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14 CAPITOLO PRIMO ROMANIA: LINEAMENTI GENERALI. 1. Premessa. La Romania è indubbiamente il paese più importante della regione danubiano-balcanica non solo per le sue dimensioni (sia in termini di superficie che di popolazione), ma anche in un’ottica geopolitic a, se si considera la sua collocazione strategicadicernieratral’areamitteleuropea,lapenisola balcanica e l’Europa orientale. Negli ultimi tempi la Romania sembra voler proseguire la sua centenaria “tradizione” di paese collocato ai margini di grandi imperi, cercando in tutti i modi di accelerare il difficile processo di avvicinamento alla agognata “Europa dei 25”, nel tentativodi dare continuità alla sua incorruttibile marcia verso la accogliente domus libertatum del blocco”capitalistico occidentale. Questa marcia si è già concretizzata con la entusiastica adesione alla NATO 1 della primavera 2004 ed aveva preso inizio nel lontano Natale del 1989 con l’esecuzione dell’uomo che,attraverso la sua megalomania e paranoia, aveva arrecato danni permanenti 1 Creatainorigineper arginarel’Urss, laNATO miravasoprattuttoafaredi Washington l’arbitro di tutte le decisioni sull’insieme del vecchio continente. Lungi dal dissolversi dopo la disintegrazione dell’Urss, il 2aprile 2004i Capi di Statoe di Governodi Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia hanno ratificato il loro ingresso formale nella organizzazione portando il numero dei membri da 19 a 26. Per ciò che concerne la Romania,Washingtonhagiànegoziatoconil governoromenolacreazionedi 5“enclaves” militari. La maggiore base del Paese sarà installata nell’aeroportodi Otopeni (nell’immediata periferia di Bucarest) e a detta di alcuni organi di stampa, sarà provvista di sistemi di difesa antimissilistica “Patriot” (Cassen 2004,pp.4 -5).

CAPITOLO PRIMO ROMANIA: LINEAMENTI GENERALI. 1. …

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14

CAPITOLO PRIMO

ROMANIA: LINEAMENTI GENERALI.

1. Premessa.

La Romania è indubbiamente il paese più importante della

regione danubiano-balcanica non solo per le sue dimensioni

(sia in termini di superficie che di popolazione), ma anche in

un’ottica geopolitica, se si considera la sua collocazione

strategica di cerniera tra l’area mitteleuropea, la penisola

balcanica e l’Europa orientale. Negli ultimi tempi la Romania

sembra voler proseguire la sua centenaria “tradizione” di paese

collocato ai margini di grandi imperi, cercando in tutti i modi

di accelerare il difficile processo di avvicinamento alla

agognata “Europa dei 25”, nel tentativo di dare continuità alla

sua incorruttibile marcia verso la accogliente domus libertatum

del “blocco” capitalistico occidentale. Questa marcia si è già

concretizzata con la entusiastica adesione alla NATO1 della

primavera 2004 ed aveva preso inizio nel lontano Natale del

1989 con l’esecuzione dell’uomo che, attraverso la sua

megalomania e paranoia, aveva arrecato danni permanenti

1 Creata in origine per arginare l’Urss, la NATO mirava soprattutto a fare di Washington l’arbitro di tutte le decisioni sull’insieme del vecchio continente. Lungi dal dissolversi dopo la disintegrazione dell’Urss, il 2 aprile 2004 i Capi di Stato e di Governo di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia hanno ratificato il loro ingresso formalenella organizzazione portando il numero dei membri da 19 a 26. Per ciò che concerne laRomania,Washington ha già negoziato con il governo romeno la creazione di 5 “enclaves” militari. La maggiore base del Paese sarà installata nell’aeroporto di Otopeni (nell’immediata periferia di Bucarest) e a detta di alcuni organi di stampa, sarà provvista di sistemi di difesaantimissilistica “Patriot” (Cassen 2004,pp.4-5).

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all’economia, allo Stato ma soprattutto alla società romena

tutta: Nicolae Ceauşescu2.

Eletto segretario del Partito Comunista Romeno (PCR) nel

1965, in sostituzione di quel Gheorghe Gheorghiu-Dej che

qualche anno prima aveva cominciato una prudente

differenziazione della politica romena da quella sovietica,

Ceauşescu creò un regime che si rivelò ben presto fra i più

dogmatici dell’Est europeo e in seguito fra i più refrattari alla

perestrojka avviata dall’ultimo presidente dell’Urss

Gorbaciov, nel corso degli anni Ottanta. La dittatura personale

del conducator costrinse un intero popolo a condizioni di vita

precarie a causa sia delle disastrose scelte autarchiche in

economia, sia dell’oppressiva presenza della Securitate3. Le

2 Nato il 26 gennaio 1918, in gioventù era stato un rivoluzionario,lottando contro la monarchiadi re Michele. Nominato nel 1965 segretario del PCR e nel 1967 presidente della Romania, findall’inizio Ceauşescu, fu l'alleato più instabile e meno leale dell'Unione Sovietica: mantenne irapporti con Israele, condannò le invasioni sovietiche di Cecoslovacchia ed Afghanistan pursenza mai far seguire nessun operazione di rottura con i Sovietici, si ribellò al boicottaggiosovietico e inviò comunque una squadra alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984. Seguironol’ammissione al Gatt, al FMI e alla Banca Mondiale, rapporti commerciali con la CEE e gli Usa(Ippolito 2002). Ci sono pochi dubbi sul fatto che durante i primi anni di governo Ceauşescu fuautenticamente popolare:incoraggiò il disgelo culturale, portò generi alimentari e beni diconsumo nei negozi,denunciò gli eccessi della polizia di sicurezza. Ma Ceauşescu deve esseresoprattutto ricordato come il grande affamatore della Romania: nel tentativo di ripianarel'incredibile debito estero del Paese, ammontante a oltre 21 miliardi di dollari, favorì leesportazioni della grande maggioranza della produzione agricola ed industriale del Paese,creando così uno stato di povertà in tutta la Romania, che si manifestava in una mancanzacontinua dei generi di prima necessità, del cibo, della benzina, delle medicine, per il suo popolo.Ordinò ai suoi connazionali anche quanti figli avrebbero dovuto avere, mentre l'aborto era unreato gravissimo punito con l'imprigionamento, e impose persino la “legge sulla macchina da scrivere”che richiedeva la registrazione di ogni macchina alla polizia. Pretese che fosse costruito una sorta di palazzo imperiale, il "Palazzo del Popolo": per realizzarlo furonoabbattute centinaia di abitazioni e chiese di inestimabile valore nella città di Bucarest e furonoimpiegati più di ventimila lavoratori per parecchi anni: interi quartieri scomparvero sotto leruspe! Ceauşescu divenne nello stesso tempo Segretario Generale del Partito , Presidente dellaRepubblica, Presidente del Consiglio, e Responsabile del Consiglio Nazionale della Difesasullo Sviluppo Socio-Economico(Guida 2000). Il culto della sua persona fu, forse, il maggiorein tutto il mondo comunista, preceduto solo da quello di Kim Il Sung in Corea del Nord.3 La polizia segreta che controllava capillarmente la vita sociale, impedendo in tal modo lanascita di movimenti organizzati contrari al regime. Un terzo della Securitate è poi passato allanuova struttura dei servizi segreti (Wagner 1991, p.71).

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politiche nazionaliste di Ceauşescu, inoltre, colpirono

fortemente le minoranze (ungherese,rom,tedesca) interne al

paese, causando, alla fine degli anni Ottanta, un vero e proprio

esodo verso l’Ungheria (Biagini, Guida 1997).

Non sorprende, quindi, che quello romeno sia stato l’unico

regime comunista – dell’Europa centro-orientale - a cadere in

modo cruento con la rivoluzione del dicembre 19894,

conclusasi con il processo sommario e la fucilazione di

Ceauşescu e di sua moglie Elena. In assenza di un’opposizione

organizzata5 furono gli ex membri dell’apparato di partitoed

esponenti di secondo piano del governo a prendere il controllo

della situazione durante i disordini del 1989 raggruppandosi

nel Fronte di salvezza nazionale (FSN)6, che stravinse le

4 Rivoluzione popolare o complotto sostenuto dall’esterno? Rivoluzione “tradita” o reale democratizzazione del paese? Quale continuità esiste, se esiste, tra la Securitate e il ServizioRomeno di Informazioni? In Romania, il dibattito sugli avvenimenti del dicembre 1989 rimaneaperto e le diverse posizioni permangono del tutto divergenti, quando non antitetiche. Questo,perché dalla lettura di quegli avvenimenti dipendono l’analisi successiva sui difficili primi anni Novanta e la collocazione dei diversi soggetti nell’attuale quadro politico, elementi che non favoriscono certamente una ricostruzione il più possibile obiettiva. Per un quadro più precisodella situazione si vedano Il caso rumeno di R.Wagner,ed.Manifestolibri 1991; Il ritorno degliex: rapporto CESPI sull’Europa Centrale ed Orientale, di F.Argentieri,Editori Riuniti,1996;Piaţa şi Democraţie di S.Brucan,editura Stiinţifica 1990; Romania:the unfinished revolution diS.D.Roper,harwood academic pub.2000; National ideology under socialism.Identity andcultural politics in Ceauşescu’s Romania di K.Verdery,Berkeley un.,1991; Chirot D.,1999,“WHat Happened in Eastern Europe in 1989?” in V.Tismaneanu(ed),1999, The revolutions of1989,Routledge,London. Sono inoltre degni di interesse, sia l’intervista a Petre Roman su El Pais, 22 dicembre 1999 (“Los comunistas contaminaron la revolucion”) che il sito http://www.ceausescu.org .

5 Uno dei maggiori paradossi della Rivoluzione del 1989 è stata proprio l’assenza di una “base sociale”. In questa rivoluzione, infatti, non vi sono stati movimenti sociali attivi portatori di progetti coerenti. E non perché la popolazione è stata fin troppo “assistita” per ribellarsi. Al contrario, tutti gli individui e i movimenti sociali e politici che hanno lottato contro laburocrazia e la dittatura (in nome del socialismo) venivano sistematicamente repressi (semprein nome del socialismo) (cfr. Samary 1999).6 Non è chiaro quando il FSN,che spuntò all’improvviso per prendere il potere il 22 dicembre 1989,fosse stato organizzato. Si presume sia nato all’interno dell’edificio del Comitato centrale il pomeriggio del 22 dicembre su iniziativa di un gruppo di persone vicine a Ceauşescu, tra cui molte erano già d’accordo fra loro. Il Fronte “aveva bisogno di rapide e libere elezioni perlegittimarsi. Esse avrebbero dovuto arginare il vuoto di autorità,senza lasciare ad altri gruppipolitici il tempo di organizzarsi...La società rumena era disgregata,i rivoltosi non avevano

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elezioni del 1990 e impose il suo candidato, Ion Iliescu7, alla

carica di Presidente della Repubblica (Treptow 2001).

Diversamente dagli altri paesi del socialismo reale, dopo la

Rivoluzione il Partito comunista scomparve completamente

dalla scena politica8, anche se la precedente struttura di potere

e la sua élite politica ne uscirono inaspettatamente come un

elemento integrante del nuovo corso.

Alla generale conversione all’anticomunismo, riscontrabile nei

più diversi settori della società romena, seguì un ritorno

dell’ideologia nazionalista nello scontro politico attualizzando,

con particolare aggressività, i miti ottocenteschi della “Grande

Romania”.

nessuna organizzazione,nessun programma,nessun capo. Poterono così affermarsi politicamentei fautori di un colpo di stato, i cospiratori e i membri dell’establishment” (Wagner R.,1991,pp.16-44).7 Ion Iliescu, inizialmente sostenitore di Ceauşescu, diventa poi suo oppositore; si schiera controla rivoluzione ungherese del 1956 e partecipa alla repressione dei fermenti anche nel propriopaese. Per divergenze con Ceauşescu viene esiliato nella contea di Timiş. Nel 1987 condanna la repressione dei moti di Braşov, ma si salva grazie alle protezioni di cui gode a livello internazionale, in particolare nell’Urss e all’interno del Partito comunista (cfr.Chirot D.,1999,“WHat Happened in Eastern Europe in 1989?” in V.Tismaneanu(ed),1999, The revolutions of1989,Routledge,London, pp.19-50).8 In Romania, a differenza degli altri Paesi dell’Europa dell’Est, subito dopo la rivoluzione il Partito comunista è scomparso completamente dalla scena. Basti ricordare che solo 25funzionari comunisti sono stati incarcerati e l’ultimo di questi è stato rilasciato nel 1994. Dopo la caduta del regime solo il ministro degli interni è stato condannato (all’ergastolo), mentre nessun membro della Securitate finì in prigione. Non vi è mai stato alcun processo per i reaticommessi nel corso della rivoluzione durante la quale, è bene ricordarlo, persero la vita circamille persone.

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2. Geografia fisica e struttura amministrativa9.

La Romania si situa nell’emisfero Nord del globo, nel

continente europeo; sul suo territorio si intersecano il 45esimo

parallelo di latitudine Nord e il 25esimo meridiano di

longitudine Est. La sua posizione centrale rispetto alla distanza

tra l’Equatore e il Polo Nord la colloca in piena zona

temperata, mentre la sua posizione continentale in rapporto

all’estremità occidentale della penisola europea le conferisce

un clima continentale moderato (comparato con quello della

piattaforma russo-siberiana). Il territorio romeno si estende, da

Nord a Sud, tra 48°15’06’’ lat. N. (Horodistea) e 43° 37’07’’

lat. N. (Zimnicea), per un totale di 525 Km, e, da Ovest a Est,

tra 20° 15’44’’ long. E. (Beba Veche) e 29°41’24’’ long. E.

(Sulina), per un totale di 740 Km. La sua superficie totale è di

238391 Km², cioè il 4,8% del continente europeo: queste

caratteristiche rendono la Romania un’entità statale di media

grandezza e il più grande paese del Sud-Est europeo (Aur et

al. 1997).

I confini attuali della Romania hanno una lunghezza totale di

3185 km e sono suddivisi come segue: il 58,4% è costituito da

acqua corrente (a Nord, il Prut disegna la frontiera con la

Repubblica di Moldavia e parte di quella con l’Ucraina; a Sud

9 Il contenuto del presente paragrafo si basa sui seguenti volumi: Universitatea din Bucureşti,Institutul de Geografie, Geografia României. I. Geografia Fizica, Ed. Academiei RepubliciSocialiste Române, 1983; Academia Româna, Institutul de Geografie, România: Atlas istorico-geografic, Ed. Academiei Române, Bucureşti, 1996, Rey V.,Groza O.,Patroescu I., 2002,Atlasul României, Ed. RAO,Bucureşti.

19

e ad Est, il Danubio traccia una parte del confine con la Serbia

e con la Bulgaria), il 32,6% è costituito dalla frontiera terrestre

convenzionale (a Nord e a Nord-Ovest, con l’Ucraina e

l’Ungheria) e il 9% dalle acque internazionali del Mar Nero.

La regione della Romania contiene i Carpazi, nel loro settore

di massimo sviluppo, e il bacino inferiore del Danubio, fino al

suo Delta sulla costa occidentale del Mar Nero: ciò permette di

definirlo come un paese carpatico-danubiano-pontico (AA.VV.

1996). La catena sinuosa dei Carpazi, ostacolando la

circolazione delle masse d’aria, determina sul territorio

romeno una regione di interferenza delle influenze oceaniche

(occidentali), continentali (orientali) e mediterranee

(meridionali), con conseguenze nella distribuzione del regime

idrico e del manto vegetale. Il rilievo, infatti, condiziona la

diversità territoriale del paesaggio, tanto a livello trasversale

(disegnando unità fisico-geografiche concentriche) quanto a

livello verticale (stratificando il clima in funzione

dell’altitudine).

I Carpazi romeni, facenti parte del sistema orogenetico alpino

e formatesi nell’era geologica del Terziario,hanno una

superficie totale di 66303 km², con altezza media di 1000m (la

vetta più alta, il monte Moldoveanu, raggiunge 2544 m). La

loro lunghezza è di circa 1000 km; la larghezza massima

giunge fino a 160 km (tra Baia Mare e Cacica) mentre quella

minima è di 35 km (tra Nucsoara e la città di Victoria) (Aur et

al. 1997).

20

La stratificazione del clima in funzione del livello di altitudine

permette di identificare quattro tipi di ambienti geografici: 1-

Ambiente alpino e montano (Mediul alpin şi montan); 2-

Ambiente delle regioni collinari (Mediul regiunilor

dealuroase); 3-Ambiente delle pianure e degli altipiani

tabulari bassi (Mediul cimpiilor şi podisurilor joase tabulare);

4-Ambiente delle lande e del Delta del Danubio (Mediul

luncilor şi a Deltei Dunarii) (Rey et al. 2002).

Il Danubio rappresenta la risorsa idrica più importante della

Romania, che ospita il 38 per cento dell’intero corso del

grande fiume. Il 98 per cento dei fiumi romeni appartiene al

bacino del Danubio: essi sono tutti suoi immissari ed il loro

tragitto, fino all’intersezione con il Danubio, segue le

direzioni Nord-Sud, Nord-Ovest o Sud-Est (Jiu, Olt, Argeş,

Siret, Prut). Solo la parte orientale della Dobrugia, la

Transilvania, il Maramureşe la Crişana sono percorse da fiumi

che non si immettono nel Danubio (ad eccezione dell’Olt). La

Dobrugia è attraversata da corsi d’acqua che si dirigono

direttamente verso il Mar Nero, gettandosi in lagune ordinate

lungo la costa, mentre i fiumi che toccano le regioni nord-

occidentali si dirigono ad Ovest, verso il Tisa. I bacini fluviali

vengono sfruttati per la produzione di energia elettrica,

attraverso la costruzione di dighe e di centrali idro-elettriche.

Ulteriori fonti di energia derivanti da risorse naturali

consistono nelle riserve del sottosuolo: gas naturale, petrolio e

carbone. Queste ricchezze minerarie sono concentrate

soprattutto nelle zone subcarpatiche, nelle zone di pianura

21

(come l’Altopiano Getico e l’Altopiano della Transilvania) e

nella piattaforma continentale del Mar Nero. D’altra parte, le

ricchezze metallifere (ferrose e non ferrose, tra cui, oro,

argento e rame) sono situate principalmente nel gruppo

settentrionale dei Carpazi Orientali e nei Carpazi Occidentali.

Infine, altre risorse del sottosuolo di importanza nazionale

sono le acque termali e le sorgenti di acque minerali:

conosciute e utilizzate

da secoli per le loro straordinarie qualità terapeutiche, esse

sono presenti in tutte le zone geografiche, ma, specialmente,

nello spazio montano e collinare (AA.VV. 1996).

Se si osserva la durata temporale dei confini della Romania,

l’arco dei Carpazi si rivela il principale spartiacque non solo

dal punto di vista geografico, bensì anche da quello politico.

Per oltre 400 anni la sua sezione più ampia costituì la frontiera

orientale dell’Impero austro-ungarico e di conseguenza la

divisione tra le forti influenze dell’Occidente (Cristianesimo

occidentale, Rinascimento, Illuminismo, Rivoluzione

Industriale) e la dominazione da parte degli Imperi Bizantino

prima e Ottomano poi.

I Carpazi, quindi, rappresentano una linea di divisione storica

non eguagliata in durata da nessuno dei confini moderni della

Romania (Jordan 1998).

22

Fig. 2.1 –Romania –carta fisica.

Fonte: Rey et al. 2002. Scala: 1:5.000.000

Quando al termine della prima guerra mondiale alla Romania

furono assegnati alcuni ex-territori dell’Impero austro-

ungarico, essa si dovette confrontare con il duro compito di

assimilare un territorio molto ampio, significativamente più

sviluppato e orientato culturalmente ad Ovest.

Il tentativo di uniformazione imposto dal regime ebbe

relativamente successo nel ridurre queste(ed altre) differenze

storiche, ma molte di esse si sono confermate nel tempo10: è il

caso dell’evidente differenza/lontananza fra città e campagne

cui ha fatto seguito di recente l’ancor più marcata separazione,

10 Durante tutta l’era comunista, l’industria è sempre stata vista come l’unico settore capace di generare e guidare la crescita economica di alcune aree. Di conseguenza, il programma disviluppo intrapreso dal regime socialista cercò di distribuire l’industria equamente su tutto ilterritorio, senza però tener conto della effettiva capacità delle varie province di supportarne losviluppo. Così questo tentativo di creazione di centri di nuova industrializzazione, nato perridurre le disparità inter-regionali, finì per creare differenze infra-regionali, fra i nuovi nucleiindustriali, per lo più città, e i villaggi rurali (Cori 1989).

23

fra una ristretta cerchia di “nuovi ricchi” e una sommessa

massa di “vecchi poveri”.

La Romania, comunque, non ha una tradizione di spiccate

individualità regionali analoga a quella degli Stati dell’Europa

Occidentale: dal 1991 presenta una divisione amministrativa in

41 Province (judeţe, corrispondenti al livello comunitario

NUTS113) più la municipalità(municipiul) di Bucarest (vedi

Fig. 2.2). Con la legge 151/1998 (che stabilisce il quadro

istituzionale, gli obiettivi, le competenze e gli strumenti

specifici della politica di sviluppo regionale e che sarà

maggiormente analizzata e approfondita nel prosieguo del mio

lavoro) sono state create otto “Regioni di sviluppo”,

corrispondenti al livello comunitario NUTS 2 (vedi Fig. 2.3 ).

Queste regioni sono state definite attraverso la cooperazione

volontaria delle province senza perciò avere alcun status legale

e pur non essendo unità amministrative e territoriali.

11 Nomenclature des Unités Territoriales Statistiques. Esistono sei livelli NUTS, decrescenti,dalle unità più grandi alle più piccole; i primi tre livelli, NUTS I (gruppi di regioni o lander), II(regioni) e III (dipartimenti o provincie), sono quelli più utilizzati a livello statistico. Il livello 5corrisponde alle unità locali, generalmente costituite da comunità la cui densità demografica èdi circa 150 abitanti/km2 (Pascariu 2002).

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Fig. 2.2 - Le 41 province romene.

Fonte: Rey et al. 2002 Scala: 1:5.000.000

Fig. 2.3 - Le 8 Regioni di Sviluppo del 1998.

Fonte: Rey et al. 2002 Scala: 1:5.000.000

25

La struttura amministrativo-territoriale del Paese comprende

poi 263 città(oraşe) [delle quali 84 sono municipalità] e 2.688

comuni (comune) [più di 13.000 villaggi(sate),sono

raggruppati in queste unità]. Le oraşe e i comune

corrispondono al livello NUTS 4.

Più della metà delle cittadine romene(152 di 263) hanno meno

di 20 mila abitanti e solo 23 hanno una popolazione che supera

le 100 mila unità. La capitale Bucarest ha più di due milioni di

abitanti (Traistaru et al. 2003).

26

3. Elementi politico-istituzionali.

La Romania è oggi una Repubblica semipresidenziale. Il

presidente è eletto a suffragio universale così come il

Parlamento bicamerale, formato da una Camera dei

deputati,con 332 seggi, e da un Senato, con 137 seggi.

Deputati e senatori sono eletti per quattro a suffragio

universale, con il sistema proporzionale con sbarramento al

5%. Una nuova costituzione, che ha sostituito la prima

costituzione post-comunista del dicembre 199112, è stata

approvata con referendum il 19 ottobre 2003. Essa

conferisce un notevole potere al presidente, che viene eletto

per un mandato di cinque anni e può ricoprire la carica per

un massimo di due mandati. Una vasta maggioranza di

elettori (89,7%) ha sostenuto la nuova costituzione, ma

l’affluenza alle urne è stata bassa, pari ad appena il 55,7%,

poco più del quorum del 50% necessario affinché il

referendum fosse considerato valido13.

12 La costituzione romena del 1991 sembrava cogliere numerose suggestioni provenientidall’esperienza costituzionale francese del secondo dopoguerra, pur non recependo i numerosissimi meccanismi istituzionali che specie la Costituzione del 1958 ha messo adisposizione del governo (sul fattivo apporto che la dottrina francese ha dato alla stesura deltesto della costituzione romena cfr. M.Costantinescu, I.Muraru, “Les influences françaises dans le processus d’élaboration de la Constitution roumaine de 1991”,in RFDC,1998,pp.377 ss.).13 La nuova costituzione ha l’obiettivo di recepire nel diritto romeno l’acquis comunitario.Essa conferisce inoltre al diritto comunitario supremazia su quello romeno, una volta chequesto paese avrà aderito all’UE, accorda una maggiore tutela ai diritti di proprietà e consente agli stranieri la possibilità di acquistare terreni (ma solamente dopo l’ingresso del paese nell’UE). Essa permette inoltre di utilizzare le lingue minoritarie nell’ambito amministrativo e in quello giudiziario. La nuova costituzione abolisce la leva obbligatoriaed estende il mandato presidenziale da quattro a cinque anni, conferendo inoltre ai giudici,e non più ai pubblici ministeri, il potere di decidere in merito all’arresto di presunti criminali (cfr. Parl. Eur., 2004).

27

L’autorità giudiziaria è costituita dai tribunali, dal

Ministero della Giustizia e dal Consiglio superiore della

magistratura.

Le origini del moderno Stato romeno risalgono al 1859,

quando furono unificati i principati di Moldavia e Valacchia

in uno Stato, guidato da Carol I Hohenzollern, che proclamò

l’indipendenza nel 1877, riconosciuta poi l’anno seguente al

Congresso di Berlino (Bianchini, Privitera 2003) 14.

Come già sottolineato in precedenza, spettò al Fronte di

Salvezza Nazionale il compito di traghettare il paese verso

la democrazia e l’economia di mercato, ma la sua politica,

caratterizzata da un’eccessiva prudenza nel campo delle

riforme, non riuscì a risanare il paese, causando le

dimissioni del primo ministro Petre Roman.

Alle elezioni presidenziali del 1992 Iliescu sconfisse il l’ex

professore universitario Costantinescu, candidato della

neonata Convenzione democratica romena (CDR) e il

Partito della democrazia sociale in Romania (PDSR), nato

dalle ceneri del FSN , si affermò come prima forza politica.

Non potendo contare sulla maggioranza assoluta dei seggi,

tuttavia, il PDSR dovette cercare l’appoggio dei partiti

estremisti e nazionalisti come il Partito dell’unità nazionale

romena (PUNR),il Partito della Grande Romania (PRM) e il

14 Anche come identità geografica, la Romania è stata una creazione dell’Ottocento. Nell’accezione moderna del termine apparve nel primo ventennio dell’Ottocento e si impose nella trattatistica geografica europea solo a partire dalla seconda metà del secolo.Nel ventennio di costruzione dello Stato romeno,soprattutto dopo l’ascesa al trono di Carol I ,si capì che il sentimento nazionale era un fenomeno estremamente elitario (riservatoprincipalmente agli intellettuali) e che la nascita della Romania doveva assai più ai disegnidelle potenze europee che all’iniziativa del popolo rumeno. Si diede perciò il via a tutta una serie di progetti di organizzazione della cultura che si concretizzarono nel passaggio da unalingua scritta in caratteri cirillici ad una scritta in caratteri latini (contribuendo a creareun’identità nazionale distinta dai popoli slavi confinanti) e nella creazione delle Università di Iasi (1860) e di Bucarest (1866) e della Società accademica romena (1866), poi diventataAccademia romena (1879). (Pitassio 2001)

28

Partito socialista dei lavoratori (PSM). Soltanto la forte

determinazione ad entrare in Europa e la speranza di essere

accolto nella NATO indussero Iliescu a scaricare i suoi

scomodi alleati e a firmare un trattato con l’Ungheria

(settembre 1996), che sancì l’inviolabilità delle frontiere

comuni e il rispetto delle reciproche minoranze (Treptow

2001).

Con la vittoria elettorale dell’opposizione di centro-destra,

guidata dalla CDR, alle politiche del 1996 si cominciò a

parlare di “nuovo corso” anche in Romania15: tuttavia la

fiducia inizialmente riposta nella CDR fu presto disillusa, a

causa dei continui contrasti interni e scandali (molti dei

quali costruiti ad arte o comunque enfatizzati

dall’opposizione) che travolsero la coalizione e portarono

alle dimissioni del premier Ciorbea (marzo 1998) e del suo

successore Vasile (dicembre 1999). Nonostante una ripresa

economica nel 2000, ad opera del nuovo primo ministro

Isarescu, le elezioni del novembre dello stesso anno

riportarono al potere Iliescu e il suo PSDR (Tomescu Hatto

2002).

Le ultime elezioni dell’autunno 2004 hanno portato

importanti novità all’interno dell’agone politico romeno;

dopo la campagna elettorale più lunga degli ultimi 15 anni,

il 28 novembre si sono avute le elezioni parlamentari e

presidenziali: nessuna delle due alleanze politiche che si

contrapponevano ha ottenuto la maggioranza. Alle

15 Uno dei fattori del successo del CDR alle elezioni nazionali del novembre del 1996 fu lapresentazione del programma della coalizione conosciuto come “Contratto con laRomania”che, fin dal nome (e dal suo insuccesso), mostra evidenti similitudini con l’omonimo contratto italiano. Esso si basava sulla promessa di rapide ristrutturazioni nel campo dell’agricoltura e dell’industria,di un rilancio delle privatizzazioni e di un recuperodell’economia. In realtà,negli anni a seguire non ci fu nessuna riforma reale e lo “shock” senza “terapia” segnò la fine politica dell’ex rettore dell’Università di Bucarest.

29

parlamentari ha conquistato il maggior numero di voti

l’unione socialdemocratici-umanisti (PSD-PUR) del primo

ministro uscente Adrian Năstase con il 36% delle

preferenze e 189 seggi ottenuti su 469 complessivi, contro il

31% della coalizione “Giustizia e Verità” (fondata

sull’alleanza fra PNL-PD) guidata dal sindaco di Bucarest

Traian Băsescu, che ha conquistato 161 seggi (Caprile

2004).

Uno degli aspetti positivi delle elezioni è stata sicuramente

l’alta affluenza : ha infatti votato il 62,60% degli aventi

diritto in una situazione fondamentalmente regolare anche

se, a detta dell’OSCE, vi sarebbero stati dei “dubbi

procedurali”.

La gestazione delle presidenziali è stata invece più sofferta

: dopo le elezioni del 28 novembre, conclusesi con il 40%

delle preferenze andate a Năstase e il 33% a Băsescu, il

ballottaggio è stato d’obbligo; così, dopo una serie infinita

di accuse e polemiche, si è arrivati alla fatidica data (12

dicembre) in un clima di aperto scontro e di grande

incertezza. Andando contro tutti i pronostici e le previsioni

l’ha spuntata il candidato del centro-destra Băsescu16

ottenendo il 51,75% dei voti contro il 48,25% dell’ultimo

16 Sindaco di Bucarest per la seconda volta, diventato rappresentante dell'Alleanza diopposizione di centrodestra (tra i liberali e i democratici) “Giustizia e Verità” ad un solo mese dall’inizio della campagna elettorale,dopo che il candidato dell’alleanza.Theodor Stolojan si è ritirato per problemi di salute,Traian Băsescu (53 anni), un ex capitano dellamarina commerciale, linguaggio colorito, diventato famoso in Europa occidentale anche perla sua campagna contro i cani randagi di Bucarest (bollata dalle associazioni animalisteoccidentali come “un vero e proprio massacro”), è considerato l’uomo di ferro della politica romena. Come Năstase, anche Băsescu ha come obiettivo principale l’adesione della Romania all’UE, ma mostra un atteggiamento differente rispetto ai negoziati d’adesione. Il governo di Năstase ha appena chiuso questi ultimi ma Băsescu li ritiene, per alcuni aspetti,“a sfavore del paese”. Tra i capitoli contestati quelli che riguardano concorrenza ed energia. Per quest’ ultima questione Băsescu ritiene che la Romania debba chiedere un periodo ditransizione di 10-15 anni. Băsescu ha più volte dichiarato che la Romania deve aderire “con dignità” all’UE, senza favori economici per ottenere l’appoggio politico dai poteri europei (Iordache 2004d).

30

premier Năstase17. A votare Băsescu sembrano essere stati

soprattutto i giovani, gli intellettuali e generalmente la

popolazione urbana (Sgabello 2004). Infatti, anche per la

politica è valida la rappresentazione di due Romanie : da

una parte vi sarebbero, infatti, gli elettori delle grandi città,

giovani e intellettuali, che hanno dato il loro voto alla

coalizione di centro-destra, dall’altra la popolazione rurale

“usata” dai socialdemocratici come base per concentrare le

preferenze.

Va però precisato che non c'è una reale differenza nei

programmi (soprattutto di politica economica) dei due

schieramenti, e che l'elezione di Băsescu non è destinata a

sconvolgere il percorso di avvicinamento della Romania

all'Unione Europea.

Per la prima volta dopo la Rivoluzione del 1989, la

Romania si ritrova un primo ministro liberale, Calin

Popescu Tariceanu. L’esecutivo, di cui fanno parte 4 partiti

(PL, PD, UDMR, PUR), è formato da 24 membri: 10

ministri molto giovani, tra i 30 ed i 40 anni, 3 donne e molti

uomini d’affari18. Il governo ha presentato anche una lunga

17 Candidato socialdemocratico, il filo-occidentale Adrian Năstase (54 anni) è stato dal2000 capo del governo di Bucarest. Năstase, candidato dell’Alleanza PSD+PUR tra i social-democratici e gli umanisti si è presentato come un europeista, dal linguaggiodiplomatico, puntando sulla continuità delle riforme, sul tasso di crescita economica oltrel’8% e ricordando che il suo governo ha portato la Romania nella Nato. Ma in molti considerano il partito socialdemocratico troppo legato ai comunisti . Corruzione e tentatividi sottomettere le istituzioni dello Stato ed i media sono state tra le accuse mosse al partitodi Năstase (Congiu 2004).18 Una parte dei membri dell’esecutivo è fatta di volti nuovi, giovani che finora si sono dedicati alla propria professione. Tra questi c’è ad esempio il ministro degli esteri, Mihai Razvan Ungureanu, 36 anni, ex inviato speciale del coordinatore del Patto di Stabilità per iBalcani, il ministro dell’economia e del commercio Ioan CodruţSeres (35 anni), o ilministro delle finanze, ex giornalista economico, Ionut Poescu (40 anni). Nell’esecutivosono presenti anche tre donne. Mona Musca (liberale), ricoprirà il ruolo di Ministro per lacultura, Sulfina Barbu (Partito democratico) s’occuperà di ambiente mentre Monica Macovei, avvocato di fama soprattutto conosciuta per essersi occupata di molte causeriguardanti la restituzione dei beni confiscati durante il comunismo e esponente dellasocietà civile, entra da indipendente a ricoprire l’incarico di Ministro della giustizia. Sono

31

lista dei propri obiettivi: il primo rimane senza dubbio

l’adesione della Romania all’UE, prevista per il 1° gennaio

2007.

Il vuoto di potere lasciato dal regime ceauceschiano,

collegato alla diffusione su scala globale della questione

etnica e alla mancanza reale di democrazia e di riforme

economiche, ha reso estremamente deficitaria la politica

estera del paese, soprattutto nel primo decennio post ‘89.

L’incerto status delle minoranze, in particolare di quella

ungherese, è sempre stato il maggior impedimento al

raggiungimento dei principali obiettivi di politica estera

(integrazione all’UE e alla NATO19) e le buone relazioni

con Ungheria, Repubblica Moldava, Serbia e Ucraina.

Proprio contro il governo di Kiev, Bucarest ha lanciato

un’azione legale al fine di risolvere definitivamente la

questione dei confini marittimi e dei relativi diritti di

sfruttamento economico del Mar Nero. Per quanto riguarda

le relazioni con il vicino ungherese, queste sono migliorate

notevolmente nel corso degli ultimi anni. Uno dei principali

poi presenti anche molti uomini d’affari. Il premier stesso, tra l’altro, è l’ex importatore in Romania della marca di automobili Citroen. Tra i ministri benestanti (che non sfuggono aivari scandali d’affari degli ultimi anni) c’è George Copos (51 anni) rappresentante del Partito Umanista (PUR) che ricoprirà il ruolo di vicepremier e si occuperà di piccole emedie imprese: la sua fortuna personale ammonterebbe a circa 170 milioni di dollari. Poi viè Adrian Videanu, 42 anni e 30 milioni di dollari, anche lui vicepremier, che si occuperàdelle attività economiche. Il terzo posto di vicepremier è andato a Marko Bela (presidentedell’Unione Democratica dei Magiari di Romania), che si occuperà di istruzione e dell’adesione all’UE (Iordache 2004d).

19 A proposito dell’ingresso della Romania nella NATO, c’è da dire che ilgoverno romenoha sempre sostenuto con forza la guerra guidata dagli Stati Uniti in Iraq, fornendo una baseper le azioni militari americane nel Mar Nero, rendendo disponibile lo spazio aereo e leferrovie alle forze della coalizione e inviando personale militare non combattente nel Golfo.La Romania si guadagnò il favore statunitense (sebbene accompagnato da critiche da partedell’UE) nell’agosto 2002, quando fu tra i primi paesi a firmare con gli Stati Uniti un accordo in base al quale si impegnava a non consegnare cittadini statunitensi al Tribunalepenale internazionale. Tuttavia, la Romania non ha ratificato l’accordo e, anzi, nel giugno 2003 ha aderito agli obiettivi della posizione comune del Consiglio dell’Unione europea riguardante il tribunale (Parl.Eur. 2004).

32

oggetti di disputa tra i due paesi era la “legge sullo status

giuridico” ungherese che estendeva alla popolazione

magiara residente nei paesi limitrofi alcuni vantaggi di

esclusivo appannaggio degli ungheresi residenti sul proprio

territorio nazionale. La Romania ha sempre ritenuto tale

legge discriminatoria, in quanto i cittadini rumeni

verrebbero trattati in modo diverso sulla base dell’origine

etnica. In seguito all’eliminazione delle parti più

controverse della legge, la lunga polemica è giunta al

termine nel settembre 2003, quando Romania e Ungheria

hanno firmato un accordo per la sua attuazione in Romania.

I rapporti con i vicini Serbia e Montenegro, che da sempre

si mantenevano su buoni livelli, si sono invece deteriorati a

causa della cooperazione della Romania con la NATO

durante la campagna del Kosovo. A seguito della

formazione di nuovi governi in entrambi i paesi, essi hanno

potuto ripristinare la tradizionale cooperazione.

L’ingresso del paese nell’Unione Europea porterà

inevitabilmente la questione romeno-moldava a livello

europeo, andando a incidere sulle relazioni già poco definite

tra Russia e Europa. Sono infatti molto forti le tensioni tra

la componente romena della Moldavia e quella slava,

separatasi nella Repubblica non riconosciuta (tranne che

dalla Russia) della Transdnistria, un’isola di illegalità

artificialmente tenuta in vita dalla 14° divisione della

Armata Rossa.

La Romania, cerca comunque di guadagnarsi nuove

amicizie all’interno del sistema dell’Europa orientale: Nel

giugno 2001 Bulgaria, Albania, Bosnia-Erzegovina,

33

Croazia, Macedonia, Romania e Serbia-Montenegro hanno

firmato un protocollo d’intesa per la liberalizzazione del

commercio nella regione, finalizzato a creare, entro la fine

del 2002, una rete di accordi commerciali volti a

liberalizzare almeno il 90% del commercio tra le parti,

nell’arco di un periodo di transizione di sei anni20. L’11 e il

12 ottobre 2004 si è poi tenuta a Bucarest la conferenza

sulla “Creazione della comunità dell’energia nell’Europa

sud-orientale”. Alla conferenza, il cui obiettivo era la

negoziazione del trattato che dovrebbe istituire la comunità,

hanno partecipato l’Albania, la Bosnia-Erzegovina, la

Bulgaria, la Croazia, la Macedonia, la Serbia-Montenegro,

la Turchia e il governo provvisorio del Kosovo. E sempre in

tema di cooperazione, e sempre a Bucarest si sono riuniti i

ministri degli esteri romeno, serbo e bulgaro per

sottolineare l’importanza della collaborazione

transfrontaliera, che nel caso specifico si concretizza nel

progetto dell’Euroregione “Danubio 21”(Perello 2004).

20 Per ulteriori dettagli si veda: http://www.stabilitypact.org/regional.html

34

4. Assetto demografico.21

Negli ultimi cento anni, l’evoluzione della popolazione

romena è stata influenzata da radicali cambiamenti

economici, politici e sociali. Gli anni tra due guerre

mondiali e la prima decade post ’89 rappresentano i periodi

di maggiori mutamenti all’interno di questo percorso

evolutivo.

Tabella n. 4.1 - Evoluzione della popolazione romena (dati

in milioni).

Fonte: CNS 2002

Come si evince dalla tabella, la crescita della popolazione

residente è continua fino agli inizi degli anni Novanta

quando, in soli dieci anni, si assisterà a una sensibile

diminuzione (circa un milione di persone) della popolazione

totale dovuta a tutta una serie di cause (liberalizzazione del

diritto all’emigrazione, diminuzione del tasso di natalità,

liberalizzazione del “comportamento demografico” con

21 Sono state usate come fonti per i dati contenuti nel presente capitolo l’Annuario dell’Istituto di statistica romeno 2004, “Il mondo in cifre 2005”, The Economist Ltd ,FusiOrari,Roma, l’ultimo rapporto della sezione romena dell’UNDP (www.undp.ro) .

35

l’eliminazione del divieto all’aborto, ecc.) interdipendenti

tra loro.

A luglio 2005 la popolazione romena residente ammontava

a quasi 21,7 milioni di abitanti, così suddivisi: 0-14

anni,16,2%; 14-64 anni,69,4%; da 65 anni in su,14,4%) (Ins

2005).

Tabella n. 4.2 –Popolazione romena divisa per classi di

età.

Fonte: Ins 2002

La distribuzione territoriale della struttura per gruppi di età

è indice di forti contrasti: le popolazioni giovani sono

concentrate nelle zone montane, nella Pianura di Ploieşti e

Tirgovişte, nella parte centrale della Moldavia, in una

piccola zona sud-orientale del paese ed in una piccola parte

del Banato, attorno a Timişoara; le aree di intenso

invecchiamento investono, d’altra parte, la Pianura Romena

meridionale, le vette occidentali dei Monti Apuseni e la

parte orientale della Moldavia. La distribuzione di

fecondità, natalità e mortalità rispecchia, a sua volta, i

valori contrastanti della distribuzione per gruppi di età. I

valori più elevati della fecondità e della natalità, si rilevano

36

nella catena montuosa settentrionale, in Moldavia e nella

Pianura del Baragan. I valori più elevati della mortalità si

incontrano, invece, nell’area meridionale ed occidentale del

paese (Rey et al. 2002).

Se non si considera la regione di Bucarest-Ilfov, che

presenta una densità di 1.254.6 ab./kmq, ampiamente

determinata dalla capitale, la regione più densamente

popolata è quella di Nord-Est (103,8 ab./kmq), mentre la

densità più bassa si riscontra nell’Ovest (63,7 ab./kmq), con

una media nazionale pari a 93,9 abitanti per kmq (AA.VV.

2005).

Fig. n. 4.1 –Densità della popolazione romena (luglio

2002).

Fonte: CNS 2002 Scala: 1:7.000.000

All’inizio del luglio del2002 sono stati pubblicati i risultati

preliminari del “Censimento Generale della Popolazione e

delle Abitazioni” (Recensamantul Populaţiei şi al

Locuintelor), effettuato il 18 marzo dello stesso anno. Tali

37

dati, sebbene preliminari, hanno avuto un valore rilevante,

in quanto hanno attualizzato dopo un periodo relativamente

lungo (dieci anni) le componenti statiche e dinamiche della

popolazione romena22.

Secondo le stime annuali elaborate dalla Commissione

Nazionale per la Statistica, il 1 luglio del 2001 la

popolazione della Romania ammontava a 22.409 abitanti;

considerando il tasso di diminuzione naturale della seconda

metà del 2001 e quello del primo trimestre del 2002 ed

aggiungendo la stima minima del tasso di emigrazione netta

per gli stessi periodi, il numero degli abitanti stimati per la

data dell’ultimo censimento era pari a 22.370 abitanti,

ovvero una diminuzione di circa 440 mila persone rispetto

al censimento del 1992 (CNS 2002). Questa diminuzione

generale, in base ai dati precedenti ai risultati preliminari

del censimento, avrebbe avuto due componenti: una parte

della diminuzione, pari a 300 mila persone, sarebbe derivata

dal saldo tra nascite e decessi; il resto, pari a 140 mila

persone, sarebbe stata da attribuire al processo di

migrazione esterna. I risultati preliminari hanno tuttavia

rilevato una realtà totalmente diversa, ovvero una

popolazione pari a 21.698 abitanti, oltre un milione di

persone in meno rispetto al 1992: 650 mila persone sono

mancate all’appello23. In rapporto all’accentuata

22 I risultati preliminari sono semplici aggregazioni di dati, estratti tra le 400 migliaia diformulari completati dai recensori, e, pertanto, comprendono un numero ridotto dicaratteristiche rispetto alla enorme quantità di informazioni incluse nel censimentooriginale. In ciò che concerne l’esattezza dei dati preliminari, l’esperienza dei precedenti censimenti ha rilevato che i risultati finali non differiscono, se non marginalmente, rispettoa quelli preliminari. Ad esempio, in Romania, la differenza tra i risultati preliminari e quellifinali per il censimento del 1992 è stata di 50 mila persone, a favore dei secondi (ovvero0,2% in più di quello previsto dai risultati preliminari) (Gheţau 2002).23 La più probabile causa di questa assenza ingiustificata sarebbe rappresentata dal fattoreemigrazione non registrata, che riguarderebbe tre categorie di cittadini romeni: - gli

38

diminuzione della popolazione a causa dell’emigrazione gli

specialisti hanno avanzato due principali considerazioni: la

funzione economica svolta dagli emigranti, i quali, si stima,

trasferiscano in Romania, annualmente, circa un miliardo di

dollari; la perdita di capitale umano per il paese, a causa

della giovane età che caratterizza il popolo dei migranti, il

che aggraverebbe il processo di invecchiamento della

popolazione romena, già ad uno stadio avanzato24.

Il tasso di natalità estremamente ridotto, negli ultimi anni25

ha determinato una riduzione continua della popolazione

giovane: nel 2002 sono stati registrati 1,3 milioni di giovani

in meno, rispetto al 1992. D’altra parte, lapopolazione in

età avanzata è cresciuta, rispetto al 1992, di 405 mila

persone, ovvero con un ritmo più lento rispetto alla

diminuzione dei giovani.

Nel 1992, inoltre, l’indice di dipendenza demografica era

pari a 64 persone giovani e in età avanzata su 100 persone

in età lavorativa, mentre nel 2002 tale rapporto è sceso a

58/100, principalmente a causa della diminuzione della

popolazione giovane. L’indice dell’invecchiamento

demografico è cresciuto, anch’esso, da 74 persone in età

avanzata su 100 persone giovani, nel 1992, a 111/100 nel

200226.

emigrati legali e domiciliati legalmente all’estero, al momento del censimento, ma non registrati per mancanza di persone che li potessero dichiarare; - gli emigrati legati estabilitisi illegalmente all’estero, al momento del censimento, a causa della scadenza delpermesso di soggiorno; - emigrati illegali e stabilitisi illegalmente all’estero, al momento del censimento (Gheţau2002). Altre cause possibili, ma considerate non troppo rilevanti,sarebbero state l’introduzione di alcuni cambiamenti nel sistema di registrazione delle persone ed la sotto-registrazione dovuta al cattivo sistema di raccolta ed elaborazione deidati.24Cfr. Gheţau 2002,pp.1-2.25 Il tasso di natalità, misurato attraverso l’indicatore “nati vivi su mille abitanti”, è stato pari a: 13,6 nel 1990, 9,8 nel 2001 e 9,7 nel 2002.26 Cfr. CNS 2003a, pp.3-5

39

Le differenziazioni nella struttura della popolazione per età

vengono evidenziati dai dati relativi alle singole province, a

causa della variazione territoriale dei fenomeni demografici

e dei movimenti migratori della popolazione. Le province

con la popolazione più giovane, in cui si riscontrano i tassi

di natalità più elevati sono: Vaslui, Suceava, Bistriţa-

Năsăud, Botoşani, Iaşi. Le province con una percentuale di

oltre il 22% di popolazione in età avanzata sono:

Teleroman, Giurgiu, Buzău e Călăraşi. Le zone più

sviluppate economicamente hanno attratto la popolazione

giovane ed adulta, in cerca di nuovi posti di lavoro: nel

2002, pertanto, la più alta percentuale di popolazione in età

lavorativa, oltre il 66%, si trova nelle province di Braşov,

Constanţa e nel municipio di Bucureşti27.

In una società in piena fase di transizione anche la

composizione e la dinamica socio-economica della

popolazione ha subito cambiamenti essenziali. Questi ultimi

sono rappresentati, anzitutto, dalla riduzione del numero

delle persone attive, che ha determinato la crescita del

rapporto di dipendenza economica, a monte della modifica

della struttura delle persone inattive (bambini, giovani e

persone in età avanzata), in continua crescita, soprattutto

per ciò che riguarda l’importanza della categoria dei

pensionati (persone inattive in età superiore ai 60 anni), sul

totale della popolazione inattiva. Tali evoluzioni

demografiche riflettono, secondo l’INS, il processo lento,

ma continuo, di invecchiamento della popolazione,

l’aumento del flusso migratorio urban-rurale (dominante

27 Cfr. CNS 2003a, p.6.

40

nella struttura delle migrazioni interne), la restrizione delle

possibilità di impiego; tutti questi fattori si ripercuotono sul

tasso di attività e di occupazione della popolazione. Anche

la ristrutturazione delle unità economiche inefficienti e il

processo di riforma economica, nel suo insieme, hanno

contribuito alla riduzione dell’occupazione della forza-

lavoro, mentre il tasso di occupazione nel settore privato è

in continua crescita, raggiungendo, nel 2002, il 57,9% del

totale dei salariati. Sul totale della popolazione della

Romania, le persone in età lavorativa rappresentano il

40,8% del totale, mentre il 59,2% del totale sono risultate

inattive.

Nell’insieme delle persone in età lavorativa, l’88,2% del

totale sono occupate in attività socio-economiche, mentre il

resto rappresenta i disoccupati. Circa i due quinti (39,6%)

della popolazione inattiva è costituita da pensionati, tre su

dieci (29,4%) inattivi sono studenti, mentre il resto della

popolazione inattiva è costituita da persone casalinghe

(12,8%) o persone mantenute da altri o da istituti pubblici e

privati (14,7%). La struttura per ambienti di residenza rileva

che il 55,5% della popolazione attiva e il 50,9% di quella

inattiva si trova nelle aree urbane, mentre il 61,5% della

popolazione rurale totale è inattiva. Il rapporto tra la

popolazione attiva e quella inattiva, dal punto di vista

economico, è pari a 1.449 inattivi su 1.000 attivi (1913

donne inattive su 1000 attive, rispetto al rapporto di

1098/1000 per gli uomini). La struttura della situazione

economica per età mostra che l’importanza della

popolazione attiva sul totale cresce fino ai 40 anni di età,

41

dopo di che inizia a scendere. Di conseguenza, la maggior

parte della popolazione attiva si situa negli intervalli di età

compresi tra i 25 e i 34 anni e tra i 40 e i 49 anni: circa sette

milioni di persone attive sono compresi nell’intervallo di

età tra i 20 e i 49 anni, ovvero il 79,6% del totale delle

persone attive.

I dati del censimento relativi alla partecipazione della

popolazione all’attività economica e sociale rilevano,

inoltre, che, su 7,8 milioni di persone occupate,

l’occupazione maschile e quella femminile rappresentano,

rispettivamente, il 55,8% e il 44,2%. Sul totale della

popolazione di oltre 15 anni, le persone occupate

rappresentano il 43,7% (50,6% per la popolazione maschile,

37,4% per quella femminile), mentre oltre la metà della

popolazione occupata risiede nelle aree urbane e solamente

il 45,2% in quelle rurali. La struttura dell’occupazione per

età evidenzia che le persone fino ai 35 anni detengono una

percentuale pari al 45% del totale, mentre solo l’8,6% della

popolazione occupata ha più di 55 anni.

Se confrontati con studi effettuati negli anni precedenti, i

dati sintetici dell’ultimo censimento, sopra menzionati,

rilevano delle problematiche aperte, che richiederanno

l’attenzione degli specialisti: quali sono le cause della

diminuzione del tasso di attività e dell’aumento della

disoccupazione nelle zone rurali, al di là del continuo

invecchiamento della popolazione? La diminuzione della

popolazione occupata in agricoltura è semplicemente dovuta

alla ristrutturazione economica, o maschera la crescita

42

dell’occupazione nell’economia sommersa delle zone rurali

romene?

