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Timothy Zahn

E V O L U T I O N

Traduzione di Luca Fusari e Sara Prencipe

StarCraft: Evolution è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono in-venzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assoluta-mente casuale.

ISBN 978-88-04-67320-0

Copyright © 2016 by Blizzard Entertainment, Inc. All rights reserved.This translation published by arrangement with Del Rey,

an imprint of Random House,a division of Penguin Random House LLC, New York.

© 2017 Mondadori Libri S.p.A., MilanoTitolo dell’opera originale

StarCraft EvolutionI edizione marzo 2017

librimondadori.itanobii.com

E V O L U T I O N

Per Corwin, che ha portato StarCraft nella mia vita

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La guerra era finita.Gli incubi no.Al sergente dei marine Foster “Whist” Cray non importava

granché dei sogni. Diamine, in missione era sopravvissuto a cinque anni di incubi a occhi aperti. Ormai, in teoria, alla pau-ra e al panico avrebbe dovuto essere abituato.

Quello che gli dava sui nervi dei sogni era la monotonia. L’inferno della guerra, perlomeno, gli aveva offerto periodici

cambi di scenario. Il suo plotone aveva combattuto nel deser-to, nella giungla, nella foresta, nella prateria, in città – più che città erano cumuli di macerie e tubature storte, ma tanto vale-va – e una volta persino su una spiaggia.

Anche i nemici erano stati di ogni genere. Aveva sparato con-tro zergling, idralische, laceratori e tutta quella serie infinita di creature infernali. A volte il sorvegliante, la regina o chiunque guidasse l’assalto inviava i mostri più terribili, e a quel punto i marine si trinceravano mentre un Viking o un Thor si gettava nella mischia per affrontarli.

E un nemico mai incontrato era pur sempre una novità. Ave-va anche visto i protoss, di solito impegnati sul campo di batta-glia a infliggere gravi danni alle forze del Dominio. In un paio di occasioni era addirittura riuscito a sparare a uno di quei gros-si alieni che avanzava incurante verso di lui.

Gli incubi, invece, erano tutti fastidiosamente uguali.C’erano sempre zerg e idralische. C’erano sempre lui, Jesse e

Lena che si spalleggiavano a vicenda contro un attacco furioso.

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E il suo maledetto fucile gaussiano C-14 non funzionava mai. Sparava bene. Rombava col solito colpo sordo e lui senti-

va il rinculo contro lo spallaccio della corazza, come previsto. Ma, invece di fiammeggiare a velocità supersonica in direzio-ne dei mostri che li attaccavano, i chiodi da 8 millimetri esplo-devano in un patetico arco che li faceva crollare miseramente a terra un paio di metri davanti a lui. Lui provava e riprovava a fare fuoco, ma riusciva soltanto a conficcare chiodi nel terre-no. Gli zerg continuavano ad avvicinarsi, spalancavano le fau-ci per divorarli, e lui si svegliava coi sudori freddi.

Non sapeva mai che fine facessero Jesse e Lena. Spesso si chiedeva se fossero sopravvissuti al sogno.

Probabilmente no. Non erano sopravvissuti alla guerra, non c’era ragione che sopravvivessero al sogno.

Dopodiché se ne stava sdraiato al buio ad ascoltare i battiti sordi del cuore, aspettando di riaddormentarsi. A volte sguscia-va fuori dalla stanza nella nuova caserma dei marine ad Augu-stgrad e beveva una tazza di caffè sul tetto per schiarirsi le idee nella gelida aria notturna.

Ma quello era un giorno speciale. Era il sesto anniversario della fine della guerra, o almeno della sua parte di guerra. Quel giorno l’incubo e il ricordo del sacrificio di Jesse e di Lena e di tutti gli altri meritavano qualcosa in più.

Di solito il tetto era deserto: la gente normale che non faceva il turno di notte dormiva. Quella notte invece trovò qualcuno: un uomo esile e minuto che se ne stava un po’ ingobbito con i gomiti sul parapetto a fissare i sobborghi della città. «Era ora» esclamò quello quando Whist fece capolino dalla scala.

Whist abbassò in fretta la bottiglia che aveva preso al Cir-colo dei Sottoufficiali, nascondendola dietro la schiena. Non si potevano consumare superalcolici fuori dal circolo. «Pre-go?» chiese.

L’uomo si girò per metà, e nella luce riflessa della città alle sue spalle Whist riconobbe la familiare combinazione di giova-nile esuberanza fisica e travagliata maturità psicologica. Era un veterano, di sicuro. «Mi scusi» disse il ragazzo. «Pensavo fosse qualcun altro.» Lo chiamò con un cenno. «Venga, si unisca alla compagnia. Ho visto che ha portato i viveri.»

Whist fece una smorfia. Troppo tardi per tenere nascosta la

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bottiglia. Per un attimo pensò di voltarsi e scappare prima di essere identificato, poi decise che non gliene importava nulla. «Idea stramba salire quassù in cerca di compagnia» commen-tò, procedendo sulla superficie irregolare che ricopriva il tetto.

«Sono qui per il panorama, non per il posto» disse l’altro indi-cando dietro di lui. «Io e un mio amico volevamo seguire gli ad-destramenti notturni. Probabilmente non ha sentito la sveglia.»

Whist lo guardò accigliato mentre l’altro gli dava le spalle. In lontananza, sopra un cumulo di macerie che un tempo era stato un centro abitato, vide una decina di tenui bagliori che si agitavano come calabroni infelici. «Quelli cosa sono?»

«Lei che ne dice?» ribatté il ragazzo sbuffando. «Di questi tempi chi altri se non i mietitori viene trascinato fuori ad alle-narsi nel bel mezzo della notte?»

«Credevo che i mietitori si limitassero a saltellare su per le colline e giù dai dirupi» obiettò Whist. «Quand’è che hanno co-minciato a volare in cerchio?»

«Oh, da sempre» commentò il ragazzo. «Quando è partito il programma erano già dotati di zaini jet.»

«Sembra divertente.»«Lo era, sì» replicò il ragazzo, «peccato che le nuove reclute

tendevano a schiantarsi. Spesso.»«Ho sentito dire che esplodevano anche gli zaini.»«Più spesso di quanto fosse accettabile» ammise il ragazzo.

«Comunque, con la fine della guerra, quando improvvisamente c’è stato tempo per un addestramento adeguato, a poco a poco hanno cominciato a reintrodurre gli zaini volanti; hanno man-tenuto un po’ delle vecchie unità, altre sono state migliorate, ma l’obiettivo originale del progetto è rimasto.»

«Senza esplosioni fortuite?»«Speriamo, sì.»«Be’, fluttuare di qua e di là li rende bersagli migliori» com-

mentò Whist scegliendo con cura le parole. Il ragazzo aveva detto “speriamo”, quindi anche lui era un mietitore? Magnifico.

Perché, se i marine erano la punta di diamante, i mietitori erano la feccia. Letteralmente.

