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Georges Didi-Huberman Un’etica delle immagini Premessa PER UN’ETICA DELLE IMMAGINI Georges Didi-Huberman Rendere un’immagine Laura Odello Nota sulla politica delle sopravvivenze Raoul Kirchmayr Abitare il visibile Pietro Montani Apertura e differenza delle immagini Andrea Pinotti Pazienza del dissimile e sguardo pontefice Antonio Somaini Montaggio e anacronismo Ludger Schwarte Etica dello sguardo. Didi-Huberman e la visione tattica Emanuele Alloa Il pensiero fasmide RIPENSARE WARBURG Georges Didi-Huberman Epatica empatia. L’affinità degli incommensurabili in Aby Warburg Davide Stimilli Il pentimento di Warburg Sigrid Weigel La “dea in esilio” di Warburg Paulo Barone Un groviglio di serpenti vivi Bibliografia di Georges Didi-Huberman 348 ottobre dicembre 2010 3 6 28 32 45 66 84 101 121 132 153 177 203 211

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estratti dal n. 348 di "aut aut": "Georges Didi-Huberman. Un'etica delle immagini"

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Georges Didi-HubermanUn’etica delle immagini

Premessa

PER UN’ETICA DELLE IMMAGINIGeorges Didi-Huberman Rendere un’immagineLaura Odello Nota sulla politica delle

sopravvivenzeRaoul Kirchmayr Abitare il visibilePietro Montani Apertura e differenza delle

immaginiAndrea Pinotti Pazienza del dissimile e sguardo

ponteficeAntonio Somaini Montaggio e anacronismoLudger Schwarte Etica dello sguardo.

Didi-Huberman e la visione tatticaEmanuele Alloa Il pensiero fasmide

RIPENSARE WARBURGGeorges Didi-Huberman Epatica empatia.

L’affinità degli incommensurabili in Aby Warburg

Davide Stimilli Il pentimento di WarburgSigrid Weigel La “dea in esilio” di WarburgPaulo Barone Un groviglio di serpenti vivi

Bibliografia di Georges Didi-Huberman

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951

direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Paulo Barone, Graziella Berto, Giovanna Bettini,Laura Boella, Deborah Borca (editing, [email protected]),Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago,Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr,Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo,Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia,Davide Zoletto

direzione: via Melzo 9, 20129 Milano

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete,M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne,V. Vitiello, S. !i"ek

per proposte di pubblicazione: [email protected] fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testidi ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.p.A.Via Melzo 9, 20129 Milano www.saggiatore.it

ufficio stampa: [email protected]

abbonamento 2011: Italia ! 60,00, estero ! 76,00L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”.L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente larettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l. responsabile dati, Via Borghetto 1, 20122 Milano (ai sensi della L. 675/96).

servizio abbonamenti e fascicoli arretrati: Picomax s.r.l., Via Borghetto 1, 20122 Milanotelefono: 02 77428040 fax: 02 76340836e-mail: [email protected] www.picomax.it

Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951Proprietà: Francesca Romana PaciStampa: Lego S.p.A., Lavis (TN)

Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Finito di stampare nel dicembre 2010

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Premessa

Da alcuni anni in Italia i libri di GeorgesDidi-Huberman ricevono una crescenteattenzione, soprattutto dopo la tradu-

zione di due saggi come Immagini malgrado tutto e L’immagineinsepolta che si sono inseriti in dibattiti già molto vivaci e che,partendo da problemi di estetica, la oltrepassano ampiamente: ilprimo perché prende posizione sulla questione delle fonti stori-che, sul valore della testimonianza e sull’archiviazione dell’e-vento (nel caso specifico la Shoah); il secondo perché ha fornitoulteriori importanti tasselli per una rilettura critica dei percorsidi ricerca di Aby Warburg, anche in contrapposizione alla co-siddetta “scuola warburghiana”.

In virtù della sua capacità di focalizzare e di lavorare con ac-curatezza le diverse problematiche dell’immagine, e di un meto-do che si nutre costantemente di apporti provenienti da discipli-ne diverse, la presenza di Didi-Huberman si è di conseguenza im-posta anche a una cerchia di lettori più ampia rispetto a quella de-gli specialisti (storici dell’arte, iconologi e studiosi di estetica). Ilfatto poi che le sue ricerche sulla storia dell’arte italiana e alcunitra i suoi saggi rivisitassero i motivi di una Kulturgeschichte per laquale, storicamente, in Italia si è rivolta più attenzione che in Fran-cia, ha senza dubbio contribuito a stringere ulteriormente il lega-me tra lui e il nostro paese.

Queste sono alcune delle ragioni per le quali “aut aut” ha rite-nuto fosse giunto il momento di aprire uno spazio di dialogo con

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Didi-Huberman per provare a costruire e mettere alla prova del-le ipotesi di lavoro che si richiamassero ai suoi temi. Ne è nata unasorta di laboratorio, arricchito da due saggi inediti dello stessoDidi-Huberman, dove ciascun intervento si confronta con i suoiscritti e con i suoi modi di affrontare le questioni dell’immagine,così decisive per la nostra cultura, contribuendo a riprenderle erilanciarle. [R.K., L.O.]

Georges Didi-Huberman è filosofo e storico dell’arte. Nato nel1953, insegna all’École des hautes études en sciences sociales a Pa-rigi. È stato ospite a Roma presso l’Accademia di Francia, a Fi-renze presso la Villa I Tatti (Harvard University Center for ItalianRenaissance Studies) e a Londra presso la School of AdvancedStudy e il Warburg Institute. Ha insegnato in numerose universitàeuropee e nordamericane (Johns Hopkins, Northwestern, Berke-ley, Courtauld Institute, Berlino, Basilea...). Ha ricevuto due pre-mi dell’Académie des beaux-arts (Parigi), il premio Hans Reimerdella Aby-Warburg-Stiftung (Amburgo), il Premio Napoli, il pre-mio Humboldt (Berlino). Ha pubblicato numerose opere sulla sto-ria e la teoria delle immagini e ha curato varie mostre, tra cui L’Em-preinte al Centro Georges Pompidou (Parigi, 1997), Fables du lieuallo Studio national des arts contemporains (Tourcoing, 2001) eAtlas al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía (Madrid,2010).

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Per un’etica delle immagini

Nei lavori di Didi-Huberman l’immagine è messa inquestione da una molteplicità di prospettive. I contributiche qui presentiamo si concentrano su alcuni apportimetodologici e di contenuto che caratterizzano i suoipercorsi. Ciò che ne emerge è un tratto di fondo che – prendendo inprestito un’espressione dello stesso Didi-Huberman –proponiamo di chiamare “un’etica delle immagini”. Il temaviene aperto da un suo saggio inedito, dedicatoall’immagine cinematografica in Jean-Luc Godard e inHarun Farocki e all’importanza del “rendere” le immagini.

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Rendere un’immagine

GEORGES DIDI-HUBERMAN

Molto spesso le domande più ingenue na-scondono in sé le risorse necessarie apercepire la reale complessità delle co-

se. È ancora il “pensiero grossolano” a rivelarsi il più favorevo-le – come riteneva Walter Benjamin commentando la pedagogiaparadossale di Bertolt Brecht nei suoi montaggi epici1 – a solle-citare una visione dialettica, più sottile, di queste cose comples-se che sono le immagini. Per esempio, non è mai inutile tornarea domandarsi di cosa esattamente un’immagine sia l’immagine, aprescindere dagli aspetti che per primi si rendono visibili in es-sa, dalle evidenze che si manifestano, dalle rappresentazioni chesi impongono. Tale domanda ha inoltre il vantaggio di risveglia-re l’interesse per il come delle immagini, altra questione crucia-le. Resta poi la questione stupida – e crudele, in realtà: intendola questione politica – che consiste nel sapere a chi appartengo-no le immagini. Si dice [in francese]: “prendere una foto” [pren-dre une photo]. Ma ciò che si prende, a chi lo si prende esatta-

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Questo testo fa parte di uno studio più ampio dedicato al lavoro di Harun Farocki e intito-lato Ouvrir les temps, armer les yeux: montage, histoire, restitution. È stato scritto in seguitoa un dialogo pubblico con l’artista (Dispersion und Montage. Ein Gespräch zwischen GeorgesDidi-Huberman und Harun Farocki), che ha avuto luogo a Basilea (Schaulager-Universität-Eikones NFS Bildkritik) il 9 settembre 2008, su invito di Ludger Schwarte e Theodora Vi-scher. Il testo fa oggi parte del mio Remontages du temps subi. L’œil de l’histoire, 2, Minuit,Paris 2010.

1. Cfr. W. Benjamin, “Il romanzo da tre soldi di Brecht” (1935), in Opere complete, vol.VI: Scritti 1934-1937, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2004, pp. 242-243.

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mente? Lo si tiene veramente? E non occorre forse renderlo achi spetta di diritto?