Secondo i dati riportati nel volume Agricoltura României in

Perspectiva Aderarii la UE (L’Agricoltura romena nella

prospettiva dell’integrazionenell’UE), pubblicato, come

Studio sull’impatto della pre-adesione, nel 2002,

dall’Istituto Europeo della Romania28, la struttura

dell’occupazione per gruppi di età e la struttura

dell’occupazione per settori economici differivano

sostanzialmente tra zone urbane e zone rurali, come segue:

il tasso di attività era molto più alto nello spazio

rurale rispetto a quello urbano per le persone giovani

tra i 15 e i 24 anni (quasi il 60% nel primo e circa il

35% nel secondo) e per le persone in età avanzata,

oltre i 55 anni (oltre il 70% nel primo e meno del 24%

nel secondo), differenza che si accentuava per le

persone con oltre 65 anni di età (oltre il 54% nel

primo ed appena il 5% nel secondo);

la percentuale di persone occupate in agricoltura e

piscicoltura era molto più grande nello spazio rurale

rispetto a quello urbano, raggiungendo circa il 70%

nel primo e poco più del 3% nel secondo, a monte di

una media nazionale, di circa il 40% (2000)29.

Dal censimento del 2002, quindi, è possibile rilevare come

l’invecchiamento della popolazione, la diminuzione delle

persone attive, l’aumento della disoccupazione (soprattutto

28 Leonte et al. 2002, Agricultura României in perspectiva aderarii la UE, Pre-AccesionImpact Studies, Institutul European din Romania, Bucuresţi.29 Nello stesso anno, il tasso di occupazione per settori economici era suddiviso comesegue: 41,1% Agricoltura e silvicoltura, 28,4% Industria e Costruzioni, 30,5% SettoreTerziario.

43

nelle aree rurali) e la diminuzione della popolazione

occupata in agricoltura, siano state le caratteristiche socio-

economiche principali della popolazione romena; restano

tuttavia da indagare le questioni sollevate circa le cause di

questi drammatici mutamenti.

La Romania, in piena fase di transizione, politica,

economica e demografica, si confronta, in conclusione, con

i seguenti fenomeni demografici:

un lento e continuo invecchiamento della popolazione;

un costante movimento della popolazione urbana verso

le zone rurali;

una lenta diminuzione della popolazione occupata in

agricoltura;

il costante aumento della disoccupazione.

44

5. Orientamenti economici.30

Generalmente il crollo del sistema di tipo sovietico viene

attribuito all’inefficienza della pianificazione economica e

dell’impresa di Stato. In realtà,come è stato esattamente

rilevato,”i fattori principali sono stati l’endemico eccesso di

domanda”,dovuto alla fissazione dei prezzi a livelli

artificialmente bassi,e “l’inerzia di un sistema capace di

replicarsi e allargarsi nel tempo,ma incapace di rispondere

ai cambiamenti”31.

Alla vigilia della Rivoluzione, l’economia romena

presentava, all’interno dell’area PECO, le maggiori

distorsioni strutturali ed il più alto grado di centralizzazione

dei processi decisionali. Essa dovette così affrontare una

difficile fase di passaggio da un’economia pianificata, in

cui tutto era stabilito dall’alto, ad un’economia di mercato,

in cui la concorrenza avrebbe dovuto decidere la

sopravvivenza o meno di una realtà imprenditoriale.

La transizione richiese tre mutamenti di fondo: la

liberalizzazione del commercio estero e dei prezzi (in

precedenza regolati in via amministrativa); la

privatizzazione delle attività produttive, a partire dalle

attività minori fino alle grandi imprese di Stato; la

stabilizzazione finanziaria. Questi mutamenti sarebbero

stati chiaramente una condizione imprescindibile per il

passaggio a un’economia di mercato (Costantinescu 1996).

30 Sono state usate come fonti per i dati contenuti nel presente capitolo: l’Annuario dell’Istituto nazionale di Statistica Romeno 2004, “Il mondo in cifre 2005”e i seguenti siti internet: www.europa.eu.int/comm/eurostast , www.bnro.ro , www.worldbank.org ewww.imf.org .31 D.M. Nuti,1999, “1989-1999:La grande trasformazione dell’Europa centrorientale”,da Europa/Europe n°4/99,pp. 59-70.

45

Nel corso dei primi anni della transizione, l’economia

romena subì i contraccolpi derivanti dall’inconsistenza della

riconversione strutturale,accentuati dallo sfaldamento del

COMECON e della Federazione Jugoslava (suoi principali

partner commerciali),che determinò, a partire dal 1991, una

diminuzione significativa del livello delle esportazioni.

L’andamento del PILtra il 1989 e il 1992 subì un calo pari

al 25% imputabile soprattutto alla forte contrazione del

settore industriale. Nel contempo l’inflazione, tra il 1991 e

il 1992, si attestò su una media del 200% che però si ridusse

notevolmente già alla fine del 1994 (Rooper 2000).

In virtù di questi risultati, il FMI accordò alla Romania un

prestito di 720 milioni di dollari nell’ambito di un accordo

di più ampio respiro, i cui elementi di maggior rilievo si

identificarono nell’imposizione di una politica monetaria

restrittiva, di una prudente politica fiscale e di una

accelerazione delle riforme strutturali, incluse le

privatizzazioni. Nel 1995 venne perciò avviato un

programma di privatizzazione esteso a più di 4000 imprese,

che avrebbe dovuto essere il naturale prosieguo del prima

fase iniziata nell’agosto del 1991 con l’approvazione della

legge sulle privatizzazioni di massa32. Tuttavia, solo l’8%

del capitale delle oltre 4000 imprese di fatto coinvolte era

effettivamente posseduto dai privati e, nel complesso, il

settore privato incise sulla produzione industriale soltanto

32 La legge si soffermava sulle diverse alternative attraverso le quali le grandi imprese diStato potevano essere privatizzate. Si andava dalle aste pubbliche alle offerte diprivati,passando per acquisizioni in favore dei dipendenti. La legge dispose anche la liberadistribuzione di 16 milioni di certificati di proprietà a tutte le persone adulte. La leggeperò,non chiariva definitivamente il concetto di “diritto di proprietà” (Fransoni 1995,p.149). Questa prima fase del programma si caratterizzò per la presenza di diversiproblemi logistici e di una serrata resistenza politica che rallentò l’intero processo organizzativo.

46

nella misura del 14%. Maggiore fu l’influenza del

programma nel terziario(44%) e soprattutto nell’agricoltura

(sebbene riguardasse soltanto titoli di proprietà temporanei

e non il pieno possesso della terra), dove i privati divennero

rapidamente responsabili dell’80% della produzione

agricola33. Anche se, nel complesso, il PIL del 1995 registrò

un incremento del 6,9%, uno dei più rilevanti a livello

europeo, la seconda fase di interventi nelle privatizzazioni

continuò a negare gli esiti sperati. Continuò a permanere un

evidente divario rispetto al potenziale produttivo,

ascrivibile ad alcuni fattori, tra cui i più importanti erano

l’insufficiente meccanizzazione, le difficoltà di accesso al

credito, la mancanza di informazioni e le difficoltà di

attrazione degli investimenti esteri (Blanchard 1997).

Negli anni successivi, però, qualcosa iniziò a muoversi

all’orizzonte, con i primi segnali di sviluppo di quei settori

che generalmente offrivano maggiori prospettive e nei quali

il Paese si dimostrava competitivo: beni di consumo (agro-

alimentare, tessile, pellame, calzaturiero) e macchinari

industriali. Al contrario, il cammino delle riforme subì

ancora un considerevole ritardo, più volte sottolineato dalle

istituzioni internazionali. Le critiche si rivolsero

principalmente alla persistente presenza dello Stato

nell’economia del Paese e ai ritardi nella privatizzazione, in

particolare alla situazione del sistema bancario, fortemente

33 Nell’agricoltura, settore caratterizzato dalla collettivizzazione forzata del periodocomunista, la privatizzazione si caratterizzò per il più alto indice dell’intera Europa centro-orientale, con l’80% di terra coltivabile convertita alla proprietà privata. Sebbene il processo si sviluppasse lentamente, a causa delle difficoltà legali nella ricostituzione deidiritti di proprietà e delle lungaggini burocratiche, la risposta della produzione agricola aicambiamenti sopravvenuti fu immediatamente positiva (Hall,Danta 1996).

47

bisognoso di ristrutturazione34. Altri punti controversi

furono l’incapacità di contenere la spesa pubblica e

l’inflazione entro i limiti concordati con il FMI.

Nonostante questo ritardo endemico nelle riforme, la

Romania sembra essere riuscita a imboccare la “retta via

liberista” con la benedizione dei maggiori organismi

finanziari internazionali attraverso una politica economica

più coerente e decisa, sia sul piano nazionale che su quello

europeo.

Importanti passi in avanti si sono registrati nel processo di

privatizzazione a partire dal 2001 con la vendita

dell’industria siderurgica “Sidex-Galaţi” e di Banca

Agricola, ma è stato il 2002 l’anno di svolta (per la prima

volta il peso complessivo del settore privato nella economia

romena ha superato il 50% del totale) con le privatizzazioni

della “Romtelecom”, venduta per il 54% del suo valore alla

“Ote” (Compagnia di comunicazioni greca), della

“Romgaz”(con la creazione di una Spa tra la stessa e la

russa “Gazprom”, per il traferimento di gas naturale

attraverso la Romania ad altri Paesi), di “Navigaţia Fluviala

Româna” (società di navigazione fluviale), di

“Electroputere” (apparecchiature elettriche ,situata a

Craiova) e della farmaceutica “Antibiotice” di Iaşi oltre al

25% delle azioni della più grande istituto di credito statale,

la Banca Commerciale Romena (BCR), ceduto

all’International Finance Corporation ed alla Banca Europea

34 La Romania iniziò la riforma del suo sistema bancario spogliando la Banca centrale ditutte le attività commerciali. Banche private (commerciali) emersero accanto alle quattrobanche di proprietà statale,accentuando la competizione. Nel 1995 fu creato un mercatoazionario e parallelamente tutte le attività finanziarie e bancarie furono aperte agliinvestimenti esteri. Il monopolio statale nel commercio estero era già stato abolito nel 1990e le tariffe divennero il principale strumento della politica commerciale,con un notevoleabbassamento del livello dei prezzi (cfr. Gomel 2001).

48

per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers)

(Bianchini,Privitera 2003).

Dopo l’avvio del processo di privatizzazione, le banche

austriache Raiffeisen ed Erste Bank sono state le prime ad

esprimere interesse alla vendita della “Cassa di risparmio

romena” (CEC), l’istituzione bancaria più antica della

Romania35, che dovrebbe essere totalmente privatizzata

(come anche la BCR) tra la fine del 2005 e l’inizio del

2006. Ma è soprattutto nel settore energetico (del tutto in

mano pubblica fino a due anni fa) che si sono avuti

significativi progressi: la società nazionale del petrolio

“Petrom” è stata ceduta all’austriaca “Omv”, le due

succursali della compagnia nazionale per la distribuzione

dell’energia elettrica “Electrica Banat” ed “Electrica

Dobrogea” sono state vendute per 70 milioni di dollari al

gruppo italiano “Enel”, unico ad aver depositato i

documenti necessari per partecipare alla privatizzazione

suddetta. Quest’ultimo aveva partecipato anche alla

preselezione della gara per la distribuzione del gas nel sud e

nel Nord della Romania, ma ne è successivamente uscito.

Sono rimaste in corsa per l’ultima fase della gara la tedesca

“Ruhrgas”e la francese “Gaz de France”con l'obiettivo di

acquistare ciascuna una delle due società distributive la

35 La Cassa di risparmio fu creata nel 1864 per ordine dell'allora principe regnanteAlexandru Ioan Cuza. Nel periodo comunista, la CEC era l'istituzione preferita per ilrisparmio dalla maggior parte dei romeni, in quanto godevano della piena garanzia delloStato per i loro depositi. Anche oggi lo Stato garantisce al 100% i risparmi CEC, mal'istituzione bancaria ha perso molti dei suoi clienti a favore delle banche private(Mauri,Baicu 2002). La CEC si trova ora soltanto al quarto posto nel sistema bancarioromeno quanto a valore dei suoi attivi bancari (circa 1 miliardo di euro alla fine del 2003),dopo la Banca commerciale romena, la Banca romena per lo sviluppo (BRD), parte delgruppo francese Societe Generale e la Raiffeisenbank .

49

“Distrigas Nord”e “Distrigas Sud”, due succursali della

compagnia nazionale ancora in possesso dello Stato36.

Paradossalmente, secondo i dati ufficiali forniti dall’AVAS

(Autorità per la Valorizzazione dell’Attività dello Stato),

dal 1993 (anno in cui si è cominciato a vendere ai privati i

beni dello stato) a oggi, il capitale straniero ha partecipato

alle privatizzazioni romene solo per il… 2,6%. In sostanza,

il 97,4% dell’economia romena è stata “venduta” a cittadini

romeni, ma nel 1990 il capitale autoctono era pari a zero!

Certo, alcuni personaggi piazzati in diverse posizioni

privilegiate detenevano somme più o meno grandi di valuta,

ma ciò non modifica radicalmente il quadro generale

esistente in quegli anni. Ciò significa che il processo ha

rappresentato la maggiore manifestazione della corruzione

presente nel sistema politico e amministravo locale. In

Romania, le grandi privatizzazioni, per più di un decennio,

sono state sinonimo di grande corruzione37.

36 Gli analisti economici romeni prevedono che la privatizzazione del settore energeticoporterà cambiamenti drammatici nell’economia romena. Problemi che la Romania dovràaffrontare tutti insieme. Nella prima fase lo shock sarà temperato dal fatto che tali problemisono limitati a sole due zone, Dobrogea e Banato, dove verranno applicate le nuove “regole del gioco”. Tutto perchè il nuovo proprietario (privato) delle distribuzioni di energia elettrica non fornirà più elettricità senza essere debitamente pagato. Altrimenti, com’è logico in un’economia di mercato, i debitori saranno staccati dalla rete. Se lo Stato - comefattore politico o di protezione sociale –interverrà per la riconnessione –e ha il diritto difarlo, dovrà pagare al posto del debitore, in contanti. L’eventuale pagamento però –sempresecondo le regole dell’economia di mercato –si chiama aiuto da parte dello Stato, che,secondo le regole dell’Unione Europea, può essere concesso ad un’azienda una sola volta ogni 10 anni e soltanto collegato alla ristrutturazione o al fallimento della rispettivaazienda. Fino al momento attuale, molte grandi aziende, per la maggior parte ancora statali,consumavano energia elettrica senza pagarla. I distributori di energia elettrica, anch’esse statali, minacciavano di staccarle, però raramente applicavano concretamente tale misura.Ed anche in tali situazioni, interventi “altolocati” - ministeri, governo –determinavano lariconnessione. I debitori allungavano gli elenchi di “riscaglionamenti” dei pagamenti fino a che lo Stato, “generoso”, annullava debiti, penalità maggiorazioni e quant’altro (cfr.Gomel 2001).

37 Nel Paese, all’inizio dello scorso decennio, il capitale autoctono non esisteva, e quando ha cominciato a costituirsi lo ha fatto utilizzando canali illeciti: principalmente grazie aprestiti bancari senza garanzia (che hanno portato al fallimento di queste banche così“generose”) e grazie a truffe ai danni dello Stato. In seguito, alcuni degli “imprenditori” romeni hanno proseguito allo stesso modo e utilizzato i soliti sistemi, altri invece si sono

50

Ciononostante, le istituzioni finanziarie internazionali non

smettono mai (non hanno mai smesso) di sottolineare con

soddisfazione i buoni risultati ottenuti dal paese, anche se il

primo round di negoziazioni del 2005 tra il nuovo Governo

ed il FMI può essere considerato quasi un fallimento per

l’Esecutivo e per tutta la popolazione romena. Il Governo

ha infatti ceduto su quasi tutti i piani (ad eccezione della

revisione delle pensioni), accettando di accollare alla

popolazione ulteriori oneri e tasse, senza ricevere però, dal

FMI, altro che l’accordo per l’introduzione della quota

unica di tassazione del 16%38. Un’altro impegno assunto

nelle negoziazioni con il FMI ha riguardato la

privatizzazione o liquidazione delle tre grandi compagnie

rimaste nel portafoglio AVAS: Electroputere Craiova,

Tractorul e Rulmentul Braşov. Dal giugno del 2005 la

Romania ha cominciato a seguire (sta seguendo) un

programma economico messo a punto con il FMI che mira a

mettere in pratica una serie di misure fiscali per contenere il

deficit di bilancio e le perdite delle (poche) aziende rimaste

quietati, divenendo uomini d’affari rispettabili. La verità è una sola però: almeno nei primi anni, il capitale autoctono, quello utilizzato per le privatizzazioni in Romania, è stato ilrisultato di un furto generalizzato e di frodi su scala nazionale. Gli imprenditori autoctoninon sarebbero arrivati al successo senza un aiuto essenziale ricevuto da parte delleistituzioni o, per essere precisi, da parte delle persone che hanno guidato queste istituzioni atutti i livelli (Sacchetto 2004 ).38 Con un team impreparato per tali negoziazioni e senza alcuna esperienza nel campo,l’Esecutivo di Bucarest ha dovuto posticipare la firma del nuovo memorandum con il FMI. La missione di negoziatori FMI e’ tornata a Washington con, soltanto, una lettera di intenti da parte delle autorità romene sulla conclusione di un memorandum economicosupplementare all’ultimo accordo del 2004. Secondo le negoziazioni con il FMI, i romeni saranno soggetti ad una nuova serie di aumenti delle tasse, imposte e tariffe per le utilità.Infatti, dal 1 aprile 2005, le imposte sulle transazioni immobiliari effettuate da personegiuridiche sono aumentate dal 10% al 16%. E le autorità intendono tassare, a breve, anchele transazioni immobiliari delle persone fisiche del 10%. Sempre dal 1 aprile, è aumentataanche l’imposta sui guadagni da operazioni di capitale e l’imposta sugli interessi ai depositi bancari, dall’1% al 10% e la tassa sui redditi dei non residenti, provenienti dagli interessipagati ai depositi bancari(dal 5% al 10%) (cfr. http://www.italypoint.ro ).

51

in mano allo stato. Le stime sul rapporto deficit/PIL sono

state riviste al ribasso dal governo dopo l’incontro di

giugno, in particolare sono scese dall’1,5% fissato nella

passata legge finanziaria ad uno 0,74%. La Banca Nazionale

della Romania ha iniziato solo nella seconda metà di

quest’anno una politica monetaria anti-inflazionistica

spronata dagli investimenti in valuta degli imprenditori

stranieri e dalla ambiziosa riforma della moneta romena. La

banconota da 10 mila leu (equivalente a 25 centesimi di

euro) è stata trasformata dal primo luglio scorso nel nuovo

leu forte (leu greu nella denominazone romena)39. Le

vecchie banconote sono rimaste in circolazione, e questo

non solo per facilitare il processo di conversione, ma anche

per diminuire i costi finanziari ed evitare un aumento

artificiale dei prezzi. Il leu pesante diverrà la valuta unica

del sistema monetario romeno solo a partire dal 2007. Avrà

un suo codice internazionale di identificazione, il Ron

(Romanian New), che lo distinguerà dall’attuale Rol

(Romanian Leu).

Passando a una analisi dei dati macroeconomici, il quadro

generale non dovrebbe dare adito a nessuna preoccupazione,

nonostante la crescita economica complessiva del paese sia

prevista in rallentamento con il PIL al 5,6% rispetto al 8,3%

del 200440; secondo la Banca Nazionale Romena41, infatti,

39 Il cambio del leu rispetto al dollaro USA è previsto in netto miglioramento rispettoall’euro: il nuovo leu è atteso in termini di 3,05 contro 1dollaro Usa a fronte di leu 3,73contro 1 euro. Nel 2004 i valori erano rispettivamente del leu 3,26 e leu 4,06 (CampanaRovito 2005).40 In proposito, gli esperti si attendono una lieve flessione al 7,6% del PIL per quest’anno (8,3% registrato nel 2004) grazie ad un migliore apprezzamento del nuovo leu rispetto aldollaro Usa. Per il 2006 è previsto comunque un ulteriore rallentamento dell’economia al 4,5% per effetto dell’inasprimento fiscale e della politica monetaria anti-inflazionisticanonché dei costi legati all’approvvigionamento energetico(BNR 2005).41 BNR,National Bank of Romania,2004, Monthly Bullettin, 12/2004,Bucharest

52

l’inflazione continua il suo percorso al ribasso, essendo

scesa dal 13,9% di inizio 2004 al 9,3% del dicembre scorso,

percentuale che rappresenta però un livello superiore a

quello anticipato dalle autorità romene che puntavano a

mantenerlo entro il 9% per l’intero 2004. Nell’anno in

corso, il tasso di inflazione ha superato nel primo semestre

il livello registrato nello stesso periodo dello scorso anno:

4,1% rispetto a 3,7%. In queste condizioni, l’inflazione

annuale negli ultimi mesi ha raggiunto di nuovo un livello

di 2 cifre (10%) mettendo così in pericolo il target del 8%

fissato dalla Banca centrale per la fine dell’anno (Ice 2005).

Tabella n. 5.1 -Tasso annuale di inflazione in Romania(periodo 1994-2004).

Fonte: ICE 2005

Per quanto riguarda la crescita economica, secondo i dati

dell’Istituto Nazionale di Statistica, l’economia romena e’

cresciuta nel primo trimestre dell’anno in corso del 5,9%

(13,8 miliardi di euro circa) grazie all’effetto trainante dei

53

servizi (+6,8%) e dell’industria (+5%) e sotto la spinta di un

consumo finale superiore del 12,1% rispetto ai primi tre

mesi dello scorso anno (INS 2005). Nel 2004 il prodotto

interno lordo della Romania e’ stato pari a 2.387.914,3

miliardi di lei (equivalente a 58,91 miliardi di euro ad un

corso di cambio medio della Banca centrale romena di 1

Euro=40.532 Lei), registrando una crescita in termini reali

del 8,3% rispetto allo stesso periodo del 2003.

La crescita del PIL è stata sostenuta prevalentemente dalla

domanda interna, in particolare dagli investimenti, che

registrano una crescita del 13,7%, contro il 9,8% dei

consumi privati. Prosegue invece l'andamento sfavorevole

della domanda estera netta, il cui contributo al PIL è stato

negativo per il 4%. Il debito estero del Paese ammonta a

21,1 miliardi di euro (primo semestre 2005), mentre il

valore totale degli investimenti esteri dovrebbe continuare a

crescere ad un ritmo annuo del 10%, stimolato dalla

ristrutturazione dell’intero sistema industriale e da una serie

di progetti in cantiere riguardanti la rete autostradale (IMF,

2005). Come vedremo nel 3° capitolo, l’interesse degli

investitori stranieri è in continua crescita. Ma in un Paese

che si è confrontato con una rapida transizione dal

comunismo al capitalismo, gli indicatori macroeconomici

non trovano sempre un immediato risconto nella vita

quotidiana dei cittadini romeni, almeno non della stragrande

maggioranza della popolazione che vive guadagnando molto

meno del valore di uno stipendio medio netto mensile (195

euro).

54

Poco brillante risulta essere l’andamento delle esportazioni

romene, aumentate negli ultimi quattro anni dell’11,1%

contro il 16,3% delle importazioni, con conseguenze sulla

bilancia commerciale del paese, caratterizzata da un deficit

pari a 4 miliardi di euro (BNR 2005). In termini percentuali,

rispetto al primo trimestre 2005 e al 2004, le esportazioni

sono passate dal 14,1% al 5,1%, mentre le importazioni

hanno accelerato a +8,4% e crescono a ritmo preoccupante,

seppure siano inferiori al +17,8% raggiunto l’anno scorso.

Relativamente alla composizione merceologica, le

esportazioni romene si concentrano principalmente in sei

settori a basso valore aggiunto. In particolare, il 76,6% del

totale è costituito da prodotti tessili (19,5%), macchinari

(17,1%), prodotti metallurgici (16,6%), prodotti minerari

(9,9%), mezzi e materiali da trasporto (7,4%) e calzature

(6,1%). I principali paesi partner situati ai primi posti, che

rappresentano il 74% sul totale delle esportazioni, sono

stati: l’Italia (20,6%), la Germania (14,1%), la Turchia

(8,1%), la Francia (7,5%), la Gran Bretagna (5,7%),

l’Ungheria (4,0%), gli Stati Uniti (3,6%), l’Austria (3,1%),

l’Olanda (2,8%), la Spagna (2,3%) e la Bulgaria (2,2%).

Sempre nello stesso periodo (gennaio-giugno 2005) si

mantiene ancora su livelli alti la crescita delle importazioni,

con una struttura dominata da sei categorie di merci che

rappresentano 75,1% del totale: macchinari (22%), prodotti

minerali (15%), tessile e abbigliamento (11,4%), mezzi e

materiali da trasporto (10,1%), prodotti metallurgici (8,9%)

e prodotti chimici (7,7%).

55

I principali paesi partner che rappresentano il 72,3% sul

totale delle importazioni sono: l’Italia (16,5%), la Germania

(13,8%), la Russia (7,9%), la Francia (7%), la Turchia

(4,8%), l’Austria(3,7%), la Cina (3,6%), l’Ungheria (3,2%),

il Kazakistan (3,1%), la Polonia (3,1%), la Gran Bretagna

(2,8%) e gli Stati Uniti (2,8%) (Ice 2005,p.5).

Allo stato attuale, comunque, l’indice di libertà economica

del Paese è del 3,66 (uno dei più bassi d’Europa)42.

42 L’indice di libertà economica,pubblicato dalla “Heritage Foundation”, classifica i Paesiin base a dieci indicatori riferiti alla possibilità del governo di regolamentare i rapportieconomici tra individui. Gli indicatori sono: la politica commerciale, il sistema ditassazione, la politica monetaria, il sistema bancario, le norme per gli investimenti stranieri,i diritti di proprietà, i consumi del governo, le politiche di regolamentazione, il mercatonero e i controlli su stipendi e prezzi. Ciascun paese ha un punteggio da 1 a 5 per ognicategoria,1 indica il massimo di libertà e 5 il minimo.

56

6. Problematiche ambientali e sociali.

Anche la Commissione Europea ha ripetutamente criticato

la Romania per quanto riguarda la protezione dell’ambiente.

L’ultimo rapporto della Commissione sui progressi della

Romania nel cammino verso l’accesso all’UE continua a

lamentarsi del fatto che l’ambiente rimane un problema in

sospeso. “Le risorse finanziarie destinate al settore

continuano ad essere inadeguate, il che risulta dalla

insufficiente implementazione delle politiche ambientali

della Commissione Europea,” riporta il rapporto

(Commissione Europea 2005). L’impegno sul fronte

ambientale è destinato a pesare molto sulle casse di

Bucarest: l’istituto europeo per la Romania ha stimato

questo capitolo di spesa in 29 miliardi di euro nel periodo

2004-21. Per il 30% sarà coperto dai fondi UE, per il 20%

dalle previsioni di spesa dello stato, per il 35% da una

nuova e auspicata politica d’impresa e per il restante da

accordi di cooperazione fra nazioni o istituzioni mondiali

(Parlamento Europeo 2004).

La rincorsa all’Unione Europea dovrebbe fortunatamente

limitare i notevoli ritardi in materia ma il problema

principale risiede comunque nell’assenza di una morale

ecologica comune a ogni singolo cittadino romeno.

L’ambiente viene visto come un ulteriore elemento di

guadagno e come tale viene puntualmente sfruttato a

seconda dei bisogni del gerarca di turno: era così con

Ceauşescu, la cui unica preoccupazione era di massimizzare

la produzione (le risorse ambientali erano quindi parte

57

integrante del suo progetto di sfruttamento totale delle

risorse della Romania)43; lo è oggi con i nuovi gerarchi,

pronti a sfruttare il “patrimonio dell’umanità” rappresentato

dal Delta del Danubio44 con costruzioni abusive e facili

concessioni ai colonizzatori occidentali di turno.

I luoghi più inquinati al momento sono Copsa Mica, Zlatna,

Baia Mare, dove le piogge sono acide e un cocktail di una

decina di scarti di metalli pesanti finisce diritto nel sistema

idrico, e Galaţi45. Altrettanto nocive sono le fabbriche di

fibre sintetiche di Brăila e Suceava (da quest’ultima prende

il nome la “sindrome di Suceava”, un disturbo respiratorio e

nervoso, unico nel suo genere, che ha causato la nascita di

neonati con malformazioni), come del resto gli stabilimenti

petrolchimici di Arad, Dej, Fagaraş, Navodari, Piteşti,

43 L’eredità del degrado ambientale risale al periodo comunista. Grandi impianti industriali, molti dei quali ancora funzionanti, hanno scaricato nel terreno per più di 50 anni inquinantitossici non sufficientemente trattati. Le pratiche dell’agricolturaintensiva hanno contribuitoa tale degrado ambientale, così come i fertilizzanti di sintesi hanno contaminato la faldaacquifera, l’unica risorsa di acqua da bere disponibile nella maggior parte delle aree rurali. 44 La Riserva del Delta è un'area di 5700 chilometri quadrati di giunchi, canali di acqua,pellicani, alberi di betulla e salici. Non c'è nessuna strada che collega i villaggi e i trasportiavvengono per lo più su barche. Alcune case mancano di un sistema idraulico interno. Ilservizio telefonico è arrivato qui solamente nel 2003. Negli ultimi cinque anni, i ricercatorihanno identificato qui 27 specie di piante ed insetti totalmente sconosciuti alla scienza.L'UNESCO, che nel 1991 ha aggiunto quest’area nella sua lista dei siti protetti, l'ha definita: "Il più esteso e il meglio conservato tra i delta dei fiumi europei". Costituisce unazona di riproduzione per decine di migliaia di uccelli e talvolta diventa habitat per moltespecie minacciate di estinzione. Gli sforzi di ripristino post-Ceauşescu hanno cominciato amostrare i primi risultati. Dal 1994, l'Autorità della Riserva ha ripristinato più di diecimilaettari di palude (circa un ottavo di tutte le terre che erano state drenate). Sono state attivatedelle stazioni di cova artificiale per i pesci, la pesca è stata regolata in maniera piùstringente e i sorveglianti hanno imposto misure molto restrittive contro i pescatori di frodo.Le industrie a monte sono state fatte chiudere e agli agricoltori è stato vietato l'uso diprodotti chimici a lento degrado. Come risultato, molte specie di pesci scomparse dal Deltadal 1990 sono ricomparse. Inoltre il pescato annuale,che nel 1986 si attestava sulle 16.000tonnellate, nel 2000 ha raggiunto un quarto di quella quota e si sta stabilizzando. Lapopolazione dei pellicani è aumentata a tal punto che qui ora ci sono troppi volatili. Lastoria del ritorno alla vita del Delta, però, è ancora in fase di scrittura e i protagonisti nonsono solamente eroi: ci sono anche i cattivi ed un lungo cast di comparse che da ultimopotrebbero decidere il destino dell'area (Frye 2005).45 Città orientale della Romania con una popolazione di 324.000 abitanti, Galaţi è uno deimaggiori porti interni del Danubio,con uno sviluppato traffico commerciale lungo il fiume.I suoi seri problemi ambientali derivano dagli stabilimenti di acciaio, e degli impiantichimici che punteggiano i dintorni. I rappresentanti di una ONG locale hanno denunciato leinsufficienti strutture per il trattamento dell’acqua, oltre alle piogge acide e aun altocontenuto di nitrati nella falda acquifera (Frye 2005 ).

58

Ploieşti e Târgu Mureş, dove si producono idrocarburi e

composti inorganici oltre i limiti di legge.

Lo sbarramento con diga delle Porte di Ferro e

l’arginamento dell’alveo di piena del Danubio (voluti dall’

ex presidente Nicolae Ceauşescu per sbarrare le grandi

paludi del Danubio e drenare la terra adattandola

all'agricoltura) hanno ridotto il suo flusso verso il Delta a

50 Km cubi ogni anno, causando il proliferare delle alghe e

un rendimento minore della pesca. Di conseguenza, il Mar

Nero è diventato una delle aree più inquinate al mondo:

rifiuti tossici, sfruttamento della pesca e diminuzione di un

quinto degli apporti di acqua dolce producono effetti

disastrosi. Una minaccia è poi in agguato solamente a

pochi chilometri di distanza, là dove l’Ucraina dal maggio

2004 sta aumentando la profondità del canale nella sua

parte del Delta46. Fra i problemi più immediati vi è anche

quello relativo al trattamento del suolo, già contaminato da

metalli pesanti e pesticidi che sono stati scaricati nel letto

del fiume.

Dopo la rivoluzione è stato istituito un Ministero delle

Acque, delle foreste e della protezione ambientale che ha

portato alla approvazione di una nuova legge ambientale

(1995), la quale prevedeva la costituzione in ogni distretto

di una Agenzia per la protezione ambientale. Le autorità

hanno poi cercato di armonizzare la legislazione ambientale

con quella dell’UE, ma il problema sta nell’incapacità di

46 Il progetto è stato però condannato dagli ambientalisti,dall’Unione Europea e dai firmatari della convenzione internazionale sulle paludi, sottoscritta anche dall’Ucraina. Nel settembre 2004 la Romania ha anche aperto un’azione legale presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja per fermare il progetto.

59

metterla in pratica e nella mancanza di una reale campagna

di sensibilizzazione della popolazione in materia (Frye

2005). L’ultima misura presa dal governo è stata quella di

adottare il piano d’azione dell’Organizzazione Mondiale

della Sanità (OMS) per ridurre l’impatto dei rischi

ambientali sulla salute. Le condizioni ambientali del Paese

hanno sempre creato seri problemi per la salute dei suoi

abitanti; a tal proposito l’acqua potabile inquinata rimane

una delle questioni ambientali più urgenti47. Inoltre,

secondo il programma di monitoraggio comune dell’OMS e

dell’UNICEF per la fornitura d’acqua e fognature, al

momento solo il 18% della popolazione rurale ha accesso a

risorse d’acqua potabile. Nel 10% degli insediamenti

l’acqua viene tolta per cinque ore al giorno o più, anche in

cittadine importanti come Caracul, Slatina, Ploieşti,

Constanţa, Iaşi e Craiova . Ulteriori problemi per la salute

dei romeni derivano dalla grande diffusione di malattie

cardiovascolari, che causano il 61% dei casi di morte e dalla

percentuale di malattie cancerogene che sta superando

rapidamente quella dell’Europa occidentale. La mortalità

infantile si è abbassata dal 26,9 per mille bambini nati vivi

nel 1989 al 16,1 del 2003, percentuale ancora molto alta,

47 In alcuni villaggi sulla riva del Danubio (è il caso di Garla Mare) il livello diinquinamento microbiologico è così alto che l’acqua, secondo la legislazione dell’Unione Europea, non dovrebbe essere usata nemmeno per lavarsi. Le alte concentrazioni di nitratinell’acqua potabile sono il maggiore motivo di preoccupazione, perchè il nitrato può ridursi in nitrito, che provoca una condizione in cui si riduce la capacità delle cellule del sangue ditrasportare ossigeno. Non sono solo i piccoli villaggi ad aver affrontato i problemidell’inquinamento dell’acqua negli ultimi anni. Il caso più serio è capitato nel 2000, quando il fiume Tibisco fu seriamente contaminato con cianuro e residui di metallo pesanteprovenienti dalla miniera aurea di Arul a Baia. La contaminazione si diffuse nella parteungherese del Danubio. L’impatto ambientale fu così devastante che gli ambientalisti europeilo definirono una “Chernobyl acquatica”(Cfr. http://www.informationguerrilla.org )

60

quasi il triplo della media delle nazioni dell’OCSE48. Il

sistema sanitario della Romania ha bisogno di riforme

radicali : la spesa sanitaria è scesa dal 8,2% del PIL nel

1993 al 6,5% nel 2003 (l’Italia spende l’8,4% del PIL) con

1,9 medici ogni mille abitanti (l’Italia ne ha 4,3) e 7,5 posti

letto ospedalieri per mille abitanti (l’Italia ne ha 4,9)

(UNDP 2004).

Per quanto riguarda il sistema scolastico, la spesa per

l’istruzione è pari al 3,5% del PIL (in Italia è pari al 4,7%)

con il 99% delle iscrizioni alle elementari, l’82% alle

secondarie ed il 28% all’università.

Ma la vera piaga sociale, che affligge lo Stato romeno da

ormai parecchi anni, è la tragica condizione dei bambini

abbandonati: oggi in Romania, secondo i dati dell’Autorità

Nazionale per la protezione del bambino, più di 84 mila

bambini vivono senza genitori, orfani o abbandonati. L’80%

di questi sono stati sottratti alla potestà dei genitori perché

ripetutamente vittime di abusi e molestie. Il resto sono

bambini abbandonati da famiglie troppo indigenti per

crescerli. Ed è proprio la povertà che spinge molte famiglie

ad abbandonare negli orfanotrofi i propri figli. Le

organizzazioni internazionali hanno segnalato che quasi

l’80% delle famiglie con 3 o più bambini vive sotto la

soglia della povertà. La maggior parte dei bambini che

vivono in istituti si concentrano nella capitale, Bucarest e in

due città della Moldavia, Iaşi e Suceava. La capitale romena

ha anche il tragico primato della città col numero più alto di

48 Questo alto tasso è causato dalla mancanza di attrezzature mediche, da anomaliecongenite (dovute in parte all’inquinamento) e dal basso peso alla nascita che porta anchead un alto tasso di mortalità nei bambini da 1 a 4 anni.

61

bambini che vivono nelle fogne49. Centinaia di bambini

abbandonati o che sono stati costretti dalla povertà a

lasciare le famiglie vivono per strada (Iatagan 2005).

L’anno scorso, 4 milaneonati sono stati abbandonati subito

dopo la nascita, cifra che rappresenta l’1,8% di tutte le

nascite del 2004 in Romania, paese dove lo scandalo dei

neonati abbandonati è altrettanto “grave quanto 30 anni fa”,

afferma l’UNICEF in una nota pubblicata a Ginevra. La

maggior parte delle madri che hanno abbandonato il loro

bambino sono molto giovani, senza marito, con basso

livello di istruzione e vivono in condizioni di estrema

povertà. Dal 1° gennaio del 2005 è in vigore una legge sulla

protezione e i diritti dei bambini che per la prima volta

prevede misure punitive durissime per le persone o le

istituzioni che la violino50. La stessa legge rende

praticamente impossibile l’adozione di bambini romeni da

parte di famiglie straniere e definisce “l’Ufficio per le

adozioni” unica istituzione tramite la quale sarà regolato

49 Cfr. M. Frassi, 2002, I ragazzi delle fogne di Bucarest, Ferrari ed. e P.Mordiglia, 2001,Randagi, ed. AdnKronos.50 La novità della legge è l'obbligo imposto alle cliniche di maternità di assumere assistentisociali con competenze nel campo della protezione del bambino che aiuteranno econsiglieranno le mamme subito dopo il parto, specialmente quelle senza marito, moltogiovani o senza possibilità finanziarie di crescere il neonato. Con la nuova legge i reparti dimaternità avranno l'obbligo di registrare immediatamente le nascite di bimbi sia vivi chemorti, altrimenti subiranno multe di decine di milioni di lei. Per le nascite fuori degliospedali sarà il medico di famiglia a registrare il bambino o, se la donna non ha un medicocurante, il compito toccherà al medico al quale e' stata attribuita la zona della città dove lamamma ha il domicilio stabile. Per i neonati abbandonati sarà al più presto annunciatal'autorità sociale o di polizia incaricata di ritrovare la madre o, in caso contrario, identificareper lui la famiglia più adatta. ''Dobbiamo invece fare tutto il possibile per scoraggiarel'abbandono. E come prima cosa abbiamo deciso di raddoppiare l'aiuto finanziarioaccordato alle madri che crescono il loro bambino. Riceveranno 200 euro al mese fino aquando il bambino compie due anni'', ha annunciato Bogdan Panait, nuovo sottosegretarioresponsabile dell’Autorità nazionale per la protezione e i diritti dei bambini (ANPDC). Unprogetto non da poco, quello annunciato dal sottosegretario romeno, se si considera che inRomania il reddito medio oscilla ancora intorno ai 195 euro al mese. In generale la nuovalegge offre per la prima volta alle autorità romene la cornice necessaria per vegliare sulrispetto di tutti i diritti del bambino, secondo quanto ha stabilito la Convenzione di Ginevra(Iatagan 2005).

62

l’affidamento di un bambino romeno (ma sono nate già le

prime polemiche per l’assenza di un organismo di

supervisione dell’attività dell’Ufficio)51. Le adozioni

internazionali sono un argomento del tutto particolare in

Romania. Lo sono diventate in seguito a casi di corruzione,

decine di dossier smarriti negli anni immediatamente

successivi alla rivoluzione del 1989 e di conseguenza

bambini dei quali si è persa ogni traccia. Solo quindi parlare

di adozioni internazionali provoca sospetto, evoca una

correlazione diretta tra bambini e merce.

Decine di migliaia di bambini romeni sono stati adottati

negli ultimi 14 anni. La maggior parte di questi prima del

2001. Solo dal 1997 fino al 2000, secondo quanto riportato

dalle statistiche ufficiali, ne sono stati adottati 10 mila.

Secondo l’Autorità nazionale per la protezione del bambino

e l’adozione, al 31 luglio 2003, i bambini affidati ad istituti

statali o privati erano 37,4 mila mentre quelli affidati a

famiglie sostitutive (assistenti materne o parenti) erano

45.425. Quindi si parla di un totale di 82.916 bambini senza

famiglia. I dati sono però relativi. Resta ancora irrisolta

invece la creazione, in Romania, di un Tribunale per i

51 La nuova legislazione sulla protezione dell'infanzia prevede che, per prima cosa, si cerchidi mantenere il bambino nella sua famiglia naturale e, se non sarà possibile, almeno inquella allargata, con una sistemazione presso gli zii o i nonni. Se anche tale soluzione nonsarà possibile, verrà cercata una famiglia adottiva nazionale. Le adozioni internazionalirappresentano l'ultima soluzione e sono limitate a parenti dei bimbi in adozione che vivanoall'estero. La nuova legge vieta del tutto le adozioni internazionali nel caso di bimbi chenon hanno compiuto due anni. Sono state escluse dal processo di affidamento leorganizzazioni di ogni tipo. La legge mette anche fine alla moratoria in vigore in Romaniadal 2001, quando l'Unione europea aveva chiesto alle autorità di Bucarest di vietare leadozioni internazionali fino al varo di un nuovo provvedimento legislativo più restrittivo.Bruxelles aveva accusato all'epoca il Paese balcanico di favorire il traffico internazionale dibambini. Secondo i dati ufficiali, circa 30 mila bambini romeni sono stati affidati all'esterodal 1989. Attualmente sono affidati alle cura dello Stato almeno 40 mila minorenniabbandonati o orfani (Iordache 2004c).

63

minori, istituzione sino ad ora mai esistita (Iordache

2004c).

La tratta di donne e bambini a scopo di sfruttamento

sessuale resta un altro serio problema. La legge contro la

tratta di esseri umani emanata nel 2001 non ha apportato

alcun apprezzabile miglioramento alla situazione, lasciando

quasi invariata la situazione.

Dal 1991 è in atto una riforma del sistema penitenziario

rumeno52, i cui risultati si stanno rendendo oggi evidenti. La

riforma consiste nella riorganizzazione dell’intero sistema

sulla base delle regole penitenziarie europee e comprende

quindi la modernizzazione della legislazione penale, come

la riduzione del sovraffollamento, lo sviluppo della

cooperazione con la società civile e la revisione del sistema

sanitario. L’assistenza sanitaria e il sovraffollamento

rappresentano per le carceri rumene i due aspetti forse più

preoccupanti. I servizi medici del sistema carcerario sono

infatti scadenti e spesso inadeguati. Al 1° gennaio 2002,

negli istituti dipendenti dall’Amministrazione Penitenziaria

Romena, erano presenti più di 50 mila persone (di cui il

3.9% donne e il 3.3% minori) contro una capacità legale di

33 mila posti e con un indice di sovraffollamento del 152%;

52 Il sistema delle carceri romeno è un sistema costituito da 34 istituti (di cui 7 di massimasicurezza, 24 a regime chiuso anche con reparti semiaperti, 1 con regime semiaperto, 1istituto femminile, 1 istituto per minori e giovani), oltre a 2 centri rieducativi per minori e 5case di cura e custodia (cfr. Amnesty International 2004). Anche in Romania la detenzionesi va sempre più connotando come strumento rivolto a settori socialmente marginali verso iquali la risposta puramente repressiva è andata sostituendosi a quella sorta di equilibrio tratrattamento sociale e sanzioni giudiziarie che può garantire sicurezza e non esclusione. Solouna parte percentualmente irrisoria della popolazione detenuta aveva un lavoro stabileprima dell'ingresso in carcere; larga è l'area di coloro che non hanno concluso il ciclodell'obbligo scolastico, consistente quella di coloro che non hanno ricevuto affattoistruzione. I reati responsabili dell'aumento numerico sono poi ben individuabili dall'esamedei dati: rappresentano gli esiti di una fallimentare politica tendente a racchiuderenell'ambito penale il problema della tossicodipendenza e della pressoché assente possibilitàdi ingresso legale nei paesi dell'Europa ricca.

64

quasi 50 mila persone erano ristrette in istituti penitenziari e

mille in centri di rieducazione. Ma i problemi più gravi che

il sistema carcerario deve affrontare sono rappresentati da

Hiv, Aids, droga e tubercolosi (Amnesty International

2004).

Per quanto riguarda la lotta alla corruzione, la Romania

occupa, l’ultimo posto tra i paesi dell’Unione Europea

(secondo l’ultimo Rapporto sull’indice di percezione della

corruzione della “Transparency International”,

organizzazione internazionale che si batte contro la

corruzione) con un indice della corruzione del 3.0, con soli

0,1 in più rispetto all’anno precedente53. La corruzione è

diffusa nel Paese a tutti livelli, dal semplice cittadino che si

vede obbligato a dare tangenti per passare attraverso una

burocrazia asfissiante fino ai funzionari pubblici che

pretendono soldi in cambio di favori (qualcuno di essi è gia

stato arrestato). Si tratta di un fenomeno fortemente

radicato nella società, la cui soluzione può venire solo

grazie ad una spinta interna. La corruzione continua infatti

ad essere un fatto grave e largamente esteso che verrà

trattato con maggior attenzione nei capitoli successivi.

53 La Romania e’ superata dalla Bulgaria con un indice del 4.0 e Turchia con un indice del 3.5. La media degli stati membri UE e’ del 7.73 ed i 10 stati dell’ultima ondata di adesione all’UE hanno una media del 5.04.L’aumento di soli 0.1 rispetto all’anno precedente e’ considerato dalla“Transparency International”un fallimento delle politiche romene di lottacontro la corruzione e la principale causa e’ l’insufficiente implementazione ed amministrazione di queste politiche. “Transparency Intenational”ha sottolineato che anchein altri Paesi membri UE si constata un’evoluzione negativa o uno stallo dell’IPC. In Italia, ad esempio, l’indice di percezione della corruzione e’ del 5.0 ( in leggera crescita rispetto al4.8 registrato nel 2004). Ciò rappresenta un segnale di allarme per l’UE perquanto riguardala credibilità delle riforma anti-corruzione promosse nei Paesi membri ma anche nei Paesiche dovrebbero aderire nel 2007. Nella classifica leader rimane la Finlandia, con 9.60 punti,seguita dalla Danimarca, a 0.1 punti. I Paesi europei considerati più corrotti della Romaniasono: Albania, Armenia, Bosnia, Serbia, Moldavia, Macedonia ed alcuni degli ex statisovietici.

65

Anche per quanto riguarda la libertà di espressione54 in

Romania, secondo un’inchiesta della “Freedom House”55 del

2004, esistono dei seri limiti. Episodi di pressione sui media

si sono verificati ripetutamente in maniera più o meno

palese e, in certi casi, le minacce si sono concretizzate in

veri e propri attentati nei confronti dei giornalisti che non

condividono le posizioni del governo e che non accettano di

tacere le proprie opinioni a riguardo (Ozon 2003). In

quattro anni, dal 2000 al 2004, sono stati 44 gli assalti ai

giornalisti. Circa la metà di questi casi si è risolta con

l’identificazione dei responsabili ed un processo nei loro

confronti. La tutela della libertà di stampa e la lotta alla

corruzione rimangono due questioni aperte e scottanti per la

Romania, dal momento che gli scarsi passi in avanti fatti

54 Prima dell’ ’89 i romeni avevano solola tv pubblica e la radio statale. La quantitàinformativa, ma soprattutto la “qualità”, era espressione della politica del partito comunista e del suo leader, Ceauşescu. Ma i tempi in cui i Romeni si ritrovavano a guardare iprogrammi della televisione bulgara o serba sono passati e la rivoluzione dell’89 ha aperto nuove prospettive anche nel campo dei media. Le aspirazioni finora represse sono esplosecon entusiasmo. Molto entusiasmo. Tanto che ora in Romania ci sono ben 194 televisioniprivate. Il fenomeno fa discutere e molti analisti si stanno chiedendo se sia veramente “un affare” avere una tv. Il mercato dei media romeno è invaso da canali privati tv ma anchedalle radio. Chiunque possegga un certo capitale ha creato una propria rete televisiva. Varistudi dimostrano che quasi tutte le televisioni in Romania hanno debiti verso lo Stato. E nonpochi, visto che nell’ottobre 2003 i debiti delle Tv private eranodi quasi 20 milioni didollari. Avere molti debiti verso lo Stato significa in pratica essere sotto controllo politico.E’ quello che accade regolarmente in Romania. Gli effetti dell’indipendenza dei media sono stati documentati rigorosamente da varie organizzazioni non governative romene. Inuno studio recente pubblicato dalla Società Accademica della Romania si dimostra come “i voti arrivano attraverso il telecomando”. Secondo lo stesso studio, il controllo politico sulle Tv pubbliche ma soprattutto su quelle private (che hanno molti debiti verso lo stato a causadelle imposte non pagate o dei contributi non versati al Fondo di assicurazioni di sanità) e,induce l’autocensura a livello delle redazioni dei telegiornali. Per evitare le pressioni politiche negli ultimi anni molti produttori hanno cambiato la linea del telegiornale,puntando più su notizie di cronaca come violenze, criminalità o incidenti d’auto. Sarà quindi impossibile avere una politica editoriale indipendente finché le Tv rimarrannoindebitate verso lo stato (Iordache 2004).55 Questa organizzazione apolitica e non-profit, fondata più di sessanta anni fa da EleanoreRoosvelt, monitora il godimento dei diritti civili e politici in tutti i paesi del mondo e dal1973, ogni anno, elabora un cosiddetto "indice di libertà", suddiviso tra libertà civili e dirittipolitici goduti dai cittadini dei singoli Stati presi in esame. Essa si basa sui contribti e sulleofferte che periodicamente riceve da organizazioni, fondazioni, associazioni e semplicicittadini. I maggiori fondi provengono dalle seguenti fondazioni: Fondazioni Soros,Fondazione Carthage, Fondazione Ford, Fondazione Eurasia, Whirlpool e “US Information Agency”. Cfr. http://www.freedomhouse.org .

66

finora in questi campi, fortemente interconnessi, sono uno

degli elementi che rischiano di mettere in discussione

l’ormai certa entrata del paese nell’Unione Europea.

67

CAPITOLO SECONDO

L’ALLARGAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA ALLA

ROMANIA TRA SVILUPPO E DISPARITA’ REGIONALI.

