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Baracche, xenofobia e bambini clandestini Le ragioni contro la reintroduzione dello statuto dello stagionale in Svizzera

Baracche, xenofobia e bambini clandestini

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Le ragioni contro la reintroduzione dello statuto dello stagionale in Svizzera

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Page 1: Baracche, xenofobia e bambini clandestini

Baracche, xenofobia e bambini clandestiniLe ragioni contro la reintroduzione dello statuto dello stagionale in Svizzera

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Mai più uno statuto dello stagionale!

Foto di copertina: Una famiglia italiana alla stazione centrale

di Zurigo il 15 aprile 1963. Treno speciale per le elezioni italiane.

Foto: Keystone/Photpress-Archiv/Str

Indice

Introduzione, Vania Alleva:

La storia non deve ripetersi! 1 – 2

Silvano De Pietro:

Gli insegnamenti della baracca 3 – 6

Ralph Hug:

L’apartheid svizzera 7 – 8

Silvano De Pietro:

«La clandestinità è solitudine» 9 – 12

Vasco Pedrina:

«Signor Brunner, lei non sa di cosa parla» 13 – 16

Ralph Hug:

Il lungo cammino di Blocher e Schlüer 17 – 20

Matthias Preisser:

Sono condizioni insostenibili nella ricca Svizzera 21 – 22

Ralph Hug:

E gli Jugoslavi sono arrivati in Svizzera 25 – 28

Marie-Josée Kuhn:

Una Svizzera senza la pizza? 29 – 32

Paul Rechsteiner:

No al ritorno del regime discriminatorio 33 – 38

Storia dello statuto dello stagionale

e impressum 39 – 40

Ad esclusione dei contributi di Vania Alleva, Silvano

De Pietro e Paul Rechsteiner, tutti gli altri testi sono stati

prima pubblicati sul giornale sindacale «work».

Lo statuto dello stagionale, rimasto in vigore in Svizzera sino al 2002, è stato uno strumento importante della politica d’immigrazione e del mercato del lavoro. Esso permetteva di rifornire l’economia con forza lavoro a buon mercato e pri-va di diritti. In passato, molti lavoratori e molte lavoratrici sono arrivati in Svizzera proprio come stagionali. Con il loro operato hanno contribuito al benessere della Svizzera, ma in un clima spesso xenofobo, che non teneva conto dei loro bisogni. Molti hanno dovuto così aspettare anni prima di ottenere il diritto al ricongiungimento familiare o quello di poter cambiare datore di lavoro. Il pre-sente opuscolo vuole ricordare questo capitolo buio della storia svizzera.

EmarginazioneLo statuto dello stagionale ha degradato i migran-ti e le migranti a lavoratori di seconda classe. Gli uomini finivano nelle baracche lontani dal cen-tro abitato. Spesso vivevano in quattro o in più persone in una stanza stretta. Non potevano por-tarsi la famiglia e nemmeno cambiare datore di lavoro. Sui cantieri sgobbavano 50 e più ore la settimana. Ma in Svizzera sono arrivate come stagionali anche molte donne: hanno lavorato soprattutto nell’industria alimentare e tessile. Alla fine della stagione, a novembre, tutti venivano rispediti a casa.

Ma il capitolo più triste riguarda i bambini na-scosti: i loro genitori non potevano farli venire legalmente e allora decine di migliaia di bambi-ni vivevano illegalmente e nascosti in Svizzera. I diretti testimoni di questi tempi bui sono an-cora in vita. Come per esempio Aurora Lama, che racconta la propria esperienza e mette in guardia contro un ritorno al vecchio regime.

L’immagine del nemico

La xenofobia rappresenta una costante nella sto-ria politica svizzera. Ebrei, italiani, spagnoli, tamil, jugoslavi tutti sono stati (dapprima) timbrati come nemici. Eppure la Svizzera oggi non sarebbe quella che è senza il duro lavoro dei migranti e delle migranti e senza i numerosi influssi culturali che hanno arricchito il Paese.

E oggi?Il tema dello sfruttamento delle persone senza passaporto svizzero è ancora attuale. Gli sta-gionali sono stati sostituiti da migranti con un permesso di durata molto breve: lavorano a condizioni molto precarie in un settore a basso reddito. Eco perché è importante lottare affinché tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici ottengono eque condizioni di lavoro. Per ottenere più giusti-zia solidarietà e dignità ci vuole un movimento sociale.

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Mio padre era uno stagionale e ha vissuto in una baracca. Mia madre è stata più fortunata: ha ot-tenuto subito un permesso annuale come operaia in una fabbrica. Quando eravamo bambini, i nostri genitori ci raccontavano delle loro esperienze e dello statuto dello stagionale, che ha fatto di loro dei lavoratori di seconda categoria. Questo siste-ma prevedeva una costante rotazione dei mi-granti. Nel giro di pochi mesi erano costretti a ritornare al paese d’origine. E ogni volta che rientravano in Svizzera, erano sottoposti agli stessi umilianti controlli. I miei genitori avevanoamici che erano costretti a nascondere i propri

figli. Sono storie di dignità calpestata e di una pro-fonda mancanza di rispetto. Era una forma sviz-zera di apartheid. Ci sono voluti decenni di lotte condotte dai

sindacati e da altri movimenti sociali per ottenere l’abolizione dello statuto dello stagionale. Per una grande parte di migranti quest’oscuro capi-tolo della storia svizzera si è concluso nel 2002 con l’introduzione della libera circolazione delle persone.

La ricadutaQuest’anno si è votato e si voterà su due inizia-tive dai contenuti isolazionisti e xenofobi. Il 9 febbraio 2014, un’esigua maggioranza ha appro-vato l’iniziativa dell’UDC: non ha ascoltato i mo-niti lanciati dai sindacati, che mettevano in guardia contro le pericolose conseguenze dei contingentamenti discriminatori e dei permessi di soggiorno precari e disumani. Con la votazione in novembre sull’iniziativa Ecopop ciò non deve più ripetersi.

Qualunque sia l’esito della votazione, il 2014 segna già ora una profonda cesura con il recente passato: rischiamo di ricadere in condizioni che credevamo appartenere ormai definitivamente al passato.Come va applicata l’iniziativa contro l’immigra-

zione di massa? Le discussioni sono accese, ma la politica non deve assolutamente optare per l’introduzione di permessi di soggiorno precari e per lo smantellamento dei diritti dei lavoratori. Al contrario, ci vuole una maggiore protezione contro il dumping per tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori, in particolare i più anziani. È necessario lanciare una vera e propria offensiva di aggiornamento professionale e promuovere la conciliabilità tra lavoro e famiglia.

Un forte segnaleIl presente opuscolo e l’omonima esposizione itinerante di Unia perseguono obiettivi molto con-creti: nell’odierno clima in cui i fronti si sono irrigiditi, Unia vuole sensibilizzare l’opinione pub-blica sui gravi errori commessi in passato. La storia non deve ripetersi ! La libera circolazione delle persone è un’importante conquista per i diritti dei lavoratori. Unia lo vuole mostrare e vuole anche partecipare attivamente alle attuali discussioni sul nostro rapporto con l’Europa. Per-ché bisogna di nuovo attribuire alla protezione di tutti i lavoratori la giusta priorità. L’esito delle future votazioni sul proseguimento degli Accordi bilaterali dipenderà soprattutto dai miglioramenti che riusciremo a ottenere. Vogliamo lanciare un segnale. Un segnale forte

per più solidarietà, parità, giustizia e dignità per tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori!

Vania Alleva, copresidente di Unia

La storia non deve ripetersi!

«Mio padre era uno stagionale e ha vissuto in una baracca.»

Lavoratrici e lavoratori italiani al loro arrivo a Briga,

31 marzo 1956. Foto: RDB1

2014: anno decisivo

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È una storia come tante altre, quella di Aurelio Chiapparini, emigrato bresciano dal 1968, oggi pensionato. Proprio perché «normale», è una storia rappresentativa, speciale per certi aspetti, banale per altri, sempre lontana dalla retorica di un’emi-grazione «eroica». È cominciata quando la Svizze-ra veniva scossa dall’ondata xenofoba innescata dall’iniziativa Schwarzenbach «contro l’inforestieri-mento».

Silvano De Pietro

Aurelio Chiapparini comincia la sua avventura di emigrato a 21 anni, quando lascia il paese di Paisco Loveno, in Val Camonica, per andare con lo zio a lavorare in un cantiere a Coira. Ma lui è un meccanico. Prova quindi a cercare un altro lavoro. Viene assunto dalla Reishauer, im-presa zurighese di macchine utensili, dove resta per 44 anni.

