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Bertocco G., Kalajzić A. e Mourad Agha G. Università degli Studi dell’Insubria Dipartimento di Economia Anno accademico 2014-2015 APPUNTI DI MACROECONOMIA Questo testo è stato realizzato sulla base degli appunti presi dallo studente Galeb Mourad Agha durante le lezioni tenute dal Prof. Giancarlo Bertocco nell’Anno accademico 2013-2014. Il testo è stato rivisto e integrato da Giancarlo Bertocco e Andrea Kalajzić.

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Bertocco G., Kalajzić A. e Mourad Agha G.

Università degli Studi dell’Insubria

Dipartimento di Economia

Anno accademico 2014-2015

APPUNTI DI MACROECONOMIA

Questo testo è stato realizzato sulla base degli appunti presi dallo studente Galeb

Mourad Agha durante le lezioni tenute dal Prof. Giancarlo Bertocco nell’Anno

accademico 2013-2014. Il testo è stato rivisto e integrato da Giancarlo Bertocco e

Andrea Kalajzić.

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i

INTRODUZIONE

1. Definizioni introduttive p. 1

2. Lo schema dei conti di contabilità nazionale p. 3

2.1. I conti di contabilità nazionale in economia chiusa p. 3

2.2. I conti di contabilità nazionale in economia aperta p. 10

3. Il deflatore del Pil (la differenza tra reddito nominale e reddito reale) p. 13

PARTE PRIMA

La teoria macroeconomica neoclassica prekeynesiana

1. Introduzione p. 17

2. Il mercato del lavoro p. 18

2.1. La funzione di domanda di lavoro p. 18

2.2. La funzione di offerta di lavoro p. 30

2.3. L’equilibrio sul mercato del lavoro p. 33

2.3.1. L’eccesso di offerta di lavoro p. 34

2.3.2. L’eccesso di domanda di lavoro p. 35

2.3.3. Lo spostamento della curva di offerta di lavoro p. 36

2.3.4. Lo spostamento della curva di domanda di lavoro p. 37

3. Il mercato dei beni p. 39

3.1. L’offerta aggregata di beni p. 40

3.2. La domanda aggregata di beni p. 41

3.2.1. Le decisioni di consumo p. 41

3.2.2. Le decisioni di investimento p. 44

3.3. L’equilibrio sul mercato dei beni p. 51

4. Il mercato dei capitali p. 54

4.1. L’equivalenza tra l’equilibrio sul mercato dei capitali p. 55

e l’equilibrio sul mercato dei beni

4.2. Gli squilibri sul mercato dei capitali e sul mercato dei beni p. 56

4.2.1. L’eccesso di offerta di risparmi p. 56

(l’eccesso di offerta aggregata di beni)

4.2.2. L’eccesso di domanda di risparmi p. 59

(l’eccesso di domanda aggregata di beni)

4.3. L’equivalenza tra l’equilibrio sul mercato dei capitali p. 60

e l’equilibrio sul mercato del credito

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ii

5. Il modello neoclassico completo e la legge di Say p. 61

5.1. La coerenza della teoria neoclassica con la legge di Say p. 61

5.2. Il sistema di equazioni, l’ordine di soluzione del sistema e la p. 64

rappresentazione grafica del modello neoclassico completo

5.2.1. Gli effetti di una variazione dell’offerta di lavoro p. 66

5.2.2. Gli effetti di una variazione delle decisioni di p. 68

investimento delle imprese

5.2.3. Gli effetti di una variazione delle decisioni di p. 69

consumo e di risparmio

6. La teoria neoclassica della moneta e la dicotomia del modello p. 71

macroeconomico neoclassico prekeynesiano

6.1. Le caratteristiche della teoria neoclassica della moneta p. 71

6.2. La distinzione tra moneta-merce e moneta-segno p. 72

6.3. L’equazione degli scambi di Fisher e la teoria quantitativa p. 73

della moneta

6.4. La natura dicotomica del modello macroeconomico neoclassico p. 79

PARTE SECONDA

La rivoluzione keynesiana e i modelli della ortodossia keynesiana

della ‘sintesi neoclassica’ negli anni ʼ50 e ’60 del secolo scorso

1. La rivoluzione keynesiana p. 81

1.1. La distinzione tra ‘real-exchange economy’ e ‘monetary economy’ p. 81

1.2. La critica alla legge di Say e il principio della domanda effettiva p. 88

2. Il modello reddito-spesa p. 90

2.1. Le equazioni del modello p. 91

2.2. L’esistenza di equilibri di sottoccupazione caratterizzati p. 94

dalla presenza di disoccupazione involontaria

2.3. Una rappresentazione grafica del reddito di equilibrio p. 97

2.4. Gli effetti di una variazione delle componenti autonome della p. 101

domanda aggregata, il moltiplicatore del reddito e

l’inversione della relazione causale tra risparmi e

investimenti

2.5. Gli effetti di una variazione della propensione marginale p. 110

al consumo (il paradosso del risparmio)

2.6. Il modello reddito-spesa con settore pubblico e gli effetti della p. 114

politica fiscale

3. La teoria keynesiana del tasso di interesse p. 117

3.1. Introduzione p. 117

3.2. La funzione di domanda di moneta p. 118

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iii

3.3. La funzione di offerta di moneta p. 124

3.4. L’equilibrio sul mercato della moneta keynesiano p. 126

3.5. La natura monetaria del tasso di interesse p. 129

3.6. Gli effetti delle variazioni del reddito e della quantità p. 134

di moneta sull’equilibrio del mercato della moneta

4. Il modello IS-LM p. 141

4.1. Introduzione p. 141

4.2. Le equazioni del modello e la determinazione analitica dei p. 142

valori di equilibrio del reddito e del tasso di interesse

4.3. L’analisi grafica dei meccanismi di funzionamento p. 148

del modello IS-LM

4.3.1. La curva IS p. 148

4.3.2. La curva LM p. 154

4.3.3. L’equilibrio IS-LM p. 161

4.4. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria p. 168

5. Il modello IS-LM per una economia aperta p. 173

5.1. Il mercato dei beni in una economia aperta p. 173

5.1.1. Le diverse nozioni di tasso di cambio p. 174

5.1.2. Le determinanti delle esportazioni e delle importazioni p. 179

5.1.3. La derivazione della curva IS in economia aperta p. 181

5.2. La bilancia dei pagamenti p. 191

5.2.1. Il saldo delle partite correnti p. 191

5.2.2. I movimenti di capitale p. 197

5.2.3. Il saldo della bilancia dei pagamenti p. 199

5.2.4. La curva BP e l’equilibrio nel saldo della bilancia p. 200

dei pagamenti

5.2.5. I fattori che influenzano il valore del tasso di p. 208

cambio nominale

5.2.6. I regimi di cambio p. 212

5.3. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria p. 215

in una economia aperta (modello Mundell-Fleming)

5.3.1. Gli effetti della politica fiscale e della politica p. 215

monetaria in una economia aperta in regime di

cambi fissi

5.3.2. Gli effetti della politica fiscale e della politica p. 227

monetaria in una economia aperta in regime di

cambi flessibili

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iv

6. La teoria keynesiana dell’inflazione: la curva di Phillips p. 239

6.1. Introduzione p. 239

6.2. Il modello IS-LM con curva di Phillips p. 242

6.3. Il ‘real balance effect’ e l’efficacia solo temporanea di p. 245

una politica fiscale espansiva

6.4. Il ‘trade-off’ tra reddito e inflazione p. 250

PARTE TERZA

La controrivoluzione monetarista e il ritorno

alle conclusioni della teoria neoclassica

1. Introduzione p. 255

2. La critica di Friedman alla curva di Phillips p. 256

2.1. L’introduzione delle aspettative inflazionistiche e p. 256

l’ipotesi di illusione monetaria

2.2. L’instabilità della relazione tra il livello del reddito e p. 269

il tasso di inflazione descritta dalla curva di Phillips

2.3. La curva di Phillips di lungo periodo e la riaffermazione p. 280

della teoria quantitativa della moneta

3. La spiegazione della stagflazione nell’ambito del quadro teorico p. 283

descritto da Friedman

4. Friedman, la Nuova Macroeconomia Classica e il ritorno alle p. 288

conclusioni della teoria neoclassica

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INTRODUZIONE

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1

1. Definizioni introduttive

Microeconomia

La microeconomia studia il comportamento di singoli soggetti economici (teoria del

consumatore, teoria dell’impresa) e il funzionamento di singoli componenti del sistema

economico (mercati).

Macroeconomia

La macroeconomia, invece, studia il funzionamento di un sistema economico nel suo

complesso. Essa, quindi, ha per oggetto l’analisi dei fattori che determinano i risultati

prodotti dall’ economia considerata nel suo insieme.

Sistema economico

Per sistema economico intendiamo l’insieme dei soggetti economici che operano in una

determinata area geografica (l’economia italiana, quella tedesca, i Paesi dell’aurea Euro,

i paesi dell’Unione Europea … etc.).

Un sistema economico non può essere considerato come la semplice somma dei

soggetti che operano al suo interno. Infatti, i meccanismi che regolano il funzionamento

di una economia nel suo insieme, non coincidono con quelli che spiegano il

comportamento di un singolo soggetto economico. Se così fosse, non avrebbe senso

distinguere tra microeconomia e macroeconomia e sarebbe sufficiente occuparsi di

microeconomia.

In macroeconomia, i risultati prodotti dal sistema economico vengono specificati

utilizzando tre fondamentali indicatori:

1. Il Prodotto interno lordo (PIL);

2. Il tasso di disoccupazione, e

3. Il tasso di inflazione.

Il Prodotto interno lordo corrisponde al valore monetario dei beni e dei servizi

finali prodotti in un sistema economico in un determinato intervallo di tempo (un mese,

un trimestre, un semestre, un anno). Si tratta di una grandezza flusso, ovvero di una

grandezza definita con riferimento a uno specifico intervallo di tempo.

Il secondo importante indicatore macroeconomico è dato dal Tasso di

disoccupazione, che coincide con il rapporto tra il numero dei disoccupati e la forza

lavoro.

Tasso di disoccupazione =Disoccupati

Forza lavoro

I disoccupati sono i soggetti economici che: i) sono nelle condizioni di poter lavorare

(perché esclusi dalla categoria dei giovani al di sotto dei 16 anni e dalla categoria dei

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pensionati); ii) sono disposti a lavorare alle condizioni di mercato; iii) sono attivamente

alla ricerca di un lavoro. La forza lavoro corrisponde invece alla somma delle due

categorie degli occupati e dei disoccupati.

Infine, il terzo fondamentale indicatore macroeconomico è rappresentato dal tasso di

inflazione. All’interno di un sistema economico si producono molti beni e servizi. Con

riferimento a un determinato intervallo di tempo, il tasso di inflazione consente di

misurare la variazione non già di un singolo prezzo di un bene o di un servizio, ma

quella della generalità dei prezzi dei beni e dei servizi prodotti all’interno

dell’economia.

Il tasso di inflazione si calcola costruendo un indice dei prezzi dato dal valore

monetario di un determinato insieme (o paniere) di beni che costituisce un campione

rappresentativo di tutti i beni prodotti nell’ambito del sistema economico.

Supponiamo che il paniere di beni sia costituito da 𝑛 beni, e indichiamo con 𝑄1, 𝑄2,

… , 𝑄𝑛 la quantità di ognuno di questi beni inserita nel paniere stesso. Naturalmente,

queste quantità non si possono sommare, poiché sono tra di loro eterogenee. Pertanto,

per ottenere l’indice dei prezzi, è necessario calcolare il valore monetario del paniere di

beni moltiplicando le quantità per i rispettivi prezzi. Indichiamo con i simboli

𝑝1, 𝑝2, … , 𝑝𝑛, il prezzo dei diversi beni inseriti nel paniere.

Consideriamo, poi, la seguente successione di periodi: 𝑡, 𝑡 + 1, 𝑡 + 2 … . Con

riferimento a ciascuno di questi periodi temporali, è possibile calcolare un distinto

indice dei prezzi dato dal valore monetario del paniere di 𝑛 beni preso in

considerazione. A tal fine, indichiamo con 𝑃𝑡, 𝑃𝑡+1, 𝑃𝑡+2 l’indice dei prezzi. Avremo,

quindi:

𝑃𝑡 = 𝑡𝑝1𝑄1 + 𝑡𝑝2𝑄2 + … + 𝑡𝑝𝑛𝑄𝑛 (con 𝑡𝑝1 pari al prezzo del bene 1 al tempo t),

𝑃𝑡+1 = 𝑡+1𝑝1𝑄1 + 𝑡+1𝑝2𝑄2 + … + 𝑡+1𝑝𝑛𝑄𝑛,

𝑃𝑡+2 = 𝑡+2𝑝1𝑄1 + 𝑡+2𝑝2𝑄2 + … + 𝑡+2𝑝𝑛𝑄𝑛 etc.

Il tasso di inflazione corrisponde alla variazione percentuale dell’indice dei prezzi.

Se, ad esempio, fosse 𝑃𝑡 = 100 e 𝑃𝑡+1 = 105, allora il tasso di inflazione nel periodo

𝑡 + 1 sarà pari a:

�̇�𝑡+1 =𝑃𝑡+1 − 𝑃𝑡

𝑃𝑡=105 − 100

100= 5%.

Il valore del tasso di inflazione dipende dalla composizione del paniere usato per

costruire l’indice dei prezzi. Poiché il paniere non può contenere tutti i beni prodotti,

l’indice dei prezzi varia in funzione della composizione del paniere degli 𝑛 beni presi in

considerazione. Inoltre, a parità degli 𝑛 beni inseriti nel paniere, il valore dell’indice dei

prezzi dipende dalle quantità (𝑄1, 𝑄2, … , 𝑄𝑛) dei singoli beni che compongono il

paniere stesso. L’ISTAT (Istituto nazionale di statistica), che ha il compito istituzionale

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di misurare il tasso di inflazione nel nostro paese, aggiorna costantemente la

composizione del paniere dei beni per tener conto dei cambiamenti nelle abitudini di

consumo delle famiglie italiane.

In sintesi, dunque, la macroeconomia studia i fattori da cui dipendono il prodotto

interno, il tasso di disoccupazione e il tasso di inflazione di un paese.

2. Lo schema dei conti di contabilità nazionale

Lo schema dei conti di contabilità nazionale permette di misurare il valore del PIL e di

specificarne le forme di impiego. Al fine di presentare i principali conti di contabilità

nazionale consideriamo due casi. Il primo riguarda una economia chiusa, ovvero il caso

di una economia che non ha scambi economici con l’estero, né per quanto riguarda le

merci e i servizi né in relazione ai movimenti di capitale. Si tratta di un caso astratto

che, tuttavia, permette di sottolineare alcuni elementi importanti dei conti di contabilità

nazionale. Il secondo caso, più realistico, riguarda invece una economia aperta, ovvero

una economia che scambia beni, servizi e capitali con il resto del mondo.

2.1. I conti di contabilità nazionale in economia chiusa

Supponiamo che in un sistema economico operino 3 imprese private A, B e C, e il

settore pubblico.

L’impresa A produce beni intermedi, cioè beni che non vengono consumati, ma che

vengono invece utilizzati dalle imprese B e C per produrre altri beni.

L’impresa B produce beni di consumo che vengono acquistati dalle famiglie.

L’impresa C produce beni di investimento, cioè beni impiegati da altre imprese

come mezzi di produzione.

La differenza tra i beni intermedi e i beni di investimento consiste nel fatto che i

primi vengono interamente distrutti nell’intervallo di tempo di un singolo esercizio

economico, mentre i secondi vengono utilizzati per più anni. Per questo motivo, il costo

dei beni di investimento viene imputato a diversi esercizi attraverso un processo di

ammortamento.

Il settore pubblico, infine, produce una serie di servizi che riguardano l’istruzione,

la giustizia, la difesa e la sanità.

Il valore del PIL può essere calcolato partendo dai conti economici delle imprese A,

B, C e del settore pubblico. Naturalmente, al fine di definire le voci dei conti economici

è necessario esprimere i valori dei costi e dei ricavi in termini monetari.

Supponiamo che l’impresa A abbia ottenuto dalla vendita di beni intermedi ricavi per

un ammontare di 200 unità di moneta. A fronte di questi ricavi, l’impresa A ha

sostenuto costi corrispondenti ai salari pagati ai lavoratori (W), per un ammontare di 90

unità di moneta, e agli ammortamenti (AM), per un ammontare di 40 unità di moneta.

La differenza tra i costi e i ricavi, pari a 70, corrisponde ai profitti (𝝅) dell’impresa.

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Poiché i beni intermedi prodotti dall’impresa A vengono utilizzati come mezzi di

produzione dalle imprese B e C, l’ammontare dei ricavi dell’impresa A rappresenta una

voce di costo per le altre imprese denominata consumi intermedi (CI).

L’impresa B produce beni di consumo. Supponiamo che i suoi ricavi siano costituiti

dall’ammontare dei beni venduti (pari a 400 unità di moneta) e dal valore delle

rimanenze (pari a 100 unità di moneta). I costi corrispondono ai consumi intermedi (CI)

per 80, ai salari (W) per 150 e agli ammortamenti (AM) per 80. La differenza tra ricavi

e costi equivale ai profitti pari a 190.

L’impresa C produce beni di investimento (costi pluriennali) che sono stati acquistati

dalle imprese. I suoi ricavi ammontano a 300 unità di moneta, mentre i costi

corrispondono ai consumi intermedi (120), ai salari (50) e agli ammortamenti (30). La

differenza è data dai profitti pari a 100.

IMPRESA A

Costi Ricavi

Salari (W) 90 Vendite 200 Ammortamenti (AM) 40 Profitti (π) 70

Totale 200 200

IMPRESA B

Costi Ricavi

Consumi intermedi (CI) 80 Vendite 400 Salari (W) 150 Rimanenze 100 Ammortamenti (AM) 80 Profitti (π) 190

Totale 500 500

IMPRESA C

Costi Ricavi

Consumi intermedi (CI) 120 Vendite 300 Salari (W) 50 Ammortamenti (AM) 30 Profitti (π) 100

Totale 300 300

SETTORE PUBBLICO

Costi Ricavi

Salari (W) 300 Consumi collettivi 300

Totale 300 300

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Il settore pubblico produce beni e servizi che non vengono venduti. Pertanto, nei

conti di contabilità nazionale il valore monetario di questi beni viene valutato in base ai

costi di produzione che, per semplicità, immaginiamo essere costituiti soltanto dai salari

pagati ai lavoratori pubblici. Il valore dei servizi prodotti dal settore pubblico viene

invece definito con il termine consumi collettivi.

Partendo dai conti economici delle tre imprese e del settore pubblico è possibile

ottenere un primo indicatore dato dalla produzione totale, che corrisponde alla somma

del valore dei ricavi delle tre imprese e del valore dei consumi collettivi del settore

pubblico, e quindi alla somma del valore della produzione del settore delle imprese e del

settore pubblico.

PRODUZIONE TOTALE

Produzione (A) + Produzione (B) + Produzione (C) + Produzione (SP) Totale

200 500 300 300 1.300

La produzione totale non è un buon indicatore del valore dei beni e dei servizi

prodotti dal sistema economico, perché conta due volte il valore dei consumi intermedi.

Questo valore, infatti, corrisponde ai ricavi dell’impresa A, ma entra anche nei ricavi

delle imprese B e C, che sono calcolati in base ai loro costi di produzione che includono

i beni intermedi. Se, nel nostro esempio, le imprese B e C fossero in grado di realizzare

i loro prodotti senza impiegare beni intermedi, il valore monetario della produzione

totale diminuirebbe di 400 unità. In tal caso, l’impresa A sparirebbe (i suoi ricavi

passerebbero da 200 a 0), mentre i ricavi delle imprese B e C diminuirebbero in misura

pari ai rispettivi consumi intermedi (80 per l’impresa B e 120 per l’impresa C).

In conclusione, l’indicatore più corretto del valore della produzione dei beni e dei

servizi realizzati in una economia in un determinato intervallo di tempo è dato dalla

differenza tra la produzione totale e i consumi intermedi.

PIL = PRODUZIONE TOTALE - CONSUMI INTERMEDI Totale

1300 - 200 = 1100

E’ quindi possibile fornire una prima definizione del PIL:

Il PIL è il valore monetario di tutti i beni e servizi finali prodotti in un paese in

un dato periodo di tempo.

Per beni e servizi finali si intende la somma dei beni di consumo, dei beni di

investimento e dei consumi collettivi.

Lo schema dei conti di contabilità nazionale consente di specificare altre due

definizioni del PIL.

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La seconda definizione del PIL è basata sul concetto di valore aggiunto. Il valore

aggiunto generato da ogni soggetto produttivo (incluso il settore pubblico) è pari alla

differenza tra il valore della produzione e i consumi intermedi.

Valore Aggiunto (A) = Produzione (A) - Consumi Intermedi (A) Totale

200 - 0 = 200

Valore Aggiunto (B) = Produzione (B) - Consumi Intermedi (B) Totale

500 - 80 = 420

Valore Aggiunto (C) = Produzione (C) - Consumi Intermedi (C) Totale

300 - 120 = 180

Valore Aggiunto (SP)) = Produzione (SP) - Consumi Intermedi (SP) Totale

300 - 0 = 300

∑ Valore Aggiunto = ∑ Produzione - ∑ Consumi Intermedi Totale

PIL Prod. Totale - Cons. Int. Totali = 110

In base a questa seconda accezione, il PIL è quindi pari alla somma del valore

aggiunto prodotto dalle imprese e a quello generato dal settore pubblico.

La terza definizione del PIL, infine, si ottiene osservando che il valore aggiunto

realizzato dal settore delle imprese e dal settore pubblico può essere scomposto in salari,

ammortamenti e profitti:

𝑉𝐴 = 𝑊 + 𝐴 + 𝜋.

Con specifico riferimento al nostro esempio si ha:

Valore Aggiunto (A) = Salari (A) + Ammortamenti (A) + Profitti (A) Tot.

90 40 70 = 200

Valore Aggiunto (B) = Salari (B) + Ammortamenti (B) + Profitti (B) Tot.

150 80 190 = 420

Valore Aggiunto (C) = Salari (C) + Ammortamenti (C) + Profitti (C) Tot.

50 30 100 = 180

Valore Aggiunto (SP) = Salari (SP) + Ammortamenti (SP) + Profitti (SP) Tot.

300 0 0 = 300

∑ Valore Aggiunto = ∑ Salari + ∑ Ammortamenti + ∑ Profitti Tot.

PIL 590 150 360 = 1100

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In terzo luogo, pertanto, il PIL equivale alla somma

dei salari, degli ammortamenti e dei profitti

Gli ammortamenti corrispondono al volume degli investimenti che un’impresa deve

realizzare per poter mantenere costante il valore complessivo del suo capitale fisso,

poiché rappresentano la quota di capitale fisso distrutta nel corso di ogni esercizio.

Generalmente, la somma di ammortamenti e profitti viene definita profitti lordi. Si può

quindi concludere che il PIL corrisponde alla somma dei salari e dei profitti lordi:

PIL = Salari (W) + Profitti Lordi (π) Totale

590 + 510 = 1100

Il concetto di profitti lordi permette inoltre di spiegare la distinzione tra Prodotto

interno lordo (PIL) e Prodotto interno netto (PIN). Il Prodotto interno netto

corrisponde al PIL al netto degli ammortamenti. E poiché gli ammortamenti

corrispondono al valore dei beni capitali distrutti nell’arco dell’intervallo di tempo

considerato, ovvero all’ammontare di beni capitali necessario a ricostituire lo stock

iniziale, il valore del PIN indica l’ammontare massimo di risorse che può essere

consumato senza che venga ridotto lo stock di capitale.

PIN = PIL - Ammortamenti Totale

1100 - 150 = 950

Lo schema dei conti di contabilità nazionale non si limita a definire il PIL, ma

descrive anche il modo in cui vengono utilizzate le risorse prodotte. All’interno di una

economia chiusa si possono specificare due forme di impiego delle risorse prodotte: i

consumi delle famiglie e gli investimenti, che corrispondono ai beni utilizzati dalle

imprese come fattori produttivi pluriennali.

Tra i consumi si distinguono inoltre i consumi privati, che equivalgono ai beni e ai

servizi prodotti dalle imprese private e utilizzati dalle famiglie, e i consumi collettivi,

che coincidono con i servizi prodotti dal settore pubblico. Nel nostro esempio i consumi

privati corrispondono ai beni prodotti e venduti dall’impresa B (per un importo pari a

400 unità di moneta), mentre il valore dei consumi collettivi prodotti dal settore

pubblico è pari a 300 unità di moneta.

Gli investimenti, invece, sono composti dagli investimenti fissi e dalle scorte. Gli

investimenti fissi consistono nei beni capitali prodotti e acquistati dalle imprese. Con

riferimento al nostro esempio numerico, essi quindi corrispondono ai ricavi dell’impresa

C (pari a 300 unità di moneta). Le scorte, viceversa, coincidono con le rimanenze. Nel

nostro esempio, le scorte sono pertanto uguali alle rimanenze dell’impresa B (pari a 100

unità di moneta).

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PIL = Consumi Privati

+ Consumi Collettivi

+ Investimenti

Fissi + Scorte Totale

400 + 300 + 300 + 100 = 1100

Consumi (C) Investimenti (I)

PIL = Consumi (C) + Investimenti (I) Totale

700 + 400 = 1100

La relazione 𝑃𝐼𝐿 = 𝐶 + 𝐼 corrisponde al conto delle risorse e degli impieghi

definito dallo schema dei conti di contabilità nazionale. Questo conto indica, da un lato,

le risorse disponibili, che equivalgono al PIL, e dall’altro, gli impieghi che

corrispondono alla somma dei consumi e degli investimenti.

Un altro importante conto definito nell’ambito dello schema dei conti di contabilità

nazionale è il conto della utilizzazione del reddito. Questo conto può essere

specificato partendo dalla terza definizione del PIL, quella cioè secondo cui il PIL è pari

alla somma dei salari e dei profitti. Tale somma rappresenta il reddito disponibile delle

famiglie, ovvero l’insieme dei redditi da lavoro e da capitale percepiti dai loro membri.

𝑃𝐼𝐿 = 𝑌𝑑 → Reddito disponibile (salari+profitti).

Se ci poniamo dal punto di vista dei percettori di reddito da lavoro (𝑊) e da capitale

(𝜋), possiamo definire due forme di utilizzazione del reddito disponibile (𝑌𝑑): i

consumi e i risparmi. In altre parole, il reddito disponibile può essere consumato, cioè

destinato all’acquisto di beni di consumo (𝐶), oppure risparmiato (𝑆).

PIL

Consumi

Privati

Collettivi

Investimenti Fissi

Scorte

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Il conto della utilizzazione del reddito può quindi essere rappresentato attraverso la

seguente espressione:

𝑌𝑑 = 𝐶 + 𝑆.

I risparmi dei percettori di reddito possono essere tenuti sotto forma di moneta o di

titoli di credito (titoli obbligazionari emessi da enti pubblici o da imprese private, o titoli

azionari), oppure ancora sotto forma di attività patrimoniali reali come le abitazioni.

Tornando al nostro esempio numerico, a fronte di un reddito disponibile 𝑌𝑑 = 𝑃𝐼𝐿 pari

a 1100 unità di moneta, l’ammontare dei consumi (𝐶) è pari a 700 unità di moneta.

Pertanto, il flusso di risparmi (𝑆) è pari a 400 unità di moneta.

Si noti che, nel linguaggio comune, quando descriviamo un soggetto che utilizza i

suoi risparmi, diciamo che egli “investe”. Nella terminologia della contabilità nazionale,

invece, con “investimento” si fa riferimento esclusivamente al comportamento delle

imprese che acquistano nuovi beni capitali ai fini dell’espansione dello stock di capitale

fisso.

Partendo dalle formule riguardanti il conto delle risorse e degli impieghi e il conto

della utilizzazione del reddito, è possibile ricavare un terzo importante conto relativo

allo schema dei conti di contabilità nazionale, ovvero il conto della formazione del

capitale.

a) 𝑃𝐼𝐿 = 𝐶 + 𝐼 conto delle risorse e degli impieghi,

b) 𝑌𝑑 = 𝐶 + 𝑆 conto della utilizzazione del reddito,

c) 𝑌𝑑 = 𝑃𝐼𝐿 reddito disponibile.

Sostituendo le definizioni a) e b) nella c), si ricava:

𝐶 + 𝐼 = 𝐶 + 𝑆, e quindi 𝑆 = 𝐼.

Reddito Monetario

Consumi

(parte del reddito destinata all'acquisto di beni di

consumo)

Risparmio

(parte del reddito che non viene consumata)

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Questa espressione corrisponde al conto della formazione del capitale in una economia

chiusa. Esso mostra che, nel contesto di una economia chiusa agli scambi con l’estero, il

flusso dei risparmi (𝑆) equivale al flusso degli investimenti (𝐼).

Tuttavia, è importante sottolineare che, sebbene il conto della formazione del capitale

mostri come in una economia chiusa i risparmi sono uguali agli investimenti, esso non

specifica alcuna relazione causale tra queste due grandezze. In altri termini, il conto

della formazione del capitale non consente di stabilire se sono i risparmi (𝑆) a

determinare gli investimenti (𝐼), oppure se, al contrario, sono gli investimenti (𝐼) a

determinare i risparmi (𝑆). Come si vedrà in seguito, la definizione della relazione

causale tra i flussi di risparmio (𝑆) e di investimento (𝐼) costituisce uno dei punti

centrali della teoria macroeconomica.

2.2. I conti di contabilità nazionale in economia aperta

Il caso che riguarda un sistema economico che intrattiene rapporti economici con

l’estero (il resto del mondo) è certamente più realistico di quello precedente riferito a

una economia chiusa. Quando si tiene conto degli scambi con l’estero, i conti di

contabilità nazionale subiscono delle modifiche, perché registrano anche i movimenti di

merci e di capitali tra il paese considerato e il resto del mondo.

Il primo di questi cambiamenti riguarda il conto delle risorse e degli impieghi. Nel

caso di una economia aperta, infatti, le risorse disponibili non corrispondono

all’ammontare di beni e servizi finali prodotti nel paese (PIL), poiché è necessario

considerare anche i beni e i servizi importati dall’estero, ovvero le importazioni. Si

avrà quindi:

Risorse = 𝑃𝐼𝐿 + Importazioni (𝐼𝑀𝑃).

In secondo luogo, cambia anche la struttura degli impieghi. In una economia aperta,

le risorse disponibili non vengono soltanto consumate e investite, ma possono anche

essere esportate, ovvero acquistate da soggetti stranieri. Pertanto, si avrà:

Impieghi = Consumi (𝐶) + Investimenti (𝐼) + Esportazioni (𝑋).

