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Anno III - N. 11 - Maggio-Giugno 1997 Non più destra-sinistra ma Italia-Padania L’alfabeto Ogam: un’espressione originale della cultura celtica Libere comunità in libero mercato Una bandiera per la Toscana Il Veneto preromano Padania, terra di eresie Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana 11 11

Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno III ... · fascismo si è identificato con la “destra” all’inizio per l’atto provocatorio di Mussolini che si era an- dato

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Anno III - N. 11 - Maggio-Giugno 1997

Non più destra-sinistrama Italia-Padania

L’alfabeto Ogam:un’espressioneoriginale dellacultura celtica

Libere comunitàin libero mercato

Una bandieraper la Toscana

Il Veneto preromano

Padania, terra di eresie

Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana 1111

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Periodico Bimestrale Anno III - N. 11 - Maggio-Giugno 1997

I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla“Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche acontributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana.

Quaderni PadaniCasella Postale 792 - ViaCordusio 4 - 20123 MilanoDirettore Responsabile:Alberto E. CantùDirettore Editoriale:Gilberto OnetoRedazione:Alfredo Croci(caporedattore)Corrado GalimbertiGianni SartoriAlessandro StortiAlessandro VitaleStampa: Ala, via V. Veneto21, 28041 Arona NORegistrazione: Tribunale diVerbania: n. 277

La LiberaCompagniaPadana

Non più destra-sinistra ma Italia-Padania - Brenno 1Libere comunità in libero mercato - Berardo Maggi 3L’alfabeto Ogam: un’espressione originaledella cultura celtica - Elena Percivaldi 11Il bacio delle croci celtiche a Zuglio Carnico -Alessandro D’Osualdo 22La lingua arpitana - Joseph Henriet 25Una corona per il Sole delle Alpi - Aldo Moltifiori 31Una bandiera per la Toscana - Sergio Salvi 34Il Veneto preromano. Alla ricerca dell’identità -Gualtiero Ciola 37Padania, terra di eresie - Nando Branca 41La calata dei Bulgari - Ambrogio Meini 43Pacì Paciana - Laura Scotti 45Il nome vero dei nostri paesi 49Videoteca Padana 54Biblioteca Padana 59

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zione francese (di cui ha copiato anche la forma aemiciclo), la suddivisione in destra e sinistra èarrivata in Italia dove si è subito mostrata monca.Lo stato italiano si è infatti formato con un’azio-ne rivoluzionaria (il radicale cambiamento dellasituazione istituzionale preesistente) e antidemo-cratica (l’espulsione dalla vita politica della fazio-ne perdente). Questo ha - di fatto - escluso dalgioco il “partito” conservatore (anti-unitario, cat-tolico, austriacante) ma anche tutte le altre forzein qualche modo contrarie all’unità centralistadello stato (federalisti, confederalisti). Nel parla-mento italiano si sono così venute a contrapporrenon la conservazione e la rivoluzione ma due fasidiverse della rivoluzione, entrambe unitariste,massoniche, anti-clericali e nemiche di ogni au-tonomia e divise solo dal diverso approccio dellagestione economica della cosa pubblica o da undiverso grado di fedeltà all’istituto monarchico.Di fatto solo due gruppi di potere.

Nel tempo si è accentuata la caratterizzazionesociale, con una destra “borghese”, massonica,monarchica e imprenditorialista e una sinistrasocialista, repubblicana, operaista e (di rado) aper-

ta a qualche timida istanza federalista e autono-mista.

Il ritorno sulla scena politica dei cattolici nonha contribuito a fare chiarezza ma ha ulteriormen-te complicato le cose creando la tripartizione diforze (destra, centro e sinistra) tipica della vitaparlamentare italiana del ‘900.

Un ulteriore cospicuo apporto di confusione èvenuto con il fascismo: nato rivoluzionario (uni-tarista, nazionalista, socialista e anticlericale) ilfascismo si è identificato con la “destra” all’inizioper l’atto provocatorio di Mussolini che si era an-dato a sedere nel posto più a destra dell’emicicloparlamentare, dove nessuno si era mai seduto e siera mai voluto sedere. E’ pur vero che nel tempo(e diventando regime) il fascismo ha mitigato partedella sua carica rivoluzionaria assumendo curio-se connotazioni borghesi, industrialiste e clerica-li ma è anche vero che non ha mai smesso deltutto (li ha anzi esasperati) i suoi atteggiamentinazionalisti, iper-italianisti (nella politica cultu-rale), imperialisti (in politica estera) e statalisti(in economia). La sua componente statalista e “so-ciale” troverà un notevole rilancio con la Repub-

Non più destra-sinistrama Italia-Padania

L’idea di una contrapposizio-ne di destra e sinistra (nell’alter-nanza del potere) nasce dal par-lamentarismo inglese e i termi-ni derivano dalla disposizione deiseggi al “lato destro” e al “latosinistro” rispetto allo scrannodella presidenza.

All’origine essa è servita a con-traddistinguere le forze politicheconservatrici da quelle riformi-ste assumendo nella contrappo-sizione di classe la connotazio-ne di separazione socio-econo-mica fra forze borghesi e forzepopolari e socialiste.

Mediata dalla riproposizionenell’Assemblea nata dalla rivolu- La Camera dei Comuni del Parlamento britannico

L a divisione in destra e sini-stra è sempre stata in Italiauna grande mistificazione.

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blica Sociale. In ogni caso, la presenza di una de-stra fascista ha fatto saltare tutte le vecchie im-magini di contrapposizione fra destra conserva-trice e sinistra rivoluzionaria sconvolgendo la ge-ografia (e il lessico) politico di questo paese fino aoggi. La confusione è stata grande per tutto il se-condo dopoguerra: per “destra” si sono infatti in-tese le forze politiche neo-fasciste (patriottiche,cesariste ma anche stataliste e, in qualche misu-ra, socialisteggianti); per “sinistra” tutte le forzemarxiste, stataliste e internazionaliste; al “centro”si sono collocati i cattolici, i liberali e i moderatiche all’estero compongono la “destra”.

In pratica, ci sono stati per decenni una estre-ma destra e una estrema sinistra che hanno mo-strato notevoli elementi di comunanza e che sisono contrapposte più fisicamente che ideologi-camente (con uno schema tribale derivato da unpassato di sanguinosi scontri militari), un partitocattolico ricettacolo di tutto (destra, sinistra, con-servatori, rivoluzionari, centralisti, autonomisti,liberisti e assistenzialisti) e un partito liberale cheavrebbe dovuto essere la vera destra liberista (an-che se larderellata di nazionalismo unitario e ri-sorgimentalista) e che è stato costretto - per iro-nia della sorte - a sedere in parlamento fra i de-mocristiani e le sinistre e cioè a sinistra.

La stessa sinistra ha, nel suo complesso, ospita-to di tutto, ivi compresi il peggior centralismo etimidi approcci autonomisti e federalisti.

Neppure il rimescolamento degli ultimi anni haportato chiarezza: a destra c’è un nuovo partitoche si dice liberista (e prende voti anche fra gliautentici liberisti) ma che è in realtà il difensoredel peggior monopolismo, c’è un partito post-post-fascista che è nazionalista ma che ha anche eredi-tato la più laida propensione democristiana perl’assistenzialismo e che continua a soffrire di tut-te le contraddizioni originarie del fascismo da cuinasce.

A sinistra c’è una variopinta accozzaglia di mo-vimenti che si ispirano a diverse miscele di stata-lismo e di liberismo, che sono un po’ laici e un po’cattolici, verdi e operaisti e che ogni tanto fannoanche qualche maldestra (e falsa) affermazione diautonomismo.

In realtà non esiste alcuna distinzione sostan-ziale fra destra e sinistra (e anche quella formaleè imprecisa) e l’intero arco parlamentare si pre-senta come una indistinta melassa di gruppi egruppuscoli di potere che si muovono alla gior-nata senza schemi ideologici precisi e senza unasicura differenziazione di tematiche socio-econo-miche (con la sola eccezione della patetica coe-

renza di Rifondazione). La prova di questo insen-sato aggrovigliamento è data dal fatto che il 90%delle leggi che sono passate nell’ultimo anno sonostate votate da entrambi gli schieramenti.

L’episodio più significativo è stata la quasi una-nimità sulla spedizione patriottico-mafiosa in Al-bania.

La sola chiara contrapposizione oggi possibile èquella fra autonomisti e centralisti, che ha il suorisvolto economico nella divisione fra liberisti eassistenzialisti.

In quest’ottica l’unico elemento di chiarezza ècostituito dalla Lega dal momento che tutti glialtri movimenti sedicenti autonomisti e federali-sti si sono intruppati con l’Ulivo o con il Polo eche di fatto sostengono forze centraliste e assi-stenzialiste.

Nell’Ulivo c’è chi si dice federalista, chi si rifà aSalvemini, ci sono movimenti che dicono di di-fendere minoranze storiche (SVP, Union Valdotai-ne, Partito Sardo d’Azione): tutta gente che perpotere o per convenienze economiche tiene bor-done al peggior centralismo e legittima il colo-nialismo romano e la sua opera di sfruttamentodella Padania. Sono i poveri clientes di cui Romasi serve da millenni per dividere e opprimere get-tando loro qualche briciola di libertà.

Nel Polo c’è chi si illude di poter esercitare unapolitica liberista in uno stato centralista, che ri-tiene (Miglio, Costa) di riuscire a ottenere rifor-me federaliste da vecchi democristiani, da cric-che di potere legate a gruppi economici di ambi-gua origine e dal partito dei meridionali, protesoa conservare privilegi, prebende ed elargizioni peril più ampio numero di elettori parassiti.

Tutti (sia nel Polo che nell’Ulivo) sono oggi na-zionalisti, tutti trasudano patriottismo da ogniorifizio. La sinistra internazionalista e soviettistaè diventata iper-nazionalista, i cattolici sodomiz-zati dal Risorgimento sono diventati risorgimen-talisti di ferro, la destra anti-unitaria si è ricon-giunta con la destra unitaria-da-sempre e intonasguaiati canti patriottici.

Tutti sono unitaristi, statalisti: destra e sinistrasono una cosa sola.

Contro di loro ci sono solo quelli che difendonoil diritto all’autodeterminazione e alle autonomielocali e tutte le libertà individuali e comunitarie.

Lo schieramento delle forze politiche non vedepiù destra contro sinistra ma lo stato contro gliindividui e le comunità organiche, Roma controPadania, Sardegna, Toscana e Tirolo. L’oppressio-ne contro le libertà.

Brenno

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Stato che opprime le comunità padane, GilbertoOneto ha sottolineato come la vitalità culturalenon possa “essere disgiunta dalle libertà civiche”(1). Con queste parole egli ha richiamato l’atten-zione, in modo indiretto, anche su un altro tema:ovvero sia sul fatto che le nostre tradizioni po-tranno essere adeguatamente tutelate e la nostracultura potrà tornare a crescere liberamente sol-tanto se i cittadini della Padania potranno recu-perare la facoltà di associarsi con chi vogliono (ecome vogliono) e se saranno posti in condizionedi poter difendere i loro legittimi diritti di pro-prietà.

La cultura di regime, d’altra parte, non si ali-menta soltanto di aria fritta e di retoriche patriot-tarde, ma ha per combustile proprio quelle ingentirisorse che il fisco e gli espropri pubblici quoti-dianamente ci sottraggono a causa della nostracoatta inclusione in quella Repubblica italiana chenessuno di noi ha mai liberamente scelto.

A dispetto di tutto questo perfino tra i fautori diuna Padania indipendente c’è ancora qualcuno chenon coglie come la proprietà privata sia la condi-zione fondamentale per avere una società davve-ro capace di prendersi cura di quanto ha ricevutoin eredità dal passato e in condizione di sviluppa-re una riflessione intellettuale libera da ogni con-dizionamento oppressivo. E in questo senso haperfettamente ragione Oneto nel denunciare chelo statalismo culturale egemone “è stalinista, re-gola la kultura per legge, stabilisce cosa sia giustoe cosa non lo sia in qualsiasi settore dello scibileumano; gli intellettuali che non si adeguano fini-scono in manicomio o sono suicidati. Da noi nonsi usano ancora i manicomi come «strumento diaffermazione culturale» ma si pratica un più «bo-nario» ostracismo: si oscurano libri, non si danno

cattedre, si precludono le redazioni di giornale egli accessi televisivi” (2).

L’unica vera alternativa a questo scenario ita-liano in cui siamo costretti a vivere, nostro mal-grado, non consiste nel prendere il posto dei no-velli Zdanov (si chiamino Veltroni o in qualunquealtro modo), ma nel restituire ai singoli la facoltàdi pensare e dire quello che vogliono: usando comepreferiscono le risorse di cui sono legittimamen-te proprietari. Il che comporta la facoltà di acqui-stare l’ultima biografia celebrativa dell’epopea ri-voluzionaria di Fidel Castro o L’invenzione dellaPadania di Oneto; e anche la libertà di non com-prare nessuna delle due opere, di non finanziareconvegni, mostre o altre manifestazioni. È perquesta ragione che sono ancora una volta concor-de con Oneto nel momento in cui sostiene che lacultura non “possa o debba essere istituzionaliz-zata” (3).

Lo spirito autonomista, insomma, non può es-sere separato da quella cultura liberale di cui èoggi una delle massime manifestazioni, né la tu-tela dei diritti delle comunità politiche può essereraggiunta senza il rispetto delle libertà individua-li.

A questo proposito, d’altra parte, non si può di-menticare che i diritti delle comunità politiche -si chiamino Scozia, Bretagna, Südtirol o Padania- non sono neppure immaginabili se si fa astra-zione dai diritti dei singoli Scozzesi, Bretoni, Su-dtirolesi e Padani che si riconoscono in quelle ban-diere. Le comunità non esistono se non negli in-dividui di cui esse si compongono e una culturaautenticamente autonomista deve rigettare quelvecchio organicismo nazionalista (tipicamente ot-tocentesco) che vorrebbe ridurre i singoli a sem-plici molecole di realtà più vaste. E che è, da sem-pre, il principale nemico delle nazioni autenticheche oggi rialzano la testa.

Abbiamo per decenni subìto le conseguenze piùnefaste di un’ipostatizzazione dell’Italia quale re-altà che avrebbe trasceso quei singoli individui acui veniva attribuita la qualifica di Italiani: dob-biamo assolutamente evitare di ripetere il mede-simo errore.

Libere comunità in libero mercatodi Berardo Maggi

I n un suo recente articolo contro i nuovi Min-culpop e contro l’intolleranza delle istituzio-ni culturali italiane, schierate a difesa dello

(1) Gilberto Oneto, Liberiamo la Padania dalla gabbia italia-na, in: “La Padania”, 8 aprile 1997, pag. 7.(2) Ibidem.(3) Ibidem.

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Diritti individuali e “diritti collettivi”Una delle principali peculiarità dell’etno-nazio-

nalismo contemporaneo, peraltro, deriva non solodal fatto esso si impone quale forza disgregativadelle nazioni imperiali di matrice romantica (l’Ita-lia, e poi anche la Francia, la Gran Bretagna, gliStati Uniti eccetera), ma anche dal suo appellarsiin primo luogo alla volontà e al consenso degli in-dividui. Come ha scritto Walker Connor una comu-nità “non è cosa è, ma cosa crede di essere e quindicosa vuole essere” (4): affermazione che riprendeuna tesi già solidamente argomentata nel 1882 daErnest Renan e che, in questo secolo, è stata radi-calizzata in ambito liberale prima da Ludwig vonMises e poi da Murray N. Rothbard (5).

Nel 1944, infatti, von Mises aveva sottolineato cheuna nazione “non ha alcun diritto di dire ad unaprovincia: m’appartieni; ti voglio annettere. Unaprovincia consiste dei suoi abitanti. Se, in questocaso, qualcuno ha un diritto a essere sentito sonoquesti abitanti” (6). Per questo motivo nessun ar-gomento linguistico, storico o etno-culturale puòsbarrare la strada alla legittima richiesta di indi-pendenza avanzata, ad esempio, dalla SouthernLeague di Michael Hill, che rivendica oggi per lecomunità degli Stati sudisti quella medesima liber-tà che l’esercito di Lincoln negò loro con la forzadelle armi. Poco importa sottolineare che le radicietniche, linguistiche e culturali di chi vive in Virgi-nia o in Alabama non sono diverse da quelle dei cit-tadini del New England.

Le piccole patrie che - dopo il crollo del sociali-smo reale - cominciano ad emergere tra le rovinedello Stato nazionale, sovrano e accentrato, saran-no allora nazioni per consenso le quali si costitui-ranno sulla base delle aspirazioni dei singoli e, intal modo, non potranno non tenere in considera-zione le loro radici storiche e culturali. Come hascritto lo stesso Rothbard (ovvero il più coerentetra i fautori della concezione soggettivistica dellanazione) “ciascuno necessariamente nasce all’inter-no di una famiglia, di una lingua e di una cultura.Ogni persona nasce entro una o più comunità chesi sovrappongono, includenti di solito un gruppoetnico, con specifici valori, culture, credenze reli-giose e tradizioni” (7). Il riappropriarsi della libertàda parte degli individui, allora, è destino a far rie-mergere quelle identità e quelle culture che la bru-

talizzazione collettivista operata dagli Stati moder-ni ha lungamente represso.

Se il nazionalismo autoritario del secolo scorsoprogettava - con Fichte - uno Stato protezionista,illiberale ed autarchico (aprendo la strada ai totali-tarismi e alle guerre mondiali), il nuovo etnismoche affiora in ogni parte del pianeta esalta le diver-sità: e riconosce nella libertà individuale la sorgen-te prima del pluralismo e della varietà. Non esisto-no, d’altra parte, “diritti di gruppo” o, in altri ter-mini, “diritti collettivi”. Gli unici veri diritti sonoindividuali: e la libertà dei tirolesi ad usare la lorolingua è tale solo perché ogni uomo ha il pieno di-ritto a parlare e scrivere come meglio preferisce.

Una riprova di come l’idea stessa di “diritti col-lettivi” (o di gruppo) sia destinata a confliggere conl’ispirazione più autentica dell’etno-nazionalismoviene dal fallimento dell’affirmative action, ovverosia di quelle leggi e di quei regolamenti che - so-prattutto negli Stati Uniti - a partire dagli anni Ses-santa sono stati introdotti al fine di tutelare le di-verse identità culturali e per ovviare alle disugua-glianze esistenti tra i membri dei gruppi etnici, re-ligiosi o sessuali. All’origine di tali politiche vi eral’idea che per ovviare, ad esempio, ad una più bassapercentuale di laureati nella popolazione di colorefosse legittimo assicurare un’alta quota di posti aigiovani neri: indipendentemente dai risultati degliesami d’ammissione e dal fatto che vi potessero es-sere altri candidati più meritevoli, anche se di dif-ferente pigmentazione.

Il primo inevitabile effetto di tali politiche è statoquello di creare artificiose ed ulteriori contrappo-sizioni tra i bianchi e i neri, tra i latinos e i natives,tra i maschi e le femmine, eccetera. È stato giusta-mente sottolineato come tali politiche volte a con-siderare gli uomini non quali individui ma qualisemplici cellule di un’entità organica da tutelare (ilgruppo) hanno prodotto nuove ingiustizie e molte-plici effetti indesiderati: e anche a danno di chi, nelleintenzioni dei politici, doveva essere difeso. Va ri-cordato, infatti, come in conseguenza delle facili-tazioni di cui godono nel superare lo sbarramentodel numero chiuso universitario i giovani laureatidi pelle nera, nell’America di oggi, dispongono dititoli di studio che sono valutati meno, sul mercatodel lavoro, di quelli conseguiti dai bianchi...

Nel mettere in evidenza l’illegittimità di tali scel-

(4) Walker Connor, Etnonazionalismo. Quando e perché emer-gono le nazioni (Bari: Dedalo, 1995), pag. 102.(5) Cfr. Ernest Renan - Murray N. Rothbard, Nazione, cos’è, acura di N. Iannello e C. Lottieri (Treviglio [BG]: Leonardo FaccoEditore, 1996).

(6) Ludwig von Mises, Lo Stato onnipotente. La nascita dello Sta-to totale e della guerra totale (Milano: Rusconi, 1995), pag. 130.(7) Murray N. Rothbard, “Nazioni per consenso: decomporrelo Stato nazionale”, in: Ernest Renan - Murray N. Rothbard,Nazione, cos’è, cit., pag. 44.

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te politiche, Giovanni Polli ha sottolineato comel’affirmative action si sia rivelato “uno strumentocreatore di una sorta di «razzismo alla rovescia»,grazie al quale può capitare che un bianco capacedebba lasciare spazio a un nero incapace, quest’ul-timo tutelato non in virtù delle sue qualità ma solodalla sua appartenenza ad una «razza protetta»” (8).Ed è significativo che, in occasione di un recentereferendum popolare, la popolazione californianaabbia deciso di cancellare dalla propria legislazioneogni discriminazione compensatoria e ogni richia-mo alle politiche di affirmative action.

È certamente necessario opporsi a queste inizia-tive politico-legali che creano barriere artificiose trai singoli e che riservano fondi, posti e privilegi adun certo gruppo etnico o a chi risiede in talune aree:come avviene quotidianamente pure da noi, a dan-no dei cittadini padani e a vantaggio delle popola-zioni italiche. Ma tali interventi vanno rigettati an-che quando mirano a difendere, sempre per via le-gale, culture e tradizioni.

Se pensiamo ad una delle più antiche tradizioniculturali della Padania, quella rappresentata dallecomunità ebraiche presenti da secoli nelle nostrecittà, siamo costretti a rilevare come sia stato so-prattutto in seguito all’imporsi dello Stato moder-no nazionale che quelle tradizioni (e quelle con-crete esistenze) hanno finito per subire le peggioriaggressioni. Non c’è dubbio che gli ebrei abbianoconosciuto a più riprese, nella loro lunga e trava-gliata storia, molte forme di discriminazioni: ma èsolo col trionfo del nazionalismo otto-novecente-sco e a seguito dell’imporsi delle concezioni più sta-taliste che abbiamo assistito a persecuzioni di inau-dita ferocia ai danni dei cittadini padani di religio-ne e cultura ebraica.

Mi sembra del tutto irragionevole, allora, chequella stessa macchina infernale che per secoli si èimpegnata a cancellare identità e differenze (9) pos-sa oggi essere usata per farle rinascere e rivitaliz-zarle. Il che non significa che non vi siano azionipolitiche da intraprendere per tutelare le identità ele culture che la modernità statalista oggi minac-cia: ma queste iniziative devono mirare a cancella-re norme e imposizioni, e non già ad aggiungernealtre di segno opposto. Bisogna, ad esempio, libe-rare il sistema scolastico dal controllo pubblico epermettere una piena libertà di educazione che ri-dia alle famiglie la facoltà di indirizzare come me-

glio preferisce l’istruzione delle giovani generazio-ni. Privatizzare il sistema scolastico, allora, è il solomodo per sfuggire all’italianità coatta che siamocostretti a subire e per mandare al macero tutte lecircolari Berlinguer con cui il potere romano in-tende manipolare la mentalità dei giovani padani.

Dobbiamo acquisire la piena consapevolezza chenoi stessi siamo le nostre tradizioni: nel bene e nelmale. E che sta a noi decidere quando si debba re-stare fedeli a ciò che del nostro passato (nella reli-gione, nella lingua, nella cultura, nelle istituzionio in altro ancora) ci sembra importante salvaguar-dare e mantenere in vita. È difficile, poi, che unalegge calata dall’alto riesca ad imporre ad una po-polazione di parlare una lingua che essa non vuoleusare, né è ragionevole immaginare che iniziativepolitiche artificiose possano avere pieno successoindipendentemente dal libero consenso dei cittadi-ni. Il nostro stesso essere padani dopo più di unsecolo di manipolazione culturale imposta dall’al-to attesta come le strategie politiche volte ad im-porre un’identità non sempre si rivelino efficaci.Non è proprio il caso, allora, di seguire la stessastrada degli italiani e di battersi per introdurre ana-loghe leggi illiberali (seppure dai contenuti oppo-sti): i cui risultati anche in termini di tutela dellenostre tradizioni sarebbero quanto mai dubbi.

La secessione tra collettivismo e liberalismoIl dibattito in merito ai diritti individuali e ai co-

siddetti “diritti collettivi” ha importanti conseguen-ze anche in materia di secessione.

In uno dei volumi più discussi degli ultimi anni,Allen Buchanan ha infatti ipostatizzato l’esistenzadi gruppi collettivisticamente intesi (a partire daragioni linguistiche, etniche, storiche, culturali,eccetera) e ha attribuito a loro, e solo a loro, la fa-coltà di secedere. Scrive Buchanan: “un diritto asecedere è dunque un diritto, ascritto a un gruppo,di intraprendere un’azione collettiva volta all’indi-pendenza dallo stato esistente” (10). Tale imposta-zione, però, rivela come in Buchanan manchi laconsapevolezza che solo un’analisi liberale del temadella secessione è in grado di definire le condizioniin cui essa è veramente legittima.

È interessante rilevare che la stessa teoria fede-rale che emerge dal libro di Buchanan non è conci-liabile con i principi del federalismo autentico e delmigliore liberalismo. Il filosofo americano non ha

(8) Giovanni Polli, Dagli Stati Uniti alle mille Americhe, “LaPadania”, 23 aprile 1997, pag. 8.(9) Basta pensare alla storia francese e all’impresa millenariadi francesizzazione di aree e culture che tutto erano meno

che francesi: dalla Bretagna alla Normandia, dall’Occitania allaCorsica, ecc.(10) Allen Buchanan, Secessione. Quando e perché un paeseha il diritto di dividersi (Milano: Mondadori, 1994), pag. 131.

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torto nel momento in cui sostiene che l’adozionedi una struttura federale può essere in moltissimicasi una soluzione sufficientemente ragionevole perchi voglia evitare le perturbazioni e i rischi di un’av-ventura separatista e di uno scontro tra difensoridello status quo e forze secessioniste: ma nel mo-mento in cui egli imposta collettivisticamente lasua riflessione politica ed insiste appunto su nonmeglio definiti “diritti di gruppo”, nega di fatto ogniopportunità di cogliere proprio nella libera adesio-ne individuale a un’istituzione - e quindi nella cittàcome federazione di uomini liberi - la base moralepiù solida (e l’unica davvero non violenta) delle or-ganizzazioni politiche, così come sono intese dallatradizione federalista (11).

Saltati a piè pari i diritti individuali ed evitataquesta opzione etica per un ordine sociale non au-toritario, rispettoso delle prerogative della personasingola, il federalismo dimezzato di Buchanan fini-sce per essere poco più che un’astuzia della ragiondi Stato, una concessione del potere centrale di fron-te alle rivendicazioni locali di chi non accetta disubire troppe imposizioni, di pagare imposte ecces-sivamente onerose, di subire un sistema di trasferi-menti da un’area ad un’altra, ecc. Né qualcuno devestupirsi, a questo punto, se lo studioso americanoarriva a subordinare la legittimità della secessionea tutta una serie di condizioni che la rendono quasiirrealizzabile nella maggior parte dei casi ...

L’adesione ai canoni di un ragionevole moderati-smo e alla maggior parte dei pregiudizi statalisti incircolazione impedisce al volume di Buchanan diacquisire i caratteri di un testo rigorosamente e in-tegralmente liberale, autonomista, davvero favore-vole al riconoscimento dei diritti di coloro che sonoin lotta contro lo Stato nazionale e rivendicano unapiena indipendenza.

Ma l’elaborazione teorica di Buchanan si rivelainadeguata soprattutto perché resta fedele ad unodei canoni essenziali della modernità politica e delnazionalismo statalista: l’idea di uguaglianza.

L’astratto ugualitarismo illuminista, che vorreb-be negare ogni differenza tra québecois e canadesi,viene messo in discussione dai secessionisti di Mon-tréal proprio nel momento in cui essi valorizzano lapropria diversità, le proprie specificità, i propri ele-

menti più singolari. L’errore di Buchanan, a tale ri-guardo, consiste nel non capire che il concetto stes-so di “diritti collettivi” vorrebbe riproporre - all’in-terno delle nuove comunità separate e, in questocaso, all’interno del Québec - un ugualitarismo uni-versalistico del tutto simile a quello da cui le forzecentrifughe intendono fuggire. Il filosofo statuni-tense non coglie, insomma, quale rivoluzione poli-tico-culturale accompagni la crescita dei movimen-ti indipendentisti e la loro lotta contro gli Stati.

È possibile un autonomismo illiberale?Ma Buchanan non è il solo che continua a legge-

re le novità epocali dell’etnismo contemporaneo edel neofederalismo con le vecchie lenti dello stata-lismo e usando criteri interpretativi ormai del tut-to inadeguati. Un’altra concezione collettivista dellanazione, infatti, si trova negli scritti di Guy Héraud,che fin dai tempi de L’Europe des Ethnies (12) rap-presenta una delle voci più ascoltate all’interno dellacultura autonomista europea.

In taluni articoli pubblicati anche in italiano que-sto studioso ha recentemente riproposto le sue cri-tiche alla concezione soggettiva della nazione e al-l’elaborazione teorica che da Renan ha preso lemosse (13). Nel suo schema, infatti, le piccole patriefiniscono per essere rappresentate - in sostanza -quali comunità linguistiche e quindi quali nazionitradizionali, del tutto simili a quelle impostesi du-rante il secolo scorso (soltanto un po’ più piccole).Non solo: esse appaiono incamminarsi verso la co-struzione di nuovi Stati del tutto analoghi a quellida cui ora cercano di affrancarsi (14).

Non vi è alcun dubbio che, almeno in qualchecaso, le lotte per l’indipendenza che attraversano lanostra epoca coinvolgano anche, e forse soprattut-to, quelle aree in cui sono presenti popoli definibiliin quanto tali secondo i criteri più consueti. È que-sto il caso dei baschi, degli irlandesi, dei curdi, deiceceni, dei tibetani, eccetera: gruppi minoritari chesi differenziano dal resto della popolazione sulla basedi forti caratterizzazioni etniche, linguistiche, reli-giose o storico-culturali. Ma è ugualmente vero chestiamo pure assistendo all’emergere di concetti deltutto nuovi, che prescindono dal riferimento a queitratti sulla base dei quali, tradizionalmente ed og-

(11) Si veda, a questo proposito, il recente volume curato dalprofessor Gianfranco Miglio: G. Miglio (a cura di), Federali-smi falsi e degenerati (Milano: Sperling & Kupfer, 1996).(12) G. Héraud, L’Europe des Ethnies (Parigi: Presses d’Euro-pe, 1963).(13) Si veda, ad esempio, il seguente articolo: Guy Héraud, Lecomunità linguistiche alla ricerca di uno statuto, “Federali-smo & Società”, anno III, n. 2, 1996, pag. 61.

(14) Egli giunge perfino a limitare lo stesso diritto all’autodeter-minazione, sulla base della preoccupazione che non si debbanoassolutamente sconvolgere o capovolgere taluni equilibri in-ternazionali: considerazione che attesta, una volta di più, cometale studioso non riesca ad uscire dalle categorie collettivistedello Stato moderno e da quella Realpolitik che anche solo nel-l’ultimo secolo, in nome di una pretesa etica della responsabili-tà, è stata all’origine di ogni sorta di guerre e genocidi.