Nel suo antico senso, legato all’antropologia politica del mondoromano all’epoca della Repubblica, l’imago – tralasciamo per ilmomento l’eikon greca, che è tutta un’altra faccenda – pone im-mediatamente la questione della sua presa e quella della sua resti-tuzione. Il gesso “rapprende” sul volto del morto, occorre poi “ri-tirare” il calco, fondervi la cera calda per ottenere una tiratura [ti-rage] e, a mano a mano che le nuove generazioni si portano via leimmagini degli antenati, occorre poi “tirare” di nuovo altre copie,affinché l’immagine, così riprodotta, assicuri la propria funzionedi trasmissione genealogica e onorifica. Proprio perché l’immagi-ne è, in tal senso, un oggetto di culto privato – gli antenati, i mor-ti, la famiglia – e al tempo stesso un oggetto di culto pubblico – il“diritto alle immagini” è infatti concesso a seconda della posizio-ne che occupa l’antenato nella res publica, e l’esposizione delle ima-gines è uno spettacolo pubblico nell’ambito delle “pompe fune-bri” o dei riti di sepoltura –, si può dire che essa istituisca la que-stione della somiglianza al di fuori di ogni sfera “artistica” in quan-to tale. Essa appare piuttosto come un oggetto del corpo privato(il volto stesso di colui di cui si realizza l’immagine) restituito allasfera del diritto pubblico.2

E oggi? Vilém Flusser, nel suo articolo su Il politico nell’era delleimmagini tecniche, descrive la situazione odierna nel modo se-guente: “In precedenza, le informazioni venivano rese pubblichenello spazio pubblico e gli uomini dovevano lasciare la loro casaper pervenire a esse [...], gli uomini erano ‘politicamente impe-gnati’, che lo volessero o meno. Oggi però le informazioni sonotrasmesse direttamente da spazi privati a spazi privati e gli uomi-ni devono starsene a casa per pervenire a esse [...]. La gente di-venta ‘politicamente disimpegnata’, perché lo spazio pubblico, il

2. Cfr. G. Didi-Huberman, “L’immagine-matrice. Storia dell’arte e genealogia della so-miglianza” (1995), in Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), trad. di S. Chiodi,Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 59-81.

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forum, diventa inutile. In questo senso si afferma che il politico èmorto e che la storia trapassa nella post-storia in cui nulla più pro-gredisce e tutto si limita ad accadere”.3 Si potrebbe anche dire chel’illusione maggiore prodotta da un tale “apparato di stato” delleimmagini è il fatto che nulla accade [se passe] nel mondo che nonsia già stato fatto passare in televisione.

Che fare per restituire qualcosa alla sfera pubblica al di là deilimiti imposti da un tale apparato? Occorre istituirne i resti: pren-dere alle istituzioni ciò che esse non vogliono mostrare – lo scar-to, il rifiuto, le immagini dimenticate o censurate – per renderlo achi spetta di diritto, vale a dire al “pubblico”, alla comunità deicittadini. È proprio ciò che fa Harun Farocki quando ci mostra,nei suoi film o nelle sue installazioni, degli insiemi di immagini chenon erano destinate a essere rese pubbliche. Per esempio, in EinBild (1983), assistiamo alla lenta fabbricazione in tempo reale –noiosa come può esserlo qualunque processo artigianale visto dal-l’esterno – di un’immagine erotica per la rivista “Playboy”; in Vi-deogramme einer Revolution (1992), assistiamo al rovesciamentopolitico delle immagini nel contesto stesso della televisione di sta-to durante gli avvenimenti del 1989 in Romania; in Gefängnisbil-der (2000), si vedono delle immagini che non sarebbero mai do-vute uscire dagli archivi di certe prigioni americane; in Die Schöp-fer der Einkaufswelten (2001), scopriamo delle decisioni di marke-ting destinate a farci strumentalizzare dallo spazio stesso dei no-stri supermercati; infine, in Immersion (2009), Farocki ci offre glistrumenti per prendere posizione su certe tecniche militari di “te-rapia psichica”, appositamente concepite affinché risulti impossi-bile valutarle, o perché le si subisce, o perché le si ignora.

Harun Farocki viene spesso interrogato sul suo modo di prendere,ottenere, manipolare queste “immagini operative” del mondoscientifico, commerciale, sportivo, politico o militare. “Dove pren-de questi materiali?” gli si domanda. E Farocki – con una malizia

3. V. Flusser, “Il politico nell’era delle immagini tecniche” (1990), in La cultura dei me-dia, trad. di T. Cavallo, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 144.

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Nota sulla politica dellesopravvivenze

LAURA ODELLO

Il testo qui tradotto, Rendere un’immagine, ètratto dall’ultimo libro di Georges Didi-Hu-berman appena uscito in Francia, Remonta-

ges du temps subi. L’œil de l’histoire, 2, e dedicato al lavoro delcineasta e artista tedesco Harun Farocki. Montando e rimon-tando documenti visivi che testimoniano della violenza politicadel nostro tempo, Farocki, sostiene Didi-Huberman, restituiscele immagini a chi spettano di diritto, cioè a tutti noi. Ce le ren-de, dunque, dopo averle modestamente e pazientemente rimon-tate in un lavoro che non cancella la sofferenza o l’ingiustizia chele ha prodotte, e dove trova forma (artistica e politica) la collerache tale sofferenza ha suscitato. Immagini rese a noi, ai nostriocchi, perché possano aprirsi sulla violenza del mondo.

Che l’immagine implichi un gesto politico, è ciò che GeorgesDidi-Huberman sembra suggerirci da qualche tempo. Per questostesso fascicolo di “aut aut”, un titolo (poi modificato) si era finda subito imposto: Politica delle sopravvivenze. Attraverso il lavo-ro di Georges Didi-Huberman. L’idea era infatti di sollecitare unariflessione intorno alla ricerca estetica di Didi-Huberman a parti-re dalla piega sempre più politica che segna la sua recente produ-zione. Basti pensare agli ultimi tre testi dati alle stampe tra il 2008e il 2010: Quand les images prennent position, Remontages dutemps subi (inediti in Italia, rappresentano i primi due saggi di unaserie intitolata L’œil de l’histoire, il primo dedicato al lavoro di Ber-tolt Brecht, il secondo, come già detto, a quello di Harun Farocki)

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e il piccolo testo Survivance des lucioles, tradotto già da qualchemese in italiano con il titolo Come le lucciole. Una politica delle so-pravvivenze. Piega politica che appare ora delinearsi in modo sem-pre più evidente, ma che già si annunciava e si preparava in testiprecedenti, da Devant l’image. Question posée aux fins d’une hi-stoire de l’art (1990) fino a Immagini malgrado tutto (2003).

Pur nel ristretto spazio di una nota, sarei tentata di risponderea quel primo titolo e di invitare a prenderlo sul serio, a rileggerecioè il recente lavoro di Georges Didi-Huberman alla luce dell’e-spressione “politica delle sopravvivenze”, e a domandarsi che neè della politica nelle immagini e nel lavoro sulle immagini: que-stione immensa, certo, che richiederebbe una minuziosa e atten-ta lettura dei testi e che evidentemente supera lo spazio consenti-to da queste poche righe. Mi limito pertanto a indicare, in modosommario, due ipotesi o piste provvisorie.

Da un lato, l’immagine è politica, ci dice Didi-Huberman, per-ché essa è montaggio, ossia perché smonta, ricompone, rimonta,e così facendo analizza, contesta, critica, emancipa. I suoi recentilavori ne sono un perfetto esempio. In Quand les images prennentposition, Georges Didi-Huberman ci fa vedere, attraverso Brecht,come il montaggio implichi una presa di posizione politica: nel suoDiario di lavoro o in L’abicì della guerra, Brecht monta, smonta, ri-taglia e ricompone immagini e testi per rappresentare la guerra,creando un vero e proprio atlante di immagini dialettiche. Il la-voro di montaggio consiste nel dislocare e nel disorganizzare leimmagini e il loro ordine di apparizione, e nel rimontarle altri-menti: il montaggio infatti separa le immagini per avvicinarle, ledistanzia per accostarle, le interrompe per ricomporle nel puntostesso “del loro più improbabile rapporto”.1 In tal modo esso smon-ta l’ordine del discorso e permette una ricomposizione critica del-la storia, che disorganizza i nessi più evidenti per riscriverli in unanuova configurazione, in un nuovo ordine o piuttosto disordine(che Didi-Huberman definisce con un neologismo: dysposition)delle cose. Il montaggio diventa dunque un operatore politico, in

1. G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position. L’œil de l’histoire, 1, Minuit,Paris 2009, p. 94.

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quanto capace di mostrare “nelle immagini come il mondo appa-re, e come si deforma”.2

Insomma, bisognerebbe forse rileggere Hannah Arendt – sem-bra suggerirci Didi-Huberman – che, scorgendo nell’estetica kan-tiana il principio di una politica possibile, ci ricorda che l’im-maginazione è politica. Ma sono soprattutto Walter Benjamin eAby Warburg i pensatori che gli offrono i principali strumentifilosofici per pensare una politica delle sopravvivenze.

È infatti Benjamin che invita a pensare le immagini dialettiche,queste figure discontinue, istantanee e fugaci, questi singulti deltempo in cui la storia contraendosi si rende visibile come una pal-la di fuoco che sfonda l’orizzonte del passato e cade verso di noi.Ed è sempre Benjamin a suggerire a Georges Didi-Huberman chetali immagini lampo – in cui pulsa, fragile, la luce intermittente diun conflitto del tempo, di una tensione tra passato e presente – so-no un modo per organizzare il pessimismo, dunque anche persmontarlo e contestarlo. Spetta invece a Warburg (come Didi-Huberman ha ben illustrato in L’immagine insepolta. Aby War-burg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte) il merito di avermostrato il ruolo costitutivo delle sopravvivenze nella cultura del-le immagini, e la funzione politica della memoria.

In tal senso, le immagini sono come le lucciole, fragili e pas-seggere, minuscoli lampi di luce, barlumi di speranza che illumi-nano a intermittenza. Quelle stesse lucciole che Pasolini non riu-sciva più a vedere e che Didi-Huberman invita invece a ritrovarenell’oscurità: esse sono le sopravvivenze che resistono alla luce ab-bagliante del potere. Anche se deboli, fragili, instabili, occorre sa-perle cercare nelle zone d’ombra, nei margini bui del vedere. Lelucciole infatti non sono scomparse, esse funzionano a intermit-tenza, e in questa loro fragilità consiste tutta la loro forza, la lorocapacità di sopravvivere e riapparire ogni volta.