Di conseguenza, il conto delle risorse e degli impieghi relativo a una economia aperta

diventa:

a) 𝑃𝐼𝐿 + 𝐼𝑀𝑃 = 𝐶 + 𝐼 + 𝑋.

Da questa espressione si ottiene la seguente definizione di PIL relativa a una economia

aperta:

b) 𝑃𝐼𝐿 = 𝐶 + 𝐼 + 𝑋 – 𝐼𝑀𝑃.

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Il secondo cambiamento riguarda il concetto di reddito disponibile (𝑌𝑑). In una

economia chiusa il reddito disponibile coincide con il PIL:

𝑌𝑑 = 𝑃𝐼𝐿.

In una economia aperta, invece, questa identità non vale, poiché è necessario tenere

conto dei flussi di trasferimenti di reddito, da lavoro e da capitale, da e verso l’estero. I

redditi da lavoro e da capitale guadagnati da soggetti italiani residenti all’estero e

trasferiti nel nostro paese (𝑅𝑀) si aggiungono al valore del PIL, determinando così un

incremento del reddito disponibile. Al contrario, il trasferimento all’estero di redditi da

lavoro e da capitale guadagnati da soggetti stranieri residenti nel paese considerato

(𝑅𝑋) provoca una riduzione del reddito disponibile. In una economia aperta, il reddito è

quindi definito nel modo seguente:

c) 𝑌𝑑 = 𝑃𝐼𝐿 + 𝑅𝑀 – 𝑅𝑋 con 𝑅𝑀 = redditi da lavoro e da capitale guadagnati

all’estero

e 𝑅𝑋 = redditi da lavoro e da capitale trasferiti

all’estero.

Le modifiche di cui sopra non incidono sulla struttura del conto della utilizzazione del

reddito, che, come abbiamo visto in precedenza, specifica le forme di utilizzazione del

reddito disponibile. Infatti, anche in una economia aperta il reddito disponibile può

essere consumato o risparmiato. Ne consegue che, come nel caso di una economia

chiusa, vale la seguente identità contabile:

d) 𝑌𝑑 = 𝐶 + 𝑆.

Il terzo cambiamento, infine, riguarda il conto della formazione del capitale.

Questo conto può essere ricavato partendo dalle due relazioni c) e d) che definiscono il

reddito disponibile. Da queste due relazioni si ottiene:

e) 𝑃𝐼𝐿 + 𝑅𝑀 – 𝑅𝑋 = 𝐶 + 𝑆.

Sostituendo nella e) la definizione di PIL relativa a una economia aperta, corrispondente

alla espressione b), si ottiene la relazione:

f) 𝐶 + 𝐼 + (𝑋 – 𝐼𝑀𝑃) + (𝑅𝑀 – 𝑅𝑋) = 𝐶 + 𝑆.

La somma del saldo tra esportazioni e importazioni (𝑋 – 𝐼𝑀𝑃) e del saldo dei

trasferimenti di reddito da e verso l’estero (𝑅𝑀 – 𝑅𝑋), corrisponde al saldo delle

partite correnti (𝑆𝑃𝐶):

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g) 𝑆𝑃𝐶 = (𝑋 – 𝐼𝑀𝑃) + (𝑅𝑀 – 𝑅𝑋).

Sostituendo la g) nella f), poi si ottiene:

h) 𝐶 + 𝐼 + 𝑆𝑃𝐶 = 𝐶 + 𝑆.

Da questa espressione si ricava il conto della formazione del capitale relativo ad una

economia aperta, ovvero:

i) 𝐼 + 𝑆𝑃𝐶 = 𝑆.

Oppure, in maniera equivalente:

l) 𝑆𝑃𝐶 = 𝑆 – 𝐼.

Dalle espressioni i) e l) si evince che, in una economia aperta, non vale l’identità tra i

risparmi e gli investimenti. Infatti, la differenza tra risparmi e investimenti corrisponde

al saldo delle partite correnti. Di conseguenza, risparmi e investimenti coincidono

soltanto nel caso in cui il 𝑆𝑃𝐶 sia pari a zero:

𝑆𝑃𝐶 = 0 → 𝑆 = 𝐼.

Quando il 𝑆𝑃𝐶 è positivo, nell’economia del paese considerato si ha un eccesso di

risparmi dei soggetti nazionali rispetto agli investimenti nazionali:

𝑆𝑃𝐶 > 0 → 𝑆 > 𝐼.

Nel caso contrario, ovvero in presenza di un 𝑆𝑃𝐶 negativo, si registra un eccesso di

investimenti rispetto ai risparmi:

𝑆𝑃𝐶 < 0 → 𝑆 < 𝐼.

In conclusione, è importante osservare che il 𝑆𝑃𝐶 può essere definito in due modi:

a) come somma del saldo tra esportazioni e importazioni e del saldo dei trasferimenti

di reddito:

𝑆𝑃𝐶 = (𝑋 – 𝐼𝑀𝑃) + (𝑅𝑀 – 𝑅𝑋), e

b) come differenza tra risparmi e investimenti:

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𝑆𝑃𝐶 = 𝑆 – 𝐼.

3. Il deflatore del PIL (la differenza tra reddito nominale e reddito reale)

Il deflatore del PIL rappresenta una particolare misura del tasso di inflazione. Abbiamo

definito il tasso di inflazione come la variazione percentuale di un indice dei prezzi.

Poiché un indice dei prezzi corrisponde al valore monetario di un determinato paniere

(campione) di beni calcolato in uno specifico istante temporale, il valore del tasso di

inflazione dipende dalla composizione del paniere di beni considerato.

E’ quindi possibile definire diverse misure del tasso di inflazione in funzione della

composizione del paniere di beni usato per costruire l’indice dei prezzi.

Il primo esempio è quello del tasso di inflazione definito partendo dall’indice dei

prezzi al consumo, costruito sulla base di un paniere rappresentativo dei beni

consumati dalle famiglie.

Il secondo esempio è dato dal tasso di inflazione calcolato a partire dall’indice dei

prezzi all’ingrosso, definito considerando un paniere formato dai beni utilizzati dalle

imprese come mezzi di produzione.

Il terzo esempio, infine, è quello del tasso di inflazione quantificato in funzione di un

particolare indice dei prezzi noto con il termine di deflatore del PIL. Per costruire

questo indice dei prezzi è necessario considerare la distinzione tra PIL nominale e PIL

reale.

Il PIL nominale è calcolato sulla base dei prezzi correnti dei beni e dei servizi

prodotti. Supponiamo che nel nostro sistema economico vengano realizzati soltanto due

beni finali. In questo caso, 𝑡𝑄1 corrisponde alla quantità del bene 1 prodotta nel periodo

𝑡, mentre 𝑡𝑄2 corrisponde alla quantità del bene 2 prodotta nel periodo 𝑡. Indichiamo

poi con 𝑡𝑃1 il prezzo del bene 1 nel periodo 𝑡 e con 𝑡𝑃2 il prezzo del bene 2 nel periodo

𝑡. Possiamo quindi calcolare il valore del PIL nominale nel periodo 𝑡, ovvero 𝑡𝑌𝑁:

𝑡𝑌𝑁 = 𝑡𝑄1 ∙ 𝑡𝑃1 + 𝑡𝑄2 ∙ 𝑡𝑃2.

Analogamente, si può calcolare il valore del PIL nominale relativo al periodo

successivo (𝑡 + 1):

𝑡+1𝑌𝑁 = 𝑡+1𝑄1 ∙ 𝑡+1𝑃1 + 𝑡+1𝑄2 ∙ 𝑡+1𝑃2.

E’ quindi possibile determinare il tasso di variazione del PIL nominale passando dal

periodo 𝑡 al periodo 𝑡 + 1. Tuttavia, questo tasso di variazione non rappresenta un buon

indicatore della variazione della produzione di beni da un periodo all’altro, poiché esso

dipende da due fattori: a) dalla variazione delle quantità prodotte; b) dalla variazione dei

prezzi. La variazione dei prezzi provoca un cambiamento puramente nominale della

produzione. Infatti, se i prezzi raddoppiassero e le quantità prodotte rimanessero uguali,

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si osserverebbe un tasso di variazione del PIL nominale del 100%, ma in termini reali,

cioè in termini di quantità di beni prodotti, il PIL non avrebbe subito alcuna variazione.

Pertanto, un indicatore più corretto del tasso di variazione del PIL può essere

specificato calcolando il valore del PIL reale. Il PIL reale si ricava eliminando l’effetto

distorsivo indotto dalla variazione dei prezzi. A tal fine, è necessario mantenere costante

il livello dei prezzi da un periodo all’altro. Più precisamente, per calcolare il PIL reale si

prendono i prezzi riferiti a un determinato periodo, ad esempio un anno, definito anno

base, e si moltiplicano le quantità prodotte nei vari anni presi in considerazione per i

prezzi dell’anno base. Ne consegue, che il PIL reale è calcolato a prezzi costanti.

Supponiamo che l’anno base corrisponda al periodo 𝑡. Ciò significa che, in

corrispondenza dell’anno base, il PIL reale e il PIL nominale coincidono. Il PIL reale

per il periodo 𝑡, ovvero 𝑡𝑌𝑅, sarà infatti pari a:

𝑡𝑌𝑅 = 𝑡𝑄1 ∙ 𝑡𝑃1 + 𝑡𝑄2 ∙ 𝑡𝑃2.

Il PIL reale per il periodo 𝑡 + 1 si ottiene invece moltiplicando le quantità prodotte nel

periodo 𝑡 + 1 per i prezzi dell’anno base 𝑡. Si avrà quindi:

𝑡+1𝑌𝑅 = 𝑡+1𝑄1 ∙ 𝑡𝑃1 + 𝑡+1𝑄2 ∙ 𝑡𝑃2.

In questo caso, il tasso di variazione del PIL reale misura soltanto le variazioni delle

quantità prodotte, poiché, di periodo in periodo, i prezzi rimangono costanti.

Il deflatore del PIL corrisponde al rapporto tra il PIL nominale e il PIL reale

calcolato in ogni periodo. Pertanto risulta:

𝑃𝑡 = 𝑡𝑌𝑁 𝑡𝑌𝑅⁄ .

𝑃𝑡 corrisponde al deflatore del PIL relativo al periodo 𝑡. In corrispondenza dell’anno

base il valore del deflatore del PIL è quindi pari a 1, poiché PIL nominale e il PIL reale

coincidono.

Nel periodo 𝑡 + 1, invece, il deflatore del PIL sarà:

𝑃𝑡+1 = 𝑡+1𝑌𝑁 𝑡+1𝑌𝑅 .⁄

Le quantità di beni prodotte in ogni anno utilizzate per calcolare il PIL nominale e il

PIL reale non cambiano, mentre possono variare i prezzi, perché il PIL nominale è

calcolato a prezzi correnti, mentre il PIL reale è calcolato considerando i prezzi

dell’anno base. Di conseguenza, il valore del deflatore del PIL nel periodo 𝑡 + 1 sarà

pari a 1, se i prezzi nel periodo 𝑡 + 1 non sono variati rispetto all’anno base. Viceversa,

esso sarà maggiore di 1, se i prezzi sono aumentati, e minore di 1 se i prezzi sono

diminuiti.

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Il deflatore del PIL può quindi essere considerato un indice dei prezzi calcolato

prendendo a riferimento un paniere comprendente l’insieme dei beni che compongono il

PIL. E’ dunque possibile calcolare un tasso di inflazione corrispondente al tasso di

variazione del deflatore del PIL. In particolare, nel periodo 𝑡 + 1 il tasso di inflazione

sarà pari al tasso di variazione del deflatore del PIL:

�̇�𝑡+1 = (𝑃𝑡+1 − 𝑃𝑡) 𝑃𝑡⁄ .

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PARTE PRIMA

La teoria macroeconomica neoclassica prekeynesiana

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1. Introduzione

La teoria macroeconomica neoclassica è la teoria generalmente accettata dagli

economisti nei primi decenni del Novecento, prima dello scoppio della crisi del ’29 e

della conseguente Grande Depressione degli anni Trenta.

La presentazione di questa teoria consente di mettere in rilievo un importante

elemento metodologico. Ogni teoria macroeconomica, infatti, illustra il funzionamento

di un sistema economico sulla base di un modello teorico che costituisce una

rappresentazione semplificata della realtà.

I modelli teorici sono costruiti prendendo in considerazione gli elementi giudicati più

significativi di un sistema economico (componenti fondamentali). Più in particolare,

questi elementi coincidono con determinati mercati. Pertanto, la costruzione di un

modello macroeconomico verte sull’analisi dei meccanismi di funzionamento di tali

mercati.

Ogni modello teorico prende in considerazione almeno i seguenti mercati:

1. Il mercato del lavoro,

2. Il mercato dei beni, e

3. Il mercato dei capitali (sistema finanziario).

Il mercato del lavoro è il mercato in cui vengono scambiati i servizi di lavoro: da un

lato vi sono i lavoratori che offrono servizi di lavoro, e dall’altro vi sono le imprese che

domandano servizi di lavoro. Come tutti i mercati, il mercato del lavoro è quindi

caratterizzato da una funzione di domanda di lavoro e da una funzione di offerta di

lavoro.

Si noti che, in macroeconomia, i concetti di domanda e di offerta di lavoro assumono

un significato diverso da quello comunemente attribuito loro nel linguaggio corrente.

Nel linguaggio corrente, infatti, chi cerca lavoro “domanda” lavoro, mentre le imprese

che cercano lavoratori “offrono” lavoro. In macroeconomia, invece, i lavoratori offrono

lavoro e le imprese domandano lavoro.

Inoltre, i modelli macroeconomici sono basati sull’assunzione che i lavoratori siano

perfettamente omogenei e quindi perfetti sostituti gli uni degli altri. In altre parole, in

macroeconomia si ipotizza che i lavoratori abbiano le stesse caratteristiche, ovvero che,

all’interno del sistema economico, esista un unico tipo di lavoratore. Questa ipotesi

consente dunque di evidenziare la natura astratta e semplificatrice dei modelli

macroeconomici, poiché, nella realtà, esistono diverse categorie di lavoratori non

perfettamente sostituibili tra di loro.

Il secondo mercato fondamentale che caratterizza un sistema economico è il mercato

dei beni. All’interno di un sistema economico si producono numerosi beni e servizi, e

quindi esistono diversi mercati dei beni e dei servizi. Tuttavia, nei modelli

macroeconomici l’insieme dei beni e dei servizi prodotto all’interno di un sistema

economico viene rappresentato attraverso un solo mercato dei beni. Ciò equivale ad

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assumere che si produca esclusivamente un bene, convenzionalmente chiamato PIL.

Questa ipotesi permette di rappresentare l’insieme dei beni prodotti dall’economia di un

paese con la specificazione di un unico mercato, anch’esso caratterizzato da una

funzione di domanda e da una funzione di offerta. Pure in questo caso, possiamo

osservare come i modelli teorici rappresentino una semplificazione della realtà.

Infine, il terzo mercato fondamentale di un sistema economico è il mercato dei

capitali. Questo mercato rappresenta la struttura finanziaria del sistema economico,

poiché descrive i rapporti di credito e di debito che si instaurano tra gli agenti

economici.

2. Il mercato del lavoro

2.1. La funzione di domanda di lavoro

Dal punto di vista delle imprese, il lavoro rappresenta un fattore produttivo. Pertanto,

per specificare la funzione di domanda di lavoro è necessario descrivere il fenomeno

della produzione. Si tratta di un tema che è già stato affrontato durante il corso di

microeconomia attraverso la considerazione del comportamento di una singola impresa

e l’uso di un particolare strumento analitico dato dalla funzione di produzione.

Indichiamo con 𝑄 la quantità di un bene prodotto da una singola impresa.

Assumiamo, inoltre, che i fattori di produzione siano costituiti dal capitale (𝐾) e dal

lavoro (𝑁). 𝑁 indica il numero complessivo di lavoratori impiegati. Il fenomeno della

produzione relativo a una singola impresa può quindi essere descritto dalla seguente

funzione di produzione:

𝑄 = 𝑓(𝐾,𝑁).

Questa espressione definisce la quantità di prodotto ottenuta da una singola impresa in

funzione dell’ammontare dei beni capitali impiegati (𝐾) e del numero di lavoratori

assunti (𝑁).

Per costruire la funzione macroeconomica di domanda di lavoro dobbiamo

considerare il fenomeno della produzione con riferimento all’intero sistema economico.

A questo scopo, introduciamo le seguenti tre ipotesi.

1. Supponiamo che all’interno del sistema economico esista un numero molto elevato di

imprese (𝑛) perfettamente omogenee. Assumiamo, cioè, che esse producano lo stesso

bene e che siano caratterizzate dalla stessa funzione di produzione, ovvero 𝑄 =

𝑓(𝐾,𝑁).

2. Analizziamo il fenomeno della produzione in una prospettiva di breve periodo.

Ipotizziamo, cioè, che lo stock di capitale di ogni impresa sia dato e che non possa

essere modificato. Di conseguenza, nel breve periodo l’unico fattore produttivo

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variabile è costituito dalla forza lavoro (𝑁). La funzione di produzione di ognuna delle

𝑛 imprese omogenee considerate può quindi essere scritta come 𝑄 = 𝑓(�̅�, 𝑁).

3. La terza ipotesi, infine, riguarda la relazione tra il numero di lavoratori impiegati e la

quantità di beni prodotti:

𝑁 → 𝑄.

E’ ragionevole aspettarsi una relazione crescente tra queste due variabili, ovvero che

quando aumenta 𝑁 aumenti anche 𝑄:

𝑁 ↑ → 𝑄 ↑.

In altri termini, ci aspettiamo che la derivata prima di 𝑄 rispetto a 𝑁 sia positiva:

𝑑𝑄

𝑑𝑁> 0.

La derivata prima di 𝑄 rispetto a 𝑁 misura l’incremento di produzione ottenuto

dall’impresa attraverso l’ultimo lavoratore impiegato. Essa, quindi, corrisponde alla

produttività marginale del lavoro (𝑃𝑚𝑎𝑙).

Assumiamo che la 𝑃𝑚𝑎𝑙 sia sempre maggiore di zero. Avremo cioè che:

𝑑𝑄

𝑑𝑁= 𝑃𝑚𝑎𝑙 > 0.

Assumiamo, inoltre, che la 𝑃𝑚𝑎𝑙 sia decrescente rispetto al numero di lavoratori

impiegati (𝑁). In altri termini, ipotizziamo che la produttività marginale del lavoro non

sia costante, ma che decresca al crescere del numero di lavoratori impiegati

dall’impresa. Pertanto, valgono le seguenti due relazioni:

𝑃𝑚𝑎𝑙 = ℎ (𝑁) e

𝑁 ↑ → 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁) ↓.

Ciò equivale ad affermare che la derivata prima della produttività marginale del lavoro,

ovvero la derivata seconda della funzione di produzione, è negativa:

𝑑𝑃𝑚𝑎𝑙

𝑑𝑁< 0.

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Le ipotesi di cui sopra trovano espressione nella rappresentazione grafica della

funzione di produzione di una singola impresa contenuta nella figura 1. Come si può

notare, dato lo stock di capitale, al crescere del numero di lavoratori impiegati (𝑁)

aumenta anche la quantità prodotta (𝑄), ma in modo via via minore. La natura

declinante della produttività marginale del lavoro è quindi rappresentata dalla pendenza

progressivamente decrescente della funzione di produzione.

Figura 1 – La funzione di produzione

Possiamo illustrare le caratteristiche della funzione di produzione attraverso il

seguente esempio numerico. Dato lo stock di capitale, ipotizziamo che quando una

impresa assume il primo lavoratore essa otterrà una produzione totale pari a 15 unità di

prodotto. Di conseguenza, la produttività marginale del primo lavoratore sarà uguale a

15. Al crescere del numero di lavoratori occupati, anche la produzione aumenterà, ma

con incrementi a mano a mano minori, poiché si suppone che la produttività marginale

di ogni lavoratore aggiuntivo sia decrescente.

𝑁 = 1 → 𝑄 = 𝑓(�̅�, 𝑁 = 1) = 15 con 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 1) = 15.

𝑁 = 2 → 𝑄 = 𝑓(𝐾 ̅̅̅, 𝑁 = 2) = 28 con 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 2) = 13 (↓).

𝑁 = 3 → 𝑄 = 𝑓(𝐾 ̅̅̅, 𝑁 = 3) = 38 con 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 3) = 10 (↓).

𝑁 = 4 → 𝑄 = 𝑓(�̅�, 𝑁 = 4) = 46 con 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 4) = 8 (↓).

Con riferimento a questo esempio numerico, le figure 2 e 3 illustrano ulteriormente

le caratteristiche della funzione di produzione, e in particolare la natura decrescente

della relazione tra produttività marginale del lavoro e numero di lavoratori impiegati.

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Figura 2 – Un esempio di funzione di produzione riferito a una singola impresa

Figura 3 – La produttività marginale del lavoro nell’esempio riferito alla singola impresa

Sino ad ora abbiamo considerato le caratteristiche della funzione di produzione di

una singola impresa. Possiamo ottenere la funzione di produzione aggregata, quella cioè

riferita al sistema economico nel suo complesso, ricordando che, in base alla prima

ipotesi relativa al fenomeno della produzione, il sistema economico è composto da 𝑛

imprese perfettamente omogenee. Di conseguenza, quando ciascuna impresa assume un

singolo lavoratore, i lavoratori complessivamente impiegati saranno pari a 𝑛, mentre la

produzione totale sarà pari a 15𝑛 unità di prodotto. Qualora, invece, ogni impresa

assumesse 2 lavoratori, l’occupazione complessiva sarebbe pari a 2𝑛 lavoratori, cui

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corrisponderebbe una produzione totale di 28𝑛 unità di prodotto, e così via. Come si

può osservare dalla figura 4, anche la funzione di produzione aggregata ha

caratteristiche analoghe a quelle della singola impresa.

Figura 4 – L’aggregazione delle funzioni di produzione di 𝒏 imprese omogenee

La funzione di produzione definisce semplicemente la relazione tra la quantità di

lavoro e la quantità di prodotto ottenuta da ogni impresa e dall’insieme delle imprese,

ma non permette di specificare il numero di lavoratori che ogni impresa, e di riflesso

l’insieme delle imprese, è disposto a impiegare. Per determinare l’ammontare di

lavoratori che le imprese intendono occupare, e poter quindi definire la funzione di

domanda di lavoro, è necessario specificare un criterio di decisione in base al quale le

imprese definiscono il numero di lavoratori che sono disposte ad assumere.

Secondo la teoria neoclassica, il criterio di decisione seguito dalle imprese è quello

della massimizzazione dei profitti. In altri termini, ogni impresa impiegherà il numero

di lavoratori che le consente di ottenere il massimo profitto possibile. Pertanto, ai fini

della determinazione della funzione di domanda di lavoro, è necessario specificare

preliminarmente la funzione dei profitti di una singola impresa.

I profitti di una singola impresa (𝜋) sono pari alla differenza tra i suoi ricavi e i suoi

costi:

𝜋 = 𝑅𝑖𝑐𝑎𝑣𝑖 − 𝐶𝑜𝑠𝑡𝑖.

I ricavi corrispondono al prodotto tra la quantità di beni realizzata (𝑄) e il prezzo

unitario di vendita del prodotto (𝑃). Pertanto:

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𝑅𝑖𝑐𝑎𝑣𝑖 = 𝑄 ∙ 𝑃.

I costi, invece, corrispondono alla somma dei costi fissi e dei costi variabili:

𝐶𝑜𝑠𝑡𝑖 = 𝐶𝑜𝑠𝑡𝑖 𝑓𝑖𝑠𝑠𝑖 (𝐶𝐹) + 𝐶𝑜𝑠𝑡𝑖 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖 (𝐶𝑉).

I costi fissi sono indipendenti dalla quantità di beni prodotta, mentre i costi variabili

coincidono con il costo del lavoro, che rappresenta l’unico fattore di produzione il cui

impiego può variare nel tempo. Indichiamo con 𝑊 il salario nominale percepito da un

lavoratore. Di conseguenza, il costo del lavoro sarà pari a 𝑊 ∙ 𝑁, e la funzione dei

profitti diventa:

𝜋 = 𝑃 ∙ 𝑄 − 𝐶𝐹 −𝑊 ∙ 𝑁.

Al fine di definire la relazione tra i profitti e il numero di lavoratori impiegati da una

singola impresa, analizziamo le caratteristiche di tutte le grandezze che compaiono

nell’espressione dei profitti. Iniziamo da 𝑃, che indica il prezzo unitario del bene

prodotto da ogni singola impresa. Per definire le caratteristiche di questa grandezza,

ricordiamo le ipotesi che abbiamo introdotto per descrivere il fenomeno della

produzione. Abbiamo assunto che nel sistema economico operi un numero elevato di

imprese omogenee, ovvero di imprese che producono lo stesso bene utilizzando la

stessa funzione di produzione. Si tratta di condizioni che corrispondono a una situazione

di perfetta concorrenza. In questo caso, nessuna singola impresa è in grado di

influenzare il prezzo al quale può vendere quanto prodotto, poiché ciascuna di esse

copre soltanto una quota molto piccola della produzione complessiva dell’ipotetico bene

omogeneo preso in considerazione. Ciò significa, che il prezzo di vendita (𝑃) è del tutto

indipendente dalle decisioni di produzione di una singola impresa. In altri termini, per

ogni singola impresa che opera sul mercato, questo prezzo rappresenta un dato esogeno,

e quindi:

𝑃 = �̅�.

Questa assunzione ha una conseguenza importante, poiché permette di concludere

che ogni impresa è certa di vendere tutto quanto produce al prezzo di mercato. Pertanto,

in regime di concorrenza perfetta, la quantità prodotta è sicuramente uguale alla quantità

venduta.

La seconda grandezza che caratterizza l’espressione dei profitti è proprio quella

relativa alla quantità prodotta (𝑄), che, come ormai sappiamo, è una funzione del

numero di lavoratori impiegati (𝑁), perché, nel breve periodo, lo stock di capitale è

dato:

𝑄 = 𝑓(�̅�,𝑁) → = 𝑄(𝑁).

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La terza grandezza che entra nell’espressione dei profitti è quella relativa ai costi

fissi sopportati dall’impresa. I costi fissi sono dati indipendentemente dalla quantità

prodotta, e quindi dal numero di lavoratori impiegati:

𝐶𝐹 = 𝐶𝐹̅̅̅̅ .

Infine, è necessario prendere in considerazione anche i costi variabili, che

corrispondono al costo del lavoro. Come si può facilmente immaginare, il costo del

lavoro dipende dal livello del salario unitario (𝑊). Anche ne caso del salario, che è a

tutti gli effetti un prezzo, dobbiamo tener conto della presenza di condizioni di perfetta

concorrenza. Una singola impresa, infatti, non solo non è in grado di influenzare il

prezzo a cui vende la sua produzione, ma non può nemmeno incidere sul prezzo a cui

acquista i servizi di lavoro. In effetti, in una situazione di perfetta concorrenza ogni

singola impresa domanda una quantità di lavora molto piccola, e non può quindi

influenzare il livello dei salari. Di conseguenza:

𝑊 = �̅�.

Sulla base delle considerazioni precedenti, possiamo quindi riscrivere la funzione dei

profitti di una singola impresa nel modo seguente:

𝜋 = �̅� ∙ 𝑄(𝑁) − 𝐶𝐹̅̅̅̅ − �̅� ∙ 𝑁.

Come si può notare, la nuova espressione dei profitti è una funzione in una sola

variabile (𝑁). Il problema di ogni singolo imprenditore consiste pertanto nella

definizione del valore di 𝑁 che gli consente di massimizzare i suoi profitti. Da un punto

di vista tecnico, si tratta di trovare il punto di massimo di una funzione in una sola

variabile.

E’ noto che, a tal fine, è necessario individuare quel particolare valore di 𝑁, pari a

𝑁∗, in corrispondenza del quale la derivata prima dei profitti rispetto a 𝑁 si annulla:

𝑁∗ → 𝑑𝜋

𝑑𝑁= 0.

L’espressione della derivata prima della funzione dei profitti è data da:

𝑑𝜋

𝑑𝑁= �̅� ∙

𝑑𝑄

𝑑𝑁−𝑊.

Ai fini della individuazione del punto di massimo della funzione dei profitti si deve

determinare il valore di 𝑁 che soddisfa la seguente condizione:

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𝑁∗ → 𝑑𝜋

𝑑𝑁= �̅� ∙

𝑑𝑄

𝑑𝑁−𝑊 = 0.

Ovvero:

𝑁∗ → �̅� ∙𝑑𝑄

𝑑𝑁= 𝑊.

Da quest’ultima espressione si ottiene:

𝑁∗ → 𝑑𝑄

𝑑𝑁=𝑊

�̅� (con

𝑑𝑄

𝑑𝑁= 𝑃𝑚𝑎𝑙).

Il valore di 𝑁 che massimizza il profitto di ogni impresa è dunque pari al numero di

lavoratori in corrispondenza del quale i ricavi marginali (�̅� ∙𝑑𝑄

𝑑𝑁) sono uguali al salario

nominale (𝑊), oppure, equivalentemente, in corrispondenza del quale la 𝑃𝑚𝑎𝑙 è uguale

al salario reale (𝑊 �̅�⁄ ).

Osserviamo che l’espressione �̅� ∙𝑑𝑄

𝑑𝑁 rappresenta l’incremento dei ricavi associato

all’impiego di un nuovo lavoratore (ricavi marginali), mentre 𝑊 costituisce

l’incremento dei costi sostenuti con l’assunzione del nuovo lavoratore (costi

marginali). Ne consegue, che i profitti aumentano se i ricavi marginali superano i costi

marginali:

𝑑𝜋

𝑑𝑁 > 0 se Ricavi marginali > Costi marginali, ovvero se �̅� ∙

𝑑𝑄

𝑑𝑁> 𝑊.

Ogni singola impresa inizierà quindi a produrre, assumendo il primo lavoratore

(𝑁 = 1), a condizione che i ricavi marginali siano maggiori dei costi marginali

(�̅� ∙ 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 1) > 𝑊).

Assumendo che questa condizione sia soddisfatta, perché, se non lo fosse, la

produzione sarebbe pari a zero, è interessante chiedersi che cosa succede ai profitti di

ogni impresa quando aumenta il numero dei lavoratori occupati 𝑁. In particolare, come

variano i ricavi marginali dell’impresa?

𝑁 ↑ → �̅� ∙𝑑𝑄

𝑑𝑁 ?

Dato il prezzo unitario (�̅�), i ricavi marginali dipendono dalla produttività marginale

del lavoro, che è decrescente rispetto a 𝑁. Di conseguenza, al crescere di 𝑁 i ricavi

marginali diminuiscono:

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𝑁 ↑ → �̅� ∙𝑑𝑄

𝑑𝑁= �̅� ∙ 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁) ↓.

