel senso comune un’opzione possibile. «Tanti piccoli nati in questi ultimi 25 anni vanno al parco giochi e chiedono ai genitori: ma chi è Nicholas Green? Quando conoscono la sua storia, diranno: qualsiasi cosa mi succeda, voglio fare come lui», immagina Reginald. Alcuni dei trapiantati si sono incontrati con i Green, nonostante la legge italiana non consenta di divulgare informazioni sull’identità dei riceventi e dei donatori.

Negli Stati Uniti, al contrario, lo scambio di lettere e gli incontri sono incoraggiati. «Per noi è stata una benedizione conoscere le persone che hanno ricevuto gli organi di nostro figlio. Abbiamo potuto vedere che il dono di Nicholas non è stato sprecato. La donna che ha ricevuto il fegato ha dato alla luce un figlio, l’ha chiamato come il bambino che le ha ridato vita, Nicholas, che oggi è nella Marina militare. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il trapianto. È molto consolante». Il giovane che ricevette il cuore è morto due anni fa. «Abbiamo provato molta tristezza quando lo abbiamo saputo. Ma il tempo extra che ha avuto ha sicuramente reso felice lui e la sua famiglia». Grazie a Nicholas, grazie a Reginald e Margaret Green.

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CLAUDE ZEREZ

Siria. La testimonianza del cristiano Zerez: «Ho perdonato i ribelli che hanno ucciso mia figlia»

«Il giorno più bello da quando sono in Francia è stato quando, al termine di una testimonianza in un liceo, è venuta da me una ragazza marocchina velata e mi ha detto: “La ringrazio. Lei oggi mi ha insegnato ad amare il profeta Gesù e ad amare i cristiani”. Per un attimo ho visto in lei mia figlia. O forse era mia figlia che guardava lei attraverso di me». Claude Zerez ha 60 anni e da due vive come rifugiato in Francia con la moglie e due figli maschi di 23 e 25 anni. Viene da Aleppo, dove faceva la guida turistica specializzata in antichità cristiane; insegnava pure arte cristiana all’università in Libano. Come tutti i siriani, di ogni religione ed etnia, ha avuto la vita sconvolta dalla guerra civile cominciata nel marzo 2011. Il peggiore degli incubi di un padre è diventato realtà un giorno d’autunno. Era il 15 ottobre 2012 e una corriera di linea correva lungo la strada che da Hama porta ad Aleppo. Dentro, gente di tutte le professioni e di tutte le età. Di tutte le fedi religiose che si trovano in Siria. Fra loro una ragazza dalla lunga chioma scura. I capelli sono scoperti, come quelli della maggior parte delle donne siriane prima della guerra. Lo sguardo è radioso, gli occhi profondi e scuri brillano perché, nonostante la Siria sia discesa da alcuni mesi nell’inferno della violenza fratricida alimentata dall’esterno, la vita sta sorridendo a questa giovane donna: ha concluso con successo gli studi medi superiori, sta per entrare all’università, ma soprattutto ha da poco celebrato le nozze. Pascale, 18 anni e pochi mesi, è una sposa. Lei che è di Aleppo vivrà col marito che è di Homs a Tartus, sulla costa del Mediterraneo, là dove la guerra ancora non morde. La corriera esce dalla città di Hama e non imbocca la strada principale per Aleppo, ormai impercorribile, ma quella che passa più a oriente. Nei pressi della cittadina di al-Manara uomini armati arrestano la marcia del veicolo. I genitori e i fratelli di Pascale non sapranno mai di quale gruppo. Salgono e controllano i documenti dei passeggeri. Cristiani