O almeno lo erano stati. Durante la guerra, sotto il regno dell’imperatore Arcturus Mengsk, si diceva che l’intero cor-po dei mietitori fosse composto da criminali incalliti con incli-

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nazioni asociali impossibili da gestire, che avevano scelto folli obblighi militari come alternativa alla prigione o peggio. Forse il modo in cui i mietitori riuscivano ad avventarsi su un fron-te nemico di zerg spuntando dal nulla piaceva ai marine, ma a parte questo nessuno si fidava davvero di loro.

Sembrava che il figlio di Arcturus, il nuovo imperatore Vale-rian, stesse introducendo cambiamenti radicali. Whist ci avreb-be creduto quando lo avesse visto con i propri occhi.

«Parla come uno che è stato un loro bersaglio.» Il ragazzo gli offrì la mano. «Tenente Dennis Halkman, 122° mietitori.»

«Sì, signore» disse Whist, irrigidendosi sull’attenti e facendo il saluto. Mietitore e ufficiale. Di bene in meglio.

E, se Halkman era nel 122°, quasi certamente era stato in guerra. Forse per anni.

Il che lo rendeva un’anomalia assoluta. Per un mietitore, la durata media del servizio era sei mesi. «Sergente Foster Cray, 934° marine» si identificò Whist.

«Felice di conoscerla, sergente» disse il ragazzo senza ritrarre la mano o ricambiare il saluto. «E avrei dovuto specificare “ex” tenente. Sono stato assegnato alle riserve, e comunque imma-gino che lei odi gli ufficiali, quindi risparmiamoci i “signore” e il saluto, okay? Dammi pure del tu e chiamami Dizz.»

«Sì, signore» ribatté Whist scuro in volto. Non era affatto il genere di interazione tra ufficiali a cui era abituato.

Di certo Dizz aveva una serie di abilità criminali nascoste, legate alla sua vita da pre-mietitore. Forse aveva sviluppato quell’approccio informale e amichevole con gli sconosciuti per metterli a loro agio. Magari era stato un truffatore? «E tu puoi chiamarmi Whist» aggiunse il marine dando la mano a Dizz, che aveva una stretta salda e forte che trasmetteva fiducia e af-fidabilità. Davvero perfetta per un truffatore.

In realtà avrebbe potuto indicare anche molti altri tipi crimi-nali, persino un serial killer.

I mietitori accettavano tra loro i serial killer?«Molto meglio» approvò Dizz, ma poi si rabbuiò. Probabil-

mente si stava chiedendo se l’altro stesse valutando i suoi pec-cati passati, una conversazione in cui Whist non aveva inten-zione di avventurarsi. Di sicuro non su un tetto, e per giunta disarmato.

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Okay. Se Dizz avesse portato il discorso in quella direzio-ne, Whist avrebbe trovato una scusa per tornare in caserma…

«Hai detto il 934°…» continuò Dizz. «Eravate voi l’unità mandata a sgombrare dagli zerg la Foresta di Northwoods a New Sidney?»

Whist sbatté le palpebre, cercando di concentrarsi. La Fore-sta di Northwoods… «Sì, eravamo là» confermò. «Voi eravate l’unità mietitrice, giusto?»

«Oh, sì, eravamo noi» rispose Dizz con un ghigno improv-viso. «Quindi immagino che tu abbia avuto un posto in prima fila quando Boff ha toccato un albero, è rimbalzato di lato e si è quasi scontrato con uno dei vostri?»

Whist sbuffò. «Un posto in prima fila, come no» disse. Non c’erano molti motivi per sorridere durante una battaglia, ma quell’incidente era stato una perla. «C’erano forse tre marine alla sua sinistra, quando il tuo collega ha cominciato a fare la giran-dola. Per un attimo ho pensato che puntasse dritto verso di me.»

«Per come volava, probabilmente tutti nell’unità hanno pen-sato la stessa cosa. Ricordo che mi ha colpito il fatto che nessu-no di voi si sia gettato a terra o abbia battuto ciglio.»

«Credimi, dentro lo abbiamo fatto eccome» disse Whist. «Non c’è stato tempo di fare qualcosa, ecco tutto.»

«Eccetto imprecare» osservò Dizz. «Quel marine che ha cer-cato di stendere… come si chiamava?»

«Grounder.»«Giusto. Credo che Grounder abbia imprecato per tre minu-

ti di fila senza ripetersi una sola volta.»«Non ne dubito» disse Whist. «Io ero troppo impegnato con

un paio di zerg per farci attenzione. Ma se volevi una lezione di storia applicata sull’eloquio volgare terran, Grounder era l’uomo giusto. Non ho mai conosciuto nessuno con quella pro-prietà di linguaggio.»

«Be’, di certo ci ha colpiti» ricordò Dizz. «Anche se forse più per aver lasciato Boff senza parole così a lungo.»

«Credo che abbia detto qualcosa del tipo: “Oh, scusa”, quando Grounder si è fermato per riprendere fiato, ma niente di più.»

«Niente male quella giornata, sì. E in più abbiamo vinto.»Whist fischiò, mentre il breve lampo di allegria per quella

giornata svaniva in mezzo al resto dei brutti ricordi. Sì, aveva-

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no vinto. Ma a un prezzo altissimo. «Già» commentò, «che ne è stato di Boff? Ce l’ha fatta?»

«È sopravvissuto a quella battaglia» rispose Dizz. «Lo han-no trasferito subito dopo, e non ho mai saputo cosa gli è suc-cesso. E Grounder?»

«È durato ancora tre battaglie» disse Whist distogliendo lo sguardo. «Nella quarta ci è rimasto sotto.»

«Oh, mi dispiace.»«Sì. Non è stato l’unico.»«No, infatti» commentò Dizz torvo. «Come credi che sia sta-

to promosso a tenente così giovane, io?»«Di solito è per l’abilità o il coraggio.»«Forse nei marine» rispose Dizz. «Per i mietitori vale la regola

di chi sopravvive più a lungo. Una specie di premio di consolazio-ne al contrario.» Sospirò. «In realtà spero che Boff non ce l’abbia fatta. Era un pluriomicida. Aveva un bel debito con la società.»

«Già» disse Whist improvvisamente teso. Per un attimo aveva dimenticato con chi stava parlando. «Immagino che quel tipo di esperienza torni utile quando ti trovi a sparare a uno zerg.»

«Meno di quanto credi.» Dizz si voltò per osservare l’eser-citazione che proseguiva in lontananza. «Ecco perché stanno cercando di arruolare un nuovo gruppo di elementi più deli-cati e… oh, no.»

«Che c’è?» chiese Whist guardando i bagliori in lontananza. Non sembrava esserci niente di diverso.

«Stanno sbruffando» dichiarò Dizz. «Idioti… hai il comm?»«Sì.» Whist lo estrasse dalla cintura e lo porse a Dizz.«Devi chiamare il sergente Stilson Blumquist» ordinò Dizz

senza prendere il dispositivo. «Quando risponde, digli che i suoi due fiancheggiatori sud stanno sbruffando.»