Poiché all’aumentare del numero di lavoratori occupati (𝑁) i ricavi dell’impresa

crescono, ma in misura progressivamente decrescente, data la loro dipendenza dalla

dinamica della produttività marginale del lavoro, ogni impresa continuerà ad assumere

nuovi lavoratori fino a quando i ricavi marginali uguaglieranno il costo marginale, che è

pari al salario nominale (𝑊) ed è indipendente dal numero di lavoratori impiegati (𝑁):

𝑁∗ → �̅� ∙ 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁∗) = 𝑊 ovvero 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁∗) =𝑊

�̅� .

Possiamo chiarire questa relazione attraverso un esempio numerico i cui risultati

sono sintetizzati graficamente nella figura 5.

Figura 5 – Il criterio di decisione dell’impresa per l’assunzione di un lavoratore aggiuntivo

Supponiamo che il prezzo unitario sia uguale a 10 unità di moneta (𝑃 = 10) e che il

salario monetario sia invece pari a 100 unità di moneta (𝑊 = 100). Assumiamo,

inoltre, che i valori della produttività marginale del lavoro siano quelli dell’esempio

precedente.

In questo caso, ogni impresa avrà convenienza ad assumere il primo lavoratore, poiché i

ricavi marginali superano i costi marginali:

Se 𝑁 = 1:

Ricavi marginali (𝑁 = 1) > Costi marginali (𝑊 = 100),

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perché con �̅� = 10 e con 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 1) = 15 si ha:

�̅� ∙𝑑𝑄

𝑑𝑁= �̅� ∙ 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 1) = 10 ∙ 15 = 150 > 100.

Per verificare se le imprese hanno convenienza ad assumere il secondo lavoratore, è

necessario confrontare i ricavi marginali quando 𝑁 = 2 con il costo marginale, dato dal

salario nominale, sempre pari a 𝑊 = 100.

Se 𝑁 = 2:

Ricavi marginali (𝑁 = 2) > Costi marginali (𝑊 = 100),

perché con �̅� = 10 e con 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 2) = 13 si ha:

�̅� ∙𝑑𝑄

𝑑𝑁= �̅� ∙ 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 1) = 10 ∙ 13 = 130 > 100.

Pertanto, anche il secondo lavoratore verrà assunto.

Replichiamo questo ragionamento pure per la decisione relativa all’assunzione di un

terzo lavoratore.

Se 𝑁 = 3:

Ricavi marginali (𝑁 = 3) = Costi marginali (𝑊 = 100),

perché con �̅� = 10 e con 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 3) = 10 si ha:

�̅� ∙𝑑𝑄

𝑑𝑁= �̅� ∙ 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 3) = 10 ∙ 10 = 100 = 100.

In corrispondenza dell’impiego di un terzo lavoratore i ricavi marginali pareggiano il

costo marginale. Ne consegue, che questo è il numero massimo di lavoratori che verrà

assunto da ciascuna impresa. Infatti, i ricavi marginali associati all’impiego di un

lavoratore aggiuntivo sarebbero inferiori al suo salario monetario:

Se 𝑁 = 4:

Ricavi marginali (𝑁 = 4) < Costi marginali (𝑊 = 100),

perché con �̅� = 10 e con 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 4) = 8 si ha:

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�̅� ∙𝑑𝑄

𝑑𝑁= �̅� ∙ 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁 = 4) = 10 ∙ 8 = 80 < 100.

I profitti sono massimi quando

�̅� ∙ 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁∗) = 𝑊,

o, alternativamente, quando

𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁∗) =𝑊

�̅� .

Il salario reale (𝑊 𝑃)⁄ indica la quantità di beni che può essere acquistata dai

lavoratori. Se 𝑊 = 100 e �̅� = 10, allora con il proprio salario ogni lavoratore potrà

acquistate dieci unità di beni.

Questa analisi consente di concludere che il numero di lavoratori che ogni impresa è

disposta ad assumere dipende dal livello del salario reale. Nell’esempio appena esposto,

abbiamo visto che, se il salario reale equivale a 10 unità di moneta, il numero di

lavoratori assunto da ciascuna impresa è pari a 3. Le imprese conseguono un profitto se

impiegano un primo lavoratore in grado di produrre 15 unità di beni, e lo aumentano

assumendo un secondo lavoratore che produce 13 unità di beni aggiuntive.

Tuttavia, un aumento del salario reale provoca una riduzione della domanda di lavoro

da parte delle imprese. Infatti, se il salario reale fosse superiore a 15, nessun lavoratore

verrebbe assunto e la domanda di lavoro sarebbe nulla (si confronti la figura 6).

Qualora il salario reale fosse compreso tra 15 e 13, per esempio 14, verrebbe assunto

soltanto il primo lavoratore, ma non il secondo la cui produttività marginale è pari a 13.

Affinché venga assunto anche il secondo lavoratore, è necessario che il salario reale sia

inferiore a 13. In corrispondenza di un salario reale inferiore a 13 e superiore a 10

verrebbe assunto il secondo lavoratore, ma non il terzo la cui produttività marginale è

pari a 10. Il terzo lavoratore verrebbe impiegato soltanto nel caso in cui il salario reale

fosse uguale o inferiore a 10. Infine, le imprese sarebbero disposte ad occupare anche il

quarto lavoratore solo se il salario reale fosse pari o inferiore a 8.

In definitiva, il numero di lavoratori che ogni singola impresa è disposta ad assumere

coerentemente con il criterio della massimizzazione dei profitti è funzione del valore del

salario reale 𝑊 𝑃⁄ .

𝑊

𝑃↓ → 𝑁𝑑 ↑ e

𝑊

𝑃↑ → 𝑁𝑑 ↓.

Pertanto:

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𝑁𝑑 = 𝑓 (𝑊

𝑃) con 𝑓′ (

𝑊

𝑃) < 0.

Figura 6 – La funzione di domanda di lavoro della singola impresa

La funzione di domanda di lavoro che compare nella figura 6 fa riferimento al

comportamento di una singola impresa. Nella figura 7 è invece rappresentata la

funzione di domanda di lavoro aggregata relativa a 𝑛 imprese omogenee.

Figura 7 – L’aggregazione delle funzioni di domanda di lavoro di 𝒏 imprese omogenee

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Naturalmente, le curve di domanda di lavoro che compaiono nelle due figure

precedenti fanno riferimento a uno specifico esempio numerico diretto a illustrare i

criteri che, secondo la teoria neoclassica, guidano le scelte delle imprese quando devono

decidere il numero di lavoratori da impiegare. Più in generale, nei modelli

macroeconomici la funzione aggregata di domanda di lavoro è rappresentata mediante

una curva continua inclinata negativamente rispetto al salario reale, come nella seguente

figura 8.

Figura 8 – La funzione continua della domanda di lavoro aggregata

2.2. La funzione di offerta di lavoro

Nel mercato del lavoro, la domanda di lavoro formulata dalle imprese è fronteggiata

dall’offerta di lavoro espressa dai lavoratori. La figura 9 offre una rappresentazione

grafica della funzione di offerta di lavoro aggregata. Nella tradizione neoclassica il

numero di lavoratori disposti a lavorare è una funzione crescente del salario reale.

La relazione crescente tra salario reale e offerta di lavoro può essere spiegata nel modo

seguente. Indichiamo con 𝐿∗ e con 𝑊 𝑃⁄∗ rispettivamente le ore di lavoro e il salario

reale fissati contrattualmente con riferimento a una determinata unità di tempo (una

settimana, un mese, un trimestre etc.). Dati 𝐿∗ e 𝑊 𝑃⁄∗ ogni lavoratore ha due

alternative: da un lato, lavorare alle condizioni di mercato e, dall’altro, non lavorare e

godere del proprio tempo libero.

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Figura 9 – La funzione di offerta di lavoro aggregata

Le scelte di ciascun lavoratore vengono effettuate con l’obiettivo di massimizzare la

propria funzione di preferenza, ovvero la propria utilità, o soddisfazione (𝑈), che

dipende da due fattori:

a) il tempo di lavoro (𝐿), e

b) il salario reale (𝑊

𝑃).

Secondo la teoria neoclassica, il livello di soddisfazione di un lavoratore decresce al

crescere del tempo di lavoro 𝐿, mentre aumenta al crescere del salario reale 𝑊 𝑃⁄ .

Valgono quindi le seguenti due espressioni:

𝑑𝑈

𝑑𝐿< 0 e

𝑑𝑈

𝑑𝑊𝑃

> 0.

Ogni individuo opera le proprie scelte confrontando il livello di soddisfazione

associato alle due combinazioni di tempo di lavoro e di salario reale che corrispondono

alle seguenti due possibili alternative:

𝑈 (𝐿∗,𝑊

𝑃

) oppure 𝑈 (𝐿 = 0 ,𝑊

𝑃= 0).

Sulla base di queste considerazioni si possono individuare tre distinti gruppi di

lavoratori:

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1. I lavoratori che scelgono di lavorare, perché attribuiscono alla prima combinazione

una soddisfazione maggiore di quella associata alla seconda:

𝑈 (𝐿∗,𝑊

𝑃

∗) > 𝑈 (𝐿 = 0 ,

𝑊

𝑃= 0).

2. I lavoratori che scelgono di non lavorare, perché attribuiscono alla seconda

combinazione una soddisfazione maggiore di quella associata alla prima:

𝑈 (𝐿∗,𝑊

𝑃

∗) < 𝑈 (𝐿 = 0 ,

𝑊

𝑃= 0).

3. I lavoratori che sono indifferenti, perché la soddisfazione che ricavano dalla prima

combinazione è uguale a quella che ricavano dalla seconda:

𝑈 (𝐿∗,𝑊

𝑃

∗) = 𝑈 (𝐿 = 0 ,

𝑊

𝑃= 0).

Siamo ora in grado di costruire la curva di offerta di lavoro. Supponiamo che in

corrispondenza del salario reale 𝑊 𝑃⁄∗ il numero di lavoratori disposti a lavorare sia

pari a 𝑁𝑠(𝑊 𝑃⁄∗). Chiediamoci se, e in quale misura, il numero di lavoratori disposti a

lavorare cresce, quando il livello del salario reale è superiore a 𝑊 𝑃⁄∗:

𝑊

𝑃 1>𝑊

𝑃

→ 𝑁𝑠 ?

Figura 10 – L’andamento crescente della funzione di offerta di lavoro aggregata

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Il numero di lavoratori disposti a lavorare è senz’altro destinato ad aumentare, poiché,

oltre ai lavoratori del primo gruppo, in corrispondenza di un salario reale pari a 𝑊 𝑃⁄ 1

offriranno i propri servizi di lavoro anche i lavoratori del terzo gruppo (quelli

indifferenti quando il salario reale era pari a 𝑊 𝑃⁄∗ e parte dei lavoratori del secondo

gruppo. Ecco perché la curva di offerta di lavoro aggregata mostra un andamento

crescente rispetto al salario reale (figura 10).

2.3. L’equilibrio sul mercato del lavoro

Una volta costruite le curve di domanda e di offerta, è possibile definire il prezzo di

equilibrio per il mercato del lavoro, ovvero il prezzo che uguaglia le quantità di lavoro

domandate e offerte. Questo prezzo può essere definito graficamente, riportando la

curva di domanda e la curva di offerta di lavoro aggregate sullo stesso piano. Il prezzo

di equilibrio per il mercato del lavoro è quello corrispondente al punto di intersezione

tra la curva di domanda e la curva di offerta di lavoro (si confronti la figura 11).

Quando il livello del salario reale è pari a 𝑊 𝑃⁄ 𝐸, il mercato del lavoro è in

equilibrio, perché il numero di lavoratori che le imprese intendono assumere in

corrispondenza di quel livello di salario reale 𝑁𝑑(𝑊 𝑃⁄ 𝐸) è uguale al numero di

lavoratori che offrono i loro servizi di lavoro 𝑁𝑠(𝑊 𝑃⁄ 𝐸).

Figura 11 – L’equilibrio sul mercato del lavoro

Il punto 𝐸 rappresenta un equilibrio di piena occupazione. Infatti, in corrispondenza

del punto di intersezione delle curve di domanda e di offerta di lavoro tutti coloro che

desiderano lavorare al salario di mercato trovano un impiego. Non lavorano soltanto

coloro che sono disposti a lavorare esclusivamente per un salario reale più elevato di

𝑊 𝑃⁄ 𝐸, ovvero coloro che sulla curva di offerta di lavoro si collocano a destra del punto

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𝐸. Nella teoria neoclassica del mercato del lavoro questi disoccupati vengono definiti

‘disoccupati volontari’, perché la loro condizione è considerata figlia di una loro libera

scelta.

Secondo la teoria neoclassica, non soltanto esiste un livello del salario reale che

assicura la piena occupazione della forza lavoro, ma esso è inevitabilmente destinato a

raggiungere proprio tale valore di equilibrio. Ciò accade, perché anche all’interno del

mercato del lavoro vale la legge della domanda e dell’offerta, secondo cui ogni

squilibrio tra le quantità domandate e offerte verrà eliminata dalla variazione del prezzo

di mercato. In altri termini, per ogni livello di salario reale diverso da 𝑊 𝑃⁄ 𝐸, lo

squilibrio tra la domanda e l’offerta di lavoro verrà riassorbito attraverso una variazione

del salario reale, sino a quando lo stesso non avrà raggiunto il suo valore di equilibrio.

2.3.1. L’eccesso di offerta di lavoro

Supponiamo ora che risulti 𝑊 𝑃⁄ 1 > 𝑊 𝑃⁄ 𝐸.

Figura 12 – L’eccesso di offerta sul mercato del lavoro

In questo caso, si avrà un eccesso di offerta di lavoro rispetto alla domanda:

𝑁𝑑 (𝑊

𝑃 1) = 𝑁𝑑1 < 𝑁𝐸 ,

𝑁𝑠 (𝑊

𝑃 1) = 𝑁𝑠1 > 𝑁𝐸 .

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Di conseguenza:

𝑁𝑠 (𝑊

𝑃 1) > 𝑁𝑑 (

𝑊

𝑃 1) (eccesso di offerta di lavoro).

I lavoratori disposti a lavorare al salario reale 𝑊 𝑃⁄ 1 eccedono i posti di lavoro

disponibili, ma la pressione determinata dall’eccesso di offerta di lavoro provoca una

caduta dei salari reali che eliminerà lo squilibrio tra domanda e offerta sul mercato del

lavoro (figura 12).

Infatti, quando il salario reale cade, la domanda di lavoro aumenta, mentre

diminuisce l’offerta. Questo meccanismo di aggiustamento automatico prosegue sino a

quando domanda e offerta di lavoro si uguagliano in corrispondenza del livello di piena

occupazione della forza lavoro 𝑁𝐸.

𝑊

𝑃↓ → 𝑁𝑑 ↑ e 𝑁𝑠 ↓ →

𝑊

𝑃 𝐸 → 𝑁𝐸 .

2.3.2. L’eccesso di domanda di lavoro

Ora supponiamo che sia 𝑊 𝑃⁄ 2 < 𝑊 𝑃⁄ 𝐸. Contrariamente al caso precedente, sul

mercato del lavoro si determina una situazione di eccesso di domanda rispetto

all’offerta.

𝑁𝑠 (𝑊

𝑃 2) = 𝑁𝑠2 < 𝑁𝐸 ,

𝑁𝑑 (𝑊

𝑃 2) = 𝑁𝑑2 > 𝑁𝐸 .

Di conseguenza:

𝑁𝑑 (𝑊

𝑃 2) > 𝑁𝑠 (

𝑊

𝑃 2) (eccesso di domanda di lavoro).

In corrispondenza del salario reale 𝑊 𝑃⁄ 2, la domanda di lavoro delle imprese eccede

la disponibilità dei lavoratori ad offrire le loro prestazioni lavorative. Pur di riuscire a

impiegare il numero di lavoratori di cui necessitano, le imprese sono quindi disposte a

corrispondere un salario reale superiore a 𝑊 𝑃⁄ 2.

Per effetto della progressiva crescita del salario reale, il numero di lavoratori che le

imprese intendono assumere tende a diminuire, mentre l’offerta di lavoro, invece, tende

ad aumentare. Simmetricamente al caso precedente, questo processo di aggiustamento

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prosegue sino a quando il mercato del lavoro si trova in equilibrio in corrispondenza del

salario reale 𝑊 𝑃⁄ 𝐸 e del livello di piena occupazione della forza lavoro 𝑁𝐸 (figura 13).

Figura 13 – L’eccesso di domanda sul mercato del lavoro

2.3.3. Lo spostamento della curva di offerta di lavoro

La posizione di equilibrio sul mercato del lavoro si può modificare quando si verificano

fenomeni che provocano una spostamento delle curve di offerta e/o di domanda di

lavoro. Consideriamo, innanzitutto, gli effetti di uno spostamento della funzione di

offerta di lavoro. Tale spostamento può avvenire a causa di fenomeni che modificano il

numero di lavoratori disposti a offrire lavoro in corrispondenza di un determinato livello

del salario reale. Per esempio:

1. A parità di salario reale, un aumento della popolazione in età lavorativa dovuto a

fattori naturali provoca un incremento dei lavoratori disposti a lavorare.

2. A parità di altre condizioni, un aumento del flusso migratorio verso un determinato

paese induce un aumento dell’offerta di lavoro.

3. Per effetto della globalizzazione, le imprese possono trasferire le loro linee produttive

verso altri paesi. La globalizzazione provoca quindi conseguenze equivalenti a quelle

provocate da un aumento del flusso migratorio o da un incremento della popolazione in

età lavorativa.

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Tutti questi fenomeni determinano una crescita del numero di lavoratori disposti a

lavorare per un certo salario reale. Graficamente, ciò si traduce in uno spostamento della

funzione di offerta di lavoro verso destra (figura 14).

Figura 14 – Gli effetti di uno spostamento della curva di offerta di lavoro

In questo caso, in corrispondenza del salario reale 𝑊 𝑃⁄ 𝐸 non si avrà più equilibrio,

ma piuttosto una situazione di eccesso di offerta di lavoro:

𝑊

𝑃 𝐸 → 𝑁𝑑 (

𝑊

𝑃 𝐸) = 𝑁𝐸 ,

𝑊

𝑃 𝐸 → 𝑁𝑠

′ (𝑊

𝑃 𝐸) = 𝑁𝑠1 > 𝑁𝐸 .

L’eccesso di offerta di lavoro causa una riduzione del salario reale che spinge il

sistema verso una nuova posizione di equilibrio corrispondente al punto 𝐸1, in cui la

domanda di lavoro è nuovamente pari all’offerta:

𝑊

𝑃↓ → 𝑁𝑑 ↑ e 𝑁𝑠 ↓ →

𝑊

𝑃 𝐸1 → 𝑁𝑑 (

𝑊

𝑃 𝐸1) = 𝑁𝑠

′ (𝑊

𝑃 𝐸1).

2.3.4. Lo spostamento della curva di domanda di lavoro

L’equilibrio sul mercato del lavoro può essere modificato anche da uno spostamento

della curva di domanda di lavoro.

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La curva di domanda di lavoro è stata costruita osservando che gli imprenditori

scelgono il numero di lavoratori da impiegare in base al principio di massimizzazione

del profitto. Questo criterio di scelta spinge gli imprenditori a domandare un numero di

lavoratori tale, che in corrispondenza di esso la produttività marginale del lavoro è

uguale al livello del salario reale. La figura 15 mostra come il numero di lavoratori che

ogni impresa intende assumere è definito dal punto di intersezione tra la retta del salario

reale e la curva della produttività marginale del lavoro, che, come sappiamo, è

decrescente rispetto a 𝑁.

Figura 15 – L’aumento della produttività marginale del lavoro

La costruzione della funzione di domanda di lavoro era basata sull’assunzione che la

curva della produttività marginale del lavoro fosse data e che variasse il livello del

salario reale. Si può aggiungere che uno spostamento della curva della produttività

marginale del lavoro a parità di salario reale modifica il numero di lavoratori che ogni

impresa desidera impiegare, provocando così uno spostamento della curva di domanda

di lavoro. Supponiamo, ad esempio, che per effetto dell’introduzione di una

innovazione tecnologica la produttività di ogni lavoratore cresca. In questo caso, come

si evince dalla figura 15, la curva della produttività marginale del lavoro si sposta verso

l’alto e, a parità di salario reale, il numero di lavoratori che ogni impresa desidera

assumere aumenta. Di conseguenza, la curva di domanda di lavoro si sposta verso

destra, poiché a parità di salario reale l’insieme delle imprese è disposta ad assumere un

maggior numero di lavoratori (figura 16).

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Figura 16 – Gli effetti di uno spostamento della curva di domanda di lavoro

Lo spostamento della curva di domanda di lavoro determina una situazione di

eccesso di domanda rispetto all’offerta che mette in moto un processo di aggiustamento

simmetrico a quello osservato in relazione allo spostamento della curva di offerta di

lavoro:

𝑊

𝑃 𝐸 → 𝑁𝑠 (

𝑊

𝑃 𝐸) = 𝑁𝐸 ,

𝑊

𝑃 𝐸 → 𝑁𝑑

′ (𝑊

𝑃 𝐸) = 𝑁𝑑1 > 𝑁𝐸 .

Pertanto:

𝑊

𝑃↑ → 𝑁𝑑 ↓ e 𝑁𝑠 ↑ →

𝑊

𝑃 𝐸1 → 𝑁𝑠 (

𝑊

𝑃 𝐸1) = 𝑁𝑑

′ (𝑊

𝑃 𝐸1).

3. Il mercato dei beni

La teoria macroeconomica descrive il mercato dei beni in base all’ipotesi che,

all’interno del sistema economico, venga prodotto un solo bene rappresentativo

dell’insieme dei beni e dei servizi prodotti, e quindi identificabile con il PIL. Come nel

caso del mercato del lavoro, anche il mercato dei beni viene descritto specificando una

funzione di offerta e una funzione di domanda di beni.

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3.1. L’offerta aggregata di beni

La funzione di offerta di beni deriva dalle decisioni di produzione delle 𝑛 imprese

omogenee che operano nell’ambito del sistema economico. Come abbiamo visto in

precedenza, l’equilibrio sul mercato del lavoro determina il numero di lavoratori (𝑁𝐸)

che verrà impiegato dalle 𝑛 imprese che compongono il sistema produttivo. Una volta

noto il numero complessivo di lavoratori impiegati, e nota anche la funzione aggregata

di produzione, che, data la tecnologia, definisce la relazione tra il numero di lavoratori

occupati dalle 𝑛 imprese e la produzione complessiva, è possibile individuare la

produzione (l’offerta) aggregata di beni corrispondente all’impiego di 𝑁𝐸 lavoratori

(figura 17).

Figura 17 – La determinazione dell’offerta aggregata di beni

Indicando con 𝑌 la produzione complessiva, con 𝐾 lo stock di capitale complessivo

utilizzato dalle 𝑛 imprese, e con 𝑁 il numero di lavoratori impiegati dalle 𝑛 imprese;

avremo la seguente funzione aggregata di produzione:

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𝑌 = 𝑓(�̅�, 𝑁) → 𝑌 = 𝑓(𝑁).

Poiché in corrispondenza dell’equilibrio sul mercato del lavoro si determina un

particolare livello di occupazione pari a 𝑁𝐸, l’offerta aggregata di beni coincide con:

𝑌𝑃𝑂 = 𝑓(𝑁𝐸).

Infatti, come emerge anche dalla visione della figura 17:

𝑁 = 𝑁𝐸 → 𝑌 = 𝑓(𝑁𝐸) = 𝑌𝑃𝑂 .

3.2. La domanda aggregata di beni

Per completare la descrizione del mercato dei beni è necessario specificare la funzione

di domanda di beni, perché l’equilibrio sul mercato dei beni presuppone che tutto ciò

che è stato prodotto dalle imprese debba anche essere acquistato. In altri termini,

occorre che si manifesti una domanda di beni che assorba la produzione complessiva

offerta dalle imprese.

Specifichiamo la condizione di equilibrio sul mercato dei beni nel modo seguente:

𝐷𝐴 = 𝑌𝑃𝑂,

con 𝐷𝐴 pari alla domanda aggregata e 𝑌𝑃𝑂 pari al reddito di piena occupazione.

Per descrivere l’equilibrio sul mercato dei beni, dobbiamo approfondire l’analisi

della domanda aggregata. Ai fini dell’esame della composizione della domanda

aggregata, è utile ricorrere agli schemi dei conti di contabilità nazionale illustrati sopra.

Come si ricorderà, nel caso di una economia chiusa il conto delle risorse e degli

impieghi specifica due forme di impiego del PIL, i consumi e gli investimenti:

𝐷𝐴 = 𝐶 (Consumi) + 𝐼 (Investimenti).

Prima di definire la funzione della domanda aggregata di beni dobbiamo quindi

analizzare i fattori che influenzano le decisioni di consumo e di investimento.

3.2.1. Le decisioni di consumo

Le decisioni di consumo vengono prese dalle famiglie che hanno percepito redditi sotto

forma di salari e di profitti, i quali, in base agli schemi di contabilità nazionale,

compongono il reddito disponibile:

𝑌𝑑 = 𝑊 + 𝜋.

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Come sappiamo, le famiglie utilizzano il reddito disponibile in due modi: una parte di

esso è destinato all’acquisto di beni di consumo, mentre la parte rimanente viene

risparmiata.

I fattori che influenzano le scelte di consumo e di risparmio delle famiglie vengono

descritti utilizzando un modello teorico definito modello di scelta intertemporale. Tale

modello descrive le scelte di una singola famiglia (consumatore), prendendo in

considerazione due distinti periodi temporali, quello presente e quello futuro. In

particolare, si assume che in questi due periodi il consumatore riceva un reddito pari,

rispettivamente, a 𝑌1 e 𝑌2. Il problema del consumatore consiste quindi nello scegliere

tra consumi e risparmi per decidere come impiegare questi redditi nei due periodi

considerati.

La prima scelta potrebbe essere quella di realizzare in ogni periodo un ammontare di

consumi pari al reddito disponibile:

𝐶1 = 𝑌1 e 𝐶2 = 𝑌2.

Il consumatore potrebbe però adottare anche una scelta diversa. Supponiamo che i

redditi nei due periodi non siano uguali. Ad esempio, ipotizziamo che 𝑌1 sia maggiore di

𝑌2, perché durante il primo periodo il consumatore lavora, mentre in quello futuro il

reddito da esso percepito corrisponde alla sua pensione. Supponiamo, inoltre, che egli

intenda mantenere un tenore di vita costante nei due periodi. A tal fine, egli potrebbe

quindi decidere di risparmiare una parte del reddito percepito nel primo periodo, in

modo tale da espandere i suoi consumi nel corso del secondo periodo, quello futuro, in

cui si sarà ormai ritirato dalla vita lavorativa. Pertanto, avremo:

𝐶1 < 𝑌1 e 𝑆1 = 𝑌1 − 𝐶1 > 0,

con 𝑆1 pari al risparmio del primo periodo.

Yd

Consumi

Risparmi

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Corrispondentemente, nel secondo periodo avremo:

𝐶2 > 𝑌2.

Ci si può chiedere di quanto aumentino i consumi futuri in conseguenza del

risparmio di una quota del reddito corrente. Ipotizziamo, per esempio, che il nostro

consumatore risparmi 1 € nel periodo presente. Per effetto di questa scelta, di quanto

aumenterà il suo reddito disponibile nel periodo futuro? Per semplificare i conti

supponiamo che la distanza tra il presente e il futuro sia di un anno soltanto.

Per rispondere a questa domanda è necessario fare riferimento al terzo mercato che

caratterizza il sistema economico, ovvero il mercato dei capitali. Secondo la teoria

macroeconomica neoclassica, il mercato dei capitali è il luogo nel quale i risparmiatori

offrono le risorse risparmiate alle imprese che intendono utilizzarle per la realizzazione

dei loro progetti di investimento, ovvero per l’acquisto di nuovi beni capitali che

determina un aumento del loro stock di capitale (𝐾). Lo scambio di risorse che

caratterizza il mercato dei capitali si realizza attraverso un contratto di credito che

obbliga il debitore a restituire al creditore il capitale ottenuto in prestito aumentato di un

premio rappresentato dall’interesse. Se indichiamo con il simbolo 𝑟 il tasso di interesse

annuo, chi oggi risparmia 1 € e lo impiega sul mercato dei capitali prestandolo alle

imprese, alla fine dell’anno riceverà una somma pari a 1 + 𝑟. Pertanto, la decisione di

risparmiare (non consumare) un euro oggi permette di incrementare i consumi futuri (tra

un anno) in misura pari a (1 + 𝑟) euro.

Queste considerazioni consentono di specificare i fattori che influenzano le decisioni

di consumo delle famiglie. Il primo fattore da cui dipendono i consumi correnti, cioè i

consumi realizzati nel tempo presente, è dato dal livello del reddito corrente. A parità di

altre condizioni, possiamo cioè assumere che esista una relazione diretta tra il livello del

reddito corrente e i consumi:

𝑑𝐶1𝑑𝑌1

> 0.

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Il secondo fattore che influenza le decisioni di consumo delle famiglie, e quindi

anche quelle di risparmio, è il tasso di interesse 𝑟. Secondo la teoria neoclassica, infatti,

il tasso di interesse rappresenta la ricompensa per l’astensione dal consumo, ovvero la

remunerazione del risparmio. Ne consegue che, a parità di altri fattori, un aumento del

tasso di interesse provocherà un aumento dei risparmi e, conseguentemente, una

riduzione dei consumi e viceversa:

𝑟 ↑ → 𝑆 ↑ e 𝐶 ↓.

Valgono quindi le seguenti relazioni:

𝐶1 = 𝑓(𝑌1, 𝑟) con 𝑑𝐶1𝑑𝑌1

> 0 e 𝑑𝐶1𝑑𝑟 < 0,

𝑆1 = 𝑌1 − 𝐶1 con 𝑑𝑆1𝑑𝑌1

> 0 e 𝑑𝑆1𝑑𝑟 > 0.

Generalizzando questo ragionamento, possiamo pertanto scrivere la seguente

funzione del consumo relativa a un singolo consumatore:

𝑐 = 𝑓(𝑦, 𝑟).

La funzione aggregata del consumo è invece data da:

𝐶 = 𝑓(𝑌, 𝑟) con 𝑑𝐶

𝑑𝑌> 0 e

𝑑𝐶

𝑑𝑟< 0,

in cui 𝐶 rappresenta i consumi aggregati, mentre 𝑌 e 𝑟 corrispondono, rispettivamente,

al reddito aggregato e al tasso di interesse.

3.2.2. Le decisioni di investimento

In una economia chiusa, la seconda componente della domanda aggregata consiste nella

domanda per beni di investimento espressa dalle imprese che acquistano nuovi beni

capitali per espandere il loro stock di capitale (𝐾). Implicitamente, quindi, stiamo

assumendo che l’unico bene rappresentativo di tutti i beni e i servizi prodotti

nell’ambito del sistema economico possa essere indifferentemente consumato oppure

utilizzato come bene capitale.