Da un lato, dunque, il lavoro di Georges Didi-Huberman ciconduce su una prima pista: le immagini sono operatori politicicapaci di disegnare sempre nuove configurazioni. Il loro montag-gio/smontaggio/rimontaggio permette di pensare il vedere come

2. Ivi, p. 256.

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Apertura e differenza delle immagini

PIETRO MONTANI

1. Vorrei proporre qualche riflessione sul concetto di “immagineaperta”, cui Georges Didi-Huberman ha dedicato di recente un’im-portante raccolta di saggi1 che ne attestano la centralità e la pro-duttività nell’ambito dell’originale dispositivo teorico di cui egli siserve nelle sue indagini sulle arti visive.

Centralità e produttività teoriche, va sottolineato. Perché l’im-magine aperta non designa “un semplice tema da trattare ico-nograficamente o tipologicamente”2 ma un “fatto di struttura”.Né può essere intesa come una metafora escogitata per figurareil gesto che disvelerebbe il contenuto spirituale dell’immaginesensibile. Didi-Huberman sa bene, infatti, che l’“immagine sen-sibile” non è che una compagine di differenze interne che nonha alcun bisogno di rinviare a un’idealità – l’ordine dei signifi-cati – che le sarebbe difforme per natura e per rango. Un ordi-ne trascendente, cioè, nel senso platonico del termine – o nel sen-so delle infinite risorgenze del platonismo lungo tutta la specu-lazione sulla cosiddetta “storia dell’arte” (e anche altrove, natu-ralmente...).

È sotto il profilo di un’antropologia filosofica, piuttosto, chel’“apertura” delle immagini andrà riferita all’azione di un corposensibile e senziente (visibile e vedente). Un corpo estatico, o “dei-scente”, come lo definiva l’ultimo Merleau-Ponty (richiamato da

1. G. Didi-Huberman, L’immagine aperta (2007), Bruno Mondadori, Milano 2008.2. Ivi, p. 6.

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Didi-Huberman) introducendo il concetto fenomenologico di“carne”. Ciò significa che l’incarnazione ne è l’ambito essenziale.Un ambito di relazioni interne – o meglio, estatiche – emancipa-to da ogni residuo di quella relazionalità metafisica (esterio-rità/interiorità, corpo/anima, sensibile/intelligibile ecc.) che infor-ma l’interpretazione metaforica – e infine anche quella iconogra-fica – dell’apertura.

Che genere di relazioni? Didi-Huberman ne indica tre sottoli-neandone il comune rapporto con un tempo anacronico: l’im-pensato, il sintomo, la sopravvivenza (il warburghiano Nachleben).Delle tre è la prima – l’impensato – quella che qui mi interessa dipiù. Non solo perché alle altre due Didi-Huberman ha dedicatoun’ampia, e decisiva, riflessione che ora ci autorizza, o ci invita, aripercorre sotto il segno dell’apertura delle immagini. Ma ancheperché, grazie alla sua maggiore generalità e necessaria indeter-minatezza, l’impensato rende disponibile un collegamento con iltema delle riflessioni che vorrei proporre. È un collegamento chepassa per Lacan, ma che ha una latitudine filosofica più ampia, co-me del resto sapeva per primo Lacan stesso e come sa Didi-Hu-berman nel momento in cui lo cita.

Il passo in questione va riportato integralmente:

L’espressione immagine aperta mira a un’economia molto par-ticolare dell’immagine – la maggior parte delle immagini che cicircondano non ci propongono che schermi, tappabuchi, su-ture a opera del sembiante [sutures par le semblant] – nella qua-le forme, aspetti, somiglianze si lacerano e lasciano apparire, dicolpo, una dissimiglianza fondamentale. È allora che, secondola profonda osservazione di Lacan nel suo commento al “So-gno dell’iniezione di Irma”, “il rapporto immaginario raggiun-ge esso stesso il proprio limite”, non sul versante della simbo-lizzazione ma sul versante di una reale alterità, il “dissimile es-senziale, che non è né il supplemento né il complemento del si-mile [ma] è l’immagine stessa della dislocazione”. L’immagineaperta designerebbe dunque non tanto una certa categoria diimmagini quanto un momento privilegiato, un evento di im-

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magine nel quale si lacera profondamente, a contatto con un rea-le, l’organizzazione aspettuale del simile.3

L’immagine aperta, in altri termini, segnalerebbe l’evento stessodell’apertura. L’estaticità dell’immagine in quanto tale. La sogliache fa cenno al disparato – alla reale alterità o all’alterità del rea-le – nella sua irriducibilità a supplemento o a complemento del-l’immagine. Soglia-limite e insieme “svelamento” originario: a-letheia (o Ereignis), si potrebbe anche dire, a voler prendere in ca-rico, ma non intendo farlo qui, le vistose risonanze heideggerianedi questa interpretazione dell’apertura in quanto evento-svela-mento.

Ne vorrei sottolineare, invece, il carattere intimamente “aura-tico”, nell’idea, suggerita da Didi-Huberman, che in ultima anali-si il concetto di immagine aperta entri di diritto nella costellazio-ne filosofica dell’“aura”, di cui tematizza il tratto della prossimitàall’origine e, ciò che più conta, l’attitudine dell’origine stessa allaripetizione, e cioè al Nachleben nella sua accezione più produttiva(anche teoricamente produttiva: è infatti precisamente il caratte-re anacronistico del tempo dell’origine, la sua Nachträglichkeit, aconsentire a Didi-Huberman l’illuminante sinergia nella quale hasaputo stringere Warburg, Freud e Benjamin).

Nel testo che sto commentando, del resto, si accenna a un “ce-rimoniale auratico dell’apertura”.4 Ma il tema è già attestato, inmodo più esplicito e deciso, in altri luoghi dell’opera di Didi-Hu-berman, e in particolare nel saggio L’immagine-aura,5 nel quale civiene offerta una penetrante lettura del “declino dell’aura”, la ce-leberrima definizione con cui Benjamin si riferisce al fenomenodella riproducibilità tecnica delle immagini. Se l’aura, leggiamoqui, designa un “fenomeno originario dell’immagine”, un feno-meno “incompiuto” e “sempre aperto”6 – vale a dire costitutiva-

3. Ivi, pp. 8-9 (traduzione leggermente modificata).4. Ivi, p. 11.5. G. Didi-Huberman, “L’immagine-aura. Dell’Adesso, del Già-stato e della modernità”,

in Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp.217-243.

6. Ivi, p. 220.

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Pazienza del dissimile e sguardopontefice

ANDREA PINOTTI

1. “Non vedevo il nesso”“Io non vedevo il nesso fra questi elementi, ma supponevo sola-mente che, nell’animo di Warburg, questi elementi si potesserocongiungere in una forma unitaria.”1 Così confessava, nel 1929,l’allievo, nel Discorso di commemorazione dedicato all’uomo cheera stato non solo il suo maestro ma anche il suo “secondo padre”,riandando con il pensiero al suo periodo di apprendistato risalenteal 1913. Cristianesimo e paganesimo, astrologia demonica e ra-zionalismo scientifico, realismo nordico e antiche formule dipathos, dei dell’attimo e figure cavalleresche, Firenze e Baghdad:come tenere tutto questo insieme?

Al massimo, il giovane Saxl (all’epoca aveva ventitré anni) po-teva riconoscere analogie come quella individuata su uno specchioetrusco mostratogli una sera indimenticabile dal suo “pedagogo”:“Vi è raffigurato Prometeo, e le sue braccia, durante il supplizio,vengono tenute in alto da due uomini. La somiglianza dell’imma-gine sullo specchio con le immagini della deposizione di Cristo ècommovente”.2 Lo sguardo acerbo dell’apprendista può istituireabbastanza agevolmente una rete di somiglianze: si tratta, in en-trambi i casi, di corpi umani, di sesso maschile, seminudi, sotto-posti a un supplizio. Soprattutto, la postura dei due corpi è molto

1. F. Saxl, Discorso di commemorazione di Aby Warburg (5 dicembre 1929), trad. di M.Vinco, “aut aut”, 321-322, 2004, pp. 161-172, qui p. 166.

2. Ivi, p. 165.

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simile (fig. 1). Non ci è dato sapere se la commozione del giovanestudioso fosse dovuta più all’analogia a parte obiecti, o più alla sod-disfazione, a parte subiecti, di essere riuscito a intravederla.

Ma, quanto al resto, era “una molteplicità di questioni che fa-ceva disperare”: “Solamente colui che era colmo di questi pro-blemi poteva ricomporre questi dati”.3 Come? Scorgendo l’iden-tico nel diverso, la logica figurale sottesa all’eterogeneo apparen-temente irriducibile, il nesso fra ethos e pathos, ragione e magia,Nord e Sud, Oriente e Occidente, modernità e antichità. Racca-pezzandosi fra antiche divinità sopravviventi ed enigmatici perso-naggi astrologici, migranti fin dentro l’iconografia delle réclamesdegli anni venti; imparando a vedere il nesso che lega insieme, nel-la cultura hopi, il fulmine al serpente. Solamente Warburg in per-sona, dunque, poteva sperare di orientarsi in quel caos. Il giova-

3. Ivi, p. 167.

Fig. 1.A sinistra: La liberazione di Prometeo da parte di Ercole e Castore, bassorilievo sul lato posterio-re di uno specchio etrusco, fine V secolo a.C., Louvre, Parigi. A destra: Cosmè Tura, Pietà, parti-colare dal polittico Roverella, 1474, Louvre, Parigi (da A. Warburg, Der Bilderatlas Mnemosyne,a cura di M. Warnke, Akademie Verlag, Berlin 2000, rispettivamente tavole 4 e 42).