e alawiti vengono fatti scendere. Per Pascale non c’è bisogno nemmeno di controllare: quei capelli al vento, il rossetto sulle labbra e l’abbigliamento giovanile sono altrettante prove a carico contro di lei. Sono in 13 a subire angherie, uomini e donne, succedono le cose che potete immaginare. Vengono uccisi tutti a colpi di arma da fuoco. I guerriglieri si dileguano rapidamente, abbandonano i cadaveri in strada senza nemmeno derubarli. Quando lo hanno chiamato, a Claude è cascato addosso il mondo: «Un’ora prima che la assalissero ci avevo parlato al telefono. Era contenta, aveva concluso la telefonata: “Preparatemi qualcosa di buono da mangiare, sto arrivando!”. Non siamo nemmeno potuti correre all’obitorio dell’ospedale di Hama, dove hanno composto i cadaveri, perché la strada era diventata troppo pericolosa. Il corpo di mia figlia ce l’ha portato un musulmano, che s’è preso il rischio di attraversare i posti di blocco dei ribelli per riportare i resti di una figlia cristiana alla sua famiglia. L’ho abbracciato e ringraziato come un fratello. Mi ha anche portato queste cose, che è tutto ciò che mi resta di Pascale». Claude mostra un cellulare col dorso di un fuxia squillante, e una catenina grigio argento che porta al collo. Il telefonino sembra appena uscito da un negozio. Di Pascale restano anche due filmati che si possono trovare in rete, impaginati uno di seguito all’altro. Nel primo c’è lei con la corale che aveva creato, impegnata a cantare e suonare un organo elettrico in parrocchia durante una liturgia accompagnata dai suoi coristi. Non era ancora maggiorenne e aveva composto musica e testo di un inno struggente dedicato ai martiri di Siria. «Non l’ha pensata solo per i martiri cristiani, ma per tutti i siriani innocenti che stavano morendo per la guerra». Le note romantiche e il canto lancinante creano un’atmosfera di indicibile tristezza, quasi un presagio di morte. Il filmato seguente comincia con una bara bianca, ricoperta da un immenso velo da sposa, che sovrasta una piccola folla in movimento. Portata a spalle da quattro uomini, entra per la porta d’ingresso della stessa chiesa che s’è vista nel filmato precedente. Pascale sorride da una foto incollata sul lato anteriore della bara. Risuona ovattato il motivo portante dell’inno per i martiri composto da lei. Poi le immagini si spostano sugli interventi al microfono dei vescovi presenti al funerale. Claude Zerez e la sua famiglia sono melkiti, ma in chiesa ci sono praticamente tutti i vescovi di Aleppo, cattolici e ortodossi. Al termine della cerimonia, quando la bara esce in un sottofondo di pianti e grida materne, si mettono in fila e rendono omaggio a papà Claude abbracciandolo e baciandolo tre volte sulle guance. Si sentono improvvisamente colpi di arma da fuoco. La gente si gira a destra e a sinistra ma non fugge. La sparatoria continua a lungo, mentre i presenti si scambiano le condoglianze, in un’atmosfera surreale. «Dopo quella tragedia ho vissuto sei mesi di buio. Niente aveva più senso», racconta Claude. «Sprofondavo ogni giorno di più nella depressione. Mi ha salvato la preghiera. Ho pregato di poter accettare quello che era accaduto alla mia famiglia, di poter trovare la pace del cuore. Allora ho cominciato a sognare Pascale, ed erano sempre sogni sereni, belli. Lei mi diceva “Sto bene, qui è bello”, “Sono sempre con voi”, oppure “Vi voglio bene”. A poco