Come nel caso della decisione relativa al numero di lavoratori da impiegare

(domanda di lavoro), le imprese effettueranno le scelte riguardanti la realizzazione di un

progetto di investimento in base al criterio della massimizzazione dei profitti. Di

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conseguenza, esse confronteranno i costi e i ricavi associati all’acquisto di un bene

capitale.

Il confronto tra i costi e i ricavi relativi a una decisione di investimento è difficile a

causa di due elementi che possiamo illustrare mediante un semplice esempio.

Supponiamo che un’impresa debba decidere se realizzare o meno un investimento dal

costo pari a 𝐼 = 100 unità di moneta. L’impresa confronterà il costo di acquisto con i

ricavi che essa si aspetta di ottenere grazie al proprio investimento. Per semplicità,

ipotizziamo che la vita di questo bene di investimento sia di un anno soltanto e che,

dopo un anno, l’impresa preveda di poter ottenere ricavi pari a 𝜃 = 110.

La prima ragione che rende difficile il confronto tra i costi e i ricavi associati a una

decisione di investimento è che la natura di queste due grandezze è diversa. Mentre i

costi dell’investimento sono certi, i ricavi, che sono riferiti a un momento futuro, sono

incerti. La teoria neoclassica supera questo problema assumendo che i ricavi futuri

legati all’acquisto di un nuovo bene capitale siano invece certi. Essa cioè postula che gli

imprenditori possano definire con certezza i risultati futuri delle proprie decisioni di

investimento. Come vedremo in seguito, questo punto separa nettamente la teoria

neoclassica dalla teoria macroeconomica di Keynes.

Il confronto tra i costi e i ricavi relativi alle decisioni di investimento è ulteriormente

complicato dal fatto che, se anche si ammette che i ricavi futuri siano conosciuti

dall’imprenditore con certezza, ciò non toglie che essi facciano comunque riferimento a

un istante temporale futuro. In altri termini, una decisione di investimento implica il

confronto tra due grandezze associate a istanti temporali diversi. E’ quindi necessario

disporre di un criterio che permetta di confrontare queste due grandezze economiche.

Tale criterio può essere definito ricordando le caratteristiche del mercato dei capitali.

Come accennato in precedenza, secondo la teoria neoclassica, all’interno del mercato

dei capitali le risorse risparmiate vengono scambiate attraverso un contratto di credito

che prevede la corresponsione di un interesse. Possiamo schematizzare le caratteristiche

di un contratto di credito della durata di un anno, che prevede la cessione di un capitale

pari a 𝐶 al tempo presente, contro l’impegno del debitore di pagare dopo un anno una

somma definita montante e indicata con il simbolo 𝑀, corrispondente al capitale

aumentato degli interessi, ovvero una somma pari a 𝑀 = 𝐶(1 + 𝑟), nel modo seguente.

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Questa schematizzazione mostra come un capitale 𝐶 disponibile al tempo presente

equivalga a una somma pari a 𝑀 = 𝐶(1 + 𝑟) disponibile a distanza di un anno. In altre

parole, 𝐶 può anche essere inteso come il valore attuale, cioè il valore riferito al tempo

presente, di una somma pari a 𝑀 = 𝐶(1 + 𝑟) disponibile tra un anno:

Valore attuale = 𝐶 =𝑀

(1 + 𝑟).

Si può quindi concludere, che un imprenditore che conosce con certezza i ricavi

attesi dal suo investimento, effettuerà le sue scelte confrontando il costo

dell’investimento con il valore attuale dei ricavi futuri:

𝐼 ↔ 𝑉𝐴(𝜃) =𝜃

(1 + 𝑟) .

Sulla base di questo confronto, l’imprenditore:

realizza l’investimento, se il valore attuale dei ricavi è maggiore del costo

dell’investimento (𝑉𝐴(𝜃) > 𝐼);

non realizza l’investimento, se il valore attuale dei ricavi è minore del costo

dell’investimento (𝑉𝐴(𝜃) < 𝐼);

è indifferente riguardo all’ipotesi di realizzare l’investimento, se il valore attuale dei

ricavi è uguale al costo dell’investimento (𝑉𝐴(𝜃) = 𝐼).

Il valore attuale dei ricavi futuri è funzione di tre fattori:

a) l’ammontare dei ricavi futuri (𝜃);

b) il tasso di interesse (tasso di sconto) (𝑟), e

c) il tempo (𝑇).

Per semplicità, assumiamo che 𝑇 = 1. Pertanto, avremo:

𝑉𝐴(𝜃) =𝜃

(1 + 𝑟) .

Questa espressione mostra che esiste una relazione inversa tra il tasso di interesse e il

valore attuale dei ricavi futuri:

Se 𝑟 ↑ → 𝑉𝐴(𝜃, 𝑟) ↓.

Ne consegue che, a parità di ricavi futuri (𝜃 = 110), la scelta relativa alla

realizzazione dell’investimento dipende dal valore del tasso di interesse:

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se il tasso di interesse fosse pari al 5%, l’imprenditore realizzerebbe l’investimento,

poiché:

𝑉𝐴(𝜃 = 110, 𝑟 = 5%) =𝜃

(1 + 𝑟)=

110

(1 + 0,05)= 104,8 > 𝐼 = 100;

se il tasso di interesse fosse pari al 10%, l’imprenditore sarebbe indifferente, poiché:

𝑉𝐴(𝜃 = 110, 𝑟 = 10%) =𝜃

(1 + 𝑟)=

110

(1 + 0,10)= 100 = 𝐼 = 100;

se, infine, il tasso di interesse fosse pari al 20%, l’imprenditore non realizzerebbe

l’investimento, poiché:

𝑉𝐴(𝜃 = 110, 𝑟 = 20%) =𝜃

(1 + 𝑟)=

110

(1 + 0,20)= 91,7 < 𝐼 = 100.

Esiste quindi un particolare valore del tasso di interesse (𝑟 = 𝑟∗), in corrispondenza

del quale il valore attuale dei ricavi futuri è uguale al costo dell’investimento. Più

precisamente, tale valore di 𝑟 soddisfa la seguente relazione:

𝑉𝐴(𝜃, 𝑟∗) =𝜃

(1 + 𝑟∗)= 𝐼.

Da questa espressione si ricava:

1 + 𝑟∗ =𝜃

𝐼 e quindi 𝑟∗ =

𝜃

𝐼− 1.

Questo particolare valore di 𝑟 (𝑟∗) viene definito efficienza marginale del capitale.

Con riferimento all’esempio numerico di cui sopra, poiché 𝜃 = 110 e 𝐼 = 100,

l’efficienza marginale del capitale è pari a:

𝑟∗ =110

100− 1 = 1,1 − 1 = 0,1 = 10%.

In definitiva, è possibile ricavare una relazione tra il valore del tasso di interesse e

l’ammontare degli investimenti (figura 18):

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Figura 18 – Gli investimenti come funzione del tasso di interesse

Per ogni valore di 𝑟 superiore a 𝑟∗ non si investe perché:

𝑉𝐴(𝜃, 𝑟 > 𝑟∗) < 𝑉𝐴(𝜃, 𝑟∗) = 𝐼.

Viceversa, per ogni valore di 𝑟 inferiore a 𝑟∗ si investe, perché:

𝑉𝐴(𝜃, 𝑟 < 𝑟∗) > 𝑉𝐴(𝜃, 𝑟∗) = 𝐼.

La figura 18 definisce la relazione tra il livello del tasso di interesse e il volume

degli investimenti con riferimento a un singolo progetto di investimento. Naturalmente,

questa relazione può essere definita anche considerando un numero maggiore di progetti

di investimento. Supponiamo, per esempio, che si possano definire tre distinti progetti

di investimento, tutti della durata di un anno, i cui costi e ricavi futuri sono descritti

schematicamente qui di seguito:

Primo progetto:

Secondo progetto:

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Terzo progetto:

Per costruire la curva degli investimenti che descrive la relazione tra il tasso di

interesse e il volume complessivo degli investimenti, calcoliamo l’efficienza marginale

del capitale (EMC) di questi tre progetti (figura 19).

Figura 19 – Il criterio di scelta in presenza di una pluralità di progetti di investimento

Primo progetto:

𝑉𝐴(𝜃1 = 120, 𝑟1∗) = 𝐼1 =

𝜃1(1 + 𝑟1

∗) → 𝑟1

∗ =𝜃1𝐼1− 1 =

120

100− 1 = 1,2 − 1 = 0,2 = 20%.

𝐼1 verrà realizzato in corrispondenza di qualunque valore di 𝑟 < 20%.

Secondo progetto:

𝑉𝐴(𝜃2 = 110, 𝑟2∗) = 𝐼2 =

𝜃2(1 + 𝑟2

∗) → 𝑟2

∗ =𝜃2𝐼2− 1 =

110

100− 1 = 1,1 − 1 = 0,1 = 10%.

𝐼2 verrà realizzato in corrispondenza di qualunque valore di 𝑟 < 10%.

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Terzo progetto:

𝑉𝐴(𝜃3 = 105, 𝑟3∗) = 𝐼3 =

𝜃3(1 + 𝑟3

∗) → 𝑟3

∗ =𝜃3𝐼3− 1 =

105

100− 1 = 1,05 − 1 = 0,05 = 5%.

𝐼3 verrà realizzato in corrispondenza di qualunque valore di 𝑟 < 5%.

La figura 20 riporta la funzione aggregata degli investimenti nel caso in cui le

imprese abbiano complessivamente tre progetti di investimento.

Figura 20 – La costruzione della funzione di domanda per beni di investimento aggregata

in presenza di un numero finito di progetti di investimento

Se il numero dei progetti di investimento tende a infinito, la funzione di domanda

aggregata per beni di investimento diventa continua e inclinata negativamente rispetto al

tasso di interesse (figura 21).

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Figura 21 – La versione continua della funzione di domanda

per beni di investimento aggregata

3.3. L’equilibrio sul mercato dei beni

Una volta specificati i fattori che influenzano le decisioni di consumo e le decisioni di

investimento, è possibile costruire la funzione di domanda aggregata di beni. Partendo

dalle tre relazioni seguenti:

a) 𝐷𝐴 = 𝐶 + 𝐼,

b) 𝐶 = 𝑓(𝑌, 𝑟) con 𝑑𝐶

𝑑𝑌> 0 e

𝑑𝐶

𝑑𝑟< 0, e

c) 𝐼 = 𝐼(𝜃, 𝑟) con 𝑑𝐼

𝑑𝑟< 0,

definiamo la funzione di domanda aggregata di beni sostituendo la b) e la c) nella a). Di

conseguenza, otteniamo:

d) 𝐷𝐴 = 𝐶(𝑌, 𝑟) + 𝐼(𝜃, 𝑟).

Per completare la descrizione del mercato dei beni, è necessario specificare la

condizione di equilibrio tra la domanda aggregata e l’offerta aggregata, che, come

abbiamo visto in precedenza, corrisponde alla produzione complessiva coerente con la

piena occupazione (𝑁𝐸). In altri termini, il mercato dei beni si trova in equilibrio,

quando il livello della domanda aggregata è uguale al reddito di piena occupazione

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(𝑌𝑃𝑂). La condizione di equilibrio sul mercato dei beni è quindi descritta dalla

relazione:

e) 𝐷𝐴 = 𝑌𝑃𝑂 con 𝑌𝑃𝑂 = 𝑓(𝑁𝐸).

Possiamo osservare che la definizione della condizione di equilibrio sul mercato dei

beni equivale alla specificazione del prezzo che, all’interno del mercato dei beni,

assicura l’equilibrio tra le quantità aggregate di beni domandate e offerte. Questo

risultato si ottiene inserendo la d) nella e):

f) 𝑌𝑃𝑂 = 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟) + 𝐼(𝜃, 𝑟).

Leggendo quest’ultima equazione, notiamo che il reddito di piena occupazione

(𝑌𝑃𝑂), definito in relazione alle due componenti della domanda aggregata considerate

nel contesto di una economia chiusa (consumi e investimenti), è funzione di una sola

variabile, ovvero il tasso di interesse (𝑟).

Il tasso di interesse rappresenta quindi il prezzo che mette in equilibrio le quantità

aggregate di beni domandate e offerte. In altri termini, affinché la domanda aggregata

sia pari al reddito di piena occupazione, il tasso di interesse deve assumere un valore

tale da soddisfare l’equazione f). Il significato economico di questa conclusione può

essere chiarito riscrivendo la f) spostando i consumi sul lato sinistro dell’equazione:

𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟) = 𝐼(𝜃, 𝑟).

Ricordando che vale la seguente relazione:

𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟) = 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟),

la condizione di equilibrio sul mercato dei beni può quindi essere riscritta nel modo

seguente:

g) 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟) = 𝐼(𝜃, 𝑟).

In base alla g), la condizione necessaria affinché la domanda aggregata (𝐷𝐴) uguagli

il reddito di piena occupazione (𝑌𝑃𝑂) è che 𝑟 assuma il valore in corrispondenza del

quale le imprese sono indotte a realizzare un volume di investimenti 𝐼(𝜃, 𝑟) pari al

flusso di risparmi generato in una situazione di piena occupazione 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟).

Questa condizione può essere illustrata mediante il seguente esempio numerico. Si

supponga che il reddito di piena occupazione, che, come sappiamo, è funzione di 𝑁𝐸,

assuma un valore pari a 1.000:

𝑌𝑃𝑂 = 𝑓(𝑁𝐸) = 1.000 .

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Affinché vi sia equilibrio sul mercato dei beni, è necessario che tutta questa produzione

venga domandata, e quindi consumata o investita. Generalmente, i consumi sono

funzione sia del reddito che del tasso di interesse. Tuttavia, per semplicità immaginiamo

che essi siano funzione soltanto del reddito, e che la relazione che li lega al reddito sia

di natura lineare. Ipotizziamo, cioè, che:

𝐶 = 𝐶(𝑌) = 𝑐 ∙ 𝑌,

e che la propensione al consumo (𝑐) sia pari a 0,7, ovvero che gli agenti economici

consumino il 70% del reddito percepito. Pertanto:

𝐶 = 𝐶(𝑌) = 𝑐 ∙ 𝑌 con 0 < 𝑐 < 1 e 𝑐 = 0,7,

𝐶(𝑌𝑃𝑂) = 𝑐 ∙ 𝑌𝑃𝑂 = 0,7 ∙ 1.000 = 700, e

𝑆(𝑌𝑃𝑂) = (1 − 𝑐) ∙ 𝑌𝑃𝑂 = 0,3 ∙ 1.000 = 300.

Se il volume complessivo di produzione equivalente al PIL è pari a 1.000, cui

corrisponde un analogo valore del reddito disponibile, la domanda per beni di consumo

è uguale a 700, mentre il flusso di risparmi è pari a 300. Ciò implica, che la condizione

necessaria perché si abbia un livello della domanda aggregata uguale al livello del

reddito di piena occupazione (pari a 1.000) è che il flusso degli investimenti coincida

con il flusso di risparmi corrispondente al reddito di piena occupazione (cioè 300). Il

tasso di interesse deve quindi assumere un valore tale, che in corrispondenza di esso le

imprese siano spinte a realizzare un flusso di investimenti pari a 300:

𝐷𝐴 = 𝑌𝑃𝑂 = 1.000,

𝐼(𝜃, 𝑟) = 𝑆(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟),

𝑟 → 𝐼(𝜃, 𝑟) = 300 = 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟).

Queste relazioni permettono di evidenziare l’esistenza di un valore del tasso di

interesse che assicura l’equilibrio sul mercato dei beni. Dobbiamo però chiederci, se il

tasso di interesse finirà per assumere proprio tale valore di equilibrio. Secondo la teoria

neoclassica, la risposta è affermativa, perché il tasso di interesse rappresenta un prezzo,

che, in quanto tale, varia in funzione degli squilibri tra le quantità domandate e offerte,

sino a quando raggiunge il valore che assicura l’equilibrio di mercato. In particolare,

poiché nella teoria neoclassica il tasso di interesse costituisce la ricompensa per

l’astensione dal consumo, o, equivalentemente, la remunerazione del risparmio, esso

rappresenta il prezzo che mette in equilibrio la domanda e l’offerta di risorse

risparmiate.

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Come anticipato descrivendo le scelte del consumatore, il mercato dei capitali è il

luogo in cui le risorse risparmiate, offerte dai percettori di reddito e domandate dalle

imprese ai fini della realizzazione dei loro progetti di investimento, vengono scambiate

attraverso la stipula di contratti di credito.

Di conseguenza, il tasso di interesse rappresenta la grandezza che mette in equilibrio

sia il mercato dei beni che il mercato dei capitali. E poiché questi due mercati sono

caratterizzati dalla medesima variabile di prezzo, possiamo concludere che essi sono

sostanzialmente coincidenti.

Questa implicazione può essere ulteriormente chiarita attraverso la descrizione della

teoria neoclassica dei meccanismi di funzionamento del mercato dei capitali.

4. Il mercato dei capitali

Nella teoria neoclassica, il mercato dei capitali è il luogo in cui i risparmiatori offrono le

risorse risparmiate alle imprese perché queste ultime possano utilizzarle per realizzare i

loro progetti di investimento. Inoltre, come già accennato in precedenza, il tasso di

interesse rappresenta la remunerazione del risparmio, ovvero il premio che le imprese

sono disposte a corrispondere ai risparmiatori per indurli a cedere le risorse risparmiate.

Come nel caso del mercato del lavoro e nel caso del mercato dei beni, anche il mercato

dei capitali è caratterizzato dalla presenza di una curva di offerta e di una curva di

domanda.

La funzione di offerta di risorse risparmiate (la funzione del risparmio)

𝑆 = 𝑆(𝑌, 𝑟) con 𝑑𝑆

𝑑𝑌> 0 e

𝑑𝑆

𝑑𝑟> 0.

La funzione di domanda di risorse risparmiate (la funzione degli investimenti)

𝐼 = 𝐼(𝜃, 𝑟) con 𝑑𝐼

𝑑𝑟< 0.

L’equilibrio sul mercato dei capitali è illustrato graficamente nella figura 22, in

cui sono tracciate le funzioni dei risparmi e degli investimenti. Sulle ordinate è

specificato il valore del tasso di interesse (𝑟), mentre sulle ascisse viene riportato il

valore del flusso di risparmi (𝑆) e quello del flusso di investimenti (𝐼). La relazione tra

l’offerta di risparmi e il tasso di interesse può essere definita una volta assegnato un

valore al reddito, che, in questo caso, viene assunto pari al livello del reddito di piena

occupazione (𝑌𝑃𝑂), ovvero al livello di reddito coerente con l’equilibrio sul mercato del

lavoro:

𝑌𝑃𝑂 → 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟).

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La relazione tra la domanda di risparmi, che coincide con la domanda di

investimenti, e il tasso di interesse è invece definita in funzione di un dato valore dei

ricavi attesi con certezza dagli imprenditori (𝜃).

Figura 22 – L’equilibrio sul mercato dei capitali

Il punto di intersezione tra le due curve (𝐸) individua quel particolare valore del

tasso di interesse (𝑟𝐸) in corrispondenza del quale gli investimenti sono uguali ai

risparmi di piena occupazione. Quando 𝑟 = 𝑟𝐸, tutte le risorse risparmiate vengono

investite e il mercato dei capitali è in equilibrio.

4.1. L’equivalenza tra l’equilibrio sul mercato dei capitali e l’equilibrio sul mercato

dei beni

L’equilibrio sul mercato dei capitali implica l’equilibrio sul mercato dei beni. Infatti,

vale la seguente relazione:

a) 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) = 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸).

Poiché vale:

𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) = 𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸),

la a) può essere riscritta come segue.

b) 𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟𝐸) = 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸),

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da cui si ottiene:

c) 𝑌𝑃𝑂 = 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) + 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸) → 𝑌𝑃𝑂 = 𝐷𝐴(𝑌𝑃𝑂 , 𝜃, 𝑟𝐸),

ovvero una relazione che definisce l’equilibrio sul mercato dei beni.

Secondo la teoria neoclassica, quindi, il tasso di interesse è il prezzo che mette in

equilibrio sia il mercato dei beni che il mercato dei capitali. L’equivalenza tra il mercato

dei beni e il mercato dei capitali può essere verificata attraverso il seguente esempio

numerico. Supponiamo che 𝑌𝑃𝑂 = 1.000, e che, in corrispondenza della condizione di

equilibrio a), il valore dei risparmi e degli investimenti sia pari a 300. In tal caso,

avremo:

𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸)⏟ 300

= 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸)⏟ 300

(equilibrio sul mercato dei capitali).

E poiché:

𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) = 𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸),

𝑌𝑃𝑂⏟1.000

= 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸)⏟ 700

+ 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸)⏟ 300

(equilibrio sul mercato dei beni).

4.2. Gli squilibri sul mercato dei capitali e sul mercato dei beni

Secondo la teoria neoclassica, il tasso di interesse varia in funzione degli squilibri che si

manifestano tra i risparmi e gli investimenti, e quindi tra la domanda aggregata e

l’offerta aggregata di beni. Nei paragrafi seguenti mostreremo come, per ogni valore di

𝑟 ≠ 𝑟𝐸, si registri uno squilibrio sul mercato dei capitali e un corrispondente squilibrio

sul mercato dei beni, che mette in moto un meccanismo automatico di aggiustamento

dettato dalle variazioni del tasso di interesse.

4.2.1. L’eccesso di offerta di risparmi (l’eccesso di offerta aggregata di beni)

Supponiamo che risulti 𝑟1 > 𝑟𝐸, come nella figura 23. In questo caso avremo:

𝐼1 = 𝐼(𝜃, 𝑟1 > 𝑟𝐸) < 𝐼𝐸 con, poniamo, 𝐼1 = 200.

Inoltre:

𝑆1 = 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟1 > 𝑟𝐸) > 𝑆𝐸 con, poniamo, 𝑆1 = 400.

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Figura 23 – L’aggiustamento verso l’equilibrio sul mercato dei capitali

in caso di eccesso di offerta di risparmi

Pertanto, in corrispondenza di 𝑟1 si registra il seguente squilibrio sul mercato dei

capitali, caratterizzato da un eccesso dei risparmi sugli investimenti, ovvero da un

eccesso di offerta di capitali rispetto alla domanda:

a) 𝑆1 = 𝑆(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟1 > 𝑟𝐸)⏟ 400

> 𝐼1 = 𝐼(𝜃, 𝑟1 > 𝑟𝐸)⏟ .200

Lo squilibrio sul mercato dei capitali coincide con uno squilibrio sul mercato dei beni

caratterizzato da un eccesso dell’offerta aggregata sulla domanda aggregata:

b) 𝑆1 = 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟1 > 𝑟𝐸) = 𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟1 > 𝑟𝐸).

Sostituendo si ottiene:

𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟1 > 𝑟𝐸) > 𝐼(𝜃, 𝑟1 > 𝑟𝐸).

Ovvero:

𝑌𝑃𝑂 > 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟1 > 𝑟𝐸) + 𝐼(𝜃, 𝑟1 > 𝑟𝐸) (offerta aggregata > domanda aggregata).

Verifichiamo queste relazioni attraverso un esempio numerico. Mentre, per ipotesi, il

livello del reddito di piena occupazione è uguale a 𝑌𝑃𝑂 = 1.000, come sappiamo, la

domanda aggregata è data dall’espressione:

𝐷𝐴 = 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟1 > 𝑟𝐸) + 𝐼(𝜃, 𝑟1 > 𝑟𝐸).

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Poiché il valore dell’investimento è assunto pari a 𝐼1 = 𝐼(𝜃, 𝑟1 > 𝑟𝐸) = 200, dobbiamo

determinare il valore della spesa per beni di consumo. A tal fine, partiamo

dall’espressione:

𝑌𝑃𝑂 − 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟1 > 𝑟𝐸) = 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟1 > 𝑟𝐸).

Dal momento che abbiamo posto 𝑆1 = 𝑆(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟1 > 𝑟𝐸) = 400, il livello della spesa per

beni di consumo è pari a 𝐶1 = 𝑌𝑃𝑂 − 𝑆1 con 𝐶1 = 𝐶(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟1 > 𝑟𝐸). Pertanto, 𝐶1 =

1.000 − 400 = 600.

In definitiva:

𝐷𝐴 = (𝑌𝑃0, 𝜃, 𝑟1 > 𝑟𝐸) = 𝐶1 + 𝐼1 = 600 + 200 = 800.

Di conseguenza:

𝐷𝐴 = (𝑌𝑃𝑂 , 𝜃, 𝑟1 > 𝑟𝐸)⏟ <800

𝑌𝑃𝑂⏟1.000

(eccesso di offerta aggregata di beni).

Gli squilibri tra i risparmi e gli investimenti e tra la domanda e l’offerta aggregata di

beni non sono permanenti, perché, in base alla teoria neoclassica, essi vengono eliminati

attraverso la variazione del tasso di interesse. Infatti, l’eccesso di risparmio, dovuto al

fatto che le famiglie non riescono a collocare tutti i loro redditi non consumati presso le

imprese, esercita una pressione che si traduce in una riduzione della remunerazione del

risparmio. La caduta del tasso di interesse indurrà le famiglie ad aumentare i consumi a

discapito dei risparmi, spingendo, al contempo, le imprese a incrementare i loro

investimenti. Questo processo di aggiustamento prosegue sino a quando il tasso di

interesse raggiunge il livello 𝑟𝐸, in corrispondenza del quale i risparmi uguagliano gli

investimenti:

𝑟 ↓ → 𝑆 ↓ e 𝐼 ↑ → 𝑟𝐸 → 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) = 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸).

Quando il tasso di interesse è pari a 𝑟𝐸, non solo il mercato dei capitali, ma anche il

mercato dei beni è in equilibrio. In effetti:

𝑆(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟𝐸) = 𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) = 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸),

e quindi

𝑌𝑃𝑂 = 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) + 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸).

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4.2.2. L’eccesso di domanda di risparmi (l’eccesso di domanda aggregata di beni)

Ipotizziamo ora che sia 𝑟2 < 𝑟𝐸, come nella figura 24.

Figura 24 – L’aggiustamento verso l’equilibrio sul mercato dei capitali

in caso di eccesso di domanda di risparmi

In questo caso, il mercato dei capitali è caratterizzato da un eccesso di investimenti

rispetto ai risparmi:

𝑆2 = 𝑆(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟2 < 𝑟𝐸)⏟ 200

< 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸)⏟ 300

e 𝐼2 = 𝐼(𝜃, 𝑟2 < 𝑟𝐸)⏟ >400

𝐼(𝜃, 𝑟𝐸)⏟ 300

.

Pertanto:

a) 𝐼2 = 𝐼(𝜃, 𝑟2 < 𝑟𝐸)⏟ >400

𝑆2 = 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟2 < 𝑟𝐸)⏟ 200

.

Allo stesso tempo, si registra un eccesso di domanda aggregata sul mercato dei beni.

Infatti:

b) 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟2 < 𝑟𝐸) = 𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟2 < 𝑟𝐸).

Di conseguenza, poiché

𝑌𝑃𝑂⏟1.000

− 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟2 < 𝑟𝐸)⏟ 200

= 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟2 < 𝑟𝐸)⏟ 800

,

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sostituendo si ottiene

𝐼(𝜃, 𝑟2 < 𝑟𝐸)⏟ 400

> 𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟2 < 𝑟𝐸)⏟ 200

,

e quindi

𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟2 < 𝑟𝐸)⏟ 800

+ 𝐼(𝜃, 𝑟2 < 𝑟𝐸)⏟ 400

> 𝑌𝑃𝑂⏟1.000

(eccesso di domanda aggregata di beni).

Anche in questo secondo caso, gli squilibri sul mercato dei capitali e sul mercato dei

beni saranno eliminati da una variazione del tasso di interesse, perché l’eccesso di

domanda di investimenti rispetto ai risparmi provoca un incremento del tasso di

interesse che indurrà le famiglie ad aumentare i risparmi e le imprese a ridurre gli

investimenti. Il processo di aggiustamento guidato dall’aumento del tasso di interesse

continuerà fino a quando non sarà stato raggiunto il livello 𝑟𝐸, in corrispondenza del

quale anche il mercato dei beni torna in equilibrio:

Infatti:

𝐼(𝜃, 𝑟2 < 𝑟𝐸) > 𝑆(𝑌0, 𝑟2 < 𝑟𝐸) → 𝑟 ↑ → 𝑆 ↑ e 𝐼 ↓ → 𝑟𝐸 → 𝑆(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟𝐸) = 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸).

Inoltre:

𝑆(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟𝐸) = 𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) = 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸),

e quindi

𝑌𝑃𝑂 = 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) + 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸).

4.3. L’equivalenza tra l’equilibrio sul mercato dei capitali e l’equilibrio sul mercato

del credito

Abbiamo già osservato che, all’interno del mercato dei capitali, le risorse risparmiate

vengono scambiate mediante un contratto di credito che impegna le imprese a restituire

la somma ricevuta in prestito aumentata di un interesse. Questa circostanza permette di

sottolineare un altro rilevante aspetto della teoria neoclassica. Essa infatti postula che il

mercato dei capitali coincide non solo con il mercato dei beni, ma anche con il mercato

del credito.

Nella teoria neoclassica la funzione di domanda di credito corrisponde alla funzione

degli investimenti, mentre la funzione di offerta di credito corrisponde alla funzione di

offerta di risparmio:

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𝐿𝑑 (funzione di domanda di credito) = 𝐼(𝜃, 𝑟) (funzione degli investimenti), e

𝐿𝑠 (funzione di offerta di credito) = 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟) (funzione dei risparmi).

Di conseguenza, anche il prezzo che assicura l’equilibrio sul mercato del credito è

uguale al prezzo che garantisce l’equilibrio tra la domanda e l’offerta di risparmi sul

mercato dei capitali:

Prezzo del mercato del credito = Tasso di interesse del mercato dei capitali (𝑟).

Figura 25 – L’equilibrio sul mercato dei capitali e sul mercato del credito

In conclusione, nella teoria macroeconomica neoclassica vale la seguente

equivalenza:

Mercato dei beni = Mercato dei capitali = Mercato del credito.

5. Il modello neoclassico completo e la legge di Say

5.1. La coerenza della teoria neoclassica con la legge di Say

L’analisi dei mercati del lavoro, dei beni, dei capitali e del credito ha permesso di

mettere in luce l’asserzione fondamentale della teoria neoclassica secondo cui,

all’interno di una economia di mercato, il meccanismo dei prezzi consente di assicurare

il raggiungimento dell’equilibrio di piena occupazione. Due sono i prezzi fondamentali

che garantiscono il raggiungimento di questa condizione:

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i salari reali, le cui variazioni guidano il processo di aggiustamento verso l’equilibrio

tra domanda e offerta sul mercato del lavoro, e

il tasso di interesse, le cui fluttuazioni garantiscono la convergenza verso l’equilibrio

tra la domanda aggregata e l’offerta aggregata di beni, tra la domanda e l’offerta di

risorse risparmiate e tra la domanda e l’offerta di credito.