1. Romania : il processo di adesione all’Unione Europea

Il cammino della Romania verso l’adesione all’Unione Europea,

fa parte di un avviato processo di allargamento dell’Unione,

frutto di un’attività più che decennale avviata dal Consiglio

Europeo di Copenaghen del 1993 con l’approvazione

dell’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale e la

definizione dei criteri di adesione (i cosiddetti “criteri di

Copenaghen”). L’accordo europeo, stipulato nel febbraio 1993

ed entrato in vigore nel febbraio del 1995, costituisce la base

giuridica per le relazioni tra la Romania e l’Unione Europea fino

all’adesione. Esso offre un quadro per il dialogo politico,

promuove l’espansione dei rapporti economici e commerciali e

pone le basi per l’assistenza tecnica e finanziaria dell’Unione

(Kok 2003). Solo a partire dalla sua entrata in vigore il Governo

romeno ha riconosciuto che i problemi delle regioni e delle

comunità locali rappresentavano elementi chiave per la

realizzazione di una coerente strategia di sviluppo regionale,

necessaria per dare effettiva applicazione alla decentralizzazione,

all’autonomia amministrativa locale e alla cooperazione

transfrontaliera, concetti che fino ad allora erano rimasti tali. Al

Consiglio Europeo di Essen del 1994 venne preparata una

strategia globale di preparazione dell’adesione o di “preadesione”

basata sugli accordi d’associazione, sull'armonizzazione

68

legislativa, sul dialogo istituzionale, sugli aiuti finanziari e sul

programma di cooperazione transfrontaliera. Un anno dopo, a

Madrid, la Commissione Europea presentando una relazione

intermedia, ipotizzò la necessità di disposizioni transitorie in

molti dei PECO. La Romania presentò domanda di adesione

all’Unione Europea il 22 giugno 1995. In seguito alla

conclusione della conferenza intergovernativa di Amsterdam del

giugno 1997 (nella quale si adottava l’omonimo trattato, che

apportò un programma di riforme connesso all’ingresso dei nuovi

membri provenienti dall’Europa centro-orientale), nel dicembre

dello stesso anno, il Consiglio Europeo di Lussemburgo, decise

di intraprendere un processo di allargamento dell’Unione

Europea nel suo complesso per tutti i paesi che aspiravano ad

aderire alla stessa. Pochi mesi prima dello stesso Consiglio, che

aveva dato la precedenza all’adesione ad un gruppo di sei Paesi

(Cipro, Estonia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovenia e Ungheria),

venne pubblicato dalla Commissione Europea, un importante

documento denominato Agenda 2000 56.

Il mese di marzo 1998 rappresentò un’importante tappa del

processo di allargamento: in questo mese, infatti, si tenne la

prima riunione della “Conferenza Europea”57. Nello stesso mese

56 Tale documento confermava i criteri di Copenaghen, denunciava alcunecarenze sul rispetto dei parametri riscontrate in ambito politico (Slovenia),economico (Estonia) e giuridico (Bulgaria, Romania) e presentava leprospettive di finanziamento ai PECO stanziando oltre venti miliardi di europer il periodo 2000-2006 tramite i progetti PHARE (Poland and HungaryAction for the Restructuring of the Economies), ISPA (Instrument forStructural Policies for pre-Accession) e SAPARD (Special AccessionProgramme for Agriculture and Rural Development) (Letta 2003).57 Forum di consultazione politica comprendente i Quindici, i dieci paesi candidatidell’Europa centrale e orientale, Cipro, Malta e, dal novembre 2000, la Turchia (Laschi 2001).

69

ci fu anche il lancio dei “partenariati per l’adesione”58 e

l’apertura dei negoziati di adesione con Cipro, Repubblica ceca,

Estonia,Ungheria, Polonia e Slovenia.

In seguito, nel novembre dello stesso anno, la Commissione

Europea pubblicò la sua prima relazione periodica annuale sui

progressi compiuti dalla Romania sulla via dell’adesione. La

ottava e finora più recente relazione è stata pubblicata il 25

ottobre del 200559. Le conclusioni di quest’ultima relazione di

58 Questi prevedono che la Commissione Europea riferisca sui progressirealizzati, fissano le priorità per ciascun paese candidato, organizzanofinanziamenti e aiuti. Ciascun paese candidato gestisce un “programma nazionale in vista dell’adozione dell’acquis” (Laschi 2001).59 In quest’ultimo rapporto si raccomanda soprattutto un impegno maggiorerispetto al rafforzamento dell’amministrazione locale e regionale. Per quanto riguarda gli impegni in ambito economico, la Commissionesottolinea gli sforzi compiuti negli ultimi anni, soprattutto per quantoriguarda le riforme strutturali che se portate avanti consentirebbero alsistema economico rumeno di far fronte alle pressioni concorrenziali e alleforze del mercato dell’Unione. Ma per far si che tali riforme abbiano effetto, il governo di Bucarest dovrà rafforzare la disciplina finanziaria tenendobasso il deficit. Si sottolinea anche il bisogno inoltre di una miglioregestione delle politiche energetiche, debellando la pratica usuale diutilizzare gas e elettricità come risorse fiscali per effettuare trasferimentiverso le aziende statali. Il proseguimento delle ristrutturazioni e la politicadi privatizzazione vanno portate avanti di pari passo, anche se bisognagarantire maggiore trasparenza nel processo di privatizzazione chealtrimenti finirebbe col perpetrare la piaga della corruzione. Anche in campoagricolo si sono registrati dei passi in avanti ma restano aperte ancora molteincognite. Restano inoltre contingenti i problemi relativi all’ambiente economico e alle condizioni offerte agli investimenti diretti esteri, difatti sea livello macro-economico è stata raggiunta la stabilità, rimane invece , ilproblema dell’ambiente micro-economico, vale a dire degli ostacoli con iquali si confrontano giornalmente le aziende. Tale situazione viene ad esserecorrelata alla situazione in cui versa il sistema giuridico, l’amministrazione pubblica, la burocrazia, e al problema della corruzione. La Romania attraesoprattutto investimenti legati al costo estremamente basso dellamanodopera, quindi l’azione del governo di Bucarest deve indirizzarsi ad attrarre investimenti a più alto valore aggiunto. Nel documento strategico lacommissione conferma che la Romania, insieme alla Bulgaria, potrà aderireall’Unione dal gennaio 2007. Il documento prevede tuttavia una clausola disalvaguardia, qualora il governo di Bucarest non fosse pronto per l'adesionela Commissione Europea potrebbe proporre, e il Consiglio decidere dirinviare di un anno la data dell'adesione. Quest'ultimo elemento rappresenta

70

monitoraggio sottolineano i numerosi progressi ma anche alcuni

preoccupanti ritardi.

La relazione constata che prosegue l'applicazione di tutte le

condizioni che hanno consentito l'avvio e la conclusione dei

negoziati, nonché la firma del Trattato di adesione della

Romania: il criterio politico, quello economico, quello

amministrativo. Due grandi campi, i criteri politici e l'economia,

riuniscono l'apprezzamento degli esperti europei, come del resto

la giustizia e la concorrenza; settori nei quali il paese ha

realizzato progressi notevoli. C'è invece ancora molto da fare per

quanto riguarda campi quali sicurezza dei confini60, agricoltura e

settore veterinario, inquinamento industriale e, soprattutto, lotta

alla corruzione e protezione delle minoranze. Questa relazione,

però, non ha ancora dato verdetti. Solo fra altri sei mesi, ad aprile

2006, si dirà se il paese sarà o meno ammesso nell’UE il 1°

gennaio 2007.

una novità significativa rispetto ai precedenti allargamenti (CommissioneEuropea 2005).60 Sulla questione confini si è aperto di recente un dibattito acceso nei mediadi Bucarest. Alla fine di agosto sono fuggiti dall’Uzbekistan 439 profughi perseguitati che sono stati accolti da un centro d’accoglienza proprio in Romania, a Timişoara. Il centro, costruito con fondi UE, ha fatto discutere per la politica che l’Europa sembra perseguire nei confronti dei richiedenti asilo: ovvero bloccare questi rifugiati ai propri confini esterni, facendo inmodo che siano i paesi nuovi entrati o quelli che aspirano a divenire nelprossimo futuro membri UE ad ospitarli, piuttosto che intervenire in primalinea. Del resto, le manovre geopolitiche delle grandi superpotenze nelloscacchiere caucasico, sono sempre più serrate e le lotte intranazionali,condotte dai grandi attori ombra, renderanno sempre più frequenti le fugheper la salvezza. Nel caso dell’Uzbekistan, i profughi erano scappati da una violenta repressione delle autorità di Tashkent di una manifestazione nonautorizzata. Rifugiatisi in un primo momento in Kirghizistan, sono stratitrasferiti nella cittadina romena. Peraltro la Romania ha già al suo internodei problemi di convivenza legati alla Moldavia. Infatti, anni fa lamaggioranza romena della Moldavia aveva rifiutato l’annessione alla Romania (a più riprese promossa dall’ex premier Iliescu per distrarre la popolazione col nazionalismo passionale nei momenti più duri perl’economia del paese) (Campana Rovito 2005).

71

Il Consiglio Europeo di Berlino del 1999 stabilì regole più

precise per i piani d’aiuto previsti da Agenda 2000, soprattutto

dal punto di vista del potenziamento istituzionale dei PECO e

delle condizioni ed entità delle sovvenzioni. Nel dicembre dello

stesso anno la Romania venne invitata a partecipare al Vertice di

Helsinki, durante il quale il Consiglio europeo decise di avviare i

negoziati ufficiali per l’adesione con la stessa Romania, la

Bulgaria, la Slovacchia, la Lituania, la Lettonia e Malta (Pascariu

et al. 2002). In tale occasione, il vertice precisò che i paesi

candidati in attesa di avviare i negoziati per l’adesione avrebbero

avuto la possibilità, qualora compissero sufficienti progressi nei

loro preparativi, di raggiungere i paesi che già partecipavano ai

negoziati (Marcou 2002).

I negoziati con la Romania furono avviati ufficialmente in

occasione della prima Conferenza per l’adesione nel febbraio del

2000. Gli stessi sono avanzati a passo relativamente lento e sono

tuttora in corso: finora sono stati provvisoriamente chiusi 27

capitoli sui 30 aperti61. Elemento chiave della preparazione

all’adesione del paese è il già citato “partenariato per l’adesione”

che dispone una valutazione delle aree prioritarie in cui la

Romania ha bisogno di effettuare i progressi. L’incontro di Nizza

del 2000 segnò una tappa fondamentale per il processo di riforma

dell’Unione, "aprendo le porte" delle istituzioni europee, de iure

e de facto, ai Paesi candidati. Il Consiglio Europeo di Goeteborg

61 Restano aperti tre capitoli importanti per completare l’iter negoziale, ambiente, concorrenza, giustizia e affari interni. Di questi 30 capitoli, 2riguardano il contesto regionale. Questi si riferiscono alle strategie disviluppo regionale e allo spazio nazionale, concentrandosi su progettiinfrastrutturali su larga scala e su un uso razionale del territorio, comesintesi delle strategie sviluppate in ogni provincia. Essi mettono insieme iprocessi di transizione e riforma a livello regionale con le azioni che devonoessere intraprese in vista della futura integrazione nelle strutture dell’Unione Europea (Commissione Europea 2005).

72

del 2001 confermò la chiusura dei negoziati entro la fine del

2002 per i candidati "in regola" e il summit di Laeken del

Dicembre dello stesso anno li identificò in dieci Paesi (Estonia,

Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia,

Slovenia e Ungheria - tutti Paesi ex-comunisti - nonché Cipro e

Malta), che sarebbero poi entrati nell’Unione a maggio dello

scorso anno. Malgrado la Romania non figurasse nell’elenco, il

Consiglio europeo indicò inoltre la necessità di disporre di un

quadro preciso comprendente una tabella di marcia adeguata per

la Bulgaria e la Romania, con l’obiettivo di aprire i negoziati con

i due paesi su tutti i capitoli nel 2002 (Jordan, Popescu 2001). Il

13 novembre di quello stesso anno la Commissione presentò le

tabella di marcia per Romania e Bulgaria al fine di sostenere lo

sforzo dei due paesi verso il raggiungimento del loro obiettivo di

aderire all’UE nel 200762.

Poco tempo dopo, a Copenaghen, nel dicembre 2002, il

Consiglio europeo approvò i risultati dei negoziati con i 10 paesi

che avrebbero poi aderito all’Unione il 1° maggio 2004. Per

quanto riguarda la Romania (e la Bulgaria) fu confermato

l’obiettivo di accogliere questi paesi in qualità di membri

dell’Unione Europea nel 2007 e furono approvate le tabelle di

marcia presentate dalla Commissione, inclusa la proposta di un

significativo aumento dell’assistenza di preadesione. Infine, nella

sua riunione tenutasi a Bruxelles nel dicembre 2003, il Consiglio

62L’obiettivo delle tabelle di marcia è indicare le principali azioni che i due paesi dovrebbero compiere per essere pronti all’adesione. Esse identificavano dettagliatamente i compiti futuri, prestando particolareattenzione alle capacità amministrativa e giudiziaria necessarie ad applicarel’acquis comunitario e alla riforma economica. Per sostenere questi sforzi laCommissione ha successivamente proposto un notevole e progressivorafforzamento dell’assistenza finanziaria, con un aumento del 20% nel 2004, del 30% nel 2005 e del 40% nel 2006 rispetto alla media di aiuti ricevuti daidue paesi nel periodo 2001-2003 (Parlamento Europeo 2004b).

73

europeo ha invitato la Bulgaria e la Romania a proseguire i

preparativi e a compiere ulteriori progressi, in modo da poter

firmare il trattato di adesione non appena possibile nel corso

dell’anno in corso. Il Consiglio europeo ha espresso la

determinazione dell’Unione di agevolare questa tabella di

marcia. Tuttavia, esso ha anche precisato che i due paesi devono

portare le loro capacità amministrative e giudiziarie al livello

richiesto per poter rispettare le date prefissate.

Dopo dieci anni di cammino i romeni vedono l’Europa sempre

più vicina. Il 13 aprile 2005, il Parlamento Europeo ha infatti

votato sull’adesione della Romania (e della Bulgaria) all’Unione

Europea. Il paese ha ottenuto 497 voti a favore, 93 contro e 71

europarlamentari si sono astenuti. Bucarest passa questo esame

con meno voti della Bulgaria che ha ottenuto 522 voti positivi, 70

contro e 69 parlamentari si sono astenuti. I due paesi avevano

bisogno di un minimo di 367 voti, la maggioranza qualificata

degli europarlamentari. Il trattato di adesione63 è stato firmato il

25 aprile in Lussemburgo; esso è unico per la Romania e la

Bulgaria ed ha la stessa struttura dei trattati dei dieci paesi entrati

a far parte dell’UE nel maggio 2004. Il semaforo verde di

Bruxelles non significa però che i dieci anni nell’anticamera

dell’UE siano finiti. Lo stesso documento conclude in un modo

poco ottimista e non a favore delle autorità di Bucarest. E’ stata

infatti inserita una clausola di salvaguardia che può rinviare di un

anno l’adesione all’UE, se la Romania non rispetterà gli impegni

in materia di acquis comunitario. L’ingresso della Romania

63 Il testo prevede che inseguito all’adesione, i due paesi dovranno rispettare tutti i trattati e le normative europee. Questo significa, tra l’altro, che la Romania dovrà ritirarsi dall’Accordo di Libero scambio dell’Europa Centrale (CEFTA) e ridurre le proprieproduzioni di acciaio e prodotti tessili. Il trattato contiene anche previsioni finanziarie inmerito all’assistenza di cui godrà il paese dopo l’adesione (Iordache 2005a).

74

nell’UE rimane quindi condizionato dagli impegni che

riguardano le riforme economiche e sociali. Chiudere i negoziati

in fretta potrebbe fare più male che bene al Paese, ritengono

alcuni parlamentari europei tra i quali Emma Nicholson, relatrice

della Commissione Europea per la Romania64.

A supporto dei preparativi per l’adesione, sono stati messi a

disposizione dei paesi candidati (e quindi anche della Romania)

tre strumenti di preadesione finanziati dall’Unione europea e

decisi al Consiglio Europeo di Berlino del 1999 ma già anticipati

cinque anni prima al summit di Essen: il programma PHARE,

quello SAPARD, che fornisce assistenza all’agricoltura e allo

sviluppo rurale, e quello ISPA, che finanzia progetti di

infrastrutture nei settori ambiente e trasporti. Si tratta di piani di

aiuti economici distribuiti dal 2000 al 2006 per un totale, stimato

dalla Commissione Europea, di oltre venti miliardi di euro, di cui

circa un decimo destinati all'ambiente. Tali programmi sono

indispensabili per l'applicazione effettiva degli standard

comunitari (Letta 2003).

Il primo, di natura strutturale, riguarda l’assetto politico,

economico e amministrativo dei candidati ed è il più consistente

giacché finanzia gli adeguamenti più importanti e radicali dei

Paesi in questione. Nato inizialmente per il sostegno alle

economie polacca e ungherese, il piano PHARE, fu lanciato già

64 La Nicholson, spesso molto critica verso le autorità di Bucarest, ritieneche i cittadini romeni non siano ancora pronti per le sfide europee. Le regoledell’economia di mercato pesano a suo avviso sulle spalle non solo dei politici ma soprattutto su quelle della popolazione. Secondo la parlamentareè necessario che il governo di Bucarest spieghi alla gente che, per esempio,con l’entrata nell’Unione Europea molti posti di lavoro andranno persi. Solo nell’agricoltura i posti di lavoro dovranno essere ridotti dal 45% al 15-20%.Gli effetti sociali e personali della riduzione della mano d’opera attiva non saranno di sicuro un fatto da sottovalutare per i governanti che sperano diconservare il loro elettorato, pur con tutte le misure che si impongono nellacorsa verso l’UE (Iordache 2005a).

75

nel 1989 e si è esteso ad altri dodici Paesi della regione. Il 70%

circa dei fondi PHARE sono destinati ad investimenti per

l’allineamento all’acquis comunitario, alla promozione di piani

nazionali che favoriscano la coesione economica e sociale, alla

modernizzazione industriale, alla promozione dell’efficienza

energetica, al rafforzamento delle risorse umane, alla sostenibilità

e rapidità delle linee di trasporto. Tali investimenti devono essere

accompagnati da quelli statali e privati, funzionando da

catalizzatore per altre iniziative, e soprattutto devono essere

improntati alla sostenibilità, non solo economica ma anche e

soprattutto sociale ed ambientale. Il restante 30% di PHARE si

rivolge invece al rafforzamento istituzionale tramite la

facilitazione dei contatti fra PECO e Stati membri, nonché

attraverso un appoggio tangibile da parte di specialisti per il

progressivo adeguamento normativo, specie nella promozione

della democrazia, dei diritti umani e dello stato di diritto.

Comunque, tra il 1990 e il 2000, la Romania ha ricevuto oltre 1,5

miliardi di euro e dal 2000 fino al 2006, sta ricevendo

annualmente circa 260 milioni di euro, seconda solo alla Polonia

come volume di fondi concessi65. Nel quadro dello stesso

programma, più dei 3/4 dei fondi è destinato a programmi

nazionali. Le priorità per l’anno appena passato sono state: il

rispetto dei criteri politici, i criteri economici, il rafforzamento

della capacità amministrativa, il rispetto degli obblighi

dell’acquis, la coesione economica e sociale e la partecipazione

ai programmi comunitari.

Il programma ISPA, adottato per il periodo 2000-2006, dispone

di un budget di circa mille milioni di euro l’anno, di cui una

65 Cfr. Parlamento Europeo 2004b.

76

quota del 20-26% è destinata al finanziamento dei progetti in

Romania. Esso affronta il problema delle infrastrutture e dei

trasporti66 e, argomento di estrema attualità, la questione

ambientale. E’ questo il mezzo finanziario più consistente e

mirato per aiutare i PECO nell'implementazione dell'acquis

ambientale, ma la natura del fondo, che sovvenziona allo stesso

tempo la costruzione di strade, ponti, ferrovie, aeroporti... e

progetti a tutela dell’ambiente, ha ricevuto numerose critiche per

la presunta contraddittorietà della sua essenza. In altre parole, per

tutelare l’ambiente, secondo la maggior parte delle ONG,

bisognerebbe limitare al massimo la costruzione di tali

infrastrutture per via del loro violento impatto sull’ecosistema

delle zone interessate. Probabilmente la strada più sensata e

consigliabile sarebbe quella di realizzare sì nuove infrastrutture,

fondamentali per lo sviluppo economico dell'Europa Centro-

Orientale, ma di renderle il meno invasive possibile nei confronti

della natura. I maggiori beneficiari di ISPA fra i Paesi candidati

sono Polonia e Romania, che assorbono da soli almeno la metà

66 In Romania le infrastrutture dei trasporti sono assai carenti e rappresentano un reale frenoallo sviluppo del paese, rivelandosi inadeguate anche rispetto a quelle di altri paesi dell’Est. La rete stradale romena è una delle meno estese in Europa, con solo 113 km di autostrade, eanche la manutenzione è al di sotto degli standard europei. Altri problemi sono glionnipresenti imbottigliamenti e le difficoltà di accesso alle città, causate principalmente daiveicoli pesanti e dalla mancanza di percorsi alternativi. Gli incidenti stradali (dei quali unaalta percentuale mortali, tale da far collocare la Romania al 24° posto nel mondo di questainfelice graduatoria!, cfr. AA.VV. 2005) sono purtroppo la norma in un Paese dove lasicurezza stradale è ancora una chimera. Del resto molti dei villaggi e sobborghi sonoattraversati da strade male illuminate ancora calcate da animali da soma. Negli ultimi tempiun importante attenzione è stata posta sulla possibilità di ottenere finanziamenti per lacostruzione e la modernizzazione di autostrade e di strade di importanza nazionale einternazionale. La rete ferroviaria, di 11.385 km, rimane il più importante strumento dicomunicazione per beni e passeggeri. Tuttavia, solo un terzo risulta elettrificato e un quartodelle locomotive hanno ormai superato il limite intollerabile di obsolescenza. Il trasportofluviale lungo il Danubio, che rappresenta un’importante via di comunicazione con l’Europa centrale, è stato gravemente danneggiato a seguito della distruzione dei pontidurante la guerra in Serbia. Un ulteriore problema è il basso livello del Danubio che,insieme alle sedimentazioni dell’area portuale di Cernavoda, crea continue congestioni nel traffico. Azioni positive si riscontrano nei lavori specifici di protezione delle rive del canaleDanubio-Mar Nero e Poarta Alba-Midia Navodari e nell’eliminazione delle inondazioni nel Canale di Sulina (Rey et al. 2002 ).

77

dei finanziamenti totali, ma anche la Slovenia ha beneficiato di

molti interventi. Inoltre, più dell'80% della spesa ambientale di

ISPA è destinato a misure contro l'inquinamento idrico. La

programmazione dell’ISPA si basa sui documenti di strategia

nazionale per i trasporti e l’ambiente. Tramite ISPA la Romania

beneficia attualmente di finanziamenti compresi tra 240 e 270

milioni di euro (Parlamento Europeo 2004b).

Infine abbiamo il programma SAPARD, che si occupa della

politica agricola e dello sviluppo rurale, per decenni temi

"scottanti" all’interno dell’Unione. La Romania è interessata per

il periodo 2000-2006 da un programma di assistenza comunitaria

record di circa 1 miliardo di euro (a cui si aggiunge il contributo

dello Stato del 25%) in forza del quale riceve ogni anno fondi per

un importo pari a 150 milioni di euro. La prima tappa di

implementazione del Programma ha avviato due misure di

investimenti: miglioramento della lavorazione e del marketing

dei prodotti agricoli; e sviluppo e miglioramento

dell’infrastruttura rurale. All’inizio del dicembre 2003 la

Commissione Europea ha accreditato altre tre misure del

Programma SAPARD: 1- investimenti nelle aziende agricole; 2-

sviluppo e diversificazione delle attività economiche per generare

attività multiple e redditi alternativi; 3- miglioramento della

formazione professionale. E’ stata istituita anche un’agenzia

SAPARD che fa capo al ministero dell’Agricoltura. Tuttavia,

l’amministrazione locale sta incontrando ancora molte difficoltà

nella procedura prevista dall’elaborazione dei progetti fino alla

loro realizzazione, tanto che su un totale di 1500 progetti solo

580 contratti sono stati effettivamente conclusi e circa 200

avviati.( Parlamento Europeo 2004b).

78

Sempre nell’ambito dell’assistenza di preadesione, dal 1998 la

Commissione ha introdotto un nuovo strumento, il gemellaggio

istituzionale, volto ad aiutare i paesi candidati a rafforzare la loro

capacità amministrativa. Il gemellaggio è finanziato dal

programma PHARE e mette a disposizione dei paesi candidati

l’esperienza degli Stati membri tramite il distaccamento a lungo

termine di funzionari pubblici, nonché l’accompagnamento con

missioni di esperti a breve termine e formazione. Fra il 1998 e il

2003, sono stati finanziati 118 progetti di gemellaggio in

Romania67, e per il 2004 ne sono stati previsti altri 31. Infine, mi

sembra opportuno dare rilievo al fatto che la Romania partecipa

anche a una serie di programmi dell’Unione europea, tra cui

“Leonardo da Vinci II”, “Socrates II”, “Youth”, ed è inserita nel

Sesto programma quadro di ricerca, incluso Euratom. Questi

piani di finanziamento disposti dall'Unione sono stati oggetto in

questi anni di critiche e diffidenze: oltre alle perplessità relative

ai progetti infrastrutturali di ISPA, l’Unione è accusata di voler

instaurare un rapporto asimmetrico con i PECO, tramite

l’approvazione di progetti che riflettono gli interessi e le priorità

di alcuni Paesi già membri piuttosto che di quelli candidati68.

2. Dalle ragioni comuniste alle “regioni di sviluppo”.

67 I progetti coprono una vasta gamma di settori, come la giustizia e gli affari interni, ilmercato interno e la riforma della pubblica amministrazione.68 Perplessità sull'efficienza dei finanziamenti comunitari sono statesollevate, ad esempio, nel documento "Teoria sostenibile - praticainsostenibile? Miliardi per la sostenibilità?", pubblicato nel 2002 daBankwatch e Friends of the Earth Europe (cfr.www.bankwatch.org/publications ).

79

Gli indirizzi di sviluppo regionale nel nuovo spazio

europeo.

Dopo aver analizzato l’intero processo di allargamento dell’UE,

si tratta ora di approfondire il ruolo e la storia delle politiche

regionali romene nel più ampio contesto dell’avviato processo di

regionalizzazione69 dell’Unione Europea stessa. C’è da dire che,

malgrado oggi in Europa la nozione di regione e le idee ad essa

collegate siano abbastanza note, la eterogeneità delle istituzioni a

cui si fa riferimento con questa espressione, impedisce di

riconoscervi un nuovo paradigma dell’organizzazione territoriale.

69 Generalmente si distinguono 5 diversi tipi di regionalizzazione, in base alposto occupato dalla regionalizzazione stessa all’interno della struttura amministrativa e costituzionale di uno Stato: Un primo tipo diregionalizzazione è quella amministrativa. Con questo termine si intendel’istituzione da parte dello Stato di autorità subordinate al governo, o di organismi che sono strumenti della sua azione posti sotto il suo controllo, ele cui funzioni mirano alla promozione dello sviluppo economico regionaleattraverso una mobilitazione degli enti locali e delle organizzazionieconomiche. Nel caso della regionalizzazione senza creazione di un enteregionale invece, sono le istituzioni esistenti, e in particolare gli entiterritoriali che si regionalizzano facendosi carico dell’interesse regionale e, nel caso specifico, delle finalità economiche. È questo il caso riscontrabilein Romania. Un terzo tipo di regionalizzazione è quella propria deldecentramento regionale. In pratica si verifica quando si crea un nuovo entelocale o lo si sostituisce a livello regionale. La regionalizzazione rappresentain questo caso un’espressione specifica delle istituzioni, ma non modifica lastruttura dello Stato e si inserisce in un quadro unitario. L’autonomia regionale si basa invece sul riconoscimento dei particolarismi, di ordineetnico, culturale e linguistico, nel nome dei quali viene concessa unamaggiore autonomia alle regioni che ne sono sede; infine laregionalizzazione dello Stato federale si basa su una volontà di unione esulla parità di diritti fra i membri della Federazione. Lo Stato federaleinfatti, non è una forma accentuata di decentramento o di regionalizzazione,ma un tipo di costruzione dello Stato. Gli Stati federali europei (Germania,Svizzera, Austria) sono del resto ben più antichi dell’idea stessa diregionalizzazione, fatta eccezione per la costituzione belga, del 1994, che è,al contrario, il risultato di questo processo. Tuttavia, se le circostante vi siprestano, nei vari Stati federali possono svilupparsi diversi tipi diregionalizzazione ( Marcou 2000).

80

Nei fatti è impossibile trarre da queste esperienze una nozione

comune di regione che consenta di definirla in quanto tale70.

A tal proposito, non bisogna dimenticare che numerosi Stati in

seno all’“Europa dei 25” non riconoscono la regione come un

livello di governo, o le riconoscono solo uno status particolare,

mentre gli altri Stati si differenziano per quanto concerne la

natura e la funzione della regione stessa (Marcou 2000).

L’allargamento ha maggiormente accentuato tale eterogeneità.

Inoltre, anche se il Trattato di Maastricht ha istituzionalizzato le

politiche regionali, esso non fornisce alcuna base alla definizione

di una nozione comune dell’istituzione regionale, anche dopo la

creazione del “Comitato delle regioni”71. La nozione di regione a

cui si riferisce il trattato che istituisce la Comunità europea è

soltanto uno spazio, mai un’istituzione. Per di più la confusione

sulla nozione di regione è accentuata dalle difficoltà

linguistiche72.

70 Nel senso più ampio del termine, per regione geografica si intende una porzione dellasuperficie terrestre, costituita da un insieme di luoghi contigui aventi tutti qualchecaratteristica in comune tra loro che si differenzia, in base a tali caratteristiche, da altriinsiemi di luoghi confinanti (che, avendo caratteristiche diverse, costituiscono regionidistinte) (cfr. Valeri 2001). Essa può anche essere definita come un’area intermedia tra le unità territoriali inferiori e un’area nazionale o internazionale superiore. Nel campo dell’economia regionale la regione viene intesa come un’area sub-nazionale con i confinistabiliti dalla localizzazione geografica, da quella delle industrie e dalla concentrazione diproduzioni varie (cfr. Jordan 1998,p.247). Le regioni, comunque, sono in una certa misuracostruzioni mentali soggettive, sono “un modo per dare un ordine ai fatti osservabili nello spazio terrestre, modo che muta a seconda dei fenomeni che vogliamo analizzare, degliobiettivi che ci proponiamo e dei criteri di osservazione che adottiamo” (cfr. Contiet al.1999).71 L’introduzione del Comitato dal trattato di Maastricht non ha permesso di arrivare a una nozione comune di regione, e quindi il Comitato sicompone di “rappresentanti delle collettività regionali e locali” (art. 263). Conformemente a tali disposizioni, gli Stati membri hanno potuto designareliberamente i membri proposti alla nomina da parte del Consiglio in caricadella propria organizzazione territoriale. Ne risulta che su 222 membri delComitato delle regioni del secondo mandato, solo 86 rappresentavano entiterritoriali qualificati come regione dello Stato membro, mentre per taluniStati erano prevalenti i rappresentanti di livello comunale.72 Fino a qualche tempo fa era usuale tradurre in inglese con “county” (contea) il nome di qualsiasi livello intermedio dell’organizzazione

81

Nonostante tutto negli ultimi decenni, in seguito all’aumento del

benessere di alcune zone (a scapito di altre), si è finalmente

affermata una concreta politica regionale all’interno dell’Unione

fondata sul principio di “solidarietà finanziaria”. Le misure

inerenti alla politica regionale europea mirano, infatti, alla

promozione dell’equilibrio territoriale dell’Unione attraverso la

riduzione delle differenze di sviluppo socio-economico tra le

diverse regioni europee; a questo scopo, la politica regionale (di

coesione economica e sociale) si basa sul trasferimento della

ricchezza dalle regioni più sviluppate a quelle in ritardo di

sviluppo. Queste “regioni svantaggiate” sono, generalmente,

affettate da uno o più dei seguenti problemi strutturali: l’usura

dell’infrastruttura, soprattutto di quella relativa ai trasporti ed

all’ambiente; un settore industriale non efficiente, non moderno e

non competitivo; un settore agricolo dominato da strutture socio-

economiche arcaiche; la diffusione del fenomeno di

spopolamento, soprattutto delle zone rurali; un’alta incidenza

della disoccupazione73.

Gli strumenti finanziari di cui beneficiano i membri dell’Unione

per quanto riguarda lo sviluppo regionale sono, attualmente: i

cosiddetti “Fondi Strutturali”, composti da FSE(Fondo Sociale

territoriale di uno Stato, mentre il termine “region” veniva utilizzato solo per designare un’entità geografica. Oggi, si ha la tendenza a sostituire “county “ con “region “ nei testi scritti in inglese, senza che la naturadell’entità territoriale in questione sia effettivamente mutata, fatta eccezione per i paesi in cui si è creato un livello superiore, espressamente definitoregione. O ancora, il vecchio termine raion usato dall’amministrazione sovietica diventa “county “ in Estonia, ma “region”in Lettonia.73 L’azione diretta, da parte dell’Unione, a favore delle “regioni svantaggiate” è iniziata in seguito all’introduzione, con il Trattato di Maastricht, del mercato unico ed alla proclamazione dell’obiettivo dicoesione economica e sociale come prioritario perl’Unione, introducendo, nel testo di legge, il titolo XVII (art.158-162), intitolato, appunto,“Coesione economica e sociale” (cfr. Commissione Europea 2002; Pascariu 2002).

82

Europeo)74, FESR(Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale)75,

FEAOG(Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e Garanzia)76

e SFOP(Strumento Finanziario di Orientamento della Pesca)77; il

Fondo di Coesione creato nel 1993 e riservato al finanziamento

di progetti infrastrutturali nei settori dei trasporti e ambientale nei

paesi dell’UE in ritardo di sviluppo, ovvero con PIL/ pro capite

inferiore al 90% della media comunitaria78; le iniziative

comunitarie, ovvero INTERREG III79, URBAN II80, EQUAL81,

LEADER +82.

Con la riforma del 1999, sono stati, inoltre, introdotti, i già citati

strumenti di pre-adesione, ISPA e SAPARD, che si aggiungono

al già esistente programma PHARE . Nel 2002, è stato poi

istituito il Fondo di Solidarietà dell’Unione Europea (FSUE), allo

scopo di assistere i paesi che sarebbero poi entrati a far parte

dell’Unione nel 2004 e gli stati già membri, nei casi di calamità

74 Creato nel 1958 per la promozione dell’inserimento professionale dei disoccupati e dei gruppi svantaggiati, attraverso il sostegno alla formazionee la creazione di nuovi posti di lavoro (Letta 2003).75 Istituito nel 1975 per il finanziamento di progetti mirati al miglioramentodelle infrastrutture, allo sviluppo delle piccole e medie imprese, allosviluppo locale, in generale(Letta 2003).76 Creato nel 1958 per il finanziamento delle iniziative di sviluppo rurale,soprattutto nelle aree svantaggiate(sezione “Orientamento”) e, su tutto ilterritorio europeo, per il sostegno agli agricoltori, nel quadro della PAC(sezione “Garanzia”) (Letta 2003).77 Creato nel 1993 per l’ammodernamento del settore pesca(Letta 2003).78 Commissione Europea 2002, pp.5; Pascariu,2002., pp.77-78.79 Per la promozione della cooperazione transfrontaliera, transnazionale edinterregionale; questa iniziativa comunitaria è finanziata dal FESR (Letta2003).80 Per la promozione del risanamento dei centri urbani, soprattutto deiquartieri degradati; questa iniziativa comunitaria è finanziata dal FESR(Letta 2003).81 Per la lotta alla discriminazione di ogni tipo (sessuale, etnica, religiosa,ecc..),relativamente all’accesso nel mercato del lavoro; questa iniziativa comunitaria è finanziata dal FSE (Letta 2003).82 Per il finanziamento di progetti di sviluppo locale sostenibile, nelle zonerurali; questa iniziativa comunitaria è finanziata dal FEAOG–Orientamento(Letta 2003).

83

naturale. Per quanto riguarda gli obiettivi strategici dei Fondi

Strutturali, in base al principio della “concentrazione” degli

interventi finanziari, la riforma del 1999 ha effettuato una

semplificazione, raggruppando i sei obiettivi83, previsti nel

periodo precedente (1992-99) in un numero pari a 3:

- Obiettivo 1 (territoriale): promozione dello sviluppo delle aree

svantaggiate, attraverso investimenti infrastrutturali e in attività

economiche (70% degli investimenti);

- Obiettivo 2 (territoriale): sostegno alla riconversione economica

e sociale delle aree urbani e rurali con problemi strutturali

(11,5% degli investimenti);

- Obiettivo 3 (settoriale): promozione dell’occupazione e della

formazione professionale (12,3% degli investimenti) (Letta

2003).

Detto ciò, l’esigenza di una politica regionale nazionale è ormai

entrata a pieno titolo anche nell’agenda politica di tutti i Paesi

dell’Europa centro-orientale, dopo che in molti di questi, nel

corso degli anni Novanta, i problemi di sviluppo regionale hanno

ricevuto scarsa attenzione84(Downes 1996). Le riforme

83 Obiettivo 1: aggiustamento economico delle regioni in ritardo disviluppo, con PIL/pro capite inferiore al 75% della media comunitaria;Obiettivo 2: riconversione economica delle aree industriali in declino;Obiettivo 3: lotta alla disoccupazione; Obiettivo 4: sostegnoall’aggiornamento professionale in rapporto ai cambiamenti del settore industriale; Obiettivo 5: promozione dello sviluppo rurale (5a-aggiustamento della produzione agricola in base alle disposizioni dellaPAC, 5b- aggiustamento strutturale delle zone rurali); Obiettivo 6: sviluppoe aggiustamento strutturale delle aree svantaggiate del Nord Europa (Letta2003).84 Varie erano le carenze che si potevano identificare negli anni successivialla transizione a un livello regionale: Innanzitutto la mancanza di un solidosistema di infrastrutture e l’eccessivo sovraccarico delle reti esistenti; poi lacarenza di forza lavoro adeguatamente qualificata e la difficoltà di accessoalle nuove tecnologie. Non vanno dimenticati i seri problemi ambientalinelle regioni di antica industrializzazione, la mancanza di flessibilità della

84

strutturali, infatti, come è stato giustamente rilevato, “sono state

rivolte principalmente alle politiche settoriali e l’interazione fra

le problematiche settoriali e quelle regionali non è stata

pienamente sviluppata”85. Problemi quali l’aumento delle

differenze regionali o la marginalizzazione di alcune aree sono

stati considerati per troppo tempo di importanza secondaria.

All’indomani del cambiamento di regime, infatti, il livello

intermedio86 è stato in generale considerato con diffidenza,

soprattutto in ragione del ruolo che ricopriva nel regime

comunista quale elemento di collegamento fra autorità per il

potere centrale. Questo livello intermedio è stato pertanto

soppresso (Slovacchia) o ricondotto a un semplice livello

amministrativo dell’apparato statale (Bulgaria, Estonia, Lituania,

Polonia, Repubblica ceca), o ancora sono state ridotte le sue

attribuzioni (Ungheria). Si è cercato quindi di soddisfare i

bisogni amministrativi attraverso più o meno coerenti politiche di

decentramento (Petrakos 1996). La regionalizzazione esprime e

sintetizza questa eterogeneità delle istituzioni territoriali di livello

intermedio: corrisponde alla presa in carico istituzionale degli

interessi propri alla promozione di un territorio, in una

prospettiva socioeconomica, ma anche eventualmente culturale o

forza-lavoro e in generale, tutti quei problemi di natura socio-culturale(Hallet 1997).85 Cfr. Downes R.,Bachtler J.,2001, “Le politiche regionali nei Paesi dell’Europa centro-orientale: risultati e prospettive”, da Rivista economicadel Mezzogiorno, a.XV, n°3,pp.519-568.86 Questa nozione è certamente abbastanza imprecisa, ma presenta ilvantaggio di essere neutra rispetto alle istituzioni e di spostare l’attenzione sulle trasformazioni istituzionali che si operano a questo livello. Jim Sharpeparla di “meso government”: questa espressione permette di designare le istituzioni senza qualificarle, se non per il fatto che non sono né centrali, népropriamente locali, e consente quindi di considerare l’eterogeneità delle istituzioni che si incontrano. Cfr. J.L. Scarpe (ed.), 1993, The rise of mesogovernment in Europe, Sage, London.

85

politica. Essa diventa così “il processo tramite il quale si

costruisce un nuovo spazio di azione pubblica che ha per oggetto

la promozione di un territorio, infranazionale ma supralocale,

tramite la mobilitazione del suo tessuto economico e tramite lo

sviluppo del suo potenziale (infrastrutture) e, se del caso,

mobilitando le forze legate all’identità e alla solidarietà a livello

locale o regionale”87. Questo processo può realizzarsi a partire

dalle istituzioni esistenti a livello intermedio, o dar luogo a una

nuova suddivisione territoriale e alla creazione di nuove

istituzioni (come nel caso della Romania).

Approfondendo l’analisi della Romania e dei PECO dal punto di

vista della regionalizzazione, possiamo notare l’esistenza di un

certo numero di caratteristiche che li distinguono dalla

maggioranza dei paesi dell’Unione Europea. Tra tutti i paesi

dell’Europa centro-orientale, infatti, solo la Romania e la

Lettonia mantengono un importante livello intermedio di

organizzazione. In secondo luogo, la reazione al funzionalismo

che aveva ispirato le riforme territoriali degli anni Sessanta e

Settanta ha condotto a un processo di frammentazione comunale

che ha interessato quasi tutti gli Stati. In generale, la politica dei

governi è stata quella di rafforzare prima il livello municipale;

l’organizzazione del livello intermedio è sembrato agli esordi

meno importante rispetto all’istituzione dell’autonomia locale a

livello comunale. A proposito del caso romeno di

regionalizzazione, esso non si adatta facilmente a un modello

predefinito. La conseguente difficoltà di analisi della

regionalizzazione stessa, riguarda la mancanza di una coerente e

87 Cfr. Marcou 2002b.

86

solida struttura teorica e la relativa novità del concetto di politica

regionale e di governo regionale.

Malgrado la storia relativa al periodo antecedente alla 2° guerra

mondiale, i cinquant’anni di comunismo e di nazionalismo

comunista romeni,sono stati (più che) sufficienti nel determinare

il profilo di una cultura e di una struttura politica limitata a poche

variabili tra le quali spiccavano la centralità dello Stato e

l’organizzazione territoriale su due livelli (Hansen et al. 1996).

Ciò che è attualmente presentato in Romania come politica

regionale è in realtà una medaglia a due facce: su di un lato

troviamo le politiche regionali promosse dall’Unione Europea,

dall’altro le politiche macroeconomiche realizzate dal governo

centrale direttamente sul territorio, attraverso le autorità locali.

Infine, e nonostante i PECO si possano definire, secondo la

Commissione,“economie di mercato funzionanti”, la

regionalizzazione non deriva da evoluzioni economiche, né dalla

concorrenza internazionale fra i territori, anche se talune regioni

urbane cominciano a internazionalizzarsi; si tratta al contrario di

un processo politico che induce a mettere a punto politiche

regionali orientate sui fondi strutturali cui si dovrà ricorrere per

affrontare il rapido accentuarsi delle disparità regionali,

provocate dallo sviluppo impari dell’economia di mercato e dal

livello ancora debole di integrazione regionale (Marcou 2000).

Ad ogni modo, lo scopo della regionalizzazione, non dovrebbe

essere quello di trasferire sempre maggiori responsabilità al

livello regionale, ma di ottenere un sistema di governo nel quale,

le regioni, forniscano il meglio delle proprie possibilità per una

concreta politica di governance.

87

Più in generale, l’evoluzione delle politiche regionali europee è

stata notevolmente rallentata dalla debolezza delle strutture

istituzionali centrali, dal “vuoto” che inizialmente ha

caratterizzato il livello regionale. Per questo, anche nei PECO si

è riproposto il paradosso della regione, osservato anni fa da Carlo

Triglia (1989): luogo verso la cui valorizzazione convergono

spinte e potenzialità (l’Europa, il declino dello Stato-nazione,

l’economia delle agglomerazioni regionali…) ma che resta

debole e incerto soggetto politico e di rappresentazione e

coordinamento degli interessi economici e sociali88.

Scendendo più nello specifico, per quanto concerne la storia della

organizzazione amministrativo-territoriale romena, essa può

essere fatta risalire alla seconda metà del XIX secolo: nel 1866,

infatti, fu introdotto un sistema simile a quello dei dipartimenti

francesi che venne poi esteso anche alla Dobrogea in seguito alla

sua annessione (1878). Questo sistema divideva la Romania in 32

province; la stessa struttura amministrativa venne

successivamente applicata ai territori annessi nel 1918

(Transilvania, Bessarabia, Bucovina), portando così a 58 il

numero delle province (Valeri 2001).

Nel periodo tra il 1859 e il 1950, si possono contare 12 (tentativi

di) riforme con l’intento di riorganizzare la struttura

amministrativa del Paese. Di queste, solo quella “partorita” dalla

Plenaria del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori

Romeno (PMR)89 tenutasi tra il 3 e il 5 marzo del 1949

introdusse un certo grado di decentralizzazione: furono infatti

istituite 7 regioni, più o meno coincidenti con quelle storiche,

88 Cfr. Perulli 1997,pp.7-18.89 Il Partidul Muncitoresc Roman, nacque dalla fusione tra il Partito Comunista e il PartitoSocialdemocratico, nel febbraio del 1948.

88

oltre ad essere messo in pratica il principio della

collettivizzazione dell’agricoltura allo scopo di risolvere la

“questione contadina”90. I legislatori definirono queste regioni

come “associazioni di province” aventi tutte le caratteristiche

proprie di entità legali con un certo livello di autonomia; a causa

delle pressioni centralizzatrici, però, le nuove unità durarono solo

14 mesi: il regime comunista, infatti, con l’introduzione (nel

1950)91 di un terzo livello amministrativo simile al modello

sovietico (la regione, posta tra il Governo centrale e le province),

diede inizio alla creazione di un paese fortemente centralizzato.

Obiettivo della riforma, infatti, non era la definizione di reali

politiche di regionalizzazione, ma una chiara necessità di

stabilizzare e ridefinire il controllo centrale (Dieringer,Lindstrom

2002). A questo scopo, il Partito Comunista Romeno riteneva

inoltre necessaria una adeguata politica di “sistematizzazione”

90 In realtà, tuttavia, il processo di collettivizzazione violò, nei metodi diimplementazione, il suo principio fondamentale, ovvero, il libero consensodegli interessati: la mancata recettività dei contadini all’appello del PMR alla formazione delle cooperative spinse il partito comunista ad adottaremisure coercitive. In questo stesso periodo venne, inoltre, costituito ilcosiddetto “lager della morte”, ovvero il cantiere per la costruzione del Canale Danubio-Mar Nero, dove vennero mandati al lavoro forzato granparte dei dissidenti politici e di coloro che si opponevano allacollettivizzazione. Circa 50 mila contadini della regione del Banat e deldipartimento Mehedinţi furono deportati, oltre 80 mila contadini furonosottoposti a processi penali e la maggior parte di loro furono condannati amorte o ai lavori forzati. Solo nel dipartimento di Galaţi, tra il 1958 ed il1961, furono condannati ai lavori forzati (perchè si rifiutavano di entrare afar parte delle cooperative) 55 contadini. Centinaia di contadini furono,inoltre, giustiziati dalle forze dell’ordine in seguito alle rivolte che si svilupparono endemicamente, nelle campagne romene, contro lacollettivizzazione ( Costea et al. 1996).91 In base alla Legge nr.5/1950 vennero istituite 28 Regioni,successivamente ridotte a 18, in seguito all’adozione della Costituzione del 1952, ed ulteriormente ridotte a 16 (Argeş, Bacau, Banat, Braşov, Bucureşti,Cluj, Crişana, Dobrogea, Galaţi, Hunedoara, Iaşi, Maramureş, Mureş-Autonoma Maghiara, Oltenia, Ploieşti, Suceava), in base al Decreto Leggenr.12/1956 (Cfr. M. Oroveanu,1986, pp.212-215.

89

degli insediamenti rurali92: tale politica passava attraverso

l’adozione di una nuova riforma amministrativa, con la quale si

doveva modificare il ruolo dei comuni rurali, centralizzando il

potere decisionale nelle mani dei “villaggi-centro”93 e favorire,

così, una più efficiente ed omogenea gestione del territorio.

La storia recente del Paese può, a questo punto, essere divisa in 2

fasi: fino al 1968 sono stati attivi i tre livelli amministrativi visti

in precedenza: quello tipico dell’amministrazione locale (città e

comuni), quello dell’amministrazione provinciale e il terzo

proprio dell’amministrazione regionale. Mentre l’attività

industriale era concentrata in specifiche regioni del Paese

(contraddistinte dalla presenza di ingenti risorse energetiche e

minerarie), il resto del Paese era dominato dall’agricoltura

(Trofin 2005).

Nel 1968 i leader del Partito Comunista promossero una nuova

riforma amministrativa94, sostituendo le 16 regioni

92 Il piano di sistematizzione delle aree rurali si inseriva nella strategia disviluppo socio-economico seguita dal PCR: il mondo rurale doveva mettersial servizio del settore industriale, che costituiva il vero motore dellamodernizzazione socialista della Romania, liberando mano d’opera daimpiegare nelle fabbriche (Oroveanu 1986).93 Tali “villaggi centro” venivano, altrimenti, definiti da H. H. Stahl, “centri civici”, ovvero quei comuni dotati di tutte le istituzioni ed i servizi pubblici necessari ad una comunità di uomini: la sede del governo locale, unacooperativa, una scuola, dei bagni pubblici; dei marciapiedi, la rete dicorrente elettrica, la rete dell’acqua potabile, e così via. Secondo l’illustre sociologo romeno, la creazione di un “centro civico” avrebbe automaticamente determinato la convergenza, verso di esso, dellapopolazione abitante nelle località circostanti, sicchè le autorità statali nonavrebbero avuto bisogno di adottare misure coercitive, per forzare talimovimenti demografici. Stahl considerava, però, che la migrazione dallelocalità periferiche verso i “centri civici” non sarebbe avvenuta da un giorno all’altro, ma nel corso di 10, 15 o, forse, anche 20 anni (Stahl H.H., 1969).94 Sulla riforma amministrativa del 1968 si veda: Mihai T.Oroveanu,Organizarea administrativa si sistematizarea teritoriuluiRepublici Socialiste Romane, Ed. Stiinţifica si Enciclopedica, Bucureşti,1986.; H.H. Stahl, Organizarea administrativ-teritoriala –Comentariisociologice, Ed. Stiinţifica, Bucureşti, 1969.

90

amministrative con i loro rispettivi dipartimenti, in 41 province

(judeţe) più il municipio di Bucarest. A questo proposito, la

priorità del regime comunista, fu quella di equilibrare la

distribuzione territoriale degli insediamenti urbani, attraverso

l’aumento del numero delle città, a favore di quelle di media

grandezza (molte delle quali divenute, in seguito alla riforma

menzionata, sedi dei governi locali per alcuni dei dipartimenti

appena istituiti) (Rey et al. 2002). Questa modifica puntava a

un’ulteriore centralizzazione del sistema, criterio che avrebbe

consentito il prosieguo del processo di industrializzazione

insieme alle altre riforme previste dal partito. Queste ultime

venivano a concretizzarsi nei Piani Quinquennali che, ogni

cinque anni appunto, fissavano le nuove direttive economiche,

sociali e culturali da diffondere in ogni angolo del Paese, nel

tentativo di ottenere il più volte annunciato “armonioso sviluppo

del territorio” (Dobrescu et al. 2001) 95.

La “sistematizzazione” del paese venne avviata in seguito

all’adozione di due leggi fondamentali: la Leggen.2 del 16

febbraio 1968, per l’amministrazione del territorio e la Legge

n.58 del 30 ottobre 1974, per la sistematizzazione rurale e urbana

(Oroveanu 1986). Gli scopi della riforma, dichiarati dalle

autorità, erano quello di “modernizzare” l’area rurale,e quello di

accelerare l’urbanizzazione del paese, attraverso investimenti

strategici verso i “villaggi-centro”. In realtà, tuttavia, questi

95 In contrasto con la teoria neoclassica dello sviluppo, i teorici dellapianificazione argomentavano che il movimento spaziale dei fattori diproduzione (capitale e lavoro) avrebbe portato ad un incontrollato aumentodelle disparità regionali. Essi ritenevano che solo attraverso un rigorosointervento dello Stato (o dell’autorità centrale di pianificazione) si sarebbepotuto ridurre l’eventuale gap intra-regionale. Altrimenti, a lungo andare, ilcapitale e il lavoro avrebbero lasciato le “regioni in declino” per muovere verso le regioni più sviluppate (cfr. Lipzhitz 1993, p.173).

91

investimenti vennero indirizzati, anzitutto, alle strutture di

produzione socialiste, le cooperative e le imprese statali,

ignorando le coltivazioni individuali e marginalizzando le

necessità infrastrutturali dei villaggi isolati, mentre gran parte

degli investimenti infrastrutturali venne destinata alle aree rurali

dotate delle risorse naturali adeguate allo sviluppo di immensi

complessi agro-industriali.