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a poco la sua assenza fisica che mi angosciava è diventata una presenza spirituale che mi confortava».

La vita continua e Claude, persona molto rispettata in città, entra a far parte del Comitato di riconciliazione di Aleppo, che si occupa fra le altre cose di scambi di ostaggi e della liberazione tramite trattative di persone rapite dalle bande armate. Del consiglio fanno parte imam e sacerdoti, notabili e altre personalità indipendenti dal governo e dal partito dominante. Ma dopo poco cominciano ad arrivare minacce di morte da parte ribelle. «A me sono arrivate telefonate minatorie: “Devi smetterla oppure morirai ammazzato”, ad altri lettere anonime. Ho cominciato a temere per la mia vita e per quella dei miei figli». Jabhat al Nusra, Jaysh al Islam e altri gruppi islamisti della ribellione armata vogliono impedire a tutti i costi la riconciliazione, vogliono la radicalizzazione del conflitto. Per tutte queste ragioni la famiglia Zerez decide di emigrare. Ha i mezzi e ha i contatti in Francia per organizzare l’uscita dal paese in modo legale. Il problema è un altro: fra Aleppo e il confine col Libano ci sono una serie infinita di posti di blocco, sia delle forze governative che dei ribelli. I rischi sono grandissimi, superarli senza danni quasi impossibile. Molti amici ritengono di fare un favore a Claude scongiurandolo di non partire per non fare la stessa fine della figlia. Che sembra voler comunicare. «Mi è apparsa ancora una volta in sogno. Mi ha detto: “Partite, andrà tutto bene”. Mi sono fidato di quel sogno e mi sono messo per strada. Ho superato 90 barrage per arrivare in territorio libanese sicuro! In tempo di pace per compiere quel percorso ci vogliono meno di tre ore. Noi ce ne abbiamo messe ventuno!». In Francia, dove arriva nel gennaio 2014, la famiglia Zerez fa una grande esperienza di accoglienza: non solo gli amici, ma famiglie cristiane completamente sconosciute si prendono cura di loro. «In casa mia non c’è nemmeno un mobile che non mi si sia stato donato!», racconta Claude. In questa atmosfera di fraternità cristiana continua il suo cammino di approfondimento della fede seguito all’assassinio di Pascale. Comincia a essere invitato a tenere incontri e testimonianze. Parla delle sofferenze della Siria e dei suoi cristiani, ma soprattutto parla della conquista del perdono. «Grazie a mia figlia sono diventato un messaggero della pace e del perdono. Ho perdonato, senza dimenticare. Mi rivolgo a Dio come Gesù sulla croce s’è rivolto a Dio Padre: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Il cammino del perdono è il cammino della pace e della riconciliazione nel mio paese. Senza perdono non ci sarà nessun ritorno alla pace e nessuna possibilità di ricostruire la Siria; e noi cristiani dobbiamo essere i primi a perdonare, perché ci vorrà del tempo prima che quelli che si sono macchiati le mani di sangue arrivino alla conversione del cuore. Hanno imparato a uccidere, e gli ci vorrà del tempo per imparare a non farlo più, dobbiamo insegnarglielo noi». Al contrario, tutti gli sono grati per la mansuetudine e la totale mancanza di odio con cui racconta la sua tragedia personale, con cui distingue le responsabilità degli estremisti da quelle della gente comune musulmana e con cui testimonia la convivenza pacifica fra cristiani e islamici prima della guerra. «I musulmani mi dicono: “Grazie, qui dopo il 13 novembre tutti ci guardano come mostri, con le sue parole lei ci sta veramente aiutando”. Alcuni cristiani mi si avvicinano come se fossi un santo. Uno mi ha detto: “Vorrei baciarle le mani e i piedi, perché non ho mai incontrato un cristiano come voi. Voi siete la luce dei cristiani”». Ma Claude ha chiaro che la strada del cristiano non è fatta di successi e applausi umani, anche se talvolta sembra così. La cosa più importante è la conversione personale, che permette di avvicinarsi alla santità: «Il perdono non è umano, è divino. E allora o crediamo che Dio può operare il miracolo in noi, oppure non ci crediamo. Se ci crediamo, la prospettiva che abbiamo è quella di accettare di salire il Calvario per giungere alla Resurrezione. Il Calvario è il cammino da percorrere per la Resurrezione».

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GIOVANNI BACHELET

Successe il 14 febbraio 1980, ai funerali di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura e già presidente dell'Azione cattolica italiana, due giorni dopo il suo assassinio per mano dei terroristi delle Br. In diretta Tv tutta l'Italia poté vedere, alla preghiera dei fedeli, un giovane che saliva all'altare. Era Giovanni il figlio di 24 anni. Disse: "Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri".

L'impressione fu enorme. Parole sobrie e serie, in difesa della democrazia e della legalità, ma anche espressione di grande pace e bontà. Molti intuirono che in quel momento la risposta al terrorismo, quella che tutti cercavano, era lì davanti a loro. Qualche anno dopo un ex terrorista condannato all'ergastolo fece arrivare alla famiglia questo biglietto: "La testimonianza che diedero i familiari ci interpellò, forse per la prima volta, sul senso etico della nostra azione e della lotta armata. Le nostre certezze cominciavano a scricchiolare. All'ora d'aria del giorno dopo nessuno di noi voleva ricordare quel fatto. Poi uno dei nostri capi storici ci provocò sull'episodio e capimmo che tutti, dico tutti, ne eravamo stati colpiti. Quell'episodio segnò le nostre azioni da quel momento in poi".

Oggi il figlio Giovanni, 44 anni, riferisce: " Ricordo che i miei genitori mi avevano sempre incoraggiato a parlare con tutti, a cercare il dialogo anche quando è difficile. Mio padre ci ha trasmesso la centralità di Gesù e dell'Eucaristia nella vita e quindi anche nell'organizzazione famigliare. Molti pensano che proprio per questo perdano importanza la cultura, l'impegno politico e professionale.