Questa conclusione è coerente con il contenuto della legge di Say, che prende il

nome dall’economista francese Jean Baptiste Say che la enunciò per la prima volta nel

1803.

La legge di Say afferma che, in una economia di mercato, il livello del reddito (𝑌)

dipende dalle decisioni di produzione poiché si manifesta sempre un flusso di domanda

tale da garantire l’assorbimento del reddito di piena occupazione. In altri termini,

secondo la legge di Say le decisioni di produzione creano invariabilmente le condizioni

perché emerga un livello di domanda aggregata equivalente al reddito di piena

occupazione.

Pertanto, in base alla legge di Say, nelle economie di mercato vale la seguente

sequenza causale:

Decisioni di produzione → 𝑌𝑃𝑂 → 𝐷𝐴 = 𝑌𝑃𝑂 (è l'offerta a creare la domanda).

Il significato della legge di Say è facilmente intuibile, se si considera una economia

in cui si produce un unico bene. Tra il ‘700 e l’800, gli economisti classici, da Adam

Smith fino a John Stuart Mill, hanno schematizzato i meccanismi di funzionamento

delle economie di mercato prendendo a riferimento una economia grano, ovvero una

economia in cui il solo bene prodotto era il grano, che poteva essere sia consumato che

investito. Questo modello di funzionamento delle economie di mercato si attaglia

tipicamente alla descrizione di una economia agricola, in cui l’attività produttiva è

diretta alla realizzazione di pochi beni destinati a soddisfare l’insieme dei bisogni

primari (o assoluti) espressi dalla collettività.

In una economia di questo tipo il livello del reddito dipende dalle decisioni di

produzione degli imprenditori. Sono gli imprenditori, infatti, che decidono il numero di

lavoratori da assumere in base al criterio della massimizzazione dei profitti. Come

abbiamo visto in precedenza, questo criterio di scelta prevede un confronto tra la

produttività marginale del lavoro e il salario reale:

𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁) ↔ 𝑊

𝑃 .

Dato il salario reale 𝑊 𝑃⁄∗, ogni impresa assumerà un numero di lavoratori 𝑁∗ tale

da rispettare la seguente uguaglianza:

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𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁∗) =𝑊

𝑃

.

Come sappiamo, questo criterio è alla base della costruzione della curva di domanda

di lavoro. Il numero di lavoratori effettivamente assunto dalle imprese è determinato

dall’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro e, secondo la teoria neoclassica, la

flessibilità dei salari assicura che il salario reale raggiunga il livello in corrispondenza

del quale si realizza la piena occupazione, perché tutti i lavoratori disposti a lavorare al

salario di equilibrio determinato sul mercato del lavoro trovano un impiego.

In corrispondenza del salario reale di equilibrio 𝑊 𝑃⁄ 𝐸 e del livello di occupazione di

equilibrio 𝑁𝐸, le imprese realizzano un livello di reddito definito dalla funzione di

produzione:

𝑌𝑃𝑂 = 𝑓(𝑁𝐸).

Secondo la legge di Say, le decisioni di produzione delle imprese determinano un

livello di domanda aggregata (𝐷𝐴) tale da garantire l’assorbimento di tutta la

produzione di piena occupazione:

𝐷𝐴 = 𝑌𝑃𝑂 .

Questa asserzione è facilmente verificabile nel contesto di una economia grano.

Infatti, parte del grano prodotto (𝑌𝑃𝑂) verrà consumata dai lavoratori e dagli

imprenditori, mentre la parte non consumata verrà destinata a risparmio. Tuttavia, la

quota di grano non consumata non rimarrà inutilizzata, perché verrà impiegata come

mezzo di produzione. In altre parole, essa verrà investita, per esempio, come semente,

oppure per pagare un certo numero di lavoratori impiegati nella costruzione di vanghe e

aratri. Gli investimenti possono essere realizzati non solo dagli stessi soggetti che

risparmiano il grano precedentemente prodotto, ma anche da soggetti diversi. In

quest’ultimo caso, il grano risparmiato viene trasferito agli imprenditori sul mercato dei

capitali attraverso la stipula di un contratto di credito. Nelle pagine precedenti, la

descrizione dei meccanismi di funzionamento del mercato dei capitali era basata

sull’ipotesi che il sistema fosse caratterizzato dalla completa dissociazione tra le

decisioni di risparmio e quelle di investimento, ovvero che i soggetti che risparmiano

una parte del loro reddito non coincidessero con i soggetti che investono la quota di

reddito non consumata. Come abbiamo visto, il tasso di interesse è il prezzo che mette

in equilibrio i risparmi e gli investimenti. In altri termini, le fluttuazioni del tasso di

interesse assicurano che tutto il grano risparmiato venga anche investito, e quindi che si

realizzi l’equivalenza tra la domanda aggregata e il reddito di piena occupazione.

Il significato della legge di Say può essere illustrato formalizzando il funzionamento

dei tre mercati descritti in precedenza (il mercato del lavoro, il mercato dei beni e quello

dei capitali) attraverso un sistema di equazioni.

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5.2. Il sistema di equazioni, l’ordine di soluzione del sistema e la rappresentazione

grafica del modello neoclassico completo

I meccanismi di funzionamento delle economie di mercato teorizzati dagli economisti

neoclassici sono rappresentati dal seguente sistema di sei equazioni. In particolare, le

prime tre equazioni descrivono il mercato del lavoro, mentre le ultime tre descrivono il

mercato dei beni, quello dei capitali e quello del credito:

1) 𝑁𝑑 = 𝑓 (𝑊

𝑃) con 𝑓′ (

𝑊

𝑃) < 0

2) 𝑁𝑠 = 𝑔 (𝑊

𝑃) con 𝑔′ (

𝑊

𝑃) > 0

3) 𝑁𝑑 = 𝑁𝑠

4) 𝑌 = 𝑌(𝑁) con 𝑌′(𝑁) > 0

5) 𝐷𝐴 = 𝑌

6) 𝐷𝐴 = 𝐶(𝑌, 𝑟) + 𝐼(𝜃, 𝑟).

Il sistema presenta sei incognite: 𝑁𝑑, 𝑁𝑠, 𝑊

𝑃, 𝑌, 𝐷𝐴 e 𝑟. Poiché il numero di incognite

è uguale al numero di equazioni, la condizione necessaria per l’esistenza di una

soluzione per un sistema di equazioni lineari è soddisfatta.

Il sistema di equazioni di cui sopra si caratterizza per la possibilità di individuare un

ordine di soluzione. In altre parole, il sistema non si risolve simultaneamente.

In effetti, possiamo osservare che le equazioni 1), 2) e 3), quelle che descrivono il

funzionamento del mercato del lavoro, rappresentano un sottosistema autonomo

formato da tre equazioni e da tre incognite che può essere risolto autonomamente e

indipendentemente dalle altre equazioni. In particolare, la soluzione di queste tre

equazioni consente di determinare il valore delle tre incognite 𝑁𝑑, 𝑁𝑠, e 𝑊

𝑃. Il

sottosistema del mercato del lavoro è caratterizzato dal vincolo rappresentato

dall’uguaglianza tra domanda e offerta di lavoro. E’ questo vincolo ad assicurare

l’esistenza dell’equilibrio sul mercato del lavoro. Indichiamo con 𝑁𝐸 il valore di

equilibrio dell’occupazione e con 𝑊 𝑃⁄ 𝐸 il livello di equilibrio del salario reale.

Dato il valore dell’occupazione definito dall’uguaglianza tra domanda e offerta di

lavoro (𝑁𝐸), l’equazione 4) determina il livello del reddito di piena occupazione:

𝑌𝑃𝑂 = 𝑌(𝑁𝐸).

A sua volta, dato il reddito di piena occupazione (𝑌𝑃𝑂), l’equazione 5) definisce il

livello della domanda aggregata:

𝐷𝐴 = 𝑌𝑃𝑂.

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Infine, dati il livello del reddito di piena occupazione e il livello della domanda

aggregata, l’equazione 6) determina il livello del tasso di interesse (𝑟𝐸) che garantisce

l’esistenza di un flusso di domanda aggregata pari al reddito di piena occupazione.

Infatti ,l’equazione 6) può essere riscritta nel modo seguente:

𝐷𝐴 = 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟) + 𝐼(𝜃, 𝑟) = 𝑌𝑃𝑂,

da cui si ottiene

𝑌𝑃𝑂 − 𝐶(𝑌𝑃𝑂, 𝑟) = 𝐼(𝜃, 𝑟),

ovvero

𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟) = 𝐼(𝜃, 𝑟).

Quest’ultima relazione mostra anche l’equivalenza tra l’equilibrio sul mercato dei

beni e l’equilibrio sui mercati dei capitali e del credito.

Schematicamente:

𝑁𝑑 = 𝑁𝑠; 𝑁𝐸 ,𝑊 𝑃⁄ 𝐸⏞

𝐸𝑞𝑢𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 1,2,3

→ 𝑌𝑃𝑂 = 𝑓(𝑁𝐸)⏞ 𝐸𝑞𝑢𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 4

→ 𝐷𝐴 = 𝐶(𝑌, 𝑟) + 𝐼(𝜃, 𝑟) = 𝑌𝑃𝑂; 𝑟𝐸⏞ 𝐸𝑞𝑢𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 5,6

L’ordine di soluzione del modello macroeconomico neoclassico completo può essere

illustrato graficamente come nella figura 26 più sotto. Anche dalla figura 26, infatti, si

evince che nel modello macroeconomico neoclassico si determina prima l’equilibrio sul

mercato del lavoro, e solo successivamente l’equilibrio sui mercati dei beni, dei capitali

e del credito.

I termini ‘prima’ e ‘successivamente’ non devono essere interpretati come se fossero

riferiti a uno specifico tempo storico, poiché nel modello macroeconomico neoclassico

presentato in queste pagine la dimensione temporale non viene considerata. Questi

termini, tuttavia, assumono un importante significato logico, perché essi indicano che

ogni variabile dipende soltanto dalle variabili che la precedono nella sequenza che

definisce l’ordine di soluzione.

Prendiamo, per esempio, il reddito di piena occupazione (𝑌𝑃𝑂). Esso dipende

esclusivamente dalle forze che agiscono sul mercato del lavoro e non è influenzato dalle

variabili che determinano l’equilibrio sul mercato dei beni.

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Figura 26 – La rappresentazione grafica del modello neoclassico completo

Ciò implica che il livello del reddito può variare soltanto in conseguenza di fenomeni

che incidono sull’equilibrio del mercato del lavoro, ma non per effetto di cambiamenti

nelle decisioni di consumo, risparmio e investimento.

Questa fondamentale conclusione può essere meglio chiarita attraverso gli esempi

che seguono.

5.2.1. Gli effetti di una variazione dell’offerta di lavoro

Consideriamo innanzitutto le conseguenze prodotte da una modificazione della funzione

di offerta di lavoro. Supponiamo, in particolare, che la funzione di offerta di lavoro si

sposti verso destra, ovvero che, a parità di salario reale, il numero di lavoratori disposti

a lavorare aumenti (figura 27).

Se 𝑊

𝑃=𝑊

𝑃 𝐸 → 𝑁𝑠

′ (𝑊

𝑃 𝐸) > 𝑁𝑑 (

𝑊

𝑃 𝐸) = 𝑁𝐸 →

𝑊

𝑃↓ → 𝑁𝑠 ↓ 𝑒 𝑁𝑑 ↑ ,

sino a quando sul mercato si raggiunge un nuovo equilibrio, in cui

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𝐸1 ↔ 𝑊

𝑃 𝐸1 con 𝑁𝑠

′ (𝑊

𝑃 𝐸1) = 𝑁𝑑 (

𝑊

𝑃 𝐸1) = 𝑁𝐸1.

Figura 27 – Gli effetti di una variazione dell’offerta di lavoro

nel modello neoclassico completo

L’aumento del numero di occupati determinerà un incremento della produzione.

Infatti:

se 𝑁 = 𝑁𝐸1 > 𝑁𝐸 allora 𝑌 = 𝑌𝑃𝑂′(𝑁𝐸1) > 𝑌𝑃𝑂 .

Il cambiamento delle condizioni sul mercato del lavoro influenza anche la domanda

aggregata, che deve adeguarsi al maggiore livello dell’offerta aggregata di beni. Come

sappiamo, al crescere del reddito crescono pure i consumi e i risparmi. Ma perché si

abbia un nuovo equilibrio sul mercato dei beni, è necessario che tutte le risorse

risparmiate vengano investite. In altre parole, in conseguenza dell’aumento dei risparmi

indotto dalla crescita del livello del reddito, gli investimenti devono aumentare in

misura corrispondente. In precedenza abbiamo visto che questo aggiustamento è

assicurato da una caduta del valore del tasso di interesse.

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Se 𝑟 = 𝑟𝐸 → 𝑆(𝑌𝑃𝑂′, 𝑟𝐸) > 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸) → 𝑟 ↓ → 𝑆 ↓ 𝑒 𝐼 ↑,

sino a quando anche il mercato dei beni raggiunge un nuovo equilibrio, in cui

𝐸1 ↔ 𝑟𝐸1 < 𝑟𝐸 con 𝑆(𝑌𝑃𝑂′, 𝑟𝐸1) = 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸1) e con 𝐷𝐴(𝑌𝑃𝑂

′, 𝜃, 𝑟𝐸1) = 𝑌𝑃𝑂′.

5.2.2. Gli effetti di una variazione delle decisioni di investimento delle imprese

Consideriamo ora le conseguenze prodotte da una variazione della domanda aggregata.

Ipotizziamo, in particolare, che siano le decisioni di investimento delle imprese a subire

un cambiamento. Come ormai sappiamo, gli investimenti sono funzione delle variazioni

del tasso di interesse e del livello atteso dei ricavi futuri. Supponiamo che le imprese

formulino aspettative più pessimistiche, e si aspettino quindi minori ricavi futuri. Ciò

significa che il volume degli investimenti si contrae a parità di livello del tasso di

interesse. In altri termini, la funzione degli investimenti subisce uno spostamento verso

sinistra (verso il basso) (figura 28).

Figura 28 – Gli effetti di una variazione delle decisioni di investimento

delle imprese nel modello neoclassico completo

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Secondo la teoria neoclassica, questa variazione non produce alcun effetto sui livelli

del reddito e dell’occupazione. Infatti, le condizioni di equilibrio del mercato del lavoro

non subiscono alcuna modifica. L’unico cambiamento avviene sul mercato dei beni.

Abbiamo visto poco sopra, che la condizione di equilibrio su questo mercato

presuppone che si manifesti un flusso di domanda aggregata uguale al reddito di piena

occupazione (𝐷𝐴 = 𝑌𝑃𝑂). Abbiamo anche visto che la realizzazione di questa

condizione è assicurata dalle fluttuazioni del tasso di interesse, poiché in corrispondenza

di uno squilibrio sul mercato dei beni esso varia in misura tale da garantire l’esistenza di

un volume di investimenti pari al flusso di risparmi originato dal reddito di piena

occupazione. Pertanto, a parità di altri fattori, una variazione delle decisioni di

investimento delle imprese determina anche una variazione del tasso di interesse.

Nella figura 28, il punto 𝐸, cui corrisponde un valore del tasso di interesse pari a 𝑟𝐸,

riflette la posizione di equilibrio iniziale. Se la funzione degli investimenti si sposta

verso il basso, in corrispondenza del tasso di interesse 𝑟𝐸 si registrerà un eccesso di

risparmio rispetto alla domanda per beni di investimento. Questo squilibrio provocherà

una riduzione del tasso di interesse che spingerà il mercato verso una nuova posizione

di equilibrio (𝐸2), caratterizzata non solo da un minor valore del tasso di interesse (𝑟𝐸2),

ma anche da un minor flusso di risparmi e di investimenti.

Se 𝑟 = 𝑟𝐸 → 𝐼′(𝜃, 𝑟𝐸) < 𝑆(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) → 𝑟 ↓ → 𝑆 ↓ 𝑒 𝐼 ↑,

sino a quando il mercato dei beni raggiunge un nuovo equilibrio, in cui

𝐸2 ↔ 𝑟𝐸2 < 𝑟𝐸 con 𝐼′(𝜃, 𝑟𝐸2) = 𝑆(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟𝐸2) e con 𝐷𝐴(𝑌𝑃𝑂 , 𝜃, 𝑟𝐸2) = 𝑌𝑃𝑂.

5.2.3. Gli effetti di una variazione delle decisioni di consumo e di risparmio

Infine, consideriamo le conseguenze di una variazione della propensione al consumo, e

quindi della propensione al risparmio, delle famiglie. Supponiamo, in particolare, che le

famiglie decidano di ridurre i consumi e di aumentare i risparmi. Questo cambiamento

implica uno spostamento verso destra della funzione dei risparmi (figura 29).

Come nel caso di una variazione delle decisioni di investimento delle imprese, anche

un cambiamento delle decisioni relative ai consumi e ai risparmi non produce alcun

effetto sul livello della occupazione (𝑁𝐸) e sul reddito di piena occupazione (𝑌𝑃𝑂).

Anche in questo caso, infatti, le uniche conseguenze riguardano l’equilibrio sul mercato

dei beni. A seguito dello spostamento verso destra della funzione dei risparmi, in

corrispondenza del vecchio valore di equilibrio del tasso di interesse (𝑟𝐸) si registra un

eccesso di risparmio che determina una riduzione del tasso di interesse. Il processo di

aggiustamento guidato dalla variazione a ribasso del tasso di interesse si conclude

quando il sistema raggiunge una nuova posizione di equilibrio (𝐸3), contraddistinta da

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un valore del tasso di interesse pari a 𝑟𝐸3, cui corrisponde un flusso di risparmi e di

investimenti più elevato rispetto a quello che caratterizzava la posizione di equilibrio

iniziale.

Figura 29 – Gli effetti di una variazione delle decisioni di consumo

e di risparmio nel modello neoclassico completo

Se 𝑟 = 𝑟𝐸 → 𝑆′(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) > 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸) → 𝑟 ↓ → 𝑆 ↓ 𝑒 𝐼 ↑,

sino a quando il mercato dei beni raggiunge un nuovo equilibrio, in cui

𝐸3 ↔ 𝑟𝐸3 < 𝑟𝐸 con 𝑆′(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟𝐸3) = 𝐼(𝜃, 𝑟𝐸3) e con 𝐷𝐴(𝑌𝑃𝑂 , 𝜃, 𝑟𝐸3) = 𝑌𝑃𝑂.

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6. La teoria neoclassica della moneta e la dicotomia del modello macroeconomico

neoclassico prekeynesiano

6.1. Le caratteristiche della teoria neoclassica della moneta

La teoria della moneta, che ne descrive le funzioni e il ruolo svolto nell’ambito del

sistema economico, rappresenta una componente fondamentale di ogni teoria

macroeconomica.

L’aspetto più significativo della teoria neoclassica della moneta consiste

nell’affermazione del principio di neutralità della moneta, secondo cui, in una

economia di mercato, la moneta non influenza i livelli del reddito e dell’occupazione.

Questo aspetto della teoria neoclassica può essere meglio chiarito ricordando le

conclusioni che hanno accompagnato l’analisi precedente relativa ai meccanismi di

funzionamento dei mercati del lavoro, dei beni e dei capitali. Le relazioni che

caratterizzano questi mercati permettono infatti di specificare i fattori che, nell’ambito

della teoria neoclassica, determinano i livelli del reddito e dell’occupazione. Questi

ultimi, come si ricorderà, cambiano soltanto in funzione di determinate variazioni delle

variabili ‘reali’ del sistema, quali le dotazioni di capitale e lavoro, e il grado di sviluppo

tecnologico, che trova espressione nelle caratteristiche della funzione di produzione. La

moneta, invece, non compare mai tra i fattori che definiscono i livelli di equilibrio del

reddito e dell’occupazione. Pertanto, nel quadro della teoria neoclassica la moneta

rappresenta una grandezza neutrale, un semplice ‘velo’ che non incide sulla

determinazione delle grandezze reali del sistema.

Come vedremo meglio tra poco, la teoria neoclassica della moneta coincide con la

teoria quantitativa della moneta, le cui prime formulazioni risalgono al XVII secolo.

Le caratteristiche salienti della teoria neoclassica della moneta possono essere

sintetizzate attraverso i tre punti seguenti.

1. Le funzioni della moneta

Nella teoria neoclassica la funzione fondamentale della moneta è quella di essere un

mezzo di scambio, ovvero uno strumento che serve a ridurre i costi dello scambio

rispetto a una economia di baratto. In una economia di baratto, infatti, gli scambi sono

più costosi per due ragioni. In primo luogo, perché essi richiedono una doppia

coincidenza di bisogni. In secondo luogo, perché occorre anche una coincidenza tra le

quantità scambiate. Mentre uno scambio tra un paio di scarpe e una giacca può essere

ragionevole, il baratto che ha per oggetto la cessione di una casa è molto più

complicato, perché è difficile individuare la qualità e le quantità dei beni da chiedere in

contropartita.

2. Il principio di neutralità della moneta

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Questo principio, già enunciato poco sopra, non postula l’inutilità della moneta. Come

abbiamo appena visto, secondo gli economisti neoclassici la sua utilità si manifesta

come strumento che elimina gli inconvenienti che caratterizzano gli scambi in una

economia di baratto. Tuttavia, esso implica che l’impiego della moneta non modifica la

struttura del sistema economico, che, fondamentalmente, resta quella di una economia

di baratto. In altri termini, nella teoria neoclassica la natura essenziale dei traffici

economici consiste nello scambio tra beni, mentre la moneta è soltanto un mezzo che ne

riduce i costi. La moneta è ottenuta cedendo beni, ed è successivamente impiegata per

acquistare altri beni. Nulla di più. Di conseguenza, essa non esercita alcuna influenza

sul processo produttivo né sui meccanismi di determinazione dei livelli del reddito e

dell’occupazione.

3. La natura monetaria dell’inflazione

Il terzo elemento che caratterizza la teoria neoclassica della moneta riguarda la

specificazione degli effetti prodotti da una variazione della quantità di moneta in

circolazione. In base alla teoria neoclassica, infatti, le variazioni della quantità di

moneta influenzano il livello dei prezzi. Essa, cioè, individua una relazione diretta tra il

tasso di variazione della quantità di moneta e il tasso di inflazione. Di conseguenza,

secondo la teoria neoclassica l’inflazione è un fenomeno intrinsecamente monetario:

�̇� (tasso di variazione della quantità di moneta) → �̇� (tasso di inflazione).

Per chiarire questa relazione, è necessario specificare preliminarmente i fattori che

determinano il tasso di variazione della quantità di moneta. A tal fine, è opportuno

distinguere tra moneta-merce e moneta-segno.

6.2. La distinzione tra moneta-merce e moneta-segno

La moneta-merce è una moneta che ha un proprio valore intrinseco perché rappresenta

uno dei beni prodotti all’interno del sistema economico. Tra tutti i beni prodotti, questo

bene viene scelto come mezzo di scambio in virtù delle sue particolari caratteristiche

fisiche. Esso, infatti, deve godere delle seguenti proprietà: i) essere non

deperibile/durevole; ii) essere facilmente conservabile; iii) essere divisibile.

Nella storia dell’umanità è possibile individuare molti esempi di moneta-merce. Il

primo esempio è quello del bestiame, che nell’antichità rappresentava la fonte principale

di ricchezza. L’espressione ‘pecunia’ deriva dal latino pecus, che indicava proprio il

bestiame. Un altro esempio di moneta-merce è quello del sale, che è all’origine

dell’espressione ‘salario’. Ma l’esempio più significativo, e certamente anche più noto,

di moneta-merce è quello dei metalli preziosi (oro e argento soprattutto), che hanno dato

vita al fenomeno della moneta metallica. I metalli preziosi, infatti, possiedono in

massima misura le caratteristiche che possono trasformare una merce in moneta: la non

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deperibilità, la facilità di conservazione e la divisibilità in unità omogenee. Quest’ultima

caratteristica deriva dal processo di coniazione, che consiste nella produzione di pezzi di

metallo dotati delle stesse qualità e dello stesso peso.

Riflettendo sulla moneta metallica, possiamo concludere che, in definitiva, la

quantità di moneta in circolazione dipende dagli stessi fattori che influenzano la

produzione delle altre merci. Nel caso specifico dei metalli preziosi la quantità

disponibile è cioè funzione della scoperta di nuovi giacimenti e dell’introduzione di

tecnologie che ne facilitano l’estrazione. Possiamo quindi osservare che, se la moneta è

una merce, tutti i soggetti economici sono potenzialmente in grado di produrre moneta.

Il secondo tipo di moneta è la moneta-segno, che consiste in una moneta priva di

qualunque valore intrinseco. L’esempio tipico di moneta-segno è costituito dalla carta

moneta, ovvero dagli euro, o dalle altre valute (dollaro, yen, sterlina, franco svizzero

etc.), che vengono comunemente usate come mezzo di pagamento.

Storicamente, la moneta-segno è nata come espressione della moneta metallica, sotto

forma di un titolo di credito che attribuiva al portatore il diritto di ricevere in cambio

una certa quantità di metalli preziosi (l’oro, in particolare.). Non a caso, le monete

cartacee di uso comune vengono chiamate ‘banconote’. In passato, questo termine

indicava i titoli di credito emessi dalle banche a fronte di un deposito di moneta aurea.

Ai giorni nostri, la quantità di carta moneta in circolazione nel sistema economico non

ha più alcun legame quantitativo con le riserve auree custodite dalle banche centrali. In

effetti, da più di quarant’anni, dalla dichiarazione di non convertibilità del dollaro in oro

rilasciata nell’agosto del 1971 dall’allora Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon,

nessuna banconota è più convertibile in oro.

Mentre la moneta-merce può essere prodotta da chiunque, ciò non è vero nel caso

della moneta-segno. La produzione di euro, e più in generale di ogni altra valuta, è

riservata per legge alle autorità monetarie. Nel caso dell’euro, che è attualmente in uso

in 19 dei 28 paesi aderenti all’Unione Europea, la produzione di moneta è di esclusiva

competenza del Sistema europeo di banche centrali (SEBC), sotto la regia della Banca

centrale europea (BCE).

Definita la distinzione tra moneta-merce e moneta-segno, possiamo ora dedicarci alla

illustrazione della relazione tra il tasso di variazione della quantità di moneta e il tasso

di inflazione.

6.3. L’equazione degli scambi di Fisher e la teoria quantitativa della moneta

Dati il livello delle transazioni realizzate in un determinato intervallo di tempo (𝑇) e la

quantità di moneta in circolazione nel medesimo lasso di tempo (𝑀), definiamo

velocità di circolazione della moneta (𝑉) il seguente rapporto:

a) 𝑉 =𝑇

𝑀 .

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A questo proposito, consideriamo il seguente esempio numerico. Supponiamo che

𝑇 = 1.000 e 𝑀 = 200. In questo caso si avrà:

𝑉 =𝑇

𝑀=1.000

200= 5.

Ciò significa, che, nell’intervallo di tempo preso a riferimento, mediamente, ogni unità

di moneta è stata impiegata per realizzare un ammontare di transazioni del valore di 5

unità di moneta. In altri termini, in media, ogni unità di moneta è stata utilizzata cinque

volte per effettuare delle transazioni nell’intervallo di tempo considerato.

Dalla a) si ricava:

b) 𝑀 ∙ 𝑉 = 𝑇.

Poiché il volume complessivo di transazioni realizzato in un determinato paese in un

dato periodo di tempo (per esempio un anno) è molto difficile da misurare, il valore di 𝑉

viene calcolato utilizzando al posto delle transazioni il valore del PIL a prezzi correnti

(𝑌𝑁). Effettuando le opportune sostituzioni, si ottiene:

c) 𝑉 =𝑌𝑁𝑀

, e

d) 𝑀 ∙ 𝑉 = 𝑌𝑁 .

Tornando alla definizione di deflatore del PIL, ricordiamo che esso corrisponde al

rapporto tra il reddito nominale (𝑌𝑁) e il reddito reale (𝑌𝑅):

𝑃 =𝑌𝑁𝑌𝑅 .

Dalla espressione del deflatore del PIL si ricava la seguente definizione di reddito

nominale:

𝑌𝑁 = 𝑃 ∙ 𝑌𝑅 .

Indicando, per semplicità, il reddito reale (𝑌𝑅) con 𝑌, si ottiene:

e) 𝑌𝑁 = 𝑃 ∙ 𝑌.

Infine, sostituendo la d) nella e) si ricava l’espressione comunemente nota come

equazione degli scambi di Fisher, dal nome del celebre economista statunitense Irving

Fisher che la formulò all’inizio del XX secolo:

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f) 𝑀 ∙ 𝑉 = 𝑃 ∙ 𝑌.

In realtà, l’equazione degli scambi di Fisher rappresenta una identità, perché è sempre

vero che, a livello aggregato, il valore totale delle vendite (corrispondente al prodotto

tra un indice dei prezzi (𝑃) e un indicatore delle quantità scambiate (𝑌)) è uguale alla

spesa monetaria sostenuta per gli acquisti (data dal prodotto tra la quantità di moneta in

circolazione (𝑀) e la velocità di circolazione di ciascuna unità monetaria (𝑉)).

Per giungere alla enunciazione della teoria quantitativa della moneta, e quindi alla

definizione di una relazione causale tra le variazioni della quantità di moneta (𝑀) e il

livello generale dei prezzi (𝑃), o, in termini dinamici, tra il tasso di variazione della

quantità di moneta (𝑀)̇ e il tasso di inflazione (�̇�), è necessario formulare determinate

assunzioni sulle variabili comprese nella identità degli scambi. In particolare, devono

verificarsi le seguenti tre condizioni:

1. E’ necessario che la quantità di moneta (𝑀) sia la variabile indipendente e che il

livello generale dei prezzi (𝑃) sia la variabile dipendente. Occorre cioè che la quantità

di moneta in circolazione vari indipendentemente dalle variazioni del livello generale

dei prezzi. Secondo la teoria neoclassica, questa condizione è soddisfatta, perché la

quantità di moneta è determinata esogenamente dalle decisioni della Banca centrale (la

moneta è esogena).

2. E’ necessario che le variazioni della quantità di moneta non incidano sul livello del

reddito reale (𝑌). In altri termini, 𝑌 deve essere indipendente da 𝑀. Per gli economisti

neoclassici, anche questa seconda condizione è soddisfatta, perché la flessibilità dei

salari e del tasso di interesse assicurano l’uguaglianza tra il reddito reale di equilibrio e

il reddito di piena occupazione (𝑌𝑃𝑂), una grandezza che, come abbiamo visto in

precedenza, è del tutto indipendente dalla quantità di moneta in circolazione.