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gettivamente, vengono definiti i popoli.Risulta difficile non vedere che sta emergendo in

modo sempre più netto, proprio all’interno dellelotte autonomiste, un contrasto tra il vecchio na-zionalismo ed un etnismo di tipo nuovo: il primoancorato ancora a logiche ampiamente stataliste edil secondo sempre più ispirato a categorie liberali-libertarie (15).

Siamo sicuri, d’altro canto, che le nuove rivendi-cazioni federaliste o secessioniste siano interamentericonducibili a quelle concezioni di tipo organici-sta che andavano di moda nei decenni scorsi in al-cuni piccoli movimenti regionalisti e indipenden-tisti europei, all’interno dei quali era possibile tro-vare persone del tutto convinte che le etnie potes-sero essere individuate quali corpi distinti e unita-ri, perfettamente definibili? Siamo davvero certi,insomma, che l’intero arcobaleno dell’etno-nazio-nalismo si limiti a riprodurre - in scala - le aberra-zioni germaniche o mazziniane che hanno infesta-to la cultura europea nel corso dell’Ottocento?

Le cose non stanno così. L’elemento nuovo nelcorso degli ultimi due decenni ha fatto compiereun vero salto di qualità alla lotta localista è proprioda rinvenire nella progressiva maturazione, all’in-terno delle formazioni politiche in conflitto col po-tere e con le capitali, di quell’ispirazione liberaleche in precedenza sembrava rimanere in po’ aimargini della riflessione politica. Si è oggi di fron-te, allora, ad una ribellione che in primo luogo chie-de la liberazione dei singoli e delle loro comunitàvolontariamente scelte: le famiglie, le associazioni,le comunità religiose eccetera. Ed è quanto mai si-gnificativo che alla richiesta di indipendenza e difederalismo si accompagni quella di vaste privatiz-zazioni e di una generale deregulation che affran-chi gli individui, le imprese e le associazioni dai ri-catti e dai vincoli a loro imposti dalle classi politi-co-burocratiche.

Dietro all’irrompere del localismo politico è faci-le riconoscere la nuova legittimazione da cui sonostate investite le relazioni di mercato e le istituzio-ni proprie della società liberale: la proprietà privatae il contratto. Come ha sottolineato Alessandro Vi-

tale, infatti, bisogna tenere presente che il federali-smo ha in se stesso una vocazione liberale, poiché“la vitalità di un sistema federale è data (...) dal pro-durre una costante pluralizzazione” (16). Una testi-monianza in tale senso proviene dal fatto che negliambienti culturali meno portati ad apprezzare lelogiche del capitalismo concorrenziale risulti diffi-cile cogliere i fermenti libertari delle lotte anti-cen-traliste, mentre è proprio da parte liberale che ven-gono enfatizzate le opportunità positive connessealla disintegrazione degli Stati (17).

Non si può non rilevare come le ideologie collet-tiviste possano facilmente trovare un terreno di in-tesa con la concezione oggettiva della nazione, men-tre siano del tutto inconciliabili con quella valoriz-zazione della persona umana e delle comunità vo-lontarie che è al centro della tradizione liberale. Egli uomini che oggi decidono di lottare contro levecchie istituzioni politiche nazionali sono mossisoprattutto dal desiderio di distruggere gabbie op-pressive. Non vogliono affatto crearne di nuove: an-che se più piccole ed etnicamente più omogenee...

In questo senso mi pare abbiano ragione tutti co-loro che rilevano, contro la stessa concezione og-gettiva della nazione, che “laddove si abbia la non-coincidenza fra divisioni etniche e struttura delleunità costitutive si osservano i sistemi federali mul-ti-etnici più riusciti (Svizzera, Stati Uniti, Austra-lia eccetera)” (18). E sono proprio queste società fe-derali quelle in cui le differenti identità - sebbenenon coincidenti con i cantoni, le contee o gli stati -appaiono meglio tutelate, se vi sono individui e co-munità che a tutto questo sono interessati e di ciòsi prendono cura. Perché è il caso di ribadire anco-ra una volta che soltanto la volontà, l’impegno el’iniziativa dei singoli, delle loro associazioni e del-le loro imprese può garantire un futuro a culture etradizioni.

Non si può accettare, a questo proposito, quantosostiene Héraud nel momento in cui afferma che“la protezione delle minoranze secondo il sistemaipocrita dei diritti individuali (il principio detto dinon-discriminazione delle persone) è fallito” (19):tanto che si dovrebbe accettare, sempre secondo

(15) Per una presentazione della filosofia politica del liberta-rianism, quale interpretazione radicale e coerente della tradi-zione liberale, si veda: Murray N. Rothbard, L’etica della liber-tà, a cura di Luigi M. Bassani (Macerata: Liberilibri, 1996).(16) Alessandro Vitale, Padania, etnie e federalismo, “Quader-ni padani”, anno II, n. 3, gennaio-febbraio 1996, pag. 5.(17) Non ci si riferisce, evidentemente, solo a Rothbard. Inmerito all’esigenza di accrescere la concorrenza tra istituzio-ni, favorire i processi secessionisti e adottare modelli autenti-camente federali (ovvero competitivi) hanno scritto numerosi

economisti e politologi liberali di fama: da James Buchanan aTullock, da Salin a Frey, da Aranson a Hoppe. Perfino al difuori del mondo accademico, d’altra parte, appare sempre piùchiaro il nesso tra l’affrancamento dei comportamenti privati,economici e no, e il superamento degli Stati nazionali; cfr.Kenichi Ohmae, La fine dello Stato-nazione (Milano: Baldini& Castoldi, 1996).(18) Alessandro Vitale, Padania, etnie e federalismo, op. cit., pag. 4.(19) Guy Héraud, Le comunità linguistiche alla ricerca di unostatuto, op. cit., pag. 66.

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questo studioso, il principio dei cosiddetti “diritticollettivi”. Chi ha detto che è fallito? E dove, in re-altà, esso è stato coerentemente applicato, datoun’applicazione veramente consapevole implica ilpieno superamento dello Stato moderno? È ancoraaccettabile, poi, continuare a parlare di minoran-ze, o questo linguaggio non rivela una difficoltà aduscire dall’universo concettuale che è proprio del-lo Stato nazionale moderno, del suo centralismo edell’oggettivismo su cui esso si regge?

La teoria giuridica di natura statalista a cui allu-de Héraud quando parla di “diritti collettivi” restaall’interno dello jus publicum europaeum e cercadi adattarlo alla nuova situazione venutasi a crearea seguito del cosiddetto risveglio etnico (20). Ma seè ingiusto tassare un cittadino di Brest per tenerealto nel mondo il prestigio della cultura francese, èugualmente inaccettabile tassare un parigino pertutelare l’identità etnico-linguistica dei bretoni. Eneppure appare compatibile con una società liberache un’ipotetica entità politica indipendente breto-ne pretenda soldi da coloro che abitano nei villaggidella Bretagna al solo scopo di finanziare dizionario ricerche linguistiche: anche se i contadini o i pe-scatori di quelle comunità non lo vogliono.

La nostra principale preoccupazione è che ognu-no possa essere libero di gestire come vuole le pro-prie risorse, senza subire violenze e costrizioni. Aquel punto se vi saranno persone che giudicheran-no opportuno impegnarsi a tutela di questa o quel-la cultura ed identità, bene; se invece non vi sarànessuno, poco male, dato che si assisterà alla scom-parsa di un qualcosa che non trova più persone ve-ramente interessate alla sua sopravvivenza o checomunque nessuno giudica meritevole di impegnoe sacrifici.

Lo sforzo di Héraud di resuscitare la vecchia con-cezione etnico-linguistica mi pare, per giunta, deltutto vano, dato che soltanto un’interpretazioneflessibile del tema della nazione è in condizione di

rispondere alle molteplici esigenze di quei gruppiche stanno cercando di sottrarsi al controllo deipoteri centrali e perseguono un disegno d’indipen-denza. Nel mondo contemporaneo, per giunta,l’identità è sempre meno da considerarsi come sta-bile e fissa, ma semmai come un qualcosa che “sicostruisce e si ricostruisce nel corso della vita e at-traverso facce diverse, i ruoli, le circostanze cheindividui e gruppi si trovano a occupare” (21).

Non bisogna poi trascurare che, nelle sue originipre-moderne, con nazione si indicava una realtàmolto più indefinita e volontaria di quanto tale ter-mine non suggerisca ai giorni nostri: all’indomanidella statizzazione della nazione e della naziona-lizzazione delle masse. Come è stato sottolineatoda uno studioso tedesco, nell’epoca medievale l’ideadi nazione rinviava ad una polisemia che mettevanelle mani degli individui una sorta di libertà diautodefinizione, legata al contesto e alle personaliesigenze dei singoli. Il medesimo individuo potevaallora definirsi lombardo se era studente di teolo-gia a Parigi o pisano se diveniva un commercanteattivo nei porti del Mediterraneo mediorientale, ade-rendo a questa o a quella associazione studentescae mercantile sulla base delle proprie preferenze (22).

È un ben curioso punto di vista, in questo senso,quello adottato da quei localisti contemporanei distampo tradizionalista che - mossi dal desiderio diveder tutelate identità e culture certamente discri-minate ed aggredite dall’interventismo dei moder-ni poteri pubblici - si fanno fautori di una conce-zione oggettiva della nazione: senza rendersi contodi tradire e fraintendere uno dei tratti maggiormen-te caratteristici del pluralismo culturale che ha pre-ceduto la costruzione degli Stati moderni centra-lizzati e burocratici. Bisogna invece comprendereche la stessa opposizione territoriale che oggi vedecontrastarsi la Padania secessionista e l’Italia è de-stinata, negli anni a venire, a trasformarsi in oppo-sizione sociologica (23).

(20) Cfr. A. D. Smith, Il risveglio etnico (Bologna: Il Mulino,1984); e dello stesso autore: Le origini etniche delle nazioni(Bologna: Il Mulino, 1992).(21) Alberto Melucci - Mario Diani, Nazioni senza Stato. I mo-vimenti etnico-nazionali in Occidente (Milano: Feltrinelli,1992), pag. 194.(22) Per un’analisi storica di tali concetti e per un’attenta ri-flessione sul tema monosemia/polisemia si veda: HertfriedMünkler, La nazione come modello di ordine politico. Consi-derazioni preliminari ad una teoria sociologica e storico-ide-ale della nazione, “Teoria politica”, a. XII, n. 2, 1996, pagg.64-65. Münkler collega la stampa e il costituirsi dello Statomoderno, ma anche la stampa e il progressivo consolidarsi diuna visione oggettiva della nazione: “Il passaggio dalla polise-mia alla monosemia fu accelerato dal fatto che il sapere intor-

no all’appartenenza nazionale divenne essoterico” (pag. 65).Anche riferendosi a tempi a noi molto vicini non è difficileconstatare quale stretto rapporto vi sia stato tra la nazionaliz-zazione della società civile e il progressivo potenziamento deimass-media.(23) Uso qui un concetto - quello di federalismo sociologico - che èstato introdotto da Gordon Tullock ne La scelta federale, un testoin cui il premio Nobel per l’economia propone un neofederalismoche permetta istituzioni sovraterritoriali in cui si riconoscono tutticoloro che hanno talune idee o caratteristiche religiose, profes-sionali, culturali, ecc. Si tratterebbe, insomma, del riemergere informe nuove di fenomeni politici che l’Europa aveva già conosciu-to al tempo del pluralismo medievale e che sono stati spazzati viadagli Stati nazionali e dalle loro logiche uniformatrici. Cfr. G. Tul-lock, La scelta federale (Milano: F. Angeli, 1995).

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I padani che vogliono essere padroni a casa pro-pria saranno chiamati a rispettare, insomma, l’ana-logo diritto di quegli abitanti della Padania che de-siderano essere (e rimanere) italiani. O anche di-ventare qualcosa d’altro...

In una Padania libera e indipendente, insomma,non solo dovrà essere riconosciuto il diritto di se-cessione di questa o quella realtà locale (di Triesteo del Tirolo meridionale, della Liguria o di Sebor-ga), ma dovranno essere ampiamente rispettate leaspirazioni di tutti coloro che non dovessero rico-noscersi nelle nuove istituzioni e volessero mante-nere vecchi passaporti o sceglierne di nuovi.

Uno degli slogan più caratteristici delle lotte au-tonomiste, in ogni parte del mondo, chiede che sipossa essere padroni a casa propria. Nell’etnismocontemporaneo e nella sua vocazione liberale è fa-cile riconoscere un processo evolutivo che vede lametafora convertirsi in realtà e che mostra come iproprietari (i padroni) siano sempre più determi-nati a giocare a difesa dei propri legittimi diritti econtro ogni organizzazione politica che non godadel loro consenso. Rivoltandosi oggi contro l’Italiae domani, eventualmente, anche contro altre isti-tuzioni oppressive.

I proprietari, ovvero sia gli individui (dato cheogni uomo è, quanto meno, il legittimo proprieta-rio del proprio corpo), diventano soggetti politici apieno titolo. Nel loro ribellarsi all’esproprio di li-bertà e di beni praticato dallo Stato moderno essimostrano come la contrapposizione territoriale sia,nella sua essenza, una contestazione del collettivi-smo organicista. È per questo motivo che un even-tuale neo-organicismo strumentale (micro-nazio-nale, etno-nazionale) non può reggere a lungo, nésoprattutto può pretendere di appoggiarsi alle ri-volte locali che stanno mettendo in ginocchio mol-te istituzioni politiche moderne: al di qua e al di làdell’Atlantico.

La territorializzazione dei conflitti politici si col-loca poi in un contesto multiculturale che in parterisulta dal carattere multirazziale della nostra so-cietà, ma che - in realtà - ha ragioni molto più pro-fonde. I cittadini padani del nostro tempo, infatti,sono cattolici, valdesi, ebrei, atei, agnostici, cultoridella New Age, musulmani, buddisti, testimoni diGeova, neopagani, dianetici, eccetera. E la comples-sità delle credenze religiose è solo una delle nume-rose complessità che possiamo individuare.

L’eterogeneità delle culture dei nostri concitta-dini ci obbliga a pensare, allora, ad istituzioni il piùpossibile flessibili, aperte, concorrenziali e consen-suali.

Non si può ignorare, d’altra parte, che lo stesso

localismo politico dei nostri giorni sta in vario modocercando di farsi interprete di tale realtà multidi-mensionale. Nelle scorse settimane la stampa hamesso in evidenza come in Scozia siano sorte asso-ciazioni di cittadini inglesi “neo-scozzesi” (perchéresidenti in Scozia) o di “asiatici per l’indipenden-za”: persone che non sono scozzesi di nascita, mad’elezione. Non solo: fuori dai confini britannici visono scozzesi emigrati per lavoro che si organizza-no per sostenere le richieste indipendentiste e cherivendicano, al di là del fatto di risiedere o meno inpatria, il diritto degli scozzesi di ottenere l’indipen-denza.

Mi pare che questi fenomeni attestino come lanazione sia sempre più pensata e vissuta in terminisoggettivi: dato che è scozzese chi lo vuole essere, epoco importa da dove provenga o dove abiti... (24 ).

Ciò che qui mi preme sottolineare è che quellostesso conflitto che oggi vede i cittadini padani ri-vendicare il loro legittimo diritto a non essere defi-niti italiani nega l’idea stessa che, a indipendenzaottenuta, la Padania possa imporre a qualcuno diaccettare una padanità che questi rifiuta. La terri-torializzazione della lotta politica, insomma, sem-bra già ora poter mettere in discussione se stessa epare annunciare la propria crisi. O, meglio, la finedi quell’illusione politica (imperiale) quanto mainefasta che avrebbe voluto garantire un perennecontrollo monopolistico da parte dello Stato mo-derno sui singoli individui che vivono entro un de-terminato territorio e sulle realtà (imprese, comu-nità, associazioni, eccetera) a cui essi danno vita.

Non c’è da stupirsi se, in una prima fase, moltiprotagonisti delle lotte contro le capitali e controgli Stati nazionali abbiano immaginato la nascitadi nuove realtà del tutto analoghe a quelle che com-battevano. Ancora oggi per molte persone non è fa-cile comprendere come lo Stato unitario e sovranostia declinando proprio sotto la pressione congiun-ta dei localismi e della globalizzazione.

Ma il pluralismo delle etnie e delle culture sitroverà a proprio agio, in maniera molto natura-le, nella mutevole complessità del mercato: il qualenon propone affatto omologazione e uniformità,ma vive proprio della concorrenza tra ciò che èdiverso, capace di rispondere a gusti differenti, aopinioni anche discordanti. A dispetto di quantoè affermato dalle culture autoritarie (di vecchia onuova destra, come di vecchia o nuova sinistra),

(24) Al momento dell’effettivo costituirsi di istituzioni politi-che scozzesi certo si porrà il problema della definizione deicriteri, interni alla nuova organizzazione, sulla base dei qualipermettere (o meno) l’accesso al nuovo club.

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l’ordine spontaneo che emerge dall’incontro diproduttori e consumatori offre spazio a ogni spe-cificità: nella speranza che vi sia chi l’apprezzeràe chi opterà per essa.

A dispetto delle sciocchezze insistemente pro-pagandate dai vari Alain de Benoist, il mercatomondiale delle bibite non è affatto sotto il mono-polio della Coca Cola e delle multinazionali ame-ricane (25): vi sono migliaia di bevande in circola-zione (e anche il vino della Padania, a quanto mirisulta, continua a tenere quote consistenti di talemercato) (26). Nelle società libere, ognuno può im-pegnarsi in prima persona nella salvaguardia del-le proprie tradizioni e può perfino proporre aglialtri quanto di più valido egli ritenga vi sia in esse:invitando svedesi o venezuelani a visitare le pro-prie città e le proprie cattedrali, a bere i propriBarolo, ad ascoltare i propri canti popolari.

Mentre gli Stati mirano a omogeneizzare, i li-beri mercati sono l’unica vera opportunità di riu-scire a mantenere in vita quanto vi è di meglio epiù nobile nella propria storia.

ConclusioneL’importanza del nesso tra proprietà privata e

tradizioni (ma anche tra il federalismo autenticoe il rispetto delle diverse specificità culturali) puòessere facilmente evidenziata grazie ad un recen-te episodio che ha interessato proprio un impren-ditore padano.

Nelle scorse settimane, infatti, sui mezzi d’in-formazione è stato dato ampio risalto ad un fattodi cronaca che ha visto protagonisti una grandecasa cinematografica americana (la Metro Gold-win Mayer) e un albergatore del Friuli, a cui l’im-presa americana ha chiesto di cedere l’hotel incambio di una cifra astronomica. La Mgm, infatti,aveva individuato proprio l’Hotel Cridola, a Fornidi Sopra, quale scenario ideale di una produzionecinematografica che si sarebbe dovuta conclude-re con la distruzione spettacolare dell’albergo:grazie ad un incendio da filmone hollywoodianoche forse avrebbe presentato scene analoghe aquelle già viste ne L’inferno di cristallo.

L’imprenditore del Cadore ha però rifiutato l’of-ferta degli americani, facendo presente che quel-

l’edificio aveva ai suoi occhi un valore affettivo bensuperiore ai molti miliardi propostigli e che eglinon era disposto a cederlo nemmeno in cambiodi una somma tanto alta.

L’episodio ha suggerito più di una riflessione ec’è stato chi ha giustamente apprezzato la fedeltàdell’albergatore alla sua impresa, elogiandolo peraver fatto prevalere le ragioni affettive sulla pre-tesa capacità del denaro di comprare ogni cosa emonetizzare tutto. La considerazione che qui siintende sviluppare, però, mira a mettere in risal-to un altro aspetto della vicenda.

Immaginiamo, infatti, che un’analoga attenzio-ne a quell’albergo del Cadore fosse venuta dalloStato, interessato al possesso di quei locali per ra-gioni di “pubblica utilità”: per farvi una clinicaveterinaria, una sede universitaria o anche per re-alizzarvi un film d’autore. Non è escluso che, inquel caso, al signor Cappelletti non sarebbe statalasciata alcuna possibilità di scelta: egli avrebbedovuto cedere. A seguito di un esproprio che gliavrebbe reso, per giunta, una cifra incomparabil-mente inferiore.

L’imprenditore friulano che nei giorni scorsi hascelto di restare fedele a taluni valori e simboli(ma anche a quanto la sua famiglia era riuscita acostruire) ha potuto agire così perché si è trovatoa contrattare, da proprietario, con un altro pro-prietario privato che si trovava sul suo stesso li-vello e che non era in condizione di usare la vio-lenza nei suoi riguardi. Se invece avesse avuto difronte a sé un soggetto pubblico, “armato” dellalegge e degli innumerevoli privilegi che essa asse-gna allo Stato, egli sarebbe stato quasi certamen-te costretto a cedere. E quell’hotel Cridola chetanto significa, evidentemente, per una famiglia eforse per tutta un’intera comunità, sarebbe statocancellato. La scelta dell’albergatore rimasto fe-dele a quelli che egli ritiene valori importanti deveportarci a comprendere che il tanto vituperatomercato (quando è veramente libero e quando rin-via a diritti di proprietà legittimamente conseguiti)è una condizione essenziale affinché quelle tradi-zioni che trovano accorati difensori non venganocalpestate dalla violenza degli apparati burocrati-ci dello Stato.

(25) Il riferimento alla Coca Cola, in questo contesto, riprendeun’immagine tra le più ricorrenti nei discorsi degli avversaridel mercato.Chi vede nel liberalismo il nemico principale, infatti, sostieneapertamente politiche aggressive nei confronti dei singoli, delleloro proprietà e dei loro diritti a scambiare e contrattare: sot-to il pretesto che se si lasciasse gli uomini liberi di disporre di

quanto hanno essi finirebbero per diventare schiavi degli Usa(o di qualcosa di simile) e per questo sarebbe un’ottima cosache essi diventassero sudditi di Sacri Imperi o di quale altracollettività statale.(26) In tutta la Francia, e non solo nella Bretagna celtica, perfi-no il sidro degli antichi druidi continua a essere molto ap-prezzato e consumato ...

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IntroduzioneSpesso la creatività di un popolo si esprime a

partire dai gesti più spontanei, nella risoluzionedi problemi contingenti e quotidiani più diversi. Ipopoli celtici, da sempre considerati fra i più pra-tici e creativi, seppero fornire una risposta assaioriginale al problema della comunicazione. Alcu-ni di essi seppero adattare i sistemi alfabetici giàin uso presso altri popoli, modificandoli per veni-re incontro alle proprie esigenze. Abbiamo vistocome la civiltà celtica di Golasecca, partendo dalmodello dell’alfabeto nordetrusco cosiddetto “diLugano”, seppe elaborare un proprio alfabeto, illeponzio, che si impose in alcuni casi nienteme-no che su quello greco e su quello venetico, arri-vando a costituire un vero e proprio alfabeto “na-zionale”, quello della Padania (1).

Ma altre popolazioni celtiche, in un modo cosìoriginale da poter essere definito unico nella sto-ria dell’umanità, diedero vita ad un sistema alfa-betico talmente complicato e poco pratico da co-stringere gli studiosi a porsi molti interrogativi:le reali funzioni di questa scrittura si limitavanoalla normale comunicazione, oppure l’alfabetoaveva altre applicazioni, magari magiche e ritua-li? La scrittura ogamica, nata in Irlanda in circo-stanze misteriose, costituisce ancora oggi unodegli aspetti più misteriosi, suggestivi e affasci-nanti della cultura celtica.

L’irlandese: una lingua celticaAltrove (2) abbiamo illustrato la tradizionale

classificazione delle lingue celtiche in due grup-pi, insulare e continentale. Il primo gruppo si sud-divide ulteriormente in goidelico (o celtico q) e

brittonico (o celtico p). L’irlandese, insieme conlo scozzese e il manx, rientra nel ramo goidelico.Questa definizione (3) risale al termine goidel,comparso per la prima volta verso la fine del VIIsecolo e derivante dal gallese gwyddel, parola concui le popolazioni gallesi denominavano quelleirlandesi.

Parlato, scritto ed insegnato ancora oggi nellescuole d’Irlanda, l’irlandese ha origini molto an-tiche, che sfidano il trascorrere dei millenni. Leprime testimonianze scritte di lingua irlandeserisalgono ai secoli V-VIII d.C. e ci sono tramanda-te dalle iscrizioni ogamiche. Esse contengono pre-valentemente nomi di persona e presentano unalingua senza apocope (caduta dell’ultima sillaba).La caduta dell’ultima sillaba infatti si verifica traV e VI secolo, ed è testimoniata nella fase dell’ir-landese arcaico. Nel VII-VIII secolo, dopo la cadu-ta della sillaba intermedia (sincope), si parla diantico irlandese primitivo. La successiva fase, quel-la dell’antico irlandese classico (secoli VIII-X), ciè nota da un gran numero di glosse, esplicative diparticolarità grammaticali o di termini difficili,rinvenute in codici manoscritti ad opera dei mo-naci. Le successive fasi: irlandese medio (secoliX-XIII), primo irlandese moderno (secoli XIII-XVII) e irlandese moderno (dal 1600 in poi), citrasportano ormai verso una fase in cui è possibi-le avere un contatto diretto con una delle linguepiù antiche e suggestive d’Europa.

La tradizione letteraria irlandese è quanto maivaria e abbondante, sia in campo sacro che profa-no. Purtroppo invece la nostra conoscenza delleforme di lingua parlata tra i secoli V e XVI è presso-ché nulla data la mancanza di notizie dirette. È solo

L’alfabeto Ogam:un’espressione originale

della cultura celticadi Elena Percivaldi

(1) Elena Percivaldi, “Il Lepontico: il primo alfabeto nazionaledella Padania”, in Quaderni Padani, n. 10.(2) Ibidem.

(3) Jan Filip, Celtic Civilization and its Heritage, trad.it. I Cel-ti alle origini dell’Europa, (Roma: Newton Compton GTE,1995), pag. 86.

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a partire dal Cinquecento infatti che le varianti re-gionali, derivate dalla lingua parlata, sono riscon-trabili nella letteratura. Ma questa è storia recen-te. Ciò che interessa qui è parlare della prima tra-dizione scritta in lingua irlandese, quella appuntoconsegnata alle iscrizioni in alfabeto ogamico.

L’alfabeto ogamicoL’alfabeto ogamico è un curioso e originalissimo

modo di scrivere che fu inventato presumibilmen-te intorno al IV secolo d.C. Il nome “ogam” è statocollegato a quello di un personaggio chiamatoOgme o Ogma, che i moderni hanno creduto dipoter identificare con quell’Ercole che, secondoLuciano, “dai Celti è chiamato Ogmios nella lorolingua” (4) ed è per loro il dio della sapienza. Nellatradizione irlandese del Lebor Gàbala (Libro delleinvasioni), Ogma è un guerriero appartenente alletribù della dea Danu (Tuatha Dé Danann), tribùcostituite dagli antichi dei dell’Irlanda pagana. Untesto noto come Auraicept na n-éces (Il Manualedel Letterato), che contiene un trattato sull’alfa-beto ogam, gli conferisce esplicitamente la pater-nità di questa scrittura. Dice il testo: “Esso (l’ogam)fu inventato al tempo di Bres, figlio di Elatha e red’Irlanda. La persona fu Ogma, figlio di Elatha ...Ora Ogma, un uomo molto dotato per il linguag-

e quasi mitiche” (6).L’alfabeto ogamico (Tavola 1) consta di venti let-

tere, ripartite in quattro gruppi di cinque segni cia-scuno, i primi tre costituiti da consonanti e l’ulti-mo da vocali. Le lettere sono notate per mezzo dilinee, incise in numero da uno a cinque, sullo spi-golo di una pietra o a ridosso di una linea verticale,a destra, a sinistra, perpendicolarmente o obliqua-mente rispetto allo spigolo. A questi venti segni fuin seguito aggiunto un quinto gruppo di altri cin-que segni, che traslitteravano i dittonghi, ma ciònon rientra nello spirito originale dell’alfabeto. Unsegno inciso sotto l’iscrizione ne indicava la dire-zione di lettura, che poteva essere dall’alto verso ilbasso o, più frequentemente, dal basso verso l’alto.Ogni gruppo di lettere era chiamato aicme, ovvero“famiglia” o “specie” e ciascun segno traeva la suadenominazione da una pianta, il cui nome iniziavacon la lettera in questione (Tavola 2). Dal nomedelle prime tre lettere, l’alfabeto, nel suo insieme,prende il nome di bethe-luis-nin. Malgrado nelmedioevo vari trattati tecnici testimoniassero l’usodi diversi tipi di alfabeto ogamico con nomi di li-quidi, colori e uccelli, secondo il Vendryes, illu-stre studioso di cose celtiche, “il nome di bethe-luis-nin, dato di solito all’ogam, mostra che l’ogamvegetale è il solo antico e il solo che conta” (7).

Tavola 1. L'alfabeto ogamico

(4) Luciano, ’Ηρακλης (Eracle), I sgg.: “Τον ′Ηρακλεα οιΚελτοι ′Ογµιον ′ονοµαζουσι φωνη τη ′επιχωριω”.(5) Citato in Caitlin Matthews, The Celtic Tradition, tr. it. ICelti. Una antica tradizione europea (Milano: Xenia, 1993),pag. 61, e, parzialmente, in J. Vendryes, L’écriture ogamiqueet ses origines, in Études Celtiques vol. IV/1948 (Paris: So-ciété d’édition “Les Belles Lettres”), pag. 89.

(6) J. Vendryes, op. cit., pag. 90: “Tout ce qu’on en peut conclu-re est qu’elles étaient considérées comme fort anciennes etquasi mythiques”.(7) J.Vendryes, op. cit., pag. 85: “Le nom de bethe-luis-nin, don-né généralement à l’ogam, montre que l’ogam végétale est leseul ancien et le seul qui compte”.

gio e la poesia, inventò l’Ogham.La causa di questa invenzione,prova della sua ingegnosità, è chequesto linguaggio dovesse appar-tenere all’uomo colto ed esclude-re gli zotici e i mandriani” (5). Èprobabile tuttavia che sia stataoperata una sovrapposizione, ma-gari dovuta alla conoscenza daparte dell’autore dell’opera di Lu-ciano o di opere consimili, dellafigura del dio Ogmios con quelladel guerriero Ogma, tale da at-tribuire a quest’ultimo l’inven-zione dell’alfabeto. Le origini del-l’ogam restano dunque avvoltenella totale oscurità: “tutto ciòche si può concludere è che esseerano considerate molto antiche

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L’alfabeto ogamico e la sapienza dei druidiAnche nel campo della scrittura è evidente l’im-

portanza che le piante, le erbe e gli alberi avevanoper la cultura celtica. Il rapporto con la natura,soprattutto per quel che concerne il regno vege-tale, era infatti a tratti quasi mistico. Fra i Celtidella Gallia, le piante più sacre erano il vischio ele querce su cui esso cresceva, ed era proprio neiboschi di querce che essi celebravano le loro fun-zioni religiose. Plinio il Vecchio (8) ci narra di fe-ste in cui i druidi raccoglievano con un falcettod’oro, che sapevano usare con notevole perizia, ilvischio ed altre erbe medicinali. La procedura cheseguivano era quasi magica e accompagnata dariti propiziatori e sacrifici: dopo aver raccolto ilvischio dalle querce, ad esempio, i druidi sacrifi-cavano due tori bianchi. Due erbe, che nessuno èancora riuscito ad identificare e che Plinio chia-ma samolus e selago, venivano raccolte l’una conla mano sinistra, l’altra con la destra infilata nellamanica sinistra di una veste bianca in modo dapoter esplicare le loro virtù curative nel modo piùefficace. Secondo lo scrittore latino, l’appellativodi druidi deriva dal culto che essi avevano per lequerce: in greco infatti, δρυµος significa querce-to. In effetti il termine stesso “druido” è etimolo-gicamente connesso all’indoeuropeo wid, “sape-re, conoscenza” e a deru, “quercia”. I druidi per-tanto sarebbero i “conoscitori della quercia” (9) o,più genericamente, gli “uomini della quercia” (10).