«Okay» fece Whist connettendosi al nexus comm della base e chiedendosi cosa diamine significasse “sbruffare”. Il compu-ter rispose e lui fornì il nome di Blumquist. «Non dovresti es-sere tu a…?»

«Sergente Blumquist» disse dal comm una voce brusca. «Chi diavolo è?»

Di nuovo, Whist tentò di passare il comm a Dizz. Di nuovo, Dizz lo rifiutò. «Mi hanno dato istruzioni perché la informassi che i suoi due fiancheggiatori sud stanno sbruffando.»

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«Ah, sì?» esclamò Blumquist. «E lei come lo sa?»«Perché li vedo» ringhiò Whist. «Se ne occupi, okay?» Spense il

dispositivo. «Che diamine vuol dire “sbruffare”?» chiese a Dizz.«Suscitare gelosia o invidia» spiegò Dizz, ancora concentra-

to sulle luci in lontananza. «In questo caso, un paio di acrobati che cercano di fare gli splendidi con manovre elaborate e stu-pide. Oh, eccoli che arrivano.»

Whist sentì gli occhi spalancarsi. «Come, “arrivano”?»«Almeno Blumquist sa orientarsi» commentò Dizz. «Gli hai

detto che riuscivi a vederlo e lui ti ha localizzato. Non è pro-prio del tutto incapace.»

«Buono a sapersi» gracchiò Whist. Le luci adesso si stavano muovendo, e nella loro direzione. «Dovremmo, ehm, tagliare la corda?»

«Be’, io sì» disse Dizz passandogli in fretta accanto. «Ah, e questa viene con me» aggiunse strappandogli la bottiglia di mano con un movimento abile.

Molto abile. Significava che quell’uomo era stato un borseggiatore?

«Non preoccuparti, andrà tutto bene» aggiunse Dizz da so-pra la spalla mentre si avviava verso la porta. «Digli solo che non può parlarti in quel modo.»

Whist fissò la schiena del ragazzo che si allontanava, i mu-scoli tesi per il pericolo. Qualsiasi cosa stesse accadendo, non aveva niente a che vedere con lui. La mossa più furba sarebbe stata seguire Dizz nell’edificio, tornarsene a letto e dimentica-re quello che era successo.

Ma, per la seconda volta quella sera, decise che non gli im-portava niente. Non aveva fatto nulla di male – tanto per cam-biare – e sarebbe fuggito. E armato o no, se un mucchio di aspi-ranti mietitori voleva causare problemi, avrebbe dimostrato loro come la pensavano i marine al riguardo.

Dieci secondi dopo arrivarono.Mentre sbucavano dal cielo e si posizionavano attorno a lui

notò che la tecnica era un po’ caotica. Non erano sincronizzati e una buona metà non riuscì nemmeno ad atterrare, però l’ac-cerchiamento fu abbastanza efficace e gran parte della sciatte-ria probabilmente era dovuta all’inesperienza.

Solo uno di loro si rivelò abbastanza agile. Whist si accertò

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di trovarsi di fronte a lui quando quello piombò sul tetto. «Ser-gente Blumquist» lo salutò. «Ottima serata per un volo.»

«Piantala, testa di facco» ringhiò Blumquist avanzando di un lungo passo. Evidentemente si aspettava che, vedendolo av-vicinarsi, Whist indietreggiasse. Lui non lo fece, costringendo l’uomo a fermarsi con un movimento improvviso, impacciato e piuttosto comico.

Il che non migliorò l’umore di Blumquist. «Voglio sapere il tuo nome, il grado e cosa diavolo fai qui sopra» disse rabbioso quando riacquistò l’equilibrio. «Dopodiché potrai fare rappor-to a quella specie di galera che c’è qui sotto, mentre io mi occu-po delle accuse a tuo carico.»

Whist sbatté le palpebre. Accuse? «Da quando stare su un tetto è un reato?»

«Da quando interferisce con un’esercitazione notturna» ri-batté Blumquist. «Da quando uno stupido cervello in scatola ha idea di cosa fanno i mietitori?»

«Ho visto un sacco di mietitori capaci.» Whist indicò il cer-chio di reclute attorno a sé. «E loro non lo sono.» Alzò la testa. «E poi c’era la sbruffonata.»

Blumquist socchiuse gli occhi. «Chi diavolo credi di essere per criticare la mia squadra?» chiese facendo un altro passo avanti.

E nella parte inferiore del proprio campo visivo, Whist notò che il mietitore stringeva le mani a pugno.

Tenne deliberatamente le proprie bene in vista. Solo contro dieci non poteva permettersi di cedere alla provocazione di Blumquist e colpire per primo, e nemmeno dargli l’impressio-ne di volerlo fare.

Il problema era che, se non ne avesse neutralizzati almeno un paio, gli altri lo avrebbero schiacciato.

Ma non aveva scelta. Non aveva detto a Blumquist come si chiamava, però i visori del casco dei mietitori avevano la fun-zione di registrazione attiva e a quel punto tutti e dieci avevano di certo immortalato la sua faccia. Anche se Whist fosse uscito sano e salvo dalla rissa, a schiacciarlo sarebbero stati i suoi su-periori nei marine, dal primo all’ultimo. L’unico modo di cavar-sela era lasciare che Blumquist attaccasse e sperare di soprav-vivere finché la squadra non si fosse stancata di picchiarlo…

«Sull’attenti!»

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Blumquist si girò verso la porta, inciampando leggermente per via del peso dello zaino che lo sbilanciava. Dizz procedeva a grandi passi verso di loro con un’espressione cupa, con i gra-di da tenente fissati al colletto.

Gradi, osservò Whist, che prima non c’erano. «Tenente Halk-man, 122° mietitori» annunciò con voce chiara. «Cosa diavolo sta succedendo, sergente?»

«Io…» esitò Blumquist. «Quest’uomo ha interferito con la no-stra esercitazione, signore» riuscì a dire, indicando Whist. «Ha anche rifiutato di identificarsi e…»

«Ha interferito?» lo interruppe Dizz. «Ha interferito? Da qui?»«Ha… ha… chiamato con il comm mentre cercavo di guida-

re un’esercitazione» spiegò Blumquist. «Ha criticato la mia tec-nica, mi ha distratto e…»

«Se basta una chiamata per distrarla, sergente, non è mol-to utile sul campo» intervenne Dizz. «La critica era fondata?»

«Era…» Blumquist lanciò un’occhiata al plotone. «È possibi-le che lo fosse, signore, sì.»

«Allora la accetti, ci lavori, la risolva» ordinò Dizz. «E ades-so levatevi di mezzo. Subito.»

Blumquist scattò sull’attenti. «Sissignore. Plotone, torniamo al campo di addestramento. Avete sentito: eseguire!»

