18

Book Box Vol. III

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Quattro racconti Singolari editi da Liberaria

Citation preview

francesco gavatorta

VALE

livio milanesio

L'ISOLA

francesco formaggi

SCARPE A COLAZIONE

letizia bognanni

PASSIONE CAFE'

VALEfrancesco gavatorta

8

Il palco era basso tanto che alle mie

ginocchia ci arrivavano le teste di quelli

che m’avrebbero ascoltato. Però era sempre

così, quando facevamo le gare al Puddhu

Bar. C’erano due livelli: io, il beat che

batteva, la mia voce. E poi, in basso: le

mie ginocchia che si piegavano, le teste di

chi ascoltava, le loro voci che a differenza

della mia erano un ammasso di rumore senza

armonia.

Un’altra gara di freestyle. Sarà stata

l’ottantaduesima, forse l’ottantatreesima,

non ricordo. Io che dell’improvvisazione

avevo fatto un modo di vivere e, qualche anno

prima, quasi una carriera, e avevo imparato

a tenermi a mente i numeri di tutte le gare

che facevo. A trent’anni passavo il tempo

cantando rime di fronte a cento persone o

poco meno, in sfide come quella. Ero uno dei

9

pochi rimasti a cercare di divertirmi con

l’hip hop, a Torino. Dicevano che il rap era

morto, da queste parti: tranne per me e pochi

altri che ancora riempivamo i sottoborghi

di una Torino sempre più brillante, unico

covo che ci era rimasto i Murazzi, il

posto frequentato anche da chi ci dava per

spacciati.

Un’altra gara: questa volta contro uno di

Napoli. Laggiù la scena era ancora viva, mi

era capitato di andarci a improvvisare. Ma

roba seria, no. E poi, le facce all’altezza

delle ginocchia era meglio averle a Torino,

quando sai che se qualcuno prova a tirarti

giù dal palco, hai almeno quelli della Zona

che ti aspettano fuori, per coprirti le

spalle.

Il mio avversario si faceva chiamare Dr.

Cleck. Era uno di quelli che imita i rapper

americani. In Zona li chiamavamo i poser

perché assumevano le pose senza aver sostanza,

anche se, nel suo caso, c’era anche un po’

di talento. Se la cavava bene a fare rime in

dialetto, come quelli delle sue parti.

L'ISOLALivio milanesio

29

Se hai ascoltato le autorità che ti hanno

parlato del nostro ritorno, saprai che al

porto arriverà un bastimento di nome Sussex.

Facile da riconoscere: è una vecchia nave

dal culo grosso e un camino che butta un

fumo nero che si vede per chilometri. Su

quella nave ci sono gli ultimi rimpatriati

del mio reggimento, rilasciati dal campo di

prigionia dopo la fine della guerra.

La mia guerra è finita per sempre nell’autunno

del quarantadue, nel deserto. Una pattuglia

di sudafricani mi ha stanato dalla buca dove

stavo sepolto da quattro giorni. Ero rimasto

sotto un fitto bombardamento e avevo perso la

ragione. Sono stati costretti a farmi uscire

con le baionette. Mi hanno cavato dal buco

come un dente marcio. Sono strisciato morto

di paura, con i pantaloni bagnati, incapace

di parlare e di stare dritto come un essere

umano. Avevo una gamba dura e un braccio che

30

non rispondeva più ai comandi. All’inizio

mi hanno trattato male, come si usa tra

soldati, ma poi mi hanno poggiato a terra,

mi hanno dato da bere.

Mi hanno portato in un campo di prigionia,

insieme a un centinaio di commilitoni. Un

campo piccolo, sperduto in un’oasi in mezzo

al deserto. Me ne stavo seduto al sole, per

ore, senza riuscire a mettere un pensiero

dietro l’altro. Era come se avessi appena

finito una lunga corsa. Mi importava solo di

respirare e di non muovermi più. Non parlavo

con nessuno. Mangiavo poco. Bevevo poco.