Proprio in quel periodo, in un clima di crescente intolleranza, divampa in tutta la Svizzera il dibattito sulla necessità di ridurre la presenza degli stranieri. «La cosa mi dà molto fastidio ed entro in crisi», ricorda Chiapparini. Tutti i colleghi gli ripetono che se passa l’iniziativa tutti devono andare a casa. Il che la dice lunga su quanta pressione e intimidazione sia esercitata sugli im-migrati. «A pensarci bene, considerato lo svi-luppo successivo dell’economia, quell’iniziativa è stata inutile. È servita solo a dare sfogo a quella parte di popolazione che aveva paura», riflette oggi. «Non mi rendo conto che è solo un partito a volerci mandare a casa: ho l’impres-sione che sia tutta la popolazione», aggiunge. Oggi, invece, «si capisce che è solo l’UDC e non tutta la popolazione. I problemi odierni con gli stranieri sono gli stessi dei Paesi vicini e andreb-bero risolti a livello europeo».

Allora, però, il discorso è soprattutto quello dei rapporti umani. Ricorda che una volta il suo capo gli rimprova di aver dato del «lei» ad un manovale. «Questo spiega quanta tensione ci sia anche all’interno delle fabbriche, sui posti di lavoro. Se non hai un po’ di carattere, anziché predisporti all’integrazione queste iniziative finiscono per ottenere tutto il contrario».

In che senso? «Perché non mi sentivo più di volermi impegnare in una società di questo tipo, che non mi accetta e non mi considera come persona», spiega Chiapparini. A dispetto di questo sentimento iniziale, l’integrazione poi c’è. Forse più rapida e completa di quanto lui stesso non avesse immaginato, «perché dopo capisco anch’io che bisognava impegnarsi per far sì che queste cose non avvengano più». Così, negli anni successivi va a scuola, impara il tedesco ed entra nel sindacato FLMO (confluito poi in Unia).

«La mia prima manifestazione è a Neuchâtel nel 1975 per gli orologiai», ricorda Chiapparini. Ma il sindacato significa per lui molto di più: «Oltre a frequentare corsi e migliorare anche la mia conoscenza di questa società, posso entrare nella commissione interna aziendale come rap-presentante degli stranieri». Alla Reishauer i lavo-ratori immigrati allora sono 100-120 su 400 dipendenti. A rivolgersi a Chiapparini sono però anche tanti svizzeri che non si fidano del pre-sidente della commissione. «I miei connazionali hanno sul lavoro meno problemi degli svizzeri. Perché quando c’è un problema si arrangiano da soli, non vogliono dirlo. Ma nei casi più gravi, quando si arriva al licenziamento, non si può fare più niente».

La realtà per i lavoratori stranieri è in effetti molto precaria. Specialmente per gli stagionali. Chiapparini ha un fratello che lavora come stagionale e alloggia in baracca. «Il mio primo impegno, ancor prima di entrare nel sindacato, è proprio quello di andare nelle baracche di diverse

Gli insegnamenti della baracca

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Aurelio Chiapparini racconta

Stagionale nell’angolo cucina di una baracca.

Foto: Uri Werner Urech/Archivi Sociali Svizzeri/SEI

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imprese edili per filmare le condizioni di vita e promuovere discussioni». Un impegno proseguito anche quale rappresentante del Consolato italia-no, come per esempio quando si tratta di trovare occupazione a profughi venuti dall’Irpinia dopo il terremoto del 1980 («una decina li ho ospitati a casa mia»). Le situazioni però non sono sempre molto chiare. Diversi stagionali preferiscono

quella vita precaria, in baracca, che consente loro di risparmiare quasi tutto il salario. Chiapparini passa quasi tutte le sere con loro: «Aver cono-sciuto gente di diverse regioni facilita il mio im-pegno successivo nel sindacato, nelle associa-zioni italiane, nella scuola». La sua maturazione avviene però, oltre che con le esperienze in fabbrica e nel sindacato, anche con la lettura quotidiana del Tages-Anzeiger (mentre il Blick «semplicemente non lo stimavo») e con la par-tecipazione in commissioni tramite le quali gli ambienti religiosi, sia cattolici che riformati, si occupano dei bisogni degli stranieri.

«Non conoscevo i riformati, ma così imparo a stimarli perché vedo che nel sociale si impegnano più di noi cattolici». E non finisce lì. Nel 1971 Chiapparini fonda il comitato dei genitori italiani di Wallisellen per aiutarli ad affrontare i problemi scolastici dei loro figli. Da lì, maturano contatti e conoscenze con le «Schulpflegen» (commissioni scolastiche comunali o circondariali) e con le altre autorità locali. Negli anni successivi Chiapparini progressivamente intensifica ed estende le sue attività: sempre impegnato come sindacalista, corrispondente consolare, animatore e presi-dente della sezione dei donatori italiani di sangue (Avis), presidente dell’ente che gestisce i corsi di lingua e cultura italiana in cinque cantoni e così via.

E in mezzo a tutto questo, riesce a metter su famiglia, comprarsi una casa, avere cinque figli, farli studiare (tutti con una formazione su-periore, in parte anche accademica) e ottenere la doppia cittadinanza per tutta la famiglia. Rimanendo sempre sé stesso, sempre operaio alla Reishauer, fino al pensionamento.

Testo pubblicato prima sul quindicinale «area».

«La realtà per i lavoratori stra-nieri è in effetti molto precaria. Specialmente per gli stagionali.»

Alloggio di uno stagionale italiano a Zurigo, 1961.

Foto: Keystone/Photopress-Archiv/Bruell5

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Per decenni in Svizzera si è applicato lo statuto dello stagionale: disciplinava l’immigrazione per-petrando una brutale discriminazione.

Ralph Hug

Dove lavoravano i primi stagionali italiani, giunti in Svizzera nel dopoguerra? Nell’agricoltura. I con-tadini svizzeri avevano bisogno di manodopera a buon mercato. Ma non appena si presentava l’occasione, i migranti optavano per un impiego più redditizio nell’edilizia. I contadini UDC, per non dover pagare salari più elevati, ripiegavano allora sulla manodopera proveniente da Spagna e Portogallo. Solo nel 1965 il vuoto giuridico in cui si trovavano i primi lavoratori agricoli provenienti dall’Italia è stato parzialmente colmato da un accordo tra la Svizzera e l’Italia che ha apportato diversi miglioramenti ai migranti: spese di viaggio pagate, la possibilità di cambiare il posto di lavoro o il prolungamento del permesso di soggiorno. Ciononostante, lo statuto dello stagionale ha conservato i suoi tratti simili all’apartheid e ha continuato a favorire la discriminazione dei mi-granti. È stato «Un capitolo vergognoso della nostra storia!», commenta Vasco Pedrina. L’ex copresidente di Unia ha lottato tutta la vita con-tro lo sfruttamento dei lavoratori migranti. Accusa l’UDC di danneggiare la Svizzera con la sua pro-posta di reintrodurre questo statuto di apartheid: «Lo statuto dello stagionale ha calpestato la digni-tà umana, spinto i salari verso il basso e spalan-cato le porte al dumping salariale». Pedrina rammenta qui sotto gli aspetti peggiorni.

Controlli sanitari alla frontieraLa polizia svizzera accoglieva i lavoratori alla fron-tiera. Per sottoporsi al controllo medico all’entra-ta in Svizzera, gli uomini dovevano mettersi in fila a torso nudo, con qualsiasi tempo. Chi non era

in buone condizioni di salute doveva tornare in-dietro. Solo nel 1992, grazie ad una campagna del SEI (Sindacato edilizia e industria), è stato possibile porre fine a queste degradanti ispezioni e sostituirle con una regolare visita medica.

BaraccheMolti stagionali non avevano una camera singola, ma vivevano in tre o quattro in una stanza di una delle numerose baracche, situate spesso alla periferia delle città. Negli anni Novanta, in un alle-gato al Contratto nazionale mantello dell’edilizia principale, il SEI è riuscito ad imporre che in una camera alloggiassero al massimo due persone, più tardi solo ancora una.

Cambiamento del posto di lavoroI lavoratori stagionali non avevano il diritto di cam-biare posto di lavoro, neppure in caso di licen-ziamento abusivo. Allora non restava altro che tornare a casa. Ciò provocava un’estrema dipen-denza dall’impresa.

FamigliaFino al 1965 non sussisteva alcun diritto al ricon-giungimento familiare. Poi è stato introdotto il per-messo di soggiorno annuale: prevedeva anche la possibilità del ricongiungimento familiare e del cambiamento del posto di lavoro, ma solo dopo aver lavorato ininterrottamente per cinque sta-gioni (in seguito quattro). Se una stagione non era completa, si ricominciava da zero. Molti datori di lavoro abusavano di questo sistema per impedire che i loro migliori collaboratori ottenessero un permesso di soggiorno annuale.