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ne allievo, destinato a diventare uno specialista di astrologia (ap-punto uno dei modi fondamentali dell’orientarsi umano), avreb-be gradualmente imparato a riconoscere nell’Orientierung il co-mun denominatore delle variegate indagini warburghiane, nonchédell’impresa umana tout court: “L’atto fondamentale della cono-scenza umana è orientarsi di fronte al caos attraverso la posizionedi immagini o di segni”.4

In ciò Saxl vide certamente bene; ma non altrettanto bene sep-pe vedere le modalità con le quali Warburg cercò di costruire, fa-ticosamente, il proprio senso dell’orientamento. Prendiamo, parspro toto, le parole con cui egli caratterizzò, in quel medesimo di-scorso commemorativo, il progetto Mnemosyne: “L’atlante, pro-prio perché è un’opera sistematica, diviene al contempo un’ope-ra storica. L’opera dei grandi artisti del Rinascimento italiano, co-sì come quella di Dürer, vi viene analizzata in successione crono-logica”.5 Sistema e cronologia sarebbero dunque, per l’allievo, lecifre costitutive del progetto finale del maestro e, più in generale,gli strumenti con cui ricomporre i disiecta membra delle sue pere-grinazioni intellettuali.

2. Montaggio di eterogenei Sarebbe difficile immaginare un’interpretazione dell’atlante a que-sta più antipodale di quella proposta da Georges Didi-Huberman.All’opera sistematica evocata da Saxl viene contrapposto il pro-getto aperto, in progress (“opera ipotetica, irrimediabilmente prov-visoria”, “paradossale”), di un montaggio di elementi eterogenei;alla successione cronologica, la pratica dell’anacronismo. Una irri-ducibile congerie di eterogenei, il cui unico denominatore comu-ne sembra essere il bianco e nero della fotografia.6

Mnemosyne è, dunque, un dispositivo fotografico che insegnaa vedere che cosa accomuna, al di sotto delle opposte polarizza-zioni etico-culturali, una menade dionisiaca e una Maddalena cri-

4. Ivi, pp. 169-170.5. Ivi, p. 171.6. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la

storia dell’arte (2002), trad. di A. Serra, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 419.

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Montaggio e anacronismo

ANTONIO SOMAINI

“Sempre, di fonte a un’immagine, ci tro-viamo di fronte al tempo [...]. Ma chegenere di tempo?” È questa la do-

manda con cui si apre Devant le temps. Histoire de l’art et ana-chronisme des images di Georges Didi-Huberman,1 un’ampia ri-flessione sul modo in cui l’incontro con l’immagine costringe lastoria a ripensare se stessa e la propria concezione del tempo,accettando l’anacronismo non come un errore metodologico macome l’unico modo di essere all’altezza della complessità tem-porale dei propri oggetti. “L’anacronismo”, scrive Didi-Huber-man, ed è questa la tesi principale di Devant le temps, “costitui-rebbe [...] la maniera temporale di esprimere l’esuberanza, lacomplessità, la sovradeterminazione delle immagini.”2 Attraver-so il confronto con figure come quelle di Warburg, Benjamin eCarl Einstein – accomunati dalla scelta di mettere le immagini alcentro della propria ricerca storica e della propria riflessione sul-l’idea stessa di storicità – Didi-Huberman ricostruisce una co-stellazione di autori che hanno pensato la storia dell’arte – e piùin generale, la storia delle immagini – come “una storia dunquedi oggetti policronici, di oggetti eterocronici e anacronistici”.3Una storia non lineare bensì discontinua, irregolare, attraversa-

1. G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), trad. di S.Chiodi, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 11.

2. Ivi, p. 18.3. Ivi, p. 24.

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ta da ritmi diversi, segnata da improvvise concordanze con ilpresente. Una storia che solo una strategia di indagine e di espo-sizione fondata sull’anacronismo, sul montaggio di tempi diver-si, è in grado di ricostruire.

Ricollegandomi direttamente alle tesi sostenute da Didi-Hu-berman in Devant le temps, vorrei mostrare nelle prossime pagi-ne come questa idea secondo cui la complessità temporale delleimmagini può essere compresa solo attraverso la forza euristicaed ermeneutica del montaggio anacronistico è al centro anche de-gli scritti di Ejzen#tejn, un ampio corpus di testi solo in minimaparte pubblicati durante la vita del regista sovietico e ancora og-gi in parte inediti. Nei grandi libri rimasti incompiuti come la Teo-ria generale del montaggio (1937), Metod (1932-1948) e La natu-ra non indifferente (1945-1947),4 ma anche in saggi più brevi co-me Il legame inatteso (1929), Drammaturgia della forma cinema-tografica (1929) e El Greco y el cine (1937),5 Ejzen#tejn estendel’azione del montaggio – vero e proprio baricentro di tutta la suariflessione teorica e di tutta la sua pratica cinematografica – al dilà dei confini del cinema, interpretandolo come uno stile di scrit-tura e come un “metodo” di indagine volto a chiarire l’identitàdel cinema e la sua collocazione nella storia universale delle for-me artistiche. Proprio come nei protagonisti della costellazionericostruita da Didi-Huberman in Devant le temps, anche negliscritti di Ejzen#tejn emerge la convinzione che l’anacronismo sial’unica via possibile con cui la storia può affrontare l’anacroni-sticità dei suoi stessi oggetti di studio. Così come in Warburg,Benjamin e Carl Einstein, l’incontro con la complessità tempora-

4. S.M. Ejzen#tejn, Teoria generale del montaggio, a cura di P. Montani, con un saggio diF. Casetti, Marsilio, Venezia 2004; Id., Metod, 2 voll., a cura di N. Klejman, Muzej Kino, Mo-skva 2002; Id., La natura non indifferente, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 2003.

5. Id., “Il legame inatteso”, in Il movimento espressivo. Scritti sul teatro, a cura di P. Mon-tani, introduzione di A. Cioni, Marsilio, Venezia 1998, pp. 39-48; Id., “Drammaturgia dellaforma cinematografica”, in Il montaggio, a cura di P. Montani, con un saggio di J. Aumont,Marsilio, Venezia 1992, pp. 19-52 (le pagine comprendono degli appunti di Ejzen#tejn conil titolo “Appunti per le integrazioni all’articolo di Stoccarda”); S.M. Eisenstein, “El Grecoy el cine”, in Cinématisme, a cura di A. Laumonier, introduzione, note e commento di F. Albé-ra, con una prefazione-collage di J.-L. Godard, Les presses du réel, Dijon 2009, pp. 65-128.

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le delle immagini – e, aggiungiamo, dei media che le configuranoe le veicolano – costringe la storia a ripensare i propri presuppo-sti e a elaborare nuovi modi di ricostruire ed esporre i processiche la costituiscono.

1. Teoria, storia, praticaLa prospettiva di lettura degli scritti di Ejzen#tejn che abbiamoappena proposto – incentrata sull’analisi dell’uso fatto dal registasovietico del montaggio come strumento di indagine per chiarirel’identità del cinema e la sua collocazione storica – solleva subitoun problema: è possibile considerare Ejzen#tejn come uno “stori-co”, sia pure nel senso ampio e “non accademico” in cui erano sto-rici Warburg, Benjamin e Carl Einstein? Una possibile risposta aquesta domanda la troviamo in una nota di diario scritta nel 1947,in un periodo in cui Ejzen#tejn, impossibilitato a proseguire la suaattività di regista a causa sia della censura della seconda parte diIvan il Terribile sia dell’infarto che lo aveva colpito nel 1946, si eradedicato al progetto di coordinare la realizzazione di una Storiagenerale del cinema per l’Istituto di storia dell’arte dell’Accademiasovietica delle scienze. L’obiettivo dichiarato di questo progettoera di chiarire il ruolo del cinema nel sistema e nella storia dellearti, un obiettivo che Ejzen#tejn intendeva perseguire a partire dauna sintesi delle linee di ricerca sviluppate nei suoi scritti prece-denti. In questo contesto, nel giugno del 1947 scrive una nota checi può aiutare a comprendere in che modo nei suoi scritti la teo-ria del cinema fosse inscindibile da una storia, e come entrambefossero pensate in stretta correlazione con la sua pratica cinema-tografica:

È come se fosse alia iacta est. Il Presidium dell’Accademia del-le scienze mi ha confermato che sarò a capo della sezione diStoria del cinema dell’Istituto di storia delle arti dell’Accade-mia sovietica delle scienze. Per fare questo lavoro non mi eramai bastata la determinazione. Ma se a creare sono una grandequantità di persone, a svelare invece questo processo, as I dosee it, non c’è quasi nessuno. E history diventa un terzo anello

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Etica dello sguardo. Didi-Huberman e la visione tattica

LUDGER SCHWARTE

1. Pratiche dello sguardoLe pratiche dello sguardo nell’opera di Georges Didi-Hubermansono sviluppate in modo così complesso e stratificato che sareb-be difficile cercare di descriverne e soppesarne tutte le sfumaturee diramazioni. E tuttavia proprio la dispersione e la complessitàdello sguardo sono ciò a cui perviene l’attenzione teoretica di Didi-Huberman. Dallo sguardo procedono – forse proprio in que-st’ordine – le immagini, il mondo, l’uomo, il pensiero.

Lo sguardo conferisce ai corpi peso e pesantezza. I corpi dota-ti di peso sono tali da risplendere, materializzarsi, contrapporsi gliuni agli altri, mostrarsi e rendersi visibili, percettibili, udibili at-traverso la propria presenza.

Georges Didi-Huberman attribuisce centralità al concetto di“etica dello sguardo” nel libro Immagini malgrado tutto, 1 dove eglidescrive in primo luogo il percorso del libro nel suo insieme, conlo scopo di restituire la possibilità di vedere, e contemporanea-mente anche la realtà e la verità, di una sequenza di quattro im-magini scattate dagli uomini del Sonderkommando nel campo disterminio di Auschwitz. Didi-Huberman non dice che cosa mo-strano quelle immagini, ma rintraccia invece le loro specifiche con-dizioni di esistenza, nei limiti cui ognuna di esse è soggetta; segueil loro percorso lungo diverse tappe e mediante diverse tecnichedi manipolazione e ritocco; ce le mostra come frammenti di di-

1. G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto (2003), Raffaello Cortina, Milano 2005.

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sperazione, ribellione, resistenza organizzata, fallimento, soprav-vivenza.