Il progetto di ristrutturazione e modernizzazione del territorio

nazionale venne, in seguito, sviluppato nel corso degli anni

Settanta, tramite l’adozione della Legge n°58 del 1974, sulla

sistematizzazione rurale ed urbana, in base alla quale avrebbero

dovuto essere demoliti oltre settemila villaggi. L’obiettivo

politico dichiarato dal Partito comunista era sempre quello di

“razionalizzare” il territorio in modo da promuovere

l’urbanizzazione e l’industrializzazione del paese e diminuire le

differenze tra città e campagna (Sandu 1999). Il risultato fu

un’industrializzazione forzata di tutte le province e una

diminuzione delle disparità regionali solo apparente,

accompagnata dal totale diniego di qualsiasi elemento

assimilabile all’efficienza economica e alla sostenibilità

(sociale,ambientale,ecc.) 96.

96 La principale conseguenza di questo processo di industrializzazioneforzata fu la creazione di una base di produzione industriale comune ad ogniprovincia romena. L’intenzione fu quella di un utilizzo totale del potenziale delle risorse lavorative.In realtà, detto processo causò la concentrazionedell’industria pesante in poche, grandi unità industriali, principalmente localizzate all’interno delle grandi agglomerazioni urbane e la completa negazione del rispetto delle più elementari norme di tutela ambientale.Questa idea di redistribuzione delle risorse nazionali globali condusseinoltre a una sensibile diminuzione del ritmo dello sviluppo economico perl’intero Paese. Oltretutto, la popolazione che lavorava nell’agricoltura, subì una forte diminuzione, venendo assorbita dalle attività industriali delle areeurbane. Il diffuso processo di migrazione dall’ambiente rurale a quello urbano provocò serie turbolenze e forti pressioni sulle città industrializzate,

92

Durante gli anni Ottanta, le province meno sviluppate furono

costrette al conseguimento di un livello globale di produzione pro

capite pari alla media nazionale. Questa massiccia riallocazione

di risorse condusse così ad un ulteriore rallentamento del

processo di sviluppo economico, portando la popolazione a

condizioni di vita insostenibili e disperate e Ceausescu al noto

epilogo.

Dal 1991 la Romania presenta una divisione amministrativa in 41

Province o Distretti, come previsto dalla Costituzione della

Repubblica, adottata il 21 novembre dello stesso anno. La

necessità di una divisione regionale si è evidenziata soltanto

quando è stato chiesto al Paese un quadro istituzionale adeguato

ai criteri stabiliti dalla strategia di preadesione e in grado di

consentire l’accesso ai fondi strutturali e al fondo di coesione

dell’Unione Europea.

Il primo passo nel porre le basi di una concreta politica di

sviluppo regionale è stato fatto tra il 1996 e il 1998, quando

attraverso il già menzionato programma PHARE dell’UE, fu

pubblicato un importante documento: il Libro Verde sullo

sviluppo regionale97. Il Libro faceva luce sul quadro generale

sotto il quale il Governo Romeno iniziava le azioni previste dal

programma di sviluppo regionale. Accettando le

con conseguente aumento degli squilibri interni al Paese. A partire dalla finedegli anni sessanta, infatti, ebbe inizio il più ampio esodo rurale, maiconosciuto da Paese. Il censimento del 1977 già rilevò un forteinvecchiamento della popolazione rurale, data la partenza verso le città daparte della popolazione in età lavorativa. Alla metà degli anni ottanta, per laprima volta nella storia sociale della Romania, la popolazione urbana superòquella rurale: il progetto governativo di urbanizzazione accelerata raggiunse,in quegli anni, un traguardo di importanza storica. Il secolare legame deicontadini con la terra ed il villaggio natale sembrava, pertanto, spezzato,mentre al suo posto venne instaurato un soffocante regime di pianificazioneeconomica, decisa dai vertici del partito unico (Oroveanu 1986).97 Cfr. AA.VV. 1997.

93

raccomandazioni incluse nel Libro Verde del Governo Romeno,

l’Unione Europea espresse il suo impegno nel supportare le

stesse e nel garantire il supporto finanziario nell’ambito dello

sviluppo regionale (Neşa 2003).

In questo modo, grazie al finanziamento del programma PHARE,

iniziava l’utilizzo di un approccio strategico allo sviluppo

regionale, attraverso una serie di progetti interconnessi (come il

Programma sulla costruzione istituzionale per lo sviluppo

regionale del 1997 o il p

Progetto sul supporto allo sviluppo regionale del 1998).

Per dare assistenza alle autorità romene nell’attività di creazione

e sviluppo delle strutture necessarie per lo sviluppo regionale

venne poi creato un Consiglio per lo sviluppo regionale, proprio

di ogni Regione. Esso era formato dai Presidenti dei Consigli

provinciali e da un rappresentante dei Consigli cittadini e

municipali, designato da ogni provincia per il periodo del

mandato. Compito fondamentale di ciascun consiglio era quello

di coordinare le attività di promozione degli obiettivi definiti

dalla politica di sviluppo regionale. Il coordinamento nazionale

dei vari Consigli per lo sviluppo regionale era assicurato dal

Consiglio Nazionale per lo sviluppo regionale.

Il comitato esecutivo di questo Consiglio eral’Agenzia nazionale

per lo sviluppo regionale (ANDR, nell’acronimo romeno),

responsabile della predisposizione dei programmi nazionali per

lo sviluppo regionale, dell’individuazione delle priorità,

dell’identificazione (all’interno delle Regioni) delle “aree

svantaggiate”98, del coordinamento e dell’attuazione del

98 Definite, attraverso un decreto d’urgenza varato nel 1999, come zone che soddisfano i seguenti criteri: strutture mono-industriali che occupano più del50% dei lavoratori dipendenti di un’area in un settore specifico; aree

94

programma nazionale per lo sviluppo regionale e dell’allocazione

delle risorse assegnate dal Fondo nazionale romeno per lo

sviluppo del Paese. L’Agenzia nazionale fu creata nel Dicembre

del 1998 in seguito a una decisione governativa e rappresentava

l’organo di controllo e coordinamento delle Agenzie di sviluppo

regionale dislocate in ognuna delle 8 regioni di sviluppo

(Downes,Bachtler 2001).

La formazione delle regioni è avvenuta, quindi, nel 1998 con una

Convenzione firmata dai rappresentanti dei Consigli provinciali e

dal Consiglio generale del Municipio di Bucarest. In realtà, le

Regioni di sviluppo di cui alla legge 151 del 15 luglio 1998 non

possono essere considerate, in senso proprio, enti

amministrativo-territoriali. Esse, infatti, stabilite su base

volontaria, non hanno personalità giuridica, ma rappresentano

soltanto un modo di impiantare la politica di sviluppo regionale

al livello delle province considerate (Jordan 1998). Si deve anche

rilevare che le otto Regioni di sviluppo (municipio di Bucarest,

Regioni di Nord-Est, Sud-Est, Sud, Sud-Ovest, Ovest, Nord-

Ovest, Centro) non corrispondono territorialmente alle regioni

storiche della Romania (Moldavia, Transilvania, Valacchia -

detta anche Muntenia, Oltenia, Banato, Crişana, Maramures e

Bucovina; la Bessarabia non fa più parte della Romania dal

1947). Per “ritagliarle”, infatti, si è adottato il criterio

dell’omogeneità territoriale, si è cercato cioè di individuare

Regioni aventi, all’incirca, pari estensione territoriale. In tal

minerarie nelle quali è stata liberata forza lavoro in seguito a licenziamenticollettivi derivanti da programmi di ristrutturazione; presenza dilicenziamenti collettivi derivanti da liquidazioni, ristrutturazioni oprivatizzazioni di imprese che colpiscono più del 25% degli occupatiresidenti in un’area geografica; tasso di disoccupazione superiore del 25% alla media nazionale; mancanza di mezzi di comunicazione e carenza diinfrastrutture (Pascariu et al. 2002 ).

95

modo, peraltro, non si è tenuto conto né della tradizione, né della

morfologia del territorio, né del senso di appartenenza della

popolazione all’una o all’altra regione storica (Martino 2002).

Le 8 Regioni di sviluppo, comunque, oltre ad essere

relativamente omogenee in grandezza e popolazione

(mediamente esse hanno una superficie superiore ai 30.000 Kmq

e una popolazione tra i 2.5 e i 3 milioni di abitanti), sono

altrettanto simili sia secondo l’Indice Globale di Sviluppo che

secondo altri indicatori aggregati. Il Libro Verde ebbe già modo

di sottolineare questa realtà nel 1997: utilizzando i valori del PIL

pro capite per le 10 regioni più ricche e le 10 più povere dei

paesi europei e della stessa Romania, gli autori conclusero che

mentre in Francia il rapporto tra le estremità (massimo PIL pro

capite/minimo PIL pro capite) era pari al 171% e in Germania al

498%, in Romania, invece, il rapporto era pari al 157%

(Dieringer, Lindstrom 2002) 99.

Tornando alla legge 151/1998, c’è da dire che la stessa, oltre a

disegnare le otto Regioni di sviluppo, stabiliva il quadro

istituzionale, gli obiettivi, le competenze e gli strumenti specifici

della politica di sviluppo regionale nel Paese. Un ruolo centrale

ha assunto, poi, la cooperazione interregionale, interna ed

internazionale, diretta soprattutto a inserire il Paese nel quadro

comunitario (Dragan,Atanasiu 2002).

Dal gennaio 2001, in seguito alle indicazioni del Governo, si è

assistito alla sostituzione dell’ Agenzia nazionale per lo sviluppo

regionale con il Ministero per la pianificazione e lo sviluppo. L’

ordinanza di emergenza 16/2001 e quella 340/2001 hanno

99 Cfr. AA.VV., 1997,p.13-14. Altri esempi riguardano la Grecia (164%),l’Italia (216%), l’Olanda (163%) e la Polonia (203%).

96

definito il ruolo del Ministero come parte del Governo centrale

responsabile per il coordinamento della politica di sviluppo

nazionale, per la gestione dei Fondi nazionali, per la gestione dei

fondi di preadesione per la coesione economica e sociale e per

l’elaborazione del Piano di sviluppo nazionale. Successivamente,

attraverso la decisione governativa 734/2003, il Ministero per

l’integrazione europea è andato a sostituire nelle sue funzioni

l’ormai ex-Ministero per la pianificazione e lo sviluppo. Infine la

legge 151/1998 è stata migliorata attraverso la legge 315/2004

sullo sviluppo regionale che ha apportato nuovi regolamenti a

questo campo specifico; la struttura delle regioni è rimasta

comunque invariata: il territorio romeno resta suddiviso in otto

regioni, ognuna delle quali con proprie specifiche caratteristiche

(Trofin 2005).

97

3. Le 8 “Regioni di sviluppo nello specifico: un’analisi delle

divisioni interne.

Fig. n.3.1–Le attuali Regioni di sviluppo romene.

Fonte: Governo romeno 2003 Scala: 1:5.000.000

Descriverò, di seguito, ciascuna delle regioni di sviluppo,

precisando i capoluoghi ed i dipartimenti che le compongono,

nonché le principali caratteristiche socio-economiche: La

Regione di Sud-Est (capoluogo Brăila) è composta dalle province

di Brăila, Buzău, Constanţa, Galaţi, Tulcea, Vrancea. Tali

dipartimenti si suddividono in due gruppi piuttosto dissimili e

non troppo affini per esperienze storiche e comportamento

demografico: l’estremità meridionale della Moldavia e la

Dobrugia. Il primo, storicamente legato alla regione storica della

98

Moldavia e in declino demografico; il secondo, legato alla parte

meridionale della Romania (a lungo governata direttamente

dall’Impero ottomano e dal Regno Bulgaro) e caratterizzato dalla

ripresa della crescita demografica. La superficie della regione è

di 35.762 km² ed è attraversata da numerosi corridoi di trasporto,

il più importante dei quali, il canale Danubio-Mar Nero, è parte

integrante del corridoio europeo Rhin-Main-Danubio. La

popolazione è di circa 2.800.000 abitanti (il 13% dal popolazione

del paese). Per quanto riguarda la struttura economica,

l’agricoltura detiene una percentuale importante dall’economia

delle regione: infatti il 40,4% dalla popolazione attiva lavora in

questo settore. Nella regione troviamo quasi tutti i settori

industriali: dall’industria petrolchimica all’edilizia, passando per

quella tessile e alimentare. In questa regione si trovano quattro

delle sei “zone libere”100 esistenti in Romania. La regione nel suo

complesso è dotata di un certo potenziale di sviluppo, grazie

all’accesso diretto al mare, alla fertilitàdelle campagne ed alla

presenza del corso del Danubio.

Passando alla Regione Sud (capoluogo Călăraşi), essa è

composta dalle seguenti province: Argeş, Călăraşi, Dâmboviţa,

Giurgiu, Ialomiţa, Prahova e Teleorman. La superficie della

regione e di 34.453 km² (il 14% della superficie totale ); la

popolazione è di 3.500.000 abitanti, il 15% del paese. La regione

100 Con la Legge 84/92 è stato introdotto un regime doganale e fiscaleprivilegiato per alcune zone del Paese definite “libere” (ovvero considerate extraterritoriali dal punto di vista doganale) al fine di attirare investimenti.In queste zone è possibile effettuare ogni tipo di attività (produzione,commercio, servizi, operazioni bancarie e di borsa, costruzioni, ecc.) sullabase di specifiche licenze rilasciate dall’amministrazione della zona libera alle persone fisiche o giuridiche ( anche straniere) che ne facciano richiesta.Al momento sono state considerate zone libere alcune aree all’interno delle seguenti città : Giurgiu, Galaţi, Arad, Sulina, Braila, Constanţa Sud (cfr. ANDR 2001).

99

ha una industria complessa e diversificata, rappresentata da tutti

settori, con una prevalenza dell’industria di lavorazione e di

quella estrattiva (petrolio, gas naturali e minerali). Anche questa

regione presenta un forte squilibrio territoriale: da una parte, si

situano i dipartimenti settentrionali, fortemente (e precocemente)

industrializzati ed influenzati positivamente dalla vicinanza della

capitale Bucarest, con la quale intrattengono intensi scambi

commerciali; dall’altra, abbiamo i dipartimenti meridionali,

profondamente rurali, basati sull’attività agricola e isolati

dall’asse commerciale Braşov-valle della Prahova- Bucarest.

La Regione di Sud-Ovest (capoluogo Craiova) “contiene” le

province di Dolj, Gorj, Mehedinţi, Olt e Vâlcea. Essa confina a

Sud con la Bulgaria, e a Sud-Ovest con la Serbia Montenegro, ha

una superficie di 29.212 km² (il 12,5% dalla superficie totale del

Paese) ed è abitata da quasi 2 milioni e mezzo di persone, pari al

10% dal popolazione totale. Questa regione è caratterizzata da un

alto livello di omogeneità, derivante dal fatto di essere costituita

dai dipartimenti facenti parte della regione storica dell’Oltenia.

La regione di Sud-Ovest presenta un livello di sviluppo molto

simile a quello della regione di Nord-Est, essendo, come questa,

profondamente rurale ed agricola. A differenza della regione

moldava, tuttavia, la regione sud-occidentale è caratterizzata da

un invecchiamento demografico molto più accentuato. La sua

parte settentrionale presenta, d’altra parte, un discreto potenziale

di sviluppo, grazie alla presenza di città di media grandezza,

come Valcea, a ridosso dei rilievi collinari, che, a loro volta,

favoriscono la diversificazione delle attività economiche (come

turismo e attività mineraria). A sud della regione, infine,

dominano le micro-coltivazioni di sussistenza e villaggi poveri di

100

infrastrutture. La struttura industriale appare multidimensionale:

industria metallurgica, industria leggera (tessile e calzature),

industria elettrotecnica, industria chimica, lavorazione di legno,

industria alimentare (il settore più sviluppato) sono

sufficientemente sviluppate e rappresentano uno dei motivi della

forte emigrazione interna dalla aree rurali ai grandi centri urbani.

Il successivo livello sub-nazionale è rappresentato dalla Regione

Ovest (capoluogo Timişoara), composta dalle province di Arad,

Caraş-Severin, Hunedoara e Timiş. Essa confina a Sud-Ovest con

la Serbia Montenegro ed a nord-ovest con l’Ungheria. La

posizione geografica vantaggiosa, all’incrocio di importanti

arterie europee, la porta ad essere “il motore” dello sviluppo

economico del Paese; essa è formata dai dipartimenti della

provincia storica del Banat (Timis e Caraş-Severin), dal

dipartimento più meridionale della Crişana (Arad) e da un

dipartimento intramontano, della Transilvania (Hunedoara). La

sua superficie è di 32.034 km² (il 13,4% dalla superficie totale

della Romania). La popolazione invece è di quasi 2 milioni di

abitanti, ossia il 9% della popolazione romena. Nella regione

sono ben rappresentati tutti i settori economici: industria,

agricoltura, servizi. La principale tendenza dell’ultimo periodo,

più marcata rispetto alle altre regioni, è la riduzione della

produzione agricola ed industriale e il corrispettivo sviluppo dei

servizi. A causa della accentuata frammentazione dei terreni,

della limitata diffusione di forme di associazione e dell’utilizzo

di macchinari agricoli obsoleti, il potenziale agricolo non viene

valorizzato a dovere. Sebbene il livello di sviluppo della regione

Ovest sia, generalmente, più elevato che nel resto del paese,

esistono, tuttavia, delle differenze, al suo interno, tra Nord e Sud,

101

il primo più affettato del secondo dalla crisi industriale post-

comunista.

La quinta regione di sviluppo è la Regione di Nord-Ovest

(capoluogo Cluj). Essa è composta dalle province di Bihor,

Bistriţa-Năsăud, Cluj, Maramureş, Sălaj e Satu-Mare, confina

con Ungheria ed Ucraina e comprende il territorio delle più

antiche tari romene, il Maramureşe la Crişana. La popolazione

della regione è di 2.800.000 abitanti (il 12% dal popolazione del

paese). Le ricchezze naturali (foreste, materiali di costruzioni,

minerali, ecc.) dell’intera regione sono varie, importante

premessa per uno sviluppo economico diffuso. Intorno ad esse si

sono sviluppate da tanti anni l’industria mineraria,quella edile ed

una specifica lavorazione del legno, dell’argilla e dei metalli.

Nella regione sono presenti quasi tutti i settori industriali:

industria delle confezioni, del mobile, metallurgica, pelletteria e

calzature, porcellana e ceramica. Sono anche sviluppati settori

mono-industriali come ad esempio l’industria della cellulosa e

della carta nel municipio Dej. Su 42.515 imprese attive nella

regione del Nord-Ovest, più del 90% sono piccole e medie

imprese. La Regione Nord-Ovest occupa il secondo posto (dopo

la regione Bucureşti-Ilfov) dal punto di vista delle PMI attive.

Uno dei vantaggi competitivi della regione è costituito dal

notevole potenziale turistico naturale. La regione di Nord-Ovest

resta, tuttavia, isolata dalle grandi vie commerciali e la

maggioranza della popolazione rurale vive in condizioni di

povertà. Proseguendo nell’analisi, la Regione Centro (capoluogo

Braşov) è composta dalle seguenti province: Alba, Braşov,

Covasna, Harghita, Mureş, Sibiu. La superficie della regione e di

34.099,4 km² (il 14,3% dalla superficie totale) con una

102

popolazione di 2 milioni e mezzo di abitanti (11% dal

popolazione del paese). Questa regione include i dipartimenti

della regione storica della Transilvania ed è caratterizzata da un

tipo di popolamento “multinazionale”, in cui la popolazione

romena raggiunge appena il 65%. La regione di centro costituisce

l’area più urbanizzata edindustrializzata del paese. La crisi

industriale seguita alla fine del periodo comunista e legata alle

difficoltà di ristrutturare le industrie in declino, ha, tuttavia,

“bloccato” l’avanzamento del processo di sviluppoeconomico

dell’area, anche se il livello di vita resta medio, grazie alla

discreta dotazione infrastrutturale ed alla presenza di una rete di

insediamenti urbani ben articolata. Anche qui, comunque, sono

presenti quasi tutti i settori industriali: industria delle costruzioni

di macchine, di lavorazioni dei metalli, chimica, delle materiali

di costruzione, industria per la lavorazione di legno, estrattiva,

tessile ed alimentare. La regione ha un potenziale agricolo

inferiore alla media nazionale, con la superficie agricola che

rappresenta soltanto il 56,7% dell’intera superficie della regione,

ma ha un importante risorsa nelle foreste, avendo il 36,4% della

superficie totale, coperta da foreste che rappresentano la fonte di

approvvigionamento di legno più importante dell’intero paese.

Scendendo verso sud s’incontra la Regione Bucarest-Ilfov,

composta dal municipio di Bucarest e la provincia Ilfov101. La

superficie della regione e di 1.821 km² di cui 13,1%

rappresentano territorio amministrativo di Bucarest. E’ l’unica

regione speciale, sia a causa della sua posizione (essendo situata

come un enclave nella regione Sud–Muntenia) che a causa della

presenza della capitale, un agglomerazione urbana di oltre 2

101 Denominazione attribuita tramite il Decreto Legge n°194/1974.

103

milioni di abitanti, con caratteristiche particolari rispetto ad ogni

altra località del paese. La posizione geografica ed

amministrativa della regione ha favorito lo sviluppo di una rete

complessa di mezzi di comunicazione di interesse maggiore,

essendo la regione attraversata dall’autostrada Bucarest-Pitesti,

da 8 strade nazionali e 4 ferrovie doppie. La popolazione è di

quasi 2.500.000 abitanti pari all’11% dell’intera popolazione. La

capitale ha conferito alla regione una forza e un dinamismo

economico superiore alle altre regioni, con un livello superiore

del PIL ed una struttura sociale e professionale qualitativamente

migliore. Il potenziale e le strutture economiche sono

differenziati tra provincia e municipio: l’agricoltura ha una

presenza dominante nell’economia della provincia Ilfov mentre

l’economia della capitale è caratterizzata dallo sviluppo del

settore dell’industria e dei servizi. L’ultima unità territoriale da

analizzare è la Regione di Nord-Est (capoluogo Piatra-Neamţ).

Situata ai confini con l’Ucraina e la Moldavia, estesa su di una

superficie di 36.800 km²(15,5% dalla superficie della Romania,

la più estesa dalle otto regioni), essa comprende le province di

Băcau, Botoşani, Iaşi, Neamţ, Suceava e Vaslui. Caratterizzata da

una armoniosa combinazione di montagne (30%), colline (30%),

altopiani e pianure (40%), è la regione maggiormente orientata

alla agricoltura (più del 60% dalla superficie totale della regione

è formata da terreni agricoli)102. Secondo l’ultimo censimento la

102 L’agricoltura e la selvicoltura hanno tuttora un ruolo di primissimo piano nell’economia romena (impegnando il 42% della forza lavoro romena), soprattutto a livello regionale (solo in tre regioni - l’Ovest, il Centro eBucarest-Ilfov – il numero delle persone impegnate nell’industria e nei servizi è maggiore del numero delle persone che lavorano nell’agricoltura). Le regioni dove la popolazione occupata nell’agricoltura rappresenta più dei 2/3 della popolazione attiva sono il Nord-est, il Sud-ovest e il Sud. Questeregioni si trovano ad un basso livello di sviluppo e il settore agricolo, che

104

popolazione risulta essere di più di 3 milioni e mezzo di abitanti

(il 16% della popolazione totale e la più numerosa delle 8

regioni), 380.000 dei quali ubicati nella città di Iaşi, il più grande

centro urbano della regione. Nonostante la migrazione della forza

lavoro durante il periodo comunista, la regione di Nord-Est

conserva un tradizionale modello demografico, caratterizzato da

un’importante presenza della popolazione giovanee da alti livelli

di fecondità. La stessa si inquadra nel gruppo delle regioni più

povere (i 3/4 dell’intera popolazione della regione risulta essere

composto da disoccupati!) insieme al Sud-Est, al Sud e al Sud-

Ovest, all’estremo opposto delle regioni “nobili” dell’Ovest, del

Centro e della regione di Bucarest-Ilfov. L’agricoltura è meglio

rappresentata nella regione Sud, seguita dal Sud-ovest e dal

Nord-est, mentre il commercio e i settori economico-finanziari

sono maggiormente concentrati nella regione di Bucarest-Ilfov

(Dobrescu et al. 2001).

Definiti i tratti specifici di ogni regione di sviluppo, sarà ora

possibile individuare tutta una serie di problemi attraverso la cui

soluzione potrebbe essere realizzata una coerente politica di

sviluppo regionale. Sicuramente l’eccessiva importanza della

città di Bucarest rappresenta un freno allo sviluppo delle aree

circostanti e delle altre regioni; lo stesso vale per il forte

squilibrio tra la parte orientale e quella occidentale del Paese, per

l’esistenza diaree fortemente sottosviluppate concentrate nella

zona di confine con la Repubblica Moldava e nelle regioni

meridionali lungo il Danubio, per il declino urbano delle città di

piccole e medie dimensioni e per l’impatto negativo della

rappresenta circa il 70% della forza lavoro, enfatizza la dipendenza dellestesse dalle attività agricole e blocca qualsiasi tentativo di sviluppoeconomico alternativo, favorendo una massiccia emigrazione verso le areeurbane (Leonte et al. 2002).

105

ristrutturazione industriale nelle località caratterizzate dalla

presenza di una singolo impianto industriale (Hansen et al.

1997). Per la soluzione di questi problemi ho cercato di

riassumere tutta una serie di misure e suggerimenti

effettivamente realizzabili. Da un punto di vista generale,

bisognerebbe cercare di accettare la diversità delle strutture

regionali e promuovere un approccio trasversale (sia a livello

nazionale che regionale) per la risoluzione dei problemi ad esse

collegati. Sarebbe utile anche sviluppare un sostegno effettivo

alla progettazione e allo studio di progetti (la programmazione ha

un senso soltanto se viene presentato un numero sufficiente di

buoni progetti che possano beneficiare dei finanziamenti

concessi), rafforzare le capacità amministrative degli enti

territoriali e promuovere sia la partecipazione dei comuni alla

programmazione (i comuni sono infatti le strutture più vicine alla

popolazione) che il partenariato con gli enti locali, le parti

economiche e sociali e le ONG. Il governo romeno, inoltre,

dovrebbe proseguire e potenziare il programma di formazione

per funzionari (cioè favorire la formazione dei formatori) e

sostenere maggiormente la modernizzazione dell’apparato

statistico. Come ulteriore rimedio ai problemi cronici, le autorità

potrebbero assumere un ruolo più attivo nel sovvenzionare il

sistema educativo ed assistenziale delle regioni a più basso

reddito; inoltre, un’importante necessità riguarda il sostegno

offerto alle industrie più produttive e il supporto dato ai prodotti

locali. Il governo dovrebbe anche promuovere un maggiore

coordinamento triangolare fra le iniziative regionali di sviluppo,

le priorità nazionali e gli orientamenti dell’Unione Europea,

magari attraverso la cooperazione delle istituzioni e delle autorità

106

a livello locale, regionale e nazionale, che potrebbe essere la

chiave di volta per il raggiungimento di apprezzabili risultati.

Detto ciò, si deve prendere atto che non c’è una singola

spiegazione delle cause di disparità nello sviluppo regionale. Ci

sono infatti tutta una serie di fattori che contribuiscono

all’affermazione di un determinato modello di sviluppo ed è

proprio dall’interazione dei diversi fattori che si ottiene il grado e

il livello delle disparità esistenti. In Romania queste disparità

hanno radici storiche, geografiche, culturali ed economiche.

Tutte queste differenze, specialmente le economiche, si sono

rafforzate durante la transizione al capitalismo a causa del

generale crollo dell’economia e del comportamento delle imprese

in un ambiente economico caratterizzato da alti tassi di

inflazione. Per di più, come abbiamo visto, gli anni Novanta

hanno rivelato la debolezza economica delle aree meno

sviluppate, contraddistinte dalla forte dipendenza da una singola

industria, da una limitata pianificazione territoriale accompagnata

da una bassa concertazione locale e un’insufficiente sviluppo

delle infrastrutture. Alcune di queste aree sono diventate zone

depresse con un alto livello di disoccupazione: sono località

mono-industriali con un livello di sviluppo notevolmente

inferiore alla media nazionale e un’assoluta mancanza di

opportunità lavorative: esempi concreti sono le province di

Hunedoara, Gorj e Vâlcea, collocate nelle regioni del Nord-Est e

del Sud-Est del Paese (Traistaru et al. 2002). Specifiche disparità

esistono, comunque, anche all’interno di ogni singola regione.

Ad esempio, nel Centro, le province di Braşov e Sibiu sono

molto più urbanizzate e sviluppate rispetto alle altre 4 province

della regione. Le regioni con gli standard di vita più bassi sono

107

concentrate in 2 grandi aree di povertà: la prima si estende per

tutto il Nord-Est comprendendo la regione storica della Moldavia

e le province di Botoşani e Vaslui (caratterizzate da una generale

povertà,avendo limitate risorse umane e alti livelli di mortalità

infantile, migrazioni e disoccupazione), la seconda si allunga per

i campi del sud comprendendo la più estesa area a prevalenza

agricola del Paese (il cosiddetto “granaio d’Europa”) ed include

le province di Teleorman, Giurgiu, Călăraşi e Ialomiţa ( classici

esempi di arretratezza culturale, caratterizzate da un basso livello

di scolarizzazione e un alto coefficiente di mortalità infantile

dovuto alle precarie condizioni di vita). La mancanza di

infrastrutture adeguate e la forte povertà della popolazione locale

sono enfatizzati da alcuni casi tipici come quello della già citata

provincia di Gorj (contraddistinta da un misero livello di

sviluppo delle infrastrutture tecniche e sociali) o quello delle

province di Hunedoara e Constanţa, dove il basso livello della

qualità della vita si contrappone agli alti livelli delle attività

economiche (Ivan-Ungureanu 2001). Assumendo sempre la

provincia come livello di analisi privilegiato, non si può fare a

meno di menzionare esempi di problemi funzionali interni al

sistema amministrativo-territoriale romeno. Bucarest, ad

esempio, è il centro funzionale della Muntenia, ma la sua

Regione di sviluppo è limitata unicamente alle province

limitrofe. Nonostante Cluj-Napoca sia il centro funzionale di

gran parte della Transilvania centrale, essa risulta essere il

capoluogo della regione del Nord-Ovest. Si potrebbero citare

numerosi altri esempi: nella regione di Nord-Est, sebbene Iaşi sia

il centro culturale della Moldavia, con riconosciute tradizioni

accademiche, il capoluogo della regione è Piatra Neamţ, come

108

compromesso politico tra Iaşi e il suo nuovo “rivale regionale”,

Bacău. Nella regione del Sud, lo stesso tipo di compromesso ha

fatto di Călăraşi, una piccola cittadina meridionale, il capoluogo

di regione, a causa della rivalità tra Ploieşti e Piteşti. Solo la

regione di Sud-Ovest (Oltenia) sembra essere stata fondata su

basi naturali, coprendo la regione storica dell’Oltenia e

assumendo come suo capoluogo la storica capitale nonché città

dominante della regione, Craiova.

Lo studio delle disparità regionali e della loro evoluzione, deve

essere accompagnato da un’ulteriore analisi riguardante i

cambiamenti che hanno avuto luogo nell’ambito della struttura

occupazionale e del settore delle imprese. La maggiore

connessione tra i fenomeni economici e gli aspetti della vita

sociale è rappresentato a livello regionale dalla crescente

diminuzione di posti di lavoro nel settore industriale. Questa

riduzione rappresenta più del 50% della diminuzione dell’intera

economia del Paese. Alti livelli di disoccupazione si registrano

nelle province che ad una condizione embrionale di sviluppo

accompagnano una riduzione del numero di persone occupate nel

settore industriale (Bistriţa-Năsăud, Botoşani, Tulcea, Vaslui).

Molte delle province meno sviluppate o sottosviluppate si

trovano in Moldavia e in Valacchia, mentre la maggior parte

delle province che sono su alti livelli di sviluppo sono in

Transilvania e nel Banato. Le regioni storiche dell’Oltenia e del

Maramureşsi caratterizzano invece per un livello medio di

sviluppo (Traistaru 2001).

L’analisi dello sviluppo regionale della Romania in fasi più

recenti porta alle stesse conclusioni, con le regioni che si

affacciano ad ovest, all’interno dell’arco dei Carpazi, collocate in

109

una posizione più avanzata rispetto al resto del Paese. Queste

disparità, soprattutto quelle economiche, si sono fatte più nette

durante la transizione post 1989, da un lato a causa del

sostanziale declino economico, dall’altro, a causa del

comportamento delle imprese in un ambiente economico

caratterizzato da una forte inflazione.

La transizione ha fatto emergere a pieno la debolezza economica

delle aree meno sviluppate, caratterizzate da una forte

dipendenza da una singola industria, da piani di sviluppo urbano

inadeguati e da un insufficiente sviluppo delle infrastrutture. Le

regioni dominate da assetti rurali erano e continuano ad essere le

più povere (AA.VV. 1996). Anche per quanto riguarda

l’occupazione per settore economico ci sono discrepanze

significative tra le regioni centrali e occidentali da un lato, e le

regioni meridionali e orientali dall’altro. Le regioni del Centro, di

Bucarest-Ilfov, dell’Ovest e del Sud registrano valori al di sopra

della media nazionale in termini di popolazione occupata

nell’industria e nei servizi e al di sotto della media nazionale in

termini di popolazione occupata nell’agricoltura. Le altre regioni

presentano invece caratteristiche opposte. Ciò è dovuto

principalmente al processo di ristrutturazione industriale

realizzato durante gli anni Novanta che ha condotto allo

spostamento di buona parte della popolazione verso l’agricoltura

e la silvicoltura e all’insufficiente sviluppo degli altri settori che

avrebbero potuto assorbire parte del personale licenziato.

L’analisi fin qui svolta mi consente di effettuare una serie di

considerazioni finali per quanto concerne la evoluzione della

dimensione regionale romena:

110

I livelli di sviluppo sono stati influenzati dai diversi

percorsi storici e dalle caratteristiche geografiche dell’area

con il paese che ancora risente della diversa evoluzione

storica che ha caratterizzato l’Ovest e il Centro da un lato e

le regioni orientali e meridionali dall’altro.

La Romania non presenta divari regionali di dimensioni

ragguardevoli. Ciò è in buona parte dovuto alla transizione

difficile e relativamente lenta che ha caratterizzato il paese

e alla sua storia passata. Solo col tempo e a seguito della

crescita economica, gli effetti di polarizzazione, già visibili

nel cambiamento delle strutture economiche e sociali di

molti paesi dell’Est, potrebbero cominciare a manifestarsi

con maggiore evidenza anche nello spazio economico

romeno e le province tradizionalmente urbanizzate e più

industrializzate potranno essere meno vulnerabili ai costi e

agli aspetti negativi della trasformazione.

È possibile tracciare un asse di sviluppo che va da Sud-

Ovest a Nord-Est e che divide il Paese in due aree, di cui

una (al di sopra dell’asse) più evoluta e con migliori

prospettive di crescita.

L’analisi hafornito inoltre gli elementi necessari al fine di

procedere con una classificazione delle 8 Regioni di sviluppo per

quanto riguarda il loro potenziale di trasformazione.

Considerando alcune importanti dimensioni quali la: la

diversificazione della struttura economica, il livello generale di

sviluppo socioeconomico e la distanza dalle fonti di capitale e di

111

innovazione è stato possibile suddividere le otto Regioni di

sviluppo in quattro grandi categorie in ordine decrescente103:

1. GRUPPO: Regioni di Bucarest-Ilfov e di Ovest;

2. GRUPPO: Regioni di Centro, Nord-Ovest e Sud-Est;

3. GRUPPO: Regioni di Sud e Sud Ovest;

4. GRUPPO: Regione di Nord-Est.

Sono dunque questi gli assunti fondamentali da cui prendere le

mosse al fine di offrire un quadro della presenza italiana, ed in

particolare veneta, e delineare le determinanti che inducono gli

imprenditori italiani a investire nel paese.

103 Un modo diverso per determinare il livello di sviluppo delle regioni e leloro potenzialità di trasformazione è presentato da Laura Resmini e mira adeterminare quanto l’ubicazione delle regioni (in particolare di quelle situate ai confini) condizioni le loro prospettive di crescita e la specializzazioneeconomica (cfr. L. Resmini,2002, Specialization and Growth Patterns inBorder Regions in Accession Countries, Working Paper B17, Zentrum fürEuropäische Integrationsforschung, Bonn).

112

CAPITOLO TERZO

LA ROMANIA “SI APRE” AL MONDO: INVESTIMENTI

ESTERI E DELOCALIZZAZIONI.

1. Premessa. Dal piano al mercato, la situazione nei PECO.

Esaurito l’inquadramento sintetico e l’analisi dello sviluppo

regionale romeno, si tratta ora di individuare le motivazioni, gli

obiettivi e le conseguenze della totale apertura dell’economia

romena alle “influenze esterne” in seguito alla rapida transizione

verso un’economia di mercato. A questo proposito c’è da dire

che l’applicazione del concetto di transizione ai paesi del

socialismo reale si basa su una visione degli stessi come statici e

immobili e non tiene conto dell’estrema variabilità dei loro

percorsi. Tale concetto risulta così poco adatto a spiegare quanto

sta accadendo non solo in Romania ma in tutti i paesi dell’Europa

orientale che dovrebbe essere considerato come un costrutto

113

culturale, fondato sulle esperienze e sugli studi occidentali del

cosiddetto Terzo mondo o dei paesi in via di sviluppo (Berdhal

2000, p.2). Potrebbe quindi essere più utile prendere in esame le

trasformazioni e le ristrutturazioni connesse con l’introduzione di

nuovi elementi nell’ordine socioeconomico e con

l’aggiustamento di quelli esistenti sulla base delle esigenze

venutesi a creare nel recente passato (Heller 1998,p.18), senza

dimenticare che i cambiamenti verso un’economia di mercato

non sono lineari e portano con loro sia dinamiche sociali

regressive che progressive.

Una prima caratteristica che emerge, analizzando il contesto

post-comunista, è che la persistente componente antidemocratica

e neoautoritaria presente nei sommovimenti dell’Europa orientale

è stata, ad esempio, tema scarsamente affrontato dagli studiosi, i

quali hanno preferito concentrarsi sui cambiamenti politici ed

economici formali; solo raramente l’accento è stato posto sulla

sfera sociale e culturale, sebbene queste siano spesso assai

indicative delle tendenze in atto. In quel che un tempo veniva

(erroneamente)104 considerato come un unico “blocco orientale”

le diversità nazionali e le disparità regionali (che hanno

rafforzato disparità antiche e ne hanno creato di nuove) sono

divenute sempre più evidenti, mentre i singoli paesi hanno

realizzato le loro riforme sullo sfondo di un comune (ma fragile)

retroterra storico, politico ed istituzionale (Brucan 2000).

E’ proprio a causa della molteplicità delle esperienze precedenti

che le ristrutturazioni economiche e politiche iniziate a partire dal

1990 accentuano i contrasti all’interno dei singoli paesi come

104 Infatti le differenze sociali ed economiche erano notevoli sia nel grado di controllocentralistico, sia nell’estensione del sostegno popolare o al contrario della resistenza attivae passiva, sia infine nell’organizzazione della produzione (Sacchetto 2004, p.110).

114

pure tra i diversi paesi: le aree più attrezzate ottengono un certo

miglioramento economico lasciando nella miseria quelle più

povere: già all’inizio degli anni Novanta, infatti, i paesi del

socialismo reale si andavano dividendo in due aree a sviluppo

diseguale: l’Europa centro-orientale (Polonia, Repubblica Ceca,

Slovacchia, Slovenia, Ungheria) e l’Europa sud-orientale

(Albania, Bosnia, Bulgaria, Croazia, Macedonia, Romania,

Serbia) (Pasti 1997).

Un altro elemento centrale nella ristrutturazione romena è la crisi

della proletarizzazione forzata dovuta alla dittatura, in particolare

nelle campagne e nelle città di minore dimensione, nelle quali le

disuguaglianze iniziano a diventare pronunciate. Il

riconoscimento della proprietà privata delle terre consente a

un’ampia parte della popolazione di reperire mezzi di

sussistenza, ma al tempo stesso inabissa costoro nella campagna,

lontano da qualsiasi segno di vita pubblica. Il crollo del trasporto

pubblico che collegava la città alla campagna può essere

interpretato come un primo elemento di separazione (Sacchetto

2004, p.111). La separazione infatti è la chiave per capire

l’evolversi una nuova fase economica in Romania: una cospicua

parte della popolazione viene (trat)tenuta in stand-by nelle aree

rurali in attesa di essere incanalata verso le città se e quando gli

equilibri lo permetteranno. La persistenza di questi “muri

invisibili” tra campagna e città è anche il segreto della forza

elettorale del Partito Socialdemocratico (PSD, discendente diretto

del Fronte di Salvezza Nazionale) che ha tra le aree rurali del

paese la sua inespugnabile roccaforte elettorale. Mai e poi mai i

quadri dirigenziali dei partiti legati alla vecchia nomenklatura si

sognerebbero di perdere questo enorme serbatoio di voti. La

115

campagna romena, però, rappresenta anche l’ultimo avamposto

di quelle antiche e nobili tradizioni e relazioni (contadine) che,

prima il sistema comunista e poi quello capitalista, hanno cercato

in tutti i modi di sradicare e cancellare105. Alla rottura dell’ordine

socialista si sostituisce quindi un sistema tuttora in corso di

riparazione che deve reindirizzare la destinazione delle diverse

categorie di persone.

2. L’incerta andatura economica.

A quindici anni dagli storici eventi che hanno aperto la strada alla

totale trasformazione politica ed economica dei paesidell’Europa

centro-orientale non si può fare a meno di registrare il notevole

impatto che hanno avuto le riforme (economiche, politiche e

sociali) sul modo in cui questi paesi sono governati, sul loro

sviluppo economico e sulla natura della loro integrazione nel

contesto internazionale.

Fin dal 1989, il passaggio verso l’economia capitalista è stato

condotto attraverso una “terapia shock”, sotto la direzione del

Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, messa

105 Lo spazio rurale romeno, infatti, rappresenta una di quelle società ancora lontana daiparametri dello “sviluppo di tipo occidentale”: qui, la modernità (rappresentata, anzitutto, da un sistema produttivo competitivo e da un’efficiente dotazione infrastrutturale) ha toccato le campagne romene senza lasciare se non effimere tracce di una “modernizzazione mancata”. I sistemi politico-economici si sono succeduti senza scalfire “l’anima” dei luoghi, che continuano a riprodurre se stessi, “boicottando la storia”, come da sempre. Le campagne romene hanno, sempre, reagito agli “shock” sistemici chiudendosi in se stesse, nei loro “rifugi”isolati sui Carpazi: la transizione post-comunista non sfugge a questalogica e la ricostituzione di un’economia di sopravvivenza (estranea ai “meccanismi di mercato” verso i quali dovrebbe tendere la transizione) nella maggior parte delle zone rurali romene dimostra questa tendenza (cfr. Rey et al.2002, pp.90-102).

116

in atto da economisti ultraliberisti statunitensi e dai loro colleghi

locali106. Essi hanno trasformato queste economie imperniate sul

commercio Est-Est ed Est-Sud, in economie totalmente

dipendenti dalle multinazionali occidentali ed imperniate su un

commercio impari Est-Ovest. Le ripercussioni sociali di questo

cambiamento sono state fortissime e ancora oggi le popolazioni

di questi paesi ne pagano le conseguenze (Brucan 2000). Gli

investimenti e il commercio estero hanno contribuito in misura

notevole al processo di riforma. Provvedimenti volti alla

liberalizzazione del commercio interno, al cieco sostegno del

commercio internazionale e a favorire gli investimenti esteri sono

stati “consigliati” già nelle prime fasi della transizione107. La

presenza delle lobbies europee e statunitensi in tali paesi si è già

da tempo concretizzata tramite spedizioni (politiche ed

economiche) susseguitesi in questi anni che hanno avuto come

obiettivo prioritario quello di imporre ad ogni costo la “stabilità”,

per salvaguardare i notevoli investimenti e i relativi profitti che le

multinazionali hanno, in maniera crescente, realizzato. A questo

proposito, i fenomeni di interconnessione tra specifiche

economie nazionali attuati attraverso l’esportazione dei capitali

(dando cioè vita al mercato internazionale dei capitali) sono una

realtà che dura da oltre un secolo. La novità è il ruolo assunto

dagli investimenti finanziari, in particolare quelli a carattere

speculativo, e dal vertiginoso aumento degli investimenti esteri,

favoriti da una forte liberalizzazione sul mercato internazionale e

106 Sebbene nel 1989 la Romania si trovi immune da debiti esteri, le sue riserve valutarienon sono particolarmente consistenti. Cosicché nel periodo 1991-1992 il governo romeno siaffida al FMI e alla Banca Mondiale per garantirsi prestiti a breve scadenza e assistenzafinanziaria a sostegno delle importazioni (Valsan 2001).107 Essi hanno riguardato la rimozione delle limitazioni e delle barriere al commercio cheavvantaggiavano le imprese nazionali, l’introduzione della convertibilità valutaria secondo i tassi di cambio internazionali e (nel caso di alcuni paesi) la vendita a investitori stranieri diimprese chiave.

117

dai forti legami del capitale internazionale. All’interno dei

movimenti di capitale, infatti, gli investimenti diretti esteri

(IDE)108 tornano ad un’importanza notevole, poiché in quanto

investimenti a carattere produttivo costituiscono la principale

manifestazione delle attività delle imprese al di fuori del proprio

paese di origine, e quindi esplicitano i processi dinamici

dell’accumulazione reale attraverso le multinazionali e il

controllo tramite le delocalizzazioni territoriali (Voinea 2002).

Anche la decisione di far aderire alla Unione Europea i paesi

dell’Europa centro-orientale può essere letta in questo senso e

quindi determinata sulla base di considerazioni strategiche,

politiche ed economiche. A questi paesi si offre sì la possibilità

di raggiungere il benessere e la modernizzazione ma solamente

attraverso appositi programmi di assistenza tecnico-economica e

finanziaria, progetti, aiuti, investimenti diretti; in sintesi un vero

progetto di egemonia geoeconomica sull’area balcanica e centro-

orientale finalizzata al suo completo controllo (Valsan 2001).

Infatti l’allargamento deve essere considerato principalmente

come un processo di integrazione commerciale e di strategia

economica complessiva da parte dell’UE. Il crescente processo di

globalizzazione dei mercati, indotto appunto dalle enormi

opportunità di localizzazione offerte da questi paesi, sta già

incentivando notevolmente i movimenti internazionali di

capitale. Chi trarrà maggiori vantaggi dall’integrazione dei paesi

108 Secondo la definizione internazionale, gli IDE sono investimenti attraverso i quali unresidente in un’economia realizza un interesse duraturo in un’impresa residente in un’economia diversa da quella dell’investitore. L’interesse duraturo implica l’esistenza di una relazione di medio-lungo termine tra l’investitore e l’impresa estera con un grado diinfluenza significativo nella gestione dell’impresa stessa. Si suole distinguere tra IDE green-field che comprendono l’apertura di nuove unità locali o di nuove imprese, e brown-field, che comprendono l’acquisizione di un’impresa locale o la fusione con un’altra impresa. I flussi di IDE presentano quindi tre componenti : equity-capital; utili reinvestiti eprestiti tra imprese (intra-company loans e intra-company debt transaction) (cfr. Unctad,2004).

118

dell’Europa centro-orientale nell’UE saranno in particolare i

paesi del Centro e del Nord europeo, poiché la loro

specializzazione commerciale si concentra nei settori ad alta e

media tecnologia e quindi di maggiore efficacia per i PECO e per

il completamento del loro processo di transizione verso

l’economia di mercato; invece i paesi del Sud dell’Europa,

presentando una specializzazione nei settori tradizionali simile a

quella dei PECO, subiranno maggiori pressioni competitive

(Oecd 2002). La crescente integrazione economica tra i PECO e

l’UE è rilevabile sia dalla crescita dell’interscambio

commerciale, sia dai flussi di IDE in entrata. Tra il 1995 e il

2000, infatti, le esportazioni e le importazioni tra la UE e i PECO

sono cresciute di oltre il 110%, mentre il rapporto tra IDE e PIL

è passato, tra il 1992 e il 2000, dal 5 al 30%. Alla fine degli anni

Novanta, la UE è diventata il principale partner commerciale dei

PECO (Daniele 2004, p.133)109.

3. Internazionalizzazione delle imprese e delocalizzazione

territoriale: un’introduzione alla problematica.

Il fenomeno della delocalizzazione territoriale (inteso come il

processo attraverso il quale l’azienda colloca le fasi del proprio

ciclo produttivo in aree diverse, seguendo, per ciascuna di esse,

criteri di convenienza differenti) costituisce una delle forme più

109 Basti pensare che il 75% delle esportazioni totali ungheresi, il 70% di quelle polacche edi quelle della repubblica ceca e il 65% di quelle slovene sono dirette verso la UE!

119

manifeste dei processi di internazionalizzazione110. Secondo

recenti studi sull’internazionalizzazione delle imprese, la

delocalizzazione internazionale può avvenire tramite accordi

commerciali e industriali (come ad esempio l’accordo di

subfornitura)111, la cessione di licenze e brevetti, progetti di

cooperazione tecnologica oppure, in assenza di accordi espliciti,

si può delocalizzare attraverso la dismissione di impianti nella

base domestica e la rilocalizzazione in paesi terzi, ovvero

attraverso gli IDE (Schiattarella 1999a). Inoltre, anche la

sostituzione – o l’integrazione –dei fornitori locali con fornitori

esteri può rientrare nella categoria della delocalizzazione, in

quanto si effettua uno spostamento di attività lavorativa verso un

altro paese. Nonostante le varie forme assunte, si tratta

sostanzialmente del trasferimento all’estero dell’intero processo

di produzione o di sue parti (solitamente quelle centrali) che

necessitano di maggiore manodopera: il semilavorato viene

temporaneamente esportato, ne vengono completate le fasi

centrali della produzione e poi viene reimpostato nel paese di

partenza dove viene completato e commercializzato. In pratica la

parte del ciclo produttivo ad alto valore aggiunto viene

mantenuta nel paese d’origine, mentre il processo produttivo

viene portato all’estero. Il prodotto poi, rientra non

completamente finito in patria, dove viene definito e etichettato

110 Per internazionalizzazione si intendono “i processi che hanno cadenzato, nel corso del novecento, l’evoluzione delle grandi imprese industriali, volte ad integrare in misuracrescente le economie nazionali tramite flussi di conoscenze tecniche, materie prime, beniintermedi, prodotti e servizi finali. In quella logica, l’espansione multinazionale dell’impresa rifletteva scelte strategiche volte a controllare e coordinare un insieme diattività distribuite fra impianti e unità diverse in differenti parti del globo” ( Conti et al.1999, p.229)111 Il rapporto di subfornitura è caratterizzato dalla specializzazione del fornitore nel portarea termine i compiti che gli sono stati assegnati e dal rapporto di collaborazione più o menorigido che si è venuto a instaurare tra fornitore e committente (Giannì 2003, p.3).

120

con il marchio che permette di avere ricavi infinitamente

superiori ai costi (Guerrieri 2003).

La delocalizzazione quindi nasce nel momento in cui si

concepisce il processo produttivo non come un’unità articolata

sviluppata in un unico luogo, ma come un’integrazione di fasi

anche geograficamente separate, riconducibili ad unità attraverso

meccanismi logistici ed organizzativi (Brero 2000). I primi

processi di delocalizzazione produttiva risalgono alla seconda

metà degli anni Settanta, quando forti conflittualità sociali e la

crisi petrolifera, resero necessario il trasferimento di molte

produzioni all’estero, soprattutto nei settori ad alto contenuto di

lavoro (labour intensive). Negli anni successivi il continuo

incalzare della soglia di competitività, a seguito dell’incessante

innovazione tecnologica e della globalizzazione dei mercati, ha

comportato una crescente mobilità dei fattori produttivi, in

particolare del fattore capitale; tale processo è stato favorito da

una serie di eventi politici ed economici che hanno caratterizzato

l’ultimo decennio, come la crescenteapertura verso i mercati

internazionali e la possibilità di sfruttare i vantaggi, in termini di

costo dei fattori produttivi e di imposizione fiscale, provenienti

dalle economie dei paesi dell’Europa centro-orientale. I criteri

che guidano questi processi di delocalizzazione non sono tuttavia

influenzati da scelte politiche o guidati da obiettivi di sviluppo di

un’area piuttosto che di un’altra, ma sono criteri che nascono

fondamentalmente da valutazioni di convenienza economica; in

tal senso è lo stesso l’imprenditore che cerca il luogo più adatto

allo svolgimento della fase in questione, mosso da obiettivi di

mantenimento o di miglioramento della competitività aziendale

(Giannì 2003). Se dunque spesso viene sbandierato il pretesto

121

dello sviluppo locale quale giustificazione, a livello del tutto

teorico, del comportamento in questo senso delle imprese, è

necessario invece rendersi conto che purtroppo spesso questo non

si verifica, poiché il profitto così realizzato viene trasferito in

patria e non utilizzato sul posto per fornire un impulso

all’economia del paese attraverso il suo reinvestimento (Anselmi

et al. 2003,p.3). Queste considerazioni spingono a identificare tre

fattori chiave nei processi di delocalizzazione:

la natura sostitutiva o complementare della produzione delle

affiliate estere nei confronti della produzione della casa-madre

e delle altre imprese nazionali;

l’impatto delle attività industriali svolte all’estero

sull’intensità di lavoro della produzione interna;

l’impatto delle suddette attività sulla composizione

dell’occupazione nazionale e sui differenziali salariali.