D’altra parte, la dimestichezza con le virtù del-le piante, il dominio delle forze della natura e laconoscenza dell’alfabeto e della scrittura sono tut-te caratteristiche che emergono dalla descrizionedei druidi ad opera di Cesare. Essi sono nettamenteseparati dalla classe dei cavalieri, dediti alla guer-ra, e sono i veri ed unici depositari della sapienzaceltica. Sono loro ad avere, per così dire, il “mo-nopolio” del soprannaturale: infatti “si interessa-no al culto, provvedono ai sacrifici pubblici e pri-

vati, interpretano le cose attinenti alla religione:presso di loro si raduna un gran numero di giova-ni ed essi sono tenuti in grande considerazione”(11). Decidono inoltre in quasi tutte le controver-sie pubbliche e private, stabiliscono pene e risar-cimenti e sono responsabili dell’educazione deigiovani, a cui vengono insegnate “molte questio-ni sugli astri e sui loro movimenti, sulla grandez-za del mondo e della terra, sulla natura, sull’es-senza e sul potere degli dei” (12). Inoltre conosco-no e usano l’alfabeto greco, anche se solo per affa-ri pubblici e privati, affidandosi per il resto allaloro formidabile memoria (13).

Anche altri autori antichi ci presentano i druidicome dei saggi, quando non addirittura filosofi.

B bethe = betullaL luis = ornelloF fern = ontanoS sail = salice

H huath = biancospinoD daur = querciaT tinne = agrifoglioC coll = noccioloQ qeirt = melo

M muin = prunoG gort = ederaNG ngedal = cannaZ straof = prunoR ruis = sambuco

A ailm = abeteO onm = ginestraU ur = ericaE edad = tremoloI idad o ibar = tasso

Tavola 2. L'alfabeto ogamico e i nomi delle piante

(8) Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XVI 249-251: “Nihilhabent Druidae - ita suos appellant magos - visco et arbore,in qua gignatur, si modo sit robur, sacratius.Iam per se eli-gunt lucos nec ulla sacra sine earum fronde conficiunt, utinde appellati quoque interpretatione Graece possint Drui-dae videri. (...) Omnia sanantem appellant suo vocabulo. Sa-crificio epulisque rite sub arbore comparatis duos admoventcandidi coloris tauros, quorum cornua tum primum vincian-tur. Sacerdos candida veste cultus arborem scandit, falce au-rea demetit, candido id excipitur sago. Tum deinde victimasimmolant precantes, suum donum deus prosperum faciat iisquibus dederit”. Sulle virtù del vischio, vedi sempre Plinio,cit., XXIV, 11-12.(9) Gerhard Herm, nel suo Il Mistero dei Celti (Milano: Gar-zanti, collana “Il corso della storia”, 1981) pag. 80, fa derivare

il termine dal greco δρυς, “quercia” e dall’indoeuropeo wid,“conoscenza”, coniando la definizione di “querciòloghi”.(10) James George Frazer, The Golden Bough, tr. it. Il Ramod’oro (Roma: Newton Compton GTE, 1992), pag.195.(11) C.Giulio Cesare, De Bello Gallico VI,13: “Illi rebus divinisintersunt, sacrificia publica ac privata procurant, religionesinterpretantur: ad hos magnus adulescentium numerus disci-plinae causa concurrit, magnoque hi sunt apud eos honore”.(12) Ibidem, VI,14: “Multa praeterea de sideribus atque eorummotu, de mundi ac terrarum magnitudine, de rerum natura,de deorum immortaliumvi ac potestate disputant et iunven-tuti tradunt”.(13) Ibidem, VI,14: “ Neque fas esse existimant ea (i.e. i versi)litteris mandare, cum in reliquis fere rebus, publicis privati-sque rationibus, graecis litteris utantur”.

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Diodoro Siculo sostiene che essi fossero a cono-scenza delle dottrine pitagoriche dell’immortali-tà dell’anima, ma se ciò non è provato, sembratuttavia plausibile che ne conoscessero le dottri-ne numeriche. Ciò troverebbe riscontro nellastruttura stessa dell’alfabeto ogamico, tutto incen-trato sul numero cinque e sui suoi multipli. Que-sto numero ha presso molte culture un forte si-gnificato magico e simbolico. Cinque sono le ditadella mano, ed è noto come le popolazioni anti-che, che non conoscevano le cifre arabe, si basas-sero sul computo per digita. Le stesse cifre roma-ne, che secondo alcuni derivano dalle lettere gre-che non utilizzate in latino, avrebbero origine dallarappresentazione grafica delle dita per i numeri I,II, III e IIII (questa forma è la più antica rispetto aIV, così come VIIII è più antico di IX). Il simboloromano per il numero cinque (V) sarebbe la rap-presentazione stilizzata di una mano aperta, cioèdi cinque dita, e il simbolo per il dieci (X) sarebbedato dall’unione di due V contrapposte. Come notail Vendryes (14), il greco antico usa il verbo πεµ−παζειν per “contare”, mentre nella numerazioneirlandese compare il termine déac che è spiegatocome “due volte dieci”. Nell’alfabeto ogamico igruppi di cinque lettere sono quattro: ogni manoha cinque dita, così come ogni piede. In tutto, ventidita, ovvero venti lettere. La numerazione per ven-ti del resto è una delle più primitive ed è ampia-mente documentata presso molti popoli, ancoraoggi in India e nei paesi indo-ariani dell’Himala-ya. Il fatto che quest’uso si conservi nel francesepotrebbe indicare la sopravvivenza di un retaggioassai antico che potrebbe essere di matrice celti-ca. Tuttavia gli elementi a disposizione non ci per-mettono di provare nulla.

Druidi, bardi e filid: una tradizione oraleAutori quali Diodoro e Strabone avevano parla-

to delle mirabili facoltà dei druidi e della loro sa-pienza, ma avevano accennato anche alla presen-za di un’altra categoria di “sapienti” presenti nel-la società celtica: i bardi. Erano poeti e cantoriche non si limitavano a raccontare le eroiche ge-sta dei guerrieri, ma le componevano anche, go-

dendo per questo di grande considerazione.Essi fiorirono soprattutto in Irlanda, dove era-

no suddivisi in due gruppi: i baird, che praticava-no canti e orazioni, e i filid, che in qualità di vati esapienti subentrarono gradualmente ai druidi nel-le loro funzioni. Nelle scuole in cui venivano edu-cati si praticava un insegnamento orale in cui siimparavano a memoria i calendari, le regole dicomposizione delle poesie, le genealogie e tuttele storie le cui origini si perdevano nella notte deitempi. Il cosiddetto Lebor Laigen (Libro di Lein-ster) costituisce un documento prezioso per de-terminare questo bagaglio di conoscenze perchécontiene un elenco della saghe che i filid doveva-no imparare a memoria. Queste storie, oltre a di-lettare, avevano il preciso scopo di fornire unasumma di casi giuridici che, al momento oppor-tuno, veniva richiamata per risolvere le contro-versie in nome della consuetudine e della tradi-zione (15).

Tutte le popolazioni “barbariche” del resto basa-vano il loro sistema giuridico su una serie di nor-me consuetudinarie tramandate oralmente di ge-nerazione in generazione. Le popolazioni germa-niche, che applicavano il principio della personali-tà del diritto, misero per iscritto le loro leggi solodopo essersi stanziate sul territorio dell’ormai fa-tiscente Impero romano, dovendo trattare con ilatini, che possedevano un sistema di leggi scrittoe molto più avanzato del loro (16). Anche iI dirittoirlandese si basava su un corpus di norme oraliantichissime. Le lingue celtiche nel loro insiemepossiedono molti termini giuridici comuni. Ciò haaddirittura fatto pensare agli studiosi che nel peri-odo del cosiddetto Celtico Comune (circa 1000 a.C.)esistesse presso queste popolazioni un sistema dileggi comune che solo in seguito si è differenziatonelle singole tradizioni (17). Le compilazioni nor-mative irlandesi tuttavia sono molto tarde. I ma-noscritti che possediamo risalgono infatti ad unperiodo che va dal XIV al XVI secolo, ma dall’esa-me linguistico è stato ormai dimostrato che i testicontenuti in questi codici sono stati redatti tra ilVII e l’VIII secolo. Nel periodo cioè contempora-neo all’utilizzo dell’alfabeto ogamico.

(14) J.Vendryes, op. cit., pag. 110.(15) Sulle usanze giuridiche presso i Celti ci informa Cesare(De Bello Gallico VI,13; VI,19-20 e VI,23). Per i Germani, vediTacito, Germania 10-14.(16) Le consuetudini barbariche furono messe per iscritto uti-lizzando il latino.I primi a farlo furono i Visigoti (Codex Euricianus), seguitidai Burgundi (Lex Burgundiorm, inizio VI secolo), dai Fran-

chi (Pactus Legis Salicae, 507-511), dai Longobardi (Editto diRotari, 643) e da altre popolazioni minori.Per il diritto delle popolazioni barbariche, vedi Antonio Pa-doa-Schioppa, Il Diritto nella Storia d’Europa. Il Medioevo.Parte prima (Padova: CEDAM,1995), pagg. 59 ÷ 111.(17) Per tutta la questione, vedi Fergus Kelly, Il Diritto Celtico,in I Celti. Catalogo della mostra a Palazzo Grassi, Venezia1991 (Milano: Bompiani, 1991), pagg. 652-653.

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L’ogam nella letteraturaLa prassi fondata sull’oralità e sulla memoria

dei sapienti continuò anche dopo l’invenzionedell’alfabeto ogam, avvenuta presumibilmenteintorno al IV secolo d.C. I reperti archeologicigiunti fino a noi lo vedono utilizzato quasi esclu-sivamente per iscrizioni commemorative e fune-rarie su cippi tombali, ma da testimonianze indi-rette provenienti dalla letteratura possiamo intra-vedere un suo uso anche magico e rituale.

L’epica irlandese ci tramanda l’uso abituale pres-so i Celti insulari di porre sopra le tombe, dopoaverle ricoperte di terra, cippi funerari con incisia caratteri ogamici i nomi dei defunti. Oltre cheper le iscrizioni tombali, l’ogam era adoperatoanche su cippi che dovevano marcare il limite diuna proprietà. Per questi usi, l’alfabeto ogamiconon poteva avere carattere magico o cifrato, maanzi doveva poter essere letto da chiunque fossein grado di farlo. A scanso di equivoci, pertanto,spesso si procedeva per questi casi alla redazionedi epigrafi bilingui latino-ogamiche, che permet-tessero a tutti di intendere il messaggio che vi erainciso. È anche probabile che, oltre che su pietra,i messaggi venissero incisi su materiale più depe-ribile, ad esempio il legno o l’osso (18). Alcuni avan-zano l’ipotesi che la scrittura sia stata elaborata apartire da un sistema di numerazione su legnoper mezzo di tacche (19) ma di questi usi non con-serviamo testimonianze dirette.

La tradizione letteraria irlandese però ci traman-da di un uso diverso dell’alfabeto ogamico, questosì connesso ad un uso magico. Nel Tàin Bò Cùai-lnge (La Razzia del bestiame di Cuailnge), l’eroeCù Chùlainn incide a più riprese messaggi di sfi-da nei confronti dei nemici: “Prima di partire, CùChùlainn tagliò con un solo colpo una giovanequercia e, con una sola mano, la piegò fino a farneuna pastoia; intagliò un messaggio in caratteriogamici nella caviglia che la chiudeva e la lasciòin segno di sfida sulla sommità di una pietra infis-sa perché la trovasse l’esercito nemico” (20). Piùavanti apprendiamo il contenuto del messaggio:“Non andate oltre, a meno che tra voi non si troviun uomo, escluso il mio amico Fergus, che siacapace di costruire una pastoia come questa conuna sola mano e di un sol pezzo” (21). Fergus chiede

che un uomo solo aveva infisso quel ramo nel gua-do e che essi non dovevano proseguire finché unodi loro, non Fergus, avesse fatto altrettanto, e an-ch’egli con una sola mano” (23). Dopo aver final-mente capito che l’autore di tutto ciò è Cù Chù-lainn, Fergus e i suoi si mettono in marcia percercarlo e affrontarlo, ma egli sul loro camminoabbatte una quercia e vi incide in alfabeto ogami-co che “nessuno doveva oltrepassare quella quer-cia finché un guerriero l’avesse superata con ilcarro al primo tentativo” (24). I guerrieri accetta-no la sfida e inizia il massacro, che culmina con lavittoria finale di Cù Chùlainn e l’annientamentodei nemici.

In quest’episodio risulta evidente che i guerrie-ri erano senz’altro in grado di leggere il messag-

Stele con incisione bilingue: la-tino-ogamico. AVITORIA FILIACVNIGNI - AVITTORIGES INI-GENA CUNIGNI. Cardif, MuseoNazionale del Galles

ai druidi di in-terpretare il si-gnificato delm e s s a g g i o ,che egli defini-sce “segreto”(22), dopo diche decide diignorarlo. CùChùlainn allo-ra, imbattutosiin un attaccodell’esercito,uccide quattroguerrieri, ta-glia loro le te-ste e le infilasu un grossoramo forcuto.Quando gli al-tri guerrierinemici si reca-no sul luogo,trovano sulramo insiemealle teste deiloro compagniun messaggioinciso a carat-teri ogamici:“esso diceva

(18) Màirtin O’ Murchù, The Irish Language (Dublin: TheDepartment of Foreign Affairs and Bord na Gaeilge, 1985),pagg. 12.(19) Venceslas Kruta, La scrittura, in I Celti.. cit., p.497.(20)Tàin Bò Cùailnge (La Razzia del Bestiame di Cùailnge) inSaghe e leggende celtiche. La saga irlandese di Cu Chulainn,

a cura di G. Agrati e M.L. Magini (Milano: Arnoldo MondadoriEditore, 1982) pag. 134.(21) Ibidem, pag.135.(22) Ibidem, pag.136.(23) Ibidem, pag.138.(24) Ibidem, pag.140.

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gio in caratteri ogam, che pertanto, come ognialfabeto, era comprensibile a tutti quanti posse-dessero la capacità di decifrarlo. Ciò che è osticoo di difficile comprensione è dunque il vero signi-ficato del messaggio, che richiede, per la sua in-terpretazione, l’intervento dei druidi. Ciò rivestel’episodio di un’aurea magica e sacrale e testimo-nia un uso diverso della scrittura ogamica, cheandava cioè oltre al senso più comune e naturaledi quanto era scritto. L’episodio mostra anche chei druidi non solo conoscevano bene la scritturaogamica, ma erano in grado di interpretarla gra-zie alle loro competenze di sacerdoti e di “inter-preti del soprannaturale”. La presenza infine del-la quercia si ricollega ancora una volta all’ambitomagico proprio dei druidi.

La conoscenza “sacrale” dell’ogam non fu co-munque confinata all’alto medioevo. Una testimo-nianza preziosa del suo uso e della sua importan-za in un’epoca più tarda è data dal già citato Au-raicept na n-eces, che è un vero e proprio manua-le del fili, ossia del vate. Esso contiene la summadelle conoscenze che debbono essere acquisite daogni fili che si rispetti, e la dimestichezza conl’ogam fa parte di queste. Esiste inoltre il cosid-detto Libro di Ballymote, trattato-manuale diogam che ne descrive le caratteristiche e il cuitesto risale circa all’XI secolo. Entrambi questimanoscritti tuttavia non possono essere fatti ri-salire anteriormente al XIV secolo e pertanto sonomolto tardi rispetto all’epoca di massima espan-sione di questa scrittura. La sua sopravvivenza nelcorso del medioevo è relegata a brevi messaggiconservati in vari altri manoscritti, e testimoniaquindi che l’ogam era ancora ben conosciuto da-gli eruditi fino alle soglie dell’epoca moderna.

Nonostante tutto, sono comunque le iscrizioniincise su pietra a costituire per noi la fonte mi-gliore per la conoscenza dell’ogam.

Una difficile questione: l’alfabeto ogamico e i suoirapporti con gli altri alfabeti. L’alfabeto greco

Secondo John MacNeil (25), sebbene nessunaiscrizione ogamica possa essere datata anterior-mente al V secolo, molte di esse contengono for-me linguistiche che potrebbero essere precedentidi un secolo. Ma ad un’analisi più approfondita,

l’uso di forme apparentemente arcaiche rivela cheesse non costituiscono un elemento sufficiente perla datazione, sia essa assoluta oppure relativa, diun’epigrafe. Le iscrizioni ogamiche fiorirono inun momento storico molto delicato, durante ilquale il rifiuto verso qualunque influsso prove-niente dalla cultura romana aveva provocato inIrlanda un netto ripiegamento arcaizzante. L’as-senza di apocope, la duplicazione delle consonan-ti come moda grafica senza alcuna rilevanza fo-netica, la caratterizzazione delle vocali e la pre-senza di desinenze declinate sono tutti segni evi-denti di questa tendenza (26). Nondimeno, l’origi-ne dell’alfabeto, il momento della sua prima com-parsa e l’artefice della sua invenzione restano av-volti nel mistero.

Può sembrare strano che un alfabeto relativa-mente recente come questo ponga delle questio-ni che non sono state ancora risolte definitivamen-te, soprattutto se lo confrontiamo con gli altri al-fabeti ben più antichi di origine mediterranea.Conosciamo gli influssi che gli alfabeti etrusco,greco e latino esercitarono in generale sugli alfa-beti celtici continentali, sul leponzio, sul gallico,sul celtiberico. È opinione ormai comune cheanche l’alfabeto runico derivi dall’alfabeto etru-sco settentrionale, lo stesso che originò il lepon-zio. Ma per quel che concerne l’ogamico, le que-stioni aperte sono ancora molte.

Il materiale a disposizione degli studiosi è pra-ticamente ridotto a circa 350 iscrizioni più uncerto numero di codici manoscritti contenentimessaggi in alfabeto ogamico. Dopo aver esami-nato questi reperti, Macalister, primo editore del-le iscrizioni, sostenne che l’alfabeto ogamico ebbeorigine sul continente dall’adattamento foneticodi una scrittura segreta che i druidi derivaronodall’alfabeto greco. Ciò ha fatto a lungo discuteredata la totale mancanza di iscrizioni ogamiche aldi fuori delle isole britanniche. Tuttavia, Cesaresostiene che i druidi facessero uso dell’alfabetogreco (27). Dopo aver espugnato l’accampamentodegli Elvezi, egli inoltre trovò una serie di tavo-lette scritte a caratteri greci che contenevano inomi dei cittadini che potevano portare le armi, eseparatamente, quelli delle donne, dei bambini edei vecchi (28). In effetti possediamo molte iscri-

(25) Per un’approfondita analisi sull’ortografia, vedi J.Vendryes,op. cit., pagg. 100 ÷ 102 e John MacNeil, Notes on the Distri-bution, History, Grammar, and Import of the Irish OghamInscriptions, in Proceedings of the Royal Irish Academy, volXXVII section C (1908), Dublin, pag. 332-333.(26) Eoin (John) MacNeil, Archaisms in the Ogham Inscrip-tions, in Proceedings of the Royal Irish Academy, vol.XXXIX,

section C (1931), Dublin, pag. 34.(27) vedi nota (13) .(28) C. Giulio Cesare, op.cit., I, 29: “In castris Helvetiorum ta-bulae repertae sunt litteris Graecis confectae et ad Caesaremrelatae, quibus in tabulis nominatim ratio confecta erat, quinumerus domo exissent eorum qui arma ferre possent, et itemseparatim pueri, senes mulieresque”.

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no creduto di rintracciare il possibile modello del-l’alfabeto ogamico nell’alfabeto runico (Tavola 3).

Quest’ultimo è il più antico metodo di scritturagermanico, databile dal III secolo circa, in cui lesingole lettere, dette rune dall’antico scandinavorunar (“scrittura segreta”) venivano incise su pie-tre innalzate per lo più in memoria di defunti.Sembra che le rune avessero anche un caratteremagico e divinatorio. Tacito, descrivendo i costu-mi dei Germani, ci racconta che “tagliano un ra-metto di albero da frutta in piccoli pezzi, li con-traddistinguono con alcuni segni e li gettano acaso su una veste bianca” (32) dopo di che, raccoltitre pezzi, il sacerdote o il capofamiglia di ogni tri-bù legge il responso e lo interpreta.

Due sono gli alfabeti runici principali, chiamaticol nome di futhark dal nome delle prime sei rune.Il primo, più arcaico e diffuso in tutto il mondogermanico, è formato da 24 rune raggruppate intre gruppi di otto rune ciascuno. Il secondo, piùrecente e maggiormente attestato, è diffuso soloin Scandinavia e presenta 16 rune suddivise in un

gruppo di sei e due gruppi di cinque. Ogni runa,oltre ad avere valenza fonetica, possiede anchevalore ideografico. La versione dell’alfabeto runi-co con cui presumibilmente l’ogam avrebbe po-tuto avere maggiori contatti è però quella usatasulle Isole Britanniche per traslitterare l’anticoinglese o Old English (33). Essa presenta un mag-gior numero di lettere, introdotte per rappresen-tare suoni assenti nelle versioni germaniche; leiscrizioni anglosassoni sono databili dal V-VI se-colo e sono quindi contemporanee a quelle ogami-che.

Oltre all’utilizzo prevalentemente commemo-rativo e al carattere “segreto”, due sarebbero leaffinità che legherebbero l’ogam alle rune: la pri-ma, la suddivisione delle lettere in gruppi; la se-conda, la somiglianza con il genere particolare dirune detto hahalruna (cioè “rune raggruppate inrami”), in cui ogni lettera è rappresentata da trat-ti incisi a destra e a sinistra di una barra verticale.Tuttavia, come nota il Vedryes, il sistema dellehahalruna deriva a sua volta dall’alfabeto runico,

zioni in lingua gallica notate inalfabeto ionico di Marsiglia, dif-fuse principalmente nella GalliaNarbonese a partire dal III seco-lo a.C. (29). Esse contengono perla maggior parte nominativi dipersone e sono molto brevi, edalcune sono bilingui (30). Nonsappiamo con esattezza in chemisura i Galli conoscessero ilgreco, ma se escludiamo quantoera necessario per i traffici com-merciali, la loro padronanza del-la lingua dovette essere abba-stanza modesta se lo stesso Ce-sare, durante la sua missione diconquista, scriveva al suo legatoQuinto Tullio Cicerone in grecoproprio per evitare che il conte-nuto delle sue lettere fosse com-preso dai nemici (31).

L’ogam e le runeNegli anni Venti e Trenta del

nostro secolo, vari studiosi han- Gli alfabeti runici

(29) Per un’autorevole e recente edizione delle iscrizioni, vediRecueil des Inscriptions Gauloises (R.I.G.), sous la directionde Paul-Marie Duval. Paris, Édition du Centre National de laRecherche Scientifique, vol. I: Textes gallo-grecs par M. Lejeu-ne.(30) Venceslas Kruta, op. cit., pag. 493.(31) C. Giulio Cesare, op. cit., V, 48: “Hanc Graecis conscrip-

tam litteris mittit, ne intercepta epistola nostra ab hostibusconsilia cognoscantur”.(32) P. Cornelio Tacito, Germania, X: “Virgam fructiferae arbo-ri decisam in surculos amputant eosque notis quibusdam di-scretos super candidam vestem temere ac fortuito spargunt”.(33) David Crystal, The English Language(London: PenguinBooks, 1988), pagg. 161 ÷ 164.

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dato che è ad esso posteriore, e se mai ci fu un’imi-tazione da parte di un sistema di segni rispetto adun altro, “è piuttosto l’ogam che sarebbe servitoda modello” (34). Quanto poi alla suddivisione del-le lettere in gruppi, l’alfabeto runico come si è vi-sto presenta una ripartizione diversa (non per cin-que, ma per otto nella sua versione più antica) e ilnome stesso dei raggruppamenti è derivato dallaparola corrispondente al numero otto: non avreb-be dunque etimologicamente nulla in comune conil nome irlandese del raggruppamento delle lette-re ogamiche, cioè aicme, “specie” o “famiglia”.

L’ogam e l’alfabeto latinoDopo decenni di studi, è oggi opinione comune

da parte degli studiosi che l’alfabeto ogamico de-rivi da quello latino. Sembra anzi che l’anonimoideatore del sistema abbia tratto spunto dalle operedei grammatici latini, soprattutto Elio Donato,Prisciano e Mario Vittorino. Le vocali, infatti, an-che se differiscono leggermente nell’ordine, sonoanche qui cinque ed hanno la stessa natura (35).Anche per le consonanti la somiglianza è notevo-le (36). Tuttavia nell’ogam le lettere X, P e Y sonostate soppresse in quanto inutili, mentre la K fi-nisce per confondersi con C e si identifica con essa;invece Z ha valore, come testimonia anche un’epi-grafe contenente il nome “Stefanus” reso con “Ze-fanus”, di ST. Le diciannove lettere così ottenutevengono integrate con un ventesimo segno, NG,che peraltro si ritrova anche nel sistema runico.Infine, la F latina, non utilizzata in questa fasedell’irlandese, viene rimpiazzata da V e sostituita,nella serie di Donato, dalla B, la prima consonan-te latina (37). Se teniamo conto di tutto quantodetto finora, risulta poco comprensibile lo sche-ma dell’alfabeto fornito da Gerhard Herm quandopresenta il segno W come quinta lettera del pri-mo gruppo, al posto del corretto N (38).

La puntuale conoscenza della grammatica lati-na in Irlanda non deve stupire più di tanto: bastapensare al ruolo che essa ebbe nei monasteri ir-landesi medievali. I monaci irlandesi durante laloro attività missionaria viaggiarono sul continen-te e portarono con sé numerosi trattati di gram-matica che lasciarono poi in eredità nei monaste-ri da loro visitati. Ancora oggi si conservano inol-

tre numerosi codici di opere di grammatici latinicontenenti glosse in antico irlandese estremamen-te preziose che testimoniano un interesse note-volissimo da parte dei letterati irlandesi per que-sta disciplina.

Malgrado le indubbie affinità con l’alfabeto lati-no, tuttavia l’ogam non ne è una mera trasposi-zione cifrata: anzi presenta tratti di indubbia ori-ginalità, a partire dall’ordine delle lettere. Esso ècompletamente rivoluzionato rispetto al model-lo, con le vocali isolate dal resto delle lettere efacenti parte di un gruppo a sé stante. SecondoJohn MacNeil (39), il fatto che l’ogam non presentii segni che in latino erano stati introdotti per tra-slitterare suoni greci o per lettere greche chemancavano in latino, prova che l’alfabeto latinoservito da modello è quello della prima classicità.

Le iscrizioni ogamicheLe iscrizioni in alfabeto ogam sono state trova-

te solo nelle Isole Britanniche. Galles, Isola di Man,Scozia e Cornovaglia ne conservano circa 60,mentre nella sola Irlanda ne sono state rinvenutepiù di trecento. La stragrande maggioranza di essecontinene scritti in uno stadio piuttosto anticodella lingua irlandese; solo una piccolissima par-te, ritrovata in Scozia, conserva un tipo di linguadiversa che da alcuni è stata considerata l’idiomadei Pitti.

MacNeil ritiene che il momento di massimaespansione di questa forma di scrittura sia stato ilV secolo, dopo di che si ebbe un arresto dovutoalla contemporanea diffusione della lingua latinae del suo alfabeto. Sia la nomenclatura sia il tra-dizionale vocabolario cristiano sono infatti pre-senti solo in una decina di iscrizioni, la massimaparte delle quali di cristiano conserva solo qual-che nome. È il caso ad esempio della parola QRI-MITIR che deriva da presbyter e dal nome Col-man (Colombanus). Per la maggior parte invece,le iscrizioni conservano nomi che si fanno risali-re a culti ancestrali. I nomi di tribù (tuatha) sonointrodotti in genere dal termine MUCOI. SecondoMacNeil, i progenitori che diedero il nome alletribù irlandesi appartenevano alla mitologia pa-gana: erano cioè gli dei e le dee che popolavano ilpantheon dell’Irlanda antica e non cristiana. Al-

(34) J.Vendryes, op.cit., p.100: “S’il y a imitation d’un domaineà l’autre, c’est bien plutot l’ogam qui aurait servi de modèle”.(35) Elio Donato sostiene che le vocali sono cinque (“Vocalessunt numero quinque: a, e, i, o, u”).(36) Questa la natura delle consonanti sempre secondo Dona-to: “Semivocales sunt numero septem: f, l, m, n, r, s, x. ...

Mutae sunt numero novem: b, c, d, g, h, k, p, q,t ... y et zremanent quas litteras propter graeca nomina admisimus”.(37) J.Vendryes, op. cit., pag.101.(38) Gerhard Herm, op. cit., pag. 305.(39) John MacNeil, Notes on the Distribution, ... cit., pagg. 334-335.

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cuni cippi in seguito sono stati deliberatamentemutilati del nome della tribù e del termine MU-COI. Forse ciò fu fatto per privare una tribù delproprio ancestrale legame “genealogico” con unadivinità pagana. Se così fosse, sarebbe la prova chel’ogam era adoperato da pagani per praticare unculto pagano, e proverebbe anche l’iniziale ostili-tà dei dotti cristiani per questo tipo di espressio-ne culturale (40).

Come si è già avuto occasione di ripetere piùvolte, le iscrizioni ogamiche avevano soprattuttouna funzione sacrale e commemorativa. L’uso diporre sulle tombe o sui tumuli sepolcrali i nomidei defunti tuttavia non sembra essere originariodell’Irlanda, ma piuttosto “importato” dal mondoromano. Questa pratica è infatti abbondantemen-te testimoniata dall’epigrafia latina. Interessanteè anche l’accostamento col termine shma, segno,che in greco significa “segno”, “segnale”, “porten-to”, “indizio” (come il latino signum), ma anche“segnale posto sul tumulo sepolcrale” e quindi,per estensione, “tumulo”, “tomba” (41).

Dato il loro carattere, i testi ogam sono moltobrevi e le frasi non contengono molto oltre alnome proprio del defunto e alle sue generalità.

bù (MUCOI) di Y”. In altri ancora troviamo la pa-rola AVI, genitivo, che indica la discendenza.

Alcune epigrafi infine sono bilingui, latino-ir-landesi.