A due a due, le reclute decollarono dal tetto e si diressero ver-so lo squarcio di cielo da cui erano venute. Blumquist fu l’ulti-mo ad andarsene; quando decollò era ancora sull’attenti.

«Be’, un allarme ingiustificato» osservò Whist mentre guar-davano le reclute allontanarsi nella notte.

«Non ne sarei tanto convinto» replicò Dizz con aria torva. «Si era accorto di non avere scuse per aggredirti, quindi l’u-nico modo per uscirne senza sembrare ridicolo era spingerti a farlo tu per primo.»

«Sì, quello l’ho capito» disse Whist. «Comunque, grazie per essere tornato.»

«Oh, il piano era quello sin dall’inizio» assicurò Dizz. «Co-nosco Blumquist. Volevo solo aspettare finché non si fosse sot-terrato con le sue mani prima di umiliarlo.»

«Per farlo apparire ridicolo?»«Per farlo apparire incompetente» precisò Dizz con una punta

di amarezza. «Ho visto morire troppi uomini e donne in gamba

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per colpa di ufficiali che attaccano senza pensare né osservare. Se siamo fortunati, quando comincerà la prossima guerra gli idioti come Blumquist saranno dietro una scrivania.»

«Se ce ne sarà una.»«Ci sarà» rispose Dizz con aria stanca. «C’è sempre.» Fece un

cenno con la testa alle sue spalle. «Ho lasciato la tua bottiglia die-tro la porta. Immagino stessi per bere alla salute di Grounder.»

«Alla sua e di tutti gli altri» rispose Whist. Nella concitazio-ne, aveva quasi dimenticato la bottiglia.

«Andiamo a prenderla» disse Dizz indicando la porta. «E poi dritti al Circolo degli Ufficiali. È più caldo, e hanno dei bei di-vani. Un posto perfetto per sbronzarsi.»

«Pensavo che tutti i circoli fossero chiusi.»«Ti sembra che mi importi?»«Non proprio» ammise Whist. Quindi l’abilità nel passare da

porte chiuse significava che Dizz era stato uno specialista di ra-pine e furti con scasso? «Ci sto.»

«Bene.» Dizz sorrise. «E poi, chissà… Di sicuro ti stai chieden-do cosa ho combinato per finire tra i mietitori. Se mi fai ubria-care abbastanza, magari te lo racconto.»

«Be’, allora cominciamo» disse Whist inclinando la testa. «Dopo di lei, signore.»

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La guerra era finita.Era il momento di andare avanti.A patto che fosse disposta a pagarne il prezzo: Tanya Caul-

field lo sapeva.Sdraiata al buio, le sfuggì un sorriso. Il prezzo. Di solito quel-

le parole erano legate a un periodo di guerra, non di pace. O almeno così aveva sempre pensato.

A dire il vero, però, alla pace Tanya non era particolarmen-te abituata. Tra le guerre della Corporazione, la rivolta contro la Confederazione, l’insediamento del Dominio e le invasioni zerg e di Amon, aveva trascorso la maggior parte della sua vita con un sottofondo costante di conflitto e di morte.

Forse adesso i popoli del settore Koprulu avrebbero final-mente avuto una possibilità…

Ma nel frattempo…Tanya Caulfield? Qualcosa non va?Ebbe un sussulto nell’udire quella voce improvvisa nella te-

sta. Era Ulavu, ovviamente: il contatto mentale protoss era in-confondibile. Del resto, se un altro telepate nella loro ala aves-se percepito la sua insonnia, non si sarebbe certo preoccupato di chiederle come stava. Sto bene, Ulavu, rispose con il pensiero.

Ci fu un breve silenzio, e Tanya lo percepì mentre sfiorava le menti di altri fantasmi nella caserma temporanea di Augu-stgrad. Forse voleva accertarsi di non essere solo. A Ulavu non piaceva stare da solo. Posso aiutarti in qualche modo?

Non ho bisogno di aiuto, lo rassicurò Tanya. Sto bene.

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Accetto la tua dichiarazione, comunicò lui di rimando. Ma stasera c’è qualcosa di strano nella tua mente; ecco perché ero preoccupato.

Tanya scosse la testa, badando che quel pensiero e l’emozio-ne relativa non arrivassero in superficie, dove Ulavu avrebbe potuto leggerli. Anche a distanza di due piani, era abbastan-za in sintonia con lei da riuscire quasi sempre a distinguere il suo umore. Non c’è niente di cui preoccuparsi. Torna a letto, ci ve-diamo domattina.

D’accordo. Dormi bene, amica mia.Il contatto svanì, e Tanya avvertì un lieve cambiamento quan-

do la mente di Ulavu tornò al suo sistema di pensiero alieno.Eppure, anche se si era staccato dai terran che lo circondava-

no, lei sentiva ancora la connessione costante e leggera con lui. Un po’ come un gatto accoccolato accanto al padrone.

Un altro pensiero e un’altra immagine che era stata attenta a tenere ben nascosti in una zona privata della mente. Ulavu era gentile e disponibile come tutti i protoss che Tanya aveva co-nosciuto, ma non era una buona idea far sentire deriso un alie-no orgoglioso, imponente e telepatico alto due metri e venticin-que. Soprattutto non un protoss che, come Ulavu, era entrato in confidenza con lei.

Ed ecco il problema, naturalmente. E il prezzo da pagare.Quando se ne fosse andata, a lui sarebbero rimasti solo gli al-

tri. E nessuno gli era affezionato quanto lei.Isolò con cura i propri pensieri dal contatto rassicurante con

la mente di Ulavu e ricordò la lettera che aveva ricevuto alla fine di quel pomeriggio.

Da: Comandante, Accademia dei fantasmiA: Agente X39562BRe: Richiesta di abbandono del programma fantasma

A partire dalle ore 15 di oggi la sua richiesta è stata accolta dal Comando Militare del Dominio. Le sue dimissioni saranno accettate formalmente entro dieci giorni a partire da oggi, alle ore 13, nell’ufficio del Colonnello Davis Hartwell.Il suo servizio nel Dominio è stato molto apprezzato e lascerà un grave vuoto. Se dovesse decidere di ritirare le dimissioni, potrà

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farlo nell’ufficio del Colonnello Hartwell in qualunque momento prima della data indicata.

Con i migliori auguri per i suoi futuri successi,Comandante Barris Schmidt

Tutto qui. Una lettera breve, altri dieci giorni da trascorre-re con le mani in mano mentre i burocrati caricavano sui com-puter del Dominio altri dati inutili, e la sua vita sarebbe cam-biata per sempre.

Era il momento. Anzi, era già tardi. Nei vent’anni passati nel programma fantasma, a dispetto della lettera palesemente pre-compilata di Schmidt, non aveva mai prestato servizio nel pro-gramma stesso o per il Dominio in generale. Di fatto non era mai stata arruolata in nessuna operazione.