Vi sono poi alcuni aspetti che limitano la sostenibilità nel tempo

della delocalizzazione per i Paesi che la attuano, rivelandone la

natura di strategia di breve periodo. La scelta del miglioramento

della competitività attraverso la razionalizzazione dei costi di

produzione, del costo del lavoro principalmente, ne ha escluso

un'altra certamente più onerosa, ma anche più duratura: il

miglioramento della qualità dei beni attraverso gli investimenti

produttivi (Mariotti 2004).

In questo senso la delocalizzazione può essere letta come una

conseguenza o come uno degli aspetti di quel processo definito

come globalizzazione, secondo il quale vengono a cadere

l’importanza e il significato dei confini materiali nella

descrizione di un processo produttivo. Lo stesso concetto di

fabbrica, su cui è nato il modello industriale, perde la sua

122

attualità, in quanto non è più espressione di un ciclo produttivo

nel vero senso della parola, in quanto il ciclo stesso può

svilupparsi in luoghi lontani e fisicamente separati, tenuti insieme

da meccanismi, che non sono più riconoscibili nei layout della

fabbrica tradizionale ( Scortegagna et al.2003, p.6).

A questo punto mi sembra importante considerare il ruolo che

esercitano, all’interno del processo di delocalizzazione, i vari

fattori che, a suo tempo, avevano guidato la localizzazione della

prima rivoluzione industriale. L’opinione comune, ma anche il

parere degli esperti, è che la delocalizzazione si pratichi

prevalentemente per ragioni di miglioramento della competitività

aziendale, per cui essa è guidata dai fattori che risultano più

sensibili alle variazioni e più influenzanti la competitività. In

questi anni il fattore di gran lunga preferito nell’attivazione di

processi di delocalizzazione è stato quello del costo dei fattori

della produzione. Agendo sul costo della manodopera peraltro

c’è un immediato riscontro sul costo del prodotto e quindi un

altrettanto immediato effetto vincente nei meccanismi

competitivi, almeno nel breve periodo (Turato 2003).

Perché ciò avvenga occorre sfruttare le situazioni favorevoli

derivanti dalle differenze esistenti tra paesi ad alto sviluppo e

paesi terzi o a basso sviluppo; si verifica così che le funzioni di

maggiore rilevanza strategica e quelle di ricerca e di

progettazione siano mantenute presso le sedi nei paesi ad alto

sviluppo economico, mentre le fasi di lavoro o alcune catene di

lavorazione vera e propria vengano trasferite, in parte o

totalmente, nei paesi a basso sviluppo e quindi dove i bassi livelli

di produttività complessiva del sistema-paese consentono di

stabilire bassi salari(Scortegagna et al. 2003, p.7).

123

Per concludere, non bisogna dimenticare che la delocalizzazione

non rappresenta esclusivamente un fenomeno economico in

quanto include al suo interno anche una dimensione sociale e

culturale. Infatti spostare un’impresa, o una parte delle

produzioni, in un altro contesto territoriale, significa spostare

anche un sistema di relazioni, riprodurre relazioni sociali

all’interno dei luoghi di lavoro e, conseguentemente, gestire

nuovi rapporti tra il territorio circostante e quello di provenienza

come meglio vedremo nel caso del Nord-Est italiano in Romania.

4. Investimenti stranieri in Romania.

Negli ultimi due decenni, gli IDE sono stati la componente più

dinamica dell’integrazione produttiva, con un tasso di variazione

che ha superato quello degli scambi commerciali. Su scala

globale, il volume delle vendite da parte di filiali estere di

imprese multinazionali ha raggiunto 15.000 miliardi di dollari

nel 2002 (da 3.000 nel 1980), ed è pari al doppio delle

esportazioni mondiali; mentre allo stesso tempo la produzione

internazionale delle imprese multinazionali è oggi pari ad un

decimo del PIL globale, da un ventesimo del 1982 (Unctad

2004). In Europa, in particolare, l’attività di investimento diretto

ha mostrato una fortissima accelerazione dalla metà degli anni

Ottanta, in concomitanza con l’avvio del processo di integrazione

economica messo in atto dal mercato unico, anche se la

partecipazione dei paesi europei al suddetto processo non risultò

124

omogenea. Dal 1990, poi, le scelte geoeconomiche modificarono

la ripartizione territoriale degli IDE: precedentemente quasi ¾ di

quelli effettuati dall’UE avevano come destinatario gli Usa; ora

l’ammontare complessivo è destinato principalmente ai paesi del

“Terzo mondo” e ai paesi dell’Europa dell’est, confermando i

processi delocalizzativi in aree a basso costo del lavoro e delle

risorse in genere (Iammarino,Santangelo 2001).

Inizialmente i flussi di IDE verso i PECO sono stati

relativamente limitati a causa dell’incertezza politica ed

economica, ma nel corso degli anni Novanta sono aumentati in

misura notevole soprattutto in Ungheria, Polonia e Repubblica

Ceca che hanno assorbito quasi 2/3 del totale dei flussi di

investimento verso i Paesi dell’Europa centro-orientale (Nuti et

al. 1997). Questi flussi di IDE crebbero rapidamente, passando

dall’1% degli IDE totali nel 1989 al 12% nel 1995.

I sistemi industriali locali cambiarono grazie all’azione

combinata delle grandi multinazionali e delle piccole e medie

imprese (PMI). Le prime hanno contribuito alla ristrutturazione

delle industrie ad alto utilizzo di capitali, introducendo nuovi

prodotti ed efficienti metodi di produzione; le seconde hanno

introdotto le conoscenze imprenditoriali nei settori tradizionali.

Sicuramente, la condizione strutturale dei PECO negli anni

Novanta di paesi a medio reddito ed in transizione, indicava di

per sé una propensione di queste economie a ricevere IDE,

piuttosto che a effettuare investimenti produttivi all’estero. In

effetti, dall’inizio della transizione (1989), si sono diretti in

quest’area flussi ingenti di capitali produttivi. Le prospettive

d’ingresso nell’Unione Europea hanno contribuito ad aumentare

l’afflusso di IDE, in particolare nei PECO più avanzati (Nuti

125

2000)112. All’inizio sono state soprattutto le privatizzazioni

imposte dagli organismi internazionali (FMI, BM) che hanno

attirato gli investimenti stranieri. Questi investimenti si sono

indirizzati verso settori manifatturieri113 con l’obiettivo

immediato di ridurre i costi di produzione e di sfruttare i più

bassi costi di lavoro in questi paesi. Lo scopo ultimo, quindi, non

era tanto quello di conquistare i mercati quanto quello di riuscire

a produrre in questi paesi una parte almeno della produzione che

potesse così essere ottenuta a basso costo. Le imprese che

parteciparono a questi progetti (di investimento) provenivano

principalmente dalla Germania (39%), Olanda (18%), Francia

(13%) e Austria (10%); l’Italia con una quota pari al 5%, era

attestata su livelli inferiori a quelli di Belgio e Svezia114. Anche

alcuni paesi non partecipanti all’UE mostrarono interesse

nell’investire nell’Europa centro-orientale, in particolare le

multinazionali provenienti dagli USA e dal Giappone che hanno

investito in Polonia, Estonia, Ungheria e Repubblica Ceca

(Manzocchi,Pierluigi 2001).

Fin dall’avvio del processo di transizione, quindi, gli

investimenti esteri sono stati considerati un fattore chiave per

sopperire ad elevate carenze di capitale nazionale, acquisire

nuove tecnologie ed apprendere tecniche di management

moderne.

Per quanto riguarda la Romania, la capacità di attrarre

investimenti è sempre stata molto al di sotto delle sue

112 Circa il 76% delle iniziative è stato condotto da paesi europei, anche se il valore totaledegli IDE europei è irrilevante se comparato agli investimenti in altre regioni.113 Il settore manifatturiero è quello che ha raccolto la gran parte (60%) delle iniziative; poisi ha il settore dei servizi (33%) ed infine agricoltura, pesca ed estrazione di minerali.114 Considerando il periodo tra il 1989 e il 1999 e il totale dei flussi provenienti dall’UE (dati tratti da www.confindustria.it e www.ice.gov.it , 2003).

126

potenzialità115: il livello degli IDE in entrata, infatti, è stato

negativamente influenzato dalle frequenti modifiche del quadro

normativo di riferimento, dall’elevato livello di

burocratizzazione, dall’arretratezza delle infrastrutture e,

soprattutto, dal livello e dalla diffusione della corruzione.

Tuttavia, la volontà del nuovo corso post-comunista di

modernizzare in senso privatistico è evidente a partire dal fatto

che già nel marzo del 1990, pochi mesi dopo l’uccisione di

Ceauşescu, il nuovo governogarantiva alle imprese private di

poter assumere fino a un massimo di 20 persone e la possibilità

per gli stranieri di investire in imprese romene116. Il numero di

imprese straniere crebbe rapidamente: dalle circa 6 mila del 1991

fino alle 21 mila della fine del 1992 per un investimento

complessivo di circa 500 milioni di dollari (Oecd 1993, p.39).

Nel frattempo, il capitale internazionale, dopo aver sondato la

portata dei cambiamenti, iniziò a investire con maggiore intensità

grazie alla liberalizzazione dei prezzi e alle privatizzazioni

avviate con determinazione dal nuovo governo. Gli investimenti

stranieri si caratterizzarono per un andamento alquanto

altalenante, tuttavia, fino al 1997, essi non considerarono la

115 Secondo una recente indagine, la Romania occupa il 14° posto nella classifica mondialedelle destinazioni predilette dalle compagni straniere per l’esternalizzazione di determinate attività. Con 7,08 punti, la Romania è superata dalla Bulgaria e Slovacchia che hannototalizzato 7,09 punti e rispettivamente 7,12 punti. Lo studio riguarda 60 Paesi ed è statoelaborato in base alle informazioni fornite da 500 manager, di 75 Paesi. L’analisi ha preso in calcolo nove categorie di indici, rispettivamente la vicinanza geografica, il rischiopolitico e di sicurezza, la stabilità macroeconomica, il quadro legislativo, il regime fiscale,la legislazione sul lavoro, i costi per la manodopera, il livello di preparazione della stessa ele infrastrutture. Il più alto punteggio attribuito alla Romania e’ stato 9,49, per la categoria “costi per la manodopera”, 8,35 nel capitolo “vicinanza geografica” e 7,2 punti per la “stabilità macroeconomica” e per il “rischio politico e di sicurezza”. I punteggipiù bassisono stati registrati per le “infrastrutture” - 4,6 punti e per la “preparazione e disponibilità della manodopera” - 5,55 punti (cfr. EIU 2005).

116 A partire dal 1991 gli investitori stranieri potevano detenere anche il controllo dimaggioranza e godere di incentivi quali la parziale esenzione delle tasse e la riduzione deidazi doganali per le importazioni di energia, materie prime e attrezzature (Oecd 1993,p.39).

127

Romania collocandosi piuttosto in paesi quali l’Ungheria, la

Repubblica ceca e la Polonia. Sul finire del secolo però, gli

investitori iniziano a rivolgere maggiore attenzione a paesi

toccati, fino a quel momento, solo marginalmente da questo

processo. Nel 1997 i flussi di investimenti stranieri raggiunsero

gli 11778 milioni di dollari per salire poi a 17434 milioni l’anno

successivo (vedi tabella n.1).

Tabella 4.1- IDE in entrata per paese ospitante (milioni didollari). 1997-2002.

PAESI 1997 1998 1999 2000 2001 2002Bulgaria 505 537 819 1002 813 479

Rep. Ceca 1286 3700 6310 4984 5639 9319Estonia 267 581 305 387 542 307

Ungheria 2167 2037 1977 1646 2440 854Lettonia 521 357 347 410 164 396Lituania 355 926 486 379 446 732Polonia 4908 6365 7270 9341 5713 4119

Romania 1215 2031 1041 1025 1157 1106Slovacchia 220 684 390 1925 1579 4012Slovenia 334 216 107 136 503 1865PECO 11778 17434 19052 21235 18996 23189

Fonte: UNCTAD, World Investment Report 2003.

Si trattava di un capitale che si espandeva soprattutto nella

costruzione di nuove attività in aree periferiche (green-field

factory), senza tralasciare alcune delle principali imprese statali

in via di privatizzazione117.

117 La Renault, ad esempio, nel 1999 ha acquistato la Dacia negoziando la venditadirettamente con l’agenzia statale delle privatizzazioni (Voinea 2002).

128

Secondo alcune stime gli investimenti stranieri hanno interessato

per metà del loro valore il processo di privatizzazione, mentre

l’altra metà sarebbe stata destinata a impianti in territori

industrialmente vergini (Hunya 2000). Questi ultimi privilegiano

aree precedentemente destinate all’agricoltura, dove era presente

l’attività mineraria, usufruendo della creazionedelle cosiddette

“zone speciali di esportazione” in cui vigono regole peculiari, tra

le quali la detassazione degli utili e la possibilità di stipulare

particolari contratti di lavoro. Accanto a queste “zone speciali”

esiste una specifica legislazione in materia che stabilisce tutta

una serie di agevolazioni e garanzie offerte all’investitore

straniero. Si tratta di una produzione legislativa ancora in

formazione, non solo nel campo dello sviluppo economico per

intervento straniero ma in tutti i campi della società. Queste leggi

sono tutte di emissione recente: la normativa generale è stata

formalizzata con la legge 241 del 1998 ( cfr. Legea Nr. 241/1998

– de Stimulare a Investiţiilor străine) e con la legge 332 del 2001

(cfr. Legea Nr. 332/2001 – a Investiţiilor cu impact Semnificativ

în Economie), dando vita a una legislazione particolarmente

favorevole per le imprese, che si sostanzia in una serie di

incentivi fiscali e di agevolazioni di varia natura. Lo sviluppo

economico romeno è perseguito dalle istituzioni locali attraverso

la creazione di parchi industriali, aree attrezzate, zone speciali

con facilitazioni e riduzioni o esenzioni fiscali per quanti

investono, in particolare nelle aree depresse e per una produzione

destinata prevalentemente all’esportazione. Le normative locali

(Legge sugli investimenti diretti, Legge sulle Zone Franche,

Legge sulle zone sfavorite, Legge sui parchi industriali) riservano

un trattamento identico agli investitori nazionali o esteri. Non

129

esiste alcuna limitazione di settore per gli investimenti stranieri

(ad eccezione di quelli considerati strategici per la difesa del

Paese).

La Legge N.332/2001 sulla promozione degli investimenti diretti

con impatto significativo sull’economia definisce gli investimenti

diretti come investimenti esclusivamente nuovi, con un valore

superiore ad 1 milione di dollari USA, realizzati nelle forme e

con le modalità previste dalla legge e che contribuiscano allo

sviluppo ed ammodernamento delle infrastrutture economiche

della Romania e determinino un effetto positivo di traino

sull’economia, creando nuovi posti di lavoro. La partecipazione

all’investimento diretto con impatto significativo sull’economia

si può realizzare soltanto con capitale liquido in lei o in valuta

liberamente convertibile. Inoltre, possono essere effettuati in tutti

i settori di attività ad eccezione di quelli finanziario, bancario,

delle assicurazioni, nonché di quelli regolamentati da leggi

speciali, a condizione di non trasgredire le norme di protezione

dell’ambiente, di non ledere gli interessi di sicurezza e di difesa

nazionale della Romania e di non pregiudicare l’ordine, la salute

o la morale pubblica.

Gli investitori esteri, inoltre, beneficiano dei seguenti diritti:

trasferire integralmente all’estero i profitti a loro spettanti,

alle condizioni del regime valutario della Romania, dopo il

pagamento di imposte, tasse e altri obblighi previsti dalla

legislazione romena;

trasferire all’estero, nella valuta dell’investimento, le

somme ottenute a seguito della vendita delle azioni o quote

sociali, nonché quelle risultanti dalla liquidazione degli

130

investimenti, alle condizioni del regime valutario della

Romania;

trasferire all’estero, nella valuta dell’investimento, le

somme ottenute a titolo di risarcimento, nella situazione

prevista dall’art.8 .

Gli investitori esteri avranno il beneficio di tutti i diritti previsti

negli accordi bilaterali di promozione e garanzia reciproca degli

investimenti, firmati dalla Romania con gli Stati di origine degli

stessi. Per quanto riguarda le zone franche con la Legge n. 84/92

(Legea Nr. 84/1992 privind regimul zonelor libere) è stato

introdotto un regime doganale e fiscale privilegiato per alcune

zone della Romania definite “libere” (ovvero considerate

extraterritoriali dal punto di vista doganale). In queste zone è

possibile effettuare ogni tipo di attività

(produzione,commercio,servizi,costruzioni,ecc.) sulla base di

specifiche licenze rilasciate dall’Amministrazione della zona

libera alle persone fisiche o giuridiche (anche straniere) che ne

facciano richiesta.

Con l’Ordinanza Governativa di Urgenza N.24/1998 sul regime

delle zone sfavorite (defavorizate), modificata con la Legge

N.20/1999, sono state concesse, esclusivamente alle aziende che

hanno ottenuto il certificato permanente di investitore in una

zona sfavorita, facilitazioni per aree geografiche, strettamente

delimitate dal punto di vista territoriale, che si verifichi almeno

una delle seguenti condizioni:

a) il tasso di disoccupazione sul totale delle risorse di lavoro della

zona sia almeno tre volte superiore al tasso di disoccupazione sul

totale delle risorse di lavoro a livello nazionale, nei 3 mesi che

131

precedono il mese in cui si compila la documentazione per

dichiarare la zona sfavorita;

b) siano zone isolate mancanti di mezzi di comunicazione le cui

infrastrutture siano sotto-sviluppate.

Con Decisone Governativa di Dichiarazione di Zona Sfavorita,

vengono approvati:

a) il periodo per il quale un’area geografica è dichiarata zona

sfavorita, ai sensi della presente Ordinanza di Urgenza;

b) i settori di interesse per la realizzazione di investimenti;

c) i finanziamenti necessari e le facilitazioni previste per legge

che vengono concessi agli operatori economici che effettuano

investimenti.

Un’area geografica può essere dichiarata zona sfavorita per un

periodo di almeno 3 anni e non superiore a 10 anni, con

possibilità di proroga. La legge quadro è l’Ordinanza governativa

n.65/2001 (Ordinanţa Guvernului Nr. 65/2001 privind

constituirea şi functionarea parcurilor industriale), modificata

con le leggi n.490/2002 (Legea Nr.490/2002 - pentru aprobarea

Ordonanţei Guvernului nr. 65/2001) e n.571/2003 (Legea

Nr.571/2003 privind Codul fiscal).

Il parco industriale rappresenta un’area delimitata

territorialmente, nella quale si svolgono attività economiche, di

ricerca scientifica, di produzione industriale e servizi, di

valorizzazione della ricerca scientifica e/o sviluppo tecnologico,

in un regime di agevolazioni specifiche, al fine della

132

valorizzazione del potenziale umano e materiale della zona. La

costituzione del parco industriale è fondata sull’associazione in

partecipazione, denominata dalla legge come associazione, tra le

autorità dell’amministrazione pubblica centrale e locale, gli

operatori economici, gli istituti di ricerca-sviluppo e/o altri

partner interessati..

Il parco industriale è amministrato da una società commerciale,

costituita in base alla Legge n.31/1990 (Legea Nr. 31/1990

privind societaţile commerciale) sulle società commerciali,

ripubblicata, con ulteriori modifiche. Nessun agente economico

che usa le utilità e/o le infrastrutture del parco industriale può

detenere il controllo della società che amministra il parco.

Per la costituzione e lo sviluppo di un parco industriale si

concedono le seguenti facilitazioni:

a) l’esenzione dal pagamento delle tasse per la modifica di

destinazione o per l’estromissione dal circuito agricolo del

terreno attinente al parco industriale, per l’associazione che

detiene il parco industriale;

b) per gli investimenti realizzati entro il 31 dicembre 2006 viene

concessa una deduzione supplementare dal profitto imponibile

del 20% del valore degli investimenti in costruzioni o per

ristrutturazione di costruzioni, infrastrutture interne e

connessione alla rete di pubbliche utilità, in base alle disposizioni

di legge sulla classifica e le durate normali di utilizzo dei mezzi

fissi ammortizzabili;

c) la posticipazione per la durata di realizzazione del rispettivo

investimento, fino alla messa in funzione del parco industriale,

133

secondo le regolamentazioni in vigore, cioè entro il giorno 25 del

mese successivo alla data della messa in funzione del parco

industriale, del pagamento dell’IVA per i materiali e le

attrezzature necessarie alla realizzazione del sistema di utilità

all’interno del parco o delle connessioni del parco alle reti

esistenti di pubbliche utilità, ai loro fornitori, nonché la

posticipazione del diritto di deduzione della rispettiva IVA fino

alla stessa data, per gli operatori economici che realizzano

l’investimento;

d) diminuzioni di imposte introdotte dall’amministrazione

pubblica locale, in base alle decisioni dei consigli locali o

distrettuali ove si trova il parco industriale, per i beni immobili e

terreni rientranti nel parco industriale;

e) altre facilitazioni che possono essere concesse, secondo la

legge, dall’amministrazione pubblica locale.

Attualmente, funzionano in Romania 37 parchi industriali

subordinati al Ministero dell’Amministrazione e degli Interni

(AA.VV. 2004b).

Nel frattempo, l’accelerazione degli investimenti esteri prosegue

anche dopo il cambio di governo (1996), e alla fine del 2001 essi

raggiungono complessivamente i 7,8 miliardi di dollari. Nel

periodo 1997-2002, il flusso degli IDE in entrata ha inoltre

seguito un andamento altalenante, più che raddoppiando tra il

1997 e il 1998 (a seguito della privatizzazione di Romtelecom) e

riducendosi drasticamente tra il 1998 (livello massimo mai

raggiunto fino al 2004 con 2031 milioni di dollari) e il 1999; nel

2001 e nel 2002 i valori si sono mantenuti pressoché stabili,

nonostante la caduta degli IDE a livello mondiale (i flussi in

entrata sono stati 1157 e 1106 milioni di dollari rispettivamente)

134

fino a raggiungere uno stock di 8786 milioni di dollari, come

sottolinea il World Investment Report-2003dell’Unctad118.

Negli ultimi 2 anni si è assistito a un costante aumento degli IDE

passati prima a 1805 milioni di dollari nel 2003 e poi alla cifra

record di 4850 milioni di dollari nel 2004119. Nel primo semestre

del 2005 il valore totale degli investimenti diretti esteri e’ di 890

milioni di euro, in crescita del 35% rispetto allo stesso periodo

dell’anno precedente. I più importanti investimenti stranieri (del

tipo greenfield) realizzati in questo primo semestre del 2005,

sono stati quelli di Tengelmann120 e Celestina. Per l’anno in

corso l’Agenzia romena per Investimenti Esteri (ARIS) prevede

un livello di 3,2-3,8 miliardi di euro, in diminuzione rispetto al

2004. Il valore degli investimenti esteri attratti nel mese di

giugno arriva a 194,3 milioni di euro, nettamente superiore al

livello di 25,3 milioni di euro registrato nel giugno del 2004. La

maggior parte degli investimenti sono stati rappresentati dagli

aumenti di capitale laddove il capitale sociale sottoscritto per le

nuove società è stato di solo 4,9 milioni di euro. In tutto il Paese

sono state costituite 1.053 nuove compagnie, di cui 387 a

118 E’ interessante notare che in percentuale del PIL i flussi di investimenti diretti in entrata hanno raggiunto il 20,5% nel 2002 ed erano solo il 2,3% nel 1995. Nei paesi appena entratinell’UE, tuttavia, sono in media il 33%. Dati sullo stock di capitale confermano questa discrepanza: lo stock di investimenti pro capite alla fine del 2001 era di 411 dollari inRomania, contro 1600 dollari circa in media negli 8 nuovi membri dell’UE (EIU, CountryReport-Romania,2003).119 Stando ai dati forniti dalla Banca Nazionale Romena, il 2004 è stato un anno record pergli investimenti stranieri in Romania. Questo è potuto succedere soprattutto grazie allaprivatizzazione dell’Ente Nazionale Petrolifero, PETROM, per il quale il gruppo austriacoOMV ha pagato 1,5 miliardi di euro. Si è aggiunta a ciò anche la vendita del 25% delleazioni della Banca Commerciale Romena alla International Finance Corporation (divisioneinvestimenti della Banca Mondiale) e alla Banca Europea per la ricostruzione e lo Sviluppo,per 222 milioni di euro.120 La tedesca Tengelmann, uno dei più importanti retailer del mondo, ha deciso,finalmente di entrare sul mercato romeno. Anche se arriva in un momento in cui i francesidi Carrefour e Cora hanno un anticipo considerevole, i tedeschi sperano che l’investimento di 200 milioni di euro nella costruzione di unità di retail gli aiuterà a raggiungere i loroconcorrenti. Tenendo presente il giro di affari nel 2004 di 26,8 miliardi di euro, el’esperienza dei 137 anni di esistenza, l‘obiettivo sembra realizzabile (Unimpresa Romania 2005).

135

Bucarest e 85 a Timişoara. Entrambe le province figurano fra le

prime 10 beneficiarie del flusso di IDE che ha interessato in

maniera differente gran parte del territorio romeno (vedi Tabella

n.2).

Tabella n. 4.2– “Top 10” delle province beneficiarie degli IDE (gennaio 1991-dicembre 2004)

Provincia N° di Società (%) di Società’Cap.investito(€)

(%)Cap.investito

1.Bucureşti 49838 52,5 4894904,7 44,72.Ilfov 2403 0,8 952261,7 6,33.Argeş 870 0,8 894250,8 5,94.Galaţi 766 2,5 694599,6 5,65.Constanţa 3415 3,5 514189,6 4,86.Timiş 6717 6,1 387813,8 4,77.Cluj 3739 1,6 398108,5 3,78.Prahova 1727 4,1 300733,8 2,69.Braşov 2753 2,6 178842,4 1,910.Bihor 2852 1,1 170234,4 1,9TOTALE 75080 75,6 9385939,1 82,1

Fonte : ONRC–Societăţi commercialecu Partecipare străina la capital, Sinteza Decembrie 2004.

Nella classifica degli investitori, al primo posto si situa l’Italia

con 235 società costituite nel mese di giugno, seguita dalla

Germania con 121 nuove società e l’Ungheria con 69 (Ice

2005,p.7). Attualmente le province dove si registra una maggiore

intensità di investimenti stranieri oltre alla capitale Bucarest,

sono l’area del Nord-Ovest di Timişoara ed Arad, e la zona

centrale di Braşov, Sibiu e Cluj (dove importanti sono le tracce

storiche della presenza di Tedeschi e Ungheresi). Passando

invece ad una analisi delle società con partecipazione straniera

(su scala regionale) i risultati saranno i seguenti:

Tabella n. 4.3–Società commerciali con partecipazionestraniera in Romania (1991-2004).

Regioni N°di (%) di Capitale (%) di

136

disviluppo

società

società investito(mil.€)

capitale inv.

Nord-Est 4204 4,2 293707,3 2,8Sud-Est 5748 5,8 1090139,7 10,4Sud 4111 4,1 1274939,3 12,1S.-Ovest 2614 2,6 163889,7 1,6Ovest 11238 11,3 666977,0 6,3N.-Ovest 10077 10,1 673126,4 6,4Centro 9612 9,6 518273,8 4,9Buc.-Ilfov 52241 52,3 5847166,4 55,5ROMANIA 99845 100,0 10528219,5 100,0Fonte: ONRC - Societăţi commercialecu Partecipare străina la capital,Sinteza Decembrie 2004.

Al contempo i 3 maggiori paesi investitori (dal gennaio 1991 al

dicembre 2004) sono stati Olanda, Francia e Germania, come si

evince dalla tabella seguente:

Tabella n. 4.4 – “Top 10” degli Investitori stranieri in Romania

(gennaio 1991-dicembre 2004)

Paese investitore Numero disocietà

Capitaleinvestito (mln.Di€)

(%)totale diIDE

1 Olanda 1932 1559911,7 14,822 Austria 3061 1378174,2 13,093 Francia 3454 1179306,3 11,204 Germania 11477 912209,4 8,665 USA 3963 623816,1 5,936 Italia 16056 555747,9 5,287 Antille

Olandesi8 537838,5 5,11

8 GranBretagna

1873 470240,1 4,47

9 Cipro 1315 431789,7 4,1010 Turchia 8374 363930,7 3,46

TOTALE 51513 8012964,6 76,12Fonte : ONRC–Societăţi commercialecu Partecipare străina la capital,

Sinteza Decembrie 2004.

A questo proposito, un recente dato relativo ai 20 maggiori

investitori esteri in Romania, mette in luce come tra le prime 20

società investitrici non figurerebbe alcuna compagnia italiana,

137

ulteriore prova della fragilità e della mancanza di prospettive a

medio-lungo termine della presenza italiana nel paese121.

121 Questa è la classifica apparsa sul numero 1 del Gennaio 2005 della rivista“Capital”:1. Petrom OMV - Austria (estrazione idrocarburi); investimenti per 1,5 miliardi dieuro; giro di affari nel 2004 di 2,14 miliardi di euro; 50.000 dipendenti; 2. MobiFon(Connex) - Vodafone International - Olanda (telefonia mobile) investimenti di 1miliardo di dollari; giro di affari nel 2004 di 686,3 milioni di dollari; 2.000 dipendenti;il 15 aprile 2005 ha lanciato i servizi 3G; 3. Orange Romania - Orange Francia(telefonia mobile) investimenti di 994 milioni di dollari; giro di affari nel 2004 di 624milioni di euro; 1.993 dipendenti; rebranding da Alo e Dialog ad Orange; 4.Automobile Dacia - Renault Francia (industria auto) investimenti di 694 milioni dieuro; giro di affari nel 2004 di 592,64 milioni di euro; 12.000 dipendenti; nel 2004lancia il modello Logan ; 5. Coca-Cola HBC Romania - Coca-Cola HBC Olanda(bevande rinfrescanti) investimenti per 400 milioni di euro; giro di affari nel 2004 di220 milioni di euro; 2.860 dipendenti; nel 2002 preleva Dorna Ape Minerale;6. Mittal Steel Galati - Mittal Steel Antille Olandesi (siderurgia) investimenti per 358milioni di dollari; giro di affari nel 2004 di 2,1 miliardi di dollari; 18.000 dipendenti;ha prelevato il complesso Sidex Galati; 7. Telemobil (Zapp) - Inquam Isole VirgineBritanniche (telefonia mobile) investimenti per 350 milioni di dollari; giro di affari nel2004 di 93 milioni di dollari; 600 dipendenti; ha scelto la tecnologia CDMA 2000 (a450 MHz) per operare la rete Zapp in anteprima mondiale; 8. Lafarge Romcim -Lafarge Francia (produzione di cemento) investimenti per 315 milioni di euro; 1.500dipendenti; ha puntato sulla ristrutturazione dei sistemi e dei processi interni; 9.Metro Cash&Carry Romania - Metro Cash&Carry Olanda (retail/commercio);investimenti per 315 milioni di euro; giro di affari nel 2004 di 1,04 miliardi di euro;5.500 dipendenti; a partire da maggio 2004 realizza il centro logistico di Bucarest diInternational Holding BV; 10. Holcim Romania - Holcim Svizzera (produzionecemento); investimenti per 300 milioni di euro; giro di affari nel 2004 di 130 milionidi euro; 1.300 dipendenti; ha lanciato nel 2001 il concetto di unaita’ ecologica per la produzione del calcestruzzo; 11. Carpatcement Holding Romania -HeidelbergCement Olanda (produzione cemento); investimenti per 240 milioni dieuro; giro di affari nel 2004 di 156 milioni di euro; 2.300 dipendenti; nel 2003 hapuntato sulla fusione tra le 3 fabbriche e la compagniaCentral Europe East HoldingBV di management Carpatcement Romania SRL; 12. Continental AutomotiveProducts - Contitech, Continental Germania (fabbricazione di gomme); investimentiper 200 milioni di euro; 2.000 dipendenti; investimento greenfield in una fabbrica digomme a Timisoara Continental Automotive System, Phoenix; 13. Raiffeisen Bank- Raiffeisen Bank Austria (settore bancario) investimenti per 200 milioni di euro;4.500 dipendenti;; 14. Brau Union Romania - Brau Union Austria (produzione dibirra); investimenti di 122,7 milioni di euro; giro di affari nel 2004 di 131,4 milioni dieuro; 1.600 dipendenti; ha puntato sull’entrata di Brau Union nel gruppo Heineken nel 2003; 15. BRD-Groupe Société Générale - Société Générale Francia (settorebancario); investimenti per 190 milioni di euro ( comprese BRD Sogelease si BRDFinance Credite Consum); 4.500 dipendenti; punta sullo sviluppo sul mercato diretail banking; 16. Hiproma Romania (Carrefour) - Hyparlo Francia(retail/commercio); investimenti per 120 milioni di euro; giro di affari nel 2004 di264,8 milioni si euro; 2.600 dipendenti; ha puntato sulla vendita da parte di Hyparlodegli ipermercati in Italia, il che ha permesso di concentrarsi sullo sviluppo rapidoin Romania17. MOL Romania - Petroleum Products MOL Ungheria (distribuzione carburanti);investimenti per 100 milioni di euro; giro di affari nel 2004 di 151 milioni di euro;1.000 dipendenti; ha puntato sul prelievo delle stazioni di benzina Shell inRomania;18. McDonald’s Romania- McDonald’s SUA (ristorazione); investimenti per 85 milioni di dollari; giro di affari nel 2004 di 47,5 milioni di dollari; 2.300dipendenti ;19. GSK Romania - GlaxoSmithKline Olanda (industria farmaceutica);investimenti per 70 milioni di dollari; giro di affari nel 2004 di 140 milioni di dollari;1.200 dipendenti; ha puntato sulla finalizzazione del prelievo della Europharm

138

I principali settori di destinazione degli IDE in Romania sono, in

ordine decrescente, settore industriale, commercio, servizi,

trasporti e costruzioni. Più del 50% degli afflussi di capitale nel

periodo 1999-2004 sono legati alle privatizzazioni e riflettono

quindi una certa riluttanza degli investitori stranieri a investire in

greenfields. I flussi di investimenti in uscita dal paese sono

pressoché inesistenti, come del resto per tutti i paesi dell’area

(Ice, 2005).

5. Investimenti italiani in Romania.

In generale le imprese italiane mostrano una bassa capacità di

investire all’estero. Questo riflette la struttura industriale del

paese in cui vi è un’alta proporzione di piccole e medie imprese

(PMI)122. Esse hanno difficoltà strutturali a realizzare

investimenti diretti esteri per vari fattori: bassa capitalizzazione,

problemi di accesso alla finanza internazionale, limitata

conoscenza delle operazioni e procedure di

internazionalizzazione, management legato all’evoluzione

familiare (Scortegagna, Zanin 2004). Nelle classifiche

Brasov nel 2003;20. Michelin Romania - Michelin Francia (produzione di gomme);investimenti per 60 milioni di euro; giro di affari nel 2004 di 143 milioni di euro;3.900 dipendenti; ha puntato sulla costruzione dello stabilimento Romsteel CordZalau, che si aggiunge alle fabbriche Victoria Floresti e Silvania Zalau.122 La dimensione delle imprese nel nostro paese è indubbiamente più ridotta rispetto aquella media europea. Le piccole imprese italiane (con meno di 10 addetti) danno oggiimpiego a un numero di occupati (più del 45%) che sono quasi il doppio della mediaeuropea. Le Pmi non sono, tra l’altro, affiancate da un ampio e vitale comparto di medie e grandi imprese. In vent’anni l’occupazione nelle aziende manifatturiere con più di 500 addetti è scesa al 15% dimezzando la propria incidenza,mentre in Germania è al 56% e inFrancia al 43%. Allo stesso tempo le imprese medie (100-400 addetti) rappresentano inItalia appena il 10% degli occupati contro il 15% dei tedeschi e il 16% dei francesi(Giorgetti, Romano 2003).

139

internazionali Unctad (Conferenza delle Nazioni Unite sul

commercio e lo sviluppo) o Eurostat (Ufficio statistico della UE)

l’Italia rimane sempre marginale, nonostante il suo livello di

consumi e della domanda complessiva sia tra i più alti a livello

europeo e mondiale. Il rapporto tra flussi di investimento

provenienti dall’estero e PIL è stato tra il 1992 e il 2000 pari al

3,8%, contro il 14,3% della Germania, il 17,4% della Francia e il

29,3% del Regno Unito, mentre il flusso di investimenti diretti in

uscita fra il 1992 e il 2000 è stato pari al 6,8% del PIL, contro il

20,9% della Germania, il 34,7% della Francia e il 57,9% del

Regno Unito123(Cominotti,Mariotti 2004). Questa breve

riflessione spiega, in parte, sia le difficoltà del paese ad ottenere

significativi investimenti dall’estero sia il fatto che gli

investimenti italiani verso l’estero non hanno il target e le

caratteristiche dei partner europei. Un’eccezione a questa regola

sembra esserci offerta dalla Romania, che continua a

rappresentare uno degli approdi principali delle piccole e medie

imprese italiane (e venete in particolare), anche se il flusso

complessivo degli investimenti risulta modesto, essendo pari a

707,98 milioni di euro (al 30 giugno 2005), collocandosi così al

sesto posto, in termini di valore, tra i vari capitali nazionali

presenti nel paese, ma al primo posto per numero di aziende

straniere esistenti, con 17.355 società miste romeno-italiane (Ice

2005). Nonostante la sovrastima delle imprese realmente

operanti124, l’influenza italiana a livello economico, sociale e

123 “L’Italia più moderna per una Europa più forte”, CentroStudi Confindustria, Parma,12-13 aprile 2002.124 Va infatti sottolineato che in molti casi si tratta di aziende che, pur avendo cessato lapropria attività, non sono state cancellate dal Registro. La stima realistica di una presenzaqualificata di aziende italiane dovrebbe aggirarsi intorno alle 4.000 unità, secondo i datidell’Organizzazione Nazionale del Registro del Commercio (ONRC). Altre fonti, riferendosi all’insieme delle partite Iva parlano di circa 9500-10000 imprese italiane concirca l’80% degli imprenditori proveniente dalle regioni nord-orientali del paese, mentre

140

culturale è fuori discussione. A conferma di ciò, giusto come

esempio, nel giugno del 2005 si è tenuta a Bucarest la prima

Assemblea nazionale di Unimpresa Romania125, l’associazione

che riunisce le imprese romene a capitale italiano, primo vero

tentativo di unire la grande presenza imprenditoriale in Romania

in vista della (probabile) entrata del paese nell’Unione Europea

del 2007126.

La presenza italiana in Romania è comunque avvenuta a tappe

forzate, dapprima con l’avvio di attività quasi sempre marginali

in termini di capitali investiti; si trattava di piccoli e medi

imprenditori fuoriusciti dal sistema produttivo italiano, e veneto

in particolare, a causa della crisi dei primi anni Novanta come

pure su impulso delle grandi aziende che controllavano il ciclo

produttivo. Questa fase si caratterizzava per una miriade di

investitori di modeste capacità, sia finanziarie che

quasi 2000 sarebbero quelli dalla sola provincia di Treviso (Deaglio 2001). Un’altra fonte rileva che le imprese realmente attive andrebbero però dalle 2500 alle 4000, dando lavoro amezzo milione di persone (Stella 2001); secondo la Camera di Commercio di Bucarestinvece, le imprese italiane registrate sarebbero circa 12 mila. Ma il vero problema, quandosi vuole censire il numero delle imprese, è quello di riuscire a far emergere quella realtàfatta di micro e piccole imprese che sfuggono alla classificazione europea delle Pmi (menodi 50 addetti, fatturato annuo inferiore ai 20 milioni di euro, non più del 25% del capitaledeve essere posseduto da imprese diverse, ecc.) ma che costituiscono una realtàimportantissima per le reti di impresa.125 Unimpresa Romania è un’associazione sorta il 24 luglio 2003 in risposta ad una domanda di rappresentanza formulata dagli imprenditori italiani presenti in Romania e danumerose autorità romene che, per le loro iniziative di sviluppo, cercavano comeinterlocutore professionale per l'Italia, un soggetto unico e rappresentativo. Essa è ilrisultato di un progetto di internazionalizzazione che ha visto le maggiori organizzazioni dicategoria italiane, Confindustria, Confartigianato e Ance (associazione nazionale deicostruttori edili) mettersi insieme in una fondazione di diritto romeno denominata "FundatiaSistema Italia Romania". Alla fondazione hanno poi aderito la Confagricoltura, laFederlegno-Arredo, le associazioni territoriali di Confindustria delle provincie di Belluno,Mantova, Padova, Pordenone, Prato, Reggio Emilia, Treviso e Vicenza, l'agenzia pubblicaper l'innovazione tecnologica Agitec spa, le finanziarie Finest e Nuova Europa e gli istitutidi credito Banca Italo Romena, Unicredit, Simest SpA, IMI SanPaolo. Il principale servizioofferto da Unimpresa ai propri soci è la rappresentanza presso le istituzioni di ogni sede e diogni livello, nei modi idonei per il Paese ospitante (cfr. http://www.unimpresa-it.ro ).126 Alla Assemblea hanno partecipato sia imprenditori che sindacalisti, politici (il Ministrodegli Esteri Gianfranco Fini e il vice ministro delle Attività produttive Adolfo Urso),uomini della finanza, diplomatici (l’Ambasciatore italiano in Romania) e alti rappresentanti della polizia (il capo dell’Interpool Paolo Sartori). La Romania si è presentata schierata al massimo grado, a partire dal presidente Băsescu, e poi quattro ministri e rappresentanti siadella maggioranza che governa il paese che dell’opposizione (Sacchi 2005).

141

imprenditoriali, attratta in special modo dal basso costo della

manodopera e dalla supposta modesta presenza di

regole127(Mariotti,Mulinelli 1994). E’ solo nel periodo

successivo, quando la stabilità politica e l’integrazione

economica si sono fatte più lineari, che giungono le imprese di

maggiori dimensioni, secondo un fenomeno simile a quello

sperimentato nella vicina Ungheria128. In questa seconda fase

l’imprenditoria italiana si dimostra maggiormente qualificata in

termini di professionalità e disponibilità di capitali, portando un

flusso di investimenti di notevole respiro in termini sia qualitativi

che quantitativi. Gli investimenti di maggior rilievo e più diffusi

sono avvenuti nel settore dell’industria calzaturiera e tessile. Dal

1995 in poi gli investimenti italiani sono difatti progressivamente

aumentati per arrivare a sestuplicarsi quattro anni più tardi, anche

se solo nel 2001 essi superano quelli diretti verso la Polonia

(Velo, Malocchi 2002).

Tabella n. 5.1–IDE italiani nei PECO(anni 1994-1999)PAESI 1994 1995 1996 1997 1998 1999 Cum.1994-

1999Composizione(%)

EstoniaPolonia

Rep. CecaSloveniaUngheriaBulgariaLettoniaLituaniaRomania

Slovacchia

1,659,617,36,8

45,21,40,00,07,80,5

0,031,117,914,494,11,10,00,1

11,12,3

4,321,211,411,966,91,10,00,29,99,8

3,818,236,921,871,92,30,02,3

32,618,9

2,853,762,55,2

26,72,40,32,3

69,36,2

n.d.50,1n.d.5,0

73,1n.d.n.d.n.d

59,4n.d.

12,5233,9146,065,1

377,98,40,34,8

190,137,7

1,221,713,66,0

35,10,80,00,4

17,73,5

127 Si trattava frequentemente di operatori, spesso in crisi per varie ragioni in Italia, allaricerca di facili profitti, poco attenti alle normative esistenti e ben disposti a usare metodipoco ortodossi per ottenere permessi e facilitazioni. Molte aziende create in questo periodo,spesso con partecipazione di soci locali, hanno successivamente abbandonato l’attività per motivi legati alla bassa professionalità, alla mancanza di adeguati capitali e per l’evolversi della situazione legislativa e fiscale del paese (Anselmi et al. 2003).128 Il governo centrale magiaro, tuttavia, ha sempre cercato di contrastare le produzioni apiù basso valore aggiunto (Sacchetto 2004).

142

Tot. Peco 140,1 172,2 136,8 208,6 231,4 187,6 1076,8 100,0

Fonte: elaborazioni dati UIC riportati da Istat-Ice

Dopo aver inizialmente investito nelle aree geografiche più

vicine quali la Transilvania e il Banato e nei centri industriali

contigui alla capitale (Ploieşti, Piteşti, Braşov, Călăraşi), il

capitale italiano sembra oggi più attento a differenziare la sua

collocazione. La reperibilità e i costi relativi alla manodopera

come pure un controllo fiscale meno saltuario e delle

agevolazioni molto convenienti spingono molti ad investire in

aree più lontane (Bacău, Brăila, Neamţ, Giurgiu, Zimnicea,

Teleorman, Hunedoara, Alexandria) (Cnel 2003).

Tab. n. 5.2–Numero di imprese registrate in Romania (1990-2002).

Fonte: Camera de Comerţ a României 2003.

Generalmente, gli investitori italiani, puntano sui contratti di

lavorazione “per conto terzi” con materie prime provenienti

dall’Italia, tipici del tessile, abbigliamento, calzature e pelletteria,

e che si stanno diffondendo in altri comparti produttivi. Si tratta

143

di lavorazioni di assemblaggio ad alto livello di ripetitività

(labour intensive) con un basso livello tecnologico che

richiedono, comunque, una certa dose di capacità tecniche e

facilità di adattamento alle variazioni dei cicli produttivi

(Ellingstad, 1997). Le delocalizzazioni attraverso joint venture e i

contratti stipulati con produttori locali per fornitura o

assemblaggio di parti di macchine o componenti di beni

industriali sono limitati, seppur in crescita; mentre, in molti casi,

il trasferimento delle imprese italiane in Romania riguarda solo

in parte il fenomeno della subfornitura, poiché si tratta di nuove

imprese, non solo manifatturiere ma anche agricole e di servizi,

che si costituiscono interamente nel paese e che tengono con la

regione di provenienza relazioni di tipo essenzialmente

commerciale, oppure producono solo per il mercato interno,

come nel caso delle imprese di costruzioni129.

Le imprese italiane presenti possono essere suddivise in tre

differenti tipologie:

Imprese che costituiscono il tipico frutto della

delocalizzazione: importano nel paese una parte delle

attività produttive, quelle a più alta intensità di

manodopera e di minore qualificazione, lasciando la parte

della produzione nobile in Italia. Un esempio è costituito

dalle imprese italiane di calzature che effettuano in

Romania le fasi della fabbricazione di tomaie e suole e

dell’orlatura, mantenendo in patria la fase a monte (taglio

delle pelli) e a valle (assemblaggio della calzatura finita)

del ciclo produttivo; si parla in questo caso di “produzione

internazionale integrata”.

129 Cfr. Messina 2000, pp.73-79.

144

Imprese sorte nel paese, non in connessione con precedenti

attività imprenditoriali italiane, che trasformano materie

prime locali sia per l’esportazione che per il mercato

interno. Esemplare è il caso dell’industria del legname,

vista la ricca presenza di foreste sia sul territorio romeno

che nelle regioni limitrofe, che permette di importare gli

stessi tipi di legno anche dai paesi confinanti: per questi

motivi la Romania è divenuta il principale mercato di

approvvigionamento dell’Italia nell’Europa centro-

orientale. La tassazione, in questo comparto è

particolarmente favorevole alle imprese: si stima che essa

sia pari al 5% sui profitti delle aziende che effettuano le

rispettive produzioni mediante l’acquisto di materie prime

in Romania130.

Imprese nate per soddisfare esigenze del mercato locale

(Anselmi et al. 2003).

Oggi l’Italia è il principale partner economico della Romania con

uno scambio di merci cresciuto di dieci volte dal 1991 al 1999,

quando è arrivato a 7478 miliardi di lire, e a un certo equilibrio

nella bilancia dei pagamenti. Secondo i dati del Dipartimento

Romeno del commercio, al 30 giugno 2005 l’Italia occupava

130 In merito all’industria del legno è necessario fare alcune considerazioni. Si intuisce come la relativa abbondanza di materia prima, unita a una normativa decisamentepermissiva, provochi la tendenza a un’eccessiva opera di disboscamento, che sarà tanto più spinta quanto più tardi si provvederà a porre vincoli legislativi per intervenire in manieraadeguata contro le ripercussioni negative in termini ambientali di questa pratica. Inoltre vaconsiderato che circa il 60% delle aziende italiane del settore presenti in questo paeseproduce semilavorati in legno massello, destinati alle successive lavorazioni in Italia,mentre circa il 40% realizza il prodotto finito non verniciato. Alcune aziende stannoaffrontando poi il problema della verniciatura a completamento dell’intero ciclo produttivo. Altri dati reperiti, riferiscono che circa l’80% del prodotto delle aziende italiane in Romaniaè destinato all’industria (in caso di semilavorati) e al mercato (in caso di prodotti finiti) italiani, mentre il restante 20% è diretto all’esportazione. Si registra quindi praticamente la totale assenza di sbocchi interni al paese per ciò che riguarda i prodotti in legno, per effettodel bassissimo livello di reddito che ne determina il vantaggio comparato e che limitafortemente i potere di acquisto della maggioranza della popolazione (dati UNITAL 2002).

145

sempre il primo posto nel volume totale degli scambi

commerciali della Romania con il 18,19% (4.597,1 milioni di

euro), di cui il primo posto all’export con il 20,63% (2.172,6

milioni di euro) ed all’import con 16,32% (2.424,4 milioni di

euro), rappresentando un saldo di 251,84 milioni di euro. Il

volume degli scambi bilaterali ha registrato un aumento, rispetto

allo stesso periodo del 2004, del 8,60% all’export e del 11,20%

all’import. Le esportazioni dell’Italia verso la Romania sono

concentrate nel settore manifatturiero. In particolare, i comparti

più rilevanti sono i prodotti tessili, che costituiscono il 28.3% del

totale delle esportazioni italiane, il cuoio e prodotti in cuoio e le

calzature (5.7%). Anche la composizione merceologica delle

importazioni italiane provenienti dalla Romania risulta

caratterizzata dalla prevalenza del settore manifatturiero. In

particolare, il comparto più consistente, con una quota del 33.4%

sull’import totale (per un valore di 1.226 milioni di euro nel

2002), è l’ abbigliamento, seguito dal settore delle calzature, che

costituisce il 24,9% delle importazioni italiane (Ice 2005).

Non si possono tuttavia analizzare i flussi di commercio fra Italia

e Romania senza parlare del fenomeno del Traffico di

Perfezionamento Passivo (TPP), costituito dai movimenti di

merci in uscita dall’Italia e destinate a subireperfezionamento

nel territorio romeno (esportazioni temporanee), e dai movimenti

relativi alle importazioni nel territorio italiano “a scarico di

esportazioni temporanee” (reimportazioni)131(Ice 2003). Più della

metà dell'interscambio commerciale tra Italia e Romania si

131 L’Istituto di Commercio Estero, però, si dimentica di dire che questa pratica permette dievitare le tasse all’importazione di materie prime e semilavorati, riesportati successivamente come beni finiti: l’imposta è così limitata alla differenza tra i due valori. Per lo Stato si tratta sostanzialmente di un abbassamento dei costi di produzionecomplessivi perdendo pezzi di sovranità sul proprio territorio.

146

svolge infatti nel contesto del traffico di perfezionamento: il

totale delle reimportazioni italiane nel 2002 ha rappresentato il

72% delle importazioni totali132. La crescita della presenza

imprenditoriale italiana in Romania, con una media nel periodo

1990-2004 di 907 imprese nuove all’anno, va da 626 imprese

all’anno nel periodo 1990-1995, 977 nel 1996-2000 e ben 1576

nel periodo dal 2001 al 2004. I settori di attività maggiormente

rappresentati nell’intero periodo di 15 anni, considerando le

imprese registrate, sono stati il commercio all’ingrosso e al

minuto (33%), l’intermediazione immobiliare (11%), il tessile-

abbigliamento (8%), l’agricoltura (7%) e le costruzioni, i

trasporti, la ristorazione, il legname e la pelle e calzature (tutti al

4%) (Aris 2004).