Bambini nascostiLe mogli dei lavoratori stagionali che avevano seguito i mariti e lavoravano come stagionali, soprattutto nel settore alberghiero e della risto-razione, avevano figli che vivevano in clandestinità e talvolta nascosti nei collegi.

Stagionali controllati alla frontiera a Basilea, 1989.

Foto: Felix Hilfiker/Archivi Sociali Svizzeri/SEI7

Baracche, bambini nascosti, sistema classista

L’apartheid svizzera

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Aurora Lama era una bambina nascosta

«La clandestinità è solitudine»Ore e ore da soli in casa, senza parlare con nes-suno, senza farsi vedere alla finestra. Ogni gior-no, tutti i giorni lavorativi, per mesi e anni. È il destino toccato in passato a migliaia di bambini, figli di lavoratori stranieri stagionali che non avevano il diritto al ricongiungimento familiare. Bambini che non potevano andare a scuola, farsi vedere in giro, scendere in cortile a giocare con gli altri. Un’infanzia da reclusi in casa.

Silvano De Pietro

Se ne parla in modo documentato nel nuovo libro «Bambini proibiti» di Marina Frigerio. Sono storie di clandestinità («tra illegalità e separazione» recita il sottotitolo), che rappresentano le con-seguenze dolorose di una politica di disprez- zo dei diritti umani, e che è opportuno ricordare adesso che l’UDC vuole reintrodurre lo statu- to dello stagionale.

Una di queste storie è la testimonianza di Aurora Lama, oggi 58enne, originaria della Galizia spa-gnola, giunta in Svizzera quando aveva 12 anni. «Fino ad allora ero vissuta in Spagna con la non-na», racconta Aurora, «perché quando avevo quattro anni, nel 1960, i miei genitori lasciarono la Spagna ed emigrarono, tutti e due da stagio-nali, nella Svizzera tedesca, a Olten. Mio padre lavorava nell’edilizia e mia madre nel settore alberghiero. Per sei anni non ho più visto i miei genitori, non sono mai ritornati in Spagna». In quanto stagionali, i genitori di Aurora dovevano lavorare nove mesi all’anno; ma, nei tre mesi rimanenti in cui teoricamente sarebbero dovuti rientrare in Spagna, continuavano a lavorare in nero presso le stesse ditte che faceva loro il contratto stagionale.

Per avidità di guadagno? No, spiega Aurora. «C’era un altro motivo per cui i miei genitori non rimpatriavano in quegli anni. In Spagna mio padre era un sindacalista. Per questo non trovava lavoro ed aveva un problema politico in quanto antifranchista. Solo quando avevo quasi undici anni, i miei genitori hanno voluto

provare a rientrare in Spagna: poteva darsi che dopo tutto quel tempo mio padre potesse tornare al paese senza avere ostacoli politici. Purtroppo non è andata così. Dopo un anno ha deciso di ritornare in Svizzera. Quella interruzione gli è però costata la perdita della possibilità di ottenere il permesso di soggiorno annuale e quindi il ricon-giungimento familiare».

Per poter ottenere il permesso B (di soggiorno annuale), che consentiva di portare con sé la fa-miglia, gli stagionali dovevano fare quattro sta-gioni di nove mesi, complete e consecutive. Se si interrompeva, anche brevemente, quella sequen-za di 36 mesi, bisognava ricominciare da capo. Ma dopo sei anni di separazione, la madre di Aurora decise che così non poteva continuare. «Non c’era più un legame familiare», ricorda oggi l’ex bambina nascosta, «i miei genitori allora erano per me degli sconosciuti, degli estranei. Ed io ero e sono rimasta figlia unica. Quindi hanno deciso che sarei venuta in Svizzera con loro, con tutte le conseguenze che questo poteva avere».

Rientrata in Svizzera, la famgilia si stabilisce a Losanna, dove il padre aveva ripreso a lavorare nell’edilizia, inizialmente ancora da stagionale. Quindi senza il permesso di avere con sé la famiglia. La madre aveva ottenuto dopo un anno il permesso B. Però le donne non potevano chiedere il ricongiungimento familiare, perché il

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«I miei genitori allora erano per me degli sconosciuti, degli estranei.»

Aurora Lama non dimentica il passato.

Foto: Michael Schoch

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Migliaia di figli di stagionali hanno dovuto vivere nascosti

per non essere scoperti dalle autorità.

Foto: «Siamo italiani», film di Alexander J. Seiler/Archivi Sociali Svizzeri11

costituito quasi solo da adulti, amici dei miei genitori, persone che non sempre sapevano che io ero clandestina». Ed Aurora non era certo la sola in quella condizione: «Ho conosciuto altri bambini che vivevano come me: nella scuola spagnola eravamo minimo una decina in una condizione simile alla mia». E questo, solo nella periferia di Losanna.

Ma un bel giorno, quando Aurora aveva 16 anni, la polizia venne in casa, in seguito a una denuncia definita «anonima» «e mi hanno dato 24 ore per lasciare il Paese». La madre ha allora accompagnato Aurora in Spagna, dalla nonna. «Lì sono rimasta tre mesi: nel frattempo mio padre aveva ottenuto il ricongiungimento fami-liare e sono tornata legalmente». I genitori non dovettero pagare una multa. «Comunque mio padre è stato aiutato, perché non aveva ancora tutte le carte in regola per riavermi qua. Forse era una persona considerata, nella ditta nella quale lavorava. E l’hanno aiutato», è la conclu-sione di Aurora. La ragazza ha poi avuto altre opportunità: ha fatto un apprendistato, ha im-parato le lingue e ha sposato uno spagnolo, anche lui sensibile alle tematiche politiche, so- ciali e sindacali.

La vicenda di Aurora Lama si è risolta bene. Ma quanti sacrifici è costata? Quanto sono costati l’isolamento, la sofferenza degli affetti negati, le inevitabili tensioni in famiglia? E quante altre storie non sono invece finite così bene?

Testo pubblicato prima sul quindicinale «area».

capofamiglia era sempre l’uomo. «E a quel pun-to sono diventata clandestina in Svizzera», sot-tolinea Aurora. Questo voleva dire, innanzitutto, non poter andare a scuola. E vivere una «nor-malità» molto ristretta «come, per esempio, non poter uscire di casa quando gli altri ragazzi era-no a scuola, perché altrimenti sarei stata nota-ta. I miei genitori lavoravano tutti e due, perciò passavo da sola tantissimo tempo: una cosa per me anche difficile. Però quando rientrava mia madre (che faceva il turno presto la matti-na per essere a casa già alle tre), allora potevo uscire, perché i ragazzi alle quattro finivano la scuola, e allora si andava a far la spesa, come una famiglia normale».

Nell’edificio nel quale abitava la famiglia Lama tutti gli altri inquilini erano svizzeri, e tutti sape-vano di questa cosa. «Però mai nessuno faceva domande», ricorda Aurora. «Sapevano che io ero sempre a casa, se non altro perché c’erano altre famiglie con bambini. Magari indiretta-mente i bambini chiedevano a me (ma più tardi, perché all’inizio non parlavo ancora il francese)

per sapere che cosa facessi, e io rispondevo che andavo alla scuola spagnola. Difatti andavo alla scuola spagnola la sera, due volte alla set-timana». Erano i corsi supplementari di lingua e cultura (storia e geografia) della Spagna per i figli degli emigrati spagnoli. «Comunque era una spiegazione molto vaga; la gente non era stupi-da e sapeva perché io rimanevo a casa», com-menta oggi Aurora.

Quel che invece non era normale era l’impos-sibilità di avere contatti con gli altri ragazzini, di andare a giocare con loro. «Il mio ambiente era

«La vicenda di Aurora Lama si è risolta bene. Ma quanti sacrifici è costata?»

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Toni Brunner, capo dell’UDC, chiede la reintro-duzione del deleterio statuto dello stagionale. Scandalizzato, il sindacalista Pedrina gli ha in-viato una lettera aperta.