Invece, per mio padre, proprio perché Gesù è centrale, tutto il resto acquista valore".

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GEMMA CAPRA, VEDOVA CALABRESI

"Gli "anni di piombo"? Li ho vissuti come un grande tormento. Pensavo che con l'omicidio di mio marito, anche per come era stato preceduto da una lunga stagione di accuse e di maldicenze, si fosse toccato il fondo. E invece eravamo solo all'inizio. Col tempo arrivarono le altre vittime, altri poliziotti, altri servitori dello Stato, altri uomini, altre donne, altri ragazzi. Ogni notizia data dal telegiornale, ogni omicidio, riapriva quella ferita che avevo dentro. C'è voluto tempo perché si rimarginasse". A quasi 28 anni dall'assassinio di suo marito, il commissario Luigi Calabresi, freddato da due colpi alle spalle "una fredda giornata di maggio" del 1972, davanti alla sua abitazione di via Cherubini a Milano, Gemma Calabresi sembra aver riacquistato una certa serenità. Ha sempre calcato le scene dei processi con grande tatto, schivando il più possibile i riflettori, senza mai stracciarsi le vesti. "Ho avuto fiducia nella magistratura fin dall'inizio", dice, "e in essa continuo a credere". Quando rimase vedova, a 24 anni, Gemma aveva due figli ed era in attesa del terzo. "C'è voluto del tempo per perdonare. Lo dico sempre quando vado nelle scuole a parlare ai ragazzi della mia esperienza, di quello che ho vissuto. Il perdono è un cammino interiore, lungo e difficile, fatto di alti e bassi, ma è l'unica strada. Ho insegnato da sempre ai miei figli a non odiare. L'odio cancella tutto, ti indurisce, ti logora, non ti permette di vivere, di ricostruire. Sarebbe una sofferenza, una tragedia in più. Io invece ho camminato in questa direzione obbligata, anzi potrei dire che sto ancora camminando". Il giorno dopo l'omicidio, la famiglia Calabresi fece pubblicare sul Corriere della Sera un necrologio con la frase evangelica: "Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno". Le parole dette da Gesù sulla Croce. "In realtà quella frase la scelse mia madre, io non ero ancora in grado di perdonare gli assassini di mio marito. Tuttavia accettai il consiglio di mamma, che era una cattolica praticante e aveva una fede autentica, perché pensava che quello fossa l'unico modo per spezzare la catena dell'odio. Col tempo ho cominciato a riflettere, a pregare, a vivere. Quella frase, giorno dopo giorno, divenne sempre più mia". Oggi Gemma è una madre felice, sposata con il pittore Tonino Milite, da cui ha avuto il quarto figlio, che ha sedici anni. Le chiediamo qual è il suo atteggiamento morale nei confronti dei quattro ex di Lotta continua condannati per omicidio: Sofri, Pietrostefani, Bompressi, Marino. "Io ho certamente perdonato Marino, che si è autoaccusato perché, ha detto, voleva avere la coscienza a posto anche nei confronti dei suoi figli. Ci siamo scritti delle lettere. Non ho motivo di dubitare della sua buona fede. La mia sensazione è che si tratti di un uomo più sereno. E questo mi dà molta gioia. Marino è un pentito vero, non si è costituito in carcere per avere sconti di pena, Stava a casa sua, non aveva indagini in corso. Quanto agli altri, sono disponibile a qualsiasi soluzione di clemenza, anche se non spetta a me chiederla. Certo è molto più facile rendere il perdono a chi te lo chiede invocando il nome di Dio. Ma lo si può fare anche unilateralmente. È l'unico modo per raggiungere e costruire una vera pace interiore".

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LUCIA MONTANINI

Napoli, perdona l’assassino del marito e “adotta” la sua famiglia: “Penso sia un miracolo”

Lucia è diventata il suo "angelo custode". Per lei invece Antonio "è come il figliol prodigo". Perché dopo il delitto e il dolore, possono esserci anche la riconciliazione e il riscatto.

È un cammino pieno di ostacoli, ma è quello che ha scelto di percorrere Lucia Montanino.

Gaetano, il marito, lavorava come guardia giurata e fu ucciso mentre era al lavoro la sera del 4 agosto 2009 in piazza Mercato da quattro giovanissimi che volevano rapinargli la pistola. Aveva 45 anni, una bambina ancora piccola.