Vediamo qui di seguito qualche esempio di iscri-zione funebre.

DALAGNI MAQUI DALI = di Dallàn, figlio di Dall.

CUNAMAQQI AVI CORBBI = di Conmaic discen-dente di Corb

VOTECORIGAS - latino: Memoria Voteporigis Pro-tictoris = alla memoria di Voteporix protettore

I Celti insulari e la conquista romanaLe iscrizioni ogamiche che ci sono rimaste dun-

que non sono databili anteriormente alla metà delV secolo. Prima di allora, l’aspetto più originaledella cultura irlandese era costituito dalla presenzadei druidi. Questo tipo di druidismo tuttavia nonera identico a quello esistente in Gallia prima del-la conquista romana, anche se è certo che i con-tatti tra i druidi continentali e i loro “colleghi”insulari erano molto intensi. Gli imperatori ro-mani, dopo la sottomissione della Gallia ad operadi Cesare, non si mostrarono mai molto teneri neiconfronti di una cultura che non comprendevanoe pertanto giudicavano barbara e pericolosa. Sono

(40) Ibidem, pagg. 333-334.(41) Ad esempio, vedi Omero, Iliade H (VII), 89 ÷ 91.

Il tesoro indogermanico: alcune iscrizioni ogamiche

Certe volte presentano un solonome proprio, al genitivo; piùspesso i nomi sono due, entram-bi al genitivo e separati dal ter-mine MAQI, “figlio”, forma an-ch’essa genitiva. Per la maggiorparte quindi le iscrizioni sonodel tipo: “di X figlio di Y”, sot-tintendendo quindi la parola“cippo”, “tomba” o simili. In po-chi casi si tratta di pietre di deli-mitazione di proprietà; la formu-la incisa è dello stesso tipo, sot-tintendendo quindi il termine“campo”, “proprietà”.

In alcune epigrafi tarde ilnome proprio, sempre in geniti-vo, è preceduto dal nome ANM(ainm, “nome”), spesso sottinte-so, secondo il modello: “(nomedi ) X”. In altri casi appare il ter-mine MUCOI, che come si è det-to introduce la parentela o la tri-bù di appartenenza, secondo ilmodello: “(nome di) X della tri-

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noti i tentativi fatti a più riprese dai regnanti permettere fuori gioco le popolazioni celtiche e le lorotradizioni religiose. Se diamo una rapida occhiataalla storia di Roma, vediamo che sin dall’inizio ci fusempre un continuo rifiuto, da parte dei latini, diculture diverse dalla propria. E sembra proprio cheavessero il dente avvelenato nei confronti dei Celti.Cominciarono subito con i Celti padani, che seppe-ro tener loro testa per lunghi decenni, ma alla finecapitolarono nel III secolo a.C. Ai loro danni opera-rono un vero e proprio genocidio. Passarono poi aiGalli che sottomisero nella lunga campagna dellametà del I secolo a.C. Non ancora contenti, infine,passarono ai Celti insulari, i più periferici e per que-sto meno controllabili. Più ancora che contro lapopolazione, essi si accanirono contro i druidi, per-sonaggi che loro non sapevano catalogare e che, acausa della loro conoscenza della natura e della lorodimestichezza con pratiche “magiche e superstizio-se”, erano considerati pericolosi ed incontrollabili.Tiberio li mise fuorilegge e Claudio cercò di soppri-merne la “casta”, ma Nerone, solito alle esagerazio-ni ed alle imprese megalomani, non si limitò adoperare “per vie legali”: li volle annientare comple-tamente. Il pretesto fu fornito da una rivolta avve-nuta in Britannia all’inizio degli anni Sessanta. Perripristinare lo status quo ante, Nerone incaricò l’al-lora governatore della provincia Paolino Svetoniodi procedere militarmente contro i ribelli, arroccatisull’isola di Mona (odierna Isola di Anglesey, sullacosta nord-occidentale del Galles). Nel 61, i soldatiromani si prepararono all’attacco. Narra Tacito: “Sul-la spiaggia era radunata la schiera dei nemici, per-corsa da donne coperte di vesti come le Furie e che,sparse le chiome, agitavano le fiaccole. Intorno sta-vano i druidi che, levate al cielo le mani, lanciavanopreghiere e maledizioni e con il loro aspetto colpi-rono i soldati al punto che essi, come paralizzati, siesponevano alle ferite, quasi avessero le membralegate” (42). Ripresisi dallo spavento e timorosi difare brutte figure, i legionari, incitati dai loro capi,“si gettarono contro di loro, li abbatterono e li tra-volsero con le loro stesse fiamme” (43). Dopo lo ster-minio dei druidi, “fu imposto ai vinti un presidio efurono abbattuti i boschi sacri alle loro superstizio-ni selvagge” (44). Il massacro continuò in tutta laBritannia con una ferocia tale da travolgere tuttoquanto. Ogni cosa fu bruciata, le donne massacrate

insieme ai bambini e agli animali, i campi devastati,i villaggi saccheggiati e rasi al suolo. La carestia pro-vocata dal caos fece il resto.

La conseguenza di questa azione militare fu cheil druidismo, dopo essere stato estirpato dalla Gal-lia, venne annientato anche in Britannia e rimaserelegato alla sola Irlanda e ai territori del nord dellaScozia, ancora abitati dai Pitti. Quivi i druidi cherimanevano dovettero covare un odio acerrimo ver-so l’invasore e sterminatore romano, al punto darifiutare qualunque cosa provenisse dal mondo lati-no, a cominciare dalle istituzioni e, naturalmente,dalla lingua e dall’alfabeto. “Come altrimenti si spie-gherebbe il fatto che, prima dell’introduzione delcristianesimo, in Irlanda non si trovi alcuna tracciadi uso dell’alfabeto latino, e anzi venga creato unsistema alfabetico che si basa su di esso, ma man-tiene nascosta la relazione che esiste tra i due?” (45).La cultura irlandese si mostrò sempre restìa ad ac-cogliere influssi esterni, soprattutto se provenientidagli odiatissimi romani. Persino l’uso di apporresulle tombe dei defunti brevi iscrizioni commemo-rative, pratica questa non originatasi in Irlanda maadottata dal mondo greco-romano, fu introdottoabolendo ogni imitazione diretta del modello. Equando in Irlanda il Cristianesimo fece la sua com-parsa, i suoi monaci rivendicarono sempre una for-te autonomia nei confronti della Chiesa romana,dando al monachesimo celtico un’impronta di forteoriginalità che li portò più volte allo scontro ideolo-gico con la gerarchia di Roma.

A partire dal V-VI secolo dunque la cultura d’Ir-landa si ripiegò su se stessa, come mostrano i carat-teri arcaici molto netti presenti nelle iscrizioni, marimase sempre fiera e attaccata alle proprie tradi-zioni. La conquista romana della Britannia, ottenu-ta a prezzo di grandi distruzioni ed eccidi, non riu-scì mai a snaturare del tutto la cultura celtica. Letribù più pericolose e “barbare”, tra le quali emer-gevano i Pitti e i selvaggi irlandesi noti come “Sco-ti” ancora razziavano indisturbate il nord dell’isolae sovente si spingevano verso il centro, attaccandoe devastando le città di fondazione romana. L’Impe-ro del resto, in piena crisi a causa del continuo sus-seguirsi di imperatori effimeri durante il secolo del-l’“anarchia militare” e sconvolto dalla lotta tra levarie fazioni per il potere, non seppe evitare l’avan-zata delle popolazioni celtiche che intendevano riap-

(42) P. Cornelio Tacito, Annales XIV, 30: “Stabat pro litore diversaacies, densa armis virisque, intercursantibus feminis; in modumFuriarum veste ferali, crinibus deiectis faces praeferebant; Drui-daeque circum, preces diras sublatis ad caelum manibus fun-dentes, novitate adspectus perculere militem, ut quasi haeren-tibus membris immobile corpus vulneribus praeberent”.

(43) Ibidem, XIV, 30: “Inferunt signa sternuntque obvios et ignisuo involvunt”.(44) Ibidem, XIV, 30: “Praesidium posthac impositum victisexcisique luci saevis superstitionibus sacri”. Dell’avvenimen-to, lo stesso Tacito parla anche in Agricola, 14 e 18.(45) Eoin (John) MacNeil, Archaisms ... cit., pag. 34.

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propriarsi del territorio. “Il legame civile e militareesistente col Mediterraneo - narra un grande stori-co contemporaneo - si fece di anno in anno più te-nue, e i Celti non romanizzati calarono sul paesedal Galles, dalla Caledonia e dall’Irlanda” (46). In ba-lia anche sul continente delle popolazioni germani-che che premevano ai confini orientali, sconvoltodalle guerre intestine e incapace di far fronte alleemergenze, il vecchio Impero romano si preparavaad una rovinosa quanto inarrestabile caduta. Di lì apoco, si sarebbe scatenato l’inferno. Alla fine del Vsecolo, “i Britanni romanizzati si trovarono abban-donati a se stessi da un Impero che dovette dichia-rarsi impotente ad offrir loro ulteriore aiuto” (47):sulle vestigia romane sarebbe di lì a poco sorta unanuova dominazione, quella dei Sassoni. Ma primadi abbandonare il campo ai nuovi invasori, in quelloche doveva essere stato il punto di massima espan-sione verso oriente dei Celti irlandesi, un’ultima ri-vendicazione: “Prima che la romana Silchester fos-se abbandonata sotto la pressione sassone, una pie-tra Ogam coperta di iscrizioni celtiche barbarichefu eretta nelle sue strade, segno terribile e sinistroper chiunque ricordasse cosa era stata Silchester untempo” (48).

L’alfabeto ogam: un enigma senza soluzione?Dopo tutto quanto è stato detto finora, si può fare

solo un’ultima considerazione sull’ogam e la suadiffusione: perché questo sistema così complesso,poco pratico e facile ad ambiguità ed errori? Perchénon ci si limitò ad adattare un alfabeto già esisten-te, come si fece derivando l’alfabeto greco da quellofenicio? È una questione per molti versi ancora aper-ta. Vari studiosi, tra cui il Vendryes (49), sono pro-pensi a ritenere che l’alfabeto ogamico, come formadi comunicazione, fu organizzato solo in un secon-do tempo, sulla base cioè di un sistema di scritturaogamica indipendente che aveva scopi probabilmen-te magici. Il suo processo di sviluppo infatti non hanulla in comune con quello di altri alfabeti. L’origi-ne della scrittura viene fatta risalire al bisogno del-l’uomo di rappresentare gli oggetti coi quali avevaesperienza quotidiana. Da una prima fase di rappre-sentazione pittografica e figurata, si passò ad unafase ideografica, in cui un disegno simboleggiaval’oggetto di cui si voleva parlare. Dalla notazione

dell’idea, si passò poi all’espressione di una parola,di un concetto: l’ultima tappa si ebbe infine con larappresentazione di un suono, fatta tramite un fo-nema o una lettera. Ma l’alfabeto ogam non fu ori-ginato in questo modo. I segni ogamici non corri-spondono né ad un’immagine, né ad un’idea. Essonon deriva da ideogrammi. Sembrerebbe plausibiledunque che si tratti di una scrittura segreta, riser-vata a iniziati, come del resto proverebbe il fatto cheesso è sempre legato a materiali dai Celti considera-ti sacri: il legno e la pietra. Molte altre popolazioniin tempi antichissimi avevano l’usanza di produrrescritte magiche e votive, ordini e divieti, maledizio-ni e invocazioni contro il malocchio che incidevanosu tavolette, su pietre o su altro materiale. Questescritte erano spesso scolpite con caratteri particola-ri che potevano essere decifrati o interpretati soloda iniziati. Queste pratiche si ritrovano in primisnel mondo greco e in quello romano (50). Anche pres-so i Celti padani è documentata l’esistenza di scrittesu pietre, cocci, vasi e armi che avevano valore ma-gico, e anch’essi, come i loro “cugini” delle isole bri-tanniche, incidevano su lapidi i nomi dei defunti edelle divinità. Tuttavia essi, a differenza degli insu-lari, facevano uso non di un alfabeto “numerico”,cifrato o simbolico come l’ogam, ma avevano crea-to un proprio alfabeto, il leponzio, partendo da unogià esistente e adattandolo alle proprie necessità.Forse, da questo punto di vista, i Celti irlandesi fu-rono più originali. E, a quanto pare, essi erano an-che più conservatori, visto che l’alfabeto ogam so-pravvisse per qualche secolo facendo concorrenza aquello latino in un’epoca relativamente tarda. Dicerto, “il problema dell’ogam non interessa solamen-te l’archeologia celtica e preceltica; esso fornisceanche un’eccellente testimonianza della psicologiadel popolo irlandese” (51). Ma non solo. Con questoloro atteggiamento, i Celti possono ancora e soprat-tutto oggi insegnarci qualcosa di importante. Tuttii popoli celtici infatti, e in particolare quelli padanie quelli insulari, seppero utilizzare il proprio alfa-beto come un’arma contro gli invasori romani ecome elemento di fiera autodeterminazione. Noipadani, riscoprendo i valori e le tradizioni della no-stra cultura, possiamo prendere esempio da loro perdifenderci contro chi, ancora oggi, ci predica chesolo “romano è bello”.

(46) George Macaulay Trevelyan, History of England, tr.it. Sto-ria d’Inghilterra (Milano: Garzanti, 1962), pag. 39(47) Ibidem, pag. 39(48) Ibidem, pag. 39. La traduzione nel testo è mia perché amio modesto parere quella di Gina Martini ed Erinna Panicie-ri nell’edizione citata non rende efficacemente l’originale in-glese (“Before Roman Silchester was abandoned under Sa-

xon pressure, an Ogham stone with a barbarous Celtic in-scription had been set up in its streets, portentous to anyonewho remembered what Silchester once had been”).(49) J. Vendryes, op. cit., pag. 103.(50) Basterebbe pensare alla Sibilla cumana, che scriveva i re-sponsi degli oracoli sulle foglie, ai Libri Sibillini,...(51) J. Vendryes, op. cit., pag. 116.

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Il bacio delle croci celtichea Zuglio Carnico

di Alessandro D’Osualdo

l giorno dell’Ascensione (la data è già indica-tiva) (1), per antica tradizione, sogliono rac-cogliersi al “Plan de Vincule” in San Pietro,

spezzata dai tanti nastri multicolori che le donne,maritatesi nell’anno, vi avevano annodato.

Il rito pertanto, in tutti i suoi aspetti, vuole ri-chiamarci al simbolo della ruota e la ruota espri-me non tanto il sole, quanto e soprattutto il “pri-mum movens”, identificabile anche con il sole. Percapire il rito dobbiamo di conseguenza evitare dicercare di dimostrarne l’uso in funzione della so-larità della divinità. Quale sarà allora il suo sco-po?

Per decifrarlo dobbiamo analizzare il valore datoalla ruota dalla religiosità indoeuropea e soprat-tutto da quella celtica, facendo riferimento parti-colarmente al ciclo dei racconti arturiani sullaTavola Rotonda.

Prima di tutto va detto che la Tavola della Ri-cerca, quella più nota, è la terza costruita in ordi-ne di tempo.

La prima è quella che vede raccolti Gesù e i do-dici apostoli (il Sole e i dodici segni dello zodiacoo Aditya: altrettante forme del Sole).

La seconda è quella costruita da Giuseppe e chepresenta un posto libero: quello occupato da Gesùnell’ultima cena. Sua particolarità è che chi vi staseduto intorno (sono gli apostoli “buoni”) godedei benefici della Tavola: “coloro che poteronoprenderne posto ogni giorno provarono una deli-ziosa dolcezza e la realizzazione dei propri desi-deri; ma gli altri che furono costretti a restare inpiedi non patirono altro che la fame: in tale modosi seppe che erano i peccatori...” E guai a sedersisullo scranno libero! un certo Mosè “falso, sleale,fallace e lussurioso a meraviglia” ci prova con l’in-ganno, ma la terra si apre e lo inghiotte come untraditore.

Le qualità benefiche della Tavola dipendono dal

Isulla sommità del colle che sovrasta Zuglio, le cro-ci debitamente adornate, delle chiese facenti capoall’antica Pieve per “baciare” le croce, disadorna,della Chiesa matrice.

Lo spettacolo, altamente suggestivo, non è cheil risultato del sovrapporsi della religiosità cristia-na, alla tradizione religiosa indoeuropea celtica emerita tutta una serie di considerazioni per lacomprensione del suo significato (2).

Anzitutto va considerato il luogo ove si svolge ilrito: una collina posta al di sopra di un importan-te centro gallo-romano, Zuglio Carnico; la con-nessione rito-cima della collina (o del monte: ilvalore è analogo) come stabile simbolo di sededella divinità, non va messo in rapporto all’avve-nuta distruzione della basilica di Zuglio che avreb-be indotto i fedeli a costruirne un’altra più sicura,in alto, poiché ciò non giustificherebbe la presen-za anche di un Placito di Cristianità per la mede-sima collina.

È assai più probabile che la Chiesa di S. Pietroabbia trovato la sua sede in un luogo già di cultosolare, per puntualizzare la presenza cristiana nelrito, rito che non era tanto un atto di sudditanzaverso la Chiesa madre (3), bensì un incontro conla divinità abitante l’alto colle, per riceverne laPotenza vivificatrice.

La maggior attenzione va data alla disposizionedelle croci e dei loro portatori nel prato vicino allaChiesa e al particolare ornamento di nastri e co-rone; i portatori assumono una disposizione a cer-chio, al pari dell’ornamento che, a detta degli an-ziani, faceva loro assumere l’aspetto di una ruota

(1) Vicina alla ricorrenza di Beltane, la grande festa celtica diprimavera, che ricorreva il I maggio.(2) Il rito non era l’unico del suo genere nel Friuli: ricordiamoqui quello che si svolgeva a Udine presso la Chiesa di Madonnadi Grazia che radunava le comunità cristiane dei paesi vicinio-ri; il luogo e di conseguenza anche il rito, dovevano avere un

antico significato, altamente magico, data la vicinanza di unasorgente, di una palude e un mammellone: quello della colli-na. Nei dintorni si sono trovate delle tombe a tumulo.(3) Bisogna tenere presente, tra l’altro, che la croce più impor-tante, quella di S. Pietro, a differenza delle altre, è disadorna,priva di segni esteriori simbolici del suo ruolo.

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Graal, la magica coppa che provve-de al nutrimento di chi vi ci siede eche è il mitico Omphalos, il “lapisphilosophorum”, intagliato dagliangeli dallo smeraldo staccatosi dal-la fronte di Lucifero il giorno dellasua caduta e che ricorda l’Urna, ilterzo occhio di Shiva, rappresentan-te sia il “senso dell’Eternità” che lafecondità che vi promana (valoreanalogo ha l’ornamento che le don-ne indiane si dipingono in mezzoalla fronte).

Ma torniamo alla tavola, o meglio,alle tavole rotonde. La terza è quel-la della Ricerca del Graal che è an-dato perduto; vi trovano posto i ca-valieri che partecipano alla Ricerca.Anche qui un seggio, quello peri-glioso, rimane vuoto e chi vi siede èdestinato a perire miseramente per-ché è riservato a colui il quale porràfine alla ricerca, ritrovando il Graal:Galaad, figlio di Lancillotto che è ilvergine, il puro per eccellenza e, so-prattutto, il nato da un essere miti-co, Lancillotto (si pensi alla sua ado-lescenza trascorsa con la dama dellago, in una sorta di magico “resti-tutium ad uterum”) e un’abitanteil mondo infero, la coppiera del RePelles (4), il ricco Re Pescatore, in-carnazione di divinità celtica, forse

glioso che verrà di conseguenza occupato da Gesù,da Pelles-Beleno e da Galaad che ha tutte le cartein regola per essere lui stesso una divinità. Nulladi pericoloso potrà venire loro da quel seggio per-ché sono superiori alla morte; ma con il sedervi-cisi essi chiudono il cerchio di quanti si siedonoalla Tavola.

I popoli celtici temevano il cerchio, esperienzadi un’immagine archetipa di carattere interioreindicante l’aspetto essenziale della vita, la sua com-plessiva e definitiva globalità: il rosone ne è la ro-manica conseguenza: si pensi ad esempio a quel-lo della cattedrale di San Zeno a Verona, che com-pendia il simbolo della ruota come vita-morte,associandolo alle quattro età dell’uomo.

Il cerchio era soprattutto simbolo di morte equanto vi era di similare (5) ne diveniva il tramite

(4) In altri racconti è Bron ed è il costruttore della secondaTavola Rotonda, al posto di Giuseppe.(5) “Balor dall’occhio malvagio ... egli doveva tenerlo chiuso, tranne

lo stesso Lug-Belenos, che attinge da un vaso as-sai simile al Graal della Ricerca.

La tavola dunque è in stretta connessione alGraal dal quale addirittura dipende per esprimerela sua magia. Il Graal è, a sua volta, in rapportocon la Gran Madre ed è, come coppa, uno dei piùstabili simboli di fertilità del mondo antico; rap-presenta il “primum movens”, colui che fa girarela ruota (si pensi al vedicu Manu) di cui la tavola èl’ideale di continuità.

La fertilità appartiene alla Madre la cui eviden-te espressione è il Figlio che sarà pertanto il diodella Resurrezione, rinascendo dalla terra, comeil seme che deve morire e risorgere per dare frut-to. Il dio della Resurrezione deve pertanto presen-ziare alla Tavola, anzi ne occuperà il seggio piùimportante, quello a lui riservato: il seggio peri-

quando voleva la morte di qualche nemico. Allora, in quel caso,gli uomini che erano con lui, gli sollevavano la palpebra con unanello d’avorio ...” Lady Augusta Gregory: “Dei e guerrieri”.

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Questa dualità del cerchio ci viene offerta, adesempio, dalle ruote sulle quali venivano innalza-ti i condannati o al carro con cui venivano con-dotti: il carro dei condannati era analogo (6) a quel-lo dei morti, dalle grandi ruote; il salirvi è nefa-sto: Galvano vi salirà per cercare una donna cheappartiene al regno degli inferi e questo fatto glidarà onta e avrà un tale rilievo da offrire spuntoad un intero racconto del ciclo arturiano.

Queste indicazioni sono necessarie per capire ilrito che si svolge sul colle di San Pietro nel gior-no dell’Ascensione e la stretta connessione con iriti arcaici di fertilità.

La croce “madre”, la più importante, rappresentala divinità che siede sul seggio pericoloso, in strettaconnessione col mondo infero e con la resurre-zione, perché dal mondo infero può derivarci lamorte, ma anche la vita, come per il seme: è lasperanza della Rinascita intesa come Fertilità; lealtre croci la baciano per ricevere questa fertilitàche essa, come il Graal, dispensa. Solo che il farloè anche un rischio: bisogna prendere delle pre-

(6) Se il cerchio è in stretta connessione al mondo infero, ilquadrato apparterrà al dio della resurrezione.Dottrinale, a tale proposito, è il gioco del campo della nostrainfanzia, nel quale, ad una serie di quadrati, viene affrontatoun semicerchio; mentre i quadrati andranno percorsi su unpiede solo (lo zoppicare era caratteristica del dio della resur-rezione), sul semicerchio si possono posare tutti e due i piedi.Non a caso il semicerchio veniva chiamato Inferno! Nel perio-do tardo-antico, il nimbo quadrato identificava i santi ed i be-ati ancora viventi.(7) Il nastro che taglia la ruota per annullarne le caratteristi-

che negative, lo troviamo pure nelle corone rituali dei paesigermanofoni, che vengono messe sulle porte, al centro dellatavola o intorno ai pali rituali (l’albero di maggio).La presenza di frutta e del sempreverde sono pure in rapportocon la fertilità. A Grado una simile corona viene esposta nelbattistero di S. Giovanni.(8) Significano rinascita per l’anno che inizia se lanciati il 31dicembre o il 6 gennaio, secondo il calendario orientale, gior-no in cui avviene l’epifania (manifestazione della divinità) deldio della resurrezione, che rinasce (la potenza di dio salvatoreè alterna), con la periodica salvazione della Primavera.

cauzioni se non si vuole che dal mondo infero ciprovengano i malanni dati dal cerchio chiuso: perquesto le altre croci che, a differenza di quellamadre non hanno nessun potere sul mondo infe-ro, devono adornarsi e si adornano a ruota (comeanticamente dovevano essere quelle con le qualiviene raffigurata Epona o le croci cerchiate deicimiteri irlandesi) spezzata dai nastri, nastri chenon tutte le donne possono annodare, ma soloquelle maritate nell’anno, che maggiormente han-no bisogno, in analogia della terra che rinasce dal-l’inverno, della fertilità.

Non a caso i vecchi dicevano che i nastri servi-vano contro il maleficio e quale maleficio può ve-nire dal cerchio ad un popolo di contadini se nonla sterilità? (7) Né significato diverso hanno “lescidulis” (rotelline di legno resinoso) che, infuoca-te, vengono lanciate dai pianori alpini dell’EuropaCentrale dall’Austria, alla Svevia e alla Carnia; ilfatto che, al lancio, venga gridato il nome accop-piato di due giovani non ancora sposati, ma in au-gurio di prossima unione, non è affatto casuale (8).

simbolico. Se il cer-chio è nefasto, anda-va spezzato: da quil’uso celtico di por-tare al collo dei “tor-ques”, ossia dei cer-chi spezzati con, alledue estremità, duetamponi a forme in-volute che ricordanodelle decorazioni ba-rocche. Ma il cer-chio col suo chiu-dersi e, di conse-guenza, rinnovarsi,è anche rinascita eper un popolo comei Celti che credeva-no nella metempsi-cosi, è anche speran-za di resurrezione.

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L’Homo sapiens in EuropaSecondo quanto affermano gli archeologi, l’uo-

mo di tipo sapiens apparve sulla Terra circa500.000 anni fa. Numerosi tipi di Homo sapienssi succedettero sul nostro pianeta.

L’Europa di 100.000 anni fa era abitata dall’uo-mo chiamato di Neandertal, dal luogo nel quale siritrovarono le sue prime tracce; uomo già appar-tenente forse alla specie sapiens.

Il carattere principale dell’uomo sapiente sem-bra essere la capacità di parlare; la facoltà cioè dielaborare delle idee, relative alla propria esperien-za, alla propria attività, e di comunicarle ai suoisimili.

L’uomo della specie sapiens fu il primo ed il solo,fra gli animali superiori, ad aver inventato tale for-midabile espediente, la lingua, mezzo indispen-sabile per vivere “meglio” degli altri animali, conil quale “meglio” si legge il mondo circostante e“meglio” di conseguenza si agisce sulla natura perdominarla.

L’uomo di Neandertal scomparve in modo im-provviso verso la fine dell’ultima glaciazione,30.000 anni fa, e lasciò il posto ad un nuovo tipodi uomo sapiente: l’uomo di Comba-Capella.

Da questo nuovo tipo pare derivino tutti i tipirazziali che abitano oggi l’Europa. Dal tipo di Com-ba-Capella proviene anche il tipo detto di Cro-Ma-gnon, i cui discendenti più “fedeli” sembrano es-sere gli individui che appartengono all’attuale tiporazziale bianco chiamato “dalico”.

Cacciatori e agricoltoriSi tende oggi ad attribuire ai discendenti del-

l’uomo di Comba-Capella, ed in particolar modoai Cro-Magnon, alle donne Cro-Magnon, la più im-portante rivoluzione economico-culturale di tut-ta la storia: la scoperta o l’adozione dell’agricol-tura, avvenuta nel periodo neolitico (5.000 ÷ 2.000a.C.).

L’invenzione delle tecniche agricole, ancora lemedesime che oggi tutti i contadini praticano, per-mise di sostituire una forma di economia aleato-ria, come era quella basata sulla caccia, con unaforma più solida e “liberante tempo per pensare”,

basata sulla coltivazione, la conservazione e lostoccaggio dei prodotti dell’agricoltura.

La “rivoluzione agricola” è considerata oggicome un momento importantissimo della “uma-nizzazione” dell’uomo. Il bagaglio di conoscenzedella donna e dell’uomo agricoltori dovette au-mentare in modo gigantesco e, fissandosi nel cer-vello, determinò appunto ciò che va sotto il nomedi “umanizzazione”.

La cultura, l’insieme cioè di tutte le conoscen-ze umane, dell’agricoltore dovette fare un immen-so salto in avanti rispetto alla limitata cultura del-l’uomo cacciatore. Parallelamente anche la sua lin-gua dovette conoscere un arricchimento vertigi-noso.

La lingua dei cacciatori era forse composta daalcune centinaia di parole largamente sufficientiper la lettura e la dominazione della loro caccia ...Ma tale numero di parole si verificò largamenteinsufficiente per leggere e dominare la nuova for-ma di vita basata sulla domesticazione e l’alleva-mento degli animali e sulla conoscenza delle pro-prietà dei vegetali, la loro coltivazione e conser-vazione. Fu così che gli agricoltori neolitici si tro-varono “obbligati” ad inventare i 15 ÷ 20.000 ter-mini linguistici legati alla nuova forma di econo-mia. Quasi tutti i termini agricolo-pastorali deineolitici, anche se foneticamente trasformati, sonogli stessi ancora in uso presso i moderni agricol-tori, pastori e contadini.

La lingua dei neolitici rappresentò un gran pas-so in avanti e l’umanità successiva, accorgendosidelle “magiche” prestazioni offerte dal nuovo me-todo di lettura della realtà che la lingua degli agri-coltori rappresentava, l’adottò e la tramandò so-cialmente fino ad oggi. Attraverso la lingua si tra-mandarono anche naturalmente tutte le nuove eimportantissime conoscenze scientifiche prodot-te dalla rivoluzione agricola.

Giustamente M. R. Sauter, professore d’antro-pologia e di paleontologia umana all’Università diGinevra, dice: «Le groupe humain-clan ou tribuqui inventa de semer le grain et d’attendre la ré-colte, de domestiquer l’animal pour en tirer partiquand bon lui semblerait, ne se rendit certaine-

La lingua arpitanadi Joseph Henriet

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ment pas compte qu’il suscitait un jeu de forcesaux conséquences énormes. Un monde nouveaunaissait, dont notre civilisation présente ne dif-fère en somme que par le degré de perfectionne-ment; en effet, on ne pourra retrouver un tour-nant aussi capital de la vie de l’espèce humaineque lorsqu’on arrivera à se passer de l’animal etdu végétal; autant dire que c’est impensable pourl’instant!

Le néolithique. Invention de la sécurité: cetteexpression nous paraît convenable pour rendrecompte de la signification des innovations appor-tées par le neolithique dans la vie de l’homme etdans la conception du monde qui en découle lo-giquement».

La lingua degli agricoltori neoliticiIl formarsi della cultura e della lingua neoliti-

ca, causa ed effetto l’una dell’altra, rappresentòun passo in avanti molto importante nel processodi umanizzazione della specie umana. La rivolu-zione agricola è considerata oggi molto più im-portante di qualunque altra rivoluzione culturaleposteriore, compresa quella industriale, ora incorso.

I recenti scavi archeologici nel paese basco (Al-tuna, Barandiaran) hanno provato che il tipo raz-ziale dalico, molto diffuso nei Pirenei, è il discen-dente più diretto dell’uomo di Cro-Magnon.