Un’immagine è in grado di fissare e conservare le tracce di vi-ta nelle quali è in un certo senso incapsulato l’ultimo respiro diquelli che i loro aguzzini volevano restassero senza parola e senzavolto. Al di là delle costrizioni imposte dai carnefici, questo donodell’immagine è immediatamente evidente, a patto che la si guar-di con occhi diversi da quelli che hanno imparato a valutarne il fa-scino sulla base di mere informazioni. Qui è richiesta un’atten-zione consapevole, giudiziosa e attiva:

Immaginare malgrado tutto, il che esige da parte nostra una dif-ficile etica dell’immagine: né l’invisibile per eccellenza (pigri-zia dell’esteta), né l’icona dell’orrore (pigrizia del credente), néil semplice documento (pigrizia dello studioso). Una sempliceimmagine: inadeguata ma necessaria, inesatta eppure vera. Ve-ra di una paradossale verità, certo. Direi addirittura che l’im-magine è qui l’occhio della storia: tenace vocazione a renderevisibile. Ma essa è anche nell’occhio della storia: in una zona benlocalizzata, in una fase di sospensione visiva.2

L’etica dello sguardo esige in chi guarda un’attenzione che consi-ste nel riempire i vuoti resi visibili dagli scatti fotografici, una vol-ta che questi siano stati sviluppati; ed esige una capacità di im-maginare che si muova a tentoni verso la realtà della situazionecolta nelle istantanee, alla quale si riferiscono gli indizi presentinelle foto (indexicalité). Una siffatta capacità di immaginare si in-dirizza verso il reale, non sospinge le immagini delle foto versol’ambito della finzione. Essa diventa così un importante strumen-to della critica visiva, in grado di scandagliare le condizioni cherendono possibile la fotografia al fine di renderne visibili i limitinella fotografia stessa, e di generare da lì l’immagine.

Guardare oggi queste immagini secondo la loro fenomenolo-gia – pur piena di lacune – significa domandare allo storico un

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2. Ivi, pp. 59-60.

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lavoro di critica visiva al quale, credo, non è troppo abituato.Questo lavoro esige un doppio ritmo, una doppia dimensione.Occorre restringere il punto di vista sulle immagini, non omet-tere nulla di quella che è la sostanza dell’immagine, foss’anchesolo per interrogarsi sulla funzione formale di una zona in cui“non si vede nulla”, come si dice a torto davanti a qualcosa chesembra privo di valore informativo, un riquadro d’ombra peresempio. E simmetricamente bisogna allargare il punto di vistafino a restituire alle immagini l’elemento antropologico che lemette in gioco.3

L’etica dello sguardo è un procedimento critico che dà conto delfatto che le immagini sono impressioni di un’assenza, di una la-cuna, di un invisibile che può solo essere immaginato, e che tut-tavia senza l’immaginazione non sarebbe un fatto, perdendo in-vece tutta la sua forza probante:

Bisogna allora tornare a dire che Auschwitz è inimmaginabile?Certo che no. Bisogna semmai dire il contrario: bisogna direche Auschwitz è solo immaginabile, che siamo costretti all’im-magine e che per questo dobbiamo tentare di svolgerne una cri-tica interna, appunto allo scopo di sbrogliare questo intrigo,questa necessità lacunosa.4

La critica si indirizza alla particolarità, all’unicità di ogni singola im-magine. Anzitutto la visione deve “entrare in sintonia” con ogniimmagine, soprattutto nel caso di questo tipo di immagini: una vi-sione che si muova tra choc ed empatia, che si sviluppi tra l’imma-ginazione e l’esplorazione graduale di una superficie opaca. La cri-tica interna di ogni singola immagine non orienterà l’attenzione dichi vede solo a ciò che di volta in volta resta invisibile nella singolaimmagine. Nel caso delle quattro fotografie del Sonderkommandolo sguardo risulta in primo luogo dalla distorsione temporale che

3. Ivi, p. 61.4. Ivi, p. 66.

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Il pensiero fasmide

EMANUELE ALLOA

Secondo Aby Warburg, le stratificazioni deltempo storico racchiudono fossili viventi,sopravvivenze immemoriali che Warburg,

ripristinando a modo suo un termine tecnico dei geologi, chia-mava Leitfossilien. Apparizioni alquanto emblematiche, tali“fossili guida” cristallizzano in sé la forza motrice di un’interacultura e ne serbano la memoria del gesto che la travolse. In unlibro-chiave (e ancora non tradotto in italiano) che precede i suoilavori sul concetto di Nachleben in Warburg,1 Georges Didi-Huberman descrive un suo face-à-face con un tale fossile venutoda tempi preumani e che a sua volta potrà essere letto come l’em-blema dell’intero movimento di pensiero dell’autore. Nell’intro-duzione a Phasmes. Essais sur l’apparition, intitolata giustamen-te “Le paradoxe du phasme”,2 l’autore evoca una fuggitiva visi-ta al Jardin des plantes. Tra il fitto fogliame dei vivari si nascon-dono rettili, anfibi e insetti che lanciano all’ospite la sfida di chiper primo li scorgerà. Tra le molte gabbie in cui si possono, inmezzo ai boccioli, ammirare le ali sfavillanti di qualche esoticolepidottero vi è però un vivario che, benché allestito con foglie eramoscelli, pare senza inquilini. Privo di ogni traccia di vita ani-

1. G. Didi-Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selonAby Warburg, Minuit, Paris 2002; trad. L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria deifantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

2. Id., “Le paradoxe du phasme”, in Phasmes. Essais sur l’apparition, Minuit, Paris 1998,pp. 15-20.

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male, il cassone trasparente sembra aspettare l’arrivo imminen-te del nuovo pigionale. Sul punto di passare oltre, lo sguardo delpassante si sofferma sul cartello, che indica invece che l’animalenel vivario già c’è: “Phasmes”, ossia fasmidi, dal greco phasmoi-dea. La presenza del fasmide è quella di un phantasma, ricorren-za spettrale o fantasmatica, appunto, di ciò che c’è senza pro-prio esserci. Phasma veniva denominato appunto il corpo di Eu-ridice negli inferi, eterea sagoma che si confonde con le moltealtre che la circondano nell’oscurità dell’Ade. Ma phasma si di-ce anche della larva, stadio intermedio e incerto che precede l’in-dividuazione. Dov’era allora il fasmide del Jardin des plantes?Scrive l’autore:

Guardando il suo decoro, lo “sfondo” senza animale, capii aun improvviso momento – momento in cui svanisce l’incertez-za, ma con essa anche ogni certezza – che la vita di quest’ani-male non era altro che questo decoro e questo sfondo. Stentoa spiegarmi. Di solito, quando si dice che c’è qualcosa da ve-dere e che non vedi niente, ti avvicini: immagini che ci sia lì undettaglio inavvertito del tuo paesaggio visivo. Vedere apparirei fasmidi richiese il contrario: defocalizzare, allontanarsi un po-co, abbandonarsi a una visibilità fluttuante, ecco cosa dovettifare più o meno per caso, o per un movimento anticipando lapaura. Ma questi due passi indietro mi misero di colpo di fron-te all’evidenza spaventosa che la piccola foresta del vivario nonera altro che l’animale che si pensava si fosse nascosto in essa.

L’essere senza capo né coda appartato nel cassone trasparente spo-sta e rende indistinguibile le linee tra l’animale e il vegetale (giàAthanasius Kircher, nel 1600, riteneva che i fasmidi fossero in par-te piante e in parte animali), disloca i confini tra visibile e invisi-bile e rende inapplicabili i concetti gestaltisti di figura e sfondo. Ilfasmide è lo sfondo che lo nasconde e lo sostenta: si nutre dellemedesime foglie che gli conferiscono la sua invisibilità e dei me-desimi stecchi di cui imita la forma. “Il fasmide è ciò che mangia eciò in cui abita [...]. La copia divora il suo modello.”

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Il fasmide e la descrizione dei suoi paradossi non solo costitui-scono l’incipit di una serie dove coesistono – in modo disparato –fotografie, ex voti, sogni, macchie d’inchiostro, giocattoli, Padridel deserto e oggetti quotidiani. Non solo il fasmide inaugura unatlante posto sotto il segno del disparato (inteso secondo la defi-nizione leibniziana, cioè il “disparato” come ciò che non può es-sere riassunto in nessun ordine superiore del concetto), ma ne co-stituisce in qualche modo la chiave, il Leitfossil. Questo insetto so-pravvissuto dall’epoca dell’infanzia del pianeta (i reperti fossili piùgiovani, racchiusi nell’ambra dell’Eocene, sembrano indicare chepotrebbe risalire addirittura a trecento milioni di anni fa) diventaper Didi-Huberman l’emblema di una experientia disparationischescompiglia ogni sguardo “pre-parato”. Che sarebbe “parato in an-ticipo”, dunque, immunizzato fin dapprima come lo è lo sguardodello specialista a tutto ciò che lo potrebbe fuorviare dalla certez-za del metodo, della via tracciata del methodos.

Il pensiero fasmide è un pensiero per così dire del “disparare”.Dis(im)parare a vedere quel che credevamo di vedere e che vede-vamo perché sapevamo (o credevamo di sapere). E dunque anchedisperare del proprio sapere (“l’evidenza spaventosa”). Esperien-za della disparità, insomma, che sopravviene sempre inaspettata.D’un colpo – d’uno sparo. L’improvvisa esplosione visiva del pan(“pan!”), come suggeriva Didi-Huberman, filando sul petit pan demur jaune proustiano.3 “Impelagarsi col carattere disparato, sem-pre singolare dell’apparenza” nota l’autore nell’incipit di Phasmes,“significa porsi ogni volta in modo nuovo la domanda sullo stileche questa apparenza richiede”. Più che uno stile disparato (stileeclettico, free style), il pensiero fasmide sarebbe dunque uno stiledel disparato che assumerebbe le forme eterogenee di ciò che de-scrive. Ecco la sfida intellettuale per ogni interprete: “Che il pen-siero di fronte all’oggetto appariscente si comporti come il gene-re dei fasmidi nei confronti della foresta nella quale penetra”.