Antonio invece era il più giovane del commando: diciassette anni non ancora compiuti, un bimbo anche lui, concepito appena una settimana prima. Li arrestarono tutti e Antonio fu condannato a 22 anni.

Oggi è padre di due figli. E se, al compimento del venticinquesimo anno di età, non è stato trasferito dall'istituto minorile di Nisida in una cella di Poggioreale è anche grazie a Lucia. La moglie dell'uomo che ha assassinato. La donna che i suoi bambini chiamano "nonna Lucia". La persona che dà consigli alla sua compagna. Colei che gli ha aperto la strada per ottenere un lavoro e aiutare così anche i suoi figli. Perché da un paio di mesi Antonio lavora in un bene confiscato intitolato proprio a Gaetano Montanino. Lucia ha di fatto "adottato" la sua famiglia. E racconta: "Antonio era a Nisida. Aveva chiesto al direttore dell'istituto di incontrarmi.

Ma il solo pensiero mi faceva stare male. Non volevo trovarmi davanti a un assassino. Sono passati anni. Ogni tanto mi ripetevano che quel ragazzo voleva vedermi. "È importante per il suo percorso, ma bisogna farlo prima che venga trasferito a Poggioreale", dicevano. Il 21 marzo scorso è capitato quello che non avrei mai immaginato prima. Eravamo sul lungomare, alla marcia di Libera. Mi sentivo stanchissima. Mi trovavo accanto a don Tonino Palmese quando il direttore di Nisida mi disse che Antonio era lì. Sul palco. Rivolsi lo sguardo verso di lui. Cercavo un mostro, vidi un ragazzino. Tremava, piangeva. Non ho mai avvertito tanto dolore negli occhi di una persona. Era come un animale ferito dal male che lui stesso aveva provocato. Mi sono avvicinata. Antonio mi ha abbracciata. Chiedeva perdono. "Non dovevo farlo. Non lo farò più". Mentre parlava, stava per svenire. Mi sentii di stringerlo, di accarezzarlo. "Ormai è fatta. Ma ora devi promettermi che cambierai vita", gli ho risposto".

Antonio ci sta provando. Fa le pulizie per una cooperativa e, all'occorrenza, il cameriere. Qualche volta parla ai ragazzi che rischiano di finire stritolati dal crimine come accaduto a lui e si presenta così: "Mi chiamo Antonio e nella mia vita ho fatto tanti errori. Ma ho promesso a Lucia, il mio angelo custode, di uscire dalle tarantelle. Lavoro con i disabili e non c'è cosa più bella al mondo che aiutare i più deboli. Lucia mi ha fatto capire tantissime cose. Prima di qualsiasi passo, anche il più piccolo, mi confronto con lei. La ringrazio, ma so che è sempre poco quello che fa per me".

Lucia sa che la strada è lunga. "Non sono la madre di questo ragazzo, né una terapista. Ma ci sto mettendo grande impegno.

Amavo tantissimo mio marito. Ogni volta che vedo Antonio, vedo il dolore. Ma sapere che dal sangue di Gaetano sta nascendo qualcosa di buono, mi dà sollievo. A volte penso che sia un miracolo". Ai ragazzi che rischiano di finire come lui, un giorno Antonio ha detto: "Credetemi, niente è più brutto che sbagliare come ho sbagliato io. Il rimorso ti uccide dentro e te lo porti dietro per tutta la vita". Dopo tanta violenza, un barlume di speranza.

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ZIJO RIBIC

«IO, ROM BOSNIACO, HO PERDONATO I CARNEFICI SERBI»

Il musulmano Zijo Ribic scampò al massacro nel 1992: un commando di serbi trucidò la sua famiglia.

Lui, rimasto vivo per miracolo, ha testimoniato contro gli assassini ma ha trovato la forza di non odiarli. Neanche quando sono stati assolti a Belgrado

«Voglio vivere senza odio. Voglio farmi una famiglia, una casa. Non essere continuamente ossessionato dall’idea della vendetta, perché sarebbe un incubo che ti tiene prigioniero del passato. Io non odio». Che in bosniaco si dice: «Ja ne mrzim».

Sta tutto rinchiuso in queste sue tre ultime parole: Zijo Ribic, il sopravvissuto, ha deciso di perdonare i suoi carnefi‚ ci. Ed è iniziata un’altra storia. Per lui e per tanti che hanno provato lo stesso orrore che ha vissuto lui, vittime dell’odio razziale. Erano gli anni Novanta e nella Bosnia-Erzegovina si consumava contro il suo popolo l’ultimo atroce genocidio che ha conosciuto l’Europa, culminato nel luglio del 1995 con l’eccidio di Srebrenica.