Non era sicura di come si sentisse al riguardo. Da un lato ca-piva la logica che c’era dietro: non era particolarmente forte – il suo indice psionico era un mediocre 5,1 –, ma il suo dono era davvero raro. Abbastanza raro, così le avevano detto, da com-pensare la scarsa abilità telepatica, l’assoluta mancanza di for-za e furtività potenziate di cui in genere erano provvisti i fan-tasmi. Aveva senso, quindi, che aspettassero di lanciarla contro gli zerg al momento opportuno.

Ma il momento non era mai arrivato. Quando la regina delle lame e il suo Sciame zerg avevano cominciato a devastare i pia-neti terran e protoss, Tanya era stata richiamata dal quartier ge-nerale dei fantasmi a Ursa e inviata in una località remota. Poi c’erano stati Amon e il suo attacco, e lei era rimasta nascosta.

Non sapeva perché non l’avessero usata per nessuna di quel-le situazioni disperate. Immaginava che l’avessero dimentica-ta, oppure era stata inghiottita dalla burocrazia.

Comunque, quando le cose finalmente si erano assestate, l’a-vevano riportata indietro con la promessa di schierarla quando fosse arrivata l’invasione successiva.

L’invasione, però, non c’era stata. Le voci sulle sorti della re-gina delle lame e di Amon si erano moltiplicate, ma sembrava che fossero in pochi a conoscere la verità, e nessuno parlava.

Perciò, da un lato Tanya sentiva di essere stata sprecata. Dall’al-tro, pensando a quanti fantasmi erano stati uccisi sugli infiniti

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campi di battaglia della guerra, doveva ammettere di provare un segreto sollievo per esserne stata lontana.

Ma la salvezza aveva un prezzo. Ogni missione a cui non aveva partecipato era una missione compiuta da qualcun altro.

Quanti uomini e quante donne erano morti al suo posto?Sentì una leggera inquietudine nella presenza di Ulavu. Pro-

babilmente il protoss aveva percepito il mutamento dei suoi pensieri e si stava chiedendo se stava bene come gli aveva det-to. Un pensiero vagante sovrastò la presenza di Ulavu, una spe-cie di voce lontana…

Cosa diavolo ci fai tu qui?Tanya si irrigidì, la sua mente alla deriva si destò di colpo.

Ulavu non era affatto nella sua stanza.Girava libero per le strade di Korhal. E dal tono di voce filtrato attraverso la mente del protoss,

sembrava si trovasse in un posto in cui era indesiderato.Ulavu, dove sei? gli domandò lei mentre afferrava i vestiti sfor-

zandosi di estrarre qualcosa – qualunque cosa – dalla testa del protoss. Ma i suoi poteri telepatici erano troppo deboli. Ulavu doveva aver portato con sé l’amplificatore psionico, se i suoi pensieri le erano arrivati così chiari.

Purtroppo, la presenza del dispositivo significava che poteva anche essere dall’altra parte del pianeta. Ulavu, dimmi dove sei.

È un edificio dove si condividono cibo e bevande, fu la risposta. In sottofondo lei percepì altre voci, dal tono sempre più irritato.

Dove sono le tue guardie? Sono lì?Stasera volevo stare da solo, ribatté lui. Sono uscito senza di loro. Tanya imprecò. In qualche modo era riuscito a sfuggire alla

sua scorta armata, le persone che dovevano evitare che succe-desse proprio ciò che stava accadendo. Fantastico. Hai notato un segno sulla finestra quando sei entrato? gli chiese mentre chiu-deva la cerniera della tuta e prendeva gli stivali. Si doman-dò troppo tardi se la divisa da fantasma non sarebbe stata una scelta migliore, per l’autorevolezza e tutto il resto. Ma era es-senziale sbrigarsi, e ormai non aveva più tempo per cambiar-si. O sopra la porta?

C’è un segno. L’immagine di tre cerchi concentrici. Ci sono delle parole?Sì, quattro. Il Cerchio di Dante.

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Tanya fece una smorfia. La buona notizia era che almeno si trovava ancora ad Augustgrad. La cattiva era che Il Cerchio di Dante era una taverna modesta gestita e frequentata da uomini e donne che avevano avuto parenti e amici a Chau Sara quan-do il pianeta era stato incenerito dai protoss.

In altre parole, era l’ultimo angolo di Korhal dove un protoss sarebbe stato il benvenuto.

Oh, no. Lei e altri avevano avvertito il comandante Schmidt che spostare l’accademia lì dalla vecchia base di Ursa, anche tempo-raneamente, sarebbe stata una cattiva idea. Là riuscivano a te-nere Ulavu in un posto circoscritto e a controllarlo. Qui gli ba-stava sgattaiolare da una porta secondaria per avere un intero pianeta in cui andarsene in giro.

E se lei non avesse fatto subito qualcosa, avrebbe potuto ve-rificarsi un grave incidente.

Ulavu, devi uscire da lì subito, comunicò con il pensiero saltel-lando goffamente sul piede destro lungo il corridoio mentre in-filava lo stivale sinistro. Ci riesci?

Non sarebbe educato. Credo che i proprietari e i clienti vogliano che rimanga. Alcuni mi hanno fatto capire di volermi parlare ancora.

Scommetto di sì, si lasciò sfuggire Tanya vagliando in fretta le possibilità. Quella più ovvia era allertare le guardie che in teo-ria avrebbero dovuto tenerlo d’occhio. Ma date le circostanze non aveva particolare fiducia nelle loro capacità. Forse poteva provare con la polizia, ma a quell’ora di notte la risposta non sarebbe stata abbastanza rapida, e la maggior parte degli agen-ti non avrebbe avuto la minima idea di cosa fare con un protoss bizzoso. Idem i soldati della polizia militare.

Inoltre, nessuno su Korhal conosceva Ulavu bene quanto lei. L’unico modo per chiudere bene quella storia era occuparsene personalmente.

Il Cerchio di Dante era a poco più di un chilometro e mezzo dagli alloggiamenti. Per fortuna, Jack Cristofer lasciava sem-pre la sua hoverbike parcheggiata accanto alla porta latera-le, e da un pezzo Tanya aveva scoperto il codice per metter-la in moto. Due minuti e circa venti infrazioni stradali dopo, era sul posto.

Non aveva mai visto l’interno del Cerchio di Dante, ma dal-la sua reputazione aveva sempre immaginato che fosse buio e

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lugubre, che l’atmosfera fosse densa di rabbia, risentimento e rancore. Si aspettava anche che la clientela fosse in linea con il posto, composta da omaccioni arrabbiati che bevevano per ane-stetizzare il dolore della perdita.

Aveva ragione su tutto. L’unica cosa che non aveva previsto era la bruma di fumo che proveniva dalla griglia aperta.

Di fatto, e quel pensiero la colpì mentre si faceva strada tra la folla, il Cerchio di Dante poteva essere benissimo la ricostru-zione di un locale su un pianeta incenerito.