Tra le aziende italiane presenti in Romania esistono comunque

importanti realtà imprenditoriali (vedi tabella n.8) che hanno

trasferito nel paese considerevoli investimenti finanziari e

tecnologici, con una ricaduta in termini occupazionali di oltre

500 mila posti di lavoro creati tra impiego diretto ed indotto (Ice-

Mae 2004).

La presenza italiana é generalmente diffusa su tutto il territorio

romeno, anche se nel corso dell'ultimo decennio ha manifestato

la tendenza a concentrarsi in alcune aree geografiche.

Assumendo ora la regione come unità territoriale di analisi,

cercherò di fornire una descrizione preliminare della origine

132 In particolare, nell’ambito di alcuni tra i settori più significativi dell’export italiano in Romania, la quota di Traffico di Perfezionamento Passivo ammonta a più del 90% deltotale: per quanto concerne i prodotti tessili, ad esempio, il 95% avviene in regime di TPP;la medesima situazione caratterizza i settori del Cuoio e prodotti in cuoio (96,6%) e dellaCalzature (90,5%). Tali dati risultano inoltre confermati dalla quota di TPP che si rilevanell’import italiano, di cui quasi il 100% è costituito da “reimportazioni”; i casi più significativi sono quelli dei settori dell’Abbigliamento (98,9%) e della Calzature (98,6%) (Ice 2003).L’elevata quota di TPP è legata principalmente al basso costo del lavoro inRomania.

147

geografica e della composizione settoriale dell’interscambio

commerciale tra Italia e Romania, inquadrando il fenomeno nello

scenario più generale dell’attuale congiuntura economica.

Le imprese italiane presenti in Romania provengono in genere

dalle regioni centro-settentrionali: 84 dalla Lombardia (20%), 70

dal Veneto (17%), 45 dal Lazio (11%), 38 dall’Emilia Romagna

(9%), 36 dalla Toscana (9%); le altre in preferenza dalle regioni

orientali e adriatiche. I settori di attività vedono una prevalenza

del tessile-abbigliamento (16%), seguono il metalmeccanico-

siderurgico (15%), l’agroalimentare (10%), l’impiantistica e

strumentazione (8%), le costruzioni (6%), il legno e i mobili

(5%), le calzature e gli articoli in pelle (5%). L’analisi dei dati

regionali evidenzia la posizione preminente del Veneto, sia come

mercato di sbocco per i prodotti romeni, sia come origine delle

importazioni del paese (nel 2002 il valore dell’interscambio fra il

Veneto e la Romania è stato pari a 2.6 miliardi di euro). La

seconda regione, in ordine di importanza, è rappresentata dalla

Lombardia, seguita da Toscana, Marche, Emilia Romagna e

Piemonte. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale delle

imprese italiane in Romania, circa il 50% delle stesse sono

situate nelle province di Bucarest (31%), Timiş (12%) e Arad

(7%), come si evince dalla tabella seguente.

Tabella n. 5.3 - Localizzazione delle imprese italiane nelleprovince romene (Dicembre 2002).

N. % N. % N. % N. %

148

AlbaAradArgeşBacauBihorBistriţa

BotosaniBrăila

Braşov BucureştiBuzău

287 3,4935 11163 1,9197 2,3614 7,2

89 1,061 0,774 0,9

367 4,33861 45,5

69 0,8

CălăraşiCaraş-S.

ClujConstanţ.Covaşna

Dâmboviţ.DoljGalaţi

GiurgiuGorj

Harghita

43 0,5147 1,7743 8,8219 2,6

22 0,398 1,2

255 3,0117 1,4

41 0,550 0,639 0,5

HunedoarIalomiţa

IaşiIlfov

Maramur.Mehedinţi

MureşNeamt

OltPrahovaSălaj

218 2,641 0,5

138 1,6138 1,6223 2,6

50 0,6238 2,8173 2,0

85 1,0295 3,5

77 0,9

S.MareSibiu

SuceavaTelorm.

TimişTulceaVâlceaVaslui

VranceaTOTALE

135 1,6212 2,599 1,234 0,4

1448 17,042 0,574 0,939 0,5

113 1,38494 100

Fonte: Centro Estero delle Camere di Commercio del Veneto (2003).

Fig. n. 5.1–Distribuzione territoriale della presenza italianain Romania (su base provinciale).

Fonte: Antenna Veneto Romania Scala: 1:15.000.000

Fig. n. 5.2 - Principali settori delle esportazioni italiane inRomania (2002).

149

Fonte:elaborazioni su dati dell’istituto Nazionale Statistico della Romania

Fig. n. 5.3 - Principali settori delle importazioni italiane dallaRomania (2002).

Fonte: elaborazioni su dati dell’istituto Statistico Nazionale della Romania.

150

Fig. n. 5.4 - Le principali regioni italiane importatrici dallaRomania (2002).

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT

Fig. n. 5.5 - Le principali regioni italiane esportatrici verso laRomania (2002).

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT

Tra queste, rilevante la presenza dei nostri imprenditori nel Nord-

Ovest e, in particolare, nella provincia di Timişoara dove si è

riprodotto un vero e proprio modello distrettuale italiano (1.875

151

aziende italiane e miste registrate secondo i dati dell’ottobre

2004).

Tabella n. 5.4 - Elenco delle principali società italiane inRomania

Denominazione in Romania Denominazione e riferimenti in ItaliaAGIP ROMANIA SA AGIP PETROLI SPA –EnergiaALITALIA ALITALIA - Trasporto aereoANSALDO FINMECCANICA (GRUPPO IRI) -

MetalmeccanicaAUTO ITALIA FIAT AUTO SPA –AutovettureBUTAN GAS ROMANIA SA BUTANGAS SPA –EnergiaCOSTRUZIONI CALLISTO PONTELLO SRL TIRENNA SCAVI –CostruzioniDANIELI ROMANIA SRL DANIELI & C SPA –MetalmeccanicaIVECO SPA –Rappresentanza IVECO SPA –AutovettureFIBREX NYLON SA (GRUPPO RADICISPA)

GRUPPO RADICI SPA –Filati

FINSIEL ROMANIA SRL FINSIEL SPA CONSULENZA E APPLICAZIONIINFORMATICHE - Telecomunicazioni -informatica

GENERALA ASIGURARI SA ASSICURAZIONI GENERALI - AssicurazioniI.M.P. ROMANIA INDUSTRIAL CO. SRL(Industrie Maurizio Peruzzo)

OVATTIFICIO RESINATURA VALPADANA SPA -Tessuti non tessuti

IN.CO.M VRANCO IN.CO.M SPA - Tessile-abbigliamentoIPACRI ROMANIA SRL(ELSAG –FINMECCANICA)

ELSAG BANKLAB SPA - Telecomunicazioni -informatica

TEHNIC DEVELOPMENT SRL (GEOX SPA) GEOX SPA –CalzatureLUGANO CONFEZIONI SRL (MISS B) MISS B SRL - Abbigliamento.MARCONI SELENIA COMMUNICATIONSROMANIA SRL

MARCONI MOBILE SPA - Telecomunicazioni.

MASCHIO GASPARDO ROMANIA SRL MASCHIO SpA GASPARDO SEMINATRICI SpA -Macchine agricole

MERLONI ELETTRODOMESTICI MERLONI ELETTRODOMESTICI SPA -Elettrodomestici

PARMALAT ROMANIA SRL PARMALAT SPA –AlimentariPINUM PRODUCŢIE (NUSCO EUROPEANDOORS)

NUSCO EUROPEAN DOORS SNC -Arredamento legno –porte.

RARTEL SA (NUOVA TELESPAZIO –TELECOM)

NUOVA TELESPAZIO –TELECOM-Telecomunicazioni.

ROMITAL TELECOM SA SIELTE –TELESERVICE - TelecomunicazioniROMSTRADE SA ITALSTRADE SpA - Costruzioni (strade)SATURN SA (Alba-Iulia) UCIMU- Unione Costruttori Macchine Utensile

MetallurgiaSPEA GRUPPO AUTOSTRADEINGEGNERIA EUROPEA

AUTOSTRADE SPA - Costruzioni –autostrade

152

SNAMPROGETTI ROMANIA SRL SNAMPROGETTI –EnergiaSODO MIGLIORI ROMANIA SODO MIGLIORI SPA - GioielleriaSTEFANEL UNIVERSAL STEFANEL - Abbigliamento.TECHNOFLUID TECHNOFLUID SpA - Valvolame, caldaie

TOMEX –SEL (SCM INERNATIONAL SPA) SCM GROUP SPA - Metalmeccanica.NUOVA ARIO (VI.RO) VI.RO SPA - Metalmeccanica.WSC Romania WSC SpA - TelecomunicazioniZOPPAS INDUSTRIES ROMANIA ZOPPAS INDUSTRIES - Metalmeccanica.

Fonte: ICE 2005

Tra i settori più importanti, oltre a quelli tradizionali del

tessile/abbigliamento e della trasformazione del legname,

suscettibili di positivi sviluppi a breve-medio termine sono quelli

dell’informatica e telecomunicazioni (che dal 10 gennaio 2003

sono completamente liberalizzate) e delle costruzioni, nonché i

comparti che beneficiano - e beneficeranno - dei finanziamenti

UE (i già citati programmi Phare, Ispa, Sapard) quali:

infrastrutture, trasporti, ambiente, agroindustria e turismo rurale.

Le principali imprese italiane che hanno recentemente investito

in Romania sono Parmalat, Italstrade, gruppo Frati, Assicurazioni

Generali, Telecom, Fiat, Zoppas, Nusco, Butan gas, Merloni.

A partire dal 2000 si è inoltre rafforzata la presenza di istituti di

credito italiani nel Paese (Gruppo Veneto Banca) o desk operativi

(Banca Intesa BCI, Monte dei Paschi di Siena, Banca Popolare di

Verona); Unicredito ha acquisito il pacchetto di maggioranza

della turca Demirbank trasformandola in Unicredit Romania e,

infine, la Banca Popolare di Vicenza il 5% della filiale romena

dell'austriaca Volksbanken A.G. In particolare secondo un’analisi

elaborata dall’istituto Nazionale di Statistica romeno si segnala

l’importanza della Banca Italo-Romena Spa Italia e della Banca

di Roma Spa Italia.

153

Fig. n. 5.6 - Principali settori di destinazione degli IDE inRomania

Fonte: elaborazioni su dati ICE-Reprint (2002)

Fig. n. 5.7 - Regioni di provenienza degli IDE italiani inRomania.

Fonte: elaborazioni su dati ICE-Reprint (2002)

Gli investimenti italiani in Romania sono sostenuti ed

incoraggiati sia dal governo italiano che dall’Unione Europea.

154

Tanti sono i provvedimenti che vanno in questa direzione; tra i

più importanti ve ne sono tre dello Stato italiano e tre dell’UE

(che abbiamo potuto già analizzare in precedenza: essi sono il

programma Phare, il Sapard e l’Ispa). Tra i primi sono da

ricordare le leggi 100, 394 e 212. La legge n.100 è quella

istitutiva della Simest,la società dello Stato italiano che si occupa

principalmente di assicurare le aziende nazionali contro i rischi

degli investimenti, di incentivare la formazione di società miste

all’estero e di favorire, attraverso strumenti di mercato, la

competitività internazionale delle imprese italiane . Vengono

concessi aiuti, prevalentemente, ma non solo, finalizzati al

credito e che vedono nelle società miste anche la partecipazione

di Simest per un periodo di otto anni133. Con la legge 394 si punta

invece a sviluppare l’economia di mercato nei paesi dell’Est al

fine di favorire l’integrazione con l’Europa. Infine, la legge 212

si pone l’obiettivo di far transitare l’economia dirigista dei vecchi

governi comunisti in quella di mercato, secondo le logiche

comunitarie. Oltre al già citato Simest, esistono altri 2 operatori

che accompagnano, come sistema Italia, l’internazionalizzazione

delle imprese: l’Ice, attivo nella promozione istituzionale sui

mercati internazionali e in Italia e la Sace, come strumento di

assicurazione dei rischi in campo internazionale (Marini 2004b).

6. Nord-Est & Nord-Ovest: 2 Stati, 2 regioni, un

133 il 55% delle risorse di Simest è concentrato nei paesi dell’Europa centro-orientale tra iquali i più importanti sono l’Ungheria, la Romania e la Polonia. Unaltro 16% di risorse èdestinato all’America Latina e l’11% all’Asia (Geroni 2000).

155

imprenditore.

Protagonista di questa parte conclusiva del lavoro è una regione

italiana che si è imposta all’attenzione internazionale per il suo

sistema produttivo diffuso, costituito da imprese di piccole e

medie dimensioni e da aspetti di (apparente) integrazione sociale.

In effetti, a partire dagli anni Ottanta, il Veneto si ritrova al

centro di un vivace scambio internazionale a proposito del suo

rapido sviluppo industriale e dei suoi elevati tassi di crescita134. Il

dibattito non è stato privo di discutibili richiami ideologici che

imputavano a una (presunta) etica settentrionale del lavoro il

successo economico. Su questa base è stato creato il concetto di

“modello Veneto”, poi ampliato a “modello Nord-Est”135. Esso

trae origine dagli studi sulla “Terza Italia” che si distinguerebbe

dall’Italia del triangolo industriale del Nord-Ovest e dal

Meridione (Bagnasco 1977).

L’economia veneta avrebbe costruito il proprio successo grazie

alla crisi del “modello fordista” e ad alcuni fattori quali la

distribuzione sociale della conoscenza, la diffusione di pratiche

cooperative e il lavoro auto-organizzato (Anastasia, Corò 1996).

Ma come è stato acutamente notato, “la letteratura

distrettualistica più che rivendicare la centralità del lavoro e del

contesto locale, rivendica la centralità dell’impresa privata”

134 Per approfondire questo dibattito si vedano i libri di Blim M., 1990, Made in Italy:Small-Scale Industrialization and Its Consequences, praeger, New York; e di Harrison B.,1994, Learn and Mean. The Changing Landscape of Corporate Power in the Age ofFlexibility, BasicBooks, New York (trad. it., Agile e Snella, Edizioni lavoro,Roma, 1999).135 Il Nord-Est, così come viene comunemente configurato in quanto modello economico,ha chiare demarcazioni territoriali e riguarda principalmente la fascia collocata tra leprovince di Pordenone, Treviso e Vicenza. L’Alto Adige e buona parte del Friuli e della Venezia Giulia segnalano uno sviluppo economico diverso (Stella 1996). Per contro unasignificativa fascia del Veneto meridionale svolge la funzione di ammortizzatore dei cicli diespansione e di recessione economica sia nei confronti dell’area posta immediatamente a nord sia di altre aree produttive italiane. L’Istat invece, intende per Nordest l’area che comprende le regioni del Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Trentino-AltoAdige.

156

(Barrocci 1998, p.161), finendo per spingere ai margini le

peculiarità storiche dell’industrializzazione veneta del secondo

dopoguerra. Essa si era sviluppata soprattutto grazie all’impiego

intensivo della manodopera, a una bassa produttività per addetto

e a salari mediamente inferiori a quelli nazionali (Borsello 1984,

p.221). Il ricordo delle migrazioni136 – il saldo regionale

diventerà infatti positivo solo nel 1968 - induceva i Veneti a

insistere con tenacia sulle possibilità occupazionali in loco,

cercando di evitare per quanto possibile di ripercorrere le faticose

strade del lavoro oltreoceano, nell’Europa occidentale e

nell’Italia del Nord-Ovest (Sacchetto 2004). Così, almeno fino

alla fine degli anni Ottanta, la piccola imprenditoria locale fece

affidamento sulla costruzione di rapporti lavorativi localistico-

parentali che consentivano una soddisfacente accumulazione ed

evitavano l’emergere delle contraddizioni tipiche dei processi di

rapido sviluppo capitalistico. Successivamente, però, la lenta

crescita delle distanze sociali all’interno di queste comunità

produttive accompagnata da una discreta espansione economica

ha indotto una parte di questi imprenditori a varcare i confini

nazionali per le difficoltà di far fronte, a livello locale, a questo

processo di crescente differenziazione sociale. Al contempo,

nell’ultimo decennio, il Veneto (e tutto il Nord-Est) si è

caratterizzato come un’area di immigrazione, in particolare dopo

la crisi del 1993-1994, principalmente per soddisfare le esigenze

del sistema produttivo. Si tratta, però, di un caratteristico “doppio

movimento”: da un lato il trasferimento di segmenti produttivi

nell’Europa orientale e nel Mezzogiorno italiano, come pure

136 Corsi e ricorsi storici: a partire dal diciottesimo secolo sbarcarono in Romania, in cercadi lavoro, maestranze esperte nel campo delle costruzioni, muratori, lavoratori della pietra,decoratori (la maggior parte dei quali provenienti dalle regioni del Nord-Est italiano) che sistabilirono principalmente aTimişoara, a Iaşi, a Tulcea e a Crăiova (Cosma 1996).

157

nelle aree limitrofe, quali ad esempio le province di Venezia e

Rovigo, e dall’altro un’azione di richiamo di manodopera

meridionale e di migranti stranieri provenienti sia direttamente

dai paesi d’origine sia da altre regioni italiane.

A questo punto, per avere una visione più chiara del contesto

analizzato, mi sembra opportuno fare un breve riferimento

(storico) agli avvenimenti che hanno interessato il Nord Italia (e

chiaramente il Nord-Est) a partire dagli anni Cinquanta del

secolo scorso. A quel tempo l’area del Nord-Est non era ancora

caratterizzata da forme di decentramento produttivo che si

poggiavano sulla piccola imprenditoria locale, trovandosi ad

essere terra di un confine piuttosto marcato. Come la Corea del

Sud in Asia, così l’Italia settentrionale e centrale in Europa è uno

dei luoghi centrali in cui, dalla fine della seconda guerra

mondiale, si dispiega la necessità di una risposta statunitense per

raffreddare le simpatie verso il blocco sovietico alimentate dal

più consistente partito comunista occidentale (Gambino 2003)137.

L’iniziativa statunitense verso le società europee dopo la seconda

guerra mondiale si tradusse nel Piano Marshall138. Esso perseguì

alcuni principi del New Deal, in particolare per quanto riguarda

l’esigenza di una ricomposizione sociale che mettesse fine alla

contrapposizione tra città e campagna e che depotenziasse la

conflittualità delle relazioni industriali e della vita politica

137 Nei primi tre mesi del 1948 l’amministrazione di Washington concesse aiuti all’Italia per 176 milioni di dollari; il flusso degli aiuti statunitensi sotto il programma Erp tra il 1948e il 1952 fu pari a oltre 1,4 milioni di dollari, cioè circa l’11% del totale degli aiuti mandati in Europa. Gli aiuti costituirono il 2% del Pil italiano per un periodo di 4 anni (Ginsborg1996,pp.90-91,123).138 Il programma di assistenza tecnica previsto dal Piano Marshall, si poneva l’obiettivo di una maggiore efficienza degli impianti industriali dei paesi coinvolti attraverso larieducazione ai metodi statunitensi non solo della forza lavoro, ma anche di sindacalisti,tecnici, impiegati e manager grazie a un programma che coinvolgesse sistematicamentetutta la sfera industriale (Ellwood 1983, p.28). Non mancarono risvolti più direttamentepolitici volti a incentivare il sindacato non comunista alla compartecipazione produttivaintegrandolo nelle responsabilità del buon andamento aziendale.

158

generale (con particolare riguardo alla situazione politica italiana,

terreno fertile per l’affermazione di forti scontri ideologici)139.

Questa campagna ideologica della produttività puntò con

precisione su quell’area d’Italia che costituirà poi la base di

sviluppo delle piccole e medie imprese: Veneto, Emilia Romagna

e Toscana140. Al contrario, le altre aree italiane saranno toccate

marginalmente da queste iniziative, quando non totalmente

ignorate (Coli 2002, p.42). Nel corso degli anni Sessanta, la

combinazione di nuovi sistemi di produzione e di un

assistenzialismo clientelare all’imprenditoria, attivati dalla

Democrazia cristiana, permise il diffondersi di piccole imprese

che agivano nei settori a più basso contenuto tecnologico in

regime di subfornitura grazie soprattutto a incentivi e

provvedimenti speciali piuttosto che alla capacità autonoma di

“stare sul mercato” (Roverato 1996,pp.241-253). Sia il Piano

Marshall che i Centri provinciali di produttività, accompagnati da

139 A questo proposito occorre ricordare che “nonostante la durezza dello scontroideologico che sembrava spaccare il paese in due diverse metà e nonostante l’esistenza di una chiara conventio ad excludendum nei confronti del Pci [e quindi della Cgil],costantemente relegato al suo ruolo di opposizione, il gruppo parlamentare comunista neglianni compresi tra il ’48 e il ’68 votava mediamente a favore del 74 per cento delle leggi approvate” (Gualmini 2000).140 Per queste ed altre regioni dell’Europa occidentale vennero elaborate, da parte statunitense, “i 14 punti per la produttività”, al fine di generare un salto di qualità verso una dinamica più decisa di investimenti e consumi: “i centri nazionali della produttività, da costituirsi in ogni paese, erano la chiave di volta dell’intera proposta”. Il Cnp (Comitato nazionale della produttività) costituito nell’ottobre del 1951 avrebbe dovuto favorire la nascita di centri provinciali attraverso la cooperazione permanente tra dirigenti industriali,forza lavoro e governo. Il primo di questi centri fu quello di Vicenza, nota roccafortedemocristiana. L’area presentava una varietà produttiva di piccole e medie imprese e soprattutto offriva un’imprenditoria legata alla tradizione paternalista di cultura prevalentemente cattolica e una forte presenza della Cisl (Coli 2002, p.20). Le pratichetayloristiche e i precetti imprenditoriali sperimentati oltreoceano venivano così assunti inuna propria configurazione a partire da un’area che, pochi anni più tardi, avrebbe ospitato una delle più grandi basi militari statunitensi nell’Europa occidentale. Attraverso questicentri di produttività provinciali, tecnici e consulenti italiani (in minima pare) e stranieri(prevalentemente statunitensi) cercavano così di diffondere e affinare una versioneaggiornata del taylorismo, offrendo consulenza organizzativa per le direzioni aziendali, perla formazione dei capi, ma anche per l’istruzione del personale. A questo punto sorge spontaneo un parallelismo con la situazione romena dei primi anni Novanta quandoconsulenti e tecnici stranieri (prevalentemente statunitensi) “invadono” il Paese con l’intento di divulgare le bontà del libero mercato. Successivamente la Romania, come gli altri paesi ex-comunisti, darà accoglienza a decine di basi militari Nato.

159

sostanziosi incentivi ed agevolazioni, innescarono modificazioni

profonde a livello sociale ed economico che furono all’origine

dell’affermarsi della Terza Italia e del Nord-Est in particolare.

Negli anni Ottanta, la disfatta sociale nel Veneto come altrove,

rappresentò l’avanzata delle richieste padronali sostenute da una

parte delle organizzazioni sindacali ancora impaurite dalla forza

e dall’autonomia espressa dal movimento operaio negli anni

precedenti (Bellofiore 1998). Il contemporaneo processo di neo-

industrializzazione nazionale promosse il Veneto alla seconda

posizione dopo la Lombardia con 15 addetti manifatturieri ogni

100 abitanti, permettendo alla provincia di Vicenza di detenere,

nei primi anni Novanta, il più elevato tasso di industrializzazione

in Italia (21 addetti contro una media nazionale di 9) seguita da

Modena e Treviso (Anastasia,Corò 1996, p.53). Per tutti gli anni

Novanta il sistema produttivo Veneto (e del Nord-Est) si basò

quindi sul settore manifatturiero, affidandosi a produzioni seriali

di piccole e medie imprese, talvolta raccolte in aree spazialmente

delimitate e segnate da un basso grado di investimento

tecnologico. Tra gli aspetti più nascosti nel retroscena del

“miracolo veneto”, infatti, il basso livello di ricerca e di sviluppo

è l’elemento probabilmente cruciale nel medio periodo (Veneto

Innovazione 1999). Siamo infatti di fronte a una regione che per

molti anni è rimasta poco attrezzata a competere sulle fasce alte

del mercato, ma che ha potuto contare sulla svalutazione

competitiva della moneta (Bellofiore 1998), su di una forte spinta

individuale a sfuggire allo stigma della condizione operaia per

crearsi un lavoro formalmente autonomo e su processi di

160

stratificazione del mercato del lavoro con l’apertura a una mano

d’opera internazionale141.

Comunque, è solo fra il 1992 e il 1993, dopo aver in precedenza

esternalizzato, affidando ad altre imprese alcune loro funzioni,

che le maggiori imprese venete iniziarono, in modo sistematico, a

reintegrare o spostare a livello internazionale alcune fasi che

precedentemente erano appaltate. La maggiore flessibilità della

media e grande impresa proviene oltre che dalle forme

contrattuali ora disponibili (uso intenso di contratti di formazione

e lavoro e di quelli a termine, dell’apprendistato, del lavoro

interinale, delle cooperative) anche dalla possibilità di reperire i

semilavorati o gli spezzoni produttivi necessari in altre aree a

costi inferiori. La facilità dei collegamenti a distanze limitate

consente agli imprenditori di pilotare a vista gli impianti

produttivi, fronteggiando rapidamente qualsiasi inconveniente

(Spaventa,Monni 2005). In effetti, in molti casi la possibilità di

essere presenti in modo continuativo risulta essenziale al fine di

ottenere un livello produttivo costante ed adeguato. Le necessità

produttive imperniate sulla bassa permanenza di merci all’interno

dei magazzini e su di una crescente rapidità di consegne

sembrano nel medio periodo un obiettivo inderogabile.

Non c’è dubbio che queste scelte di delocalizzazione sono

influenzate dalla presenza di tradizioni e di vocazioni

preesistenti142; naturalmente l’aspetto vocazionale prescinde

dall’effettivo livello di sviluppo nel frattempo raggiunto dalle

141 L’importanza di uno strumento prettamente politico come la svalutazione della monetaper le imprese venete salta agli occhi in particolare dopo l’introduzione dell’euro. Infatti, una recente ricerca ha messo in luce come le Pmi siano oggi in forte ritardo e si rivolgonoagli investimenti in tecnologia informatica, all’introduzione di prodotti innovativi e a maggiori spese per la ricerca e lo sviluppo (Morino 2002).142 nel senso che l’imprenditore che opera tale scelta va generalmente alla ricerca di situazioni dove esiste già una qualche forma di lavoro industriale o nel medesimo settoreoggetto della delocalizzazione o in settori vicini.

161

unità di produzione. Esso infatti non si misura in termini di

produttività o attraverso l’applicazione di semplici parametri

economici; la vocazione piuttosto è riscontrabile negli

atteggiamenti di fronte alle diverse fasi del lavoro, nei modi di

pensare, nella predisposizione a recepire e a trasferire know how

attraverso la comunicazione informale, oltre a quella formale, nei

linguaggi del parlare quotidiano e in quelli della socializzazione

vera e propria ecc. Per questo gli imprenditori hanno privilegiato

aree geografiche dove già esistevano insediamenti industriali; li

hanno rilevati e hanno iniziato a modificare i processi lavorativi,

tentando di conservare quanto di conservabile c’era delle

esperienze precedenti, evitando quindi di avviare attività

produttive in ambienti culturali tradizionalmente orientati ad altre

forme di vita (Turato 2001). Occorre sottolineare che con la

delocalizzazione si trasferisce anche il modello culturale

dell’azienda, un modello maturato là dove l’azienda stessa è nata

e cresciuta, che dovrà però confrontarsi e inserirsi in un nuovo

contesto culturale e sociale.

Si tratta di una questione che presenta degli aspetti originali, in

quanto non ci sono precedenti significativi da cui trarre

indicazioni sul come comportarsi. Nella esperienza industriale

tradizionale del Nord-Est infatti c’era un interscambio continuo

tra le esigenze della produzione maturate all’interno della

fabbrica e il modo di pensare, le abitudini, l’organizzazione della

vita quotidiana dell’ambiente esterno. La cultura aziendale,

quindi, risultava fortemente connessa con il modello culturale

che rappresentava l’ambiente dell’organizzazione, al punto che

sarebbe molto difficile stimare il grado d’influenza esercitato da

un fenomeno sull’altro e viceversa (Schiattarella 1999b). In altre

162

parole sarebbe impossibile, in molti casi, stabilire quanto la

cultura ambientale preesistente abbia contribuito ad alimentare lo

sviluppo industriale o, al contrario, quanto debba essere

riconosciuto all’industria un ruolo attivo nel modellare una

cultura congrua con le proprie esigenze e con le proprie

caratteristiche. D’altra parte, il processo di sviluppo industriale e

quello di cambiamento culturale sono “fisicamente”

sovrapponibili.

In passato, l’osmosi tra il contesto ambientale e l’organizzazione

aziendale era così alta che appariva inutile la ricerca di eventuali

differenze; così si assisteva ad una semplice omologazione dei

contenuti culturali dominanti nell’ambiente e l’azienda veniva

identificata nel suo semplice ruolo strumentale, connesso con la

funzione produttiva. Soltanto nella seconda metà del Novecento

si è cominciato ad affermare che l’organizzazione di fabbrica è di

per sé produttrice di modelli culturali e di comportamenti,

nonché omologatrice e socializzatrice di valori e di norme. Da

poco tempo, quindi, si riconosce una cultura organizzativa,

destinata ad estendere la propria influenza anche oltre i confini

dell’organizzazione stessa, ma anche ad assorbire gli stimoli

provenienti dall’ambiente esterno e dagli ambienti di vita di

quanti hanno rapporti con l’azienda143 (Scortegagna et al.,2003).

Fatto questo breve richiamo agli aspetti (meno discussi ed

esplicitati) della delocalizzazione144, non resta che riprendere il

discorso sull’apertura al commercio internazionale delle province

venete, sottolineando come la Romania diventò in breve tempo lo

143 Cfr. E. H. Schein,Culture d’impresa, Raffaello Cortina, Milano, 2000144 Questa breve annotazione è peraltro il riferimento base per concepire l’organizzazione come una costruzione sociale e quindi identificare l’impresa come uno dei soggetti sociali che operano nella società con una propria dimensione; una dimensione finalizzata nonsoltanto a produrre ricchezza materiale, ma anche beni di carattere immateriale,direttamente connessi comunque con la produzione e con il mantenimento del benessere .

163

slogan più agitato dalla propaganda della piccola e media

imprenditoria italiana durante tutti gli anni Novanta: la “terra

promessa” del padronato del Nord-Est.

Effettivamente, la regione del Nord-Ovest - dove si trova la città

di Timişoara – porta i segni indelebili della profonda

ristrutturazione in corso. In questo contesto, particolarmente forti

sono le ripercussioni sulle relazioni sociali, in particolare nei

piccoli centri abitati, generate dalla massiccia presenza dei

conquistadores italiani, nonostante la sensazione condivisa (dalla

maggior parte degli autoctoni) che ci si trovi dinanzi a una sorta

di processo di colonizzazione. Il capitale straniero, infatti, entra

nelle comunità locali con il suo personale, disintegrando i legami

sociali e proponendo modelli comportamentali più esigenti, in

fabbrica come pure all’esterno. Ma nel tentativo di indicare la

direzione del cambiamento, si prepara il terreno a nuove

migrazioni: i comportamenti pubblici e privati degli stranieri

nell’area romena, funzionano infatti come una enorme vetrina del

mondo occidentale145. Come infatti ho potuto appurare in prima

persona, il sentimento prevalente dei Romeni in quest’area,

mostra una evidente percezione di un capitale migrante italiano

in movimento verso aree dove poter esprimere la propria

potenza: un’agibilità, anche politica, altrove vietata. Dopo dieci

anni di duro confronto con il capitale internazionale, i lavoratori

romeni etichettano prontamente gli investitori stranieri sulla base

del paese di provenienza e della merce che essi intendono

produrre; la conseguente consapevolezza però, non impedisce il

145 Non è però solo il riflesso della vita occidentale a risaltare: si tratta piuttosto del sistemacomplessivo di comportamenti sociali. Durante le mie ricerche, infatti, diversi autoctonisottolineavano con una certa invidia la fama di “don giovanni”(sic!) del maschio italiano e la sua continua voglia di divertimento, tra bar, discoteca e night club.

164

loro successivo adattamento, indispensabile per ottenere un

salario.

Per una parte dell’imprenditoria italiana presente in Romania,

questo paese rappresenta anche il tentativo di ricostruirsi una

nuova vita, con la messa in discussione delle proprie scelte

esistenziali e con un’idea abbastanza impropria di avventura. Si

tratta altresì di un bisogno di confrontarsi con nuove sfide e di

misurarsi con elementi quali la fatica, il rischio e la voglia di

trasgressione146.

Una parte di questi stessi imprenditori, risiede in modo più o

meno stabile nel paese, al contrario delle grande imprese che

preferiscono solitamente far ruotare il personale italiano

all’estero al fine di mantenerlo “straniero” rispetto al territorio in

cui lavora, per contrastare l’eventuale “romenizzazione” (Zanin

2002). Si cerca così di impedire che i tecnici italiani “rimangano

assorbiti troppo nella cultura locale e di conseguenza, possano in

qualche modo dimenticare lo stile imprenditoriale di origine,

dove qualità e flessibilità sono comunque a traino della logica

della produttività” (Stradi 2000, p.107). Questi tecnici

“trasferisti”147 quindi, finirebbero per imparare le abitudini locali,

adagiandosi a livelli produttivi più modesti e a contrattare troppo

146 A Timişoara, ad esempio, le donne più pessimiste stimano che una donna su quattro si fasponsorizzare da qualche maschio italiano, mente le donne più ottimiste negano, dicendo“una su sette”. La notte di fuoco più costosa arriva a 100 euro ma ci si può arrangiare con molto meno (Stella 2001).147 I tecnici “trasfertisti” sono una categoria relativamente recente, occupati sia nelle areepiù vicine all’Italia (Tunisia, Turchia, Ungheria, Ucraina) che nell’estremo Oriente (Cina, Thailandia). Essi godono di contratti e salari variabili (dai 2-3 fino a 5 mila euro) secondouna scala basata sulle loro esperienze precedenti, sul paese in cui operano compresa lalontananza dall’Italia, sulla dimensione aziendale e sulla tipologia del prodotto. Questi “mercenari” dispongono solitamente di un livello di competenza tecnica inferiore rispetto a quanti rimangono in Italia, ma sono più abili a districarsi nelle maglie burocratiche o nellarisoluzione rapida della gestione della manodopera. Le loro qualità risiedonoprincipalmente nella capacità di adattamento alle nuove relazioni lavorative e di gestione dicicli produttivi meno lineari (Sacchetto 2004, p.146)

165

informalmente con gli stessi individui, dei quali, prima o poi, si

troveranno a giustificare e a comprendere i comportamenti148.

Nel frattempo, il nuovo sistema produttivo e sociale romeno,

cerca di incentivare la diffusione dell’imprenditoria autoctona

soprattutto attraverso iniziative governative; tuttavia, dopo una

forte crescita iniziale del numero di imprenditori (nel 1993 erano

il 6,6% degli occupati) si nota un repentino declino: nel 2000 gli

imprenditori rappresentano solo l’1,1% di tutti gli occupati

(Stanculescu,Berevoescu 2002, p.195). Gli imprenditori romeni,

solitamente di origini sociali e livelli di istruzione elevati,

dispongono di scarsa esperienza nel lavoro industriale e nelle

abilità manuali149. In ogni caso, gli imprenditori che godono di un

certo successo non sono quanti forniscono i servizi alla

popolazione o i produttori, ma coloro che svolgono un’attività di

mediazione, i brokers. Questo successo ha seguito spesso strade

tortuose, non esclusi investimenti finanziari e scambi

commerciali illegali. L’accumulazione di capitale, già in atto

negli ultimi anni del periodo socialista quando l’economia

clandestina aveva acquistato un certo peso, accelera dopo la

rivoluzione quando si forma una nuova classe di capitalisti,

popolarmente chiamati “i miliardari di cartone”, spesso legata

alla vecchia nomenklatura (Pasti 1997,p.308). La gerarchia dei

rapporti sociali dell’epoca di Ceauşescu viene sostanzialmente

sostituita dal nuovo sistema di produzione che impone una

divisione del lavoro legata più all’efficienza economica che alla

148 Come hanno rilevato Scortegagna e Zanin (2003, pp.49-50), le donne italianetrasfertiste, di breve periodo in Romania sono talvolta tentate di prendere le parti delledonne lavoratrici, un fatto questo che provoca disagio manageriale. Per contro, leimprenditrici italiane, vivono prevalentemente l’impatto con la Romania come una delle opportunità offerte dal mercato.149 Dotati di precedenti esperienze in qualità di manager all’interno di aziende statali,essipercepiscono gli altri imprenditori solo come concorrenti piuttosto che come possibilipartner, mostrando così una certa indifferenza rispetto alla mutua solidarietà o allapossibilità di associazione tra pari (Dochia 1999).

166

capacità di gestione politica tipica del sistema precedente. In

questo trapasso l’ideologia manageriale dei costi e dei benefici

economici immediati, mutuata dall’Occidente, sembra vincente.

La presenza costante del personale straniero lubrifica questi

meccanismi legittimando i nuovi comportamenti da tenere. A

Timişoara, come nelle principali città investite dal capitale

internazionale, l’egualitarismo del periodo di Ceauşescu sembra

essere superato.

La città simbolo della Rivoluzione romena, Timişoara, che

nell’‘89 alzò per prima la voce contro Ceauşescu e il regime

comunista, è infatti diventata il simbolo della presenza italiana (e

veneta) in Romania. Sia in Romania che in Italia, in materia di

delocalizzazione, si parla oramai del ”fenomeno Timişoara” e di

“Timişoaraprovincia veneta”.

Questa città dell’Ovest del Paese, vicina al confine con Serbia e

Ungheria, ha avuto da sempre una mentalità più occidentale,

grazie alla posizione geografica e anche alla sua particolare

composizione etnica. La città e i suoi dintorni, infatti, sono

sempre stati ritenuti dagli investitori esteri una delle aree più

interessanti della Romania post-Ceausescu. La regione è ricca di

risorse naturali: petrolio, metano, minerali, marmo, miniere.

Timişoara ha anche la maggiore produzione agricola della

Romania. Quasi 1000 società di export hanno sede nella città,

facendone il terzo centro di esportazione romeno. Essa è, inoltre

un attivo centro finanziario e bancario con più di 30

rappresentanze e sedi centrali di banche, tra le quali ABN-

AMRO, Banca Franco-Romena, Banca Italo-Romena e

Bucureşti-Frankfurt Bank. La regione di Timişoara dispone, poi,

delle migliori infrastrutture della Romania: quasi 3000 km di

167

strade e 787 km di ferrovia. La città è anche sede del Timişoara

International Airport, il secondo del paese, con un traffico di

160.000 viaggiatori e 500 tonnellate di merci all'anno (Dimitrov

2003).

Ora, Timişoara, con una ricca realtà multietnica (qui vivono

insieme Romeni, Ungheresi, Tedeschi) ha accolto un'altra

“minoranza”: quella degli imprenditori italiani. Ai 330 mila

abitanti di Timişoarasi aggiungono quasi 10 mila italiani, un

terzo dei quali provienente dal Veneto. Sono più di 1600 le

aziende a capitale italiano che operano nella zona su un totale di

quasi 18 mila registrate nel Paese. Precisamente, nel 2002, il

numero delle compagnie italo-romene nella contea di Timişera

pari a 1448, 392 delle quali (27%) provenienti dal Veneto. Le

aziende trevigiane erano le più numerose (27%), seguite da

quelle provenienti da Padova (21%), Vicenza (20%) e Verona

(12%). I maggiori settori di attività erano: distribuzione

all’ingrosso (14%), agroindustria (14%), servizi (13%),

calzaturiero/lavorazione pelli (8%) e abbigliamento (8%).

Tab. n. 6.1 –Presenza italiana e veneta in Romania aconfronto.

168

Fonte: Centro Estero Veneto 2003

Come si po’ osservare, circa il 50% delle imprese italiane in

Romania sono localizzate nelle province di Bucarest (31%),

Timiş(12%) e Arad (7%). La stessa percentuale delle imprese

venete (47%) è localizzata nelle stesse tre province ma con una

maggiore concentrazione nelle province di Timişe Arad (19% a

testa).

Tab. n. 6.2 - Localizzazione degli investimenti veneti e italianinelle province romene (dicembre 2002).

N° Provincia N° Societàvenete

% di societàvenete nella

provincia

% di societàitalianenella

provincia

Nr.Societàitaliane

1234567891011121314

TimişAradBihorBucureştiClujMaramureşAlbaBraşovSibiuHunedoaraCaraş-SeverinMureşSatu mareBacău

392364209206134625653535036353432

19,2317,8610,2610,116,583,042,752,602,602,451,771,721,671,57

27,0738,9334,045,34

17,9627,8019,5114,4425,0022,9424,4914,7125,1916,24

1448935614

3861746223287366212218147238135197

169

15161718192021222324252627282930313233343536373839404142

Bistrata-NăsăudSălajBrăilaOltPrahovaArgeşNeamtCălăraşiGalaţiConstanţaBuzăuDâmboviţaIaşiTulceaVâlceaGorjSuceavaDoljVranceaBotoşaniHarghitaIlfovMehedinţiIalomiţaVasluiCovasnaGiurgiuTeleorman

2322191919161615151413131312121111109766654330

1,131,080,930,930,930,790,790,740,740,690,640,640,640,590,590,540,540,490,440,340,290,290,290,250,200,150,150,00

25,8428,5725,6822,356,449,829,25

34,8812,826,39

18,8413,279,42

28,5716,2222,0011,113,927,96

11,4815,384,35

12,0012,2010,2613,647,320,00

89777485

29516317343

1172196998

13842745099

2551136139

138504139224134

TOTALE 2038 100,00 16,48 12366Fonte : Antenna Veneto-Romania 2003

ATimişoara basta inoltrarsi di due o tre chilometri in periferia ed

iniziano a spuntare a decine le aziende italiane. In Romania è

stato esportato il cosiddetto “modello dei distretti”150. Un caso

150 Il termine “distretto industriale” risale alla fine del 1800, quando Alfred Marshall notò che una serie di piccole imprese specializzate nello stesso settore realizzavano economie discala esterne all’impresaattraverso allocazioni industriali. Secondo Pyke e Sengenberger(1990), i distretti sono sistemi produttivi geograficamente definiti, caratterizzati da unlargo numero di imprese che sono collegate fra loro (a vari livelli e in modi differenti)nella produzione di uno stesso prodotto. Più specificamente, Becattini (1998) ci parla del“distretto industriale” come di “un’entità socio-geografica che è caratterizzata dallapresenza attiva di una comunità di persone e di un insieme di imprese in un contestostorico e geografico con proprie specifiche caratteristiche”.Oggi, i distretti industriali italiani, riconosciuti giuridicamente dalla legge 317/91,sono(secondo l’Istat) poco meno di 200. si tratta di zone caratterizzate da un’alta concentrazione di piccole e medie imprese,generalmente artigiane,specializzate in una determinataproduzione e collocate su una medesima area territoriale. All’interno del distretto le

170

tipico è quello della Geox, partita con 50 dipendenti e ora

arrivata a contarne quasi 2 mila, distribuiti su tre turni di otto ore.

In sostanza qui, come in altri casi, si lavora 24 ore su 24. E si

produce. Ogni giorno, 7 mila paia di scarpe Geox partono dalla

contea di Timiş verso l’Italia; ogni settimana, 20 camion. Quasi il

20% produzione globale della Geox e’ realizzata a Timişoara.

Prendendo spunto proprio dalle molteplici attività dall’azienda

trevigiana, non è possibile nascondere il fatto che questa

importante presenza italiana nell'economia romena sia stata

possibile anche grazie ad un forte appoggio politico151. La

diffusione del modello industriale del Nord-Est è sostenuta anche

attraverso numerosi incontri e conferenze con relatori italiani che

si susseguono nell’area di Timişoara e Arad. L’Unindustria di

Treviso, ad esempio, cercando di incalzare il governo italiano, ha

organizzato nel febbraio del 2001 la sua conferenza annuale a

Timişoara chiedendo un aiuto pubblico per le infrastrutture

imprese stabiliscono intensi rapporti di relazione che contribuiscono a creare il successocompetitivo di questo tipo di sistemi produttivi: se da un lato la forte competizione stimolal’innovazione del prodotto,dall’altro la vicinanza e il forte livello di specializzazione consentono una continua trasmissione di conoscenze. Ciò consente di mantenere un altogrado di flessibilità,ma anche di realizzare economie di scala tipiche della grande impresaattraverso l’integrazione produttiva. Non deve dunque sorprendere che sia soprattutto attraverso una “esperienza di rete relazionare”, quale è quella del distretto industriale,che il sistema imprenditoriale italiano stia oggi attuando le proprie strategie diinternazionalizzazione. Sono infatti numerosi i casi di distretti industriali italiani operantidirettamente all’estero. L’esempio più conosciuto è appunto quello di Timişoara, il distrettoindustriale romeno specializzato nel settore tessile e nella lavorazione della pelle (Club deidistretti 2003).151 L'industriale di Treviso, Mario Moretti Polegato, proprietario della stessa Geox, è statonominato, con tutti i documenti in regola, Console onorario della Romania a Treviso. Eproprio nella città della Geox, alla fine di ottobre del 2005, Ha ricevuto in pompa magnal’ambasciatore romeno in Italia (Cristian Colteanu) e il nuovo ambasciatore italiano in Romania Daniele Mancini (nominato giusto tre giorni prima dell’incontro in questione) perdiscutere di investimenti e delocalizzazioni. Una spiegazione alla sua nomina potrebbeessere data dal fatto che, all'inaugurazione della fabbrica Geox di Timişoara avvenutanell'ottobre 2000, parteciparono il premier Mugur Isarescu, in campagna elettorale, ed ilcapo della polizia di frontiera, Nini Saponaru.Un altro esempio è dato dal Viceconsoleonorario dell'Italia a Pieatra Neamţ,Luigi Bodo, il quale è anche rappresentante edazionista dell'azienda “Rifil. La moglie dell'ex Primo Ministro, Elena Stolojan, è inoltremembro del consiglio di amministrazione della concessionaria italiana “MDF Fraţi”. Per non parlare di una altro uomo d'affari italiano, Beniamino Faoro, presidente dell'organizzazione provinciale di Sibiu del PNR, il partito di Virgil Magureanu (partito diestrema destra, sciovinista ed antiungherese) (Cehan 2001).

171

relative sia ai trasporti sia alla costruzione di aree industriali

attrezzate. In questo stesso senso sembra essersi mossa anche la

Regione Veneto con appositi finanziamenti e una sua politica

estera, volta tra l’altro a sostenere finanziariamente la

delocalizzazione. Anche il governo dei flussi migratori è stato

oggetto di attenzioni, attraverso un protocollo di intesa tra

Regione Veneto e parti sociali, per la costituzione di un’Agenzia

di reclutamento152. Nel frattempo si fanno sempre più numerosi i

progetti avviati da istituti di formazione (Cespi), fondazioni

(Fondazione NordEst) e università italiane (Università Ca’

Foscari di Venezia). Sempre in quest’ambito un ruolo di

crescente interesse viene svolto dal Centro Servizi Formativi di

Arad, attivato grazie ad un progetto di cooperazione

internazionale sostenuto dal ministero degli Affari Esteri

Italiano153, che è diventato un punto di riferimento importante per

le imprese venete presente nella regione le quali si rivolgono

preferibilmente al Centro servizi italiano (veneto) piuttosto che

alle istituzioni locali romene (Messina 2000, pp.74-75).

Timişoara, comunque, ama definirsi “città a cinque stelle”: oltre

ai tanti alberghi di lusso presenti in città, presto sarà aperto anche

il più grande centro commerciale della Romania154, dopo che la

152 Per favorire lo sviluppo romeno nel biennio 1998-1999 la Regione Veneto promosse unintervento integrato di cooperazione decentrata nella formazione professionale e gestionaleper le piccole e medie imprese e alcune iniziative formative nel campo dell’assistenza socio-sanitaria. Con la delibera n.3709 del 24 novembre 2000, la Giunta regionale delVeneto ha inoltre stabilito le priorità per i contributi previsti dalla legge 488/1992 alleattività produttive nelle aree depresse tra cui figurano anche il “trasferimento” o la “delocalizzazione” produttiva (Stocchiero 2001).153 Il progetto sostenuto dalla legge 212 MAE, è coordinato dall’AGFOL (Agenzia per la formazione del lavoratori di Venezia e dalla fondazione “Vasile Goldis” di Arad).154 Questo centro commerciale, lo "Iulius Mall", avrà una superficie di 73.000 quadrati,quattro piani e non mancheranno "cinque sale cinematografiche, una piscina, una pista dipattinaggio, otto fast-food, un casinò e una cappella". Si tratta di un grande investimento(35 milioni di euro) che attirerà consumatori da tutte le città vicine (Iordache 2005c ).

172

capitale Bucarest ha visto raddoppiare in un solo anno la loro

presenza: dai cinque del 2004 ai dieci attuali155.

A Timişoara, le multinazionali hanno anche deciso di

incoraggiare di più la ricerca. Alcuni laboratori del Politecnico

locale hanno ricevuto finanziamenti diretti e lo stipendio dei

docenti è raddoppiato. Così un professore universitario che

lavora all'Università diTimişoarapuò arrivare a guadagnare fino

a 1.600 euro mensili, cioè 18 volte uno stipendio minimo

(Iordache 2005c).

Nel boom economico di Timişoarac'è però anche l'altra faccia

della medaglia. Data la concorrenza che inizia ad esservi sul

mercato del lavoro, gli imprenditori si sono trovati costretti in

alcuni casi ad aumentare gli stipendi. Un aspetto positivo per il

lavoratore, ma meno“interessante” per il datore di lavoro. Inoltre

anche il costo della vita a Timişoaraè aumentato drasticamente.

La città è ora tra le più care della Romania, paragonabile solo con

la capitale Bucarest. Lo stipendio medio lordo era in aprile 2005

di circa 285 euro al mese, 20% più alto della media nazionale.

Un altro problema di cui troppo poco si parla è il costante

aumento dell’inquinamento dovuto principalmente all’eccessivo

numero di fabbriche presenti sul territorio. La presenza degli

Italiani nella contea di Timiş ha condotto negli ultimi anni anche

ad un aumento considerevole dei prezzi per immobili e terreni156,

155 La Romania, infatti, non viene più vista solo come un serbatoio di lavoro ma anche, esoprattutto, come un mercato di consumatori: dopo la Polonia, infatti, il paese - con i suoi22 milioni di consumatori– costituisce il secondo più grande mercato dell’Europa Centrale e dell’Est.156 I terreni rappresentano l’ennesima ghiotta opportunità offerta su un piatto d’argento agli imprenditori stranieri in Romania. La legislazione romena non permette ai cittadini stranieridi comprare terreni, ma il divieto non viene applicato nel caso di società con capitalestraniero registrate in Romania. Infatti queste sono persone giuridiche romene e come talipossono acquistare terreni. Le ultime tendenze del mercato dimostrano che attualmente iterreni sono l’investimento più vantaggioso. Il mercato immobiliare romeno è diventato più caro nell’ultimo anno del 40-45%. Un’opportunità accolta subito dagli investitori italiani che s’aspettano, con l’adesione della Romania all’Ue prevista per il 2007, una crescita

173

prezzi da capogiro per gli autoctoni. (Iordache 2004a). Man

mano che Timişoara diventa cara, anche le scelte degli

imprenditori italiani si diversificano. Si sono già verificati casi in

cui la produzione è stata spostata nelle città limitrofe, come Arad.