Vasco Pedrina

Con l’iniziativa xenofoba «contro l’immigrazione di massa», Lei e il Suo partito chiedete l’isolamento della Svizzera. La forza del nostro Paese sta nella sua pluralità e nella sua apertura: voi la volete distruggere. Ho letto che Lei auspica addirittura la reintroduzione dello statuto dello stagionale.1 Io appartengo a quella generazione che per decenni si è battuta per abolire questo statuto. Lei a quei tempi era ancora in fasce. Evidentemente non sa di cosa parla: lo statuto dello stagionale ha calpestato la dignità umana, spinto i salari verso il basso e spalancato le porte al dumping sa-lariale. Non solo per gli italiani che hanno co-struito la galleria stradale del San Gottardo, le nostre autostrade e numerose dighe nelle Alpi svizzere. Ha portato al ribasso anche i salari dei lavoratori svizzeri. Lo statuto dello stagionale era dannoso per l’economia nazionale.

Quando ero segretario centrale al Sindacato edilizia e legno (SEL) ho visitato centinaia di cantieri svizzeri. Mi occupavo allora degli sta-gionali nell’edilizia: erano oltre il 60% dei nostri affiliati. Andavo nelle baracche e vedevo come erano costretti a vivere: dormivano stipati in quattro o in sei in condizioni deplorevoli. Ogni anno in marzo, quando iniziava la stagione, li vedevo alle frontiere. Colonne di uomini a torso nudo, in fila per ore al freddo in attesa della «visita sanitaria di confine». La polizia degli stranieri rimandava a casa i malati o quelli

poco robusti. Mi turbava profondamente il modo in cui si calpestava la dignità umana. Ogni volta mi vergognavo di essere svizzero.

Signor Brunner, adesso lei vuole tornare a quelle condizioni deplorevoli. Mi chiedo se sia mosso da cinismo o da ingenuità. Le mie colleghe, i miei colleghi ed io non tolleravamo quella realtà. Già negli anni ’70 abbiamo tentato quindi di far abolire lo statuto di stagionale, ma abbiamo perso la votazione. Ci siamo scontrati con l’oppo-sizione delle associazioni dei contadini, degli im-presari-costruttori e degli albergatori, che avevano dato vita ad una campagna di demonizzazione. I «Suoi» contadini, signor Brunner, non i «nostri». Sostenevano allora, seminando paura, che l’abo-lizione dello statuto dello stagionale sarebbe stata una catastrofe economica. Anche Lei e la sua UDC oggi state seminando paura. Paura degli stranieri, paura dei salari minimi e paura di una migliore protezione salariale.

Dopo quel risultato non ci siamo dati per vinti. Nel settembre del 1990, 20 000 persone hanno aderito a un’imponente manifestazione indetta nella Piazza federale a Berna. Da anni non si vedeva una partecipazione così numerosa a una manifestazione. Servì! Il nostro primo successo è stata l’abolizione della «visita sanitaria di con-fine». Poi siamo riusciti a facilitare anche il diritto al ricongiungimento familiare. Fino a quel momen-to gli stagionali dovevano aspettare spesso 10, 20 o più anni, prima di acquisire il diritto ad un permesso annuale e poter quindi portare moglie e figli in Svizzera. Signor Brunner, questa è l’amara realtà di un sistema che lei definisce «ottimo» e che intende reintrodurre.

Col tempo la nostra campagna d’informazione ha portato i suoi frutti. Sempre più persone si sono rese conto che lo statuto dello stagionale avvantaggiava solo le imprese deboli e poco pro-duttive dell’agricoltura, dell’edilizia e del ramo alberghiero. Quelle innovative e i rami con un el-evato valore aggiunto non ne traevano benefici.

«Signor Brunner, lei non sa di cosa parla»

Quattro italiani dormono in uno spazio di quattro

metri quadrati, Etzwilen (TG). Foto: Gregor Fust/RDB13

Lettera del sindacalista Vasco Pedrina

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Siamo riusciti anche a far sposare la nostra causa ai governi dei Paesi di provenienza della maggior parte degli stagionali. Siamo andati a parlare con Felipe Gonzalez, Giulio Andreotti e Mario Soares. Alla fine degli anni ’90 è giunto l’atteso verdetto: lo statuto dello stagionale veniva abolito.

A posteriori possiamo senz’altro affermare che è stato un bene per il Paese.Finalmente la Svizzera ha potuto liberarsi della

sua immagine di Paese freddo e xenofobo. Final-mente i salari sono aumentati nei rami in cui tradizionalmente lavoravano gli stagionali. Ne è un esempio l’edilizia, che oggi vanta salari buoni e nel passato era un settore con paghe basse. Quest’evoluzione è strettamente legata alla forza dei sindacati nell’edilizia. Nell’agricoltura non siamo forti, lo siete Lei e la sua UDC, e i salari sono miseri.

Contrariamente a quanto affermavate nella vostra campagna di allarmismo, l’abolizione dello statu-to dello stagionale non si è risolta in una cata-strofe. L’economia svizzera è riuscita ad aumen-tare in modo consistente la propria produttività, anche grazie alla manodopera qualificata estera che ha avuto la possibilità di venire in Svizzera.

Signor Brunner, mi auguro di cuore che lei non creda veramente a tutto quello che dice. Ma se così fosse, si ricordi che il suo appello per la reintroduzione dello statuto di stagionale non solo calpesta i diritti umani delle migranti e dei migranti, ma nuoce anche alle lavoratrici e ai lavoratori locali e alla nostra economia. Nuoce a tutta la Svizzera!

Vasco Pedrina

«Lo statuto dello stagionale ha spalancato le porte al dumping salariale.»

Un uomo si fa la barba nei servizi di una baracca, 1984.

Foto: Uri Werner Urech/Archivi Sociali Svizzeri/SEI15

Vasco Pedrina (63 anni) è vicepresidente dell’Inter- nazionale dei lavoratori dell’edilizia e del legno. Dal 2004 al 2006 era co-presidente di Unia e prima, a partire dal 1991, aveva presieduto il Sindacto edilizia e legno (SEL) e poi il Sindacato edilizia e industria (SEI), organizzazione confluita in Unia. Dal 1994 al 1998 ha condiviso con Christiane Brunner la presi-denza dell’Unione sindacale svizzera.

1 Il presidente dell’UDC Toni Brunner nel domenicale «NZZ am Sonntag» (24.11.2013): «Per settori stagio-nali come l’edilizia e l’agricoltura dovremmo reintro-durre lo statuto dello stagionale. Era un ottimo sis-tema. Purtroppo la politica prima lo ha annacquato e poi abolito».

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Christoph Blocher e Ulrich Schlüer erano i più fervidi sostenitori del regime razzista vigente in Sudafrica. Oggi i due ideologi dell’UDC lottano contro l’apertura della Svizzera.

Ralph Hug

Sul suo canale televisivo privato Teleblocher, il padre padrone dell’UDC, Christoph Blocher, si è espresso sulla morte di Nelson Mandela, libera-tore del Sudafrica. Per Blocher il sistema raz-zista dell’apartheid è una «cosa strana»: «que-sta discriminazione razziale ci è completamente estranea!», afferma. E aggiunge che i bianchi avrebbero «mantenuto l’ordine nel Paese». La segregazione razziale sarebbe comunque fon-data sulla reciprocità. Di Mandela l’ex ministro della giustizia dice che è un uomo «da molti anche sopravvalutato». «Ho visitato io stesso la casa di Mandela. Non la si può definire una catapecchia di lamiera», aggiunge.

Buoni affari con i razzistiBlocher non si smentisce: è amico e difensore di quel regime razzista al potere dal 1948 al 1994 in Sudafrica. È un regime che ha oppresso con violenza inaudita la maggioranza nera: ghetti neri e ville bianche, scuole e bagni pubblici separati, divieto di matrimonio tra bianchi e neri, ecc. Nel 1976, le Nazioni Unite dichiarano la segregazione razziale un crimine contro l’umanità e pronunciano sanzioni economiche. La Svizzera è l’unico Paese al mondo a non aderire alla politica delle sanzioni, adducendo motivi di neutralità. Le grandi banche, la Sulzer, la Ems-Chemie ecc. continuano a fare affari con questo infame regime. La Ems-Patvag di Blocher fornisce

dispositivi di accensione per munizioni e alcune ditte svizzere aiutato persino a costruire sei bom-be atomiche. Il tutto con il beneplacito della Amministrazione federale e del Consiglio fede-rale. Lo ha scoperto lo storico Peter Hug negli atti di quel periodo, che anche se sono trascorsi 50 anni il Consiglio federale continua a tenere sotto chiave. Hug, un esperto in materia di co-operazione tra la Svizzera e il regime sudafricano, spiega che «In Svizzera esisteva una forte volon-tà politica di sostenere a qualunque prezzo il governo dell’apartheid, perché in Sudafrica si sarebbe decisa la battaglia contro l’apparente avanzata del comunismo in Africa.1 » Uno che di-vulgava con convinzione e ingenti mezzi finanziari questa ideologia era il capo dell’Ems, Christoph Blocher. Nel 1982, l’allora Consigliere nazionale fondò il «Gruppo di lavoro Africa del Sud» (ASA), assumendone la presidenza fino al 1992. Il motto del gruppo: meglio l’apartheid che il comunismo.