3. Infine, è necessario che le variazioni della quantità di moneta non influenzino il

valore della velocità di circolazione della moneta (𝑉). Nell’ambito del quadro teorico

neoclassico anche quest’ultima condizione è soddisfatta. Possiamo illustrare questo

punto attraverso un semplice esempio numerico, ispirato a una delle prime formulazioni

della teoria quantitativa della moneta, quella elaborata da David Hume verso la metà del

‘700.

Consideriamo un sistema economico in cui il reddito (reale) di piena occupazione

(𝑌 = 𝑌𝑃𝑂) è pari a 1.000, e in cui il livello dei prezzi (𝑃0) è pari a 1, mentre la quantità

di moneta in circolazione (𝑀0) è uguale a 200, ove per moneta in circolazione si

intende la moneta posseduta dai cittadini di un determinato paese. Valgono quindi le

seguenti relazioni:

𝑌𝑁 = 𝑌𝑃𝑂 ∙ 𝑃0 = 1.000 ∙ 1 = 1.000,

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𝑉0 =𝑌𝑁𝑀0

=1.000

2.000= 5, e

𝑀0 ∙ 𝑉0 = 𝑃0 ∙ 𝑌𝑃𝑂 = 200 ∙ 5 = 1 ∙ 1.000 .

Supponiamo che, improvvisamente, dalla sera alla mattina, la quantità di moneta in

circolazione raddoppi. In altri termini, ipotizziamo che una mattina gli abitanti del paese

preso in considerazione si sveglino avendo in tasca una quantità di moneta doppia

rispetto a quella posseduta la sera prima. Quali saranno le conseguenze di questo

evento?

Possiamo distinguere tra due alternative. In primo luogo, possiamo assumere che non

succeda niente, ovvero che i cittadini, pur trovandosi in possesso di una quantità di

moneta doppia rispetto a quella di cui disponevano la sera precedente, si comportino

come se la quantità di moneta non avesse subito variazioni. Essi, quindi, effettueranno

esattamente gli stessi acquisti che avrebbero realizzato in precedenza. Di conseguenza,

non si avrà alcuna variazione del livello del reddito né del livello generale dei prezzi. A

parità di reddito reale, reddito nominale e livello generale dei prezzi, poiché la quantità

di moneta è raddoppiata, la velocità di circolazione della moneta si dimezza. Infatti:

𝑀1 ≠ 𝑀0, con 𝑀1 = 400,

𝑃1 = 𝑃0 = 1,

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 = 1.000 .

Pertanto:

𝑌𝑁 = 𝑌𝑃𝑂 ∙ 𝑃1 = 1.000 ∙ 1 = 1.000, e

𝑉1 =𝑌𝑁𝑀1

=1 ∙ 1.000

400= 2,5.

In questo caso, la velocità di circolazione della moneta non è indipendente rispetto

alla quantità di moneta in circolazione. All’aumentare della quantità di moneta, la

velocità di circolazione della moneta è diminuita:

𝑀 ↑ → 𝑉 ↓ → 𝑀 ∙ 𝑉 = 𝑃 ∙ 𝑌.

Tuttavia, secondo i sostenitori della teoria quantitativa della moneta questo scenario

è irrealistico. Essi, infatti, ritengono che l’aumento della quantità di moneta posseduta

dai cittadini influenzerà le loro decisioni di spesa, perché svegliandosi improvvisamente

con una quantità di moneta doppia rispetto a quella posseduta la sera precedente essi si

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sentiranno più ricchi e saranno quindi indotti a utilizzarla per aumentare la domanda di

beni:

𝑀 ↑ → 𝐷𝐴 ↑.

Quali saranno le conseguenze di questo incremento della domanda aggregata? Il

reddito prodotto aumenterà o rimarrà costante? La risposta fornita a questi quesiti dalla

teoria neoclassica è che il livello del reddito non cambia, restando cioè fisso al livello di

piena occupazione. L’eccesso di domanda aggregata di beni provoca invece un aumento

del livello generale dei prezzi:

se 𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 → 𝐷𝐴 > 𝑌𝑃𝑂 → 𝑃 ↑.

Questa conclusione è coerente con l’accettazione del postulato della legge di Say,

secondo cui il livello del reddito dipende dalle decisioni di produzione (è l’offerta che

crea la propria domanda) e non dal livello della domanda aggregata.

Possiamo illustrare tale conclusione partendo dalla considerazione della posizione di

equilibrio sul mercato dei beni individuata dal punto 𝐸 nella figura 30. In

corrispondenza del livello di occupazione 𝑁𝐸 il reddito si trova al livello di piena

occupazione, con 𝑌𝑃𝑂 = 1.000. Questa posizione di equilibrio caratterizza la situazione

del sistema economico prima dell’improvviso aumento della quantità di moneta che

induce le famiglie a espandere la domanda aggregata di beni.

Come si può notare dall’esame della figura 30, l’aumento della domanda aggregata

non produce alcun effetto sul livello del reddito reale. Infatti, per aumentare la

produzione è necessario aumentare il numero di lavoratori occupati (𝑁), spingendolo

oltre il valore 𝑁𝐸, sino a portarlo, per esempio, al livello 𝑁1. Tuttavia, dall’analisi della

rappresentazione del mercato del lavoro contenuta nella figura 30 si evince chiaramente

che questo risultato non può essere ottenuto.

Per ottenere un livello di occupazione uguale a 𝑁1, è necessario che, da un lato, i

lavoratori siano disposti a offrire una quantità di lavoro pari a 𝑁𝑠 = 𝑁1, ma ciò è

possibile soltanto se il salario reale fosse pari a 𝑊 𝑃⁄ 𝑠. Dall’altro lato, occorre che le

imprese siano disposte ad assumere un numero di lavoratori pari a 𝑁𝑑 = 𝑁1, ma ciò

richiederebbe che il livello del salario reale fosse pari a 𝑊 𝑃⁄ 𝑑:

𝑁 = 𝑁1 se

in corrispondenza di 𝑊

𝑃=𝑊

𝑃𝑠 → 𝑁𝑠 = 𝑁1, e

in corrispondenza di 𝑊

𝑃=𝑊

𝑃𝑑 → 𝑁𝑑 = 𝑁1.

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Figura 30 – L’unicità dell’equilibrio di piena occupazione nel modello neoclassico

Ma poiché:

𝑊

𝑃 𝑑<𝑊

𝑃 𝑠

non è possibile espandere l’occupazione sino al livello 𝑁1.

Di conseguenza, restando il reddito costante al livello determinato univocamente

dall’equilibrio tra la domanda e l’offerta di lavoro (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂), l’eccesso di domanda

aggregata di beni provocato dall’aumento della quantità di moneta avrà come unico

effetto quello di causare un incremento del livello generale dei prezzi:

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 → 𝑀 ↑ → 𝑃 ↑.

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In termini dinamici, una crescita del tasso di variazione della quantità di moneta

determina un aumento del tasso di inflazione:

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 → �̇� ↑ → �̇� ↑.

In conclusione, in base alla teoria quantitativa della moneta, la velocità di

circolazione (𝑉) è indipendente dalle variazioni della quantità di moneta (𝑀), e le

fluttuazioni della domanda aggregata a esse imputabili si scaricano esclusivamente sul

livello generale dei prezzi (𝑃).

6.4. La natura dicotomica del modello macroeconomico neoclassico

Il modello macroeconomico neoclassico presenta una netta dicotomia tra il settore reale

e quello monetario dell’economia. Le equazioni che descrivono la parte reale del

sistema (paragrafo 5.2) non contengono variabili monetarie e, dati la tecnologia, le

preferenze dei consumatori e le dotazioni iniziali di lavoro e di capitale, esse consentono

di definire i valori di equilibrio di tutte le grandezze reali (il livello di piena occupazione

della produzione, il livello del tasso di interesse, i livelli dei consumi e degli

investimenti).

Il modello è completato dal sottosistema di equazioni che descrive l’equilibrio sul

mercato della moneta. Questo sottosistema di equazioni è composto dall’identità degli

scambi di Fisher e dalle tre condizioni poste sopra affinché tale identità possa

trasformarsi nella teoria quantitativa della moneta, ovvero in un quadro di riferimento

teorico in cui la quantità di moneta non influenza il settore reale dell’economia, ma è

neutrale rispetto a esso, definendo esclusivamente il valore monetario delle variabili già

determinate in termini reali. Nella teoria neoclassica, quindi, la moneta non è null’altro

che un ‘velo’ dietro al quale operano le forze dell’economia reale.

Specifichiamo il sottosistema di quattro equazioni che completano il modello

macroeconomico neoclassico nel modo seguente:

7) 𝑀 ∙ 𝑉 = 𝑃 ∙ 𝑌

8) 𝑀 = �̅�

9) 𝑌 = 𝑌𝑃𝑂

10) 𝑉 = �̅�.

Questo sistema di quattro equazioni lineari in quattro incognite (𝑀, 𝑉, 𝑃 e 𝑌) può

essere ridotto a una sola equazione in una incognita, sostituendo le equazioni 2), 3) e 4)

nella 1), e ricordando che:

la quantità di moneta è data esogenamente, perché controllata dalle autorità

monetarie,

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il livello del reddito è indipendente dalla quantità di moneta, perché, dati lo stock di

capitale e la tecnologia definita dalla funzione di produzione, esso è univocamente

determinato dall’equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, e

la velocità di circolazione della moneta è costante, perché è anch’essa indipendente

dalla quantità di moneta e data da elementi istituzionali che variano soltanto nel

lungo periodo (quali, ad esempio, le abitudini di pagamento e il grado di integrazione

dei settori produttivi)

Pertanto, possiamo scrivere:

�̅� ∙ �̅� = 𝑃 ∙ 𝑌𝑃𝑂.

Questa equazione, che corrisponde alla teoria quantitativa della moneta, definisce la

relazione causale che lega la quantità di moneta controllata dalle autorità monetarie al

livello generale dei prezzi.

Possiamo illustrare tale relazione causale attraverso il seguente esempio numerico:

se 𝑀0 = 200, 𝑌𝑃𝑂 = 1000 e �̅� = 5 → 𝑃0 = 1.

Viceversa:

se 𝑀1 = 400, 𝑌𝑃𝑂 = 1000 e �̅� = 5 → 𝑃1 = 2.

Questo banale esempio numerico ci consente di concludere che, in base alla teoria

quantitativa della moneta, una variazione della quantità di moneta decisa dalle autorità

monetarie determina una variazione proporzionale dei prezzi, con il fattore di

proporzionalità dato dal rapporto tra la velocità di circolazione della moneta e il livello

del reddito di piena occupazione:

𝑃 =�̅�

𝑌𝑃𝑂∙ �̅�.

Poiché tale fattore di proporzionalità è costante, a una determinata variazione

percentuale della quantità di moneta corrisponde una uguale variazione percentuale del

livello generale dei prezzi. Infatti, con riferimento all’esempio di cui sopra, al raddoppio

della quantità di moneta ha fatto seguito il raddoppio del livello generale dei prezzi. In

altre parole, il tasso di inflazione (�̇�) è uguale al tasso di variazione della quantità di

moneta (𝑀)̇ .

Per un ulteriore esempio illustrativo della teoria quantitativa della moneta si veda

l’appendice 1 in Bertocco G., La crisi e le responsabilità degli economisti, Francesco

Brioschi Editore, Milano, 2015.

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PARTE SECONDA

La rivoluzione keynesiana e i modelli della ortodossia keynesiana

della ‘sintesi neoclassica’ negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso

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1. La rivoluzione keynesiana

1.1. La distinzione tra ‘real-exchange economy’ e ‘monetary economy’

Negli anni Trenta del secolo scorso si è sviluppata una teoria macroeconomica

alternativa a quella neoclassica che trae origine dal libro pubblicato nel 1936

dall’economista inglese John Maynard Keynes, intitolato La Teoria generale

dell’occupazione, dell’interesse e della moneta.

Keynes fu indotto a mettere in discussione la validità della teoria neoclassica e a

elaborare una teoria economica alternativa dalla crisi finanziaria del 1929 e dalla

successiva Grande Depressione. Questi fenomeni, infatti, non sembravano coerenti con

le conclusioni della teoria neoclassica illustrate nella prima parte del corso, secondo cui

la flessibilità dei prezzi, e in particolare quella dei salari e del tasso di interesse,

assicurano il raggiungimento dell’equilibrio di piena occupazione. A giudizio degli

economisti neoclassici, il sistema può essere caratterizzato da temporanee fluttuazioni

del reddito e dell’occupazione dovute a squilibri tra domanda e offerta di lavoro.

Tuttavia, se il sistema dei prezzi è lasciato libero di dispiegare i suoi effetti, questi

squilibri vengono rapidamente eliminati grazie alla flessibilità dei salari e del tasso di

interesse, e l’economia si trova sostanzialmente in una condizione di costante piena

utilizzazione delle forze di lavoro disponibili a lavorare al salario di equilibrio

determinato dall’incontro tra domanda e offerta sul mercato del lavoro.

La Grande Depressione degli anni Trenta fu invece caratterizzata da un fortissimo

aumento del tasso di disoccupazione. Dopo il crollo della borsa di New York

nell’ottobre del 1929, tra la fine dello stesso anno e il 1933, negli Stati Uniti il tasso di

disoccupazione passò dal 3,2 al 24,9 per cento. La disoccupazione di massa fu superata

soltanto dopo il secondo conflitto mondiale. Ma già all’inizio degli anni Trenta Keynes

concluse che la teoria neoclassica non era adatta a descrivere i meccanismi di

funzionamento delle moderne economie di mercato. Egli riteneva, infatti, che la teoria

neoclassica fosse figlia di una visione idonea a rappresentare le caratteristiche di un

sistema economico molto diverso dalle economie contemporanee (si veda il capitolo 4

in Bertocco G., La crisi e le responsabilità degli economisti, Francesco Brioschi

Editore, Milano, 2015 – di seguito indicheremo i richiami a questo testo con la sigla

GB).

Per illustrare le sue convinzioni, Keynes fece ricorso a una classificazione introdotta

da Marx per distinguere due sistemi economici profondamente differenti. Il primo

sistema è descritto dalla sequenza:

Merce (M) → Denaro (D) → Merce (Mʼ),

che Marx ha definito con riferimento alla ‘circolazione semplice delle merci’.

Nel secondo sistema, invece, vale la sequenza:

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Denaro (D) → Merce (M) → Denaro (Dʼ),

che, secondo Marx, descrive la realtà delle economie capitaliste, contraddistinte dalla

‘circolazione del denaro come merce’ (si veda GB, capitolo 5).

Keynes afferma che la teoria neoclassica è in grado di descrivere soltanto il

funzionamento del primo tipo di economia, che egli definisce con l’espressione real-

exchange economy. Con tale espressione, Keynes fa riferimento a un sistema

economico in cui la moneta è un semplice mezzo di scambio, e in cui la produzione di

beni è la condizione imprescindibile per domandare e ottenere altri beni.

La real-exchange economy di Keynes è una realtà formata da piccoli produttori,

ognuno dei quali si specializza nella produzione di uno dei pochi beni necessari a

soddisfare i bisogni assoluti espressi dalle famiglie. Sebbene gli scambi avvengano

attraverso l’impiego della moneta, la struttura di questo sistema replica intimamente

quella di una economia di baratto. La moneta è una grandezza neutrale e vale la legge di

Say, perché lo scopo dell’attività economica consiste nella produzione di beni che

rappresentano l’unico mezzo per poter entrare in possesso della moneta con cui

acquistare altri beni. Il funzionamento di una economia di questo tipo, che, per

caratteristiche, è sostanzialmente assimilabile a una economia di natura agricola, può

essere spiegato utilizzando modelli basati sull’assunzione semplificatrice che venga

prodotto un unico bene. Si pensi, per esempio, all’economia grano descritta dagli

economisti classici.

Secondo Keynes, le economie in cui realmente viviamo sono invece rappresentate

adeguatamente dalla sequenza Denaro (D) → Merce (M) → Denaro (Dʼ), perché essa

consente di metterne in evidenza due aspetti fondamentali.

In primo luogo, infatti, questa sequenza mostra come l’obiettivo dell’attività

economica non coincida con la produzione di beni, ma consista invece nell’ottenimento

di un profitto misurato in termini monetari dalla differenza tra D’ e D. L’accumulazione

di denaro rappresenta cioè il vero obiettivo dell’attività economica, rispetto al quale la

produzione di beni è meramente strumentale.

Il secondo aspetto fondamentale messo in luce dalla sequenza Denaro (D) → Merce

(M) → Denaro (Dʼ) è il fatto che la disponibilità di moneta, e non di beni, rappresenta la

condizione necessaria per domandare e ottenere altri beni. Anche nell’economia grano i

beni si acquistano mediante moneta, ma è la produzione di beni che consente di entrare

in possesso della moneta utilizzata nello scambio per altri beni. La seconda sequenza

introdotta da Marx e riproposta da Keynes si applica invece a un sistema economico in

cui la produzione di beni finalizzata all’ottenimento di un profitto di natura monetaria

presuppone, può cioè iniziare, soltanto a condizione che si disponga di un certo

ammontare di moneta. Mentre nell’economia descritta dalla teoria neoclassica la

produzione di beni rappresenta la condizione necessaria per ottenere moneta, a giudizio

di Marx e di Keynes, nelle economie contemporanee la disponibilità di moneta

costituisce il presupposto imprescindibile per la produzione di beni. Di conseguenza,

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nelle moderne economie di mercato il processo di creazione della moneta assume un

ruolo assolutamente centrale.

L’economia caratterizzata dalla sequenza Denaro (D) → Merce (M) → Denaro (Dʼ)

è una economia di tipo industriale, dominata dalla presenza di grandi imprese che non

perseguono l’obiettivo di produrre beni da scambiare con altri beni per soddisfare un

limitato insieme di bisogni assoluti, bensì quello di conseguire un profitto monetario

attraverso la vendita di prodotti che rappresentano il risultato di un complesso processo

organizzativo. In altri termini, l’obiettivo di un’impresa che produce automobili non

consiste nello scambio degli autoveicoli con altri beni, ma nella vendita di automobili in

cambio di moneta allo scopo di poter ottenere un profitto monetario. In una economia

industriale, inoltre, la moneta non rappresenta soltanto il fine ultimo dell’attività

economica, ma ne costituisce anche il presupposto. L’imprenditore che intende costruire

automobili deve infatti disporre di un cospicua quantità di moneta per poter realizzare

gli investimenti necessari e per poter pagare i lavoratori impiegati nel processo

produttivo. La disponibilità di moneta rappresenta quindi la condizione necessaria per

realizzare profitti di natura monetaria.

In sintesi, la struttura di un sistema economico in cui vale la sequenza Denaro (D) →

Merce (M) → Denaro (Dʼ) è profondamente diversa da quella di una economia di

baratto, perché in esso la moneta svolge un ruolo tutt’altro che neutrale. La moneta,

infatti, si rivela essenziale, perché: i) la sua disponibilità rappresenta la condizione

necessaria per poter produrre e domandare beni; ii) la sua accumulazione è il vero

obiettivo dell’attività economica.

A questo punto sorge spontaneo chiedersi per quali motivi in una economia di tipo

agricolo, e quindi caratterizzata dalla sequenza Merce (M) → Denaro (D) →Merce

(M’), il vero obiettivo dei soggetti economici non consista nella accumulazione di

moneta. Chi fosse interessato alla risposta a questa domanda troverà una spiegazione del

diverso atteggiamento dei soggetti economici nei due tipi di economia presi in

considerazione in queste pagine in GB, capitoli 4, 5 e 6.

Per sottolineare l’importanza della moneta nelle moderne economie di mercato,

Keynes ha coniato l’espressione monetary economy. Una economia monetaria non è

caratterizzata dal semplice uso della moneta nei traffici economici. In altre parole, in

una economia monetaria la moneta non è un mero ‘velo’ che cela le dinamiche delle

grandezze reali che governano il funzionamento del sistema, quanto piuttosto un

elemento indispensabile ai fini della spiegazione delle caratteristiche strutturali del

sistema e della modalità di determinazione dei livelli del reddito e dell’occupazione.

Pertanto, a differenza di quanto avviene in una economia di baratto, la moneta non può

essere considerata neutrale.

L’aspetto più rilevante delle economie contemporanee, messo in rilievo dalla Grande

Depressione degli anni Trenta del secolo scorso, consiste nel fatto che esse sono

strutturalmente esposte a profonde fluttuazioni del reddito e dell’occupazione. Nelle

economie in cui realmente viviamo le crisi sono cioè fenomeni endogeni, intimamente

legati ai meccanismi di funzionamento del sistema. Scrivendo la Teoria generale,

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Keynes si pose due obiettivi. In primo luogo, egli volle chiarire i motivi per i quali una

economia di mercato caratterizzata dalla presenza di un sistema dei prezzi ben

funzionante è comunque soggetta a periodiche crisi. In secondo luogo, egli si propose di

definire misure di politica monetaria e fiscale che potessero attenuare gli effetti delle

crisi ed eventualmente impedirle. Tuttavia, come si ricorda in GB, capitolo 4, Keynes

attribuiva maggiore importanza al primo obiettivo rispetto al secondo.

Per descrivere gli aspetti più significativi della teoria elaborata da Keynes per

spiegare il funzionamento delle economie contemporanee è opportuno prendere le

mosse da una delle componenti più rilevanti di un sistema economico: le decisioni di

investimento. Keynes, infatti, sottolinea che in una economia monetaria le decisioni di

investimento hanno caratteristiche profondamente diverse da quelle che si realizzano nel

sistema economico descritto dalla teoria neoclassica.

Come si è visto nella prima parte del corso, nel mondo descritto dalla teoria

neoclassica gli investimenti sono il frutto di scelte compiute in condizioni di certezza,

perché si assume che l’imprenditore sia in grado di definire con sicurezza l’ammontare

dei ricavi futuri generati dalla realizzazione di un progetto di investimento. Ma secondo

Keynes, questa ipotesi può valere soltanto nel contesto di una realtà, come quella

descritta dalla teoria neoclassica, assimilabile a una economia grano in cui vengono

prodotti pochi beni, e il cui funzionamento può essere rappresentato attraverso modelli

basati sull’assunzione semplificatrice che si produca un solo bene. In tal caso, una

decisione di investimento consiste nella scelta di non consumare una parte del grano

prodotto allo scopo di impiegarlo come semente, oppure per pagare il salario di un

lavoratore che produce vanghe e aratri che, in futuro, consentiranno di incrementare la

produttività del lavoro agricolo. Le decisioni di investimento di questo tipo vengono

adottate in condizioni di certezza, perché l’obiettivo dell’attività economica consiste

nella produzione di beni (nella fattispecie di grano), e perché la relazione tra i costi

dell’investimento e i ricavi futuri è univocamente determinata dalla tecnologia, che

permette di determinare l’ammontare di grano che può essere prodotto partendo da una

certa quantità di sementi, oppure impiegando un nuovo lavoratore dotato di una vanga e

di un aratro. In altre parole, data la tecnologia, la produttività marginale di un lavoratore

impiegato per la produzione di grano è nota con certezza, e l’imprenditore realizzerà

l’investimento consistente nella assunzione di un lavoratore dotato di vanga e aratro, se

la sua produttività è maggiore del suo salario reale misurato in termini di grano (per

maggiori dettagli si veda GB, capitolo 5).

Grano (Input) → Grano (Output)

(relazione nota con certezza, data la tecnologia)

Secondo Keynes, nelle moderne economie di mercato gli investimenti vengono

invece realizzati in condizioni di incertezza. Con il termine incertezza Keynes fa

riferimento a decisioni i cui risultati non solo non sono certi, ma non possono neppure

essere definiti in termini probabilistici, ovvero a situazioni in cui il rischio non può

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essere ridotto a certezza attraverso il calcolo probabilistico (si confronti GB, p. 90).

Keynes descrive le caratteristiche delle decisioni di investimento adottate nelle

economie contemporanee utilizzando il concetto di innovazione che è alla basa

dell’opera di Joseph Alois Schumpeter, un altro grande economista della prima metà del

secolo scorso (si veda GB, capitoli 4 e 5).

Per quanto riguarda le innovazioni, è possibile distinguere tra due tipologie

fondamentali:

le innovazioni di processo, che consistono in innovazioni che aumentano la

produttività del lavoro impiegato per la realizzazione di beni già esistenti, cioè già

entrati nell’uso comune, e

le innovazioni di prodotto, che invece consistono nella introduzione, e quindi nella

produzione, di nuovi beni. Negli oltre duecento anni trascorsi dalla rivoluzione

industriale, gli esempi di innovazioni di prodotto sono innumerevoli. Si pensi

soltanto all’introduzione della energia elettrica, della ferrovia, delle automobili, del

telefono, della televisione, del computer etc.

A giudizio di Keynes, nelle economie contemporanee le scelte di investimento

assumono principalmente le caratteristiche delle innovazioni descritte da Schumpeter.

Keynes sottolinea che le decisioni riguardanti l’introduzione di nuovi beni vengono

adottate in condizioni di incertezza, perché l’imprenditore non è in grado di prevedere in

termini probabilistici i ricavi futuri associati alla realizzazione di un investimento-

innovazione. La ragione più evidente su cui si basa questa conclusione deriva dal fatto

che l’innovazione potrebbe rivelarsi un insuccesso, poiché i consumatori potrebbero non

mostrare alcun interesse per l’acquisto del nuovo prodotto (GB, capitolo 5, p. 93).

Possiamo illustrare questo punto fondamentale dell’analisi di Keynes attraverso un

semplice esempio. Supponiamo di essere all’interno di una economia grano, e che nasca

un imprenditore-innovatore che intende realizzare una ferrovia. Egli deciderà se

costruire o meno la ferrovia confrontando i costi e ricavi dell’operazione. Ipotizziamo,

per semplicità, che l’unico fattore produttivo necessario alla realizzazione della ferrovia

consista nel lavoro e che la costruzione della ferrovia richieda una certa quantità di

lavoratori per un determinato periodo di tempo. Dato il salario unitario, è possibile

definire con certezza i costi relativi alla costruzione della ferrovia. Inoltre, tali costi

sono definibili in termini di grano, perché il grano è l’unico bene acquistato dai

lavoratori.

La definizione dei risultati dell’investimento, ovvero dei ricavi prodotti dalla

realizzazione della ferrovia, è più complicata. Nel caso di una economia grano il

confronto tra i costi e i ricavi di un investimento è facile, perché entrambe le grandezze

consistono in quantità di grano. Nel caso della ferrovia, invece, un confronto tra costi e

ricavi in termini di quantità di beni è molto più difficile. Infatti, mentre i costi di

produzione sono ancora misurabili in termini di quantitativi di grano, i ricavi devono

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essere computati in termini di chilometri di binari, di numero di locomotori e di

carrozze ferroviarie prodotte.

Costi⏟Quintali di grano

↔ Ricavi⏟ km di ferrovia

Di conseguenza, costi e ricavi espressi in termini di quantità di beni non consentono

a un imprenditore di decidere se realizzare la ferrovia o meno. Naturalmente, possiamo

immaginare che esistano soggetti che decidono di costruire una ferrovia per semplice

interesse personale, ad esempio per amore della tecnologia, oppure per mera vanagloria.

Tuttavia, un soggetto di questo tipo difficilmente può essere definito un imprenditore.

Un imprenditore, infatti, persegue il progetto di costruzione della ferrovia allo scopo di

ottenere un profitto monetario. Egli è quindi indotto a confrontare i costi e ricavi in

termini monetari. I costi monetari sono facilmente definibili, perché corrispondono al

valore monetario dei salari pagati ai lavoratori. I ricavi monetari, invece, non

corrispondono al valore monetario dei binari, dei locomotori e delle carrozze, ma ai

ricavi monetari che derivano dalla vendita dei biglietti ferroviari. Pertanto, i ricavi sono

incerti in senso keynesiano, essi cioè non sono definibili in termini probabilistici, perché

il loro ammontare dipende dal modo in cui i consumatori accolgono la novità della

ferrovia.

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Per descrivere le caratteristiche delle decisioni di investimento nelle moderne

economie di mercato, Keynes, come abbiamo visto sopra, ha utilizzato la sequenza:

Denaro (D) → Merce (M) → Denaro (Dʼ).

Questa sequenza permette di sottolineare due punti. In primo luogo, essa mette in

rilievo che una economia monetaria è caratterizzata dalla presenza di imprenditori che

perseguono l’obiettivo di ottenere un profitto monetario attraverso la produzione di

merci:

Dʼ > D.

Si tratta di un confronto particolarmente complesso, perché D’ e D sono grandezze di

natura diversa. Infatti, mentre l’ammontare di D’ è incerto, quello di D è certo.

In secondo luogo, la sequenza di cui sopra evidenzia che, affinché l’imprenditore-

innovatore realizzi l’investimento rappresentato dalla costruzione della ferrovia, non è

possibile prescindere dalla disponibilità di denaro. Infatti, per poter finanziare la

realizzazione della ferrovia l’imprenditore non deve disporre di beni, bensì di una

adeguata quantità di denaro.

Sia Keynes che Schumpeter attribuiscono grande rilevanza al ruolo svolto

dall’imprenditore-innovatore, perché lo considerano dotato delle qualità necessarie per

effettuare delle scelte in condizioni di incertezza. Schumpeter, ad esempio, utilizza la

categoria di ‘imprenditore’ per indicare i soggetti che introducono le innovazioni, e il

concetto di ‘impresa’ per indicare l’atto stesso dell’introduzione delle innovazioni.

Nell’economia descritta dalla teoria neoclassica la figura dell’imprenditore non trova

spazio. Per sottolineare la differenza tra il suo approccio teorico e quello adottato dagli

economisti neoclassici, e quindi rimarcare l’importanza della figura imprenditoriale,

Keynes identifica le economie contemporanee non solo con l’espressione monetary

economy, ma anche con l’espressione entrepreneur economy. Inoltre, egli ricorre

all’espressione animal spirits per definire l’attitudine degli imprenditori a prendere

decisioni in condizioni di incertezza (GB, capitolo 5, p. 94).

La specificazione delle caratteristiche delle decisioni di investimento realizzate nel

contesto di una economia monetaria consente di specificare due importanti

caratteristiche delle economie contemporanee. Innanzitutto, si tratta di sistemi che non

possono essere descritti attraverso modelli basati sull’ipotesi semplificatrice che si

produca un unico bene, perché le decisioni di investimento portano all’introduzione di

innovazioni che si traducono nella produzione di nuovi beni che modificano le abitudini

di consumo dei consumatori. Di conseguenza, come ha sottolineato Schumpeter (GB, p.