Un tentativo intenzionale di approfittare del dolore dei clien-ti? Forse. Probabilmente non danneggiava nemmeno la vendi-ta di alcolici.

Si era quasi aspettata di trovare Ulavu nel bel mezzo di una rissa. Con sollievo lo vide tranquillo che dava le spalle al ban-cone, rigido e immobile, con la sommità della testa che quasi sfiorava le travi a vista del soffitto, circondato da tre semicer-chi di uomini che bofonchiavano.

Anch’essi immobili. Tanya non poteva certo biasimarli. Un protoss, anche il più

calmo e inoffensivo, metteva parecchia soggezione. Alto e snel-lo, con gli occhi che scintillavano dalla testa allungata e priva di naso e bocca, Ulavu sembrava incarnare il puro spirito e l’anti-ca dignità della sua razza. Le sue mani, con due dita e un paio di pollici laterali opponibili, potevano disarticolare il braccio di un uomo o strangolarlo senza difficoltà. Le gambe erano lieve-mente incurvate all’indietro all’altezza delle ginocchia e i gros-si piedi a tre dita piantati stabilmente a terra come piccoli albe-ri. Indossava la consueta tunica lunga da civile con le gambe fasciate e il sottile cilindro dell’amplificatore psionico appeso alla fusciacca legata in vita.

Non sembrava affatto minaccioso, niente a che vedere con il temibile guerriero che la maggior parte dei terran visualizza-va quando pensava a un protoss. Eppure la folla esitava. Non era il benvenuto, ma nessuno sembrava intenzionato ad attac-care per primo una creatura così grossa e pesante.

Tuttavia la situazione di stallo stava per concludersi. Al cen-tro del semicerchio centrale, visibile a malapena quando la calca si spostava avanti o indietro, c’era un uomo abbastanza grosso da riuscire ad atterrare persino un protoss. E, a giudica-

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re dagli insulti che farfugliava, pareva abbastanza ubriaco da poterci provare.

Spesso i fantasmi erano autonomi sul campo di battaglia, non avevano bisogno di un addestramento formale. Ma lungo la strada Tanya aveva imparato qualche trucco: era il momen-to di vedere se funzionavano.

«Va bene, fate largo, fate largo» disse ad alta voce in mezzo alla confusione di borbottii e insulti, cercando di usare un tono profondo e pronunciando le parole come un sergente dei ma-rine che aveva conosciuto in passato. «Che diavolo sta succe-dendo qui?»

Per un attimo pensò che stesse funzionando davvero. I due anelli esterni arretrarono come per magia mentre lei procede-va facendosi strada.

Ma il semicerchio centrale era costituito da uomini più ottusi e ubriachi, o che avevano usato quei due secondi di pausa per soffocare l’obbedienza automatica all’autorità che il compianto imperatore Arcturus Mengsk si era tanto impegnato a instilla-re nei suoi sudditi. Tanya dovette letteralmente aprirsi un var-co tra la folla attraverso l’ultima fila, il che le portò via alcuni istanti, un bel po’ di fatica e quel briciolo di autorevolezza che si era conquistata.

Sull’ubriacone, purtroppo, non aveva sortito alcun effetto. Mentre lei avanzava nello spazio libero, l’uomo si voltò e le lanciò lo stesso sguardo risoluto e truce con cui fissava Ulavu. «Chi diavolo sei tu?» chiese. «La sua custode?» Arricciò le lab-bra. «Il suo animale domestico?»

«Sono una sua amica» disse Tanya mantenendo un tono di voce calmo. Nonostante le sue limitate capacità telepatiche, era chiaro che lei e Ulavu sedevano su una polveriera. Una sola pa-rola fuori luogo, una mossa sbagliata, e sarebbero potuti sal-tare in aria. «Mi dispiace per la vostra perdita. Veramente. Ma Ulavu non ha niente a che fare con Chau Sara. È un membro dell’accademia, un ricercatore…»

«Che ne sai di quello che abbiamo perso?» sbottò l’omone. «Pensi che solo perché…» Si interruppe, la faccia rossa gli di-ventò paonazza. «Maledizione. Sei un fantasma? Un maledet-to fantasma.»

La folla fu percorsa da un mormorio sgradevole espresso sia

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dalle menti sia dalle bocche, carico di paura, rabbia e risenti-mento. I fantasmi erano stati il corpo speciale di assassini al sol-do dell’imperatore Arcturus, creature quasi mitiche che colpi-vano il bersaglio e svanivano nella notte.

Tanya sospirò. Troppo tardi per mantenere un basso profilo.«Fa’ attenzione, Rylan» lo avvertì qualcuno nel gruppo.«Eccome» ringhiò lui di rimando. «Comunque non se ne van-

no più in giro a uccidere la gente. Così dice l’imperatore Val.»«Sì, ma può ancora leggerti nel pensiero.»«Se mi legge nel pensiero ci trova un mucchio di robaccia»

replicò Rylan continuando a fissare Tanya. «Mi leggi nel pen-siero, femmina?»

«Non occorre essere un fantasma per sapere che siete qui a piangere il lutto per Chau Sara» replicò Tanya lottando contro la bruma rossa che le velava lo sguardo per la rabbia. Femmi-na? Femmina? Come osavano quegli idioti intransigenti parlar-le in quel modo? Come osavano incolpare lei o Ulavu per qual-cosa che era successo più di dieci anni prima, e soprattutto per qualcosa in cui nessuno dei due era coinvolto?

«Che te ne frega di Chau Sara?» ringhiò Rylan. «Il tuo amico mostruoso lo ha incenerito. Lo ha incenerito.»

La bruma rossa che Tanya aveva davanti agli occhi si trasfor-mò in lingue di fuoco. Vuoi vedere incenerire qualcosa? pensò bru-talmente. E tu? Vuoi essere incenerito anche tu?

Avrebbe potuto farlo. Poteva dargli fuoco lì dov’era, trasfor-mare quell’idiota in una torcia umana strillante. Volevano cro-giolarsi nell’amarezza in quel locale inutile e retrogrado? D’ac-cordo. Quell’imbecille poteva contribuire. Mostra loro com’è stata sul serio la distruzione di Chau Sara.

E perché limitarsi a lui? C’erano parecchie persone lì dentro che non avevano altro da fare che rivangare il passato. Forse un po’ di pericolo e dolore veri li avrebbero riportati al mondo reale, un mondo in cui i fantasmi e le altre forze del Dominio – e sì, anche i protoss – avevano combattuto, versato sangue ed erano morti per proteggere tutti quanti.

Tanya Caulfield. La voce di Ulavu si riversò sulla sua collera come acqua fresca. Calmati.

Tanya sapeva che per alcuni fantasmi l’invito alla prudenza di un amico o un collega era l’interruttore che spegneva le cri-

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si. Per lei non era così, ma, nonostante lo scarso autocontrol-lo, riconobbe che Ulavu aveva ragione. Soprattutto, si rendeva conto che qualcuno – del cui giudizio si fidava – stava vigilan-do su di lei.