Anche a livello nazionale si registrano dei cambiamenti, ma al

momento non molto preoccupanti. I rappresentanti degli

imprenditori italiani in Romania avvertono però il governo di

Bucarest sul pericolo che riguarda un possibile trasferimento

degli affari in paesi meno cari dal punto di vista del mercato del

lavoro, come Cina, Russia o Ucraina, cosa già avvenuta in alcuni

casi. Spesso poi, sono gli stessi Italiani che iniziano a lamentarsi

sul grande livello di corruzione. Sono in molti quelli che

affermano che questa corruzione soffocante sarebbe presente dal

più alto al più basso livello157. Altra allergia che dimostrano gli

imprenditori italiani è quella nei confronti del nuovo Codice del

lavoro romeno,158 che con un articolo simile all’articolo 18

italiano tutela di più i lavoratori e aumenta i vincoli contro i

licenziamenti159. Agli imprenditori italiani le autorità romene

chiedono di investire e di assumersi le proprie responsabilità.

ancor maggiore dei prezzi e quindi del valore dei beni immobili. A Timişoara il 20% deiterreni agricoli della contea di Timişè stato comprato o affittato a società italiane.L’interesse degli italiani per i terreni della regione del Banato ha alzato in modo significativo i prezzi. Quest’anno per un ettaro di terreno il prezzo varia tra 5000 e 8000 euro, arrivando in certi casi anche a 11.000 euro. Una cifra astronomica se confrontata conun ettaro nel sud del Paese, nel Baragan “il granaio della Romania” dove difficilmente può superare i 200 euro. Secondo Nicolae Oprea, il direttore della Direzione Agricola di Timiş,su un totale di 500.000 ettari, gli Italiani avevano comprato o preso in affitto nel 2003 circa100.000 ettari (www.disinformazione.it ).157 Alcuni imprenditori fanno spesso l’esempio della dogana,, dove un camion merci perpassare deve pagare qualche centinaia di euro. Ma gli uomini d’affari italiani si lamentano anche per le leggi che cambiano spesso creando molta confusione.158Un nuovo codice del lavoro è entrato in vigore a partire dal marzo 2003, dopol'introduzione della legge 53/2003. Esso mira a sostituire le regole precedenti del settore,dominate dai presupposti dell’economia pianificatrice. Il nuovo codice è composto di 13 titoli, 37 capitoli, 17 sezioni e 298 articoli. Esso mira a regolare i rapporti di lavorocollettivi, coinvolgendo le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali. Il Codice, però,è stato aspramente contestato soprattutto da parte delle associazioni imprenditoriali (locali estraniere) per le sue (presunte) aperture filosindacali (Mihai 2003,p.44).159 Lo stesso codice del lavoro prevede sino alla reclusione per i datori di lavoro chesfruttano il lavoro minorile ed il lavoro in nero. La durata dei contratti di lavoro a tempo

174

Intanto, però, la proliferazione di imprese in tutta l’area nord-

occidentale del Paese provoca una certa scarsità di manodopera:

la vicinanza territoriale, uno scambio informale diffuso e le basse

paghe inducono la forza lavoro romena a una mobilità sostenuta

da azienda ad azienda, anche per aumenti retributivi modesti. Si

tratta di una manodopera che percepisce immediatamente le

opportunità e mostra una scarsa fidelizzazione a causa di

condizioni di lavoro e di paghe che, in generale, si presentano

come poco attraenti. Nell’arco di quattro, cinque anni in queste

aree dove l’imprenditoria straniera è più diffusa, la manodopera

costantemente presente nella stessa impresa per tutto il periodo

costituisce una parte irrisoria del totale complessivo. Tutto ciò

porta ad un lento ma costante aumento dei salari e, più in

generale dei costi del lavoro. I vantaggi riscontrabili all’inizio

nella delocalizzazione di alcune fasi della produzione in Romania

si stanno via via perdendo: i costi del lavoro aumentano

rapidamente e aumenteranno ancora di più ora che il paese si

appresta a diventare membro dell’Unione Europea. Quali

potrebbero essere allora le opzioni che si pongono agli

imprenditori italiani? Una prima decisione potrebbe essere

delocalizzarsi ulteriormente ed è qualche cosa che si sta già

osservando in tutta l’Europa dell’Est. Investimenti in alcuni

settori che si erano delocalizzati in Ungheria o nella stessa

Romania, passano adesso in Bulgaria e anche in alcuni paesi

della ex Unione Sovietica (come l’Ucraina), in cui i costi del

lavoro sono ancora bassi. A questo proposito, il vero problema è

che le strategie di marketing territoriale dei paesi di destinazione

determinato è aumentata da 18 a 24 mesi. Per quanto riguarda i licenziamenti collettivi, ildatore di lavoro deve avviare consultazioni e mettersi d'accordo con i sindacati, checomunque con i nuovi provvedimenti avranno solo un ruolo di consulenza (Mocanu,Mareş2005,p.125).

175

per attrarre gli IDE si svolgono in un’arena di concorrenza

sfrenata (si potrebbe parlare di una vera e propria “guerra dei

poveri”) nella quale un aumento minimo dei diritti per i

lavoratori porta ad una fuga di investimenti verso i paesi più

convenienti.

Un’altra decisione potrebbe essere semplicemente di uscire dal

paese e dimenticare la regione. In questo caso viene naturale (per

gli investitori) guardare ancora più lontano, verso le economie

asiatiche (Cina, Vietnam,ecc.). In alcuni contesti, però, quello

che si osserva è un “approfondimento” dell’investimento. Un

investimento ulteriore in quelli che sono i settori di media ed alta

tecnologia. Questo lo si osserva soprattutto nella Repubblica

Ceca, in Ungheria e in minor parte in Romania da parte

soprattutto di forti investitori stranieri come la Germania. Questo

paese, che ha investito in settori di media ed alta tecnologia,

trova adesso maggiore convenienza nel continuare ad investire

grazie alla grande dotazione di “capitale umano” specializzato e

non. Cosa potrebbero (e dovrebbero) fare, in questa situazione il

capitale migrante italiano e le istituzioni romene?

Innanzitutto c’è bisogno di sviluppare un contesto locale più

competitivo e coeso, cioè buone infrastrutture, sia materiali che

immateriali; vi è la necessità di regolamentazioni trasparenti e

sicure nella regolazione dell’attività economica e sociale; vi è

bisogno di stabilità politica ed anche di stabilità delle relazioni

industriali e delle normative sociali, per integrare, sia pure

gradualmente, questa realtà in un contesto europeo occidentale

che faticherebbe ad accettare situazioni che da questo punto di

vista possono creare disturbi persino in termini di dumping.

176

Occorrerebbe allora passare da una fase spontaneistica e

pionieristica, che è stata esclusivamente affidata –per parte

italiana –allo spirito di iniziativa ed alla intraprendenza degli

attori economici (ma anche degli stessi lavoratori che hanno

accettato di misurarsi con condizioni disagiate) ad una fase più

organizzata, più organica, più strutturale. In altri termini, occorre

far crescere, attorno a queste esperienze locali, una condizione di

effettivo, ordinato e generale sviluppo socio-economico in quei

territori e di sistematizzazione delle istituzioni coerenti con

l’edificazione di una vera economia sociale di mercato.

Altrimenti queste esperienze rimangono solo occasioni di

sfruttamento occasionale, investimenti “mordi e fuggi”.

Occorre altresì sviluppare la cultura delle regole, soprattutto sul

piano delle tutele delle condizioni sociali e delle condizioni di

lavoro. Sarebbe molto utile la presenza di sedi, di tavoli, di

occasioni permanenti di dialogo sociale e di permanente

confronto tra gli interessi organizzati, per concertare obiettivi di

crescita, per individuare come fare sviluppo economico e in

quale direzione, per creare delle alleanze per la competitività del

sistema economico rumeno, per sviluppare appieno la socialità. E

per far questo si potrebbe far leva sul modello della

concertazione: rendendo protagoniste e responsabili le forze

sociali e le forze economiche rappresentative di questa realtà.

Proprio affinché, in una logica di partecipazione e di

concertazione, siano in grado di dare il loro contributo con

comportamenti coerenti alle politiche per uno sviluppo sano,

equilibrato e sostenibile.

177

CAPITOLO QUARTO

IL MONDO “SI APRE” AI ROMENI?

L’IMPATTO SOCIALE DEGLI INVESTIMENTI TRA

LAVORO, MIGRAZIONI ED ESCLUSIONI .

1. Premessa. Pauperizzazione ed esclusioni.

Come abbiamo visto, a partire dai primi anni Novanta, la Romania

mette in cantiere una serie di misure (strenuamente sostenute dalle

istituzioni economiche internazionali) per costruire una cornice in

grado di attuare rapidamente le riforme: privatizzazione

dell’agricoltura, modifiche legislative in senso liberale, apertura

178

all’emergente settore privato. Tuttavia, tali modifiche peseranno

molto ai Romeni: bassi salari e alta inflazione andranno ad erodere

progressivamente il potere d’acquisto. Intanto, la privatizzazione

delle terre, insieme all’elevato tasso di disoccupazione nelle aree

urbane e all’aumento della povertà nelle regioni industriali, genera

forti tensioni sociali. Le disuguaglianze si fanno più marcate,

continuando ad approfondirsi col passare degli anni: in generale

sono i lavoratori delle industrie e le donne a rappresentare i soggetti

più colpiti dal punto di vista economico e sociale, mentre le

differenze tra le aree urbane e rurali vanno via via amplificandosi,

mettendo così in moto meccanismi di emigrazione verso l’estero

(Negrescu et al. 2001).

La crescente pauperizzazione della società romena è stata, a tal

proposito, uno degli aspetti più evidenti del nuovo corso,

portatrice, tra l’altro, di estesi processi di incertezza e di

esclusione sociale. Fin dalla caduta di Ceausescu infatti, la

Romania ha dovuto confrontarsi con un aumento generalizzato

delle situazioni di povertà, che già nel 1989 interessavano il 7%

della popolazione160. Il deterioramento delle condizioni di vita

nel decennio successivo alla rivoluzione di Natale è stato intenso

e particolarmente in due periodi: il primo, all’inizio degli anni

Novanta (1991-1993) e il secondo negli anni 1997-1999. La

160 Il livello di povertà viene misurato sulla base di diverse metodologie. Peri dati qui esposti farò riferimento al “National Strategy for Poverty Prevention and Allievation” che stabilisce come “estremamente poveri” coloro che non raggiungono il 40% del consumo medio e “poveri” coloroche sono nell’intervallo 40-60%. Altre metodologie considerano“estremamente poveri” coloro che non arrivano a soddisfare i bisogni primari, mentre i “poveri” vengono definiti come quanti non hanno quei beni e servizi richiesti per poter partecipare alla vita sociale (vedi ResearchInstitute for the Qualty of Life, Undp 2002). Con una diversa metodologiagià nel 1992 si rilevava che circa la metà della popolazione viveva sull’orlo della povertà e 3,5 milioni di persone vivevano in povertà estrema (De Neve1998,p.31).

179

povertà interessa soprattutto i nuclei familiari più ampi e coloro

che vivono nelle aree rurali, dove però si riesce a sopravvivere

con poco denaro. Più del 2% della popolazione è privo di

elettricità, ma nella regione occidentale e a Bucarest, dove la

penetrazione del capitale straniero è stata maggiore, la

percentuale si ridimensiona drasticamente (0,8% e 0,3%) (Undp

2004). Il potere d’acquisto è crollato, in particolare per le donne

che ricevono un reddito medio mensile di un terzo inferiore a

quello dei maschi.

Ma i più penalizzati del nuovo corso sono sicuramente i rom che

“rappresentano la punta più evidente della miseria sociale della

Romania e dei paesi balcanici e, in generale, dei paesi

dell’Europa centro-orientale”161. Pur non esistendo specifiche

statistiche, i rom in Europa alla metà degli anni Novanta erano

tra i sette e gli otto milioni e mezzo: in Romania è presente il

gruppo più numeroso di tutta l’Europa centrale e orientale, tra i

due e i tre milioni162. I rom romeni non sono un gruppo

omogeneo; la maggior parte parla in romeno, altri in ungherese.

Essi sono solitamente stanziali, a causa dei tentativi di

imbrigliarli portati avanti dai primi governi comunisti;

l’industrializzazione forzata tolse loro una parte del lavoro che

eseguivano precedentemente, legato all’attività agricola o al

commercio di animali. Nel periodo di Ceausescu, Rom,

omosessuali e pentecostali, erano accomunati nello stesso

161 In Romania fin dalla fine del XIV secolo, i Rom venivano trattati comeschiavi e venduti come merci; quando in Romania fu abolita la schiavitù, nel1856, furono circa 2000 i Rom ad acquisire la libertà (Wagner 1991,pp.100-103).

162Altre fonti (Campani, Carceri 1998,p.25) riportano una cifra compresa tra1,8 e 2,5 milioni.

180

pregiudizio da quanti si consideravano in qualche modo “sani”

(Sacchetto 2004, p.133).

La maggior parte della popolazione ritiene il rom un essere

inferiore e il termineţigan (Rom) è considerato un insulto sia tra i

Romeni che tra gli Ungheresi163. Essi continuano ad essere mal

tollerati e colpevolizzati attraverso l’agitazione mass

mediatica164, secondo quel meccanismo sociale per cui: “ogni

comunità cerca di controllare i suoi confini accusando la periferia

di alimentare le infezioni”165.

Un altro fenomeno particolarmente impressionante della transizione

romena è stato l’aumento abnorme dei pensionati (da 2,6 a 4,2

milioni nel periodo 1990-1999), a causa delle ristrutturazioni che

hanno chiuso numerose fabbriche. Uno dei tratti comuni a molti

paesi in transizione, infatti, è stato il riorientamento strutturale

dell’economia attraverso il ridimensionamento del settore

industriale, che durante la pianificazione soffriva di gigantismo 166.

163 Singolare, a tale proposito, è il caso di una delle quattro squadre di calciodella capitale, il Rapid Bucarest, che viene percepita dalla grandemaggioranza dei tifosi romeni come la “squadra degli zingari” e per questo derisa con cori di scherno e di forte offesa, il più ascoltato dei quali è“sunteţiţiganii”(“siete zingari”). Il motivo di tale convinzione è da ricercare nel fatto che lo stadio della squadra in questione sia stato costruito in unquartiere abitato prevalentemente da rom. In realtà, come ho potutoappurare di persona, la percezione superava di gran lunga la realtà.164 Il “Gazzettino romeno”, settimanale in lingua italiana con sede a Timişoara, che veicola notizie italiane e romene a uso soprattutto degli imprenditori italiani in Romania, in un suo editoriale, ha incolpato glizingari delle pressioni che il paese sta subendo per la reintroduzione deivisti per i romeni che desiderano circolare nello spazio Schengen: “l’etnia degli zingari in Romania è molto eterogenea”, essendo composta da poverissimi e ricchissimi; la “sola caratteristica comune ai due gruppisembra essere la mancanza di rispetto della legge”. Gli zingari infatti, costituirebbero “il 95%…delle gang di mendicanti rumeni che terrorizzanole popolazioni” dell’Unione Europea (Boieru 2002).165 Cfr. M. Douglas 1992, p.119.166 Il ragionamento alla base era che la razionalizzazione del settore avrebbemigliorato l’efficienza complessiva del sistema, eliminando una quota di lavoratori sottoccupati. Era inoltre necessario aumentare e migliorare il

181

Il settore manifatturiero ha così espulso lavoratori: in tredici anni

(dal 1989 al 2002) la diminuzione del numero di occupati nel

settore industriale è stata del 44,3% e, secondo alcuni studi, ciò

ha fatto sì che nel periodo 1995-1999 la crescita romena fosse

dovuta soprattutto all’aumento dell’efficienza totale nell’impiego

de fattori della produzione. Nel 1999 i disoccupati ammontavano

all'11,5 per cento della forza lavoro (Marin et al. 2001). A questo

proposito, emergono chiari anche problemi di sostenibilità futura

delle passate politiche di pensionamento anticipato, in quanto

nello stesso anno il rapporto tra i lavoratori che versavano i

contributi sociali e i pensionati era sceso a 1,2 mentre nel 1989

c'erano 4 lavoratori per ogni pensionato167. Secondo una recente

indagine, i disoccupati rappresentano poco meno del 15 per cento

dei poveri totali mentre i pensionati arrivano ad oltre il 30 per

cento. Le pensioni spesso non vengono corrisposte per periodi

che vanno dai 6 ai 9 mesi168.

Il pensionamento anticipato costringe sovente le famiglie a

ricorrere ad altre forme di entrate e gli anziani a reinventarsi in

quanto forza lavoro, dato che l’attuale sistema di occupazione

richiede nuove capacità lavorative. La rete familiare rimane

indispensabile, in particolare per i giovani e per gli anziani, dato

il clima di generale incertezza. Nel corso del tempo le strategie di

sopravvivenza si sono affinate e ampliate ricorrendo a usanze

mai totalmente dimenticate, oppure a nuove abitudini

settore terziario, avvicinandolo agli standard delle economie avanzate(Marinet al. 2001).167 Questo andamento si spiega col fatto che le leggi del regime diCeausescu prevedevano che solo i lavoratori del settore pubblico e quellidell'industria dovessero versare i contributi sociali, ma, come detto, questecategorie sono state quelle che hanno subìto il maggiore ridimensionamento(Roner 2005).168 Cfr. Boscaiu et al. 2000.

182

(Stanculescu,Berevoescu 2002,p.209). Nel 2001 per i romeni le

spese per il cibo e le vivande costituivano quasi il 60 per cento

dell’intero reddito a disposizione, rinunciando o rimandando

talvolta le cure mediche169.

Lo stato di povertà è chiaramente correlato non solo alle

disfunzioni dello stato sociale in larga revisione, ma anche a

quelle del mercato del lavoro, nonostante i tassi di partecipazione

al mercato stesso e la produttività (quanto produce il singolo

lavoratore) siano più alti rispetto ad alcuni dei Paesi più

industrializzati. Secondo l'Oecd, infatti, nel 1998 l'incidenza della

disoccupazione di lunga durata (12 mesi o più) su quella totale

ammontava al 42 per cento, raggiungendo il 53 per cento nella

regione sud-occidentale del Paese (Oecd 1998).

Fin dal 1991, inizia così una progressiva caduta del prodotto interno

lordo, anche a causa della ripercussione della recessione economica

mondiale, che qui, per la prima volta nel secondo dopoguerra, fa

registrare la comparsa della disoccupazione, rapidamente salita a un

milione di persone nel 1993. I primi a perdere lavoro sono stati i

pendolari e quanti lavoravano nelle sezioni decentrate delle grandi

aziende perché queste ultime, per limitare le spese eccessive,

licenziarono o indussero al licenziamento i dipendenti provenienti

dalle campagne (Hirschausen 1998,p.259).

In questa prima fase di trasformazione, sono state soprattutto le aree

occidentali e meridionali del paese a perdere posti di lavoro, mentre

nei distretti minerari l’occupazione si manteneva agli stessi livelli,

169 Barman 2001, p.28. E’ interessante notare come il fenomeno sia simile a quello oggi in atto in Cina, dove ovviamente avviene su una scala ben piùestesa e con pratiche manageriali decisamente più rozze dal punto di vistadisciplinare e autoritario; in merito si veda ad esempio Chan A.,2002,Theculture of Survival:Lives of Migrant workers thorught the prism of privateletters,Rowman&Littlefield,Boston,pp.163-188 (Sacchetto 2004).

183

quando non aumentava, grazie alle sovvenzioni statali. In tale

contesto si registrò uno spostamento di popolazione dalle città ai

villaggi aiutato dalla legge di privatizzazione delle terre del 1991;

per la prima volta nella storia della Romania il flusso migratorio dal

Banato, dalla Dobrugia e da grandi città come Braşov e Bucarest si

dirigeva verso le aree rurali della Moldavia romena e del Nord-Est

della Transilvania170. Soprattutto in questo periodo vennero meno le

migrazioni sulle lunghe distanze, privilegiando spostamenti in aree

limitrofe. L’area di Timişoara divenne in breve tempo un forte

punto di attrazione ponendosi in concorrenza direttamente con la

capitale Bucarest (Jordan 1998,p.284).

Fatta questa breve introduzione, cercherò ora di analizzare tutta

una serie di situazioni che nella loro specificità indicano con

maggiore chiarezza le conseguenze(sociali) della presenza del

capitale migrante italiano in terra romena. Le società italiane che

hanno investito in Romania nel periodo successivo al 1990,

infatti, non hanno prodotto solo effetti sull’economia del paese,

ma hanno determinato anche un profondo impatto sull’ambiente

sociale stesso. In pratica, si tratta di un lavoro di recupero delle

diverse risposte fornite dalla popolazione e dalla forza lavoro in

aree sottoposte a una forte tensione causata da due fenomeni

particolarmente estesi, soprattutto a partire dai primi anni

Novanta: l’instabilità economica e l’incertezza sociale.

Il primo e più evidente elemento da considerare riguarda proprio

le conseguenze degli stessi investimenti esteri sul traballante

mercato del lavoro romeno. Un secondo aspetto interessante è la

170 Questo spostamento era essenzialmente legato al crescere del senso di proprietà,particolarmente tra gli anziani, mentre per i più giovani la migrazione in campagna, almenonelle intenzioni, rappresentava una regressione e uno esperimento, a causa della chiusuradelle fabbriche e delle scarse opportunità di lavoro nelle città (Dumitrache,Armas1998,p.155).

184

conseguenza della presenza italiana in Romania sulla rinnovata

centralità della donna nei processi di delocalizzazione e

immigrazione, strettamente collegata al moltiplicarsi di

“recinzioni” a livello sia individuale che territoriale e causato

principalmente dalla presenza di capitale straniero in determinate

aree di esportazione più o meno formale (Finardi, Moroni 2001).

Uno degli elementi chiave di tale cambiamento organizzativo

della società e degli spazi a disposizione per gli individui è la

disciplina nel lavoro. A fronte della sua pervasività non manca

chi fugge, ritirandosi in campagna oppure saltando

completamente dentro il mito occidentale, cioè emigrando per

reperire almeno una paga migliore (Sacchetto 2004, p.141).

L’affermarsi di sostanziali processi di emigrazione dalla

Romania all’Italia è un altro elemento riconducibile alla

delocalizzazione italiana in Romania; come del resto il processo

di crescente ruralizzazione che ha interessato il paese a partire

dalla metà degli anni Novanta con l’inversione del flusso storico

di trasferimento di popolazione dalle aree urbane a quelle rurali

secondo un processo esteso anche agli altri paesi dell’Europa

centrale ed orientale171. La migrazione dalle aree urbane a quelle

rurali è stata favorita da diversi fattori quali il ritorno alla

proprietà privata e alla privatizzazione dei terreni (Heller 1998,

p.19), così come dalle profonde ristrutturazioni a livello

industriale che provocano una restrizione nel numero di occupati

complessivi. Come vedremo, questa mobilità tende a costruirsi

come un processo di degradazione progressiva. Il ritorno nelle

campagne è un ripiego: si tratta di resistere alla crisi economica i

171Cfr.Pribytkova,1998,“I processi migratori attuali nell’Ucraina”, G.Campani, F.Carchedi,G.Mottura (a cura di) Migranti ,rifugiati e nomadi: Europa dell’Est in movimento,L’Harmattan, Torino, pp.93-106.

185

cui effetti nelle città sono maggiori. Si tratta, in pratica, di un

fenomeno legato alla pressione espulsiva delle forze della città

piuttosto che a quelle attrattive della campagna. Pur usufruendo

di benefici limitati e di un sostanziale isolamento a causa della

riduzione del trasporto pubblico, il ritorno alla campagna

consente di assicurarsi la sopravvivenza e di minimizzare i rischi.

Infine l’ultimo elemento da considerare è quello relativo alla

possente spinta verso modelli occidentali che si è dilatata a partire

dal Nord-Ovest del paese e dalla capitale, i due luoghi dove più alto

è il tenore di vita medio. Timişoara, ad esempio, è una città vicina

agli “standard occidentali” anche dal punto di vista dei costi della

vita, lungo le strade e nei colloqui quotidiani si respira un clima

economico e culturale simile a quello del Nord-Est italiano. Per

quanto riguarda la capitale Bucarest, il grande capitale straniero,

pur non avendo investito estesamente come nelle altre capitali

dell’Europa centrale e orientale, ha comunque iniziato la sua opera

di penetrazione. Non si tratta qui tanto di investimenti nel centro

cittadino, dove non è ancora giunta l’opera di abbellimento

massiccio che ha trasformato Budapest o Bratislava. Il capitale

straniero si è concentrato al contrario nei grandi complessi

economici, quali le banche e le assicurazioni e più in generale nei

servizi finanziari.

2. Il mercato del lavoro romeno.

Il peggioramento economico vissuto negli anni immediatamente

successivi alla caduta di Ceauşescu ha ovviamente ridotto la

partecipazione formale al mercato del lavoro e il tasso di

186

occupazione: la popolazione attiva (15-64 anni) oggi costituisce i

due terzi di quella disponibile agli inizi degli anni Novanta, con una

caduta in particolare tra i giovani sotto i ventiquattro anni e le

donne (Undp 2004). Il numero ufficiale dei disoccupati è cresciuto

per tutto il decennio successivo alla Rivoluzione, superando il

milione e centomila persone (11,8% della popolazione) nel 1999,

ma molti sono quelli che non si iscrivono agli uffici di

disoccupazione, mentre altri, formalmente occupati, non

percepiscono un compenso172. Le province maggiormente

interessate dal fenomeno sono soprattutto quelle del Sud-Est del

paese (vedi tabella n.1), soprattutto a causa della combinazione di

due fattori:

province recentemente industrializzate, non capaci di

adeguarsi alle forze di mercato;

alto numero di giovani che entrano nel mercato del

lavoro.

Le città con il livello più alto di disoccupazione sono Vaslui,

Ialomiţa e Galaţi (quest’ultima esempio concreto del fallimento

delle “città nuove” teorizzate dal comunismo173).

Tabella 2.1- Le 5 province romene con il maggiore tasso didisoccupazione.

PROVINCIA (%)Vaslui 14,4Galaţi 14,4

172 I livelli di disoccupazione rilevati impongono una lettura prudente,essendo probabile cheesprimano ancora problemi metodologici nella rilevazione dei dati,rispetto ad unaeconomia che presenta,sia in agricoltura che nei servizi,un elevato livello di precarietà e unforte intreccio fra lavoro formale ed informale. Il calo dei disoccupati può anche dipenderedal ritiro dal mercato del lavoro di una parte della popolazione in età di lavoro,anche inrelazione alla scomparsa di una occupazione artificiale.173 La “città nuova” nasce dalla esigenza di creare insediamenti che rompano col passato e che traducano pienamente nell’economia e nell’urbanistica i valori del socialismo. La tipicacittà nuova è perciò la città socialista per eccellenza,dall’economia esasperatamente industriale,dall’urbanistica seriale, dal paesaggio monotono dei prefabbricati a buonmercato (Cori 1989)

187

Ialomiţa 12,7Braşov 12,0Vallea 11,2

Fonte: Capital 2004.

Tabella 2.2 - Le 5 province romene con il minore tasso didisoccupazione.

PROVINCIA (%)Bucarest 2,8Timiş 3,0Bihor 3,2

Satu-Mare 4,1Arad 5,3

Fonte: Capital 2004.

Per far fronte a tale regressione e in linea con le preoccupazioni

dell’Unione Europea, la Romania, ha incentivato l’occupazione

con sussidi prevalentemente alle imprese174; altri sostegni sono

stati invece previsti per i nuovi lavoratori autonomi che però nel

20% dei casi li hanno utilizzati per il consumo immediato

(Dobrescu et al. 2000, pp.4-7). Il proseguimento della

produzione in numerose fabbriche durante l’ultimo decennio è

stato dettato soprattutto da motivi politici, e non economici.

Invece di elaborare piani per finanziare la creazione di nuovi

posti di lavoro in regioni di importanza critica, si è preferito

pagare gli stipendi per conservare la pace sociale. I dipendenti

sono stati tenuti in uno stato di permanente insicurezza, mediante

il versamento del 75% dello stipendio o ricorrendo a commesse

statali, promettendo che le imprese non sarebbero state

174 Lo stato corrisponde alle aziende che assumono i neodiplomatiun’elargizione pari al 60-70% del salario minimo mensile per un periodo dinove mesi. Un’altra misura comprende crediti finanziari alle piccole e medie imprese che assumono persone disoccupate( Stanculescu, Berevoescu 2002,p.212)

188

privatizzate. Il risultato di tutto questo è che, all’improvviso,

viene annunciato il licenziamento di migliaia di persone senza

alcun preavviso. E’ il caso dei licenziamenti di circa 7000 operai

avvenuto nel 2003 in tre aziende di Braşov: Tractorul, Roman e

Rulmentul. Queste persone sono andate ad aggiungersi ad altre

migliaia già licenziate precedentemente nel settore dell’industria

militare, che ha una forte presenza in tale provincia. In pratica, la

provincia che assicurava gran parte della produzione

dell’industria meccanica romena ha liquidato le proprie maggiori

strutture produttive (Gheorghe 2004)175. La politica di artificiale

mantenimento del livello di occupazione in alcune strutture

produttive di eccessive dimensioni non ha fatto altro che

rimandare nel tempo il momento della verità, mentre, le diverse

misure legislative volte a mitigare l’impatto sociale della

disoccupazione non hanno di fatto impedito, a una parte della

popolazione, di scivolare nella povertà.

A tal proposito è interessante rilevare come le misure di

protezione sociale a favore di coloro che sono ancora presenti sul

mercato del lavoro, segnatamente quelle che prevedono il

sostegno dei redditi dei disoccupati o dei lavoratori con carichi

familiari, siano state molto scarse176.

175 La situazione in questa regione ricorda quella della Valle dello Jiu dopola ristrutturazione delle miniere di carbone. Lo sviluppo di un settore deiservizi che possa assorbire parte della disoccupazione è impossibile in unazona nella quale il basso reddito della popolazione non è in grado di offriresbocchi commerciali. Proprio come nella Valle dello Jiu, nel periodo dellosviluppo estensivo dell'industria la popolazione di Braşov è cresciuta artificiosamente, attraverso l'importazione di manodopera, soprattutto dallaregione della Moldova. Non si verificherà certo una migrazione inversa indirezione delle città e dei villaggi dai quali i lavoratori sono giunti più didue decenni fa, così come non è accaduto quando sono state chiuse leminiere (Turlea Mereuta 2002).176 Attingendo ai dati del Ministero del Lavoro e della Protezione Sociale romeno, per i seianni successivi al 1990 la diminuzione del valore monetario dei benefici da pensioni è statadel 39 per cento. Nello stesso contesto e nel medesimo periodo, le protezioni per le famiglie

189

Rapidamente poi, si è diffusa la marginalizzazione delle

categorie più deboli come i bambini e i ragazzi. Stime autorevoli

hanno calcolato che i sostegni previsti per le famiglie con un solo

figlio arrivano a coprire solamente il 10 per cento della spesa per

il sostentamento di un ragazzo di 15 anni, mentre la

disoccupazione di lunga durata colpisce sempre più le giovani

categorie (Undp 2004).

La drastica regressione dell’economia ha indotto molti a

riversarsi nel sommerso, soprattutto nei settori dei servizi,

dell’edilizia e del commercio. L’economia sommersa costituisce

probabilmente il più importante settore del paese e trascina con

sé il lavoro nero che rappresenterebbe il 46,5% del totale delle

ore lavorative in Romania. Ma anche l’economia illegale è

fiorente e pari , secondo le stime dell’Istituto Nazionale di

Statistica, al 18% del volume di affari complessivo177.

A livello complessivo in Romania, tra il 1989 e il 1999 il

numero di salariati è declinato di oltre tre milioni e mezzo di

persone, passando da 8,3 a poco più di 4,7 milioni di persone.

Soprattutto l’industria è stata colpita da questo fenomeno,

passando da quattro a due milioni. All’interno del settore

industriale non tutti i comparti sono interessati con uguale

violenza dalle ristrutturazioni. In generale, sono i settori in cui il

capitale fisso è consistente a ridursi, qual il tessile e la

con un solo figlio hanno subìto un tracollo del 77 per cento, non peggiore di quello per lefamiglie con tre figli per le quali la diminuzione è stata dell' 86 per cento (Vasile 2004).

177 La definizione della quota di economia sommersa è materia di contesa. IlServizio informativo romeno, in un rapporto inviato al Parlamento, l’ha stimata a circa il 40% del PIL; tale posizione era confortata dal Ministerodel tesoro statunitense, mentre l’Istituto Nazionale di Statistica forniva cifrepiù prudenti pari al 18-20%. Infine, uno studio del Centro romeno di politicaeconomica giunge salomonicamente al 31%; vedi Pippidi et al. 2003,Robitu2002.

190

meccanica; quest’ultima era il principale settore produttivo con

oltre 600 mila occupati, ridotti a un terzo alla fine del decennio.

Al contrario, l’abbigliamento, dopo le ristrutturazioni che

avevano espulso poco meno di un quarto della manodopera a

metà anni Novanta, è oggi il più importante comparto dal punto

di vista occupazionale con i suoi 243 mila lavoratori (Pippidi et

al. 2001).

Alla fine del 1999 le imprese private davano lavoro al 57% degli

occupati dell’industria con forti disparità settoriali che indicano

altresì gli spazi conquistati dal capitale straniero:

all’abbigliamento (97%) e al tessile (80,6%) si contrappongono

settori quali la produzione di macchinari e attrezzature (25,3%) e

di prodotti metallurgici (24,2%), dai quali il capitale privato si è

tenuto lontano (Ins 2000,cap.3,p.17). Il lento ma continuo

miglioramento delle remunerazioni medie reali nell’ultimo

secolo ha subito poi, nel corso degli anni Novanta, una brusca

regressione; la sua diminuzione dal 1989 al 1999 è stata del 44%,

mentre permangono differenze penalizzanti per le donne

nell’ordine del 17-20% ( Ins 2000, cap. 4, p.10). Secondo

statistiche più recenti, il gender pay gap178 in Romania nel 2004

era pari al 18% (in Italia, invece, era pari al 6%, soprattutto

grazie alla migliore legislazione e all’alto tasso di

sindacalizzazione), nonostante il paese abbia avuto in passato,

una parità formale molto alta. Oggi la discriminazione di sesso

nel lavoro e nel salario ha origine nel settore di impiego (settori

178 Il Gender pay gap, è la differenza in percentuale tra la media del salarioorario lordo maschile e la media di quello femminile. In Eurostat lapopolazione di riferimento è composta dai lavoratori dipendenti (16-64anni) che lavorano più di 15 ore alla settimana. I dati provengonodall’European Community Household Panel(ECHP), che è un censimentobasato su un questionario standard annuale che coinvolge un campionerappresentativo, collettivo e individuale (CNEL 2004b).

191

femminilizzati e per questo sottoretribuiti) e nel livello di

professionalità (bassa qualificazione delle donne e quindi bassi

salari o salari più bassi), oltre che in esplicite forme di

discriminazione che ancora permangono.

Nel luglio del 2005, il livello del salario minimo mensile è pari a

circa 80 euro mentre il salario medio è pari a circa 195 euro. Lo

stesso livello retributivo medio è però materia di continua

polemica data l’acutizzarsi dei differenziali salariali179. Le

disparità nei compensi cominciano ad essere particolarmente

acute, favorendo quanti sono occupati nei servizi finanziari,

bancari, nelle poste e nelle telecomunicazioni e nella pubblica

amministrazione. E’ comunque nelle imprese pubbliche che i

compensi rimangono più elevati con differenze medie del 15-

20%, e punte estreme nel settore estrattivo pari al 50% (Ins

2004,cap.2, p. 18). Il nuovo sistema è invece più svantaggioso

per quanti lavorano nei servizi ristorativi e alberghieri, nel

commercio e nell’agricoltura. Ma la forbice retributiva nel corso

degli anni Novanta si è ampliata anche tra i sempre più

svantaggiati lavoratori del settore manifatturiero e gli addetti alle

miniere e alle industrie energetiche: si è passati da un differenza

del 28% a una del 42%. Il divario è forse l’effetto dell’esplosione

di nuove attività: nel 1989 in Romania vi erano solo 789

fabbriche dell’industria leggera, nel 2001 erano 8600, pressocchè

tutte di proprietà di privati (Robitu 2002). Tra i più penalizzati,

allora come adesso, vi sono gli occupati nell’abbigliamento e nel

tessile; peggiore è la condizione dei lavoratori delle calzature,

179 Stime recenti dell’Economist Intelligence Unit indicano per il 2005 stipendi medi orari di 1,08 euro l’ora in Romania, contro 4,63 per la Repubblica Ceca, 4,94 per l’Ungheria e 8,53 per la Slovacchia. Per quanto riguarda lo stipendio medio mensile, invece, i datipresentano chiare differenze territoriali: infatti si calcola che nel 2004 a Bucarest lostipendio netto mensile fosse di 156 euro e a Hunedoara di 134, mentre a Neamţ e a Covasna era rispettivamente pari a 95 e 93 euro, contro ua media nazionale (per il 2004) di118 euro (EIU 2005).

192

della pelle e del legno (Ins 2004 cap. 4, p.10). Le sperequazioni

oramai sono evidenti, specie tra i costretti della fabbrica e quanti

svolgono un lavoro indipendente o non legato direttamente alla

catena; chi lavora come elettricista, posatore, muratore, idraulico

solitamente ha una paga migliore di quanti sono in fabbrica. Ma è

la stessa struttura del reddito familiare che si è sfrangiata, sicchè

le famiglie fanno affidamento su introiti diversi (salari, pensioni,

produzioni per autoconsumo), senza tralasciare nessuna

opportunità.

Nella situazione appena descritta, l’incidenza del capitale

straniero (e in particolar modo di quello italiano) sul mercato del

lavoro romeno è stata davvero molto forte. Benché secondo le

ultime statistiche gli investimenti italiani in Romania si

trovassero nella sesta posizione dopo gli investimenti olandesi,

tedeschi, americani, francesi ed austriaci, il loro impatto sociale è

stato comunque molto più forte.

Questo si può anche dedurre dal fatto che numerosi Romeni

lavorano oggi in società italiane. Qual è la spiegazione?

Gli investimenti italiani in Romania sono finora avvenuti

prevalentemente nel settore manifatturiero leggero, richiedendo

quindi una manodopera numerosa. Per questo, benché dal punto

di vista del volume degli investimenti l’Italia si trovasse nella

sesta posizione, dal punto di vista della manodopera occupata,

l’impatto delle imprese italiane è maggiore.

Basta dire che, secondo le ultime statistiche, nelle quasi 18 mila

società a capitale italiano presenti in Romania lavorano più di

500 miladipendenti. E’ sufficiente sottolineare in questo senso il

fatto che il paese conti 22 milioni di abitanti, per evidenziare fin

dall’inizio l’immagine del forte impatto sociale che gli

193

investimenti italiani hanno prodotto in Romania. Questo fatto è

ancora più evidente se si aggiungono ai 500 mila dipendenti

anche le loro famiglie, che beneficiano direttamente da questi

rapporti di lavoro. Così, si può constatare che oltre 2 milioni di

abitanti della Romania godono direttamente degli investimenti

italiani, cioè circa il 10% della popolazione romena (Voicu

2004).

Come in qualsiasi altro tipo di attività, però, quando si guarda

agli investimenti italiani in Romania non basta riferirsi alla

quantità ma, necessariamente, anche agli elementi riguardanti la

qualità. Così, l’impatto degli investimenti italiani non ha avuto

ripercussioni solo sul numero di persone con rapporti di lavoro

nelle società italiane, ma anche sulla qualità del lavoro all’interno

di queste società, sul cambiamento della mentalità nei confronti

del lavoro e, contemporaneamente, sulla formazione

professionale all’interno delle società italiane stesse180. Infatti, i

Romeni che hanno lavorato in questi anni all’interno di imprese

straniere si sono molto avvicinati al livello professionale tipico

del mondo occidentale, percorrendo in tal modo un importante

processo di formazione, qualificazione e riqualificazione, anche

sul posto di lavoro.

C’è ancora da notare, in merito all’impatto sociale degli

investimenti più recenti, l’aumento della qualità e dell’ampiezza

degli investimenti stessi. Negli ultimi anni, infatti, gli

180 A proposito della formazione professionale, uno dei progetti formali portati avanti dalleimprese e da alcune istituzioni italiane è la possibilità di trasferimento di giovani Romeninelle fabbriche italiane dove poter svolgere stage per alcuni mesi per poi essere rispediti nelpaese d’origine. Poco avvezzi alle abitudini di fabbrica, i giovani romeni potrebberoimparare ex novo le modalità lavorative, il senso del sacrificio e della responsabilitàrichieste dalle imprese occidentali per poi importare nel loro paese la razionalizzazione e ilsenso del comune proprio dei paesi da più lungo tempo industrializzati. Tuttavia, le impresevenete lamentano una cera difficoltà nel reclutamento e nella formazione di migrantitemporanei che dovrebbero poi ritornare nel loro paese per un’occupazione nelle imprese delocalizzate (Stocchiero 2001,pp.9-10).

194

investimenti italiani hanno incoraggiato un aumento della cultura

di impresa, la creazione di partnership locali ed un

coinvolgimento consapevole nell’ambito economico-sociale dalla

Romania. Inoltre, il cambiamento della struttura degli

investimenti fatti nel paese ha portato ad un aumento dei redditi

dei Romeni assunti in queste imprese. Basta menzionare solo gli

investimenti italiani nel settore bancario degli ultimi due anni per

avere un’idea dell’aumento della media salariale per l’insieme

delle società italiane (Messina 2000).

La sensazione però è che la rottura della stagnazione precedente -

un po’ dappertutto nei paesi dell’Est europeo - si stia

accompagnando ad una nuova tipologia di problemi sociali

(come ulteriore conseguenza degli investimenti stranieri) che

impongono la massima attenzione. Mi riferisco al fatto che il

meccanismo di crescita sta allargando le differenze tra il nucleo

di popolazione che è stata partecipe della velocità con cui si sono

presentate le nuove chances del libero mercato e gli strati ampi di

persone che non sono riuscite ad adattarsi a quella velocità.

Questa divaricazione sociale interna presenta, a mio modo di

vedere, una materia che i meccanismi di mercato, da soli, non

solo non possono risolvere, ma anzi aggraverebbero.

Il dato con cui fare i conti a questo proposito è che la cultura

economica, introdotta come un lampo negli anni successivi alla

caduta dei vari regimi comunisti, non aveva e non ha all’ordine

del giorno una logica di partecipazione o di dialogo sociale.

Le donne sono state tra i soggetti più penalizzati da questo nuovo

sistema politico ed economico181, un fenomeno questo diffuso in

181 Cfr. Rainnie A.,Smith A.,Swain A.(eds),2002, Work, Employment and Transition:Restructuring Livelihoods in Post-communism, Routledge,London-New York.

195

tutti i paesi dell’Europa orientale dove il processo di transizione e

il rapido passaggio da un’economia centralizzata e pianificata ad

un’economia di mercato hanno profondamente mutato la

condizione di occupazione e di lavoro (vedi tabella seguente).

Tabella n. 2.3–Tassi di occupazione nei PECO (totale e M/F1998-2003)

Fonte: Eurostat 2004

A proposito dell’occupazione femminile è interessante

evidenziare che nel periodo 1998-2003 la forbisce tra tassi

maschili e tassi femminili diminuisce ovunque (salvo che in

Slovenia). Questo significa che all’interno dell’andamento

negativo dell’occupazione totale, quella femminile diminuisce

ma dà segni di ripresa, rispetto a quella maschile, dopo la grave

crisi del decennio.

Per quanto riguarda la Romania, alla fine del periodo esaminato

(2003), l’occupazione femminile risulta essere nettamente

196

superiore al tasso di occupazione in Italia182. Al di là dei divari

nei livelli di occupazione, le differenze più importanti si

segnalano dal punto di vista della composizione settoriale del

lavoro(vedi tabella seguente).

Tabella n. 2.4–Distribuzione dell’occupazione femminile per settori (%) 2002.

Fonte: Eurostat 2002

I dati sulla distribuzione dell’occupazione femminile per settori

ci consentono alcune prime generali considerazioni sulla

dislocazione del lavoro delle donne nei PECO: quasi ovunque è

alta la percentuale del lavoro femminile nei servizi (pubblica

amministrazione, sanità e scuola in particolare) rispetto

all’occupazione totale, tra il minimo della Slovenia (61,7%) e il

massimo della Lettonia (73%), confermando una tendenza

comune a tutti i paesi della UE. Fa eccezione la Romania, dove

l’agricoltura continua ad essere l’attività prevalente, mentre

molto bassa (35,5%) è la percentuale di occupate nei servizi.

Resta alta, con Romania e Polonia in testa, anche se con una

182 Ho inserito i dati dell’Italia per cercare di inquadrare meglio l’ordine digrandezze daanalizzare.

197

progressiva tendenza alla riduzione, la presenza del lavoro delle

donne nelle campagne183: si tratta di lavoro femminile spesso

dequalificato e a bassi salari in un settore, l’agricoltura, che

continua a subire profondi e pesantissimi processi di

riorganizzazione e di ristrutturazione. Per l’industria va precisato

che le percentuali di lavoro femminile relativamente alte possono

significare anche una certa arretratezza del sistema produttivo, e

cioè più donne sono occupate nell’industria, più il settore è in

ritardo nei processi di ristrutturazione e di privatizzazione delle

imprese, che hanno ovunque comportato una drastica riduzione

dell’occupazione in generale a partire in primo luogo da quella

femminile. Il basso tasso della Romania riflette certamente una

struttura produttiva arretrata e per questo una forte capacità

dell’agricoltura di assorbire disoccupazione anche con lavori

stagionali o temporanei (Raspini 2005).

La caduta di Ceauşescu ha però consentito, a una parte

consistente di donne, una maggiore mobilità sociale e geografica,

anche se, l’acquisizione di tale libertà, sia comunque andata a

scapito della sicurezza: “l’acquisizione della sicurezza impone

sempre il sacrificio della libertà, mentre quest’ultima può

espandersi solo a spese della sicurezza. Ma la sicurezza senza

libertà equivale alla schiavitù, mentre la libertà senza sicurezza

equivale a essere abbandonati a sé stessi” (Bauman 2001, p.20).

183Sulla composizione interna dell’occupazione agricola va ricordato che si tratta di braccianti ma anche certamente di lavoro autonomo, di donne chelavorano la terra con la famiglia (family workers) e non va dimenticata l’alta quota di lavoro nero, informale e non dichiarato che caratterizza il settoreagricolo (ma anche i servizi) in questi paesi. L’occupazione agricola femminile è di solito caratterizzata da bassa scolarizzazione e quindi bassaqualificazione, età avanzata e alti livelli di povertà ed esclusione, el’arretratezza delle zone rurali è una delle questioni più gravi dei sistemi economici di questi paesi (CNEL 2004b, pp.15-16).

198

Nei primi anni Novanta, sono stati proprio questi squilibri nei

tassi di occupazione oltre ai bassi livelli retributivi e alla

progressiva dissoluzione del welfare, all’origine dei principali

conflitti sociali. Dopo tanti anni anche i romeni hanno potuto così

inscenare le loro proteste che, solitamente, mettevano a disagio le

autorità istituzionali almeno quanto gli imprenditori.

La presa di parola non sembra però trovare le forme e gli spazi

per riuscire ad imporsi nel dibattito pubblico che rimane un

momento di esclusione dei soggetti e di qualsivoglia società

civile. Pur in un clima democratico, le pratiche per bloccare gli

scioperanti riprendono alcune delle vecchie tradizioni: blocco

delle comunicazioni telefoniche, diffusione di false informazioni,

licenziamento di leader sindacali (Sacchetto 2004, p.137).

Il raffreddamento del conflitto sociale è stato un tema perseguito

dai governi romeni nel corso degli anni Novanta, con una

codificazione in termini di legge. Prima di iniziare un conflitto di

lavoro è obbligatorio passare attraverso dei tentativi di

conciliazione, un tentativo questo volto a spuntare la

conflittualità sindacale184. La debolezza e spesso la

frammentazione delle organizzazioni sindacali, in parte nuove

ma prive di esperienza, in parte generate dalle vecchie

organizzazioni burocratiche, ha frenato o reso impossibile

un’effettiva negoziazione delle nuove condizioni di lavoro: dagli

orari di lavoro di fatto ai contenuti dell’organizzazione del

lavoro, ai ventagli salari, alle modalità di reclutamento e

licenziamento. Un insieme crescente di fonti sul mutamento delle

184 Una ricerca condotta dal Ministero del lavoro romeno su 1507 vertenzecollettive tra il 1992 e il 1996, che interessarono circa tre milioni dilavoratori, ha rivelato che il 35% di questi conflitti è stato risolto dalle parti- rappresentanti sindacali e dell’azienda e talvolta anche del governo -durante le procedure di conciliazione (Casale 1997,p.17).

199

relazioni di lavoro nell’Europa centro-orientale, indica infatti un

generale indebolimento dei sindacati, che si riflette nella caduta

verticale del numero degli iscritti; nella riduzione dell’estensione

della contrattazione collettiva e nella scarsa influenza dei

sindacati sulla definizione di politiche pubbliche nazionali

(Kubiceck 1999). A causa dei grandi mutamenti economici

strutturali, come pure della diffusa percezione dei sindacati come

“residui del vecchio sistema”, i tassi di sindacalizzazione sono

diminuiti notevolmente in tutti i paesi post-comunisti. Nell’arco

del primo decennio della trasformazione, i livelli della

membership sono precipitati dal 90% circa al 20-35% (Cox e

Mason 2000). Tali sviluppi sono stati accompagnati da un calo

dei tassi di estensione della contrattazione collettiva e dal

decentramento contrattuale. La quota di lavoratori coperta da

contratti collettivi è precipitata da circa il 100% ad

approssimativamente il 25-30%, collocando la maggioranza dei

paesi dell’Europa centro-orientale in coda alla graduatoria degli

stati membri dell’Unione Europea per quanto riguarda

l’estensione contrattuale (Eiro 2002; Kohl e Platzer 2003). Si

assiste così a un divario che permane fra paradigmi formali e

pratica sostanziale nel dialogo sociale come nella contrattazione

collettiva.

In questo quadro, una speranza per i sindacati romeni (e di tutti i

paesi dell’Europa dell’Est) è stato costituito dalla costituzione di

istituzioni tripartite nella prima metà degli anni Novanta. Lo

sviluppo di queste forme è stato stimolato dalle istituzioni europee

come espressione della filosofia del dialogo sociale. Hanno influito

in questa direzione gli esempi dei paesi dell’Unione. Ma la nascita

del tripartismo ha trovato un terreno fertile soprattutto nell’esigenza

200

da parte delle nuove istituzioni di governo, caratterizzate da una

democrazia allo stato nascente, di individuare luoghi di possibile

elaborazione del consenso sociale. A questo modello di dialogo

sociale, imitato dall’esperienza prevalente nei paesi dell’Unione,

non corrisponde, tuttavia, una realtà sociale dotata di una concreta

rappresentatività. In un certo senso, la partecipazione alle sedi

tripartite non rifletteva una rappresentanza conquistata sul terreno

sociale, ma piuttosto l’esigenza di acquisire attraverso la

partecipazione una rappresentatività formale, a cui in molti casi non

corrispondeva una rappresentanza effettiva. Questo deficit di

rappresentanza e la conseguente artificialità rappresentativa sono in

linea generale un elemento caratterizzante sia dei sindacati sia delle

rappresentanze imprenditoriali. I governi, dal canto loro, hanno dato

spazio al dialogo tripartito in termini alterni, a seconda della

vicenda economica, della vocazione politica delle maggioranze e

del modello di governance prevalente (Huber 2004)185.

La debolezza delle organizzazioni si rivela in termini espliciti se si

passa dalle sedi istituzionali del dialogo tripartito al terreno della

negoziazione collettiva bilaterale. Qui il divario si manifesta in tutta

la sua portata. Le imprese nelle quali le organizzazioni sindacali

sono presenti costituiscono un’assoluta minoranza186. La scarsa

185 Le istituzioni tripartite, infatti, erano sfruttate dai governi principalmente per legittimarepolitiche di intervento già scelte e radicate nei principi economici del neoliberismo. Essesono servite puramente come corporativismo di facciata. Nella maggioranza dei casi, igoverni le hanno utilizzate in modo strumentale, come stratagemma per calmare leorganizzazioni di lavoro, piuttosto che come ambito di autentiche trattative sulle politicheproposte. Inoltre, spesso le istituzioni tripartite non sono riuscite a facilitare il consenso e,quando l’hanno fatto, l’attuazione di diversi accordi si è rivelata problematica (Avdagic 2004).186 I fattori che determinano questa situazione sono principalmente di treordini: innanzitutto, il processo di profonda e traumatica ristrutturazionedelle imprese tradizionali, dalle miniere alle acciaierie, alla navalmeccanica,all’elettromeccanica pesante che sono state smantellate, o divise attraverso la privatizzazione: qui i lavoratori che avevano acquisito una relativacapacità di “auto-rappresentanza” e di controllo sulle condizioni di lavoro hanno visto ridimensionarsi o scemare del tutto il loro potenziale di

201

presenza di queste organizzazioni nei luoghi di lavoro ha avuto

come effetto una contrattazione aziendale limitata, in generale

esercitata nelle imprese che hanno conservato una presenza

pubblica, e in alcuni servizi della pubblica amministrazione. Ma il

dato più rilavante è la mancanza di una rappresentanza a livello

settoriale e di una contrattazione di settore, che rappresenta in

generale la caratteristica principale del modello di relazioni

industriali nell’Unione a 25 e, in particolare, nell’esperienza

continentale (Mocanu,Mareş 2005).

Tuttavia, il discredito da cui è segnato il sindacato tra i Romeni non

ha impedito che nel processo di privatizzazione, come nella

discussione della nuova legge sul lavoro del 2003, esso fosse

considerato da alcuni dei governi che si sono succeduti un soggetto

qualificato della contrattazione. Il declino sindacale non significa

infatti che esso sia una forza inoperosa. Il sindacato rappresenta

ancora oggi una delle maggiori organizzazioni in una società civile

largamente passiva187.