Parallelamente lo studio della lingua basca hapermesso d’affermare che essa risale all’epoca ne-olitica: numerosi strumenti, ora unicamente co-struiti in metallo, conservano nella loro denomi-nazione basca il radicale “aitz”/pietra. Coltello inbasco si dice “aitzto”; “aitzkora” si chiama l’asciae “aitzkur” la zappa ... In tutte queste parole siritrova il radicale “aitz” che significa “pietra”.

Ciò prova che la lingua dei baschi è anterioreall’epoca nella quale gli uomini appresero a co-struire gli strumenti agricoli servendosi dei me-talli; la lingua dei baschi è strutturalmente unalingua neolitica. Si può infatti, con una certa si-curezza, affermare che la lingua degli agricoltorineolitici doveva essere una lingua molto vicina aquella che ancora parlano i baschi e certe popola-zioni caucasiche.

“I Cro-Magnon parlavano basco” ... è una affer-mazione che può scioccare, ma che ha un fondodi verità. Sembra anche che la lingua neolitica ba-sca abbia delle affinità con la più vecchia linguascritta d’Europa, il paleo-greco di Creta e Micene,con le lingue libiche dell’Africa del nord, ormaiscomparse, con la lingua pre-indoeuropea (arpe-tara) delle Alpi, pure scomparsa, e anche con la

più vecchia lingua scritta dell’Eurasia occidenta-le, il sumero, secondo quanto affermano eminen-ti studiosi quali Hozrny, Woëlfer, De St. Pierre eKrutwig.

Nulla ci impedisce di pensare che i neolitici eu-ropei conoscessero una forma di scrittura. Per ora,nessuna scoperta è stata fatta in questo senso, sesi eccettuano le incisioni rupestri su dolmen,menhir e altre rocce nelle quali certi ricercatori,quali Letourneau, pretendono di vedere un tipodi alfabeto.

L’ipotesi che i neolitici, quindi anche gli ante-nati degli Arpitani, conoscessero una qualche ma-niera per “disegnare idee”, principio questo dellascrittura, deve essere considerata seriamente, vi-sto quanto è successo in Europa sud orientale.

In Grecia si faceva partire la “storia” dai testiredatti in alfabeto greco di derivazione fenicia, ilmedesimo che fu la base dell’alfabeto latino; e que-sto fino a che le spettacolari scoperte archeologi-che di Creta e Micene non mostrarono l’esistenzadi una forma di scrittura, in alfabeto non semiti-co, più antico dell’alfabeto greco.

Numerosissime tavolette d’argilla, scritte nel-l’alfabeto che fu poi chiamato “lineare”, venneroalla luce in queste località e gli scienziati, primofra i quali il Ventris, riconobbero nella lingua del-le tavolette un tipo di “dialetto greco”... moltoprima che il primo greco indoeuropeo mettessepiede in questa regione!

Le tavolette risalgono infatti al secondo millen-nio a.C.; l’apogeo della civiltà creto-micenea, a cuisi attribuiscono le tavolette, si situa intorno al1.400 a.C. e a quest’epoca gli indoeuropei non era-no ancora giunti in Europa.

Vi arrivarono, pare, qualche secolo più tardi enon dovevano conoscere alcuna forma di scrittu-ra se prestiamo fede alle parole di Omero che cifanno capire che i re greci assedianti Troia, versoil 1.100, fossero degli analfabeti.

Non furono quindi gli indoeuropei invasori afar conoscere in Europa occidentale l’alfabeto e lascrittura: queste conoscenze facevano già partedella cultura garalditana neolitica.

Hozrny vede nel testo delle tavolette creto-mi-cenee una lingua imparentata con lingue asiati-che non indoeuropee: il proto-ittita e il sumero.

Le lingue garalditaneI linguisti sono ormai concordi nel riconoscere

un substrato (o sotto substrato) neolitico comu-ne a tutte le attuali lingue europee; substrato ap-partenente ad una lingua di tipo “bascoide”, comeviene chiamato da Bec; una lingua che si parlava

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prima dell’arrivo degli indoeuropei. Questo fattonon ci appare strano se pensiamo ai collegamentiche abbiamo fatto tra la lingua basca e le linguelibiche nordafricane, la lingua proto-alpina, il pa-leo-greco, il proto-ittita e il sumero.

Nell’Europa neolitica insomma e nel vicinooriente, si parlavano una o più lingue simili tra diloro che, pur morendo, non scomparvero com-pletamente, lasciando nelle lingue che le sostitu-irono impronte della loro personalità in certi ca-ratteri morfologico-sintattici e in parole fossili,quali i toponimi.

F. Krutwig propone di chiamare “garalditane”(1) le lingue pre-indoeuropee, viventi o morte, le-gate alla rivoluzione agricola del periodo neoliti-co. Sono dunque garalditane tutte le lingue chesopra abbiamo numerato. L’accademico Krutwig,in un recente lavoro, ha ricostruito la lingua neo-litica europea, chiamandola appunto “la linguagaralditana”. Per quanto riguarda l’Arpitania, pos-siamo affermare che i nostri antenati neolitici par-lavano una lingua garalditana, quella che confu-samente viene chiamata ora “ligure”, ora “celti-co”, ora “libico”.

La tradizione garalditana in ArpitaniaPer avvalorare l’ipotesi che la lingua primitiva

degli Arpitani fu una lingua di tipo garalditano,chiniamoci sulla tradizione locale.

La tradizione afferma che i primi abitanti dellaVal d’Aosta, come di altre regioni arpitane, furo-no dei “Greci”; secondo la leggenda, i Greci dette-ro il nome ad una vasta parte delle Alpi: le AlpiGraie. L’aggettivo “graio” deriverebbe dalla paro-la “greco”. Perfino il fiume Rodano, secondo quan-to afferma Simlero, dovrebbe la sua denomina-zione ai “Greci alpestri”.

Ginevra si fregia della sua discendenza “greca”e attribuisce loro la propria fondazione.

Secondo la leggenda le popolazioni “greche” sistabilirono in Arpitania intorno al 1.200 a.C.

Un’altra leggenda “contraddice” la prima affer-mando che i Salassi non fossero “greci”, ma origi-nari di un’isola del Mediterraneo, di fronte allaLibia, denominata “Sala”; secondo questa leggen-da i Salassi sarebbero piuttosto dei Libici, comedel resto i loro vicini, i Libui del vercellese ...

I Salassi “introdussero”, secondo la leggenda,

l’agricoltura nel Canavese e le valli alpine che daesso si diramano; il loro capo era Cordelio, fratel-lo di Pico e figlio di Saturno pelasgiano, a cui un’al-tra leggenda attribuisce l’introduzione dell’agri-coltura nella penisola italica.

Sapendo che i Greci indoeuropei non erano an-cora giunti in Europa all’epoca in cui la leggendapretende che occupassero le Alpi, ci pare chiaroche i “Greci” della tradizione nulla avessero a chefare con gli invasori indoeuropei a cui questo nomesi riferisce e che, tra l’altro, distrussero Troia. Sem-bra piuttosto che fossero dei Garalditani fuggitiverso occidente ed il nord, verso le Alpi e le mon-tagne di difficile accesso, con l’intento di sfuggireforse alla dominazione delle prime ondate di in-doeuropei che minacciavano la loro indipenden-za. Non a caso il nome della più importante cittàdel Canavese, la regione occupata dai Salassi, Ivrea,si spiega attraverso il paleo-greco “Yporeya” ter-mine che significa “ai piedi dei monti” (2).

La tradizione, ed anche la storia ufficiale, chia-ma erroneamente “greci” popoli pre-indoeuropeidei Balcani, come abbiamo visto, e tale errore siripete a proposito delle popolazioni garalditanedelle Alpi.

Ciò che di vero nasconde la leggenda delle ori-gini “greche” dei Salassi, e di altri popoli preisto-rici arpitani, è la parentela culturale esistente traGaralditani alpini e Garalditani balcanici e che aquesti popoli si deve la “rivoluzione agricola”.

La leggenda invece che pretende che i Salassi,come altri popoli alpini, fossero dei Libici, sotto-lineando la parentela tra Garalditani alpini e Ga-ralditani nord africani, completa a mio avviso ilquadro, mostrandoci ancora una volta l’esistenzadi “affinità” tra tutte le popolazioni neolitiche me-diterranee europee.

Come se non bastasse, aggiungerò altre consi-derazioni di ordine etimologico.

Il nome della capitale dei Salassi “libici” o “gre-ci”, Cordelia, la seconda dopo che verosimilmen-te essi dovettero abbandonare il Canavese e la loroprima capitale, Yporeya (Ivrea), sembra derivareda due parole garalditane: “korde” e “illi”.

“Korde”, in basco, vuol dire “luogo fortificato”o “fortificazione”, mentre “illia”, composto da “illi”e “a”, significa “la città”. Cordelia è dunque “lacittà fortificata” (3).

(1) “Garalditano”: da gara/montagna, aldi/regione ea/la; Garal-dea, da cui deriva “garalditano”, significa “la valle o le regionimontuose”.(2) “Canavese”, secondo Sarrail, sarebbe omonimo di Ypo-

reya e significherebbe Gana-be/ai piedi dei monti, come d’al-tronde la denominazione attuale del bacino dell’alto Po: ilPiemonte.(3) J. B. De Tillier: Historique de la Vallée d’Aoste.

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Queste considerazioni su Cordelia “capitale deiSalassi”, oltre che a provare che la lingua dei no-stri antenati era una lingua garalditana, ci per-mettono anche di pensare che la città non fossepoi così antica come la leggenda ci lascia inten-dere, facendone risalire la fondazione al periododella traversata delle Alpi effettuata da Ercole.

Cordelia sarebbe dunque, molto più probabil-mente, stata costruita intorno al 100 a.C., dopola prima disfatta bellica che i Romani inflisseroai Salassi, allorché questi, abbandonando le loroterre più fertili, la pianura canavesana, e la loroprima capitale, Ivrea, si ritirarono in zone piùfacilmente difendibili, come lo erano le valli la-terali verso i monti.

Il nome stesso dei Salassi, i costruttori di Cor-delia, è garalditano. La parola “Salasso” si spie-ga attraverso due parole basche: “sal” e “atz”.“Sal” significa “forte”; “atz” significa “casta, tri-bù”. I Salassi sarebbero dunque “la tribù dei for-ti”.

Sia l’etimologia di Salassi che quella di Corde-lia corrispondono a quanto dice la leggenda.

La leggenda infatti vuole che Cordelia fosse sta-ta una città inespugnabile, costruita anche sot-to terra, munita di lunghe gallerie che ne per-mettevano l’uscita incontrollabile, mentre, sem-pre secondo la leggenda, i Salassi erano uominirobusti, alti di statura e combattenti coraggiosi.

La leggenda riposa certamente sul vero se sipensa che questo popolo, più di altri, seppe resi-stere ai Romani, avendo sostenuto una guerrache durò quasi un secolo e mezzo.

L’ipotesi dell’appartenenza delle genti alpine,ed in particolar modo dei Salassi, ai popoli ga-ralditani, non solo viene avvalorata dalla tradi-zione e dalla etimologia linguistica, ma anchedall’archeologia. Sempre con maggior frequen-za vengono alla luce monumenti della civiltàneolitica; citiamo le ultime sensazionali scoper-te di Sion e di Aosta (St. Martin). Queste mo-strano l’esistenza di profondi insediamenti uma-ni in Arpitania molto prima della pretesa “occu-pazione salassa” e sottolineano una indubbiaparentela culturale che già fin d’allora legava gliabitanti arpitani al di qua e al di là delle Alpi.

I monumenti neolitici, oltre che a dimostrareche l’Arpitania neolitica partecipava intensamen-te alla civiltà europea di quell’epoca, ci permet-tono di affermare l’originalità culturale che giàallora caratterizzava la nostra Patria; originalitànon certo straniera all’originalità culturale checaratterizza gli odierni Arpitani; certi studiosiparlano infatti di “civiltà neolitica” propria al-

l’Arpitania, di cui la principale manifestazione èla maniera originale di seppellire gli individuimorti in tombe costruite con lose.

Infine per dare ulteriori prove sulla fondatez-za della tesi garalditana che vede, tra l’altro, neipopoli neolitici delle Alpi e dei Pirenei, di cuiArpitani e Baschi sono discendenti, popoli di stes-sa origine, di stessa lingua e cultura, citiamo unaleggenda tramandata nel Paese Basco e riporta-ta da Arno Mendiguri (4); si dice, in Euskadi, cheuna casta di Baschi, chiamati “agoti” e abitantila regione di Baztan e della Bassa Navarra, nonsia una casta indigena e la si vuol far venire dalVallese; si dice che gli Agoti si siano stabiliti nelPaese Basco dopo essere fuggiti dall’Arpitania,forse a causa di persecuzioni religiose.

Alla luce delle leggende sui primitivi abitantidell’Arpitania, alla luce dei recenti studi lingui-stici e delle ultime scoperte archeologiche, pos-siamo con certa sicurezza affermare che gli abi-tanti neolitici della Grecia e dei Balcani, dell’Afri-ca nord-occidentale, dell’Europa occidentale, fracui gli Alpiani (Salassi, Reponzi, Leponzi, Libui,...) appartenevano a popoli che avevano una co-mune cultura agricolo-pastorale e parlavano lin-gue simili a quelle che ancora certe etnie euro-pee parlano (Baschi, Circassiani, Abkasiani, ...);lingue appartenenti alla famiglia garalditana oproto-europea, secondo la terminologia che pro-poniamo di adottare.

La “celtizzazione” delle AlpiÈ ormai appurato che la parola “Celti”, che

incontriamo nella storiografia greco-latina, si ri-ferisce ai popoli indoeuropei diffusori della cul-tura legata alla scoperta della fusione del ferro:cultura di Halstatt (700 a.C.) e di La Téne (400a.C.).

I Celti occuparono dunque prima la Germaniameridionale (Halstatt) e da questa regione este-sero la loro influenza verso l’occidente europeo(La Tène, in Svizzera).

I Romani chiamavano “Galli” i Celti, come al-tre popolazioni non celtiche. Ciò non meravi-glia in quanto la parola “gallo” o “allo” sono pa-role indoeuropee che significano “straniero”. Laparola “gallo” avrebbe dunque avuto lo stessosignificato che poi ha avuto la parola “barbaro”.

L’equazione Galli = Celti non si può fare.

(4) Arno de Mendiguri: L’etnocrazia in Arpitania, 1974. Studioapparso nella raccolta di studi politici, la Kuestion arpitanha,Aosta, ottobre 975.

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Nel secolo scorso, in Francia, insieme alla na-scita dell’attuale stato borghese, nacque ancheuna scienza curiosa che ora va sotto il nome di“celtomania”. Essa consiste nell’attribuire ai Cel-ti una influenza politica e culturale quasi plane-taria e nell’aggiudicare loro tutto quanto di pre-romano esiste in Europa o quasi. I celtomanicommisero il classico errore di “appiattimentostorico”, per cui si indica con uno stesso nomerealtà sostanzialmente e cronologicamente di-verse. Errore che si è commesso confondendoGreci e pre-Greci, come abbiamo avuto modo diparlarne, Liguri e pre-Liguri, Latini e pre-Lati-ni...

La celtomania fa anche risalire tutte le “virtù”dei moderni Francesi ai Celti.

I celtomani affermano anche che i Celti occu-parono, per primo ed in modo capillare, il terri-torio della Francia attuale e da qui irradiaronola loro influenza civilizzatrice sul resto dell’Eu-ropa. Fu così che secondo loro i Celti arrivaronoin Italia, per la via più breve, attraversando leAlpi nord-occidentali e colonizzandole, natural-mente, in modo profondo.

Ora noi sappiamo che il centro della civiltà deiCelti fu la Germania meridionale e che essi, comedice anche lo storico latino Tito Livio, giunseroin Italia attraverso le Alpi centrali o orientali.

Noi sappiamo ancora che i Celti non occupa-rono mai in modo prolungato il meridione dellaFrancia e neppure il Piemonte (Dauzat, Grenier),come si può dedurre analizzando l’estensione dicerti radicali linguistici celtici.

Se i Celti non riuscirono mai a conquistare “po-liticamente e culturalmente” la Francia meridio-nale e l’Italia nord-occidentale, è escluso che essiabbiano, come i celtomani pretendono, coloniz-zato profondamente l’intero arco alpino occiden-tale.

La celtomania in ArpitaniaIn Arpitania la scuola della celtomania ebbe

un gran successo e ancora oggi molte intelligen-ze da campanile, oggi che in Francia stessa nes-suno più crede in questa pseudo-scienza, la pro-fessano come seconda religione.

La celtomania, in Arpitania, serve la causa deifrancofili di ogni tempo e di ogni colorazionepolitica. Questi, basandosi essenzialmente sui te-sti di storia latini, d’altronde contraddittori, esulle fantasie dei celtomani, affermano in tutti iloro scritti che i primi abitanti dell’Arpitania, dicui si conosce il nome, Salassi, Ceutroni, Graio-celi, Veragri, Viberi, ..., erano popolazioni celti-

che; logicamente poi aggiungono che, visto chedai Celti uscì l’attuale civiltà francofona, è ne-cessario che tutti i paesi che i Celti controllaro-no, debbano essere oggi controllabili dai “mo-derni Celti”, i Francesi.

Secondo i francofili celtomani arpitani la sto-ria arpitana incomincia con i Celti: “I Salassi fu-rono Celti; la storia dei Valdostani inizia con iSalassi; i discendenti dei Salassi, i Valdostani,Canavesani, debbono continuare a fondere la lorostoria con i discendenti dei Celti più dinamici eintraprendenti: i Francesi ...”

Questo è il tipico ragionamento che si sentefare dai celtomani nostrani.

Si capisce subito che dietro a questo ragiona-mento c’è un preciso scopo di imperialismo po-litico alimentato da Parigi.

- Ce fut sans doute un de ces essaims (sciamedi indoeuropei celti, N. SCR.) qui forma la tribudes Salasses ...

E l’autore aggiunge:- L’histoire des valdôtains commençait.(R. Cuaz - L’histoire des valdôtains, 1961)

Oggi la “sicurezza” di Cuaz ci fa solo sorride-re.

Come ci fa sorridere la pontificale sicurezza diun altro francofono celtista, il buon canonico Be-rard, che non esita a decretare “bugiardi” Cato-ne e Plinio e veritiero Strabone.

Berard, per “provare” la celticità dei Salassi ela “francità” dei valdostani che ne deriva, decideche quanto afferma lo storico Strabone è verità,mentre Catone e Plinio sono dei mentitori per-ché ... affermano il contrario!

Catone e Plinio pensano che i Salassi e i Le-ponzi, come i Taurisci, siano popoli di stessa et-nia, dei “Liguri”, secondo la loro definizione.Strabone e Giulio Obsequente invece sostengo-no che siano dei “Galli”. Berard, nella foga anti-ruscalliana, commette l’errore di credere al-l’equazione Salassi = Galli = Celti.

Ciò è sbagliato in quanto la parola “gallo”, che,come abbiamo visto, significa “straniero”, nonsempre indicava dei Celti, ma sovente popola-zioni che nulla avevano a che fare con essi...

Io penso che non ci sia contraddizione traquanto affermano Plinio e Catone e quanto af-ferma invece Strabone; tutte le popolazioni al-pine erano di stessa etnia, chiamata a torto “li-gure” e naturalmente erano “galli”, cioè stranieri,agli occhi dei Romani. In questo caso non è chesbaglino gli storici latini, ma piuttosto gli stori-ci moderni che ignorano il vero significato dellanomenclatura usata dai Romani.

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Toponomia garalditana dell’ArpitaniaLe lingue garalditane subirono un duro attacco

da parte delle lingue indoeuropee e scomparverodall’Europa, eccetto nel Paese Basco, dove una lin-gua di tipo garalditano è ancora parlata oggigior-no: l’euskara.

Sulle Alpi, le cose andarono diversamente; la lin-gua garalditana locale, che chiamiamo l’arpeta-ra, scomparve, ma certamente molto più tardi chenon nella pianura; le montagne infatti hanno sem-pre rappresentato aree di alto grado di conserva-torismo.

L’arpetara scomparve definitivamente forse solointorno all’XI-XII secolo d.C.; non si potrebbe in-fatti spiegare altrimenti la misteriosa vivacità dinumerosissimi toponimi alpini interpretabili at-traverso la lingua basca, una delle lingue garaldi-tane; è importante sottolineare che molti toponi-mi conservano una vera e propria sintassi pre-in-doeuropea.

F. Krutwig, che fece delle ricerche storico-lin-guistiche in Val d’Aosta, dice:

«La population primitive du Val d’Aoste a ap-partenu à la même couche pré-indoeuropéennebasque. L’analyse de une grande quantité de motsfossiles de la toponymie et de mots de la languedialectale en fournit la preuve car ces mots reçoi-vent une signification claire et exacte dès qu’onles interprète par référence au basque».

(F. Krutwig: Les noms pré-indoeuropéens en Vald’Aoste - Le Flambeau n. 4, 1973).

Già lo storico piemontese Jacopo Durandi affer-mava, riferendosi alla Valtornenche, ma la consi-derazione vale per tutte le valli valdostane e arpi-tane: «I nomi delle principali sue terre sono perlo più gli istessi ch’erano in uso appo gli antichiSalassi, latinizzati poi dai Romani e un poco al-terati ne’ tempi di mezzo. A coteste trasforma-zioni altre ne aggiunsero talora i notay in tempipiù bassi». (J. Durandi: Alpi Graie e Pennine, 1800)

I toponimi garalditani, anche se presenti un po'dappertutto in Europa, sono molto più numerosinelle regioni montuose dei Pirenei, del MassiccioCentrale e delle Alpi; questo è certamente dovutoal fatto che qui la lingua garalditana dovette so-pravvivere più a lungo che non altrove.

Pierre Bec, professore all’Università di Poitiers,ha dimostrato che l’originalità delle parlate occi-tane è dovuta ad una forte colorazione di substra-to dovuta ad una lingua pre-indoeuropea di tipobascoide; egli aggiunge che questa lingua primi-tiva parlata in Occitania era parlata anche al di làdel Rodano, in territorio arpitano.

Numerosi altri linguisti affermano che l’origi-

nalità delle parlate arpitane e retiche è dovuta alpersistere dell’influenza di una lingua di substra-to che chiamano variamente “proto-celtico”, “li-gure”, “pre-indoeuropeo”, o addirittura “celtico”.

Abbiamo parlato prima del problema “celtico” edetto che si deve intendere per Celti i popoli indo-europei apportatori della cultura del ferro; non èdunque corretto usare tale termine per designareinfluenze linguistiche pre-celtiche.

Sui Liguri non si sa praticamente nulla. Le teo-rie sull’esistenza d’un vasto impero controllato daiLiguri indoeuropei, prima, e dai Celti poi, teoriecare a Arbois de Jubainville e a Jullian, sono do-vute alla fanta-storia, come ci dicono eminentiscienziati moderni quali Guiter, Lot e altri.

Resta da concludere che anche la lingua arpita-na deve la sua originalità ad un substrato lingui-stico garalditano, alla lingua “arpetara”, la lingua“bascoide” dei contadini e degli agricoltori neoli-tici. L’arpetara fu probabilmente parlato da alcu-ne comunità di Arpitani ancora nell’XI-XII d.C.Non è escluso infatti che i “Saraceni, che la storiaesclude siano degli arabi mussulmani, i temutis-simi “pagani dei monti” siano state bande residuedi Garalditani emarginati e sbandati che tentaro-no fino in fondo di conservarsi fedeli alla loro cul-tura, lingua, religione e organizzazione politica,combattendo aspramente il giovane potere feuda-le, concubino della nuova religione cristiana ...

Già Amato Chenal, direttore della rivista LeFlambeau, in uno studio del 1963, afferma l’im-portanza della lingua garalditana per spiegare latoponimia alpina.

Un altro ricercatore valdostano, N. Gerbore, hamesso in evidenza numerosi toponimi e parolecorrenti dell’arpitano che si spiegano attraversoil “greco”.

Infine il già citato Krutwig, nel 1973, nell’arti-colo di cui prima abbiamo preso un passo, inter-preta numerosi toponimi valdostani alla luce del-la lingua basca.

Tutto questo, insieme alle considerazioni fattea proposito delle tradizioni orali sui primi abitan-ti del nostro paese, ci permette di affermare, confondatezza, che la lingua dei popoli alpini con-quistati dai Romani, Salassi, Graioceli, Ceutroni,Leponzi, Viberi e altri, non era una lingua di tipoindoeuropeo, quale il celtico o altre, ma una lin-gua appartenente al gruppo linguistico che abbia-mo chiamato proto-europeo o garalditano: l’ar-petara.

L’arpetara è alla base, molto probabilmente, dellapersonalità delle attuali lingue altaiche, fra cui na-turalmente dell’arpitano romanico.

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Una corona per il Sole delle Alpidi Aldo Moltifiori

di legittimazione dell’autorità di governo con ilquale, dal Longobardo Agilulfo all’absburgo Fer-dinando I°, 14 Imperatori del Sacro RomanoImpero nel corso di oltre 1200 anni di storia eu-ropea hanno governato in Padania.

La Corona Ferrea, oggi conservata nel duomodi Monza ha testimoniato attraverso Carlo Ma-gno, Carlo V, e Napoleone della grandezza delcontributo Longobardo alla storia dell’Europa,tanto da far dire a Napoleone stesso, di fronte auno sbigottito Papa e a una ancor più sbigottitaRoma “Dio me l’ha data, guai a chi me la toc-ca”.

Non vi poteva essere Imperatore legittimatosenza la Corona Ferrea, non vi poteva essereautorità di governo in Padania, assurta a talegrandezza da essere identificata dagli Europeicon L’Italia, senza che quello stesso Imperatoreavesse pronunciato l’Ordo incoronandi prima dipotersi fregiare del supremo segno di legittima-zione a governare.

La Corona Ferrea nasce dall’amore della Re-gina Teodelinda per la sua nuova Patria Padanacome insegna del Regno Longobardo, per poidiventare simbolo unificante del Regno Italico.

Essa porta con se un dono unico e irripetibile inqualsiasi altro simbolo di autorità: al suo inter-no vi è un frammento di un chiodo di ferro in-fisso nelle carni di Gesù Cristo nel suo suppli-zio sul Golgota a suprema salvezza dell’uomo,quasi a riecheggiare l’aforisma “Non con l’oroma col ferro si difende la vita”.

La Corona Ferrea tanto simboleggia la legitti-mità dell’autorità di governo nella continuitàimperiale ed Europea che gli stessi Savoia, purdiventando Re D’Italia, non hanno mai potutocingersene il capo; la si trova però stuccata so-pra le porte dei palazzi reali di Torino, negli ap-partamenti reali della splendida Villa Imperialedi Monza, ma soprattutto la si trova scolpita so-pra le loro tombe reali nel Pantheon romano.

Nella Corona Ferrea, nel suo pathos rimastounico, sono contenute tre opere incompiute chei nostri Padri Longobardi ci hanno lasciato ineredità e che tocca a noi, a questa generazionedi Padani completare, riesumandole dall’oblionel quale le ideologie imperiali del potere lehanno relegate. Dapprima dobbiamo completa-re la costruzione dello Stato Padano che i no-stri padri Longobardi non poterono terminare

“Ricevi questo segno di glo-ria (...) affinché respinto l’an-tico nemico, e respinto l’anti-co contagio di tutti i vizi, assi-curi equità e giustizia, educhii ricchi, consoli i poveri, ridi-mensioni i superbi, mantengasicurezza e buon governo, siaesempio vivente di virtù di po-polo regga il timone di gover-no con sapienza e sia elemen-to di pacificazione”.

Questa maestosa formula digiuramento del Re è contenu-ta nell’Ordo incoronandi mila-nese (La benedizione del Re)del basso medioevo e venivapronunciata dall’incoronandoRe al momento di ricevere laCorona Ferrea; supremo segno

La Corona Ferrea, custodita nel Duomo di Monza

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per l’interferenza della nascente potenza papa-le, poi dobbiamo riprendere il confronto con ilmondo Franco per la costruzione di un’Europadei popoli e delle Regioni e per impedirne la re-gressione verso un Super-Stato nazionalista einfine dobbiamo ricondurre la Chiesa a quellamissione di evangelizzazione dell’amore per Dioe per l’uomo, da troppo tempo dimenticata, veroe unico antidoto all’espansionismo violento edistruttivo dell’Islam. Come si vede, sono trequestioni cruciali, la cui soluzione oggi diventapossibile poiché la classe dirigente padana hafinalmente avviato il progetto di dotare i popolipadani di quelle istituzioni di governo a basefederativa, che attraverso i secoli abbiamo con-servato nella nostra coscienza.

Dalla Fara nomade, esempio embrionale diistituzione di autogoverno, alla assemblea elet-tiva dei Duchi che precede di ben 700 anni laMagna Charta, dalla trasformazione della Farain libero Comune al codice Liutprando delle leg-gi del Regno Longobardorum, tramandate in-denni fino al loro accorpamento nel più genera-le codice di leggi del Regno Lombardo-Veneto,è tutto un meraviglioso esempio di costruzionestatuale le cui fondamenta erano la libertà del-l’Arimanno e la base federativa dei Duchi. Tuttociò fa apparire miserevole, miserabile, levanti-no, e senza speranza il disperato tentativo diquesto Stato mediterraneo di giustificare la suaesistenza all’ombra di una Città la cui corruzio-ne ha persino cannibalizzato i vermi prodottidalle sue mortali spoglie.

Tutto questo riassume la Corona Ferrea, di più;in essa vi è un altro messaggio unico e insupe-rato scritto insieme dalla Regina Teodelinda edalla lealtà dei Duchi Longobardi verso la loronuova Patria.

Alla morte del Re Autari, già sposato a Teode-linda, si apre la fase di successione alla guidadel giovane regno, nel quale - giova ricordarlo -essa era elettiva e non ereditaria (altra differen-za sostanziale rispetto ai Franchi) che però siprotrarrà per 10 anni senza successo e purtrop-po con molti guasti umani. Su proposta del Ducadi Verona (chiamata allora Bern) si conferisce ilmandato a Teodelinda di scegliere ella stessa aun tempo marito e Re, di modo che riprendessela costruzione dello Stato al quale ormai guar-davano tutti i Padani, tornati a nuove prospetti-ve dopo l’oscurantismo loro imposto dall’Impe-ro romano.

Ebbene Teodelinda, alla quale la Storia dovràridare il giusto posto che merita, nel 590 scelse

il giovane Agilulfo, duca di Torino, al quale con-ferì la prima Corona Ferrea, detta anche la co-rona di Agilulfo. Bisognerà aspettare 1100 anni,con l’arrivo di Maria Teresa d’Austria, prima cheun altro Stato veda ai suoi vertici una donnacon tutti i poteri, incluso quello di sceglieremarito e Re.

L’epopea longobarda in Padania ha infiniti ri-chiami e altrettanti paralleli con quella che laprecedette di ben 1000 anni dei loro cugini cel-ti. Entrambi hanno scelto la Padania come pa-tria definitiva legandovi indissolubilmente i de-stini del loro presente e del loro futuro. Per iRomani, invece, si trattò di terra da colonizzarecosì come similmente fecero più tardi, i Papi,gli Spagnoli, gli Absburgo o i Savoia; i quali eb-bero le loro capitali a Madrid, a Vienna, o aRoma.