La vita del rom bosniaco Zijo Ribic, oggi 32enne, viene stravolta per sempre nel luglio del 1992 quando un gruppo paramilitare composto da sette cetnici invade il piccolo villaggio Skocic, località della Bosnia orientale a 14 km dal con‚ fine con la Serbia, dove Zijo viveva con i genitori, sei sorelle e un fratello. I soldati del gruppo soprannominato "i cetnici di Simo", dopo aver stuprato più volte la sorella maggiore Zlatija, sgozzano davanti ai suoi occhi tutta la famiglia che viene gettata in una foiba. Miracolosamente sopravvissuto alla strage, perché il fendente al collo lo ferisce soltanto, il bambino viene salvato dai soldati dell’esercito regolare serbo che si ri‚ fiutano di riconsegnarlo nuovamente ai massacratori della sua famiglia. «Non so ancora spiegarmi come ho fatto a salvarmi. Ma certo Dio lo ha voluto», commenta il giovane.

Zijo Ribic è il primo rom che ha avuto il coraggio di testimoniare contro i crimini di guerra commessi in Bosnia. A dargli la forza di rompere un silenzio di 22 anni è stata la sociologa Natasha Kandic, già direttrice dello Human Law Center di Belgrado, nonché membro del consiglio d’ amministrazione del Fondo volontario delle Nazioni Unite per le vittime della tortura, che lo incontrò in Bosnia nel 2006 e gli offrì il suo aiuto.

«È stato un incontro che mi ha cambiato la vita», spiega Zijo: «Con lei ho trovato la forza di raccontare pubblicamente la mia storia e di far avviare il processo contro i responsabili della morte dei miei familiari. Capii che ero rimasto vivo al massacro di Skocic proprio per poter testimoniare su quanto accaduto e chiedere giustizia. Non mi interessava la vendetta. Volevo rompere quella spirale di odio che aveva intrappolato i miei coetanei», afferma con passione.

«I miei genitori, d’ altra parte, non mi hanno insegnato a odiare. Nel mio villaggio rom la modalità di vita escludeva qualsiasi forma di violenza. Si viveva in pace tra noi e con i bosniaci stanziali. Tanto è vero che, iniziata la guerra, non ci siamo preoccupati più di tanto dei serbi, perché i rom non hanno mai fatto guerre», osserva.

Il processo al Tribunale per i crimini di guerra a Belgrado avviato nel 2009 contro i sette cetnici è giunto a una prima sentenza di condanna nel 2013. Ripreso in secondo grado, si è concluso nel 2015 con un’altra sentenza che ha capovolto la prima: gli imputati sono stati assolti non perché non fossero responsabili della strage, ma perché risultò impossibile determinarne le responsabilità individuali. Un processo farsa, sul quale ha scritto parole eloquenti la Kandic: «In un tempo migliore, che dovrà venire, la Serbia si vergognerà di questa sentenza». Lo stesso presidente del Tribunale di Belgrado ha fatto una dichiarazione, poi censurata, in cui affermava di vergognarsi di essere serbo.

Zijo non può dimenticare quel giorno: «Quando il giudice lesse la sentenza, i carnefici della mia famiglia mi risero in faccia. Ma rimasi impassibile. Voglio restare normale. Non voglio odiare, neanche ora», dice caparbiamente il giovane, che oggi è tornato nel suo Paese, assieme alla fidanzata Ramiza. Vive a Tuzla facendo il cuoco in un albergo e lottando per un futuro di convivenza pacifica.

Ha scritto su di lui Jrfanka, una sua concittadina: «In molti non lo capiranno. Alcuni addirittura potranno condannarlo per quello che ha fatto, altri non ci crederanno. Ma lui ha perdonato davvero».

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BEATO PADRE PINO PUGLISI

Il sorriso di un sacerdote e il suo assassino

C’era una volta una Chiesa che negava l’esistenza della mafia e che ospitava i latitanti. Poi arrivò la Chiesa del sorriso e del rifiuto della violenza. Il sorriso di padre, allora non ancora Beato, Pino Puglisi che nella trincea di Brancaccio usa quella forza gentile che alla fine metterà in ginocchio il suo carnefice.