Baracche e catapecchie di lamiera Questo gruppo di lavoro comprendeva alti gra-duati dell’esercito, imprenditori e politici, come ad esempio il divisionario Hans Wächter, Peter Sulzer della dinastia Sulzer di Winterthur, il Con-sigliere nazionale liberale Ulrich Bremi o il Con-sigliere agli Stati turgoviese e capo della Saurer, Hans Munz. In veste di segretario, Blocher aveva reclutato Ulrich Schlüer. Il politico UDC aveva fatto la gavetta come segretario del «movimento repubblicano» ideato dal populista di destra James Schwarzenbach. È interessante segnalare come oggi Schlüer e Blocher scendano di nuovo in campo insieme, questa volta contro l’Europa e l’Unione europea, nel comitato «No all’ade-sione strisciante all’UE». Gli amici dell’apart-heid e anticomunisti di allora sono gli isola- zionisti e gli xenofobi di oggi. Rivendicano l’intro-duzione dello statuto dello stagionale. Questo statuto disumano negli anni ’70 era la variante svizzera dell’apartheid: baracche sul Gottardo – catapecchie di lamiera a Soweto. Entrambi i concetti si fondano sulla medesima ideologia

Il lungo cammi-no di Blocher e Schlüer

Bambina a Durban, 1960. Panchina riservata ai bianchi.

Foto: Dennis Lee Royle/Keystone17

Fervidi sostenitori dell’apartheid

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segregazionista secondo cui esistono persone di seconda classe, esseri umani senza diritti. La continuità è eclatante. Vale pertanto la pena osservare più da vicino le argomentazioni di allora, per capire l’attuale politica dell’UDC. Il giornale sindacale «work» ha visionato i 180 bollettini del gruppo di lavoro di Blocher. Tra il 1982 e il 2001 venivano distribuiti a varie migliaia di indirizzi in Svizzera. Nel 1984, nel bollettino si leggeva: Dapprima i neri devono

staccarsi dal «grande tabù (animismo)», solo allora si potrà dare avvio in Sudafrica ad un pro-cesso di crescita. In altre parole, tutti i neri sono superstiziosi, quindi non sono cristiani. Nel 1985 il messaggio si fa esplicitamente razzista: «solo in casi eccezionali i neri avrebbero la capa-cità di pensiero, pianificazione e organizzazione a medio e lungo termine». Pio Eggstein, banchiere presso il Credito Svizzero (oggi CS), ritiene che la democrazia sia estranea ai neri. In occasione di un seminario del gruppo di lavoro, Eggstein con-tinua sulla stessa linea: il suffragio universale non farebbe che aiutare «ad imporsi gruppi in-competenti e assetati di potere». In Sudafrica, senza una classe dirigente bianca non sarebbe possibile alcun tipo di sviluppo economico. Il bollettino di Schlüer ama citare anche Robert Holzach, l’allora capo dell’Unione di banche svizzere (oggi UBS): giustifica i crediti al re-gime dell’apartheid spiegando che servireb-bero alla creazione di posti di lavoro per la po-polazione nera.

«Il terrorista Mandela»Benché il gruppo di lavoro di Blocher affermasse di impegnarsi a favore dei diritti della popola- zione «non bianca», il loro manifesto non perde occasione di diffamare il principio «one man, one vote» (un uomo, un voto). Le nostre «conce-

zioni di libertà e di uguaglianza di stampo euro-peo» non sarebbero trasferibili al Sudafrica, scrive il manifesto. Il suffragio universale non sarebbe applicabile al Sudafrica a causa dell’«incolmabile abisso di cultura e civiltà». In un’intervista con-cessa nel 1989 al settimanale «Schweizer Illu-strierte», Blocher stesso dichiarava che il suffra-gio universale avrebbe «gettato entro breve il Sudafrica in un caos sociale ed economico». Quando nel 1985 sono scoppiati i disordini nelle township nere, Ulrich Schlüer li ha ridotti a con-flitti tra bande giovanili rivali. Nel bollettino di Blocher, Nelson Mandela è sistematicamente definito un «terrorista». E il suo movimento, l’African National Congress (ANC), «una vera e propria associazione terroristica». Ancora nel 1990, all’uscita di prigione di Mandela, il bol-lettino di Schüler sminuiva l’importanza del difen-sore della libertà e della democrazia in Sudafrica. La stessa cosa che oggi, dopo la morte di Nelson Mandela, continua a fare il suo compagno d’armi, Christoph Blocher.

1 Wochenzeitung (WOZ), 12.12.2013.

«Lo statuto dello stagionale era una variante svizzera dell’apartheid.»

Studenti partecipano al funerale del collega

Philemon Tloana, morto in scontri con la polizia.

Johannesburg, 1977. Foto: anonimo/AP/Keystone19

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Pensate che le squallide baracche siano ricordi sbiaditi di un tempo lontano? No, vi sbagliate. An-che oggi le persone con un permesso di soggiorno di breve durata sono a volte costrette a vivere in condizioni deplorevoli. E’ il caso dei saldatori bosniaci che hanno partecipato alla costruzione dell’impianto d’ incenerimento della città di Berna.

Matthias Preisser

La casa dalla facciata coperta di macchie che si trova alla Bernstrasse 140, nel comune di Ostermundigen, alle porte di Berna, è ancora abitata. Lo si deduce solo dal cassonetto stra-ripante della spazzatura e dai nomi scritti a mano sulle cassette arrugginite delle lettere.Ci sono rifiuti ovunque. La porta d’entrata

è aperta. Entro e capisco perché. Un odore pungente di muffa e di escrementi animali toglie il respiro. Superando mobili rotti, rottami elettro-nici e altri rifiuti, accedo alla lavanderia. Non c’è quasi posto per fare asciugare il bucato. I rifiuti si accumulano quasi fino al soffitto.

In questa casa, la RM-LH, ditta bosniaca-slovena, alloggia tredici saldatori e fabbri dell’ex-Jugo-slavia. Vivono in tre appartamenti di tre locali. Circa quaranta dipendenti dalla RM-LH effettuano la saldatura delle tubature del nuovo impianto d’incenerimento della città di Berna, che fa parte del prestigioso progetto Forsthaus West, i cui costi sfiorano il mezzo miliardo di franchi. Com-mittente è Energie Wasser Bern (EWB), l’azienda pubblica di distribuzione di energia elettrica.

Uno dei saldatori mi fa entrare. È appena tor-nato dal lavoro. Sono le sei e mezza di sera.

Nell’appartamento ammobiliato di tre locali vi-vono cinque uomini. Due dormono in una came-ra da letto, tre nell’altra. La stanza è come un dormitorio con dei materassi. Ci sono macchie ovunque. L’interruttore della luce non c’è. Al suo posto dal muro sporgono alcuni cavi elettrici. In corridoio non c’è luce. Il parquet è pieno di buchi. Ad un armadio a muro mancano le ante. Una sedia è riparata con del nastro adesivo. Il televi-sore cade quasi a pezzi.

Mai visto niente di simileLavora da decenni nel montaggio in tutta Euro-pa, dice uno dei saldatori. «Ma una cosa del genere non l’ho mai vissuta. E per giunta nella bella Svizzera!» Il locatore è svizzero e chiede oltre 2000 franchi al mese per un appartamento

ammobiliato di tre locali. Al telefono si difende dicendo che il «prezzo turistico» è giustificato per-ché affitta gli appartamenti senza termine di disdetta, su richiesta. All’architetto e pianificatore conviene: abita a Muri, un comune fiscalmente vantaggioso, ha il suo ufficio nel quartiere più pre-stigioso di Berna e possiede uno chalet a Gstaad.

Sono condizioni insostenibili nella ricca Svizzera

«Ci sono macchie ovunque. L’interruttore della luce non c’è.»

Un po’ di «sfera privata» sul comodino.

Foto: Matthias Preisser21

Le baracche di oggi

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Lavoratori edili italiani durante la realizzazione del sottopassaggio alla stazione di Zurigo, anni ’60. Foto: Jürg Hassler/Gretlers Panoptikum, Zurigo

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L’UDC vuole braccianti a buon mercato per i suoi agricoltori. E l’Unione svizzera dei contadini va a cercarli in Jugoslavia, dal Maresciallo Tito.