93), i bisogni dei consumatori non sono più definiti in funzione di gusti e preferenze

date in modo esogeno, ma diventano endogeni. Facendo uso di modelli riferiti a una

economia grano, gli economisti neoclassici descrivono un sistema in cui viene prodotto

immutabilmente lo stesso complesso di beni, che soddisfa un insieme di bisogni dato e

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anch’esso immutabile. In una economia di questo tipo, il solo cambiamento possibile

riguarda quindi la quantità dell’unico bene prodotto. Inoltre, le caratteristiche degli

investimenti-innovazione e l’importanza della dimensione dell’incertezza permettono di

sottolineare che nelle economie contemporanee la legge di Say non vale.

1.2. La critica alla legge di Say e il principio della domanda effettiva

Come abbiamo visto nella prima parte del corso, in base alla legge di Say le decisioni di

produzione determinano il reddito di piena occupazione (𝑌𝑃𝑂), che, a sua volta, genera

un volume di domanda a livello aggregato tale da assicurare l’assorbimento di tutta la

produzione realizzata dalle imprese (è l’offerta a creare la propria domanda).

Produzione → 𝑁𝑑 = 𝑁𝑠 = 𝑁𝐸 = 𝑓 (𝑊

𝑃 𝐸) → 𝑌𝑃𝑂 → 𝐷𝐴(𝑌𝑃𝑂, 𝜃, 𝑟𝐸) = 𝑌𝑃𝑂 .

Inoltre, sappiamo anche che, nel mondo descritto dalla teoria neoclassica, la variabile

che garantisce la trasformazione delle decisioni di produzione in un equivalente volume

di domanda aggregata è il tasso di interesse, che fluttua sino a quando eventuali squilibri

tra la domanda e l’offerta aggregata di beni, ovvero tra l’offerta di risparmi (il grano non

consumato) e la domanda di risparmi (il grano domandato a scopo di investimento) non

si uguagliano in corrispondenza del tasso di interesse di equilibrio (𝑟𝐸) (figura 31).

Figura 31 – L’equilibrio sul mercato dei capitali

(e sul mercato dei beni) in una economia grano

L’analisi neoclassica è dunque fondata sull’ipotesi che esista effettivamente un

valore positivo del tasso di interesse in corrispondenza del quale tutta la quota di

produzione non consumata, cioè risparmiata, venga successivamente investita. Questa

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ipotesi può essere accettata, se si considera una economia grano in cui le decisioni di

produzione precedono e determinano le decisioni di consumo e di risparmio, e in cui le

decisioni di risparmio precedono e determinano le decisioni di investimento.

Tuttavia, la stessa ipotesi non può valere in una economia monetaria, perché in

quest’ultima le decisioni di investimento hanno le caratteristiche delle innovazioni

descritte da Schumpeter. In una economia monetaria, infatti, il livello degli investimenti

non dipende soltanto dal tasso di interesse, ma anche e soprattutto dalla presenza di un

numero sufficiente di imprenditori dotati di animal spirits, e quindi disposti a realizzare

dei progetti di investimento in condizioni di incertezza. In un sistema economico di

questo tipo non si può affatto assumere che debba esistere un valore positivo del tasso di

interesse tale da indurre gli imprenditori a realizzare un volume di investimenti coerente

con la piena occupazione della forza lavoro disponibile a lavorare al salario di equilibrio

determinato sul mercato del lavoro.

Questa affermazione trova supporto nell’analisi della figura 32.

Figura 32 – Risparmi e investimenti in una ‘monetary economy’

Come si può notare, nella figura 32 le decisioni di investimento dipendono anche dalle

aspettative degli imprenditori dotati di animal spirits. Per evidenziare questa circostanza

le stime relative ai ricavi futuri associati alle decisioni di investimento adottate in una

economia monetaria sono state indicate con la lettera greca 𝜑, in modo tale da

sottolineare che, a differenza di quanto avviene in una economia grano, in cui le

previsioni riguardanti i risultati delle decisioni di investimento sono sempre state

contrassegnate dalla lettera greca 𝜃, gli esiti di una decisione di investimento sono

altamente incerti. In altre parole, ciò significa che, a parità di tasso di interesse, il livello

degli investimenti è soggetto a fluttuazioni, talvolta anche violente, determinate dalla

variabilità delle aspettative degli imprenditori-innovatori che devono esprimere una

valutazione sulla realizzabilità dei loro progetti di investimento sulla base di elementi di

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giudizio altamente incerti. Qualora il numero di imprenditori-innovatori fosse

inadeguato e le loro aspettative circa i ricavi monetari futuri associati alla realizzazione

degli investimenti fossero negative, la funzione degli investimenti si verrebbe a

collocare nella posizione della retta 𝐼′(𝜑, 𝑟). Inoltre, dobbiamo osservare che nelle

economie contemporanee la funzione dei risparmi non è molto sensibile al valore

assunto dal tasso di interesse, motivo per cui essa potrebbe trovarsi nella posizione della

curva 𝑆′(𝑌𝑃𝑂, 𝑟).

In quest’ultimo caso, anche in corrispondenza di un tasso di interesse pari a zero

(𝑟 = 0), il livello degli investimenti sarebbe inferiore a quello coerente con il reddito di

piena occupazione. Esso, cioè, sarebbe inferiore al valore del flusso di risparmi generato

in una situazione di piena occupazione:

se 𝑟 = 𝑟𝐸 → 𝑆′(𝑌𝑃𝑂, 𝑟𝐸) > 𝐼

′(𝜑, 𝑟𝐸) → 𝑟 ↓, inoltre

se 𝑟 = 0 → 𝑆′(𝑌𝑃𝑂, 𝑟 = 0) > 𝐼′(𝜑, 𝑟 = 0) → 𝑟 ↓, ma 𝑟 non può più scendere.

Allo squilibrio tra risparmi e investimenti corrisponde uno squilibrio tra domanda e

offerta aggregata di beni. Valgono infatti le seguenti relazioni:

𝑆′(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟 = 0) = 𝑌𝑃𝑂 − 𝐶′(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟 = 0),

𝑌𝑃𝑂 − 𝐶′(𝑌𝑃𝑂, 𝑟 = 0) > 𝐼

′(𝜑, 𝑟 = 0), e

𝑌𝑃𝑂⏟𝑅𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑒𝑛𝑎 𝑜𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒

> 𝐶′(𝑌𝑃𝑂, 𝑟 = 0) + 𝐼′(𝜑, 𝑟 = 0)⏟

𝐷𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎 𝑎𝑔𝑔𝑟𝑒𝑔𝑎𝑡𝑎

→ 𝑌 ↓.

Poiché le imprese non riescono a vendere tutto ciò che producono, esse non

continueranno a generare un reddito pari a 𝑌𝑃𝑂, ma ridurranno il livello di produzione,

adeguandolo a quello della domanda effettiva. Keynes sottolinea che nelle economie

contemporanee, da lui definite economie monetarie, il livello del reddito dipende dalla

domanda aggregata. In altri termini, nel mondo descritto da Keynes vale il principio

della domanda effettiva:

𝐷𝐴 → 𝑌

(è la domanda a determinare l’offerta, ovvero la produzione di beni a livello aggregato).

Per degli esempi illustrativi del principio della domanda effettiva si veda GB, capitolo

5, paragrafo 2.2, e capitolo 7, paragrafi 1.1 e 1.2.

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2. Il modello reddito-spesa

La relazione causale tra domanda aggregata e livello del reddito che caratterizza una

economia monetaria può essere chiarita attraverso la ricostruzione di un primo modello,

quello strutturalmente più semplice, elaborato dagli economisti di ispirazione

keynesiana dopo la pubblicazione della Teoria generale per sintetizzare le conclusioni

dell’analisi di Keynes. In questo modello il funzionamento del mercato dei beni è

descritto sulla base del principio della domanda effettiva.

2.1. Le equazioni del modello

La condizione di equilibrio sul mercato dei beni prevede, evidentemente, l’eguaglianza

tra domanda aggregata e offerta aggregata:

1) 𝐷𝐴 = 𝑌.

Questa condizione di equilibrio è uguale a quella già vista nel caso della teoria classica.

La differenza fondamentale riguarda la direzione di causalità tra le due grandezze. In

una economia monetaria vale la relazione 𝐷𝐴 → 𝑌, ovvero il principio della domanda

effettiva, e non la relazione 𝑌 → 𝐷𝐴, che identifica la legge di Say.

La seconda equazione del modello descrive invece la composizione della domanda

aggregata che, nel caso di una economia chiusa, equivale alla somma dei consumi e

degli investimenti:

2) 𝐷𝐴 = 𝐶 + 𝐼.

Mentre nella teoria neoclassica i consumi dipendono dal reddito e dal tasso di interesse,

nel modello reddito spesa la funzione dei consumi trascura gli effetti indotti dalle

variazioni del tasso di interesse. Infatti:

𝐶 = 𝐶(𝑌).

Ipotizzando che la relazione tra il livello dei consumi e il livello del reddito sia di natura

lineare, avremo:

3) 𝐶 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ 𝑌.

Dalla lettura della 3) si evince che quando 𝑌 = 0 → 𝐶 = 𝐶0. 𝐶0 rappresenta i consumi

autonomi, chiamati in questo modo perché sono indipendenti dal livello del reddito. Il

parametro 𝑐, invece, indica la propensione marginale al consumo, che definisce

l’entità dell’incremento dei consumi determinato dall’aumento di una unità del reddito

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disponibile (𝑌). In particolare, la propensione marginale al consumo è un numero

positivo compreso tra 0 e 1:

𝑐 =𝑑𝐶

𝑑𝑌 con 0 < 𝑐 < 1 (per esempio, 𝑐 = 0,8).

Come abbiamo visto poco sopra, il flusso degli investimenti è funzione degli animal

spirits degli imprenditori-innovatori, ovvero delle loro aspettative in merito al livello

dei ricavi futuri associati alla realizzazione dei progetti di investimento (𝜑), e del tasso

di interesse (𝑟):

4) 𝐼 = (𝜑, 𝑟).

L’ultima equazione del modello reddito-spesa definisce il valore del tasso di

interesse. La teoria keynesiana del tasso di interesse differisce profondamente da quella

neoclassica. Secondo la teoria neoclassica, infatti, il tasso di interesse rappresenta il

premio per l’astensione dal consumo, ovvero la remunerazione del risparmio. In altri

termini, si tratta della ricompensa che le imprese devono pagare per poter utilizzare le

risorse (il grano) precedentemente prodotte e risparmiate ai fini della realizzazione dei

loro progetti di investimento. Questa definizione è coerente con la legge di Say che,

come sappiamo, trova applicazione in una economia grano, un ‘economia, cioè, in cui le

decisioni di produzione precedono le decisioni di risparmio e di investimento. Pertanto,

nell’economia descritta dagli economisti neoclassici il mercato dei beni, il mercato dei

capitali e il mercato del credito coincidono.

Viceversa, nell’economia monetaria descritta da Keynes gli investimenti non

vengono realizzati grazie all’uso di risorse risparmiate. La condizione necessaria per la

realizzazione degli investimenti è che, conformemente alla sequenza Denaro (D) →

Merce (M) → Denaro (Dʼ) illustrata poco sopra, l’imprenditore-innovatore disponga di

un adeguato quantitativo di moneta. In effetti, l’imprenditore-innovatore che intende

costruire una ferrovia non si indebita nei confronti dei produttori di grano che si sono

astenuti dal consumare una quota della loro produzione di grano. Piuttosto, egli si

indebita verso chi è in grado di creare moneta o verso chi già la possiede. Secondo

Keynes, la coincidenza tra il mercato dei beni e i mercati dei capitali e del credito

postulata dagli economisti neoclassici non fornisce una descrizione corretta dei

meccanismi di funzionamento di una moderna economia di mercato. In una economia

monetaria, il mercato dei capitali è il mercato in cui gli imprenditori ottengono moneta

dai produttori di moneta, il mercato, cioè, in cui le imprese si indebitano nei confronti

del sistema bancario. Mentre la domanda di capitali, come già nel modello neoclassico,

continua a essere espressa dagli imprenditori, l’offerta di capitali non coincide con le

risorse risparmiate, ma dipende invece dalla disponibilità delle banche a finanziare le

imprese che non dispongono della liquidità necessaria alla realizzazione dei loro

progetti di investimento attraverso la creazione di nuova moneta.

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Sia Keynes che Schumpeter hanno messo in evidenza la fondamentale importanza

che, nelle economie contemporanee, ha assunto l’utilizzo di un particolare tipo di

moneta che si aggiunge alla moneta legale creata dalla banca centrale. Nelle moderne

economie di mercato, un ruolo di primaria importanza è infatti svolto dalla moneta

bancaria, che consiste nei depositi bancari impiegati come mezzi di pagamento

mediante l’uso di assegni, bonifici e carte di pagamento. In un mondo in cui è diffuso

l’utilizzo di una moneta di questo tipo, le banche possono offrire credito creando nuova

moneta bancaria, cioè autorizzando gli imprenditori-innovatori a emettere ordini di

pagamento nei loro confronti. Per diretta conseguenza, in questo caso l’offerta di credito

è però indipendente dalle decisioni di risparmio degli agenti economici (per maggiori

dettagli si veda GB, capitolo 4, paragrafo 3, e capitolo 5, paragrafi 2.1 e 3.2).

In una economia monetaria i mercati dei capitali e del credito quindi non coincidono

con il mercato dei beni. Pertanto, il tasso di interesse non rappresenta la remunerazione

del risparmio, ma piuttosto il prezzo della moneta creata dal sistema bancario attraverso

i contratti di credito stipulati con gli imprenditori. Poiché il tasso di interesse è

indipendente dalle decisioni di risparmio, esso rappresenta una grandezza esogena

rispetto al mercato dei beni. Possiamo quindi completare la descrizione del mercato

dei beni specificando la seguente equazione del tasso di interesse:

5) 𝑟 = �̅�.

Abbiamo dunque descritto il mercato dei beni attraverso un sistema di cinque

equazioni in cinque incognite: 𝐷𝐴, 𝑌, 𝐶, 𝐼, 𝑟.

Come nel caso del modello macroeconomico neoclassico, anche in questo caso è

possibile definire un ordine di soluzione del sistema. Infatti, l’equazione 5) definisce il

valore del tasso di interesse (𝑟 = �̅�). Una volta noto il valore del tasso di interesse,

l’equazione 4) determina il volume degli investimenti:

poiché 𝐼 = 𝐼(𝜑, 𝑟), se 𝑟 = �̅� → 𝐼 = 𝐼(𝜑, �̅�) → 𝐼(𝜑, �̅�) = 𝐼.̅

Sostituendo la 4) e la 3) nella 2) otteniamo:

𝐷𝐴 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ 𝑌 + 𝐼 ̅ = 𝐶0 + 𝐼̅ + 𝑐 ∙ 𝑌.

Questa espressione individua due distinte componenti della domanda aggregata:

una prima componente data da 𝐶0 + 𝐼,̅ definita domanda autonoma, perché

indipendente dal livello del reddito (𝑌), e

una seconda componente data da 𝑐 ∙ 𝑌, che invece è funzione del livello del reddito.

In particolare, notiamo che la domanda aggregata è una funzione lineare crescente del

reddito.

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In ultimo, dobbiamo sostituire l’espressione della domanda aggregata nell’equazione

1) che rappresenta la condizione di equilibrio sul mercato dei beni. In tal modo,

ricaviamo la seguente equazione:

𝑌 = 𝐶0 + 𝐼̅ + 𝑐 ∙ 𝑌.

Si tratta di una equazione in una sola incognita (𝑌), che può essere risolta con alcuni

semplici passaggi:

𝑌 − 𝑐 ∙ 𝑌 = 𝐶0 + 𝐼,̅

𝑌 ∙ (1 − 𝑐) = 𝐶0 + 𝐼,̅

da cui

𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 + 𝐼)̅.

Questa espressione rappresenta una applicazione del principio della domanda

effettiva, perché definisce il valore del reddito in funzione del livello della domanda

aggregata, dato dal livello degli investimenti (𝐼) e dal livello dei consumi (𝐶), e quindi

in particolare, dalla propensione marginale al consumo (𝑐).

In maggior dettaglio, possiamo osservare che esiste una relazione diretta tra il livello

degli investimenti e il livello del reddito:

𝐼 ↑ → 𝑌 ↑.

Inoltre, possiamo osservare che esiste una relazione diretta anche tra la propensione

marginale al consumo e il livello di reddito:

𝑐 ↑ → (1 − 𝑐) ↓ → 1

(1 − 𝑐)↑ → 𝑌 ↑.

2.2. L’esistenza di equilibri di sottoccupazione caratterizzati dalla presenza di

disoccupazione involontaria

Le relazioni che definiscono l’equilibrio sul mercato dei beni nel semplice modello

keynesiano costruito sopra non valgono all’interno del mondo neoclassico, in cui, come

si è visto in precedenza, le variazioni della propensione al consumo e all’investimento

non producono alcun effetto sul livello del reddito, che rimane ancorato al valore che

corrisponde alla piena occupazione della forza lavoro (𝑌𝑃𝑂).

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L’equilibrio di piena occupazione definito dalla teoria neoclassica corrisponde ai

punti 𝐸 sui mercati del lavoro e dei beni rappresentati nella figura 33.

Figura 33 – L’equilibrio macroeconomico nel mondo neoclassico e nel mondo di Keynes

Come sappiamo, nell’ambito della teoria neoclassica, in corrispondenza del salario

reale 𝑊 𝑃⁄ 𝐸 il sistema raggiunge l’equilibrio di piena occupazione, perché, grazie alla

flessibilità del tasso di interesse, tutto ciò che è stato prodotto verrà anche domandato.

Secondo Keynes, invece, in una economia monetaria, in cui le decisioni di investimento

vengono realizzate in condizioni di incertezza, la flessibilità del tasso di interesse non è

condizione sufficiente per ottenere un livello di domanda aggregata coerente con la

piena occupazione.

Infatti, se la funzione degli investimenti corrisponde a 𝐼′(𝜑, 𝑟) e quella dei risparmi a

𝑆′(𝑌𝑃𝑂 , 𝑟), allora anche in corrispondenza di un tasso di interesse pari a zero si avrà un

livello della domanda aggregata inferiore a quello necessario ad assicurare la piena

occupazione dei lavoratori disponibili a lavorare al salario di equilibrio determinato sul

mercato del lavoro. Poiché le imprese non riescono a vendere ciò che producono, esse

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ridurranno la produzione adeguandola al livello della domanda aggregata effettiva. Per

questo motivo, il reddito scende al di sotto del suo livello di piena occupazione,

raggiungendo, per esempio, il livello 𝑌1 = 𝑓(𝑁1) < 𝑌𝑃𝑂 = 𝑓(𝑁𝐸) (figura 34).

Figura 34 – L’equilibrio di sottoccupazione con presenza di disoccupazione involontaria

Per effetto della caduta del livello di produzione determinato dall’insufficienza della

domanda effettiva, le imprese assumeranno un numero di lavoratori pari a 𝑁1 < 𝑁𝐸

anche nel caso in cui il salario reale fosse pari a 𝑊 𝑃⁄ 𝐸 . La differenza tra 𝑁𝐸 e 𝑁1

rappresenta quindi la disoccupazione involontaria dovuta all’insufficiente volume

della domanda aggregata.

In presenza di disoccupazione involontaria, un incremento della domanda aggregata

provocato da un aumento degli investimenti o da un aumento della propensione al

consumo determina la crescita del livello del reddito e un incremento dei livelli

occupazionali:

𝐷𝐴 ↑ → 𝑌 ↑ → 𝑁 ↑.

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Le imprese assumeranno nuovi lavoratori a due condizioni:

che riescano a vendere quello che producono, perché esiste una domanda di beni che

sollecita la produzione, e

che l’incremento della produzione consenta di espandere i profitti. Come è noto, ciò

si verifica, se la produttività marginale del lavoro è maggiore del salario reale.

In presenza di una situazione di disoccupazione involontaria, come quella

rappresentata nella figura 34, entrambe queste condizioni sono soddisfatte. Infatti, vale

la seguente relazione:

𝑊

𝑃 𝐸= 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁𝐸).

Inoltre, poiché la produttività marginale del lavoro è decrescente si ha:

𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁1) > 𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁𝐸),

e quindi

𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁1) >𝑊

𝑃 𝐸.

Questo ragionamento vale per ogni valore di 𝑁 compreso tra 𝑁1 e 𝑁𝐸:

𝑃𝑚𝑎𝑙 (𝑁) >𝑊

𝑃 𝐸.

Di conseguenza, se la domanda aggregata aumenta, le imprese si trovano nella

condizione di poter assumere nuovi lavoratori. Questo processo di crescita

dell’occupazione e del reddito determinato dall’incremento della domanda aggregata

continuerà fino a quando non si raggiunge il reddito di piena occupazione (𝑌𝑃𝑂) e un

livello di occupazione pari a 𝑁𝐸.

2.3. Una rappresentazione grafica del reddito di equilibrio

Il valore di equilibrio del reddito coerente con il principio della domanda effettiva può

essere rappresentato graficamente come nella figura 35, in cui viene descritta la

condizione di equilibrio sul mercato dei beni nell’ambito di un quadro teorico riferibile

all’analisi elaborata da Keynes nella Teoria generale.

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Figura 35 - La rappresentazione grafica del valore di equilibrio del reddito

nel modello reddito-spesa

Come si può notare, sull’asse delle ordinate viene indicato il valore della domanda

aggregata (𝐷𝐴), mentre sull’asse delle ascisse è riportato il valore del reddito (𝑌). Il

livello del reddito non può superare il valore limite corrispondente al reddito di piena

occupazione (𝑌𝑃𝑂). La retta a 45° rappresenta la condizione di equilibrio sul mercato

dei beni, perché in ogni punto di essa vale l’uguaglianza 𝐷𝐴 = 𝑌. La seconda retta

tracciata sul piano rappresenta invece la curva di domanda aggregata che, come

abbiamo visto poco sopra, è una funzione lineare del reddito, con intercetta pari a

(𝐶0 + 𝐼)̅, e con coefficiente angolare pari alla propensione marginale al consumo (𝑐). Il

punto di intersezione tra le due curve individua il valore di equilibrio del reddito (𝑌0). In

corrispondenza di tale livello del reddito, che si trova sulla retta a 45°, i valori sulle

ordinate e sulle ascisse si equivalgono. Risulterà quindi:

𝐷𝐴(𝑌0) = 𝐶0 + 𝐼̅ + 𝑐 ∙ 𝑌0 = 𝑌0.

Nella figura 35 il livello del reddito di equilibrio (𝑌0) è inferiore a quello di piena

occupazione (𝑌𝑃𝑂). Ciò è coerente con l’assunzione formulata nel paragrafo precedente,

secondo cui nel mondo descritto da Keynes le funzioni degli investimenti e dei risparmi

assumono, rispettivamente, la forma 𝐼′(𝜑, 𝑟) e 𝑆′(𝑌, 𝑟).

La determinazione del livello di equilibrio del reddito nel modello reddito-spesa può

essere illustrata anche attraverso un semplice esempio numerico. Supponiamo che

valgano i seguenti valori:

𝐶0 = 200

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𝐼 ̅ = 0

𝑐 = 0,75

𝐷𝐴 = 200 + 0 + 0,75 ∙ 𝑌0.

Per determinare il reddito di equilibrio dobbiamo partire dalla condizione di equilibrio

sul mercato dei beni (𝐷𝐴 = 𝑌) e sostituire in questa espressione il valore assunto dalla

domanda aggregata. Si ottiene così:

200 + 0 + 0,75 ∙ 𝑌0 = 𝑌0,

da cui si ricava

𝑌0 − 0,75 ∙ 𝑌0 = 200

𝑌0 ∙ (1 − 0,75) = 200,

ovvero

𝑌0 =1

(1−0,75)∙ 200 =

1

0,25∙ 200 = 4 ∙ 200 = 800.

Figura 36 – L’aggiustamento in termini di quantità prodotte

in caso di insufficienza di domanda aggregata

In corrispondenza di questo valore del reddito si avrà equilibrio tra domanda e offerta

aggregata. Infatti:

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𝐷𝐴(𝑌 = 𝑌0 = 800) = 𝐶0 + 𝐼̅ + 𝑐 ∙ 𝑌0 = 200 + 0 + 0,75 ∙ 800 = 200 + 600 = 800.

Possiamo mostrare che in corrispondenza di ogni valore di 𝑌 ≠ 𝑌0 si avrà uno

squilibrio sul mercato dei beni. Per esempio, se fosse:

𝑌 = 𝑌1 > 𝑌0 → 𝐷𝐴(𝑌1) ≠ 𝑌1,

si presenterebbe la situazione rappresentata nella figura 36.

Si può osservare che, in questo caso, il livello della domanda aggregata, pari a

𝐷𝐴(𝑌1), è inferiore a 𝑌1 (insufficienza di domanda aggregata). Infatti:

𝐷𝐴(𝑌1) = 𝐶0 + 𝐼̅ + 𝑐 ∙ 𝑌1 < 𝑌1.

Non riuscendo a vendere tutto ciò che producono, le imprese riducono la produzione

sino a quando sul mercato dei beni si determina l’equilibrio in corrispondenza di un

valore del reddito pari a 𝑌0.

Un processo simmetrico si mette in moto se si parte da una situazione in cui:

𝑌 = 𝑌2 < 𝑌0 → 𝐷𝐴(𝑌2) ≠ 𝑌2.

Figura 37 - L’aggiustamento in termini di quantità prodotte

in caso di eccesso di domanda aggregata

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In questo caso, si registra un eccesso di domanda aggregata rispetto al reddito. Infatti:

𝐷𝐴(𝑌2) = 𝐶0 + 𝐼̅ + 𝑐 ∙ 𝑌2 > 𝑌2.

Poiché ci troviamo in presenza di disoccupazione involontaria, le imprese reagiranno

all’eccesso di domanda aggregata espandendo la produzione sino a quando il livello del

reddito raggiunge un valore pari a 𝑌0 (figura 37).

2.4. Gli effetti di una variazione delle componenti autonome della domanda

aggregata, il moltiplicatore del reddito e l’inversione della relazione causale tra

risparmi e investimenti

Nel modello reddito-spesa, il principio della domanda effettiva trova rappresentazione

attraverso l’espressione:

𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 + 𝐼)̅.

Abbiamo già sottolineato in precedenza che, in base a questa espressione, 𝑌 varia in

funzione di 𝐶0 + 𝐼 ̅(domanda autonoma) e di 𝑐 (propensione marginale del consumo).

Analizziamo ora gli effetti di una variazione delle componenti autonome dal reddito

della domanda aggregata. In particolare, ipotizziamo che aumenti la spesa per beni di

investimento:

𝐼 ↑ → (𝐶0 + 𝐼)̅ ↑ → 𝑌 ↑.

Torniamo all’esempio numerico del paragrafo precedente, e supponiamo che gli

investimenti aumentino in misura pari a 300:

𝐼0̅ = 0 → 𝐼1̅ = 300 (𝑑𝐼 = 300).

Il nostro problema consiste nella determinazione dell’incremento di reddito generato da

un aumento della domanda per beni di investimento uguale a 300:

𝑑𝐼 = 300 → 𝑑𝑌 ?

Abbiamo visto che il valore di equilibrio del reddito corrisponde all’espressione:

𝐷𝐴(𝑌) = 𝑌 con 𝑌 = 𝐶0 + 𝐼̅ + 𝑐 ∙ 𝑌 → =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 + 𝐼)̅.

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Se:

𝐶0 = 200

𝐼 = 𝐼0̅ = 0

𝑐 = 0,75,

allora

𝑌0 =1

(1 − 0,75)∙ (𝐶0 + 𝐼0̅) =

1

0,25∙ 200 = 4 ∙ 200 = 800.

Se, invece, il livello degli investimenti passa da 𝐼 = 𝐼0̅ = 0 a 𝐼 = 𝐼1̅ = 300, allora

𝑌1 =1

(1 − 0,75)∙ (𝐶0 + 𝐼1̅) =

1

0,25∙ (200 + 300) = 4 ∙ 500 = 2.000 .

Pertanto:

𝑑𝑌 = 𝑌1 − 𝑌0 = 2000 − 800 = 1.200 .

Un incremento della domanda autonoma pari a 300 genera un aumento del reddito

che è un multiplo dell’incremento iniziale, pari, nel nostro esempio, a 1.200. Questo

risultato è confermato dall’analisi dell’espressione che definisce il reddito di equilibrio:

𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 + 𝐼)̅.

Il reddito è una funzione lineare della domanda autonoma, la cui derivata prima

corrisponde al valore del coefficiente angolare dato da 1

(1−𝑐) :

𝑑𝑌

𝑑(𝐶0 + 𝐼)̅=

1

(1 − 𝑐) .

Se 𝑐 = 0,75, allora:

𝑑𝑌

𝑑(𝐶0 + 𝐼)̅=

1

(1 − 𝑐)=

1

(1 − 0,75)=

1

0,25= 4.

Questa espressione ci dice che, se gli investimenti aumentano di una unità, il reddito

aumenta di quattro unità:

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𝑑𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ 𝑑(𝐶0 + 𝐼)̅ = 4 ∙ (𝑑𝐼) = 4 ∙ 300 = 1,200 .

Il significato economico di questo risultato può essere compreso se si considera la

composizione della domanda aggregata. Come abbiamo visto, quest’ultima si compone

di due parti: da un lato, la domanda autonoma dal reddito e, dall’altro, la domanda che

dipende dal reddito in funzione della propensione marginale al consumo. Ciò implica

che un incremento della spesa per beni di investimento (indipendente dal reddito)

determina anche un aumento dei consumi indotto dalla crescita del reddito legata

all’espansione iniziale degli investimenti. Inoltre, la spesa addizionale per consumi

provocherà un ulteriore aumento del reddito che, a sua volta, determinerà un nuovo

incremento dei consumi, e così via. In definitiva, un aumento iniziale di una

componente autonoma della domanda aggregata ingenera un processo moltiplicativo del

reddito alimentato dai consumi.

Approfondiamo l’illustrazione delle diverse fasi del processo di variazione del

reddito provocato dall’incremento degli investimenti attraverso l’esempio numerico

presentato in precedenza.

Prima fase

𝑑𝐼 = 300 → 𝑑𝐷𝐴1 = 𝑑𝐼 = 300 → 𝑑𝑌1 = 𝑑𝐷𝐴1 = 𝑑𝐼 = 300

Durante la prima fase, gli investimenti generano un equivalente incremento della

domanda aggregata (𝑑𝐷𝐴1) che, a sua volta, induce un analogo aumento del reddito

(𝑑𝑌1). Tuttavia, il processo di crescita del reddito non si interrompe a questo punto,

perché l’incremento di reddito generato dagli investimenti influenza la domanda per

beni di consumo.

Seconda fase

𝑑𝑌1 = 300 → 𝑑𝐶 ↑ (𝑑𝐶 = ?)

Per determinare l’entità dell’aumento della spesa per beni di consumo (𝑑𝐶), ricordiamo

che l’espressione della funzione dei consumi è:

𝐶 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ 𝑌

Da questa espressione si ottiene:

𝑑𝐶

𝑑𝑌= 𝑐 → 𝑑𝐶 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌, e quindi 𝑑𝐶1 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌1.