In generale la conflittualità sul lavoro sembra essere più diffusa

nell’area meridionale, nella provincia di Hunedoara con le sue

controllo, sia pure informale. In secondo luogo, nel processo didisarticolazione dei vecchi apparati ha trovato spazio, soprattutto nei settoriterziari, un insieme di piccole e medie imprese di difficile penetrazionesindacale. In terzo luogo, la privatizzazione ha ampliato lo spazio agliinvestimenti delle imprese multinazionali nei settori a più alto potenziale dicrescita, sia industriali che nei servizi. In tutti e tre questi casi i sindacatihanno avuto difficoltà di insediamento o, comunque, di esercizio di uneffettivo potere negoziale (CNEL, 2003a).

187 Alla fine degli anni Novanta il numero di vertenze, pur con un andamento discontinuo,raggiunge l’apice del decennio. Si contano 653 vertenze, con un aumento complessivo del 235 per cento rispetto al 1990, mentre il numero dei lavoratori interessati supera il milione.Si tratta di conflitti lavorativi relativi al settore pubblico (miniere, gas, acqua, raffinerie,trasporto, poste e telecomunicazioni, sanità e assistenza sociale), come pure di comparti incui il capitale privato e internazionale è particolarmente presente (tessile, abbigliamento,calzature). Le motivazioni sono legate al salario(dal 34,3 per cento al 43,4 per cento tra il1992 e il 1999), alle condizioni di lavoro, alle ristrutturazioni e ai licenziamenti, oppure allenuove forme di organizzazione che portano a un diverso regime di orario o a compitiaddizionali (Ins 2004, cap.20,pp.24-26).

202

miniere e in quella di Sibiu e di Timiş, rispettivamente nel centro

e nel Nordovest, dove è consistente l’attività manifatturiera e la

presenza d capitale straniero. La stessa Sibiu, è anche sede di

un’agenzia per il reclutamento all’estero, oltre che snodo

fondamentale per gli autobus verso l’Italia e la Spagna (Voicu

2004).

La conflittualità sindacale, però, deve essere analizzata

all’interno del contesto di riferimento, dove si sta ora

manifestando un contraccolpo sociale che è rappresentato

dall’allargamento delle differenze nella distribuzione del reddito

interno e dall’allargamento delle disuguaglianze anche i termini

di aspettative. Questi divari nella scala retributiva possono essere

collegati ad almeno due circostanze particolari. La prima è data

dai modelli di occupazione che presentano una forte incidenza di

lavoro precario e di lavori regolati dalla contrattazione

individuale (sotto forma di lavoro autonomo o a contratto sulla

base del codice civile. La seconda è appunto la scarsa presenza

sindacale e la ridotta copertura contrattuale nei settori privati.

Questa stessa scarsa presenza sindacale riflette un mercato del

lavoro caratterizzato da un forte tasso di disoccupazione e, più in

generale, dalla diffusione del lavoro informale (Galgoczi 2004,

p.17).

La visione delle forti differenze tra chi è agganciato alle nuove

occasioni di ricchezza e chi ne è escluso o addirittura ne diviene

vittima alimenta così pericolosi malcontenti sociali.

Anche in Romania, infatti, come abbiamo visto, è cresciuta la

parte della popolazione che si definisce in difficoltà, anzi,

statisticamente, povera. Le responsabilità del passato regime

sono, a questo proposito, enormi e tragiche.

203

In economia, però, come in medicina, le terapie da cavallo

possono essere sopportate da un corpo forte, quando invece sono

somministrate a uno debilitato occorre occuparsi degli “effetti

secondari indesiderati”. E le ideologie economiche ultraliberiste,

dilagate ovunque nell’ultimo decennio, hanno molti effetti

indesiderati. Infatti, uno dei principali strumenti di crescita in

tutti i paesi dell’Est europeo sono stati proprio gli investimenti

esteri. Ma, a parte le cosiddette delocalizzazioni di imprese, gli

altri investimenti importanti sono stati quelli favoriti dalle

privatizzazioni. E ove non c’è capitale locale disponibile, le

privatizzazioni diventano automaticamente vendite alle

compagnie straniere. E come tutte le vendite dei gioielli di

famiglia, una volta alienato il patrimonio è impossibile pensare di

riutilizzarlo o controllarne l’uso. Crescita della forbice nelle

disuguaglianze dei redditi interni e vendita a compagnie straniere

dei gioielli di famiglia sono oggettivamente questioni che

alimentano un nuovo genere di malcontento.

Cosa si potrebbe fare allora? Certo, favorire i collegamenti

economici e accompagnarli con il dialogo sociale sarebbe cosa

buona e giusta, ma io aggiungo che occorre assumere anche un

punto di vista di politica macroeconomica. Quando si parla di

convenienza economica delle delocalizzazioni non si dovrebbe

più far riferimento al rientro degli utili (assumendo in questo

modo il punto di vista degli imprenditori italiani che investono).

Si dovrebbe, invece, cambiare totalmente rotta, assumendo

quello della convenienza di tutte le persone che lavorano, dei

lavoratori in Italia e dei lavoratori in Romania. E allora la visione

si allarga e la politica macroeconomica entra ampiamente in

campo: i sindacati italiani, ad esempio, faranno il loro dovere

204

difendendo qui i diritti sociali e salariali conquistati e imponendo

che vengano estesi anche ai lavoratori immigrati in Italia. Con

l’obiettivo ovviamente che progressivamente queste conquiste

siano estese anche ai lavoratori nei paesi dell’Est europeo a

partire in primo luogo dai paesi ove si delocalizzano le imprese

italiane.

Sarebbe assurdo, invece, e inappropriato, che il sindacato italiano

pensasse di combattere la disoccupazione in Italia attraverso una

concorrenza contro paesi dell’Europa orientale, accettando le

richieste e le pretese ultraliberiste della Confederazione degli

industriali italiani (Confindustria) di riduzioni salariali e

precarietà e flessibilità, verso il basso, dell’occupazione .

Sarebbe più utile concentrarsi su di una crescita interna basata su

ricerca e innovazione che faccia concorrenza ai paesi e alle

economie più forti sul piano di una sempre più alta qualità non solo

dei prodotti ma anche delle condizioni della vita nel suo complesso.

Ovviamente questa politica economica dovrebbe implicare e

comprendere in sé la naturale difesa dei diritti sociali, non

accontentandosi di sapere che l’occupazione aggregata cambia di

poco, ma valutando attentamente anche altri costi e benefici

indiretti. In fondo il compito di qualsiasi policy maker dovrebbe

essere quello di preoccuparsi dell’equità sociale, ovvero di quelle

cose di cui tipicamente un economista non si (pre)occupa.

3. Nord-Ovest e Nord-Est: delocalizzazioni e migrazioni.

205

Come evidenziato dai principali studiosi delle migrazioni

internazionali188, i flussi migratori contemporanei si

caratterizzano come processi complessivi, dove i fattori di

espulsione (push factors) dai paesi di origine (povertà,

disoccupazione, guerra, persecuzione politica, crescita

demografica ecc.) si intrecciano con quelli di attrazione (pull

factors) nei paesi d’arrivo(migliori condizioni di vita, migliori

condizioni di lavoro, presenza di comunità di connazionali,

richiesta di lavoro informale ecc.), e le scelte individuali si

confondono con quelle di famiglie e reti amicali. “Catene

migratorie” di varia natura leganodirettamente aree specifiche

nei paesi di origine e di destinazione, ciò che fa emergere in

primo piano la dimensione locale del fenomeno, pur in un

contesto caratterizzato da una crescente globalizzazione dei

mercati e delle società (Caponio 2003).

In Romania sono numerosi i fenomeni sociali e culturali che

possono arricchire l’analisi qui iniziata. Accanto alla

ristrutturazione delle reti sociali si nota infatti una crescente

individualizzazione che si manifesta principalmente nella

migrazione. Oltre alle tensioni interne e alle pressioni esterne,

connesse alla perdita progressiva di possibilità di riscatto

economico e sociale della seconda metà degli anni Novanta,

anche l’irruzione del capitale straniero ha contribuito a

intensificare e a trasformare i modelli migratori, incentivando le

migrazioni internazionali (Ianos 1998, pp. 56-57). La

modificazione delle abitudini di fabbrica e soprattutto l’amento

della produttività, coniugate con bassi salari, hanno provocato un

188 Per un approfondimento vedi: Massey et al.(1998);Barbagli 1998;Ambrosini 1999;Arango (2000); Sivini (2000);Sassen (1999,2002).

206

malcontento che talvolta può essere anche espresso con la

migrazione. I nuovi sistemi di lavoro, infatti, hanno eliminato

qualsiasi forma di autonomia nella prestazione lavorativa,

richiedendo inoltre un’elevata disponibilità.

La diffusione del capitale internazionale in queste aree ha

ampliato le disparità, sia tra i diversi paesi, sia all’interno degli

stessi, rinforzando così modelli migratori interni ed esterni189.

L’ emigrazione di massa è un fenomeno relativamente recente

per la Romania e ha inizio negli anni Novanta. Nel periodo

precedente la mobilità era gestita dalle autorità statali che

tenevano segrete tutte le informazioni relative alle migrazioni

internazionali. Le stesse migrazioni, comunque, sono sempre

state ridotte anche se esistevano flussi migratori verso la

Repubblica federale tedesca gestiti grazie a una serie di accordi

bilaterali firmati tra i due Stati. I migranti, reclutati attraverso

l’agenzia statale tedesca, venivano occupati nelle imprese che ne

facevano richiesta (Kofman et al. 2000, p.49). Non mancavano

quanti si spostavano all’estero al seguito di imprese statali per

periodi limitati di tempo. Le fami dell’emigrazione

corrispondono ai processi di rapida trasformazione economica

sicchè la caduta del vecchio regime ceauseschiano non è stata

sufficiente a innescare flussi migratori autonomi (Zaman, Vasile

2000, pp.14,29).

Nel corso degli anni Ottanta l’emigrazione costituì la fuga da un

regime il cui controllo si era progressivamente insinuato in ogni

spazio sociale e in cui la delazione era praticata su vasta scala:

189 Si è trattato, sostanzialmente, di una radicale trasformazione dei rapporti sociali conl’introduzione di forme di proprietà privata, di confronti quotidiani sia con il capitale internazionale sia con la progressiva dissoluzione dell’intervento statale a livello economico e sociale; in particolare, il ruolo dello stato, pur onnipresente e devastante, eraanche rassicurante in termini di sopravvivenza (Sacchetto,Treppete 2004,pp.53-54).

207

nel periodo 1980-1989 escono mediamente 27-28 mila Romeni

all’anno, mentre dal 1991 al 1999 la media si assesta a poco più

di 23 mila, giungendo ufficialmente a 12594 nel 1999 (Rotariu,

Mezei 1998; Zaman, Vasile 2000). Negli anni immediatamente

successivi alla rivoluzione di Natale la forma di emigrazione più

diffusa era quella che accompagnava il piccolo commercio, in

genere della pelletteria, verso i paesi confinanti (Polonia,

Ungheria, Jugoslavia) e Turchia. L’emigrazione per cercare

lavoro all’estero è certamente, a partire dal 1990, la forma più

diffusa visto che l’emigrazione per ragioni di studio è solo un

quinto del volume totale degli emigranti. La motivazione

economica è dunque quella fondamentale e la povertà, soprattutto

al livello delle piccole comunità, è il motore che alimenta i flussi

migratori (Sandu et al. 2004). I primi paesi di destinazione sono

stati Germania, Francia Israele (a seguito del programma di

sostituzione della manodopera palestinese) e Turchia (agricoltura

e costruzioni). Negli anni seguenti questi paesi hanno visto per

ragioni diverse una diminuzione dei flussi migratori dalla

Romania: la Germania ha accentuato i controlli e solo chi aveva

forti collegamenti in loco poteva trovare un lavoro legale;alla

fine degli anni 90 le restrizioni imposte dal governo israeliano a

seguito della guerra hanno disincentivato l’immigrazione e spinto

gli emigrati a “sparire” nel mercato nero e illegale (Pippidi et al.

2000). Italia, Spagna e Irlanda cominciano a diventare allora le

principalinuove destinazioni dell’emigrazione rumena in cerca di

lavoro. L’Italia in modo particolare diventa il primo paese di

destinazione dell’emigrazione romena sia per i cittadini originari

delle zone disagiate del paese (l’area meridionale e la Moldova

romena), sia per quelli provenienti dalle zone più prospere (il

208

Nord-Ovest, ossia l’antico Banato) là dove molto consistente è la

presenza di imprese e capitali italiani nel settore tessile e

calzaturiero. Non è casuale infatti che i romeni che partono da

queste regioni si rechino soprattutto nel Nord-Est italiano,

facendo a ritroso la strada fatta dai capitali italiani e utilizzando

la rete di conoscenze e di sostegno che ha origine nelle imprese

italiane in Romania (CNEL 2004a).

Se confrontata con i paesi vicini, la migrazione ufficiale romena

appare limitata per tutti gli anni Novanta: tra il 1990 e il 1998 si

tratta dell’1,3% della popolazione, mentre l’Albania e la Bulgaria

segnano rispettivamente una migrazione che interessa il 16% e il

18% della popolazione.

Negli ultimi anni l’andamento dei flussi migratori è in costante

crescita. Ci troviamo di fronte a un’emigrazione relativamente

bassa nei primi anni Novanta, che raddoppia nel 1998 e cresce

costantemente fino al 2001, anno a partire dal quale

l’emigrazione romena compie un balzo impressionante, si triplica

in un anno solo, con un ruolo molto importante svolto

dall’emigrazione verso l’Italia. Il 2001 è infatti l’anno in cui

l’Unione ha riformato la regolamentazione dei visti di ingresso

per i cittadini romeni, ed è un anno cruciale per l’emigrazione a

scopo di lavoro. I controlli e la sanzioni sono diventati più

rigorosi da parte delle autorità nazionali, ma la possibilità di

viaggiare liberamente per tre mesi in qualsiasi paese dell’Unione

ha favorito l’emigrazione alla ricerca di un lavoro all’estero e,

contestualmente, si è diffusa la formula di “un posto di lavoro per

più lavoratori”, vale a dire un lavoro all’estero su cui ruotano, per

non più di 3 mesi, 4 lavoratori (CNEL 2004a). La grande

maggioranza entra nei paesi dell’Unione europea con il visto

209

turistico e poi si sposta nel lavoro nero, sottraendosi così alle

rilevazioni.

Questo, però, fino a quando l’UE non ha esplicitamente richiesto

al paese di rafforzare la sicurezza alle frontiere, applicando

provvedimenti contro l'immigrazione clandestina. Infatti sotto la

pressione dei paesi dove la presenza degli immigrati romeni è

significativa e dove la maggior parte dei romeni lavora in nero, le

autorità di Bucarest hanno preso (senza pubblicizzarla troppo) la

misura estrema di ritirare già alla frontiera i passaporti di

migliaia di romeni tornati in patria per le ferie d'estate. Si tratta di

persone che non erano in grado di documentare i motivi per cui

avevano superato i 3 mesi di soggiorno nello spazio Schengen.

Lo scorso agosto, alle frontiere, le autorità di confine hanno

ritirato più di 4000 passaporti in seguito a nuovi provvedimenti

contro l'immigrazione clandestina introdotti dal governo romeno

su richiesta UE190. Dal primo 1 ottobre 2005 le autorità hanno

preparato anche un'altra novità, che in realtà è un vecchio

provvedimento mai applicato: senza un invito o una prenotazione

in albergo, 100 euro per ogni giorno di permanenza, biglietto di

andata e ritorno e assicurazione medica non si potrà uscire dalla

Romania (Iordache 2005b). Ma che ne sarà del diritto alla libera

circolazione sancito nell'art. 25 della Costituzione romena? E

della Dichiarazione per i Diritti dell'Uomo del 1948?

Anche a causa di quanto detto sopra, la durata della permanenza

all’estero negli ultimi anni è in calo, affermandosi sempre più la

forma dell’emigrazione “circolare” per la ricerca di un lavoro, di

190 Per le persone espulse c'è un provvedimento speciale, varato dal governoromeno nel 2003, che prevede la sospensione dei passaporti da 1 a 5 anni.

210

breve durata ma ripetuta nel tempo. Il volume delle rimesse191 si

aggira tra 1.5 e 2 miliardi di dollari all’anno (ma gli esperti dicono

che sono cifre sottostimate) che vengono di solito investiti in patria

nell’acquisto di beni di lunga durata e nei consumi, creando spinte

inflattive nelle comunità locali degli emigrati (Lazaroiu 2002).

Per quanto riguarda la composizione di genere, la presenza

femminile nei flussi migratori dalla Romania è molto consistente,

vicina al 50% del totale, se non superiore. Sono le donne che

emigrano in misura superiore, almeno legalmente, rispetto ai

maschi. E’ questo un fenomeno particolarmente interessante anche

perché, come è stato recentemente rilevato, le migrazioni femminili

mettono in crisi le teorie sulla scelta razionale o sulla spinta dovuta

ai soli fattori economici, poiché esse sono solitamente connesse alla

struttura dei rapporti di genere nei paesi di origine e di destinazione

delle migranti (Sacchetto,Treppete 2004, p.50)192.

Nell’emigrazione delle donne romene è certamente forte la

motivazione del ricongiungimento familiare, ma il protagonismo

femminile in tutta la recente esperienza dell’emigrazione dai

paesi dell’Est europeo è un dato evidente e innegabile (basti

pensare alle 95.000 donne ucraine o alle quasi 30.000 Moldave

che si sono regolarizzate in Italia nel 2004)193. Le donne partono

perché spesso sono sole ed hanno la responsabilità del

191 Secondo l’Ufficio Italiano Cambi, su 588 milioni di euro di rimesse inviate nel 2000 dagli immigrati soggiornati in Italia, la quota dei Romeni èdi 4,4 milioni, pari al 40% delle rimesse partite dall’Italia verso l’Europa dell’Est (11,8milioni di euro). A livello mondiale, secondo i dati dellaBanca Mondiale,l’apporto delle rimesse all’economia della Romania tra il 1990 e il 1999 è stato pari a 28 miliardi di dollari Usa. Se il volume dellerimesse ufficiali può sembrare relativamente cospicuo, è risaputo chesovente gli immigrati portano personalmente i risparmi in patria o liaffidano ad amici o parenti. Secondo vari studiosi, si può ritenere chealmeno la metà degli importi non transiti attraverso i canali ufficiali, bancarie postali (Ricci 2002).192 Cfr. Kofman et al. 2000.193 Cfr. Dossier Caritas 2005.

211

mantenimento dei figli e degli anziani in famiglie che hanno

subito le conseguenze della separazione e del distacco. Cercano

all’estero certamente le risorse economiche da inviare a casa, ma

anche la conferma del loro ruolo di capofamiglia, l’affermazione

della loro autonomia e della loro storica esperienza di

emancipazione (Zanin 2002). La loro migrazione è quindi anche

un tentativo di ribellione rispetto all’esclusione sociale a cui

vanno incontro nei piccoli villaggi romeni e rispetto alla

“posizione di inferiorità” a cui sembrano destinate; questo rifiuto

è poco visibile ma incide sui rapporti sociali quotidiani in una

società in cui forme di patriarcato stanno riprendendo il

sopravvento (Sacchetto,Treppete 2004, p.54)194. Questa

emigrazione femminile trova collocazione all’estero soprattutto

nei lavori di cura e assistenza195. Tra le classi di età più coinvolte

nella scelta di emigrare sono i giovani e tra questi quelli che

hanno meno di 18 anni. L’età preponderante è quella tra i 26 e i

40 anni, l’etàche più si presta a sopportare la fatica e le difficoltà

dell’emigrazione, legale e non (CNEL 2004a).

Dalla seconda metà degli anni Novanta, la migrazione dalla

Romania può essere fatta risalire a un doppio processo sociale ed

economico: il primo è la penetrazione del capitalismo italiano (e

più in generale europeo); la delocalizzazione dei distretti

industriali infatti, è andata di pari passo con l’immissione di

194 In effetti un elemento da tenere in considerazione consiste proprio nella forte ripresadella retorica patriarcale influenzata dal periodo di crisi economica, cioè dalla scarsadomanda di lavoro che giustifica e riproduce continuamente una posizione di sfruttamento edi subordinazione.195 E’ interessante rilevare come negli ultimi due anni ci sia stato da parte di alcuni sindacati romeni (BNS e ALFA) il tentativo di svolgere un ruolo diregolazione e di contrattazione delle condizioni delle infermiere/badantidestinate al mercato del lavoro estero.

212

manodopera immigrata nelle imprese collocate in Italia196,

diventandone una delle maggiori cause. Il secondo, invece

riguarda la crescente consapevolezza di un sistema di

occupazione europeo e mondiale in cui permangono ampi spazi

di inserimento proprio in corrispondenza del peggioramento della

situazione economica romena. La migrazione romena, quindi,

può definirsi “sia una mossa all’interno delle forme della

concorrenza per assicurarsi un salario migliore, sia un’esigenza

personale di confrontarsi con altri modelli comportamentali e

culturali” (Sacchetto 2004, p.173).

In questa situazione, l’affermarsi di intensi flussi migratori dalla

Romania all’Italia è sicuramente una delle più evidenti conseguenze

degli investimenti italiani in terra romena. I dati analizzati, infatti,

evidenziano una chiara correlazione tra commercio, investimenti

esteri e flussi migratori tra Italia e Romania e in particolare tra il

Veneto e le province di Timiş e Arad.

Il Veneto, infatti, oltre ad essere la regione italiana più attiva nei

processi di delocalizzazione e internazionalizzazione, rappresenta

anche la terza regione di destinazione dei flussi migratori in Italia,

con una percentuale di circa il 10% degli stranieri presenti in

Italia197. All’interno della regione, la gran parte dei distretti

industriali e della popolazione migrante, sono concentrati

principalmente nelle stesse quattro province: Vicenza, Verona,

Treviso, Padova. I settori economici che assorbono maggiori

196 L’espansione delle imprese occidentali in Romania (con investimenti esteri o con altre forme di acquisizioni ed alleanze) ha portato a un flusso dall’ovest all’est di consulenti, imprenditori, insegnanti,manager (Salt 2001,p.19). Tuttavia in Romania giunge solitamentepersonale italiano meno preparato tecnicamente di quello che rimane in Italia, mentre illivello di istruzione dei migranti romeni in Italia è generalmente più elevato rispetto aquello della popolazione italiana.

197I migranti residenti in Veneto sono passati da 25 mila nel 1991 a 140 mila nel 2000.Dopo la sanatoria decretata nel 2002 essi sono arrivati a toccare le 250 mila unità nel 2004(Veneto Lavoro 2005).

213

immigrati sono quello metalmeccanico, tessile, dell’edilizia,

chimico e del legno. Per quanto riguarda i Romeni, essi sono la

prima nazionalità per numero di presenze in Italia, circa 250 mila

secondo l’ultimo rapporto Caritas (Caritas 2005), anche se stando

alle stime del consolato e di alcuni esperti i presenti sarebbero tra i

500 mila e il milione. I poli attrattivi della migrazione romena sono

sostanzialmente tre: le città metropolitane di Roma e Milano, i

distretti industriali dell’Italia settentrionale e le zone agricole

durante i lavori stagionali (Stocchiero 2001). I primi arrivi di

migranti romeni avvengono agli inizi degli anni Novanta ma solo

nella seconda metà del decennio la loro presenza diventa

consistente, rappresentando oggi nel Veneto la seconda nazionalità

(Caritas 2005).

I lavoratori migranti costituiscono un elemento centrale nelle

trasformazioni economiche e sociali e per questo essi sono

oggetto di una gamma particolarmente ampia di politiche da

parte dei “paesi importatori”198. Da queste politiche migratorie,

emerge chiaramente il carattere di gestione politica del mercato

del lavoro che limita la libertà dei migranti. In Italia la

legislazione in materia, vincolando in maniera ferrea il permesso

di soggiorno al contratto di lavoro, contribuisce a sancire

concretamente il valore del lavoro migrante e il prezzo a cui esso

è chiamato a vendersi. Con il contratto di soggiorno i migranti si

198 Nonostante la presenza significativa di popolazione straniera residente in modopermanente o semi-permanente, l’Italia non ha sviluppato una politica migratoria omogenea, appoggiandosi piuttosto alle regolarizzazioni a posteriori di migranti giàpresenti nel territorio nazionale (Vedi a questo proposito la legge Martelli del 1990 che haportato alla regolarizzazione di 215 mila migranti; il decreto legge Dini del 1995 all’origine di 244 mila regolarizzazioni e i 217 mila migranti regolarizzati con la legge Turco-Napolitano del 1998. A questi vanno aggiunte le oltre 700 mila richieste di regolarizzazionedella legge Bossi-Fini del 2002). La politica migratoria ondeggia tra la chiusura o ilpattugliamento severo delle frontiere e la necessità di manodopera; l’effetto di tali oscillazioni è che i migranti rimangono, per un tempo più o meno lungo, alla mercè dicondizioni di clandestinità (Sacchetto 2004).

214

trovano così in un “altro mercato del lavoro”. I migranti

divengono ricattabili, sono cioè costretti, per garantirsi il

soggiorno, ad accettare condizioni di lavoro “in cui

l'inferiorizzazione diventa un processo sociale costitutivo della

possibilità della loro presenza” (Sacchetto 2004,p.221). Essi

devono innanzitutto avere un permesso di soggiorno in mano

prima di poter tentare di migliorare le proprie condizioni di

lavoro, ma per avere il permesso devono prima accettare un

contratto e garantire così una determinata erogazione di lavoro.

Negli ultimi anni si è poi affermata un nuovo tipo di

delocalizzazione, definibile provocatoriamente “alla rovescia”,

basata principalmente sui “contratti temporanei di distacco”. Tali

contratti, introdotti nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano, e

perfezionati da accordi bilaterali, consentono a un’impresa

italiana di associarsi con un’azienda dell’Est

(Croazia,Romania,Moldavia,Albania) dalla quale si fanno

“prestare” lavoratori da impiegare temporaneamente in Italia.

Sulla carta la normativa pone diversi vincoli a questo tipo di

contratti (non si possono “importare” semplici manovali; per

ogni extracomunitario va dichiarata quale mansione specializzata

svolgerà; la prestazione d’opera deve avvenire in un unico sito

produttivo, nel caso dell’edilizia in un unico cantiere). Gli

extracomunitari “distaccati” godono del contratto di categoria

italiano e dei contratti di secondo livello, aziendali o territoriali.

Il vantaggio per le aziende nostrane è che i contributi

pensionistici sono versati dall’azienda “madre” all’istituto

previdenziale del paese d’origine. Tuttavia, la carota “zero

contributi” non basta a soddisfare gli appetiti delle imprese

italiane. Quasi tutte, ottenuto il nulla osta dall’Ufficio provinciale

215

del lavoro competente, non rispettano i vincoli sopra elencati. In

genere le ore dichiarate sono la metà di quelle effettivamente

svolte e, quel che è peggio, il salario è aleatorio. La busta paga

non esiste, si va avanti ad “acconti”, il saldo spesso e volentieri

non arriva mai e, quando arriva, la somma è sempre inferiore ai

minimi contrattuali. Uno dei casi più eclatanti ha riguardato 12

romeni “importati” in Italia dalla Cores slr, impresa con sede a

Vigevano e subappalti pubblici e privati in Veneto e Lombardia e

lasciati senza stipendio in un monolocale di San Donà di

Piave199.

La funzione di erogatore di lavoro diviene quindi l'unico elemento

portante della vita del migrante.

Se, a partire dal secondo dopoguerra, il lavoro funzionava come

veicolo d'accesso ai diritti, ora viene rovesciato nel suo opposto: il

lavoro (e le sue diverse figure e mansioni) funziona da confine,

riproduce distanze culturali e sociali, e riduce al silenzio la

comunicazione politica tra gli operai.

Sarebbe ora interessante, ai fini dello studio, prendere in esame

alcuni dati relativi alla popolazione del Veneto. Dando uno sguardo

di insieme, si assiste a un progressivo mutamento della struttura per

età: caratterizzata inizialmente dalla forma piramidale con una larga

base di giovani e un vertice di anziani, essa si è trasformata

assumendo l’attuale forma lanceolata, con una stretta base di

giovani ed un allargamento al centro che rappresenta le molte

persone in età lavorativa. L’ipotesi è che fra trent’anni la struttura

assuma una forma romboidale, poiché pochissimi saranno i giovani

e tantissimi i sessantenni200. Secondo stime locali201, nel 2021 i

199 Cfr. Cartosio 2004, p.7.200 Per avere una rappresentazione del fenomeno basti pensare che l’indice di vecchiaia (rapporto tra numero degli anziani ultrasessantacinquenni e

216

bambini rappresenteranno solo il 7,4% della popolazione veneta

totale, i giovani (dai 14 ai 24 anni) il 10% e le persone sopra i 65

anni il 25,5%. Lo sviluppo dei distretti industriali veneti dipenderà

quindi, dalla capacità della regione di attrarre forza lavoro migrante

e di integrarla nei sistemi produttivi locali202.

Le conseguenze degli investimenti esteri, però, non si manifestano

solo nel paese “ricettore”; le delocalizzazioni produttive, infatti,

tendono a creare tensioni anche sul mercato del lavoro dei paesi

industrialmente più avanzati, in particolare nella fascia dei

lavoratori meno qualificati, consolidando una sorta di dualismo sul

mercato del lavoro tra garantiti e precari. In tutto il Nord-Est,

infatti, gli annunci di chiusure e di esuberi legati alle strategie di

delocalizzazione si susseguono con cadenza quasi quotidiana. Non

si tratta più della piccola azienda tessile o della fabbrica di scarpe

che “chiude bottega”, il fenomeno oramai interessa anche le grandi

aziende e i grandi gruppi. L’ultima notizia-choc è arrivata dalla

Zoppas, che ha annunciato una ristrutturazione a dir poco drastica

nei suoi stabilimenti del Veneto orientale e del Pordenonese: dagli

attuali 1.300 dipendenti vuole scendere a 680 nel giro di un paio di

anni (De Toma 2005)203. Ma è un fenomeno che interessa sempre

più aziende pronte ad annunciare l’ennesima ristrutturazione

interna. La notevole incertezza causata dai continui cambiamenti

ragazzi sotto i 14 anni) è passato dal 40% degli anni Sessanta al 125%attuale e arriverà al 200% nel 2010 (Veneto Lavoro 2005).201 Cfr. Osservatorio per l’Immigrazione 2004.202 Cfr. Marini 2005.

203 Nato nel 1963 dalla scissione in casa Zoppas tra il comparto della componentistica equello degli elettrodomestici, poi ceduto alla Zanussi, in Italia il gruppo attualmente fa capoa sei marchi di riferimento: Irca, Iris, Rica, Sipa, Sev e Coris, aziende che si sonoconquistate un posto tra i leader mondiali nel settore dei componenti per riscaldamento.Dopo un periodo di espansione tra il 1997 e il 1998, verso la seconda metà del 1998 ilgruppo cominciò a delocalizzare le proprie attività, con ripercussioni pesanti perl’occupazione italiana. I paesi interessati dal fenomeno erano la Romania, il Messico, la Cina e il Brasile. Negli stabilimenti in Romania a Timişoara, attualmente lavorano più di 2500 dipendenti (Cardazzo 2003).

217

sul mercato del lavoro provoca forme embrionali di disgregazione

sociale, di rivolta fiscale e di intolleranza che rimandano

probabilmente al timore della caduta della propria condizione

sociale. Alla pace sociale, che almeno approssimativamente ha

caratterizzato le relazioni lavorative e sindacali, specie nella piccola

impresa, si contrappone una protesta significativa espressa

attraverso forme politiche di valenza locale che si caratterizzano per

la forte chiusura culturale e sociale204. Tali sentimenti agevolano la

creazione di strumenti puntati contro i migranti stranieri, tra i quali

il principale è l’esclusione: dai posti di lavoro più qualificati, da

abitazioni decenti, dagli approcci con l’altro sesso. Ad ogni acuirsi

della crisi finanziaria ed economica internazionale si alimenta così

lo scompiglio nelle presunte “coese comunità di produttori” del

Nord-Est e lo stesso livello di “cooperazione gerarchica” viene

messo a dura prova. Con la introduzione della flessibilità

contrattuale si trasforma il mondo operaio in un “mondo a rate”

basato sul ritmo dei differenti contratti (Scortegagna,Zanin 2003).

L’organizzazione flessibile, infatti, non incoraggia particolare

lealtà, quanto piuttosto spinge a lavorare intensamente. Il nuovo

lavoro a tempo flessibile è seriale più che cumulativo, generando un

senso di frammentarietà e cancellando la memoria interiorizzata e

condivisa dei lavoratori (Sennett 2001, pp.20-21). L’espandersi dei

contratti a termine, come del lavoro interinale, appare così legato

alla selezione in entrata della forza lavoro e meno alle necessità

improvvise della produzione.

204 La crescita di un movimento fortemente separatista, quale la Lega Nord, sostenuto dapaure razionali e irrazionali, rappresenta probabilmente l’espressione del grado di insicurezza rispetto agli anni a venire, a fronte dello squilibrio persistente fra le domande e iproblemi che si esprimono e le risposte inadeguate che si ottengono (Iaccarino 1999).

218

Gli anni Novanta quindi, si sono contraddistinti per un caratteristico

“doppio movimento”: una crescita dell’internazionalizzazione del

sistema economico con investimenti produttivi verso l’estero

accompagnata da una crescita dell’immigrazione verso l’Italia. Ma i

flussi di lavoro migrante verso l’Italia e quelli di capitali e

tecnologie verso l’estero, pur costituendo canali paralleli, sono

rimasti ancora poveri di opportunità, intrecciandosi solo in casi

eccezionali (Stradi 2000,p.106). Tuttavia l’espansione del capitale

migrante in Romania segue la stessa logica del flusso di migranti in

Italia: lasciare un ordine sociale, economico e politico per entrare in

un altro dove poter muoversi con maggiori opportunità. Nel caso

italo-romeno, le possibilità che l’immigrato possa trasformarsi in un

“agente transnazionale di sviluppo”205, come prospettato da alcune

organizzazioni e istituti di ricerca nazionali, sembrano però ancora

limitate poiché il processo migratorio comprende aspetti che

trascendono quello prettamente economico.La migrazione assume,

infatti, le sembianze di una risposta alla continua chiusura, alle

difficoltà personali legate alla propria storia, ma anche alla lenta

penetrazione del capitale italiano e straniero che mostra più

chiaramente la propria condizione.

4. La Romania sulla strada dell’Europa. Integrazione

205 In pratica il Centro Studi di Politica Internazionale (Cespi) vuole cercare di mettere inevidenza gli elementi di transnazionalità degli immigrati (entrate ed uscite, mobilità eritorni, rimesse, iniziative di imprenditorialità) in relazione ai processi diinternazionalizzazione dei sistemi produttivi. I processi di integrazione e lo sviluppointegrato dei territori locali nei paesi di origine e di accoglienza, sarebbero così strettamentecollegati. La tesi del Cespi è che si rende necessaria una nuova politica di valorizzazionedelle capacità transnazionali degli immigrati anche se, è bene dirlo, ci troviamo ancora inuna fase incipiente e non strutturata del dibattito (cfr.Cespi 2000).

219

economica, esclusioni sociali.

Il consolidamento e la diffusione delle imprese italiane (e delle altre

straniere) in Romania, congiuntamente a un’ulteriore legislazione

nei settori dell’economia e della finanza, hanno portato il paese

verso un generale allineamento con le normative e i livelli

dell’Unione Europea, favorendone il cammino verso l’integrazione.

Generalmente si è soliti motivare l’allargamento come una grande

opportunità per i Paesi dell’Est; io sono però convinto che

l’allargamento dell’Unione Europea ai suoi “vicini” sia anche e

soprattutto nell’interesse dei paesi comunitari: perché fa crescere in

modo considerevole il mercato europeo interno, e mette a

disposizione, ancora per molto tempo, una forza lavoro qualificata e

con conoscenze europee a un costo molto minore di quella che essa

ha attualmente nell’Unione Europea. Infatti, non bisogna

dimenticare che nessuno dei nuovi stati membri esporta più verso

l’Unione Europea di quanto non importi. Il debito dei dieci paesi

verso le banche americane ed europee si aggira intorno ai 165

miliardi di dollari. Questo debito non è compensato affatto dagli

investimenti stranieri: nel 2000 questi investimenti cumulati si

aggiravano intorno a 95 miliardi di dollari (Lerouge 2004). Tutto

questo è molto simile ai rapporti tra l’Europa e il Terzo Mondo, non

è l’Europa che finanzia i nuovipaesi membri, ma sono questi che

finanziano i paesi ricchi europei. I nostri governi affermano che

l’allargamento permetterà di colmare il fossato tra le parti

occidentali ed orientali dell’Europa e di migliorare le condizioni di

vita dei lavoratori. La realtà mostra che è vero il contrario.

L’allargamento infatti, sembra soprattutto un’occasione per

rilanciare la competitività dell’industria europea. Quando

220

effettivamente ci sarà l’ingresso della Romania nell’UE, ci si

troverà in presenza di due scenari alternativi o, più probabilmente,

di una serie sfumata di situazioni intermedie. Da un lato sarà

possibile assistere a seconde delocalizzazioni in zone in cui il costo

del lavoro, le normative fiscali e le altre facilitazioni si mantengono

ancora più favorevoli (Bielorussia, Ucraina, Moldavia), dall’altro il

massiccio aumento dell’offerta di lavoro –caratterizzata da un

livello medio di salari che si attesta intorno al 14% de quelli medi

dell’UE –comporterà un abbassamento delle retribuzioni in diversi

settori produttivi, un aumento della disoccupazione e gravi conflitti

sociali (Toropowski 2005). A causa delle delocalizzazioni, infatti, si

rischia una guerra tra poveri, dove il dumping non si farà soltanto o

soprattutto nei paesi dell’Est, ma coinvolgerà sempre più

drammaticamente anche gli stati occidentali. Nel frattempo le

autorità europee si sono orientate a limitare l’accesso dei lavoratori

dell’Europa centro-orientale in Europa occidentale per un periodo

di sette anni dopo l’avvenuto ingresso di quei paesi nell’UE206. In

206A proposito della libera circolazione dei lavoratori nell’UE, a partire dal 1 maggio 2004, è stata prevista una fase transitoria, concordata tra l’Unione e i paesi appena entrati, per limitare il libero movimento dei lavoratori dai nuovi stati dell’Europa centrale e orientale. Per i lavoratori di Cipro e Malta non ci sono restrizioni in uscita (dato l’esiguo numero della popolazione ma, paradossalmente, in entrata. Fino al maggio 2006 l’accesso al mercato del lavoro degli attuali stati membri dipenderà dalle politiche nazionali e anchedagli accordi bilaterali che essi possono concludere con i nuovi stati. A metà 2006 laCommissione europea riferirà al Consiglio dei ministri dell’Unione per consentire una revisione degli accordi transitori. E gli stati membri dovranno comunicare allaCommissione cosa intendono fare nei tre anni successivi: se continuare con le misurenazionali o consentire la libera circolazione dei lavoratori. Esiste la possibilità che unodegli attuali stati membri chieda alla Commissione l’autorizzazione a continuare con l’uso delle misure nazionali per altri tre anni, fino al 2011, ma solo nel caso che l’esperienza fatta abbia comportato gravi conseguenze dimostrabili (o minacce di gravi conseguenze) sulmercato del lavoro nazionale. Durante tutto questo periodo, il paese tra i Quindici che abbiainterrotto l’applicazione delle misure nazionali e introdotto la piena libertà di movimento, può tornare ad un sistema di restrizioni, se l’esperienza compiuta ha prodotto graviperturbazioni del mercato del lavoro–ma spetta alla Commissione il tipo di restrizioni e ladurata. A metà 2011 – sette anni dopo l’ingresso –dovrà realizzarsi la totale libertà dicircolazione dei lavoratori dei nuovi stati membri. L’accordo transitorio vale per qualsiasi lavoratore dei paesi dell’Europa centro-orientale che abbia sottoscritto un contratto dilavoro con un’impresa di uno dei paesi EU15. Ma non si applica a chi voglia vivere in unodei paesi EU15 per studiare o per stabilirvisi come lavoratore autonomo (eccetto per alcuni

221

questo modo, però, si giunge a negare a una parte dei (futuri)

cittadini europei uno dei diritti fondamentali, quello della libera

circolazione. Se infatti il capitale e le merci italiane (e i cittadini

italiani stessi) possono circolare liberamente in Romania e negli

altri paesi dell’Europa dell’Est in virtù del principio del libero

scambio e, nel caso, mettere sotto contratto gli operai di questi

paesi, perché questi stessi operai non possono liberamente venire

(finanche a farsi sfruttare) con la stessa libertà in Italia?

E’ evidente l’esistenza di una profonda contraddizione tra la

politica praticata in materia di immigrazione (tuttora fortemente

centrata sul principio del confine e della separazione fra entità

statuali sovrane) e le strutture del sistema internazionale in

particolar modo quelle costitutive della crescente integrazione

economica. E’ un processo quello dell’integrazione economica

dell’Europa che non può essere lasciato alle dinamiche spontanee

del mercato, se si vogliono evitare indesiderabili situazioni di

“dumping sociale”, ma deve essere accompagnato dalla politica

(economica, industriale, sociale) e dall’azione del sindacato (ancora

troppo frammentato e debole in Europa centro-orientale) affinché

oltre alla crescita quantitativa di posti di lavoro, si possano

migliorare in maniera generalizzata anche le condizioni di lavoro e

di vita delle persone. Bisogna evitare insomma che sia solo la logica

del profitto a guidare questo processo e che nel gioco delle

delocalizzazioni il rischio di impresa, ad Ovest come a Est, si sposti

sempre di più dal capitale al lavoro (Milios 2005). Dovrebbe

settori, quali per esempio, l’edilizia in Austria e Germania). Nei paesi in cui i lavoratori dei paesi entrati arrivano sulla base di accordi transitori, chi cerca lavoro venendo dai nuovistati membri avrà diritto all’assistenza del collocamento pubblico. E i regolamenti dell’Unione sul diritto a cercare lavoro in un altro stato membro per non più di tre mesi saranno validi per i cittadini dei nuovi stati membri. Potranno richiedere nel proprio paesel’indennità di disoccupazione che verrà liquidata nel paese in cui si sono recati per cercare lavoro. L’ammontare sarà quello previsto nel proprio paese. Gli stati membri devono dare priorità ai lavoratori dei nuovi stati membri rispetto ai lavoratori provenienti dai paesiesterni all’Unione (Enlargement Weekly 2004).

222

tornare al centro del dibattito la qualità del modello economico e

sociale che accompagna la transizione. Il modello prevalente,

ispirato ai canoni neoliberisti del Fondo Monetario Internazionale e

della Banca Mondiale, si basa, oltre che sulle privatizzazioni, sulla

deregolamentazione del mercato del lavoro e sulla riduzione della

rete di protezione sociale che aveva un carattere universale, sia pure

povera, nel passato regime. In questo contesto, le relazioni

industriali non riescono ad esercitare una funzione effettiva nella

regolazione dei salari e delle condizioni di lavoro. La

privatizzazione e la liberalizzazione hanno dato spazio in parte alle

imprese multinazionali, in parte a una rete di piccole aziende: in

ambedue i casi, per ragioni diverse, le organizzazioni sindacali, sia

nuove sia derivanti dalle vecchie formazioni, difficilmente riescono

a esercitare una funzione di intervento, controllo e negoziato

(CNEL 2004b). Il “dialogo sociale”, infatti, risponde di più a un

obbligo di adesione formale al paradigma comunitario che non a un

concreto dispiegarsi dei rapporti sociali. L’integrazione economica

dovrebbe essere accompagnata da una efficace strategia di

integrazione sociale strettamente collegata a una innovazione del

sistema di welfare e del diritto del lavoro.

Il contesto economico-produttivo in questi ultimi decenni è infatti

profondamente mutato, sollecitato, da un lato, dalla richiesta di una

maggiore flessibilità dei sistemi produttivi indotta dal mutamento

della domanda di beni e servizi, e dall’altro dalla crescita della

soggettività individuale che incide sui consumi, ma anche sulle

aspettative degli individui accrescendo la selettività delle scelte

circa la ricerca del lavoro. Cambia la domanda, ma cambia anche

l’offerta di lavoro, per cui in questi anni abbiamo assistito al

moltiplicarsi delle forme di lavoro e all’allargamento dell’area dei

223

lavoratori dipendenti flessibili, discontinui, polivalenti, e a quella

dei lavoratori autonomi parasubordinati (come i co.co.co.), nuove

tipologie di lavoro prevalentemente subite dai lavoratori e che

hanno spiazzato le tutele classiche e la contrattazione sindacale, con

effetti non sempre socialmente desiderabili. Complice l’avanzare

dell’ideologia liberale, che ha accelerato il ridimensionamento

(peraltro fisiologico) dei meccanismi di solidarietà connaturati

all’organizzazione sociale fordista, la regolazione sociale è oggi

sempre più influenzata dal mercato con il suo portato di selezione e

competizione, per cui i meno attrezzati a far fronte alla domanda di

adattamento, mobilità e flessibilità, senza l’adozione di nuove

misure di protezione sociale, rischiano l’esclusione. L’immagine

che traspare oggi dalla “nuova Europa” si evidenzia, infatti, come

una realtà frammentata, infarcita di contraddizioni, protesa nella

sistematica soppressione dello stato sociale, dei diritti dei lavoratori,

della libertà individuale. Un caso esemplare di questo stato di cose

riguarda la proposta di direttiva “Bolkestein”(dal nome del

commissario europeo per la concorrenza e il mercato interno),

approvata all’unanimità dalla Commissione Europea (presieduta da

Romano Prodi) lo scorso 13 gennaio 2004207.

207 La Direttiva Bolkestein (IP/04/37) ha come obiettivo sintetico la riduzione dellaburocrazia e i vincoli sulla competitività all’interno dell’Unione attraverso la liberalizzazione dei servizi (che, è bene sottolineare, incidono sul Pil europeo per il 70%circa). Pomposamente annunciata come un provvedimento teso a “diminuire la burocrazia e ridurre i vincoli alla competitività nei servizi per il mercato interno”, la direttiva si prefigge di imporre ai 25 Stati membri dell'Unione le regole della concorrenza commerciale, senzaalcun limite, in tutte le attività di servizio; dove, per servizio si intende (art. 4) “ogni attività economica che si occupa della fornitura di una prestazione oggetto di contropartitaeconomica”. Il cuore della direttiva risiede nell’art.16 che introduce la “clausola del paese di origine”. In base a questa clausola, sovvertendo la legislazione finora in vigore, unqualsivoglia fornitore di servizi è tenuto a rispettare solo e solamente la legislazione delpaese nel quale ha sede la propria impresa, potendosi così permettere d'ignorare le leggi deivari paesi nei quali fornisce il servizio.Con questo principio l’Ue rinuncia definitivamente alla pratica dell’armonizzazione fra le normative dei singoli stati, pratica che era finora assurta ad elemento quasi fondativo dell’Unione stessa. Secondo il nuovo principio, un fornitore di servizi è sottoposto esclusivamente alla legge del paese in cui ha sede l'impresa,e non a quella del paese dove fornisce il servizio. Per dirla in parole semplici quantoapparentemente incredibili : un' impresa polacca che distacchi lavoratori polacchi in

224

Contrariamente al nobile proposito di ridurre gli intralci burocratici

che soffocano la competitività europea, di creare crescita e nuovi

posti di lavoro, la direttiva in oggetto si manifesta fin da subito

come un flagello in grado di smantellare definitivamente lo stato

sociale, i diritti dei lavoratori e gli equilibri salariali. La similitudine

con i principi e le procedure già stabilite in sede di Organizzazione

Mondiale del Commercio (WTO) con l' Accordo generale sul

Commercio dei Servizi (GATS) è evidente; similitudine che è

esplicitata direttamente alla pagina 16 del testo, laddove si dice che

“i negoziati GATS sottolineano la necessità per l'UE di stabilire

rapidamente un vero mercato interno dei servizi per assicurare la

competitività delle imprese europee e rafforzare la sua posizione

negoziale”(Bersani 2004). Ma la Direttiva Bolkestein va ancora

oltre. Innanzitutto perché, al contrario del GATS, non prevede

alcuna possibilità di restrizioni nazionali all'accordo. In secondo

luogo perchè gli ostacoli “burocratici” alla competitività, che si

prefigge di eliminare, sono in larga parte le disposizioni prese dai

poteri pubblici per la migliore prestazione del servizio in termini di

garanzie sociali ed ambientali, di tutela dell'accesso universale, di

trasparenza delle procedure, di qualità del servizio, di diritti del

lavoro, di contenimento delle tariffe (Farolfi 2005). In pratica, si

rimette radicalmente in discussione il potere discrezionale delle

autorità locali208.

Francia o in Belgio, non dovrà più chiedere l'autorizzazione alle autorità francesi o belghese ha già ottenuto l'autorizzazione delle autorità polacche, e a quei lavoratori si applicheràsolo la legislazione polacca(Attac 2005).208 Intanto però, già nel corso del 2004 si è subito mobilitato il fronte degli oppositori. Lasocietà civile ha fatto quadrato organizzando una campagna europea per frenare la direttivache ha nel sito www.stopbolkestein.org il suo maggiore braccio (informativo) armato. Perquanto riguarda l’Italia, oltre all’esistenza di un approfondito sito web (www.stopbolkestein.it) dove è possibile anche conoscere i promotori della campagnanazionale (Dall’Arci ai Verdi e a Rifondazione Comunista passando per diverseassociazioni laiche e cattoliche come Attac, Rete Lilliput, Social Forum e Cgil), il 15ottobre del 2005 c’è stata anche una grande manifestazione a Roma che ha visto la partecipazione di oltre 50 mila persone.

225

Innescandosi sulla situazione attuale già profondamente

compromessa dalle privatizzazioni indiscriminate, dalla pesante

recessione economica, dalla disoccupazione in continua ascesa, la

direttiva si propone di stabilire un quadro giuridico applicabile,

salvo rare eccezioni, a tutte le attività economiche di servizi,

perseguendo un approccio orizzontale e rifiutando a priori ogni

sforzo di armonizzazione con le singole legislazioni dei vari paesi

(Cedolin 2005). Ma prima ancora che la sorte di questa direttiva sia

decisa, un altro fronte di “liberalizzazione” del mercato del lavoro,

di medesima ispirazione, si sta aprendo questa volta, su scala

mondiale: al WTO infatti, si sta iniziando a discutere di “modo 4”:

si tratta, nel quadro dell’Accordo Generale sul Commercio dei

Servizi (AGCS), del quarto modo possibile di prestazione di servizi

4: la mobilità del personale. Contrariamente alla direttiva

Bolkestein, che riguarda la mobilità, senza limitazione di durata, di

lavoratori salariati di un’azienda o di semplici cittadini di un paese

dell’Unione, in uno qualsiasi degli altri paesi dell’UE, il modo 4

riguarda il distaccamento temporaneo di migranti nel quadro di una

prestazione transfrontaliera di servizi. Quindi sono interessate

soltanto persone qualificate: quadri, rappresentanti, dipendenti

aziendali stipendiati, lavoratori indipendenti (Cassen 2005). Una

ditta indiana di servizi informatici, può dunque distaccare un

ingegnere in Italia, nell’ambito di un preliminare contratto di lavoro

indiano, e per una prestazione limitata nel tempo209.

209 Questo esempio mostra chiaramente come si tratti di una “delocalizzazione sul posto”: invece di far elaborare un programma informatico in India, la ditta italiana ottiene lo stessorisultato “importando” provvisoriamente in Italia, in tutta legalità, un indiano pagato conuno stipendio indiano. L’interessato non godrà di alcun diritto di soggiorno, potendo essere rimpatriato in qualsiasi momento, e si troverà in concorrenza diretta con un ingegnereitaliano pagato tre o quattro volte di più. Una forma sofisticata di dumping sociale (Cassen2005).

226

Si profila dunque un domani da vivere (o sopravvivere) in un

mondo del lavoro precarizzato oltremisura, dove lo stato di diritto e

quello sociale diverranno ben presto retaggi del passato.

Un'Europa sempre più privatizzata, succube della competizione

sfrenata, probabilmente più omogenea perché appiattita su un

livello di qualità della vita decisamente più basso rispetto a quello

di oggi. Un Europa dove perderà sempre più importanza il valore

dell'individuo, immolato sull'altare della competitività, del mercato

e della concorrenza. Un'Europa sempre più schiava del capitale,

delle corporations, delle banche e delle grandi multinazionali.