3. G. Didi-Huberman, La peinture incarnée, Minuit, Paris 1985; trad. La pittura incar-nata. Saggio sull’immagine vivente, il Saggiatore, Milano 2008; Id., “Question de détail, que-stion de pan”, appendice a Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art, Mi-nuit, Paris 1990, pp. 271-318.

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Ripensare Warburg

I saggi di Didi-Huberman riprendono costantementel’eredità poliedrica e frammentaria di Aby Warburg. Neltesto con cui si apre la sezione, Didi-Huberman proponeuna lettura, tra storia dell’arte e antropologia, delle indaginiwarburghiane sulla divinazione antica. Gli altri contributidiscutono criticamente alcuni aspetti del lascito di Warburg,invitando a sondarne ulteriormente la ricchezza.

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Epatica empatia. L’affinità degliincommensurabili in Aby Warburg

GEORGES DIDI-HUBERMAN

Ènoto che la nozione di empatia – comequella di pathos – gode di cattiva famanell’attuale discorso degli storici e dei

critici dell’arte. Ma occorre constatare che l’Einfühlung è a pie-no diritto uno dei momenti fondatori della storia dell’arte co-me disciplina moderna, sia nella sua versione cosiddetta “for-malista” sia in quella “iconologica”. Ciò è risaputo nel caso diHeinrich Wölfflin, specialmente quando si scorre il suo testodel 1886, intitolato Prolegomeni a una psicologia dell’architet-tura.1 Sembra meno evidente in Aby Warburg, la cui ricercaiconologica si vede troppo spesso ridotta a questioni di “con-tenuti”, di “fonti” archivistiche o di “simboli” letterari. Ricor-derò semplicemente, nei limiti di questo intervento, l’impor-tanza delle questioni di empatia, al limitare del primo lavoropubblicato da Warburg – la sua tesi sui quadri mitologici diBotticelli – così come della sua ultima impresa incompiuta, ilBilderatlas Mnemosyne.

Sappiamo che dopo due successive revisioni delle bozze del-la sua tesi, nel 1892, Warburg decise improvvisamente di ag-giungere una Osservazione preliminare (Vorbemerkung) nella qua-le, in sole quindici righe, veniva delineato quel notevole pro-gramma teorico già implicito nella sua ricerca delle “fonti” bot-

1. Cfr. H. Wölfflin, Prolegomeni a una psicologia dell’architettura (1886), et al. edizioni,Milano 2010.

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ticelliane, e al quale doveva rimanere fedele per tutta la vita.2 Ilbreve testo appare dunque, modestamente, come la sola dichia-razione d’intenti – la sola presa di posizione epistemologica – delgiovane storico al limitare di ciò che egli amava chiamare il suo“ammasso d’erudizione”. Ma, per capirlo meglio, dobbiamo te-nere conto di tre elementi supplementari: anzitutto Warburg vol-le dare una conclusione teorica al suo saggio, nella forma di Quat-tro tesi (Vier Thesen) lapidarie, che rinunciò a pubblicare nell’e-dizione originale.3 Poi scrisse, su ventisette febbrili foglietti, unabbozzo di Conclusione (Schluß) che cercava di definire, in ter-mini teorici, le relazioni tra “immagine ed esperienza”.4 Infine esoprattutto, la composizione del lavoro su Botticelli, dal 1888,era accompagnata da un considerevole sforzo di elaborazione fi-losofica, di cui possiamo ritrovare gli schizzi in un voluminosomanoscritto dal titolo ambizioso: Frammenti per i fondamenti diuna psicologia monista dell’arte.5 Questo per dire fino a che pun-to le quindici righe della Nota preliminare fossero, agli occhi diWarburg, cariche di senso.

Retrospettivamente, nei tre brevi paragrafi che compongono iltesto non è difficile riconoscere i tre concetti più importanti suiquali, a lungo andare, si sarebbe fondata l’intera storia dell’artewarburghiana. Il primo paragrafo enuncia che la ricerca delle “fon-ti” botticelliane – filosofiche o poetiche – punta a “mettere in lu-ce ciò che nell’antichità ‘interessava’ gli artisti del Quattrocento”.6Al di là delle idee ancora vaghe di “interesse”, perfino di “in-fluenza”, è proprio la nozione di “sopravvivenza” (Nachleben) chesi trattava di evidenziare progressivamente in quanto modello tem-porale suscettibile di rendere giustizia ai paradossi storici e ai “mo-vimenti di fonti” osservati da Warburg.

2. A. Warburg, Botticelli (1893), Abscondita, Milano 2006, p. 11 (le bozze con e senza la“Vorbemerkung” si trovano a Londra, al Warburg Institute Archive [d’ora in poi WIA], agliindici III.39.6., ff. [1]-[5]).

3. Presenti nell’edizione francese , le “Quattro tesi” mancano in quella italiana. [N.d.T.]4. A. Warburg, Schluß (1892), WIA III.38.4., f. [1].5. Id., Grundlegende Bruchstücke zu einer monistischen Kunstpsychologie (1888-1905),

WIA III.43.1-2.6. Id., Botticelli, cit., p. 1.

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Il secondo paragrafo isolava, anch’esso molto sobriamente, un“veicolo” visivo privilegiato dei processi temporali. È il punto incui, visivamente, si concentrava la tesi: “Questo raffronto consen-te infatti di vedere passo per passo come gli artisti e i loro consi-glieri vedessero negli ‘antichi’ un modello [Vorbild] richiedenteun movimento esterno intensificato [eine gesteigerte äußere Beweg-ung] e si appoggiassero a modelli antichi ogni qual volta si trat-tasse di raffigurare il moto fisico attraverso accessori [äußerlichbewegtes Beiwerk] come fogge e capigliature”.7

Il movimento amplificato – intensificato – come mezzo forma-le di una memoria dell’antico? In quel punto Warburg anticipa-va, di certo, ciò che avrebbe chiamato alcuni anni più tardi “for-mule di pathos” (Pathosformeln). Ora, l’efficacia stessa di queimezzi figurativi poteva essere compresa, agli occhi del giovane sto-rico, solo mettendo in gioco una vera e propria psicologia – per-fino una metapsicologia – dell’immagine che fosse in grado di espri-merne la necessità, tanto formale quanto antropologica. Il terzoparagrafo, per questo, si richiama a una terza nozione, evocata co-sì d’improvviso da sembrare ancora molto misteriosa, la nozionedi “empatia” (Einfühlung): “Questa prova è significativa per l’e-stetica psicologica [psychologische Ästhetik], poiché qui, nell’am-biente degli artisti intenti alle loro creazioni, si può osservare nelsuo divenire la sensibilità per l’atto estetico dell’‘empatia’ comepotenza creatrice di stile [der ‘Einfühlung’ in seinem Werden alsstilbildende Macht]”.8

Come le tre Grazie nella Primavera di Botticelli, queste tre no-zioni fondamentali – sopravvivenza, formula di pathos, empatia –formano un circolo indissolubile lungo l’intera analisi warbur-ghiana. Possiamo seguirne la dinamica, di cui l’arte di Botticelli(e, più in generale, quella del Quattrocento fiorentino) ci offre leammirevoli, emozionanti e mobili linee di forza. Si potrebbe cosìseguirne il motivo insistente – il leitmotiv o Leitfossil, come War-burg amava dire – attraverso l’intera opera dello storico, fino a

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7. Ibidem [traduzione modificata, N.d.T.].8. Ibidem [traduzione modificata, N.d.T.].

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Il pentimento di Warburg

DAVIDE STIMILLI

Pulcherrima manus, per microscopiumconspecta, terribilis apparebit.Spinoza, Epistola LIV

Il primo seminario di Aby Warburg dopo ilsuo ritorno da Kreuzlingen, dedicato al Signi-ficato dell’antichità per il mutamento stili-

stico nell’arte italiana del primo Rinascimento, venne da lui vis-suto come un esperimento cruciale, sia perché doveva servireda ulteriore conferma della sua piena guarigione,1 sia perchérappresentava il momento inaugurale di una nuova fase dellasua vita, gli ultimi anni di fruttuosa attività ancora concessigli,a cui amava riferirsi come la sua “messe di fieno durante il tem-porale”. È quindi comprensibile come, in conclusione del se-minario, potesse tirare un sospiro di sollievo all’aver superatol’ostacolo: “Questa parte della mia esistenza andata – finora –come sperato”.2

All’estremo opposto, nel preparare il suo incontro d’aperturail 25 novembre del 1925, Warburg aveva avvertito il bisogno diporlo sotto gli auspici di due “motti guida” che dovevano servire

1. Ludwig Binswanger aveva già dato il suo placet dopo la conferenza in memoria di FranzBoll, che Warburg tenne il 25 aprile 1925: cfr. la sua lettera del 14 agosto 1925, in L. Bin-swanger, A. Warburg, Die unendliche Heilung. Aby Warburgs Krankengeschichte, a cura diC. Marazia e D. Stimilli, diaphanes, Zürich 2007, p. 141, e l’edizione della conferenza in A.Warburg, “Per Monstra ad Sphaeram”: Sternglaube und Bilddeutung. Vortrag in Gedenken anFranz Boll und andere Schriften 1923 bis 1925, a cura di D. Stimilli e C. Wedepohl, Döllingund Galitz, München 2008, pp. 63-127; trad. di D. Stimilli, Per Monstra ad Sphaeram, Ab-scondita, Milano 2009, pp. 43-105.

2. Warburg Institute Archive (d’ora in avanti: WIA) III.113.9., quaderno in quarto, iscrit-to da Warburg sulla copertina: Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg W.S. 26/27 Übun-gen W.S. - 1925/26. S.S. 26, p. 21.