“Quel sorriso mi è rimasto impresso nella mente per sempre. Era un sorriso pieno di luce quello di don Pino Puglisi, non lo dimenticherò mai”. Sono le parole di Salvatore Grigoli, quarantasette anni al momento dell’omicidio del parroco di Brancaccio che quel giorno, il 15 settembre 1993, compiva invece cinquantasette anni.

Si sono guardati negli occhi per pochi secondi il prete e il Cacciatore della mafia che aveva già ucciso 47 volte. Istanti che bruciano nella memoria dell’assassino.

Grigoli una volta arrestato si pente e parla a lungo di come e perché i boss di Cosa Nostra avevano voluto zittire per sempre padre Puglisi.

“Padre Pino fu lasciato solo a Brancaccio. Lui continuava a fare prediche contro la mafia, cercava di dire ai giovani di stare attenti. Qualcuno, gente che lo frequentava e che lo conosceva, riferiva ai fratelli Graviano tutto quello che don Pino faceva. Cosa Nostra sapeva sempre tutto. Fu un delitto annunciato, don Pino era sempre più solo.

Secondo me don Pino si poteva salvare, se lo Stato l’avesse protetto.... e poi successe quello che è successo”.

E lui stesso che ricostruisce quello che accadde la sera di mercoledì 15 settembre del ‘93. Salvatore Grigoli è con Gaspare Spatuzza che poi guiderà lo scooter utilizzato per l’omicidio. “Non dovevamo uccidere padre Puglisi quella sera, poi però lo abbiamo visto da solo. Stava telefonando in una cabina vicino alla chiesa di San Gaetano a Brancaccio. Era tranquillo don Pino. Andammo a prendere un’arma. Quando siamo tornati vicino alla cabina telefonica, don Pino non c’era più. Allora siamo andati ad aspettarlo sotto casa. Lui arrivò e, mentre stava aprendo il portoncino, Gaspare Spatuzza gli prese una mano per toglierli il borsello e gli disse piano: padre questa è una rapina. Io gli stavo sparando e don Pino sorrise e disse: me lo aspettavo” Un sorriso che fulminò il Cacciatore, ma non solo.

La Chiesa di don Pino Puglisi invece era sempre stata una Chiesa diversa”. Diversa come era diverso dai suoi precedessori Papa Wojtyla. “Il perdono che mi ha dato il pontefice - ricorda Grigoli - è stata la mia speranza, il mio sollievo. Lui sarà sempre il mio Angelo custode, mi aiuterà- ancora di più di quanto abbia già fatto su questa terra. Sono sicuro che in cielo incontrerà don Pino e gli parlerà di me insieme si vanteranno del mio cambiamento. Perché sono stati loro due, sono stati soltanto loro due il motivo per cui sono cambiato”. Il sorriso di padre Puglisi, il grido di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi mi hanno fatto scoprire il volto di Dio

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SAN GIOVANNI PAOLO II

Quarant’anni fa l'incontro tra Giovanni Paolo II e Ali Agca

Era il 27 dicembre 1983 quando Papa Giovanni Paolo II incontrò nel carcere romano di Rebibbia, il giovane terrorista turco che il 13 maggio del 1981, in un'affollata piazza San Pietro, attentò alla sua vita

Ali Agca cercò di assassinare Giovanni Paolo II il 13 maggio 1981, giorno in cui la Chiesa celebra l'apparizione della Madonna di Fatima. Erano le 17:19, il momento in cui il Pontefice attraversava Piazza San Pietro sulla papamobile, prima della tradizionale udienza generale. Agca sparò due colpi ferendo il Papa che fu trasportato d'urgenza all'Ospedale Gemelli e sottoposto ad un intervento di sei ore.

Già il 17 maggio, cinque giorni dopo l'attentato, il Papa recitava l'Angelus direttamente dall'ospedale per coloro che si trovavano in Piazza San Pietro. In quell'occasione, Giovanni Paolo II si rivolse all'uomo che cercò di ucciderlo, dicendo: "Prego per il fratello che mi ha ferito, al quale ho sinceramente perdonato".

Riconoscendo nell'intercessione della Madonna di Fatima, il motivo della propria salvezza, Giovanni Paolo II si recò per ben tre volte in pellegrinaggio nel santuario portoghese: nel 1982, un anno dopo l'attentato subito, nel 1991 e nel 2000. Decise e stabilì di far incastonare nella corona di Nostra Signora di Fatima la pallottola che lo aveva colpito.

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