I Celti fondarono molte città, tra cui Midland,destinata a riaccendere la fiaccola della libertànei momenti cruciali della storia padana, (303d.C., 1167 d.C., 1848 d.C.) e i Longobardi scel-sero un castro militare - Pavia - come loro capi-tale reticolare stabilmente collegata all’internodel patto federativo che legava tra di loro Civi-dale (Civitas Dahl) del Friuli, Trento, Verona,Midland, Monza, Como, Torino eccetera.

Al cuore e alla generosità celta dei Padani, alloro fato troppo legato al lavoro, alla loro ec-cessiva ingenuità e litigiosità mai sufficiente percomprendere i complessi disegni del potere, iLongobardi portarono in dono il supremo sen-so della sovranità come sintesi della libertà in-dividuale e della autonomia di governo, e soprat-tutto il senso dello Stato.

Da Civi-Dahl a Susa, da Tarvisio alla Moher-Man (Maremma, dove i Longobardi introdusse-ro l’allevamento del cavallo) tutta la grande Pa-dania potè federarsi nell’assemblea elettiva deiDuchi, si diede poi uno Stato, ebbe finalmenteun governo con la testa in Padania (Pavia) e ilsuo cuore pulsava in Padania e alla Padania guar-davano con speranza e fiducia i padani nuova-mente liberi e sovrani. Sono troppi i contributiche i nostri Padri Longobardi ci hanno lasciato;La monarchia elettiva, il potere federato deiDuchi, la Fara come genesi del libero Comune,la Status di Arimanno come simbolo di libertà edi autodifesa, il Diritto germanico codificato a“Lex Longobardorum” come sistema di autore-golazione sociale.

Finalmente i popoli padani diventano Stato,uno Stato che ha permesso di mantenere intat-te le potenzialità di crescita iniettate nel siste-

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ma padano dai padri Longobardi e che oggi siesprime nel più rivoluzionario dei progetti po-litici presenti sulla scena politica europea: co-struire uno Stato e un sistema di governo a par-tire dal popolo, con il popolo e per il popolo,spazzando via per sempre i modelli di Vienna,di Versailles o di Yalta. Noi abbiamo ripreso ilcammino dei nostri antenati Celti (Veneti e Li-guri), e dei nostri padri Longobardi; un cammi-no millenario di libertà e di sovranità, noi vo-gliano sedere liberi nel libero consesso dei po-poli che stanno costruendo la storia del futuro,noi abbiamo definitivamente lasciato alle nostrespalle quei parassiti levantino-mediterranei chela storia la consumano, uccidendola lentamen-te.

Tutto questo è la Corona Ferrea, tutto questoè scritto nei suoi oltre 1400 anni di storia, tuttoquesto è distillato nel rigore delle sue forme, èriflesso nella luce dei suoi colori, è fuso nellaforza del ferro, è reso eterno dalla perfezionedella sua semplicità.

La Padania etnica è legittimata a esistere daisuoi popoli che in essa da sempre hanno vissutoin simbiosi fra di loro, la Padania Stato è legitti-mata dalla rottura Longobarda delle catene ro-mane e sacralizzata dalla Corona Ferrea. A suaMaestà il Po, i nostri padri Longobardi hannoconferito la Corona Ferrea del governo libero, esovrano di tutti i Padani. Col pulsare eterno esereno del sole delle Alpi che riscalda i nostricuori e illumina le nostre menti e con la Coro-na Ferrea, essi hanno aggiunto la forza di go-verno della Storia.

La Corona Ferrea contiene un altro preziosis-simo dono che la rende degna di incoronare,dopo 14 Imperatori, anche il nostro amatissimoSole delle Alpi; la Padania europea e occidenta-le. L’importanza europea dei nostri padri Lon-gobardi assume i propri giusti contorni, ben ol-tre quella dei Franchi loro più fortunati rivali,

quando si consideri quale ruolo essi abbianosvolto rispetto al conflitto di potere che si giocònell’Europa alto-medievale tra l’Oriente impe-rale e bizantino e l’Occidente libero e germani-co. Le ripetute sconfitte inflitte ai Bizantini inPadania e in Italia, arrestarono definitivamentel’espansionismo bizantino in Italia e protesserol’Europa germanica e ancora fragile. Non biso-gna dimenticare che la Padania longobarda diLiutprando giocò un ruolo cruciale nel difende-re la nascente Francia dagli infedeli saracenicombattendo a fianco dei Franchi di Carlo Mar-tello nella decisiva battaglia di Poitiers.

Con il declino del regno visigotico nelle Astu-rie, e tenuto conto della debolezza dei Merovin-gi, si prospettò uno scenario politico nel qualela Padania longobarda avrebbe potuto assume-re un ruolo guida nell’Occidente europeo. Lanascente potenza imperiale dei Papi, proseguen-do la prassi instaurata dal moribondo Impero,chiamando al suo servizio i Franchi, ne impedìil concretizzarsi, ricacciando l’intera Europa nelMedio-Evo istituzionale e politico per altri 1000anni.

Solo con l’avvento di Lutero e di Kopernicoriprende il cammino di progresso e di libertàpolitiche interrotto dalla pugnalata alle spalledi Adelchis perpetrata da un oscuro Abate diNovallesa alle chiuse di Susa nel fatale 774 d.C.

Tuttavia se l’ispirazione longobarda di un Eu-ropa federata delle genti, libera dal dominio bi-zantino non si completò, rimane l’immenso con-tributo di aver dato una statualità indelebile allaPadania, ma soprattutto di averla protetta persempre dalla contaminazione bizantina anco-randola definitivamente all’Europa. Nella con-tinuità della Padania, la statualità italica, sia essamonarchica o repubblicana rappresenta un’ano-malia storica da superare ripristinando la lega-lità statuale padana riassunta dalla Corona Fer-rea che cinge il Sole delle Alpi.

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naca. La bandiera storica conosciuta è quella delGranducato mentre quella legata alla cronaca è ilvessillo della Regione attuale. I colori sono gli stes-si: il bianco e il rosso, che sono anche i colori dimolte tra le città maggiori (Firenze, Pisa, Lucca,Pistoia...). A differenza della Padania, la Toscanaha avuto, in epoca moderna, un proprio Stato na-zionale, munito di tutti i simboli e i crismi previ-sti dalla consuetudine e quindi anche di una ban-diera ufficiale. Questo Stato è il Granducato diToscana (1560 ÷ 1860). È per questo motivo che imovimenti autonomisti toscani, compresa la LegaNord-Lega Toscana, hanno scelto come simbolola sua bandiera.

A nostro avviso si tratta però di una scelta fret-tolosa, criticabile alla luce di una ricerca storicaseria, capace di indagare a fondo la realtà toscanae i caratteri davvero significativi di quella identitàindubitabile che ne è alla base. Prima di affronta-re il problema relativo alla “vera” bandiera dellaToscana, è necessario compiere un excursus, il piùpossibile rapido, sulla storia di questa identità.

È inutile e, al limite, scorretto, rifarsi in propo-sito agli Etruschi. Gli Etruschi, come popolo, nonesistono più da quasi due millenni anche se, se-condo le ricerche recentissime della scuola italia-na dei genetisti, la loro eredità biologica resta benannidata nel DNA di molti Toscani d’oggi. Ma labiologia non può costituire il fondamento, per dipiù esclusivo, dell’identità etnica (“nazionale”) diun popolo. Questi fondamenti sono piuttosto lalingua e, soprattutto, la cultura.

La spietata conquista romana dell’Etruria felixha purtroppo sostituito, sul territorio oggi tosca-no, alla lingua etrusca quella latina. Soltanto lanascita successiva di un volgare neolatino parti-colare (e assai bene identificabile) su quelle terredove si è continuato a parlare più a lungo l’Etru-sco, ha caratterizzato il popolo toscano inteso insenso moderno. Questa identità linguistica puòessere fatta risalire al X secolo e appare ormai con-solidata nel XIII.

È proprio agli albori di questa lingua che nasce,insieme all’etnìa toscana, il primo Stato toscano“nazionale”: non il Granducato, che è assai poste-riore, ma il Marchesato. Nasce in un territorio inqualche modo ritagliato dai conquistatori roma-ni che ne avevano rispettato nel nome la sostanzaetnica, allora etrusca, mentre ne avevano distrut-to ogni forma di autonomia politica (la lega fede-rale di città-stato, delle quali Roma fu, all’inizio,una pallida imitazione) e di autonomia culturalefino a distruggerne la lingua e quasi ogni possibi-lità di testimonianza futura di quella lingua. Sitratta della decima regione italica, l’Etruria ap-punto, istituita da Augusto: che divenne, nel IVsecolo, la Tuscia et Umbria di Diocleziano, aggre-gando terre limitrofe (gli ultimi etruscoparlantisi estinsero proprio in quel momento).

Dopo tre secoli, caduto l’Impero romano di Oc-cidente, la conquista longobarda eresse, su quelterritorio, il Ducato di Tuscia, divenuto, nella se-conda metà del IX secolo, una contea franca. Unsecolo dopo, la Contea si trasformò in marchesa-to. Il Marchesato di Toscana, che aveva Lucca percapitale, fu uno Stato sovrano (nei limiti della so-vranità statuale del tempo) e segnò, al suo inter-no, la fine del latifondo, la crescita della piccolaproprietà fondiaria, la nascita delle autonomiecomunali con la resurrezione delle città, l’iniziodi quelle attività mercantili e industriali che sa-rebbero esplose nei secoli successivi. L’egemoniapassò lentamente da Lucca a Pisa e da Pisa a Fi-renze. Ma fu una egemonia che non negò mai lesingole realtà cittadine e territoriali.

Nel 961, Ugo, nipote di Uberto di Provenza, di-venne, per nomina dell’Imperatore, marchese diToscana. Lo Stato venne potenziato, la sede dellaCorte trasferita a Firenze, la vita economica e cul-turale conobbe un intenso sviluppo. Dal grembodel latino popolare cominciò a prendere forma unvolgare particolare che si pose a fianco degli altrivolgari parlati nella penisola e nell’Italia continen-tale (Padania), senza avere in comune con essi al-tri caratteri se non quelli, certo numerosi, deri-vanti dall’avere origine dal Latino. Il Toscano dif-feriva dal Lombardo così come dal Francese più o

di Sergio Salvi

Una bandiera per la Toscana

Due sono le bandiere più note della Toscanaintesa nel suo complesso. Una di esse appar-tiene alla storia; l’altra, diremo così, alla cro-

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meno nella stessa misura. Le vicende della storialo porteranno a trasformarsi, nel tempo, nella “lin-gua italiana”: a scapito degli altri volgari in usosu quei territori raggruppati in seguito nello Sta-to italiano.

I Toscani intesero proprio ai tempi di Ugo, perla prima volta, di far parte di un territorio e di unacomunità precipui. E cominciarono a definirsi“Toscani” e non più, genericamente “italici” o “ro-mani”. Le armi araldiche di Ugo di Toscana diven-nero il vessillo del loro Stato e il simbolo dellaloro identità: tre pali rossi in campo d’argento (cioèbianco). Questo stemma, citato da Dante, cam-peggia bene in vista sulla facciata della Badia fio-rentina. Ma i fiorentini e i Toscani d’oggi sembra-no non accorgersene. Soltanto il movimento deigiovani esploratori lo ha assunto quale simbolodella propria organizzazione regionale in Tosca-na.

Tutti sanno come la storia documenti il lentodeclino del Marchesato toscano, troppo collegatoall’idea e alla prassi del Sacro Romano Impero. Ilsorgere della civiltà comunale dalle maglie sem-pre più larghe dello Stato marchionale (che purel’aveva suscitata) e la rivalità sempre più accesatra i protagonisti di questa civiltà hanno portatoallo sfaldamento inesorabile di uno Stato che siqualificava per il suo legame non casuale con unterritorio assai ben definito: un legame inesorabi-le che ha portato alla riaggregazione politica eamministrativa di quello stesso territorio ad ope-ra della città più forte, più ricca e più fortunatache agiva al suo interno (Firenze).

Nel 1532, Carlo V, che formalmente era “sacroimperatore romano” e che, come re di Spagna,era presente col proprio esercito in Italia, investì

Alessandro de’ Medici “, “signore” di Firenze (for-malmente ancora un Comune repubblicano), deltitolo di Duca di Firenze. Il papa provvederà poi,nel 1569, a promuovere Granduca di Toscana ilDuca Cosimo I, che stava conquistando anche ilpenultimo Stato toscano rimasto indipendente(Lucca resisterà ancora per tre secoli), quello diSiena.

Nacque così lo Stato toscano moderno e nac-que, per molti aspetti, centralista: ma si trattavadel secondo Stato toscano dotato di sovranità pro-pria e non del primo. È un dato fondamentale chenon va dimenticato. Passato nel 1737 dalla dina-stia medicea a quella lorenese, lo Stato granduca-le si dotò di una bandiera che era soltanto unavariante di quella nazionale austriaca (non di quel-la “imperiale” che gli Austriaci usavano di fronteal mondo). Non era, insomma, una bandiera au-toctona, se non nei colori (il bianco e il rosso del-le maggiori città e dello stemma di Ugo).

Probabilmente, è soltanto per ignoranza stori-ca che gli autonomisti toscani contemporanei (ildiscorso non vale per gli antiunitari, i legittimi-sti, i patrioti granduchisti dell’Ottocento che siopposero invano al Regno sabaudo d’Italia) abbia-no assunto quale simbolo della loro rivendicazio-ne di libertà politica il vessillo granducale. Gliscout si sono dimostrati assai più colti e, in fin deiconti, consapevoli.

Quando, nel 1970, venne istituita la Regionetoscana, si preferì ricorrere, per lo stemma, a unsimbolo nuovo, “inventato” di sana pianta dalComitato Toscano di Liberazione Nazionale du-rante la Resistenza: il Pegaso. Fu rovistando inuna tipografia che alcuni dei suoi esponenti siimbatterono in questo simbolo pubblicitario ab-

La bandiera Toscana

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bandonato e dimenticato (compariva nell’intesta-zione della corrispondenza di una distributrice dibenzina), pronto per l’uso e assai facile da usareper il suo disegno a tratto. Nessuno pensava allapatria toscana e ai suoi simboli storici: la fede “re-gionalista” era soltanto un alibi che mascheravail solito patriottismo “italiano”, anche se travesti-to da “democratico”.

Per quanto riguarda la bandiera della Regione,si adottò invece un compromesso con il vessillodi Ugo. Come si sa, quando uno stemma è privo difigura, viene trasferito sulla bandiera facendo coin-cidere la testa dello scudo con la parte all’asta del-la bandiera : ciò che nello stemma appare vertica-le, nel vessillo diventa orizzontale. La bandiera delmarchese Ugo di Toscana trasformava coerente-mente i tre pali (verticali) in tre fasce (orizzonta-li). La Regione Toscana abolì la fascia rossa cen-trale sostituendola proprio con il Pegaso, mante-nendo soltanto le due fasce estreme: un compro-messo cervellotico, reso ancora più incredibile dalfatto che il Pegaso era d’argento (bianco) così comeil campo della bandiera. Bianco su bianco, dun-que. Si cercò di rimediare a questa sciocchezzacolorando il Pegaso di grigio: un colore che nonesiste né in araldica né in vessillologia.

Ci sono dunque, per un Toscano consapevole,validi motivi per rigettare tanto la bandiera gran-ducale quanto quella regionale. Mi sembra ovvioche un autentico mivimento di liberazione “na-zionale” della Toscana debba abiurare a entrambiquesti simboli estranei, in fondo, in egual misu-ra, alla tradizione e riscoprire il proprio simbolopiù autentico e genuino: sia come stemma siacome bandiera.

A una ragione storica, filologica, si aggiungonoaltre ragioni, tanto di merito quanto di opportu-nità. Proviamo ad enunciarle per ordine.

Il Granducato di Toscana è stato, come si è det-to, l’estensione territoriale del Ducato di Firenze

ed ha segnato la netta egemonia di una città to-scana sulle altre: una egemonia alla quale questecittà e perfino i borghi della Toscana si mostranoancora riluttanti. La bandiera granducale è, in-somma, il simbolo di uno Stato “centralista”, fio-rentinocentrico e per di più austriacante.

Va tenuto comunque presente che, se i lucchesio i pisani o i senesi si mostrano ancora tanto affe-zionati alla loro storia e alle loro tradizioni parti-colari, non hanno mai abiurato alla consapevo-lezza di essere tutti toscani: una consapevolezzaacquisita ai tempi del Marchesato, al cui internosi sono sviluppate quelle diversità che non nega-no una identità comune che rimane intatta sullosfondo. Il Marchesato, che fu un esempio di Statoaperto e mai negò lo sviluppo delle autonomielocali al suo interno, può dunque fornire, ancheda questo punto di vista, il proprio vessillo a unpopolo che crede a un futuro federalista da riser-vare a uno Stato da riconquistare.

La bandiera di Ugo ha, inoltre, una certa somi-glianza con la senyera, che è il simbolo, il con-trassegno stesso dell’identità catalana: quattro palirossi in campo d’oro (giallo) che diventano, sullabandiera, quattro fasce. E la bandiera catalana èanche il simbolo di una nazione invano compres-sa dallo Stato centralista spagnolo nonché di unalotta secolare per la libertà e la riappropriazionedel senso dell’identità culturale e politica, una lottache ha avuto finalmente successo (anche se, perora, parziale). Un esempio e un auspicio, dunque,per il popolo toscano, oltre che un attestato di fra-tellanza.

Le armi di Ugo hanno, oltre tutto, il vantaggiodi essere riproducibili con estrema facilità. Sonoun simbolo di lotta politica che può sbocciare ecoprire, quasi istantaneamente, ogni superficieutile per la propaganda della libertà toscana. Ba-sta un pennello per realizzarlo: senza bisogno disquadre e di compassi.

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lennio a.C. avrebbe occupato la regione delimi-tata ad ovest dalla direttrice che va dalle spondedel lago d’Iseo alle foci dell’Adige, e fino al corsodel Timavo ad est.

Nessuno è riuscito a svelare l’origine di quelpopolo che avrebbe abitato il Veneto in epocapreistorica, così come non si è riusciti a dare con-notazioni certe a Reti e Norici.

Noi ipotizziamo che gli Euganei fossero di stir-pe ligure e che, come erano soliti fare i loro avipreistorici, prediligessero gli insediamenti sullasommità dei colli e dei monti: Catone ponevainfatti gli Euganei nelle Prealpi e sulle monta-gne e i Veneti in pianura. Crediamo altresì chequeste genti abbiano costituito il primo gruppoindoeuropeo che popolò le zone montagnose chevanno dal Lago di Ginevra alla Pannonia Supe-riore, assimilando i primi abitatori della razzaalpina preariana; questi popoli, dagli Apuani eSenguani della Liguria, agli Anauni del Trenti-no, ai Genauni della Rezia, agli Ilauni del Nori-co, avevano delle tradizioni comuni: adoravanodivinità solari i cui santuari erano sulle cime deimonti o presso le sorgenti dei torrenti. Attornoai loro castellieri e villaggi esistevano boschi epascoli comunitari, come lo erano i campi dacoltivare, il cui godimento era regolato da libereassemblee, il che è una prova dell’appartenenzadi questi Liguri preistorici alla stirpe indoeuro-pea. Propendiamo a credere che Raetia e Nori-cum siano denominazioni introdotte dai Roma-ni per definire le due nuove province occupate.

Dal primo millennio a.C. troviamo i Paleove-neti stanziati negli attuali confini regionali, ol-tre che nei territori di Bergamo e Brescia, da unaparte, e dell’Istria dall’altra, mentre epigrafi ereperti archeologici che frequentemente si tro-vano in Carinzia, Stiria e Slovenia, testimonia-no che l’area venetica si estendeva oltre gli at-

Il Veneto preromano.Alla ricerca dell’identità

di Gualtiero Ciola

G li storici romani sono d’accordo sul fattoche i primi abitatori del Veneto fossero gliEuganei, popolazione che nel secondo mil-

tuali confini del Triveneto.Sulla provenienza dei Veneti possiamo conta-

re oggi su acquisizioni scientifiche che spazza-no via le sclerotiche credenze della cultura uffi-ciale italiana: nei testi di scuola si legge ancorala favola di Antenore, principe troiano che (dopoaver combattuto contro i Greci sino alla cadutadi Troia) avrebbe condotto i primi Veneti dallecoste dell’Asia Minore, alle foci dell’Adige e avreb-be fondato non la più antica città di Ateste (Este),come sarebbe logico, ma addirittura Padova chedivenne città molto tempo dopo, soprattutto conl’occupazione romana.

Può darsi che l’adozione della leggenda di An-tenore per svelare le origini del popolo venetorisenta del vezzo rinascimentale di voler nobili-tare la storia con ascendenze greco-romane. Seb-bene le attuali conoscenze abbiano ridimensio-nato questa leggenda, noi che riteniamo i mitispesso legati a fatti realmente accaduti, tentere-mo di darne una interpretazione.

Una presenza venetica accertata è quella in Pa-flagonia, dove, più tardi arriveranno anche i CeltiGalati: nulla vieta di credere che un contingentedi Veneti Paflagoni, caduti in disgrazia, siano ve-nuti a cercare “asilo politico” presso i loro con-nazionali che occupavano i territori bagnati dal-l’Adriatico. Anche il toponimo di Eraclea, cittàdella costa orientale, ci rimanda agli Eraclidi, di-scendenti di Ercole e quindi al mondo cantatoda Omero.

Una tribù venetica venne a stanziarsi certa-mente sulle coste della Bretagna; questi Venetifurono vinti e sottomessi da Cesare che ne parlanel suo De bello gallico, descrivendoli comegrandi esperti nell’arte della navigazione. Anco-ra oggi nella lingua locale la Bretagna viene chia-mata Bro-Gwened e la città di Vannes Gwened;anche nel Galles esisteva una regione denomi-nata Gwenedd, il che può significare uno stan-ziamento proveniente da Oltre-Manica o unacolonia commerciale di Veneti armoricani.

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Gli studi più recenti avvalorano l’ipotesi chele sedi originarie dei Veneti siano state le rivedel Mar Baltico e i territori dell’attuale Polonia.Lo storico veronese Licio Formigaro (1) vedenella cultura di Unetice in Boemia, la culla dellaciviltà e l’origine del nome etnico dei Veneti; daqui sarebbero giunti sulle rive del Baltico.

I ritrovamenti archeologici polacchi e quellidi Este dimostrano, nella loro sorprendente affi-nità, che la patria primordiale (Urheimat) dei Ve-neti sia da ricercare in questa nordica landa. Cisono dei riscontri:

1) La fama di essere degli esperti navigatori. IlMar Baltico ne era la palestra ideale, né può es-sere un caso che la Bretagna, la Paflagonia e lostesso Veneto si affaccino sul mare.

2) Il nome della mitica città di Vineta sulla co-sta baltica che si inabissò nel mare (e che ci fapensare al destino di Venezia); il fiume Venta, inLettonia, con la città di Ventspils, rimandano al-l’etimo Wendi o Wendischen, con cui li chiama-vano i Germani.

3) L’architettura dei “casoni veneti” si ispiraalla tipica abitazione nordica “ad atrio”, dai tettidi paglia molto spioventi.

4) Il commercio dell’ambra, del quale i Paleo-veneti avevano il controllo nei tempi antichi,spiega sia l’ubicazione del loro stanziamentosulle rive del Baltico (zona di reperimento diquesta resina fossile), sia la diffusione delle lorostazioni commerciali in tutta l’Europa Setten-trionale, Centrale e Meridionale, sino a raggiun-gere l’Asia Minore lungo l’asse illirico-balcani-ca.

I Wenedi o Wendi (che in celtico significa“bianchi”, forse dal colore della carnagione) fu-rono costretti dall’invasiva pressione dei popolislavi, alla migrazione in massa, in varie direzio-ni, portando ovunque la propria cultura e lascian-do tracce della loro presenza, ancora oggi rico-noscibili in varie parti d’Europa.

Nella “Mostra degli antichi tesori della Polo-nia”, tenutasi a Padova nel 1985 nel Palazzo del-la Ragione, si è potuto constatare l’identità cul-turale degli oggetti esposti e di quelli visibili alMuseo Nazionale Atestino di Este nella appositasezione dedicata al Veneto preromano; sul cata-logo della mostra lo storico Withold Hensel hascritto: “Nella storia antica delle terre polacchee dell’Italia Settentrionale vi fu un periodo in

cui abitarono i Veneti, popolo di origine indoeu-ropea, che nel lontano passato (dopo l’anno 2000a.C.) si insediò in vasti territori europei che com-prendevano anche zone settentrionali (...)”. Gre-gorio Morelli ha annotato: “Veneti e Polacchi,un legame che dura da tanti secoli. Il popolo checirca 2000 anni prima di Cristo scese nelle no-stre regioni, sarebbe il medesimo che si insediòtra le praterie e i boschi dell’antica Polonia” (2).

Il Lago di Costanza era anticamente denomi-nato Lacus Venetus, a indicare che anche lì do-veva esserci o uno stanziamento o una coloniacommerciale dei Veneti che con i loro traffici,attraverso il corso del Reno, arrivavano fino alMare del Nord, alla cui foce i ritrovamenti di se-polcreti costituiti dai caratteristici “campi d’ur-ne” ci forniscono un’altra testimonianza del loropassaggio.

Della civiltà dei Veneti, al contrario di quelladei Romani, si è parlato pochissimo. Solo dopola campagna di scavi organizzata ad Este dal 1876al 1882 e gli studi di Alessandro Prosdocimi e diGherardo Ghirardini (ambedue boicottati o igno-rati dalla cultura ufficiale italiana), si può oggiriconoscere la realtà di una fiorente civiltà ve-neta preromana.

Secondo il parere dei glottologi, la lingua ve-netica mostra diversi punti di contatto con quellaceltica, germanica e latina. Le numerose iscri-zioni e le tavole bronzee, nonché i “chiodi scrit-torii” ritrovati, attestano che gli antichi Venetiusavano una loro scrittura, con un alfabeto as-sai simile a quello runico. I maestri che inse-gnavano a leggere e a scrivere sulle apposite ta-volette di bronzo, erano i sacerdoti; molto istrut-tivo era il modo col quale scrivevano: da destra asinistra, ma, alla fine della riga, andavano a capo,ricominciando da sinistra e così di seguito conun movimento alternato: una riga da destra asinistra e la riga successiva da sinistra a destra;così potevano scrivere più speditamente di quan-to facciamo noi oggi.

Dopo la romanizzazione, la lingua veneticascompare, venendo inglobata dal latino: scom-paiono quindi quasi tutte le denominazioni ori-ginali di città e villaggi. A mo’ d’esempio, ripor-tiamo il testo di alcune iscrizioni venetiche percapire la differenza con l’italiano e il latino:

Fougontai Fougontua donasto ReitiaiMego doto Fugsia Votna Sainatei Reitiai op vol-

tio lenoKellos Pitammnikos toler Trumusijatei dona-

stoaisumLessa toler donom Sainatei

(1) I Veneti nell’antichità-Ed. Scaligere(2) Il Popolo del 7.7.1985

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Mego donasto voltiomnos Invants Ariuns Sa-inatei Reitiai.

I toponimi più antichi che ancora esistono, sa-rebbero quelli con la finale in “on”-”one” che do-vevano corrispondere a quelli celtici in “un”-”uno”, come Cendon, Cismon, Gron, Lison, Lon-con, Losson, Marcon, Maron, Peron, Zenson,Pordenon(e), Annon(e) eccetera.

In Carinzia, antica area venetica, sopravvivo-no un paio di toponimi paleoveneti: la cittadinadi Paternion ed una valle Stubai; c’è anche unaMalta-Thal, di non facile interpretazione: vieneforse dal latino “Maltha” e dalla radice indoeu-ropea “mal”-”mar” che significa bitume o unasostanza molle composta da cera e pece che sidistendeva sulle tavolette scrittorie per uso di-dattico.

Antiche denominazioni (soprattutto microto-ponimi) sopravvivono nelle Prealpi e sulle mon-tagne Feltrine e Bellunesi: Cergnai, Lentiai, Mar-siai, Pellegai, Tamai, Vellai, Carfagnoi, Cirvoi; Al-leghe, Andrich, Aunede, Bardies, Bes, Carmegn,Cart, Cet, Chies, Fiammoi, Foen, Funes, Gioz,Lamen, Landris, Larzonei, Lasen, Mas, Mel, Mis,Morgan, Norcen, Orzes, Roncan, Sacchet, Sois,Seren, Pianaz, Pren, Tassei, Tisoi, Toschian, Tri-ches, Umin, Valt, Zermen, Zold(o) eccetera.

È anche importante riconoscere l’apporto cul-turale celtico nella toponomastica veneta prero-mana . I Celti non occuparono solo la parte set-tentrionale del Veneto: i Cenomani da Bergamo,Brescia, Verona, fino a Ceneda (ora Vittorio Ve-neto); i Cadubrini e i Carni quella orientale, madilagarono anche nella pianura; oggi si ricono-sce che Monselice era sede di un insediamentogallico; Abano, secondo Francesca Diano, pren-derebbe il nome da Apanus, dio delle acque gua-ritrici.

Fu proprio in seguito alla calata dei Galli nellapianura veneta che Ateste (Este) incominciò adecadere, spopolandosi progressivamente e cheinizio l’ascesa di Padova che, prima, era un in-sieme di piccoli villaggi. Sull’origine preroma-na del nome di Padova (prima della Pataviumlatina) non c’è niente di certo: il radicale “pod”,celtico “pad”, aveva il significato di fossato, dialveo di fiume profondo e dallo stesso etimo de-riva anche il nome del fiume Po e della Padania.Prima di Padova, il centro più importante deiPaleoveneti era Ateste (da Athesis=Adige), ovesorgeva un grande santuario della dea Reitia,venerata sia dagli Euganei che dai Veneti.

L’anno 226 a.C. è una data molto importanteper il Veneto e soprattutto per Padova: essa, come

città-stato, si allea con Roma, assieme alle tribùdei Cenomani di Bergamo, Brescia e Verona. IRomani sono minacciati da una forte coalizionedella Gallia Cisalpina, formata dagli Insubri, daiBoi, dai Lingoni e dai Taurisci che stanno met-tendo insieme un imponente esercito: i soli Boischierano ben 70.000 guerrieri. La scelta dei pa-tavini fu decisiva per l’esito della guerra; è quasicerto che l’apporto dei Veneti e dei Cenomani afianco dei popoli del Nord avrebbe significato ladistruzione della potenza romana e un muta-menti radicale della storia, non solo italiana, maeuropea. Il tradimento della causa dei popoli pa-dani non può essere giustificato dal fatto che sirisparmiò al Veneto una occupazione militarecon eccidi e deportazioni che avrebbero messoin pericolo l’identità etnica e culturale venetache poté trasmettersi fino a noi.