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da “principi conduttori” per l’intero seminario:3 “1. Cerchiamo lanostra ignoranza e la colpiamo ovunque la troviamo; 2. Il buonDio è nel dettaglio”.4 Sulla pagina successiva dei suoi appunti perquella sessione, Warburg sottolinea l’importanza della sua idio-sincratica ars nesciendi prima di ripetere il suo motto più famoso,al quale appende, senza elaborare ulteriormente, la chiosa: “Mi-glioramento del metodo 1902 [Verbesserung der Methode 1902]”.

Il solo interprete, che io sappia, ad aver commentato questo la-conico appunto, Dieter Wuttke,5 lo ha inteso come un program-ma in nuce: in altre parole, ciò a cui Warburg aspirava con il suoseminario del 1925 sarebbe stato un miglioramento rispetto al me-todo del 1902, e il motto sarebbe dunque inteso a riassumere ilnuovo approccio. Mi sembra più probabile, perché più consonoal tono retrospettivo degli appunti nel loro complesso e all’affer-mazione che il secondo motto era stato ispirato dall’“esempio deigrandi filologi tedeschi” – primo fra tutti Hermann Usener, di cuiera stato allievo a Bonn6 –, supporre che il miglioramento di me-todo a cui Warburg allude si fosse invece verificato nel 1902, e cheora, nel riprendere in mano le fila della sua vita e della sua opera,egli sentisse il bisogno di rivolgere lo sguardo indietro a quel mo-mento. In entrambi i casi, come Wuttke riconosce, senza peraltrofornire una risposta, la domanda da porsi prima di ogni altra è:che si tratti del miglioramento rispetto a un metodo previamentepraticato o di quello stesso che egli intendeva migliorare nel 1925,qual è il metodo del 1902?

Prima ancora di tentare una risposta, è già importante consta-tare come Warburg indichi nel 1902 l’occorrere di una svolta. Sitratta, tuttavia, di un anno che è stato in larga misura sorvolatonelle ricostruzioni della sua attività, dipendenti come siamo da unaedizione ancora incompleta dei suoi scritti. Due pubblicazioni no-

3. Come sostiene in una lettera a Johannes Geffcken, WIA, General Correspondence (d’o-ra in poi: GC), 16 gennaio 1926.

4. WIA III.113.9., cartella iscritta Einführung, f. [2]. 5. Nel “Nachwort” a A. Warburg, Ausgewählte Schriften und Würdigungen, a cura di D.

Wuttke, Koerner, Baden-Baden 19923, p. 623. 6. Cfr. ancora la lettera a Geffcken (vedi sopra, nota 3).

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tevoli videro la luce nel 1902: il saggio sull’Arte del ritratto e bor-ghesia fiorentina, come volume a sé, e quello sull’Arte fiammingae primo Rinascimento fiorentino nello Jahrbuch der Königlich Preus-sischen Kunstsammlungen,7 che doveva essere il primo in una se-rie di supplementi al saggio postumo di Jacob Burckhardt sul ri-tratto.8 A dispetto della loro innegabile importanza, tuttavia, ilpunto di svolta che a Warburg premeva segnalare, cercherò di di-mostrare, è rappresentato dalla stesura di un testo ancora larga-mente sconosciuto, per l’ambivalenza nei suoi confronti dello stes-so Warburg, come vedremo, ma anche perché né i suoi esecutoritestamentari né i suoi biografi hanno saputo sottrarlo all’immeri-tato oblio.9

Come apprendiamo in apertura del saggio, Il ritratto di un suona-tore di lira italiano a Dublino: Attalante Migliorati, la scrittura nevenne stimolata dalla fotografia di un dipinto rinascimentale ri-prodotto nel volume per il 1902 della rivista “L’Arte”: il ritrattodi un musico (fig. 1) nella National Gallery of Ireland a Dublino,attribuito congetturalmente alla “scuola ferrarese” dall’autore del-l’articolo, Herbert Cook.10 Dieci anni più tardi, nel ringraziare unaltro studioso per l’invio di un articolo su un pittore ferrarese, Bal-dassare Estense,11 a cui il ritratto veniva ora attribuito, Warburg

7. A. Warburg, “Bildniskunst und florentinisches Bürgertum”, in Gesammelte Schriften,Teubner, Leipzig 1932, vol. I, pp. 89-126, ristampato come vol. I.1 della Studienausgabe, Aka-demie Verlag, Berlin 1998 (che d’ora in poi cito con l’abbreviazione GS seguita da numero divolume e pagina); trad. di E. Cantimori, “Arte del ritratto e borghesia fiorentina”, in La ri-nascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1966, pp. 109-146; Id., “FlandrischeKunst und florentinische Frührenaissance”, in GS I.1, pp. 185-206; trad. di E. Cantimori, “Ar-te fiamminga e primo Rinascimento fiorentino”, in La rinascita del paganesimo antico, cit.,pp. 147-170. Cito solo dalla traduzione italiana, che modifico tacitamente ove necessario.

8. J. Burckhardt, “Das Porträt in der italienischen Malerei”, in Beiträge zur Kunstgeschi-chte von Italien, Basel 1898.

9. Ma vedi ora l’eccellente saggio di Alessandro Scafi, L’enigma di un musico: Aby War-burg e l’iconografia musicale, “Musica e Storia”, 1, 2007 (pubblicato nel 2009), pp. 163-203,a cui rimando per un’esposizione più dettagliata della genesi del testo di Warburg, da lui tra-dotto e pubblicato in appendice: pp. 188-192. Cito dalla traduzione di Scafi, da cui mi di-scosto tacitamente ove necessario.

10. H. Cook, Pitture italiane esposte a Burlington House, “L’Arte”, 5, 1902, pp. 114-122,qui pp. 118-119. Il ritratto è riprodotto come fig. 11 con la didascalia “Ritratto di violinista”.

11. W. Gräff, Ein Familienbildnis des Baldassare Estense in der Alten Pinakothek, “Mün-chener Jahrbuch”, 2, 1912, pp. 208-224, qui pp. 219-220.

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La “dea in esilio” di Warburg

SIGRID WEIGEL

Nei testi di Warburg della cartella Ninfafiorentina, scritti nel 1900 e negli anni aseguire, la ninfa è caratterizzata come

una “dea in esilio” e quindi viene indirettamente descritta co-me una qualche parente dei personaggi del libro di HeinrichHeine Gli dei in esilio (1853). Il nome del progetto “Frammen-to delle ninfe”, mai pubblicato, lo dobbiamo a Ernst Gombrich.In una annotazione sulla ninfa che egli ci riporta troviamo: “Chiè dunque la ‘Ninfa’? Come essere reale, in carne e ossa, può es-sere stata una schiava tartara liberata, ma nella sua vera essenzaè uno spirito elementare, una dea pagana in esilio. Se vuoi vede-re i suoi antenati, guarda il bassorilievo sotto i suoi piedi”.1

La circostanza per cui il cosiddetto “Frammento delle ninfe”fino a oggi non è ancora stato pubblicato è tanto più stupefacen-te se pensiamo alla posizione di primo piano che la ninfa rivestenella scienza della cultura di Warburg.2

Il testo è apparso una prima volta nei Vorträge aus dem Warburg-Haus, Akademie Verlag, Ber-lin 2000, vol. IV, pp. 65-103, ed è stato qui in parte rivisto.

1. E.H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale (1970), Feltrinelli, Milano2003, p. 113 (corsivi miei).

2. Nella nuova edizione dei Werke in einem Band di Warburg troviamo pubblicati loscambio epistolare frammentario con Jolles e il manoscritto di una conferenza inclusa nellacartella Ninfa fiorentina, dal titolo: “Florentinische Wirklichkeit und antikisierender Ideali-smus. Francesco Sassetti, sein Grab und die Nymphe des Ghirlandajo”. Cfr. A. Warburg,Werke in einem Band, a cura di S. Weigel, M. Treml e P. Ladwig, Suhrkamp, Frankfurt a.M.2010, pp. 198-233.

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“La Nymphe n’existe pas.” Il “Frammento delle ninfe”come oggetto di studio storico-scientifico

Il fatto che la ricezione del “Frammento delle ninfe” giri intornoa un punto cieco dell’opera è il sintomo di una discrepanza signi-ficativa tra l’enorme storia degli effetti della scienza della culturadi Warburg da una parte, e la solo parziale e in parte spezzettatapubblicazione dei suoi scritti dall’altra, che spesso ha come con-seguenza una conoscenza abborracciata dei suoi pensieri e anno-tazioni genuini. Perciò è particolarmente impressionante che l’im-magine di Warburg oggi abbia preso forma soprattutto a partireda quei lavori che fanno parte di progetti che l’autore non ha por-tato a compimento. A questi appartengono:

1) il progetto dell’atlante Mnemosyne,3 quella raccolta debor-dante e in ogni caso interminabile di riproduzioni di quadri, scul-ture, cartoline, foto e immagini pubblicitarie, che Warburg rac-colse in base a singoli motivi, scene o gesti espressivi, e ordinò, epiù volte modificò e riordinò, come se fossero, per così dire, trac-ce di pensieri della storia della cultura (per la mostra di Vienna fu-rono ricostruite le grandi tavole di un metro e settanta per un me-tro e quaranta, grazie alle foto degli schizzi);4

2) il Discorso di Kreuzlingen, che Warburg tenne nel 1923, du-rante il suo soggiorno nella clinica di Ludwig Binswanger, sul viag-gio che ventisette anni prima aveva fatto nella terra degli indianipueblo nel Nord America; e inoltre la redazione del testo ap-prontato dai suoi collaboratori Fritz Saxl e Gertrud Bing, sullascorta delle sue note e schizzi, che è divenuto famoso con il titoloIl rituale del serpente;5

3. Cfr. la traduzione italiana dell’atlante, A. Warburg, Mnemosyne. L’atlante delle imma-gini, Aragno, Torino 2002, che si riferisce all’edizione tedesca a cura di M. Warnke, Bildera-tlas Mnemosyne, Akademie Verlag, Berlin 2000. [N.d.T.]