A volte, pur di non alzarmi, me la facevo

addosso. Gli altri internati mi salutavano,

mi accarezzavano la testa come si fa con un

bambino stupido. Mi spostavano all’ombra,

preoccupati per la pelle che arrostiva. Ci

rimanevo poco, scivolavo subito al sole,

cercavo il calore, come un animale a sangue

freddo. La notte qualcuno mi spingeva verso

la camerata. Nella camerata mi avevano

riservato un angolo, lontano dagli altri,

un grumo di coperte e stracci dal quale

contemplavo la luna. Dormivo poco. Così

mi hanno raccontato, dopo la liberazione.

SCARPE A COLAZIONEFRANCESCO FORMAGGI

51

La signora ha i piedi gonfi. Sarebbe

bello scoprire come farà a togliersi

le scarpe quando sarà tornata a casa.

Deve aver faticato molto per infilarle.

Senz’altro è stata l’ultima cosa che

ha fatto prima di uscire, già vestita

di tutto punto, con il completino

azzurro che le vedo addosso ora: ha

attraversato scalza il soggiorno, si

è seduta sulla panca accanto alla

scarpiera e ha iniziato a lavorare di

calzante. Anzi no: è stata la prima

cosa che ha fatto, per togliersi il

pensiero, subito dopo essere uscita

dalla doccia e prima di vestirsi,

cospargendosi i piedi di borotalco e

52

infilandoli nelle scarpe, prima ancora

di indossare la biancheria intima.

Sono scarpe bianche, col tacco

basso, aperte sulla punta. Fuoriesce

l’alluce tozzo, con l’unghia smaltata

di bianco, un’unghia insolitamente

tonda, sembra una moneta. Le stringhe

intrecciate sul collo del piede

segnano la carne lasciando solchi

bianchi come strette di corda. Più

su, un gruppo di piccole farfalle

tatuate all’altezza del malleolo

svolazza in formazione sparsa con

tutta l’aria di volersi avvolgere

attorno al polpaccio e risalire a

spirale la caviglia fino al goffo

promontorio del ginocchio sul quale

la signora lascia penzolare la mano

dopo aver preso un lungo tiro di

sigaretta.

Non si direbbe una tipa da tatuaggio,

e non si direbbe neanche una tipa

dalla circolazione periferica così

PASSIONECAFE'letizia bognanni

62

Prima stazione. “Che farò dunque

di quello che voi chiamate il re dei

giudei?” ed essi di nuovo gridarono:

“crocifiggilo!”.

Salvo aveva voluto per tutta la vita

un fidanzato che fa regali inaspettati,

motivati da nient’altro che dall’amore.

Quella mattina Roberto gli aveva

fatto trovare un pacchetto accanto

alla tazzina del caffè. Lui l’aveva

aperto, emozionato come non mai, ma

la gioia si era trasformata prima in

perplessità, poi in sospetto, infine

in amara certezza.

63

A Salvo non era mai piaciuto, Tiziano

Ferro. E non gli erano mai piaciuti

nemmeno i cantanti che scrivono libri.

«E ti ha fatto pensare a me perché?».

Non aveva aspettato la risposta.

«Non me ne frega niente del coming

out di Tiziano Ferro. Dirò tutto a

mia madre quando sarà il momento. E

adesso non lo è».

Roberto aveva contratto la mascella,

cosa che faceva quando era molto

arrabbiato. «Sono stanco di questa

situazione, e lo sai. Diglielo.

Oggi. Voglio festeggiare la Pasqua

con il mio fidanzato, non con il mio

coinquilino».

«Gli ultimatum da checca isterica

non ti si addicono. Adesso devo

andare, ne riparliamo».

«Sì vai, vai. Vai a fare la via

crucis con mammina e i tuoi amici

preti. Ma stai attento, che quando

torni forse non mi trovi».