Ralph Hug

Da due giorni lavoratori agricoli sono stipati in un vagone speciale del treno che da Belgrado è diretto a Buchs, nel canton San Gallo. Alcuni sono stati costretti a lasciare il loro Paese. Molti sono analfabeti. Nessuno parla tedesco. Non sanno dove andranno a finire e cosa li aspetta in Svizzera. Non conoscono il nome del futuro da-tore di lavoro. Così Lukas Mäder descrive la situazione. Lo storico zurighese ha studiato il fenomeno della migrazione della manodopera proveniente dal sud-est europeo.1 Un capitolo oscuro e ancora poco noto della storia svizzera.

La Jugoslavia esporta forza lavoroDal 1964, ogni anno dalla Jugoslavia giungono in Svizzera circa 300 stagionali. A quest’epoca, il Maresciallo Josip Broz Tito gestisce ancora saldamente lo stato socialista multietnico. Ed è interessato all’accordo con la Svizzera: la Jugo-slavia ha molti disoccupati, in particolare nel «povero» Kosovo. Il socialismo di Tito non prevede queste persone prive di lavoro. Per i burocrati di Belgrado la possibilità di «esportarli» cade dunque a proposito.Dal canto loro, i contadini svizzeri hanno urgente

bisogno di nuovi braccianti e aiutanti a buon mercato. Gli italiani, gli spagnoli e i portoghesi non convengono più perché sono divenuti troppo cari. L’Unione svizzera dei contadini chiede allora aiuto alla Confederazione che viene incontro a molte delle loro richieste: le autorità jugoslave

sono disposte a reclutare lavoratori in Serbia, Ko-sovo e Macedonia. In marzo o aprile arrivano in Svizzera e in dicembre devono ritornare a casa. Per decenni funziona così lo statuto dello stagio-nale: entrare in Svizzera, lavorare duramente e lasciare nuovamente il Paese. Ciò significa trascorrere nove mesi senza diritti, senza famiglia e senza sostegno.

Traffico disumano alla stazioneA Buchs, avviene il controllo sanitario alla frontiera e gli uomini sono incolonnati in attesa. Gli esami medici mirano ad escludere la presenza di tuber-colosi e sifilide. Un dipendente della stazione di Buchs è scioccato: «Sembra un trasporto di schiavi », riferisce al quotidiano zurighese «Tages-Anzeiger». Da Buchs il viaggio continua in treno o in autobus. L’Unione svizzera dei contadini ha un elenco: indica per ogni bracciante a quale conta-dino svizzero viene affidato e dove deve scendere.Nel Canton Turgovia i contadini vanno a prendere

i «loro» stagionali a Weinfelden. A Lucerna, gli ju-goslavi vengono distribuiti pubblicamente dietro alla stazione. I contadini che arrivano per primi possono scegliere. Quando l’opinione pubblica critica aspramente questa insostenibile pratica, simile a quanto avviene in un mercato di be-stiame, lo smistamento è trasferito in una sala di Emmenbrücke.Nessuno stagionale sa cosa lo attende in Sviz-

zera. Senza qualifica professionale, i braccianti non hanno vita facile nelle fattorie. Finché non hanno imparato a mungere, foraggiare gli animali e guidare il trattore, svolgono i lavori più umili, per 14 ore al giorno o anche più. Alla fine del mese ricevono quattrocento franchi. Il versa-mento del salario è spesso una questione pura-mente arbitraria: alcuni contadini «dimenticano» le ore straordinarie o detraggono troppo per vitto e alloggio. I controlli sono inesistenti, o quasi. Quando si sparge la voce che i braccianti italiani e spagnoli guadagnano di più, i lavoratori jugo-slavi rivendicano lo stesso salario. L’Unione dei contadini parla di «istigatori salariali».

Arrivo del primo gruppo di braccianti dalla Serbia,

stazione di Buchs (SG), 9 maggio 1964.

Foto: Keystone/Photopress-Archiv/Grunder25

Contadini svizzeri e i loro braccianti

E gli Jugoslavi sono arrivati in Svizzera

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Nostalgia di casa e vassazoniNelle fattorie disseminate nelle campagne sviz-zere, i braccianti vivono completamente isolati. Sono soli, perché spesso le aziende agricole assumono un solo stagionale, e pieni di nostal-gia. Nei giorni liberi percorrono molti chilometri in bicicletta per incontrare i connazionali.Le vessazioni sono all’ordine del giorno. Il brac-

ciante jugoslavo non è ammesso alla tavola di famiglia: deve mangiare i resti seduto da solo in un angolo. La stanza dove alloggia non è dotata di servizi igienici. Il contadino tuttavia si rifiuta di mettergli a disposizione un vaso da notte. Ad alcuni contadini particolarmente disumani, l’Unione dei contadini deve persino vietare di assumere nuovi braccianti.

L’oltraggio della carne di maialeLa maggioranza dei lavoratori jugoslavi è musul-mana e non mangia carne di maiale. Molti con-tadini svizzeri non sono disposti a rispettare le loro tradizioni religiose. Anzi, alcuni si divertono a mentire e servono ai loro dipendenti costolette, sminuzzato o carne impanata, affermando che è

carne di vitello. Lo storico Mäder racconta: un contadino svizzero serve carne di maiale e il suo dipendente la mangia. «Buona?», chiede il conta-dino.: «Sì, buona carne!», risponde. E il contadino: «È maiale …»Nell’Emmental, nel 1964, le angherie sfociano

persino in uno sciopero. Diciotto stagionali pro-venienti dalla Macedonia chiedono di tornare immediatamente a casa perché costretti a man-giare solo carne di maiale e a lavorare nei por-cili. Indignati e furenti, si riuniscono a Lützelflüh, nel cantone di Berna. Un rappresentante dell’am-basciata jugoslava li raggiunge, cercando di cal-mare gli animi. Ma inutilmente, i suoi connazionali non si lasciano convincere, sono determinati a

tornare a casa. Rifiutano il cibo, mangiano solo ancora pane e formaggio finché ottengono un biglietto di ritorno.

Solo nel 2002, parallelamente ai preparativi in vista della libera circolazione delle persone, viene abolito lo statuto di stagionale. Per decenni, la sinistra e i sindacati hanno lottato contro questo statuto. Nel settembre 1990, 20 000 persone hanno manifestato davanti a Palazzo federale contro questo trattamento disumano. È stata la più grande manifestazione di quegli anni.Non è rimasta senza conseguenze. Le autorità

svizzere hanno abolito i controlli sanitari alle frontiere. In seguito hanno agevolato il ricongiun-gimento familiare. Fino ad allora gli stagionali dovevano aspettare anche sino a 20 anni o più per ottenere un permesso annuale. Solo allora potevano fare venire in Svizzera moglie e figli. E oggi l’UDC vuole reintrodurre lo statuto dello stagionale.

1 Lukas Mäder, Braccianti jugoslavi dai contadini sviz-zeri. Lavoro di licenza dell’Università di Zurigo, 2007.

«Senza qualifica professionale, i braccianti non hanno vita facile nelle fattorie.»

Arrivo di stagionali a Buchs, marzo 1991.

Foto: Christine Seiler/Archivi Sociali Svizzeri/SEI27

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L’immigrazione passa dallo stomaco, come di-mostra la storia delle consuetudini alimentari svizzere.

Marie-Josée Kuhn

Vi ricordate della pizza svizzera? Quella crostata dura e spessa, guarnita da grosse fette di pomo-doro e ricoperta di Emmental o Gruyère? Allora avete più di 45 anni! E avete vissuto i tempi in cui in Svizzera non esisteva l’olio d’oliva? E neppure la mozzarella, il parmigiano, l’espresso, il panettone o i pelati? La Svizzera allora beveva caffè filtro (Melitta) quasi trasparente, mangiava cibi pesanti di origine contadina (cavolo rapa con besciamella), tanto burro e tanta panna, treccia, crauti, carote, cavolo e patate. A volte magari ravioli in scatola o spaghetti conditi col concentrato di pomodoro (quelle famose scatolet-te rosse della Hero!). L’ex-presidente del PS, Helmut Hubacher, nel libro «Tatort Bundeshaus» descrive così la ricetta degli spaghetti di sua nonna: «Si mettono gli spaghetti nell’acqua sa-lata, si aggiunge concentrato di pomodoro e for-maggio grattugiato e si fa cuocere il tutto per un’ora.» Il commento di Hubacher non stupisce: «un pastone disgustoso».