Fece un respiro profondo e si premette un dito contro la tem-pia, un piccolo incoraggiamento all’impianto che frenetico scar-tava dal suo flusso sanguigno le sostanze chimiche prodotte dal cervello e deviava i flussi neurali.

Poi, con sollievo, si rese conto che la bruma si dissipava. Ave-va di nuovo il controllo di sé e poteva rimettersi a pensare con lucidità.

Si guardò attorno, e la gente che la circondava non sembra-va più un potenziale bersaglio, ma un semplice gruppo di per-sone. Era il momento di accantonare la frustrazione e iniziare a elaborare una tattica.

Okay. Rylan era chiaramente il capo. Se fosse riuscita a con-vincere lui, avrebbe risolto la situazione.

Se non ci fosse riuscita, avrebbe dovuto eliminarlo.Tanya? Di nuovo, la voce di Ulavu nella sua mente.Sto bene, lo rassicurò. Fidati di me. «Anche chi non aveva per-

sone care a Chau Sara è rimasto sconvolto e inorridito da quel-lo è successo quel giorno» osservò, mentre un brivido le per-correva la schiena.

«Facile dirlo» replicò Rylan con disprezzo.«Facile provarlo» rispose brusca Tanya. «Io ci sono stata. Ho

visto la devastazione. Città ridotte in cenere. Montagne rase al suolo. Laghi e fiumi evaporati, i loro alvei distrutti e fusi. Pia-nure trasformate in vetro. Anche dopo tutti questi anni, l’uni-ca forma di vita che ha ricominciato a crescere sono i licheni e qualche muschio.»

«Sì, l’ho visto anch’io» disse Rylan, con la voce bassa e lo sguardo rivolto al pavimento. Poi, d’improvviso, alzò gli occhi e le sue dita indicarono Ulavu in un gesto d’accusa. «Ed è sta-to il suo popolo a farlo.»

Tanya sospirò. Inutile cercare di farlo ragionare. «Sì, è stato il suo popolo» disse, guardandosi attorno in cerca di ispirazio-ne. L’amplificatore psionico attaccato alla cintura di Ulavu era abbastanza pesante da lanciare, ma anche abbastanza fragile, e costoso, tra l’altro: da usare solo in casi disperati. Non c’era-

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no bottiglie di alcol a portata di mano e, anche se ci fossero sta-te, non voleva ferire nessuno. Non più.

Sul bancone vicino a Ulavu c’era un boccale di vetro mezzo pieno di birra. Non era granché, ma avrebbe dovuto funzionare.

Lentamente, distrattamente, Tanya andò oltre il semicerchio in direzione di Ulavu e del boccale. «Ma sono stati i capi dei pro-toss a prendere quella decisione, e altri protoss a eseguirla. Ula-vu non apparteneva né a un gruppo né all’altro. Avete ragione: la loro risposta all’invasione zerg è stata imperdonabile, ma noi li abbiamo ripagati con la stessa moneta» aggiunse e, mentre an-dava ad affiancare Ulavu, osservò i presenti. «Credetemi, li ab-biamo ripagati completamente.» Alzò una mano in direzione di Ulavu in un gesto enfatico. «E, come vi ho detto, Ulavu non era nemmeno là. Di certo non avrete intenzione di fare del male a un protoss innocente per i crimini del suo…»

«Innocente?» la interruppe Rylan. «Chi lo dice che una di quelle facce da pesce è innocente?» Le mani, che aveva aperto e chiuso convulsivamente tenendole lungo i fianchi, d’improv-viso diventarono due pugni. Si piegò in avanti, con un piede pronto a muovere un passo verso l’odiato alieno che gli stava di fronte…

Tanya afferrò il boccale e ne scagliò il contenuto in faccia a Rylan.

Aveva una frazione di secondo per farcela, ma aveva già cal-colato tutto e sapeva come agire. Il punto di combustione dell’al-col etilico presente in quella concentrazione doveva aggirarsi attorno ai cinquanta gradi, mentre la temperatura a cui il cor-po umano comincia a manifestare ustioni di primo grado è cir-ca quarantaquattro. Un bersaglio fastidiosamente ridotto, però Tanya si era allenata a lungo per affinare la precisione della sua pirocinesi. Surriscaldò la birra mentre era ancora a mezz’aria e osservò gli occhi di Rylan spalancarsi di incredulità quando gli si rovesciò sulla faccia…

Un attimo dopo la sorpresa si trasformò in shock, mentre il liquido bollente gli spediva impulsi di dolore nei nervi imbe-vuti di alcol.

L’uomo urlò di agonia, i pugni chiusi si trasformarono in palmi aperti che schiaffeggiavano gli occhi mentre inciampa-va e cadeva all’indietro. Confuso, disorientato e ferito, Rylan –

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insieme al suo feroce e audace attacco all’odiato simbolo della razza protoss – si era bloccato di colpo.

E tutti nel locale lo sapevano. In quel paio di secondi di scon-certo l’umore della folla mutò, intanto che il loro eroe prescel-to vacillava.

Per qualche secondo Tanya aspettò che si rendessero conto dell’accaduto; poi prese Ulavu per il braccio e fissò di nuovo la folla, soffermandosi sugli uomini più robusti. Un paio di loro sostenne il suo sguardo, ma quasi tutti lo distolsero immedia-tamente. Rylan doveva essere molto più influente di quanto lei avesse immaginato. «Non credo che Rylan sia in grado di bat-tersi, per stasera» disse calma. «Quindi adesso noi ce ne andia-mo.» Esitò. «E per favore, credetemi quando vi dico che siamo costernati quanto voi per Chau Sara.»

Nessuno protestò. Nessuno aprì bocca. Con Ulavu al seguito, Tanya camminò coraggiosa in mezzo alla folla. Questa volta i tre anelli si aprirono per farla passare senza opporre resistenza.

Un minuto dopo erano fuori, nell’aria gelida della notte.Non c’era bisogno che venissi in mio aiuto, Tanya Caulfield. Il pen-

siero di Ulavu le arrivò mentre lo guidava in direzione della moto presa in prestito. Quel terran non mi avrebbe fatto del male.

Ne sei sicuro? ribatté lei in tono acido. Perché sembrava proprio che si stesse preparando a fartene.

Per un attimo Ulavu sembrò considerare quella possibilità, i suoi pensieri turbinavano troppo rapidi perché Tanya riuscis-se a stare al passo. Hai usato il tuo dono in un luogo pubblico, dis-se lui alla fine. I tuoi superiori non saranno scontenti?

Tanya trasalì. Sì, certo che lo sarebbero stati. Lei era l’arma segreta del programma fantasma, e avevano fatto di tutto per tenere nascosti i suoi poteri. Sarebbero stati peggio che scon-tenti, più nel territorio della collera.

