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Quattro racconti Singolari editi da Liberaria
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francesco gavatorta
VALE
livio milanesio
L'ISOLA
francesco formaggi
SCARPE A COLAZIONE
letizia bognanni
PASSIONE CAFE'
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Il palco era basso tanto che alle mie
ginocchia ci arrivavano le teste di quelli
che m’avrebbero ascoltato. Però era sempre
così, quando facevamo le gare al Puddhu
Bar. C’erano due livelli: io, il beat che
batteva, la mia voce. E poi, in basso: le
mie ginocchia che si piegavano, le teste di
chi ascoltava, le loro voci che a differenza
della mia erano un ammasso di rumore senza
armonia.
Un’altra gara di freestyle. Sarà stata
l’ottantaduesima, forse l’ottantatreesima,
non ricordo. Io che dell’improvvisazione
avevo fatto un modo di vivere e, qualche anno
prima, quasi una carriera, e avevo imparato
a tenermi a mente i numeri di tutte le gare
che facevo. A trent’anni passavo il tempo
cantando rime di fronte a cento persone o
poco meno, in sfide come quella. Ero uno dei
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pochi rimasti a cercare di divertirmi con
l’hip hop, a Torino. Dicevano che il rap era
morto, da queste parti: tranne per me e pochi
altri che ancora riempivamo i sottoborghi
di una Torino sempre più brillante, unico
covo che ci era rimasto i Murazzi, il
posto frequentato anche da chi ci dava per
spacciati.
Un’altra gara: questa volta contro uno di
Napoli. Laggiù la scena era ancora viva, mi
era capitato di andarci a improvvisare. Ma
roba seria, no. E poi, le facce all’altezza
delle ginocchia era meglio averle a Torino,
quando sai che se qualcuno prova a tirarti
giù dal palco, hai almeno quelli della Zona
che ti aspettano fuori, per coprirti le
spalle.
Il mio avversario si faceva chiamare Dr.
Cleck. Era uno di quelli che imita i rapper
americani. In Zona li chiamavamo i poser
perché assumevano le pose senza aver sostanza,
anche se, nel suo caso, c’era anche un po’
di talento. Se la cavava bene a fare rime in
dialetto, come quelli delle sue parti.
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Se hai ascoltato le autorità che ti hanno
parlato del nostro ritorno, saprai che al
porto arriverà un bastimento di nome Sussex.
Facile da riconoscere: è una vecchia nave
dal culo grosso e un camino che butta un
fumo nero che si vede per chilometri. Su
quella nave ci sono gli ultimi rimpatriati
del mio reggimento, rilasciati dal campo di
prigionia dopo la fine della guerra.
La mia guerra è finita per sempre nell’autunno
del quarantadue, nel deserto. Una pattuglia
di sudafricani mi ha stanato dalla buca dove
stavo sepolto da quattro giorni. Ero rimasto
sotto un fitto bombardamento e avevo perso la
ragione. Sono stati costretti a farmi uscire
con le baionette. Mi hanno cavato dal buco
come un dente marcio. Sono strisciato morto
di paura, con i pantaloni bagnati, incapace
di parlare e di stare dritto come un essere
umano. Avevo una gamba dura e un braccio che
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non rispondeva più ai comandi. All’inizio
mi hanno trattato male, come si usa tra
soldati, ma poi mi hanno poggiato a terra,
mi hanno dato da bere.
Mi hanno portato in un campo di prigionia,
insieme a un centinaio di commilitoni. Un
campo piccolo, sperduto in un’oasi in mezzo
al deserto. Me ne stavo seduto al sole, per
ore, senza riuscire a mettere un pensiero
dietro l’altro. Era come se avessi appena
finito una lunga corsa. Mi importava solo di
respirare e di non muovermi più. Non parlavo
con nessuno. Mangiavo poco. Bevevo poco.
A volte, pur di non alzarmi, me la facevo
addosso. Gli altri internati mi salutavano,
mi accarezzavano la testa come si fa con un
bambino stupido. Mi spostavano all’ombra,
preoccupati per la pelle che arrostiva. Ci
rimanevo poco, scivolavo subito al sole,
cercavo il calore, come un animale a sangue
freddo. La notte qualcuno mi spingeva verso
la camerata. Nella camerata mi avevano
riservato un angolo, lontano dagli altri,
un grumo di coperte e stracci dal quale
contemplavo la luna. Dormivo poco. Così
mi hanno raccontato, dopo la liberazione.
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La signora ha i piedi gonfi. Sarebbe
bello scoprire come farà a togliersi
le scarpe quando sarà tornata a casa.
Deve aver faticato molto per infilarle.
Senz’altro è stata l’ultima cosa che
ha fatto prima di uscire, già vestita
di tutto punto, con il completino
azzurro che le vedo addosso ora: ha
attraversato scalza il soggiorno, si
è seduta sulla panca accanto alla
scarpiera e ha iniziato a lavorare di
calzante. Anzi no: è stata la prima
cosa che ha fatto, per togliersi il
pensiero, subito dopo essere uscita
dalla doccia e prima di vestirsi,
cospargendosi i piedi di borotalco e
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infilandoli nelle scarpe, prima ancora
di indossare la biancheria intima.
Sono scarpe bianche, col tacco
basso, aperte sulla punta. Fuoriesce
l’alluce tozzo, con l’unghia smaltata
di bianco, un’unghia insolitamente
tonda, sembra una moneta. Le stringhe
intrecciate sul collo del piede
segnano la carne lasciando solchi
bianchi come strette di corda. Più
su, un gruppo di piccole farfalle
tatuate all’altezza del malleolo
svolazza in formazione sparsa con
tutta l’aria di volersi avvolgere
attorno al polpaccio e risalire a
spirale la caviglia fino al goffo
promontorio del ginocchio sul quale
la signora lascia penzolare la mano
dopo aver preso un lungo tiro di
sigaretta.
Non si direbbe una tipa da tatuaggio,
e non si direbbe neanche una tipa
dalla circolazione periferica così
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Prima stazione. “Che farò dunque
di quello che voi chiamate il re dei
giudei?” ed essi di nuovo gridarono:
“crocifiggilo!”.
Salvo aveva voluto per tutta la vita
un fidanzato che fa regali inaspettati,
motivati da nient’altro che dall’amore.
Quella mattina Roberto gli aveva
fatto trovare un pacchetto accanto
alla tazzina del caffè. Lui l’aveva
aperto, emozionato come non mai, ma
la gioia si era trasformata prima in
perplessità, poi in sospetto, infine
in amara certezza.
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A Salvo non era mai piaciuto, Tiziano
Ferro. E non gli erano mai piaciuti
nemmeno i cantanti che scrivono libri.
«E ti ha fatto pensare a me perché?».
Non aveva aspettato la risposta.
«Non me ne frega niente del coming
out di Tiziano Ferro. Dirò tutto a
mia madre quando sarà il momento. E
adesso non lo è».
Roberto aveva contratto la mascella,
cosa che faceva quando era molto
arrabbiato. «Sono stanco di questa
situazione, e lo sai. Diglielo.
Oggi. Voglio festeggiare la Pasqua
con il mio fidanzato, non con il mio
coinquilino».
«Gli ultimatum da checca isterica
non ti si addicono. Adesso devo
andare, ne riparliamo».
«Sì vai, vai. Vai a fare la via
crucis con mammina e i tuoi amici
preti. Ma stai attento, che quando
torni forse non mi trovi».