Per ironia della sorte fu proprio Padova a su-bire (già dalla fase pregallica del VI-V sec. a.C.,sino a quella precedente la romanizzazione) l’im-patto della celtizzazione che si estese, almenoculturalmente a quasi tutto il Veneto. Polibio(200-120 a.C.) annotava che solo la parte rivie-rasca adriatica era abitata dall’antico popolo deiVeneti che “erano, per costumi e abitudini, pocodiversi dai Celti, ma con un’altra lingua” (3). Dopodi lui il patavino Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) as-seriva che la sua città era obbligata a vivere inuno stato di guerra permanente con i vicini Gal-li (che erano gli alleati Cenomani a Nord, e i Boie Lingoni a Sud), omettendo però di spiegare cheil dissidio esisteva solo sul piano politico, men-tre mancò del tutto un conflitto etnico che nonpoteva esserci per il fatto che l’integrazione delmondo veneto con quello celtico era indolore perla mancanza di sostanziali differenze tra i duepopoli.

Diremo a questo punto che, se Livio ammet-teva essere stata Patavium l’ultimo avampostodella veneticità, ciò voleva dire che non solo Ve-rona (Verna), ma anche i territori vicentini e tre-vigiani erano celtizzati, come confermano i nu-merosi toponimi: quelli con la finale in “ago”,Borbiago, Chirignago, Giussago, Martellago,Moriago, Oriago, Orsago, Rossignago, Terlago,Volpago, Umago, eccetera; o altri tipicamenteceltici: Bevasio, Biverone, Ceneda, Giai, Gruaro,Mareno, Marocco, Meduna, Motta, Segusino,Susegana, la stessa Treviso (Tarvisium), il M.Venda, il M. Vendevolo, eccetera: un panorama

(3) II-17, 5

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toponomastico che poco si discosta da quello delPiemonte e della Lombardia.

Per Padova ci sono poi dei dati archeologici edepigrafici: la necropoli gallica di Arquà Petrarcaè stata studiata da Mariolina Gamba e corredatada un saggio di Loredana Calzavara Capuis: “Pro-blematica del Celtismo nel Veneto”. Sulla nasci-ta di una koinè celto-veneta ci sorreggono purei dati epigrafici visibili al Museo nazionale Ate-stino: ad esempio il matrimonio di una ragazzaveneta di nome Frema con un boialos (uomoboico); o la genealogia di una famiglia gentiliziapatavina originata da un Cenomane il cui nomeera Tival Bellen, venetizzato in Tivalei Bellenei;il figlio di costui Fugio Tivalio (patronimico) An-detio (che viene dal di fuori, da Andes, patria diVirgilio?) ha a sua volta un erede che chiama colnome aristocratico di Voltigenes Andetiaio; poiFremaisto Voltigeneio che sposerà una FugiaAndetina Fuginia.

La religione dei Veneti era rivolta soprattuttoalla dea Reitia, il cui nome deriva del verbo “reo”:correre, scorrere (come il tedesco rennen, conlo stesso significato, o l’inglese rain=pioggia; lostesso etimo del nostro fiume Reno, il Rhein ingermanico e il Rhin francese). Reitia era anchee soprattutto una dea sanante, come attesta laparole Sainatei nelle iscrizioni sugli oggetti alei dedicati, e, come era tradizione di tutte legenti galliche, era deputata a prevenire e curarela sterilità: dea della fertilità dunque, come il suostesso nome, evocante il ciclo fecondo della don-na. Ancora oggi una chiesa costruita alle sorgentidel Livenza, a Polcenigo, sul luogo ove antica-mente c’era un sacello dedicato alla dea, vedequi convenire molte coppie di giovani sposi, perun ancestrale legame con l’antica dea protettri-ce della famiglia.

Nel Veneto antico non esistevano templi o san-tuari veri e propri, simili a quelli edificati in pie-tra da Greci e Romani, ma i luoghi di culto era-no all’aperto, tra gli alberi, lungo i corsi d’ac-qua, soprattutto alle sorgenti, o sulle cime dellecolline e dei monti; la natura incontaminata dallemani dell’uomo faceva da sfondo alle cerimoniereligiose.

Esisteva una casta sacerdotale che sarebbe piùappropriato chiamare “sapienziale”, giacché adessa, oltre alle pratiche del culto, era riservato ilcompito di istruire i giovani, dopo avere inse-gnato loro la lettura e la scrittura; ma non soloquesto: come i Druidi, essi tramandavano oral-mente la tradizione, la storia e la religione na-zionale del popolo veneto.

Presso questi luoghi sacri si è ritrovato e sicontinua a ritrovare copioso materiale attestan-te l’alto grado di civiltà dei Paleoveneti: ex voto,bronzetti, ciotole e cinturoni maschili e femmi-nili; nel museo di Este giacciono migliaia di re-perti in attesa dell’inventario: esso dovrebbe rap-presentare il moderno tempio delle genti vene-te, nel quale ritrovare la perduta identità.

Una pagina oscura è quella dell’evangelizza-zione: una leggenda vuole che S. Marco, il futu-ro patrono della Serenissima, approdasse adAquileia, fondandovi una comunità cristiana; sto-ricamente acquisito è il fatto che i primi missio-nari in terra veneta provenissero dalla Chiesa diAlessandria d’Egitto, fondata da S. Marco Evan-gelista. Quindi il primo Cristianesimo, prove-niente dal Levante, aveva quelle caratteristicheafro-mediterranee che non potevano non scon-trarsi con l’antica fede e con i suoi sacerdoti.

Conoscendo l’intolleranza verso il paganesimoche caratterizzava i neofiti della nuova religioneorientale, non si può escludere un periodo di per-secuzioni contro gli officianti gli antichi riti. Unaprova indiretta della lotta religiosa che si è svol-ta tra i Cristiani e i “pagani”, è il martirio di tremissionari, provenienti della Cappadocia: Sisin-nio, Martirio e Alessandro, i quali, arrivati nellaValle di Non, mentre ricorrevano gli “Ambarva-li” (riti agrari con processione nei campi di ani-mali inghirlandati, per propiziare la pioggia, pri-ma della calura estiva), non si trattennero dalloscherno che provocò la reazione dei contadini efurono lapidati.

Uguale sorte fu riservata al Vescovo Virgilio,inviato da Roma con l’ingrato compito di diffon-dere il Cristianesimo nelle vallate tridentine, maanche di imporre l’osservanza delle leggi roma-ne e di riscuoterne le esazioni. Nel maggio del397 Virgilio si recò nella valle del Sarca, ove sifesteggiava la festa di primavera e, alla vista diun simulacro pagano, con un bastone, lo abbat-té dal suo piedestallo, salendovi per arringare lafolla che, indignata per il sacrilegio, gli riservòla stessa sorte dei tre citati missionari. La leg-genda vuole che la lapidazione avvenisse non conpietre, ma con pani durissimi, a significare lamiseria causata dall’imposizione delle gabelleromane.

Questi fatti sono conosciuti e sono giunti sinoa noi perché i martiri furono cristiani; quali equante furono le vittime tra i sacerdoti veneti e iDruidi celtici della Padania è invece avvolto dalbuio più assoluto: la verità è sempre, solo e do-vunque quella dei vincitori.

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lelli, era di Parma; i comandanti delle sue trup-pe, Longino e Valderico, erano rispettivamentedi Bergamo e di Brescia; la sua donna, la bellaMargherita, era di Trento; i suoi discepoli pro-venivano da ogni angolo della Padania. Il dolci-nismo prese le mosse dall’Emilia, si diffuse inRomagna, in Veneto, in Trentino e in Lombar-dia per poi concludersi tragicamente in Piemon-te. Storia padana, dunque, che si può però com-prendere appieno solo se la si congiunge ad al-tre che, nel medesimo periodo, interessarono laPadania e gran parte dell’Europa (ma non il re-sto della penisola italica), il che ci permette difar luce su di una importante verità storica: iPadani guardavano all’Europa e non già a Roma,

Padania, terra di eresiedi Nando Branca

I n una recente escursione sul monte Mazza-ro (un tempo si chiamava Ribello), nei pres-si del paese di Trivero (Biella) ho rivisto i luo-

ghi in cui si concluse tragicamente, nel 1307,l’epopea del ribelle Dolcino, che a capo di nu-merosi seguaci osò sfidare, invitando a non pa-gare le decime, l’oppressiva e sanguinaria tiran-nide esercitata da Santa Romana Chiesa (cheanche allora era poco santa e molto romana). Sitratta, al di là dei risvolti tragici, di un pezzo distoria padana istruttivo e affascinante, in quan-to ci permette di comprendere i legami che, giàin passato, unirono i popoli padani in una co-mune esperienza storica: Dolcino era piemon-tese; il suo maestro spirituale, Gherardo Sega-

La morte sul rogo di Fra Dolcino

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la qual ultima era anzi sentita come un pesooppressivo dal quale liberarsi. Dalla penisolabalcanica penetrava in territorio padano il bo-gomilismo, probabilmente erede del pauliciane-simo d’origine caucasica; dal Delfinato si diffon-deva in Piemonte e in Lombardia il valdismo,nel quale sono rintracciabili sopravvivenze del-la religiosità celtica, come ad esempio l’usanzadi radunarsi in preghiera sotto le sacre querce el’istituto dei “barbi”, i maestri spirituali che ciricordano molto gli antichi druidi; a Milano,probabilmente per via delle relazioni di lavorointrattenute con altri popoli europei dai mer-canti e dagli artigiani lombardi, operavano lapatarìa ed il guglielminismo, due movimenti neiquali sono riscontrabili forti analogie con altrifenomeni che in quel tempo erano presenti inSvizzera, in Olanda ed in Germania; nè va di-menticato che nel 1279 fu arsa sul rogo, in Pa-dania, una maestra spirituale che le fonti citanocome “La Tedesca”, e importanza riveste il fat-to, a testimonianza degli scambi culturali e del-la comune storia tra Padani e popoli europeicontinentali, che Guglielmina, la fondatrice delguglielminismo, poi trucidata in Milano, eradetta “La Boema”, ed in Boemia agivano movi-menti che qualche secolo più tardi sarebberosfociati nell’hussitismo e nel taborismo. Alcunistudiosi valdesi ci danno inoltre testimonianzadocumentata di un valdismo primitivo, ben an-teriore all’opera di Valdo da Lione (il che ci fapensare che non sia stato il movimento ad averpreso il nome da lui, bensì che sia egli ad averlopreso da quello, anche in considerazione del fattoche in territorio francese quello di “Valdo” eranome abbastanza comune). Valdismo primitivoche era diffuso lungo tutto l’arco alpino, dallaProvenza (in cui va ricordata l’esistenza del ca-tarismo) sino ai monti slovacchi e boemi, e nelquale, dietro la maschera “cristianizzata”, ondeevitare persecuzioni, non si può vedere altro cheuna sopravvivenza della religione celtica: Wald,in tedesco, significa “bosco”, “selva”, “foresta”,

e nelle foreste, che erano luoghi sacri, si cele-bravano i riti celtici, sicché “valdesi” significhe-rebbe “coloro che si radunano nelle foreste”. Nonè un caso che nell’elvetica “Repubblica delle TreLeghe” (gli odierni Grigioni), dove il valdismofu ben diffuso, il simbolo della Lega delle DieciGiurisdizioni raffigurava un uomo santo, unasceta, recante in mano un alberello sacro. Tor-nando in Padania, c’è da considerare il fatto chenumerosi nomi di “eretici” medioevali non sonoaltro che le forme latinizzate (quasi inesistentinel resto della penisola) dei corrispettivi in gotoe in longobardo, il che ci fa credere che la partedi Padani discendente dai Goti e dai Longobar-di, grazie al dialetto germanico, intrattenesserapporti con le terre tedesche tramite diversevie di comunicazione, tra cui quella che dallaLombardia, attraverso appunto i Grigioni e ilcantone di Appenzell (dove ancora oggi, a gen-naio, si celebra la festa pagana degli “uomini-albero”) raggiungeva la Baviera (ancora nel se-colo scorso esisteva una “diligenza del Gottar-do”, che collegava settimanalmente Milano aLindau e che è stata immortalata dal pittore el-vetico Rudolf Koller in un’opera che si trova alMuseo Nazionale di Basilea). Per tornare a Dol-cino, c’è da considerare che tra i suoi milizianimilitarono diversi “gazzeri”, gente d’armi pro-veniente dalla Svizzera, terra di valdismo pri-mitivo, dove proprio in quegli anni era in corsola lotta per l’indipendenza dal dominio asburgi-co, sicché è da supporre che le loro idee, anchepolitiche, abbiano in qualche modo influenzatoi dolciniani.

Ai giorni nostri, sulla cima del monte Mazza-ro, è posto un cippo commemorativo a forma dicroce solare catara (e ritorniamo ancora ai Cel-ti) ai piedi del quale è scolpita, in piemontese,una frase che ci appare di grande attualità:“Adess chi ch’a l’ha nen la spa, c’ha venda sòmantel e ch’a na cata una” (Adesso, chi non hauna spada, venda il suo mantello e se ne compriuna).

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“Bulgarovercelli”).Le origini dei “Bulgari di Padania” affondano

nella leggenda, che interseca la storia di questopopolo con quella dei più noti Longobardi. Pri-ma del passaggio delle Alpi, che li avrebbe por-tati a stanziarsi nell’attuale Padania e, successi-vamente, a stabilire ducati anche in Italia, i Win-nili (questo era il nome originario dei Longo-bardi) avevano lasciato la Scandinavia per sta-bilirsi in Germania. Di qui, gli irrequieti nordi-

ci proseguirono in massa il loro viaggio, basan-do il proprio stile di vita collettiva sul nomadi-smo e sui continui spostamenti. Durante il loroplurisecolare cammino, i Winnili si incontraro-no (e spesso si scontrarono) con molte altrepopolazioni, tra cui i romani di stanza in Ger-mania e in Pannonia. Secondo la narrazione diPaolo Diacono, storico longobardo, i Winnilierano venuti a battaglia anche con i Bulgari e,dopo un breve ma violento scontro, li avevano

nia, si possono annoverare an-che i Bulgari. Questa popola-zione, che approdò nelle nostreterre in un periodo precedentealla slavizzazione della Bulga-ria, ha lasciato una traccia nel-la storia lombarda. Nel Medio-evo, sorse un’importante unitàamministrativa, denominata“Contado di Bulgaria” (o “Bur-garia”), il cui territorio era po-sto a cavallo del Ticino. Oggi,si può arrivare soltanto ad “ab-bozzare” i confini di questa an-tica regione, che avrebbe com-preso territori appartenenti alleattuali province di Milano, Pa-via e Novara. Nel “Contado diBulgaria” furono inclusi capo-luoghi di pieve come Corbetta,Dairago, Trecate e Casorate,insieme a molti territori che di-pendevano dalla loro giurisdi-zione. Secondo alcuni studio-si, anche luoghi non apparte-nenti al “Contado” sarebberostati abitati da genti di originebulgara. Tra questi, Bulgaro-grasso, Bolgarello e Borgo Ver-celli (che, secondo un’interpre-tazione forse un po’ forzata, sisarebbe anticamente chiamata

La calata dei Bulgaridi Ambrogio Meini

La Pieve di Dairago, anno 1753

T ra i tanti popoli che, nelcorso della storia, si stan-ziarono nell’attuale Pada-

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sconfitti. Come altre popolazioni precedente-mente battute dai Winnili, i Bulgari si riappaci-ficarono con i guerrieri scandinavi e si unironoa loro, ingrossando le fila della grande comuni-tà in continuo viaggio. Così, quando i Longo-bardi travolsero l’esercito bizantino e conqui-starono gran parte dell’attuale Padania, potero-no usufruire del contributo di altri popoli, comegli Svevi, i Sarmati, i Gepidi e, appunto, i Bul-gari. Nel 663, in seguito a una sventata incur-sione di un esercito franco-bizantino in territo-rio longobardo, re Grimoaldo decise di poten-ziare la protezione alla capitale Pavia e di mili-tarizzare gran parte del corso del fiume Ticino.Per svolgere questo importante e delicato com-pito, il sovrano inviò proprio guerrieri bulgariche, in tutta probabilità, riteneva validi, affida-bili e adatti a svolgere un simile compito. Inquesto modo, i Bulgari presero in consegna unaregione che partiva dalle rive del Ticino e siestendeva, tra brughiere e piccoli agglomerati,nelle zone circostanti al corso del fiume. Da que-sto stanziamento di origine militare sarebbe de-rivata la denominazione di “Bulgaria” o “Bur-garia”.

Dopo la conquista franca, Carlo Magno ripar-tì il territorio conquistato ai Longobardi in “Con-tadi”. Il “Contado di Bulgaria” iniziò, in questomodo, la sua storia “istituzionale”. La vita dellaBulgaria “nostrana” proseguì per secoli senzaparticolari contraccolpi, fino a quando, nel 1185,il Contado fu nominato in un documento uffi-ciale dell’Imperatore Federico di Hohenstaufen(altrimenti conosciuto con l’appellativo di “Bar-barossa”). Dopo questo importante riconosci-mento, il Contado di Bulgaria iniziò il suo lento

Rilievo simboleggiante la Dea Madre sul murodel campanile di Dairago

declino. Quando, nel 1355, Galeazzo Viscontiereditò il contado dall’arcivescovo Giovanni,l’antico territorio bulgariense subiva già l’influs-so crescente dei territori vicini, ma conservavaancora un’identità distinta. Questa particolari-tà andò definitivamente a scemare con la fusio-ne della Bulgaria con il glorioso Contado delSeprio.

Solo nel nostro secolo, la storia del “Contadodi Bulgaria” ha iniziato a suscitare rinnovato in-teresse e forti passioni. Il comune di Dairago,che secondo alcuni studiosi avrebbe ricoperto ilruolo di capitale del Contado, ha voluto nomi-nare “Piazza Burgaria” la piazza più importantedel paese. Rendendo giustizia a un passato mi-sterioso che fluttua tra storia e leggenda.

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na”, è senza dubbio uno dei personaggi più co-nosciuti ed amati nella bergamasca.

Così veniva descritto nel 1806, in un avvisodella polizia locale dove veniva promessa unataglia a chi l’avesse consegnato, vivo o morto,alla giustizia: “Nativo di Poscante vicino a Zo-gno, statura piuttosto alta, età d’anni trentacirca, corporatura ordinaria, capelli neri conricci intrecciati alla fronte ed alle orecchie concoda legata alla francese lunga tre pollici cir-ca, scintillioni neri larghi sino al confine delleorecchie, barba nera ordinariamente rasa, oc-chi brillanti, mento pieno, color del volto oli-vastro per aver contraffatto il suo naturale, gi-rovago e bandito. Suole travestirsi in mille guiseed anco di donna, parla il dialetto Bergamascomisto col rozzo Veneto, e va munito di due col-telli, pistole e schioppo a due canne”.

Sulla vita di Pacì Paciana la storiografia uffi-ciale da un lato e la tradizione orale dall’altrorendono versioni piuttosto contrastanti: la pri-ma descrivendolo come nulla più che un sem-plice bandito violento e disonesto, la secondafacendolo invece apparire come il Robin Hoodlocale, un bandito gentiluomo che ruba ai ric-chi per dare ai poveri, pur trattenendo una “con-grua” parte per sé.

E se, come sempre avviene, la leggenda haarricchito il personaggio di tratti e peculiaritàtali da farne quasi un eroe, è pur vero che laversione storica si basa su documenti che nondanno garanzia di attendibilità assoluta, primofra i quali l’arringa pronunciata davanti al tri-bunale di Bergamo nel 1806 (quando Pacì Pa-ciana era già morto) a difesa di un certo PietroZambelli accusato di favoreggiamento del ban-dito.

Ma cerchiamo di ricostruire la vita e la figuradel nostro personaggio intrecciando la storiacon l’ “altra verità”, quella che narrano i vecchimontanari della Val Brembana dove Pacì Pacia-na era di casa e compiva le sue imprese duecen-

to anni fa.Come in tutte le storie di banditi che si ri-

spettino (dal Passator Cortese a Fra Diavolo, allostesso Robin Hood) anche Pacì Paciana fu co-stretto sulla via del crimine per vendicarsi diun’ingiustizia subìta. Una sera, si racconta, Vin-cenzo Pacchiana solo e chiuso nella sua casu-pola sentì bussare alla porta, aprì e vide due vian-danti che chiedevano alloggio per la notte; die-de loro ospitalità, ma al mattino seguente i duescomparvero portandosi via un orologio a luiparticolarmente caro. Subito Pacchiana si misesulle tracce dei ladri e li scovò in un’osteria, maper riavere il maltolto dovette usare le maniereforti e distribuire un buon numero di cazzotti.Alcuni giorni dopo il recupero dell’orologio glivenne recapitato dalla Pretura di S. GiovanniBianco un ordine di comparizione, avendolo idue ladri denunciato per furto e lesioni, cosìPacì Paciana dovette darsi alla macchia e viveredi espedienti per fuggire all’accusa ingiusta chegravava su di lui.

Pacì PacianaLaura Scotti

incenzo Pacchiana, detto Pacì e meglio co-nosciuto come “padrù de la Val Bremba-V

Ritratto del Pacì Paciana

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Il suo primo delitto fu l’aggressione e conse-guente estorsione compiuta in casa del parrocodi Grumello dè Zanchi, per il quale finì in gale-ra quando ancora dominava la Repubblica Ve-neta. Il 13 marzo 1797 veniva rovesciato il go-verno veneto e proclamata la repubblica Berga-masca con il determinante aiuto delle truppefrancesi, ed in questa occasione vennero apertele galere e anche Pacì Paciana tornò in libertà.

Da allora il bandito, con la polizia alle calca-gna, riuscì sempre a farsi beffa dei gendarmi eprobabilmente, proprio per il fatto di essersi ri-bellato ad un’autorità odiata quale era all’epocaquella francese, venne poi esaltato dalla tradi-zione orale della valle che arrivò a descriverlocome un patriota.

A favorire questa visione è venuto il fatto chela sua azione si è confusa con quella degli in-sorgenti che nello stesso periodo combatteva-no contro l'occupazione francese.

La lotta contro il centralismo giacobino a fa-vore delle autonomie locali e la difesa della tra-dizione religiosa e degli antichi diritti comuni-tari hanno finito per sovrapporsi ad un ribelli-smo generico contro autorità mal sopportate ead azioni di meno nobile banditismo al puntoche i confini fra le varie motivazioni erano spes-so piuttosto labili.

Pacì Paciana si è inserito in questo comples-so clima storico assumendo di volta in volta laveste di brigante o di partigiano delle libertà pa-dane, di fuorilegge spinto da interessi persona-li o di un Robin Hood difensore del popolo op-presso.

L’impresa sicuramente più famosa (e, pare,solo leggendaria) di Pacì Paciana fu il salto dalponte di Sedrina. Si racconta che i gendarmivennero a sapere da qualche delatore che il ban-dito sarebbe dovuto transitare sul ponte che aSedrina si leva alto sul fiume Brembo, e il gior-no prestabilito si appostarono nascosti alleestremità del ponte. Gli sbirri lasciarono chePacì Paciana arrivasse a metà del sospeso, dopodi che vennero allo scoperto bloccandogli ognipossibile via di fuga. Si narra che il capitanodelle guardie, tronfio di soddisfazione e di sar-casmo, disse al brigante “Si prendono anche levolpi vecchie”; ma il bandito rispose “non diquesto pelo” e si buttò dal ponte scomparendodalla vista e beffando per l’ennesima volta leguardie.

Pacì Paciana alternò nel corso della sua vitaperiodi di relativa tranquillità ad altri di inten-sa attività brigantesca, dove compì numerose

Turna, Pacì Paciana!

Turna, Pacì Paciana!La zét l’è semper chèla

e’l pùt l’è semper lé,i càmbia ’po’ i divìse

ma ’l Brèmp no ’l tùrna ’nreé!I vésse è sèmper chèie i lader i comàndama chi legalizàcco mèi de professiù

che i spara de gran balede stüpecc e spacù!

Intat i fà cariéraa spése de chi pagai tasse per i dèbecce per finì ’n galera!

Ma piö gna ’l Padretèrnol’ sè fiderès a nàs

compàgn de l’ótra óltain chèsto nòst paìs

perchè i lo sbranerèsinsèm co la treìs!

L’è semper chèla màfiadei fürbi e dei balòs,che co la cùa de pàia

la mèt töt quànt a pòst!Po’’ u dìss che l’è la lège

che la decìde iscé;che i i fà, che i vùlta e pìrla

la lège co la zét!Po’’ i te denüncia ’nfi

per mètet a tasì!Ma töce i scüse è bùneper tègnet incastràt!Tùrna, Pacì Paciana,a fà ’l castìga macc,

tùrna ’nde Vàl Brembànaperchè m’ sè disperàcc!

C. Guariglia: «La balada del Paciana»

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Il documento di messa al bando del Pacì Paciana.

estorsioni di denaro usando il ricatto ed il rapi-mento quali armi preferite. Le più famose sonoquella ai danni dei coniugi Mazzoleni che glifruttò solo 600 lire a fronte delle 2000 richie-

ste, e quella più corposa ai danni dell’oste Nico-la Bonetti nel 1803: con il suo rapimento Pacìriuscì ad estorcere ben cinquemila lire, ma dopoquest’impresa fu costretto a riparare a Venezia

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dove dimorò per circa due anni. Anche a Vene-zia tuttavia, con l’arrivo dei francesi nel 1805,la sua sicurezza tornò in pericolo e Pacì Pacia-na si rimise in viaggio verso la sua Valle doveperò non fu accolto con simpatia. Bisognava li-berare dal terrore le popolazioni della MediaValle Brembana e cominciò così una caccia ac-canita nei suoi confronti.

Lo stesso commissario di Alta Polizia si tra-sferì da Bergamo a Zogno “con un gran nume-ro di uomini e mezzi straordinari” per “assicu-rare gli abitanti del dipartimento valligiano dal-le concussioni e violenze del famoso briganteVincenzo Pacchiana”. Venne emessa la tagliadi cui parlavamo all’inizio, e si arrestarono tut-te le persone sospettate di favoreggiamento ver-so il bandito.

Pacì Paciana (che aveva sempre cercato di fareil più possibile da solo, perché sicuro di sé e so-prattutto per diffidenza) si rifugiò a Gravedona,dove fu costretto a chiedere aiuto e collabora-zione ad un altro bandito, meno famoso ma cer-tamente più crudele (certo Cartoccio Cartocci,o Carcino Carciofo) che, allettato dalla taglia enella speranza di farsi perdonare le sue ribalde-rie, lo uccise nel sonno con una schioppettata.

Troncatagli la testa lo portò a Bergamo dove ifrancesi lo esposero sulla ghigliottina della Fara.Era il 6 agosto 1806.

La memoria di quest’uomo è ancora moltoviva in Val Brembana, e ci sono persone cheancora oggi vanno alla ricerca di documenti perapprofondire la conoscenza del personaggio efari luce sugli aspetti ancora non risolti.

Siamo andati a Zogno, dove il parroco donGiulio Gabanelli ha fatto della ricerca della ve-rità su Pacì Paciana quasi una missione, e pe-riodicamente aggiorna tramite il bollettino isuoi parrocchiani sugli sviluppi. È stato lui aritrovare due anni fa l’atto di nascita del bandi-to, sciogliendo finalmente un dubbio che dura-

Rappresentazione del Pacì Paciana.

va da duecento anni: Pacì Paciana è nato a Gru-mello dè Zanchi il 18 dicembre 1773.

Abbiamo anche fatto due chiacchiere con donGiulio, ed è stato curioso constatare con qualeaffetto questa gente parli ancora di Pacì Pacia-na, come di un parrocchiano un po’ irrequietoma in fondo buono come il pane, ucciso a tra-dimento da un meridionale (come don Giulioha tenuto a specificare).

Don Giulio ha perfino composto una poesiain cui rimpiange Pacì Paciana e lo invita a tor-nare in Val Brembana: in fondo, si legge, me-glio te dei ladri legalizzati che oggi comandanoe che fanno carriera a spese di chi sgobba e pagale tasse!

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Il nome vero dei nostri paesiDopo avere creato tutte le cose, il Buon Diocominciò a dare loro dei nomi e disse loro:“Siete vive perché avete un nome. Il vostronome è la vostra anima. Non fatevi togliereil nome perché sareste morte. Non fatevicambiare il nome perché sareste schiave dichi ve lo ha cambiato”.(Da un racconto ossolano)

Per la grafia piemontese e occitana dei nomi della Provincia di Torino, si veda il n. 9 deiQuaderni Padani. Per la Valle d’Aosta è riportato il nome francesizzato. Con (I) si indica laversione italiana, con (W) quella Walser e con (A) quella arpitana di cui è indicata la grafia.