Ma solo se lo avessero saputo.Spero che non lo scoprano. Nel locale mi hanno visto solo lanciare

la birra in faccia a un uomo. Penseranno che la sua reazione sia sta-ta causata dall’alcol negli occhi.

Non ci saranno ustioni?Nulla di evidente. Ho mantenuto il calore al di sotto del punto di

combustione, e il contatto non è stato abbastanza lungo da provoca-re un arrossamento serio. Forse un po’, ma niente di troppo visibile.

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Di nuovo, Ulavu ponderò la sua risposta. Ma il terran lo saprà.Il terran era ubriaco marcio, gli rammentò Tanya. Immagino che

sarà così annebbiato che non ricorderà esattamente cosa lo ha fermato.Lo immagini? O lo speri?Un po’ e un po’, concesse Tanya. Lo fissò con uno sguardo se-

vero. Adesso parliamo di te. Che ci facevi lì?Sono un ricercatore, disse pieno di orgoglio protoss. Volevo ve-

dere e capire le sensazioni di coloro che hanno perso i compagni e le famiglie a causa degli errori protoss.

Tanya fece una smorfia. Errori protoss. Consideravano anco-ra un semplice errore la distruzione di un intero pianeta pieno di terran innocenti?

La rabbia stava tornando a ribollirle dentro. Inflessibile, la ri-cacciò indietro. E le capisci?

Lui emise l’equivalente mentale di un sospiro. Rimane mol-to dolore, molta rabbia.

E nessuno di noi li biasima per questo, disse Tanya tagliente. Quindi non provare a rifare una cosa del genere. Mi hai sentito? Per-ché la prossima volta potrei decidere di lasciare che ti mostrino cosa sono il dolore e la rabbia terran.

Non ce n’è bisogno, replicò Ulavu in un tono mentale lievemen-te torvo. Come hai detto, siamo già stati ripagati con la stessa moneta.

Tanya annuì in silenzio. In effetti la guerra aveva preteso un tributo altissimo dai protoss. Molti erano caduti in battaglia. Il loro pianeta natale, Aiur, era stato devastato e abbandonato. La loro società era stata fatta a pezzi, alcune delle fazioni alla fine si erano riunite, altre si erano allontanate per sempre dal resto del popolo.

E soprattutto, il Khala, l’occulta connessione psionica che per secoli aveva unito i protoss nei pensieri e nelle azioni, era stato distrutto. Anni dopo il cataclisma, stavano ancora combatten-do con ciò che ormai significava essere protoss.

Era quella disperata guerra culturale la ragione per cui Ula-vu era stato abbandonato dal suo popolo? I protoss erano così concentrati su se stessi che non avevano più energie per ripor-tarlo indietro e integrarlo nella società che si stava lentamen-te riformando?

O c’era qualcosa di più oscuro? Aveva fatto qualcosa di par-ticolare che glieli aveva rivoltati contro?

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A volte era così facile crearsi dei nemici. Così dolorosamen-te facile.

Tanya chiuse gli occhi e per un momento alcune vecchie fe-rite si riaprirono. Quel giorno di quattro anni prima, non ave-va voluto perdere il controllo. Non aveva avuto intenzione di offendere o far infuriare il resto dei fantasmi, ignorando il loro tentativo di calmarla.

Era stato Ulavu a entrare in contatto con lei e spezzare la spi-rale di rabbia e confusione abbastanza a lungo da permettere all’impianto cerebrale di prendere il sopravvento. L’incidente si era risolto e tutti ne erano usciti illesi. Anche il fantasma che lo aveva causato, e che secondo Tanya meritava ancora e asso-lutamente tutte le offese possibili.

La soluzione, però, aveva avuto un prezzo. L’insuccesso de-gli altri fantasmi nel calmarla era stato abbastanza negativo di per sé, ma il fatto che ci fosse riuscito un alieno aveva finito per creare una barriera di diffidenza che Tanya non era più riuscita a penetrare o distruggere. Da allora, erano stati lei e Ulavu in-sieme contro il resto del mondo. Viveva e lavorava ancora tra i fantasmi, ma non sarebbe mai stata davvero una di loro.

E di lì a pochissimo non ci sarebbe più stato nemmeno quello.Montò sulla hoverbike, consapevole della frustrazione che in-

combeva appena oltre la barriera dell’autocontrollo. Una bar-riera, sperava, più forte che in passato.

Adesso la domanda era cosa ne sarebbe stato di quell’auto-controllo quando avesse lasciato il programma.

Sotto l’imperatore Arcturus, quella decisione sarebbe stata im-pensabile. I fantasmi erano fantasmi e facevano parte del pro-gramma fino al giorno della loro morte. Punto.

L’imperatore Valerian era un capo diverso. Da tempo aveva interrotto la depurazione cerebrale dei marine – alcuni diceva-no che l’avesse completamente abolita, ma nessuno ci credeva davvero – e anche stabilito che i fantasmi che volevano abban-donare il programma erano liberi di farlo.

Per quel che ne sapeva Tanya, lei sarebbe stata la prima ad approfittare della possibilità. Il che sollevava una nuova lista di dubbi.

Avrebbero lasciato l’impianto al suo posto? Di certo non lo avrebbero rimosso. Forse gliene avrebbero inserito un altro, pro-

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gettato per farla vivere da civile impedendole di trasformare in torcia umana chi le dava sui nervi.

Di certo non lo avrebbero rimosso. O sì?Rylan mi preoccupa ancora, disse Ulavu pensieroso.Ti ho già detto di non preoccuparti di lui, rispose Tanya.Non sono preoccupato, la rassicurò. Solo curioso: come faceva a

sapere che sei un fantasma?Tanya rifletté perplessa: nella concitazione del momento, la

stranezza del fatto che l’avesse indentificata era passata in se-condo piano.

Ma Ulavu aveva ragione. Come faceva Rylan a saperlo? Lei non si era identificata e indossava abiti civili. Non ne ho idea, ammise. Forse qualcuno della caserma bazzica il Cerchio di Dan-te e ha raccontato che nel programma fantasma c’è anche un protoss.

Forse, concesse Ulavu. Non sarebbe una cosa positiva.Tanya sbuffò. Davvero?Sì, fece Ulavu serio, senza cogliere il sarcasmo. Ma, visto che

parli della caserma, non dovremmo tornarci?Tanya si rese conto all’improvviso di essere seduta sul sedi-

le della hoverbike a fissare la città, mentre Ulavu aspettava pa-ziente. Certo, rispose, indicandogli il posto del passeggero. Vie-ni, ti accompagno io. Cerca di non dare nell’occhio.

Lui si eresse in tutta la sua altezza. Come posso non dare nell’occhio?

Tanya sospirò. Un protoss che dava nell’occhio. E una piro-cinetica che faceva altrettanto. Entrambi emarginati dai rispet-tivi popoli. Erano proprio destinati a stare insieme.

Okay, lascia stare, disse. Cerca almeno di non cadere.