La dolce vitaLa storica zurighese Sabina Bellofatto, un’italia-na della seconda generazione, studia l’influenza della migrazione italiana sulle consuetudini alimentari svizzere.1 Ecco le sue conclusioni: «L’immigrazione italiana non ha portato a un’auto-matica diffusione della cucina italiana. La cre-scente xenofobia ne ha frenato l’avanzata». È vero che i prodotti italiani si sono diffusi rapida-mente, parallelamente al boom migratorio in-nescato negli anni Cinquanta, ma in particolare

tra il 1960 e il 1970, una parte della popolazione svizzera ha cominciato a guardare agli italiani come a una minaccia. Il populista di destra James Schwarzenbach ha fomentato la «paura dell’info-restierimento» con la sua politica xenofoba.Gli svizzeri non volevano però rinunciare ad

un po’ d’italianità. Ormai un numero crescente di famiglie poteva permettersi di passare le va-canze in Italia. A partire dalla metà degli anni Cinquanta è nato un vero e proprio turismo di massa verso l’Italia. Rimini e Riccione, sulle sponde dell’Adriatico, incarnavano l’ideale delle moderne vacanze balneari per le famiglie elveti-che. In Svizzera, il commercio al dettaglio faceva allora leva sulla «Dolce Vita» e sui ricordi delle vacanze per incrementare la vendita dei propri prodotti alimentari, ricorda Bellofatto. Quelli della Migros cominciavano a chiamarsi «Sugo», «Cara mia» o «Napoli», benché fossero fabbricati in Svizzera. I prodotti svizzeri e la cucina svizzera avevano poco a che vedere con quelli italiani, ma si vendevano meglio perché venivano as-sociati al «Belpaese». Nel 1987, nel suo primo libro di cucina italiana, Betty Bossi, la cuoca nazionale, doveva ancora spiegare cosa fossero l’olio d’oliva e la mozzarella. Solo a poco a poco gli alimenti dei migranti italiani sono finiti nei tegami elvetici.

Panettone al supermercatoNella graduatoria sul consumo di pasta, la Sviz-zera si attesta oggi al terzo posto, dietro Grecia e Italia. Molte varietà di pasta non solo hanno un nome italiano, ma vengono anche prodotte nella vicina penisola: a base di semola di grano duro e senza l’aggiunta di uova. La cucina medi-terranea è diventata la nostra cucina. L’olio d’oliva al posto di burro e strutto di maiale è anche più sano per il cuore.Al successo della cucina italiana hanno contri-

buito in particolare le pizzerie, spuntate come funghi all’inizio degli anni Settanta e poi nuova-mente negli anni Ottanta. Tale crescita è legata alla stabilizzazione dei permessi di soggiorno

Una Svizzera senza la pizza?

La pizza: emblema della cultura alimentare italiana.

Foto: stockcreations29

Cucina tipica

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concessi alla manodopera italiana. I negozi di specialità e i ristoranti italiani avevano invece già fatto la loro comparsa durante la prima ondata di migrazione, innanzitutto per offrire i prodotti di casa ai migranti. Erano anche un punto d’incontro. Basti pensare ad esempio al mitico «Cooperativo»: il primo ristorante italiano

a Zurigo, aveva aperto i battenti già nel 1906. Il «Coopi» è stato dapprima il ritrovo dei migranti antifascisti. Poi il luogo d’incontro della sinistra svizzera e dei sindacati. E quei sessantottini che si orientavano all’Italia hanno contribuito a rendere la pasta e il chianti (quello nel fiasco di paglia, per intenderci) ancora più popolari. E ac-compagnati da una canzone erano ancora più gustosi. Lucio Dalla e Francesco De Gregori can-tano insieme l’inno al gelato al limone. «Ah, non avere paura che sia già finita, ancora tante cose quest’uomo ti darà. E un gelato al limon, gelato al limon, gelato al limon, mentre un’altra estate passerà…»

L’immigrazione passa dallo stomaco, come mostrano anche gli scaffali di Coop e Migros. Dai piccoli negozi italiani le specialità del Bel-paese si sono diffuse nei supermercati, dove ad esempio prima di Natale troneggiano mon-tagne di panettoni. Cosa sarebbe la Svizzera senza pizza e senza pasta? Senza kebab, feta, falafel, paella, curry tailandese e involtini di pri-mavera? Grazie alla migrazione e alle vacanze, gli svizzeri non si limitano più solo alla cucina di casa propria.

1 Sabina Bellofatto: Buon appetito Svizzera!L’acculturazione della cucina italiana in Svizzera dagli anni «60» come riflesso della migrazione italiana.

«La cucina mediterranea è diventata la nostra cucina.»

Il Coopi di Zurigo è sin dal 1905 rifugio per migranti e antifascisti

italiani. In seguito diventa un importante punto per l’integrazione

degli italiani del Sud. Foto: Willy Spiller, 1971 31

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La libera circolazione delle persone con una maggiore protezione dei lavoratori è una con-quista storica approvata dei sindacati.

Paul Rechsteiner

Il 9 febbraio l’iniziativa dell’UDC contro la cosid-detta «immigrazione di massa» è approvata, anche se di stretta misura. Adesso la Svizzera rischia di ritornare ad un regime di contingenta- mento gestito dalla polizia degli stranieri, come prima degli Accordi bilaterali con l’UE. Con la sot-toscrizione di questi Accordi, la Svizzera riprende la libera circolazione delle persone in vigore a livello europeo. Vista l’importanza della posta in gioco, è utile guardare al passato prima di rivol-gere l’attenzione al futuro.

Inforestierimento come parola d’ordineDal 1890 al 1914 e dal 1946 al 1974, due lun-ghe fasi di prosperità, la Svizzera è terra d’immi-grazione. A partire dal 1890 la Svizzera cessa di essere un Paese di emigrazione per divenire terra d’immigrazione. Nel 1914, la quota di stra-nieri rispetto alla popolazione residente è del 16%. Nelle città la percentuale è anche molto più alta. Fino al 1914 vige il principio della libera circola-

zione delle persone. I sindacati si orientano all’in-ternazionalismo. All’inizio del Novecento, quasi la metà dei sindacalisti ha un passaporto straniero. Il termine «inforestierimento» appare per la pri-

ma volta all’inizio del ‹900› in un manifesto. Nel 1914 lo si ritrova in un rapporto delle autorità. È nel 1931 che il «grado di inforestierimento» en-tra a far parte della nuova legislazione svizzera sugli stranieri. Sin dall’inizio, questo concetto

reazionario è diretto contro il movimento operaio. Lo diventa in modo ancora più marcato dopo lo sciopero generale del 1918.

Terminata la Seconda Guerra Mondiale, la poli-tica ufficiale e quella sindacale imboccano una via radicalmente diversa. La polizia degli stra-nieri diventa il principale strumento di gestione del mercato del lavoro. I sindacati rivendicano

inizialmente una maggiore «priorità alla manodo-pera indigena» e, nel corso degli anni Cinquanta la limitazione delle ammissioni in Svizzera. A tale scopo auspicano l’applicazione di severi controlli da parte della polizia degli stranieri. Negli anni Sessanta, gli avversari dell’«inforestierimento», provenienti dall’estrema destra, diventano sem-pre più influenti. In quegli anni, s’impone ufficial-mente la politica di contingentamento richiesta dall’Unione sindacale.Le campagne per le votazioni mettono a dura

prova i sindacati. Particolarmente difficile si rivela nel 1970 la votazione sull’iniziativa Schwarzen- bach, (54% dei voti contrari, con un tasso di partecipazione maschile del 74%). I sindacati sono allora combattuti tra la richiesta di un’ul-teriore limitazione dei contingenti e quella della uguaglianza di trattamento e d’integrazione della manodopera straniera. Il concetto d’inforestieri-mento, originariamente applicato alla politica del mercato del lavoro, acquisisce quasi forzata-mente una dimensione culturale. Allora l’ostilità è diretta in particolare contro gli italiani del Sud.

Questo oscillare da una posizione all’altra con-tinua per anni, anche se ad esempio l’iniziativa «Essere solidali, per una nuova politica degli stranieri», lanciata nel 1974, introduce un nuovo tipo di rivendicazioni nel dibattito pubblico, come la richiesta di abolire lo statuto dello stagionale.

«A partire dal 1890 la Svizzera diventa un Paese d’immigrazione.»

Sostenitore dell’iniziativa Schwarzenbach, 1970.

Foto: Keystone

Dal contingentamento alla libera circolazione delle persone

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No al ritorno del regimediscriminatorio

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Solo negli anni Novanta, l’Unione sindacale si esprime a favore della libera circolazione delle persone. Tuttavia, unicamente a condizione che sia introdotta una nuova protezione non discrimi-natoria dei lavoratori. Il sindacato SEI (oggi parte di Unia), che conta un grande numero di migranti, riveste un ruolo centrale in questa evoluzione.