La grafìa Arpitana (Graiana)

Fonte: Gianfranco Gribaudo (Piemonte); Ousitanio Vivo (Occitania);Joseph Henriet (Valle d’Aosta - Arpitania); Paolo Linty (Walser)

a come in italianoe come in italiano; in finale di parola è muta come la e franceseei vocale tra la e e la ii come in italianoü come la u franceseo come in italianoou vocale tra la o e la uu come in italianoy come la ill francesew come in inglesec come zz italianocy come ci, cia italianid, f come in italianog come ga, ghi, ghe, italianih aspirata come in tedescoj come zi, za, ze, italianijy come gi, gia, italianik come ca, chi, che, co italianil come in italianoly come gli, glie, italiani

m, n come in italianony come gni, gne, italianip, r come in italianos come s iniziale di parola italiana

t, v come in italianoz come s di rosa in italianozy come la j francesex come sci, scia, ace, italiani

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Agliè AjèAirasca AirascaAla di Stura Ala dë Stura - Àla (A)Albiano d’Ivrea AlbianAlice Superiore Àles SuperiorAlmese AlmèisAlpette AlpëtteAlpignano AlpignanAndezeno AndzenAndrate AndràAngrogna Engroenha (O)Avigliana Vian-aAzeglio AsèjBairo BerBalangero BalangéBaldissero Canavese BaussérBaldissero Torinese BaudisséBalme Balme - Balmës (A)Banchette BanchëtteBarbania BarbainaBardonecchia Bardonecchia

Bardounèicha (O)Barone Canavese BaronBeinasco BeinaschBibiana Bibian-a - Bubiana (O)Bobbio Pellice Beubi - Boebi (O)Bollengo BolenghBorgaro Torinese BorgheBorgiallo BorgialBorgofranco d’Ivrea BorghfranchBorgomasino BorghmasinBorgone Susa Borgon - Burgùn (A)Bosconero BoschnèirBrandizzo BrandisBricherasio Bricheras - Briqueras (O)Brosso BròssBrozolo BreusoBruino BruinBrusasco BrusaschBruzolo Bërzeul - Brüsöl, Bërsöl (A)Buriasco BuriaschBurolo BurélBusano BusanBussoleno Bussolin - Büsulìn (A)Buttigliera Alta ButieraCafasse CafasseCaluso CalusoCambiano Cambian

La toponomastica della provincia di TorinoCampiglione e Fenile Campion

Campioun e Fënil (O)Candia Canavese CandiaCandiolo CandieulCanischio Canis-cioCantalupa Cantaluva

Chantoloubo (O)Cantoira Cantòira

Kantòiri, Centuèiri (A)Caprie Ciavrie - Ciavrie (A)Caravino CaravinCarema Carema - Karéma (A)Carignano CarignanCarmagnola CarmagnòlaCasalborgone CasalborgonCascinette d’Ivrea Cassinëtte d’IvrèjaCaselette CaslëtteCaselle Torinese CaseliCastagneto Po CastagnéCastagnole Piemonte CastagnòleCastellamonte CastlamontCastelnuovo Nigra Casteineuv NigraCastiglione Torinese CastionCavagnolo CavagneulCavour CavorCercenasco SësnaschCeres Cères - Serës (A)Ceresole Reale Ceresòle - Ceresòle (A)Cesana Torinese Cesana - Sezana (O)Chialamberto Cialambert - Cialambèrt (A)Chianocco Cianoch - Cianuk (A)Chiaverano CiavranChieri ChérChiesanuova Gesia NeuvaChiomonte Cimon - Choumoun (O)Chiusa di San Michele Ciusa - Kiùsa (A)Chivasso CivassCiconio SicheugnCintano SintanCinzano CinsanCiriè SirièClavière Clavier - La Claviera (O)Coassolo Torinese CoasseulCoazze Coasse Kùase (A)Collegno ColegnColleretto Castelnuovo CorèjColleretto Giacosa CoréjCondove Condove - Kundòve (A)Corio Cheuri

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Cossano Canavese CossanCuceglio CuseleCumiana Cumian-aCuorgnè CorgnèDruento DruentExilles Esil - Insilha (O)Favria FavriaFeletto FlètFenestrelle Fenestrele - Feneetrella (O)Fiano FianFiorano Canavese FioranFoglizzo FojissForno Canavese FornFrassinetto Frassiné - Frasinèi (A)Front FrontFrossasco Frossasch - Frousasc (O)Garzigliana Garzian-aGassino Torinese GassoGermagnano GermagnanGiaglione Giajon - Giajun (A)Giaveno GiavenGivoletto GivolètGravere Gravere - Gravére (A)Groscavallo Grosscaval - Gruskavàl (A)Grosso GròssGrugliasco GrujaschIngria (l’)Ingri - Éngria, I Éngri (A)Inverso Pinasca Invers

L’ënvers de Pinachâ (O)Isolabella IsolabelaIssiglio IssajIvrea Ivrèja, IvreaLa Cassa La CassaLa Loggia La LògiaLanzo Torinese LansLauriano LaurianLeinì LeinìLemie Lemie - Lèimia (A)Lessolo LéssojLevone AlvonLocana Locan-a - Lukënna (A)Lombardore LombardorLombriasco LombriaschLoranze LoranséLugnacco LugnéLuserna San Giovanni Luserna San Gioann

Luzerna e Sën Jan (O)Lusernetta Lusernëtta - Luzërnëta (O)Lusigliè LusièMacello MasélMaglione MajonMarentino Marentin

Massello Massél - Masel (O)Mathi MatiMattie Matie - Màtie (A)Mazzè MassèMeana di Susa Meana - Meàna (A)Mercenasco MersnaschMeugliano MulianMezzenile Mesnil - Meisinì (A)Mombello di Torino MombélMompantero Mompanté - Mumpantìa (A)Monastero di Lanzo MonastéMoncalieri MoncaléMoncenisio Monsniss - Frére Cenisio (A)Montaldo Torinese MontàudMontalenghe MontalengheMontalto Dora MontàutMontanaro Montanar, MontanerMonteu da Po MontèuMoriondo Torinese MoriondNichelino NichlinNoasca Noasca - Nuvaska (A)Nole NòleNomaglio NomajNone NonNovalesa Novalèisa - Nonalésa (A)Oglianico OjaniOrbassano OrbassanOrio Canavese ÒrOsasco OsaschOsasio OsasOulx Oulx - Ouls (O)Ozegna OsegnaPalazzo Canavese PalassPancalieri PancaléParella ParelaPavarolo PavareulPavone Canavese PavonPecco PechPecetto Torinese PsePerosa Argentina Perosa - Peirouzo (O)Perosa Canavese ProsaPerrero Pré - Prìe (O)Pertusio PertusPessinetto Psinaj - P(i)sinài (A)Pianezza PianëssaPinasca Pinasca - Pinachâ (O)Pinerolo PinareulPino Torinese (ël) PinPiobesi Torinese PiòbesPiossasco PiossaschPiscina Piscin-aPiverone Pivron

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Poirino PoirinPomaretto Pomarèt - Poumaret (O)Pont Canavese PontPorte Pòrte - Lâ Porta (O)Pragelato Pragelà - Pradzalà (O)Prali Prali - Prâl (O)Pralormo PralormPramollo Pramòl - Pramol (O)Prarostino Prarostin - Prustin (O)Prascorsano PrascorsanPratiglione PrajonQuagliuzzo QuajussQuassolo CoasseulQuincinetto Quinsnè - Kuisné (A)Reano ReanRibordone Ribordon Gabudùin (A)Rivalba RivalbaRivalta di Torino RivàutaRiva presso Chieri RivaRivara RivaraRivarolo Canavese RivareulRivarossa RivarossaRivoli RivoliRobassonero RobassoméRocca Canavese La RòcaRoletto Rolaj - Roulèi (O)Romano Canavese RomanRonco Canavese Ronch - Runk (A)Rondissone RondissonRorà Rorà - Rourà (O)Roreto Chisone RoreRoure Roure (O)Rubiana Rubian-a - Rübiàna (A)Rueglio RuejSalassa SalassaSalbertrand Salbertrand - Salbertran (O)Salerano Canavese SaleiranSalza di Pinerolo Sànssa - Salso (O)Samone SamonSan Benigno Canavese San BalegnSan Carlo Canavese San CarloSan Colombano Belmonte San ColombanSan Didero San Didè - Sen Didé (A)San Francesco al Campo San FranceschSangano SanganSan Germano Chisone San German

Sën German (O)San Gillio San GiliSan Giorgio Canavese San GiòrsSan Giorio di Susa San Gieuri - Sen Göri (A)San Giusto Canavese San GiustSan Martino Canavese San Martin

San Maurizio Canavese San MurissiSan Mauro Torinese San MòSan Pietro Val Lemina San Pe - San Piere (O)San Ponso San PonsSan Raffaele Cimena San Rafaél CimënnaSan Sebastiano da Po San BastianSan Secondo di Pinerolo San Second

Seisound (O)Sant’Ambrogio di Torino San AmbreusSant’Antonino di Susa San Antonin

Santantünin (A)Santena SantnaSauze di Cesana Sàuze

Saouze de Sezana (O)Sauze d’Oulx Sàuze - Le Saouze (O)Scalenghe ScalengheScarmagno ScarmagnSciolze SiosseSestriere Sestrier - Setriira (O)Settimo Rottaro SètoSettimo Torinese SetoSettimo Vittone SètoSparone Sparon - Sparùn (A)Strambinello StrambinélStrambino StrambinSusa Susa - Süsa (A)Tavagnasco TavagnaschTorino TurinTorrazza Piemonte TorassaTorre Canavese (la) TorTorre Pellice (la) Tor - Toure (O)Trana TranaTrausella TrauselaTraversella Traussella - Trausèla (A)Traves Tràves - Tràves (A)Trofarello TrofarélUsseaux Usseaux - Useàou (O)Usseglio Ussèj - Üsèi (A)Vaie Vaje - Vàie (A)Val della Torre Val ëd la TorValgioie ValgiòjeVallo Torinese ValValperga ValpergaValprato Soana Valprà - Valprà (A)Varisella VariselaVauda Canavese VàudaVenalzio VenàusVenaria VenariaVenaus Venàus - Venàus (A)Verolengo VerolenghVerrua Savoia AvrùaVestigné Vestigné

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Vialfrè ViafrèjVico Canavese ViVidracco VidréVigone VigonVillafranca Piemonte VilafrancaVillanova Canavese VilaneuvaVillarbasse VilarbasseVillar Dora (ël) Vilar - Vilardòra (A)Villareggia (la) VilaVillar Focchiardo (ël) Vilé - Vilàe Fuciàrd (A)

Villar Pellice (ël) Vilar - Vilar (O)Villar Perosa (ël) Vilar - Li Vialar (O)Villastellone VilastlonVinovo VineuvVirle Piemonte VirleVische VischeVistrorio VistrorViù ViùViü’ (A)Volpiano VolpianVolvera (la) Volvera

La toponomastica della Valle d'AostaAllain Alen (A)Antey-Saint-André Antey (A)Aoste Aohta (A) - Aosta (I)Arnaz Arnà (A)Arvier Arvyei (A)Avise Avezo (A)Ayas Ayas (A)Aymaville Amavela (A)Bard Bar (A)Biònaz Biona (A)Brissogne Breysonye (A)Brusson Broecon (A)Challant-Saint-Anselme Calan Sen Ansermo (A)Challant-Saint-Victor Calan Sen Viktor (A)Chambave Canbova (A)Chamois Camwei (A)Champdepraz Candeprà (A)Champorcher Canporcei (A)Charvensod Carvensou (A)Châtillon Cahtilyon (A)Cogne Konye (A)Courmayeur Kroemayou (A)Donnaz Dunah (A)Doues Doue (A)Emarese Eimareza (A)Étroubles Eitroble (A)Fénis Fehik (A)Fontainemore Fontanamora (A)Gaby Gobi (A)Gignod Jinyou (A)Gressan Gresan (A)Gressoney-la-Trinité Grexonei la Trinità (A)

Greschòney Oberteil (W)Gressoney-Saint-Jean Grexonei Sen Jan (A)

Greschòney Onderteil ònMéttelteil (W)

Hône Ouna (A)Introd Entrou (A)Issime Eixima (A) - Eischeme (W)

Issogne Isonye (A)Jovençan Jovensan (A)La Magdeleine La Madaleina (A)La Salle La Soola (A)La Thuile La Cwilye (A)Lillianes Lyana (A)Montjovet Monjovè (A)Morgex Morjei (A)Nus Nis (A)Ollomont Alomon (A)Oyace Yas (A)Perloz Perlo (A)Pollein Polen (A)Pont-Bozet Ponbozei (A)Pontey Pontei (A)Pont-Saint-Martin Pon Sen Martin (A)Pré-Saint-Didier Pra Sen Dejei (A)Quart Kar (A)Rhêmes-Notre-Dame Rema Nostra Dama (A)Rhêmes-Saint-Georges Rema Sen Jorjo (A)Roisan Reyzan (A)Saint-Christophe Sen Krehtoblo (A)Saint-Denis Sen Denì (A)Saint-Marcel Sen Marsei (A)Saint-Nicolas Sen Nikolà (A)Saint-Oyen Sen Oyen (A)Saint-Pierre Sen Piere (A)Saint-Rhémy Sen Remì (A)Saint-Vincent Sen Vinsen (A)Sarre Saro (A)Torgnon Tornyon (A)Valgrisanche Vagrezenc (A)Valpelline Vapelena (A)Valsavaranche Uhaenc (A)Valtournanche Votornenc (A)Verrayes Vehey (A)Verrès Verec (A)Villeneuve Velanouva (A)

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L’indipendenza in poltrona«Vi racconterò di William Wal-lace. Gli storici inglesi dirannoche sono un bugiardo, ma a scri-vere la storia sono gli stessi chehanno impiccato gli eroi».Inizia così “Bravehearth”, conqueste poche, ma significative,parole, che riecheggiano tra lepareti montuose delle highlan-ds scozzesi rese ancor più sug-gestive dalle dolci melodie suo-nate dalle pive.“Bravehearth” è un capolavorodella cinematografia (premiatocon 9 Oscar) che racconta la vitadi William Wallace, l’eroe dell’in-dipendenza scozzese a cavallo trail XIII° e il XIV° secolo.In 170 minuti di pellicola non c’èil tempo per distrarsi, nemme-no durante le appassionate sto-rie d’amore che il giovane Wal-lace intreccia prima con Mar-roun, l’amica d’infanzia diventa-ta sua moglie in gran segreto e,successivamente, con Isabella,sposa di Edoardo II° e figlia delRe di Francia.Ma nel film si respira aria di li-bertà sin dalle prime sequenze,quando il padre di William, ilcontadino Malcom Wallace, inlotta per la l’indipendenza delleproprie terre, viene massacratodagli inglesi ed il piccolo, rima-sto solo, viene adottato dallo ziopaterno, che lo avvierà agli stu-di e alle arti della guerra.William, il protagonista assolu-to, interpretato da Mel Gibson(che è anche il regista) è una for-za della natura capace di far al-zare la testa ad un paese schiac-ciato dal giogo colonialista ingle-se, saldamente nelle mani del piùcrudele dei Re: Edoardo I°, il

La guerriglia antinglesi (raccon-tata nei minimi dettagli, tra l’in-crociarsi delle spade, lo sparger-si del sangue e la virulenza deicolpi affondati) comincia conl’uccisione dello sceriffo di La-nark e prosegue, nel 1297, conl’epica battaglia di Stirling, nel-la quale l’esercito di “Sua Mae-stà” subisce una memorabilesconfitta. Gesta e parole epiche,che ti inchiodano alla sedia: «Iosono William Wallace e porgoomaggio alla Scozia... Qui c’è unesercito di compatrioti decisi asfidare la tirannide...Chi combat-te può morire, chi sfugge restavivo, almeno per un po’, ma inostri nemici possono togliercila vita ma non ci toglieranno maila libertà». Poi, ancora battaglie,fin giù nell’Inghilterrà, dove glieroi scozzesi prima espugnanoYork e, poi, capitolano a Falki-rk, simbolico epilogo di una ca-tena di vittorie.Se è vero che lo sferragliare dellespade gode di ampio spazio nel

film, è altrettanto vero che “Bra-veheart” concede allo spettatoreun forte concentrato di emozioni.C’è posto per il tradimento, quel-lo dei Bruce e dei nobili scozze-si vendutisi ad Edoardo I°: «Èl’arte oscura e difficile del com-promesso a fare di un uomo unnobile. Il coraggio lo hanno an-che i cani». Per l’amicizia, quel-la tra William Wallace ed Amish,suo compagno di sempre. Per ilrimorso, quello lacerante di Ro-bert the Bruce, il traditore, chesfila tra i cadaveri della sua gen-te; per la giustizia, per la goliar-dia e per la commozione, cheattanaglia il cuore di chi vedeWilliam Wallace finire a pezzisotto i colpi d’ascia degli inglesiche lo hanno catturato.Non c’è nulla di scontato in “Bra-veheart”, salvo il fatto che si pos-sa godere di quasi tre ore di emo-zioni, forti emozioni, che han-no un nome ed un cognome: li-bertà e indipendenza.

Leonardo Facco

Plantageneta, colui che ar-roga a sé il diritto a sedersianche sul trono scozzese,rimasto senza un erede.La battaglia di libertà dellaquale Wallace diventa l’in-terprete primario, partequasi per caso, in seguito alconsumarsi di una vendet-ta personale nei confronti diun nobile inglese, che gliuccide la moglie. Da quelmomento, per l’impavidoplebeo scozzese (che suc-cessivamente verrà nomi-nato dai nobili delle terredel nord Cavaliere e Sir), èun escalation di successi edi fama, che si conquista, inprima persona sul campo dibattaglia. I clan vicini siuniscono a lui, il popolo sisolleva e persino i nobili as-secondano il suo desideriodi libertà.

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Carlo Lottieri - GuglielmoPiombiniPrivatizziamo il chiaro diLuna! - Le ragioni dell’ecolo-gia di mercatoLeonardo Facco Editore, Trevi-glio (BG), 1996pagg. 96, L. 15.000

Probabilmente tutti si sonospesso chiesti come mai l’am-biente che ci circonda è inqui-nato e in che modo eliminare eridurre l’inquinamento. La ri-sposta a domande di questo tipoè solitamente collettivista o sta-talista: l’ambiente è inquinatoperché gli uomini, pur di rea-lizzare un guadagno, sono di-sposti a distruggere tutto ciòche li circonda. Di conseguen-za, compito fondamentale del-

lo stato è difendere l’ambientedalla libera iniziativa dei priva-ti imponendo loro dei limiti, deidivieti e dei vincoli.Una lettura del problema di talgenere viene letteralmente ro-vesciata da questo libro pubbli-cato a cura dell’I.T.E.M. (Istitu-to per la Transizione all’Econo-mia di Mercato, Via Torricelladi Sotto 82, 25127 Brescia): ilprincipale responsabile dell’in-quinamento è lo stato stessoche, appropriandosi di veri epropri latifondi e spacciandoliper “proprietà pubblica”, non èin grado di tutelarli. Infatti,sostiene Guglielmo Piombininel saggio Ecologia di merca-to, imprenditoria e libertà in-dividuale, non è un caso che“ad essere inquinate sono soli-tamente le risorse pubbliche[...]. Tutti questi beni si carat-terizzano, dal punto di vistagiuridico, per l’assenza di dirit-ti di proprietà su di essi e perl’appartenenza alla collettività

gressione ai confinanti e quin-di legittimamente punibile. In-fatti, continua Piombini, “l’eco-nomia libera contiene unostraordinario meccanismo in-terno autoregolato, per mezzodel quale le decisioni produtti-ve dei proprietari finiscono conl’avvantaggiare non solo lorostessi, ma soprattutto la mas-sa dei consumatori e l’econo-mia nel suo complesso”. Nu-merosi sono gli esempi ripor-tati a sostegno di tutto ciò, dal-la privatizzazione degli elefan-ti in Zimbabwe a quella dei sal-moni in Norvegia, dalle vigognedel Perù ai castori del Canada,tutti animali salvati dall’estin-zione.Si prosegue poi con una con-futazione dell’utilità dei PianiRegolatori, per giungere allaconclusione: non è lo stato adoversi occupare della tuteladell’ambiente perché, come hadetto Tibor Mahan, “se le don-ne e gli uomini liberi non sa-pranno gestire l’ambiente, nes-sun altro potrà farlo al loroposto”.Carlo Lottieri esamina poil’idea di “rischio”, confrontan-dola con quella di “pericolo”.Cos’è un rischio? E’ semplice-mente l’aspettativa di un dan-no. È pertanto illegittimo legi-ferare contro i rischi, cioè fareun “processo alle intenzioni”per danni non ancora compiu-ti ma semplicemente possibilio probabili. D’altra parte potervivere senza rischi è una purautopia; eliminare i rischi vor-rebbe dire vietare ad ognuno diuscire per strada per il “rischio”di cadere dalle scale o di incon-trare un pazzo assassino. Ogniiniziativa libera e privata rap-presenta un rischio per se stes-si o anche per il prossimo : nonper questo va impedita o vieta-ta “per decreto”. L’ecologismo

nel suo com-plesso”. In effet-ti ciascuno dinoi, se è prontoa impegnarsiper tutelare ciòche è proprio, èportato pari-menti a trascu-rare ciò che è “ditutti”.Se invece le ri-sorse ambienta-li fossero priva-te, il proprieta-rio sarebbe so-lerte nel mante-nerle integre epulite. Ogni for-ma di inquina-mento dell’aria,dell’acqua o al-tro sarebbe poic o n c e p i b i l ecome un’ag-

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statalista fa invece della con-danna del rischio, cioè del-l’aspettativa, il proprio cavallodi battaglia. È tuttavia possibi-le una distinzione (a dire il verosempre fumosa) tra “rischio” e“pericolo”: un rischio è una po-tenzialità remota, un pericoloè un’eventualità concreta e vi-cina nel tempo. Una seconda epiù utile e certa distinzione èquella tra “autolesionismo”(hazard) e “aggressione” (ou-trage): il primo è perfettamen-te legittimo, il secondo no:ognuno è libero di fumare incasa propria, ma ben altra cosaè fumare in pubblico.Tutto ciò che non è classifica-bile come aggressione è pertan-to legittimo. Sarà poi compitodel privato curare ciò che è pro-prio e rispettare la proprietàaltrui: per fare un esempio, nes-suno di noi si sogna di gettarecartacce per terra in casa pro-pria ma a tutti, almeno unavolta, è capitato di buttare qual-cosa per strada ; e ancora, men-tre tutti i parchi pubblici sonosporchi e maltenuti, i parchiprivati sono sempre in ottimostato.Secondo il pensatore padano“nel quadro del liberalismo in-tegrale le regole che emergo-no [...] presuppongono un in-sieme di proprietari, ciascunodei quali preoccupato di salva-guardare nel migliore dei modii propri titoli e di rinvenire ra-gionevoli assicurazioni in me-rito al proprio futuro” : il con-trario esatto di quanto fa lo sta-to, che “tutela” la collettivitàbasandosi su standard arbitra-ri e medie matematiche del tut-

to prive di senso. Anche l’am-biente, quindi, va affidato aiprivati : un’azione dello stato èanche in questo campo illegit-tima e dannosa. L’unica manie-ra di preservarci dall’inquina-mento è affidarci completa-mente alla libera iniziativa edevitare i pregiudizi statalisti dicui l’ideologia ambientalista èstracolma. Il libro prosegue poi

con due saggi di Tibor Mahansu Ecologia, socialismo e capi-talismo e di David Osterfeld suIl perenne mito della sovrappo-polazione e si conclude conun’analisi di Guglielmo Piom-bini sulla legislazione italianain merito. Ma, speriamo, que-st’ultima parte sarà presto inu-tile a noi Padani.

Giò Batta Perasso

Ferruccio VercellinoFra' Dolcino. Il brigatista diDioLaura Rangoni Editore, Pioltel-lo (MI), 1997pagg. 100, L. 20.000

Fra Dolcino: un rivoluzionariotra lotta di classe e apocalisseComunque li si voglia leggere,i movimenti pauperistici era-no considerati una spina nelfianco per il potere centraledella Chiesa, in quanto si as-sumevano un ruolo che di fat-

lontà innovativa dei gruppi lai-ci.Un esempio di questa presa diposizione, risulta abbastanzaevidente nella lettera che l’in-quisitore Bernard Gui scrisseai seguaci di Fra Dolcino, an-cora attivi in Spagna, il 1 mag-gio 1316: “si dicono falsamen-te apostoli di Cristo, professa-no la povertà evangelica e fin-gono di chiamarsi poveri dispirito e di imitare le orme de-gli apostoli, inventando un or-dine di penitenti nell’ambito

to non erano poiin grado di ge-stire.L’improvvisa-zione si basavasu una presun-zione escatolo-gica priva, nellamaggioranzadei casi, diun ’ogge t t i vabase culturaleche concedesseagli innovatoriun equilibratoposizionamentodelle loro istan-ze.La Chiesa reagìspesso dura-mente, assu-mendo toni for-temente critici,destinati a de-molire ogni vo-

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del quale si chiamano tra lorofratelli (...) costoro fingono difare penitenza e come le scim-mie che imitano l’aspetto del-la penitenza dicono e gridanonei crocicchi e sulle piazze perlo più: Pentitevi, il regno deicieli è vicino, e talvolta: Salve,Regina; o cose del genere, ondeaccattivarsi l’ascolto e l’atten-zione di chi li sente e sedurre,cantando, i cuori semplici”.“Figlio del prete Giulio di Tron-tano della Val d’Ossola in dio-cesi di Novara, uomo assoluta-mente sconosciuto, eresiarcadella peggior risma, giunse al-l’improvviso e inaspettatamen-te con alcuni suoi seguaci daregioni lontane nella diocesi diVercelli nell’anno del Signore1303", afferma l’anonimo auto-re dell’Historia Fratis DulciniHeresiarche, un compilatoremolto vicino alla posizione re-pressiva della Chiesa, chiara-mente schierato contro Dolci-no e autore di una ricostruzio-ne che pertanto non può esse-re considerata obiettiva.Sull’argomento giunge in li-breria lo studio di FerruccioVercellino, storico di vercelliche ha scritto il libro Fra Dol-cino. Il brigadista di Dio, per itipi di Laura Rangoni Editore(pag. 100, lire 20.000).Il piccolo ma ricchissimo librodi Ferruccio Vercellino - chededica anche alcune curiosepagine ai miti dei dolciniani -ha il pregio di proporre unatesi, che anche se non condivi-sibile da tutti gli studiosi, offreuna chiave di lettura raziona-le, in cui l’abusato connubiotra predicazione eretica e pro-testa sociale viene ridimensio-nato. Un libro che fa discuteree che certamente potrà esserepiattaforma per ulteriori studied approfondimenti.Inoltre Vercellino cerca di di-

mostrare, come la lettura apo-calittica dolciniana di fatto siaun totale abbrutimento delmessaggio biblico, che va col-locato nel suo contesto neo-te-stamentario, e non estrapola-to come profezia di visionari.Fra Dolcino scrisse tre lettere(ma ci sono pervenute solo leprime due, una scritta nell’ago-sto del 1300 e l’altra nel dicem-bre del 1303) che indirizzò “Aduniverso Christi Fidelis et suosSequaces”; in queste missive“farneticava copiosamente sul-le sacre scritture e giungeva al-l’esordio di aderire alla verafede della Chiesa di Roma, matutte e tre, se lette per intero,ne rivelano la perfidia”, avver-tiva Bernard Gui.Dolcino, come altri apostolici,si avvaleva di una confusa mi-stura di “signa” la cui intercon-nessione suggeriva i parametrientro i quali si posizionavanole chiavi di lettura per interpre-tare il messaggio profetico.Il riferimento ai passi dell’An-tico Testamento e dell’Apoca-lisse, interpretati attraversouna metodologia esegetica cer-tamente criticabile dalla Chie-sa di Roma, ebbe l’effetto direndere le lettere dolciniane,prima di una sorta di program-ma degli Apostolici, la testimo-nianza di una volontà intenzio-nata ad abbattere dei capisaldiche, in un periodo di decaden-za morale ecclesiastica, poteva-no risultare anche degli appi-gli per celare situazioni ed at-teggiamenti ormai completa-mente staccati dal primitivomessaggio evangelico.Fra Dolcino, inoltre, parlava diquattro momenti della Chiesa:il primo nel periodo di Cristo edei suoi apostoli, in cui il mes-saggio evangelico e i suoi por-tatori subirono pesanti perse-cuzioni; il secondo fu il perio-

do della bontà e della castità,ed ebbe la sua più vivida con-cretizzazione nella figura delbeato Silvestro; il terzo fu unperiodo dominato dal solo in-teresse materiale e dall’abban-dono dei valori spirituali piùvari, un tempo che Dolcino de-scriveva come quello in cui vi-veva; il quarto periodo avrebbericondotto al primo: il suo ini-zio si ebbe con la predicazionedel Segarelli, inviato da Dio perriportare la Chiesa alla primi-tiva purezza.Al di là di quanto le lettere ci-tate ci possono suggerire, in re-altà non conosciamo moltodella biografia di Fra Dolcinofino al momento della sua og-gettiva presa di posizione neiconfronti della Chiesa, che nefece un amalgama di eretico edi condottiero combattente.Sono infatti questi gli aspettiche hanno trasformato Dolci-no in una figura avvolta trop-po spesso dalla leggenda e daun ostentato mistero.Dopo alcuni anni di lotta nellecampagne del Novarese, nelmarzo 1307 Dolcino e i suoicompagni furono vinti e con-dannati a morte.Vercellino, in appendice delsuo libro, riportata anche lacronaca delle fasi più cruentedella cattura, dei tormenti e delrogo a cui Dolcino, la sua com-pagna Margherita e il fido“braccio destro” furono con-dannati. La loro fu una storiaesemplare per dei rivoluziona-ri ante litteram che ancora oggisono parte integrante dell’im-maginario popolare.

Massimo Centini

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Gordon Tullock - Andrea VillaniLa scelta federale. Argomenti eproposte per una nuova orga-nizzazione dello Stato.Franco Angeli, Milano, 1996pagg. 176, L. 27.000

“The new Federalist”, nel titolooriginale apparso in lingua in-glese, rappresenta uno strumen-to per comprendere le ragioniprofonde che militano in favorealla dottrina federalista e soprat-tutto per cogliere il carattere le-berale dei sistemi poluitici chevalorizzano e responsabilizzanoi governi locali, i suoi ammini-stratori ed il pluralismo.Il volume di Gordon Tullock,apparso in Italia come “La scel-ta Federale”, mette in risalto inumerosi benefici dell’istituzio-ne privata, in grado comunquedi soddisfare le richieste degliassociati.Egli osserva che i governi digrandi dimensioni incoraggianometodi di cattiva gestione eco-nomica da parte di gruppi d’in-teresse.La frenesia di lobbisti professio-nisti intorno ai capitali nazionalicostituisce la parte più visibile diquesto spreco che viene definitada Tullock “rend seeking” ovve-ro “ricerca di rendite”.Questa eventualità è più facileche si verifichi nei governi gran-di piuttosto che in quelli picco-li, perchè nel primo caso è piùdifficile per i comuni cittadiniriuscire a vedere chi li sta deru-bando.Uno dei vantaggi del decentra-mento dei Governi, ovvero quel-lo che chiamiamo “federalismo”è che limita il voto di scambio,

governo, della concorrenza traStati.Tullock non nega che governi diampie dimensioni possano for-nire alcuni servizi in modo effi-ciente, ma nota che tali servizicostituiscono una parte minoredelle attività che questi governivengono a svolgere.Oggi i governi sono prevalente-mente occupati nel prelevarereddito da una parte della socie-tà, per trasferirlo all’altra ed èper questo che egli mette in dub-bio l’idea che “più grande” signi-fichi necessariamente anchemigliore. I governi sono costrettia essere efficienti, perchè i cit-tadini che non condividono laloro politica possono andarsenee muoversi verso comunità vici-ne, le quali offrano un comples-so d’imposte e servizi che essipreferiscono, salvo che in parti-colari eccezioni, come quelle deipaesi comunisti, dove le frontie-re sono accuratamente control-late per impedire ai cittadini diuscire.

Tullock elabora inoltre la suaidea di “federalismo sociologi-co”, che permette ad ogni sin-golo di istituire relazioni giuri-diche adeguate alle proprie esi-genze. Questi governi parallelinon sono altro che l’esito libe-rale e coerente a “stare con chisi vuole”.Non esiste alcun salto tra il fe-deralismo tout court e il federa-lismo sociologico, ma piuttostoun’evidente continuità. “In unasocietà liberale e federale posso-no fiorire cento o mille fiori;possono nascere e vivere centoo mille progetti culturali”.Il libro di Tullock resta un testofondamentale e può aiutare adavvicinare al federalismo moltiliberali critici e perplessi versole rivendicazioni localiste.Egli spiega tutto questo con abi-lità e soltanto persone davveroin malafede, dopo la lettura diquesto volume, potranno conti-nuare ad ignorare il progettoPadano.

Giovanni Bonometti

in quanto l’ambito ge-ograficamente ristretto,rende più evidente al-l’elettore la conoscenzadegli accordi fra le par-ti che gli sono in misu-ra maggiore sfavorevo-li, di quanto non lo sa-rebbero in una grandearea corrispondentealla nazione.Premio Nobel neglianni Ottanta, vice con-sole a Tientsin in Cina,fino al 1949, egli è sta-to il fondatore con Ja-mes Buchaman dellascuola di Public Choice.Lo studioso liberale evi-denzia come l’analisieconomica neoclassicaoffra più di un argo-mento a favore del neofederalismo, dell’auto-

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