4. Id., Mnemosyne. Materialien, a cura di W. Rappl, G. Swoboda, W. Pichler, M. Kos, Döl-ling und Galitz, München-Hamburg 2006; cfr. S. Weigel, Zur Archäologie von Aby WarburgsBilderatlas Mnemosyne, in K. Ebeling, S. Altekamp (a cura di), Die Aktualität des Archäolo-gischen in Wissenschaft, Medien und Künsten, S. Fischer, Frankfurt a.M. 2004, pp. 185-208.

5. La nuova edizione dei Werke in einem Band riporta due stesure dei manoscritti per laconferenza di Kreuzlingen e un manoscritto per una conferenza del 1897, che venne scrittosubito dopo il viaggio [cfr. A. Warburg, Il rituale del serpente: una relazione di viaggio, Adelphi,Milano 1998; parzialmente pubblicata in “aut aut”, 199-200, 1984, N.d.T.].

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3) infine, il cosiddetto “Frammento delle ninfe”.Proprio questi tre progetti non conclusi, e cioè non pubblica-

ti, sarebbero considerati dalla scienza della cultura contempora-nea come i più interessanti teoremi di Aby Warburg: l’atlante Mne-mosyne per il pensiero dell’immagine, Il rituale del serpente peruna lettura antropologico-culturale delle culture straniere, e il“Frammento delle ninfe” per la fondazione dell’iconologia mo-derna, nella quale una caratteristica codificata non funge più dasegno che sta per un significato allegorico, come nell’iconologiaconvenzionale, bensì il significato viene “decifrato” dai dettagli,dai gesti e dagli elementi accessori.

Che il “Frammento delle ninfe” stia per essere pubblicato è co-sa dubbia. Uno sguardo alle annotazioni che si trovano al War-burg Institute di Londra su questo progetto, mostra infatti comenon si possa veramente parlare del frammento di un manoscrittosulle ninfe. Piuttosto troviamo lì numerose mappe, i cui motivi,temi e forme rappresentative sono estremamente differenti.6 Nonsoltanto il “progetto delle ninfe” si collega a molti altri studi, in-nanzitutto a quelli su Sassetti e sulla Cappella Tornabuoni, ma inol-tre le annotazioni e gli schizzi oscillano chiaramente tra un’ap-prossimazione letteraria e un’ordinazione rigorosamente scienti-fico-sistematica del materiale, il tutto completato da innumerevo-li rappresentazioni grafiche.

Sulla base dei manoscritti dobbiamo tenere per certo che “LaNymphe n’existe pas!” – perlomeno non come titolo di un mano-scritto. Da questa scoperta deriva però che dobbiamo confron-tarci in modo totalmente diverso con i lavori di Warburg: non at-traverso la ricostruzione postuma di annotazioni frammentarie,che incessantemente opera intorno a un’ampia ma problematicamodalità di discorso su Warburg, con cui si dispone dei suoi la-vori come se fossero un corpus unico o un solido tesoro di for-mule e postulati,7 e spesso nella forma di una teoria di seconda

6. Warburg Institute Archive di Londra (WIA), innanzitutto da 118.1. a 118.8.: “Ninfafiorentina. Notes and Fragments”.

7. Per esempio formule come quella per cui Atene avrebbe dovuto essere conquistatasempre di nuovo da Alessandria, oppure la formula molto nota secondo cui “il buon Dio si

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Un groviglio di serpenti vivi

PAULO BARONE

1. “La permanenza della cultura non si esprime come un’essenza,un tratto globale o un archetipo, bensì come un sintomo, un trat-to d’eccezione, una cosa spostata. La tenacia delle sopravvivenze,il loro stesso ‘potere’, come dice Tylor, emergono nella tenuità dicose minuscole, superflue, irrisorie o anormali. È nel sintomo ri-corrente e nel gioco, nella patologia della lingua e nell’inconsciodelle forme che si situa la sopravvivenza in quanto tale.”1 L’“ar-chetipismo” costituisce, piuttosto, l’“insidia cruciale” (accantoall’“evoluzionismo etnologico”) di ogni analisi e dell’esistenza stes-sa delle sopravvivenze. “Quando le somiglianze diventano pseu-domorfismi, quando inoltre servono a far emergere un significatogenerale e atemporale”, quando i tratti vengono “generalizzati”,ecco allora che i differenti “modelli di tempo” rischiano la “dilui-zione”, se non la “negazione pura e semplice.”2

Nel grande libro dedicato a L’image survivante, Didi-Huber-man procede ellitticamente, cioè con (almeno) due fuochi, con dueobiettivi principali. Da un lato, si adopera affinché il progetto diWarburg, e in modo particolare la sua eredità, siano liberati dal-l’involucro interpretativo di Panofsky, Gombrich, Saxl, che neavrebbero urbanizzato i tratti più dissonanti e disinnescato quel-li più problematici sino a congelarne i lineamenti. È l’accusa, sin-

1. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta (2002), trad. di A. Serra, Bollati Boringhie-ri, Torino 2006, p. 56.

2. Ivi, pp. 61-62.

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tetica, lanciata contro un Warburg “junghiano”: miti, credenze,folklore; l’inconscio de-sessualizzato e schiarito, trapuntato dai fa-tidici archetipi; la memoria collettiva adibita a “contenitore” in-dissolubile e produttore inesauribile di immagini, motivi, influen-ze. Ma soprattutto l’idea quasi hegeliana, rassicurante, concilia-trice, armonica delle trasmissioni simboliche; un modello lineare,uniforme, ritmico del tempo e della storia culturale; un’organiz-zazione gerarchizzata e chiarificatrice dei “contenuti” immagina-li, iconologicamente orientata sui significati unificanti di forme“atemporali”.

Dall’altro lato, tuttavia, Didi-Huberman recupera, assembla edestrae dall’interno di questa opera di liberazione che oppone War-burg ai panofskiani – e dunque attraverso di essa – tutto o granparte di quello che serve per leggere criticamente il presente in cuiviviamo.

Una volta ripristinata e de-anestetizzata, infatti, l’eredità war-burghiana rovescia sul piatto un carico di elementi che entranodirettamente in conflitto con l’insieme dei dispositivi prima som-mariamente elencati, i quali – se lo furono un tempo – oggi nonsono più in grado di averne ragione. In questo senso si tratta dielementi che danno luogo a sequenze e costellazioni strambe, ano-male, irregolari, marginali, sfuggenti (evidente preludio di modidiversi – a venire – di sentire e pensare rispetto a quelli che ci so-no attualmente offerti dal nostro patrimonio culturale ormai incrisi?).

In ogni caso, cosa producono le sopravvivenze – Nachleben –che innervano il cuore delle immagini warburghiane? “Le so-pravvivenze”, rileva Didi-Huberman, “sono solo sintomi che in-ducono disorientamento temporale, non premesse di una teleolo-gia in corso, di un ‘senso evolutivo’ qualsiasi”,3 permettono sol-tanto “di rendere più complesso il tempo storico”,4 di “sbriciola-re qualsiasi nozione cronologica della durata”,5 di confondere leperiodizzazioni, di “aprire” problematicamente le idee troppo li-

3. Ivi, p. 64.4. Ivi, p. 65.5. Ivi, p. 83.

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neari e scontate di tradizione e trasmissione. In una parola, le so-pravvivenze “anacronizzano” passato, presente e futuro, aumen-tano il volume della storia e la sovvertono, ne sfioccano le cime el’intelaiatura (la stordiscono?). Non è più sufficiente definire il“significato” delle immagini, occorre cogliervi la “vita”; non ba-sta “interpretare”, occorre comprenderne il “valore espressivo”(che non è mai frutto di un’intenzione). Invece che semplicemente“inglobare simbolicamente” i particolari, astraendoli, occorre ri-velare “la schisi strutturale dei sintomi” di cui si sostanziano irri-ducibilmente. Al posto di “separare forma e contenuto”, seguirela linea degli “indiscernibili iconografici”.6 Perché, in generale,“la logica che i fatti culturali fanno sorgere lascia straripare il caosche combattono; la bellezza che inventano lascia spuntare l’orro-re che rimuovono”:7 dolore, residui affettivi, formule-di-pathos.Nelle acque placide del sapere (tendenzialmente) sistematico eorganizzato, Didi-Huberman introduce, con Warburg, un “gro-viglio di serpenti vivi”:8 resti, minuzie, impronte, “contrattempi”,“controeffettuazioni”, luoghi incolti, macerie, dettagli (in cui il“buon dio” vivrebbe). A favore, perciò, di un sapere che sia alcontempo un non-sapere, l’immagine.

2. Registrando una percezione diffusa, sono in molti ormai a se-gnalare “un appiattimento del tempo e una sovversione dello spa-zio”, ovvero come, detto molto alla lontana, “le tecnologie dellacomunicazione pretendono di abolire qualsiasi distanza, di elu-dere gli ostacoli del tempo e dello spazio, di dissolvere le oscuritàdel linguaggio, il mistero delle parole, le difficoltà dei rapporti, leincertezze dell’identità o le esitazioni del pensiero”.9 Per stigma-tizzare la scena contemporanea con un solo tratto, sintetico ma ef-ficace, potremmo dire con Sloterdijk10 che il mondo (prevalente-

6. Cfr. ivi, pp. 453-454.7. Ivi, p. 265.8. Ivi, p. 415.9. M. Augé, Rovine e macerie (2003), trad. di A. Serafini, Bollati Boringhieri, Torino 2004,

p. 68.10. Cfr. per esempio P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale (2005), trad. di S. Rode-

schini, Meltemi, Roma 2006.

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