Una questione di potere, non di mercato È accertato che il sistema gestito dalla polizia degli stranieri conduce, in diversi rami professio-nali, a un mirato declassamento e a una brutale politica di bassi salari. Ne consegue una sistema-tica erosione della solidarietà, che si ripercuote su tutti i lavoratori. La discriminazione dei mi-granti provoca anche un abbassamento dei salari della manodopera indigena.D’altronde, non si può dire con certezza se

l’allora contingentamento abbia veramente fre-nato l’immigrazione. Dal punto di vista sindacale, gli effetti di que-

sta politica sono catastrofici. La spaccatura tra le classi è di gran lunga superiore alle scissioni politiche all’interno del movimento operaio. L’interazione tra la questione sociale e nazio-nale, legata al contingentamento, fa assurgere a problema le persone (straniere) invece delle condizioni di lavoro. Essa interpone un cuneo tra i lavoratori e ne mina la solidarietà. La politica di contingentamento presuppone l’esistenza di leggi di mercato e afferma che una riduzione dell’«offerta di manodopera» giova a tutti i «par-tecipanti al mercato». Essa dimentica però che le condizioni di lavoro e i salari non sono una questione puramente di mercato bensì soprat-tutto di potere. I salari troppo bassi delle donne ne sono a tutt’oggi un esempio eclatante.

I sindacati assumono un ruolo di primo piano nella conclusione degli Accordi bilaterali (com-presa la libera circolazione delle persone). Tratti i debiti insegnamenti dal no all’Accordo SEE (Spazio economico europeo) del 1992, richie-dono nuove misure non discriminatorie a prote-zione dei salari come condizione imprescindibile

all’approvazione della libera circolazione. Da al-lora, in Svizzera, sono applicate le cosiddette «misure di accompagnamento». È introdotto un sistema di controllo delle condizioni di lavoro e dei salari finora impensabile in Svizzera. La Con-federazione e i Cantoni introducono le cosiddette «commissioni tripartite»: osservano e controllano le condizioni di lavoro. In caso di dumping sala-riale, spetta a loro intervenire. Migliorano anche

le possibilità di dichiarare i contratti collettivi di lavoro di obbligatorietà generale. In caso di dum-ping salariale ripetuto, il Consiglio federale può pertanto dichiarare un contratto collettivo di la-voro di obbligatorietà generale per tutto un ramo professionale. Laddove non sono stati conclusi dei contratti, sussiste ora anche la possibilità di introdurre salari minimi statali (il cosiddetto con-tratto normale di lavoro). I nuovi salari minimi na-zionali applicati all’economia domestica ne sono un esempio.

Rispose sociali alle paure sociali Nell’attuale clima ostile e neoliberale, la prote-zione dei lavoratori è sottoposta a pressioni sempre maggiori, in Europa e nel resto del mon-do, e subisce un ulteriore smantellamento. In Svizzera riusciamo tuttavia a migliorare il grado di copertura dei contratto collettivi di lavoro. Com-plessivamente, i sindacati impediscono un’ulte-riore pressione sui bassi salari, grazie ai contratti collettivi di lavoro e alle campagne sul salario minimo. Progressi importanti sono raggiunti in particolare nei rami professionali che un tempo erano caratterizzati da salari particolarmente bassi, in cui erano impiegati innanzitutto lavora-tori stagionali, quali ad esempio l’edilizia o l’indu-stria alberghiera e della ristorazione. Motivo di preoccupazione rimane il rischio di

«Le condizioni di lavoro e i salari non sono una questione puramente di mercato bensì soprattutto di potere.»

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Un adesivo dell’iniziativa «Essere solidali».

Foto: Archivi Sociali Svizzeri/SEI

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dumping salariale e di sfruttamento: fenomeni che non sono purtroppo ovunque combattuti con la dovuta determinazione. Il capo dell’ufficio del lavoro cantonale zurighese, responsabile dell’at-tuazione delle misure di accompagnamento, de-finisce per esempio questa protezione come una «regolamentazione eccessiva e nociva».

Prima del 9 febbraio 2014, è stato fatale anche l’improvviso rifiuto dell’Unione degli imprenditori, di portare a termine i negoziati sui miglioramenti delle misure di accompagnamento. In occasione delle precedenti votazioni sul proseguimento della libera circolazione delle persone, le parti sociali avevano sempre dato prova della loro disponibilità a combattere gli abusi attraverso nuove misure d’accompagnamento.

L’approvazione dell’iniziativa dell’UDC ha portato alla luce non solo un clima generale di xenofobia, ma anche enormi paure sociali. Per rispondere alle paure sociali ci vogliono risposte sociali.

Noi sindacati ci battiamo pertanto per il prosegui-mento degli Accordi bilaterali. Ci battiamo però anche contro ogni nuova forma di discrimina- zione. I sindacati riflettono la vera Svizzera, in tutta la sua varietà. La ricaduta in una politica di contingentamento, in un nuovo statuto dello sta-gionale, non solo sarebbe insensata in un’ottica economica, ma costituirebbe anche una regres-sione storica, sia sul piano sociale che politico.Ci vogliono nuove risposte sociali ai problemi

sociali. Rivendichiamo una maggiore protezione dei salari. La lotta al dumping salariale va presa sul serio ovunque.

Infine ci vogliono urgenti misure a favore di una migliore conciliabilità tra lavoro e famiglia e contro la discriminazione della manodopera più anziana. L’esito delle future votazioni popolari dipenderà dalla credibilità delle risposte ai problemi sociali. La posta in gioco è alta per il futuro della Svizzera.

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Manifestazione nazionale contro il dumping salariale e il

furto delle rendite, Berna, 21 settembre 2013. Foto: Unia

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1934 La Svizzera introduce lo statuto dello sta-gionale. Esso permette alle imprese di assumere lavoratrici e lavoratori stranieri per una stagione. Durante questo periodo non possono cambiare né il posto di lavoro, né il domicilio, né far venire la propria famiglia in Svizzera. Gli stagionali sono poi costretti a lasciare nuovamente il Paese.

1947 L’economia è in una fase di grande espan-sione. La Svizzera ha urgente necessità di mano-dopera, ma vuole impedire che si stabilisca nel nostro Paese. I datori di lavoro cominciano a reclutare in grande stile lavoratori stagionali, in particolare in Italia.

1949 La durata massima di soggiorno per gli stagionali viene ridotta a 9 mesi.

1963 Su pressione del partito di estrema destra Azione Nazionale, il Consiglio federale introduce il contingentamento. Ogni Cantone ha ora diritto a una quota massima di lavoratori stagionali.

1965 Lo scrittore Max Frisch critica la politica svizzera: «Abbiamo chiamato braccia e sono ar-rivati uomini.»

1970 Il 46% dei votanti approva l’iniziativa Schwarzenbach: intendeva ridurre al 10% la percentuale della popolazione straniera in Svizze-ra. 300 000 stranieri avrebbero dovuto andarsene.

1974 Con l’arrivo della crisi economica, la Svizzera esporta la propria disoccupazione: fino all’inizio degli anni Ottanta, circa 200 000 lavoratorici e lavoratori straniere/i devono rien-trare nel Paese d’origine.

1982 L’iniziativa della sinistra «Essere solidali - per una nuova politica degli stranieri» ottiene solo il 16% dei voti.

1991 La Svizzera introduce il modello dei tre cerchi. Per le persone provenienti da Stati che non fanno parte dell’UE o dell’AELS non è quasi più possibile immigrare legalmente. Lo statuto di stagionale si applica solo ancora ai cittadini UE/AELS.

2002 Entra in vigore la libera circolazione delle persone con l’UE. Ciò segna la fine definitiva del-lo statuto dello stagionale. Per questa ragione e grazie alle misure di accompagnamento, i salari nell’edilizia registrano un consistente aumento.

Storia dello statuto dello stagionale

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Immagine nella copertina finale: Cucina e mensa in una baracca, 1984.

Foto: Uri Werner Urecht/Archiovo Sociale Svizzerao/SEI

ImpressumEditore: Sindacato Unia,Weltpoststrasse 20, 3000 Berna 15

Redazione: Anna Luisa Ferro Mäder, Philipp Zimmermann

Foto scelte da: Thomas Adank

Impaginazione: Atelier Adrian Zahn, Berna

Traduzioni: Barbara Iori, Barbara Winistörfer

Stampa: Multicolor Print AG, Baar

Tiratura: 1000 esemplari

Speciale ringraziamento a: Archivi Sociali Svizzeri; Nina Seiler; Marilia Mendes; Jürg Hassler; Rotpunktverlag; Vanessa de Maddalena (Keystone); Denis Martin (RDB)

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