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E poiché 𝑐 = 0,75 e 𝑑𝑌1 = 300, avremo che 𝑑𝐶1 = 0,75 ∙ 300 = 225.

Durante la seconda fase l’aumento della domanda per beni di consumo determina un

ulteriore incremento della domanda aggregata (𝑑𝐷𝐴2) che genera una nuova,

equivalente, crescita del livello del reddito (𝑑𝑌2):

𝑑𝐷𝐴2 = 𝑑𝐶1 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌1 = 225 → 𝑑𝐷𝐴2 = 𝑑𝑌2 = 225.

Inoltre, sappiamo che:

𝑑𝑌1 = 𝑑𝐼.

Pertanto risulta:

𝑐 ∙ 𝑑𝑌1 = 𝑐 ∙ 𝑑𝐼 𝑒 𝑑𝑌2 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌1 = 𝑐 ∙ 𝑑𝐼.

Terza fase

Nella terza fase il processo di crescita del reddito continua, perché l’aumento di reddito

generato nella fase precedente stimola un ulteriore incremento dei consumi:

𝑑𝑌2 → 𝑑𝐶 ↑ con 𝑑𝐶2 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌2 = 0,75 ∙ 225 = 168,75.

Si avrà quindi un ulteriore aumento della domanda aggregata (𝑑𝐷𝐴3) equivalente

all’incremento dei consumi, dal quale origina un nuovo incremento del reddito (𝑑𝑌3):

𝑑𝐷𝐴3 = 𝑑𝐶2 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌2 = 168,75 → 𝑑𝐷𝐴3 = 𝑑𝑌3 = 168,75.

Inoltre, sappiamo che:

𝑑𝑌2 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌1 = 𝑐 ∙ 𝑑𝐼.

Pertanto:

𝑑𝑌3 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌2 = 𝑐 ∙ 𝑐 ∙ 𝑑𝐼 = 𝑐2 ∙ 𝑑𝐼.

Quarta fase

Anche nella quarta fase l’aumento di reddito generato nella fase precedente stimola un

nuovo incremento dei consumi:

𝑑𝑌3 → 𝑑𝐶 ↑ con 𝑑𝐶3 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌3 = 0,75 ∙ 168,75 = 126.

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Di conseguenza, la domanda aggregata continua a crescere, determinando un ulteriore,

equivalente, aumento del livello del reddito:

𝑑𝐷𝐴4 = 𝑑𝐶3 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌3 = 126 → 𝑑𝐷𝐴4 = 𝑑𝑌4 = 126.

E poiché 𝑑𝑌3 = 𝑐2 ∙ 𝑑𝐼 si avrà:

𝑑𝑌4 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌3 = 𝑐 ∙ 𝑐2 ∙ 𝑑𝐼 = 𝑐3 ∙ 𝑑𝐼.

Il processo di variazione del reddito provocato da un iniziale incremento della spesa per

beni di investimento può essere suddiviso in un numero di 𝑛 fasi tendente all’infinito

(𝑛 → ∞). In ogni fase l’incremento di reddito è minore di quello osservato nella fase

precedente. Pertanto, l’aumento complessivo di reddito generato da un incremento

iniziale degli investimenti, e più in generale da un aumento di una componente

autonoma della domanda aggregata, può essere calcolato abbastanza agevolmente.

Infatti:

𝑑𝑌 = 𝑑𝑌1 + 𝑑𝑌2 + 𝑑𝑌3 +⋯⋯⋯+ 𝑑𝑌𝑛.

Ricordando che valgono le seguenti relazioni,

𝑑𝑌1 = 𝑑𝐼

𝑑𝑌2 = 𝑐 ∙ 𝑑𝐼

𝑑𝑌3 = 𝑐2 ∙ 𝑑𝐼

𝑑𝑌4 = 𝑐3 ∙ 𝑑𝐼

𝑑𝑌𝑛 = 𝑐𝑛−1 ∙ 𝑑𝐼

𝑑𝑌𝑛+1 = 𝑐𝑛 ∙ 𝑑𝐼,

si ottiene la seguente espressione:

𝑑𝑌 = 𝑑𝐼 + 𝑐 ∙ 𝑑𝐼 + 𝑐2 ∙ 𝑑𝐼 + 𝑐3 ∙ 𝑑𝐼 + ⋯⋯⋯+ 𝑐𝑛−1 ∙ 𝑑𝐼 + 𝑐𝑛 ∙ 𝑑𝐼.

E’ quindi possibile scrivere:

𝑑𝑌 = 𝑑𝐼 ∙ (1 + 𝑐 + 𝑐2 + 𝑐3 +⋯⋯⋯+ 𝑐𝑛−1 + 𝑐𝑛).

L’espressione tra parentesi rappresenta una progressione geometrica di ragione 𝑐 e

primo termine pari a 1. Di conseguenza:

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1 + 𝑐 + 𝑐2 + 𝑐3 +⋯⋯⋯+ 𝑐𝑛−1 + 𝑐𝑛 =1 − 𝑐𝑛

1 − 𝑐 con 0 < 𝑐 < 1.

Poiché per 𝑛 → ∞, 𝑐𝑛 → 0, si ottiene:

1 + 𝑐 + 𝑐2 + 𝑐3 +⋯⋯⋯+ 𝑐𝑛−1 + 𝑐𝑛 =1

1 − 𝑐 .

Con riferimento al nostro esempio numerico, quindi avremo:

𝑑𝑌 = 𝑑𝐼 ∙1

(1 − 𝑐)=

1

(1 − 𝑐)∙ 𝑑𝐼 = 4 ∙ 300 = 1.200.

L’espressione 1

(1−𝑐) è definita moltiplicatore del reddito.

Gli effetti di un aumento degli investimenti sono illustrati graficamente nella figura

38.

Figura 38 – Gli effetti di un aumento degli investimenti nel modello reddito-spesa

Come sappiamo, partendo dai valori:

𝐼0̅ = 0

𝐶0 = 200

𝑐 = 0,75,

si ottiene:

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𝑌0 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 + 𝐼0̅) = 4 ∙ 200 = 800.

Il valore 𝑌0 corrisponde al punto di intersezione tra la curva di domanda aggregata con

intercetta pari a (𝐶0 + 𝐼0̅) e la retta a 45°. L’incremento degli investimenti (𝑑𝐼 = 300)

determina lo spostamento verso l’alto della curva 𝐷𝐴, la cui nuova intercetta diventa

(𝐶0 + 𝐼1̅). L’inclinazione della curva 𝐷𝐴, invece, non subisce variazioni, perché la

propensione marginale al consumo è rimasta costante.

Il modello reddito-spesa è un modello statico, in cui la dimensione temporale non

viene presa in considerazione. Esso, infatti, descrive i risultati di una variazione del

volume degli investimenti, ma il tempo necessario affinché si producano gli effetti del

moltiplicatore del reddito non viene stabilito.

Possiamo tuttavia osservare che, in base al principio della domanda effettiva,

nell’esempio di cui sopra il multiplo del reddito pari a:

𝑑𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ 𝑑𝐼 = 4 ∙ 300 = 1.200,

assume un duplice significato, perché esso rappresenta sia l’incremento del valore dei

beni prodotti che l’aumento del reddito disponibile, ovvero l’aumento dei salari e dei

profitti. Se consideriamo la variazione di 𝑌 dal punto di vista della accresciuta

disponibilità di reddito, si può osservare che tale variazione può essere suddivisa tra

incremento dei consumi e incremento dei risparmi:

Con riferimento al nostro esempio numerico, il valore di questi incrementi è pari a:

𝑑𝐶 = 𝑐 ∙ 𝑑𝑌 = 0,75 ∙ 1.200 = 900, e

𝑑𝑆 = 𝑑𝑌 − 𝑑𝐶 = 1.200 − 900 = 300.

In maniera equivalente, avremmo potuto ricavare 𝑑𝑆 partendo dalla funzione dei

risparmi:

𝑆 = 𝑌 − 𝐶 = 𝑌 − (𝐶0 + 𝑐 ∙ 𝑌) = 𝑌 − 𝐶0 − 𝑐 ∙ 𝑌 = −𝐶0 + 𝑌 − 𝑐 ∙ 𝑌,

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da cui si ricava

𝑆 = −𝐶0 + (1 − 𝑐) ∙ 𝑌.

Ponendo 𝑠 = (1 − 𝑐), che indica la propensione marginale al risparmio, avremo:

𝑆 = −𝐶0 + 𝑠 ∙ 𝑌 con 𝑑𝑆

𝑑𝑌= 𝑠.

Pertanto, se 𝑐 = 0,75 → 𝑠 = (1 − 𝑐) = 1 − 0,75 = 0,25, e quindi:

𝑑𝑆 = 𝑠 ∙ 𝑑𝑌 = 0,25 ∙ 1.200 = 300.

Il risultato ottenuto è molto importante, sebbene a prima vista possa apparire

paradossale. Esso, infatti, mostra che un dato aumento degli investimenti (𝑑𝐼)

determina un incremento multiplo del reddito (𝑑𝑌), da cui scaturisce un incremento dei

risparmi (𝑑𝑆 = 𝑠𝑑𝑌) equivalente all’incremento iniziale degli investimenti (𝑑𝑆 = 𝑑𝐼).

La natura paradossale di questo risultato deriva dal fatto che esso porta a concludere che

sono gli investimenti a determinare i risparmi:

𝑑𝐼⏟300

→ 𝑑𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ 𝑑𝐼

⏟ 1.200

→ 𝑑𝑆⏟300

= 𝑑𝐼⏟300

, quindi 𝐼 → 𝑆.

Questa conclusione contrasta con il comune ‘buon senso’ che induce a ritenere che

siano i risparmi a determinare gli investimenti e non il contrario. Generalmente, le

deduzioni dettate dal buon senso si basano sui comportamenti di un singolo soggetto

economico. Se, per esempio, pensiamo al comportamento di una singola famiglia, vale

certamente la relazione causale in base alla quale sono i risparmi a determinare gli

investimenti:

𝑆 → 𝐼.

Consideriamo l’investimento di una famiglia consistente nell’acquisto di un bene

durevole come una abitazione. In questo caso, l’investimento non determina

l’ammontare dei risparmi. Infatti, è irrealistico ipotizzare che l’acquisto di una

abitazione per un valore pari a 100.000 euro possa provocare un incremento del reddito

della famiglia pari a 𝑛 volte il valore dell’investimento (per esempio 400.000 euro),

perché questa decisione di investimento non può influenzare il livello del reddito di una

singola famiglia.

La relazione causale tra decisioni di investimento e decisioni di risparmio coerente

con il principio della domanda effettiva vale se si considera un sistema economico nel

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suo complesso. In questo caso, quando una famiglia decide di acquistare una abitazione

del valore di 100.000 euro, le imprese risponderanno producendo una nuova casa. Di

conseguenza, verranno impiegati nuovi lavoratori (esiste disoccupazione involontaria)

che riceveranno un reddito che verrà speso per acquistare beni di consumo. Questa

sequenza di eventi produrrà un ulteriore incremento del reddito, in conformità allo

schema utilizzato per illustrare il meccanismo di funzionamento del moltiplicatore del

reddito.

L’acquisto di una nuova casa determina quindi la crescita dei redditi complessivi, ma

non di quelli della famiglia che investe in una abitazione. Questa analisi illustra

efficacemente la distinzione tra microeconomia e macroeconomia introdotta dopo la

pubblicazione della Teoria generale di Keynes.

Figura 39 – Gli effetti di una variazione degli investimenti nel modello neoclassico

La concezione keynesiana secondo cui a livello microeconomico vale una relazione

causale diversa da quella valida a livello macroeconomico, non è invece condivisa dagli

economisti neoclassici. Uno sguardo alla figura 39 (che riproduce la figura 28 già vista

nella prima parte del corso) ci ricorda che, secondo la teoria neoclassica, uno

spostamento della funzione degli investimenti non determina una variazione del reddito

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di equilibrio, e che la relazione causale tra risparmi e investimenti vale anche a livello

macroeconomico. In base alla legge di Say, infatti, il valore del reddito è determinato

dalle decisioni di produzione, che precedono le decisioni di consumo e di risparmio. A

loro volta, le decisioni di risparmio determinano le decisioni di investimento. Di

conseguenza, nel mondo descritto dagli economisti neoclassici il livello del reddito è del

tutto indipendente dal livello della domanda aggregata. Ciò significa che una variazione

delle decisioni di investimento non produce alcun effetto sui redditi percepiti dagli

agenti economici. A livello macroeconomico valgono quindi le stesse leggi che

governano la vita economica di una singola famiglia: l’acquisto di una casa, o

l’investimento produttivo di una impresa non determinano alcuna variazione di reddito.

Per maggiori dettagli su questo punto si veda GB, capitoli 5 e 7.

2.5. Gli effetti di una variazione della propensione marginale al consumo (il

paradosso del risparmio)

Il secondo fattore che incide sul livello della domanda aggregata è costituito dalla

propensione marginale al consumo (𝑐). Rammentando che vale

𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 + 𝐼)̅,

possiamo definire la seguente relazione tra la propensione marginale al consumo e il

livello del reddito:

𝑐 ↑ → (1 − 𝑐) = 𝑠 ↓ → 1

(1 − 𝑐) (moltiplicatore del reddito) ↑ → 𝑌 ↑.

Illustriamo questa relazione con un esempio basato sui seguenti valori numerici:

𝐶0 = 200

𝐼 ̅ = 300

𝑐1 = 0,75.

Dati questi valori, si ottiene:

𝑌1 =1

(1 − 𝑐1)∙ (𝐶0 + 𝐼)̅ =

1

(1 − 0,75)∙ (200 + 300) =

1

0,25∙ 500 = 4 ∙ 500 = 2.000.

Supponiamo ora che aumenti la propensione marginale al consumo:

𝑐2 = 0,80 > 𝑐1 = 0,75.

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In questo caso avremo:

𝑌2 =1

(1 − 𝑐2)∙ (𝐶0 + 𝐼)̅ =

1

(1 − 0,80)∙ (200 + 300) =

1

0,20∙ 500 = 5 ∙ 500 = 2.500 .

Gli effetti di questa variazione della propensione marginale al consumo sono

rappresentati sinteticamente nella figura 40.

Figura 40 – Gli effetti di un aumento della propensione marginale al consumo

nel modello reddito-spesa

Il punto 1 rappresenta il valore di equilibrio iniziale del reddito (𝑌1), cui corrisponde

una propensione marginale al consumo pari a 𝑐1 = 0,75. L’aumento del valore della

propensione marginale al consumo modifica le caratteristiche della funzione di

domanda aggregata. Infatti, mentre il valore dell’intercetta, che corrisponde alla

domanda autonoma (𝐶0 + 𝐼)̅, rimane costante, la variazione della propensione

marginale al consumo determina una variazione del coefficiente angolare della retta 𝐷𝐴.

In particolare, come si può osservare dalla figura 40, un incremento della propensione

marginale al consumo determina una sua rotazione in senso antiorario.

In conseguenza di tale rotazione, in corrispondenza di 𝑌1 si registra un eccesso di

domanda aggregata che determina un aumento della produzione, sino a quando il

reddito raggiunge il suo nuovo livello di equilibrio (𝑌2 = 2.500) indicato dal punto 2.

Gli effetti di una riduzione della propensione marginale al consumo sono del tutto

simmetrici rispetto a quelli prodotti da un aumento:

𝑐 ↓ → (1 − 𝑐) = 𝑠 ↑ → 1

(1 − 𝑐)↓ → 𝑌 ↓.

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Poiché 𝑐 + 𝑠 = 1, una variazione della propensione marginale al consumo implica

anche una modificazione della propensione marginale al risparmio:

se 𝑐 ↑ → 𝑠 = (1 − 𝑐).

Supponiamo che il valore di 𝑐 passi da 0,75 a 0,80, e che quindi quello di 𝑠 passi da

0,25 a 0,20. In altre parole, assumiamo che la propensione marginale al consumo

aumenti, mentre diminuisce quella al risparmio (si consuma di più e si risparmia di

meno). Come varia l’ammontare complessivo del risparmio della collettività (𝑆) al

variare della propensione marginale al risparmio (𝑠)? Poiché:

𝑆 = −𝐶0 + 𝑠 ∙ 𝑌,

per determinare gli effetti prodotti da una variazione della propensione marginale al

risparmio sul risparmio complessivo, è necessario verificare cosa succede al reddito

totale (𝑌) quando varia 𝑠. Se al variare di 𝑠 il reddito complessivo rimane costante,

allora una riduzione della propensione marginale al risparmio si traduce in una

riduzione del risparmio complessivo e viceversa.

In realtà, sappiamo che, per effetto del principio della domanda effettiva, nel modello

reddito-spesa una modificazione della propensione marginale al risparmio provoca una

variazione del livello del reddito. In particolare, una riduzione della propensione

marginale al risparmio (cui corrisponde un incremento della propensione marginale al

consumo) determina un incremento del reddito, mentre un aumento della propensione

marginale al risparmio (cui corrisponde una riduzione della propensione marginale al

consumo) produce un effetto opposto.

Si può dimostrare che una modificazione della propensione marginale al risparmio è

priva di effetti sul livello del risparmio complessivo. Questa conclusione emerge con

tutta evidenza, se si considera la condizione di equilibrio che caratterizza il mercato dei

beni. Come sappiamo, il mercato dei beni si trova in equilibrio quando:

𝐷𝐴 = 𝑌 o, in modo equivalente, se 𝑆 = 𝐼.

Pertanto, in equilibrio i risparmi complessivi (𝑆) devono uguagliare gli investimenti (𝐼).

Poiché il livello degli investimenti non dipende dalla propensione marginale al

risparmio, si deve concludere che una variazione della attitudine al risparmio delle

famiglie, lasciando invariato il volume degli investimenti, non provocherà alcuna

variazione dei risparmi complessivi.

In effetti, se 𝑠 scende da 0,25 a 0,20, il volume complessivo dei risparmi non cambia,

perché la riduzione della propensione marginale al risparmio provoca un incremento del

reddito che ne annulla gli effetti. Valgono, infatti, le seguenti relazioni:

𝑆1(𝑌1, 𝑠1 = 0,25) = −𝐶0 + 𝑠1 ∙ 𝑌1 = −200 + (0,25 ∙ 2.000) = −200 + 500 = 300 = 𝐼1̅ = 300, e

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𝑆2(𝑌2, 𝑠2 = 0,25) = −𝐶0 + 𝑠2 ∙ 𝑌2 = −200 + (0,20 ∙ 2.500) = −200 + 500 = 300 = 𝐼1̅ = 300.

In definitiva, il risparmio complessivo (𝑆) è indipendente dalla propensione marginale

al risparmio (𝑠). Questo risultato è noto come il paradosso del risparmio. La figura 41

ne propone una rappresentazione grafica.

Figura 41 – Il paradosso del risparmio

Nella figura 41 l’equilibrio sul mercato dei beni è rappresentato attraverso la

specificazione delle funzioni di risparmio e di investimento:

𝑆 = −𝐶0 + 𝑠 ∙ 𝑌, e

𝐼 = 𝐼(𝜑, 𝑟), con 𝑟 = �̅� → 𝐼 = 𝐼(𝜑, �̅�) → 𝐼(𝜑, �̅�) = 𝐼.̅

I valori dei risparmi (𝑆) e degli investimenti (𝐼) sono riportati sull’asse delle ordinate,

mentre quelli del reddito (𝑌) sono indicati sull’asse delle ascisse. Essendo autonomi dal

reddito, gli investimenti sono rappresentati mediante una retta parallela alle ascisse che

taglia le ordinate in corrispondenza di un valore esogenamente dato, che nel nostro

esempio numerico è pari a 300. L’altra retta raffigura la funzione dei risparmi, che ha

intercetta pari a −𝐶0 e un coefficiente angolare definito dal valore assunto dalla

propensione marginale al risparmio (𝑠). Il punto di intersezione tra le due curve

individua il livello del reddito di equilibrio. In particolare, il punto 1 corrisponde al

reddito di equilibrio coerente con 𝑠1 = 0,25. Se la propensione al consumo scende al

livello 𝑠2 = 0,20, la funzione dei risparmi subisce una rotazione in senso orario. Di

conseguenza, il sistema raggiunge un nuova posizione di equilibrio nel punto 2, cui

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corrisponde un più elevato livello del reddito (𝑌2). Tuttavia, il flusso complessivo dei

risparmi, pari a 300, è sempre uguale al valore della spesa per beni di investimento.

2.6. Il modello reddito-spesa con settore pubblico e gli effetti della politica fiscale

E’ possibile ampliare il modello reddito-spesa considerando esplicitamente il settore

pubblico. Quest’ultimo svolge una fondamentale funzione economica consistente nella

produzione di servizi essenziali, come quelli relativi all’istruzione, alla sanità, alla

giustizia e alla difesa. Di conseguenza, il settore pubblico esprime una domanda di

risorse necessarie alla realizzazione di questi servizi.

Per tenere conto della presenza del settore pubblico occorre riscrivere le equazioni

del modello reddito-spesa, partendo ancora una volta dalla condizione di equilibrio del

mercato dei beni:

1) 𝐷𝐴 = 𝑌.

Nel modello reddito-spesa ampliato dalla presenza del settore pubblico la composizione

della domanda aggregata si modifica, perché ai consumi (𝐶) e agli investimenti (𝐼) del

settore privato si aggiunge la spesa pubblica (�̅�), ovvero la domanda di risorse espressa

dal settore pubblico:

2) 𝐷𝐴 = 𝐶 + 𝐼 + �̅�.

Si noti che �̅� è una grandezza esogena, che dipende dalle autonome determinazioni del

settore pubblico.

Anche la funzione dei consumi privati subisce una modifica legata alla presenza del

settore pubblico. Come in precedenza, i consumi privati sono una funzione lineare del

reddito disponibile delle famiglie. Tuttavia, in presenza del settore pubblico il reddito

disponibile si riduce, perché al reddito complessivo (𝑌) occorre sottrarre il valore delle

imposte (�̅�) utilizzate dal governo per finanziare la propria spesa.

3) 𝐶 = 𝐶0 = +𝑐 ∙ (𝑌 − �̅�).

Per semplicità, ipotizziamo che anche il livello delle imposte sia determinato

esogenamente dalle autorità di governo (𝑇 = �̅�).

Nel modello reddito-spesa ampliato dalla presenza del settore pubblico le equazioni che

specificano la funzione degli investimenti e il livello del tasso di interesse restano

invece invariate. Pertanto, valgono le seguenti relazioni:

4) 𝐼 = 𝐼(𝜑, 𝑟), e

5) 𝑟 = �̅�.

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Per ricavare l’espressione del reddito di equilibrio da questo sistema di cinque

equazioni in cinque incognite (𝐷𝐴, 𝑌, 𝐶, 𝐼, e 𝑟), come in precedenza partiamo dal

valore assunto dal tasso di interesse (𝑟 = �̅�). Dato �̅�, l’equazione 4) consente di definire

il livello degli investimenti:

𝑟 = �̅� → 𝐼 = 𝐼(𝜑, 𝑟) → 𝐼(𝜑, �̅�) = 𝐼.̅

Sostituendo le equazioni 3) e 4) nella 2) si ottiene:

𝐷𝐴 = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅� + 𝑐 ∙ 𝑌,

in cui

(𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅�) rappresenta la componente autonoma dal reddito della domanda

aggregata, mentre

𝑐 ∙ 𝑌 rappresenta invece la cosiddetta domanda indotta, ovvero la componente della

domanda aggregata che è funzione delle variazioni del livello del reddito.

Infine, sostituendo l’equazione 2) nella 1) si ricava il valore di equilibrio del reddito:

𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅� + 𝑐 ∙ 𝑌 = 𝑌.

𝑌 − 𝑐 ∙ 𝑌 = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅�,

𝑌 ∙ (1 − 𝑐) = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅�,

e quindi

𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅�).

Possiamo definire il livello di equilibrio del reddito attraverso un semplice esempio

numerico, ipotizzando che:

𝑐 = 0,75, e

(𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅�) = 500.

In questo caso:

𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅�) → 𝑌 =

1

0,25∙ 500 = 4 ∙ 500 = 2.000 .

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Il modello reddito-spesa ampliato dalla presenza del settore pubblico permette di

analizzare gli effetti prodotti sul reddito di equilibrio da una variazione del livello della

spesa pubblica o da una variazione dell’imposizione fiscale. In altre parole, a seconda

del segno delle variazioni decise dal governo in merito ai valori da attribuire a �̅� e �̅�,

esso consente di misurare gli effetti di una politica fiscale espansiva o restrittiva.

Consideriamo, in primo luogo, le conseguenze indotte da una variazione del livello

della spesa pubblica, e in particolare da una manovra fiscale espansiva:

𝑑�̅� > 0 → 𝑑𝑌 ? → 𝑑𝑌 > 0.

Supponiamo che sia 𝑑𝐺 = 100 (la spesa pubblica aumenta di 100 unità). Possiamo

calcolare l’impatto di questo aumento della spesa pubblica sul livello del reddito di

equilibrio partendo dal valore della derivata prima del reddito rispetto a �̅�:

𝑑𝑌

𝑑(𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅�)=𝑑𝑌

𝑑�̅�=

1

(1 − 𝑐)=

1

(1 − 0,75)=

1

0,25= 4.

Pertanto avremo:

𝑑𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ 𝑑�̅� = 4 ∙ 100 = 400,

𝑌1 = 𝑌0 + 𝑑𝑌 = 2.000 + 400 = 2.400 .

Figura 42 – Gli effetti di un aumento della spesa pubblica nel modello reddito-spesa

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Gli effetti della variazione della spesa pubblica sono illustrati nella figura 42. Il

punto 0 indica il valore di equilibrio iniziale (𝑌0). La variazione della spesa pubblica

𝑑�̅� = 100) determina un incremento della domanda autonoma, il cui livello passa da

𝐴0 = (𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅�) = 500 a 𝐴1 = (𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅�) = 600. Il valore

dell’intercetta della retta che rappresenta la domanda aggregata si sposta verso l’alto, e

il sistema raggiunge una nuova posizione di equilibrio indicata dal punto 1, in cui

𝑌1 = 2.400.

Infine, prendiamo in considerazione gli effetti prodotti da una variazione

dell’imposizione fiscale (�̅�) sul livello del reddito di equilibrio. Ipotizziamo, in

particolare, che il governo intenda attuare una manovra fiscale restrittiva basata su un

aumento della tassazione:

𝑑�̅� > 0 → 𝑑𝑌 ? → (𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼 ̅ + �̅�) ↓ → 𝑌 ↓.

Pertanto, un aumento di �̅� determina una contrazione del reddito di equilibrio, mentre

una riduzione di �̅� determina l’effetto contrario.

Le determinazioni di politica fiscale del governo si riflettono sul saldo del bilancio

pubblico, dato dalla differenza tra spesa pubblica e imposte (𝐺 − 𝑇). In particolare, si

avrà un disavanzo del settore pubblico, ovvero un deficit pubblico, se il livello della

spesa pubblica eccede quello delle imposte (𝐺 > 𝑇 → (𝐺 − 𝑇) > 0). Generalmente,

il disavanzo, o l’avanzo, di bilancio vengono ‘pesati’ in rapporto al livello del reddito:

Disavanzo/Avanzo pubblico

PIL=(𝐺 − 𝑇)

𝑌.

In conclusione, osserviamo che il modello reddito-spesa descritto in questo paragrafo

costituisce soltanto una rappresentazione parziale del sistema economico, perché in

esso: i) le modalità di determinazione del tasso di interesse (𝑟) non vengono spiegate.

Le equazioni del modello si limitano infatti a indicare che, in una economia monetaria,

il tasso di interesse è indipendente dalle decisioni di risparmio, e che esso corrisponde al

prezzo della moneta; ii) non vengono presi in considerazione gli scambi con l’estero (si

tratta di un modello riferito esclusivamente alla realtà di una economia chiusa); iii) i

prezzi sono dati, ovvero costanti (𝑊 = �̅�, 𝑃 = �̅�, �̅� �̅�⁄ = 𝑊 𝑃⁄ 𝐸 ).

3. La teoria keynesiana del tasso di interesse

3.1. Introduzione

La teoria neoclassica, che, come abbiamo visto nella prima parte del corso, considera il

tasso di interesse come il premio per l’astensione dal consumo, o, equivalentemente,

come la remunerazione del risparmio, vale in una economia grano in cui i mercati dei

beni e quelli dei capitali e del credito coincidono.

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Secondo Keynes, invece, in una economia basata sull’uso di moneta di origine

bancaria, l’offerta di credito è del tutto indipendente dalle decisioni di risparmio. Le

banche, infatti, possono offrire credito creando moneta che verrà utilizzata dagli

imprenditori per realizzare i loro progetti di investimento. In altre parole, in una

economia monetaria vale la sequenza:

Denaro (D) → Merce (M) → Denaro (Dʼ).

Pertanto, nel mondo descritto da Keynes, il tasso di interesse rappresenta il prezzo

della moneta e non quello del risparmio, e il suo valore non è determinato sul mercato

dei beni, come sostiene la teoria neoclassica, bensì sul mercato della moneta. Per poter

determinare il livello del tasso di interesse è quindi necessario descrivere le

caratteristiche del mercato della moneta specificate da Keynes nella Teoria generale, e

in particolare quelle delle funzioni di domanda e di offerta di moneta.

3.2. La funzione di domanda di moneta

Per illustrare le caratteristiche della funzione di domanda di moneta è necessario

ricordare le funzioni che esercita la moneta. Generalmente, alla moneta vengono

attribuite le seguenti tre funzioni: i) quella di mezzo di scambio, che come abbiamo

visto è al centro dell’analisi condotta dagli economisti neoclassici; ii) quella di unità di

conto, perché la moneta è la grandezza nella quale vengono espressi i prezzi di tutti i

beni; iii) quella di fondo di valore, perché la moneta è uno strumento che permette di

conservare il potere d’acquisto nel tempo. La funzione di fondo di valore può essere

svolta non solo dalla moneta, ma anche da tutte le attività patrimoniali possedute dagli

agenti economici sotto forma di titoli di credito come le obbligazioni, di titoli di

proprietà come le azioni, e di beni durevoli come i terreni, le abitazioni e gli oggetti

preziosi. Come sappiamo, l’insieme di queste attività costituisce la ricchezza di un

individuo. Tuttavia, nell’ambito dell’insieme di attività patrimoniali possedute da un

individuo, la moneta rappresenta la componente più liquida, quella cioè più

immediatamente spendibile in cambio di beni e servizi.

E’ importante non confondere reddito e ricchezza. Il reddito, infatti, è una grandezza

flusso che fa riferimento a un determinato intervallo di tempo (un mese, un semestre, un

anno). La ricchezza, invece, è una grandezza stock composta da un insieme di attività

patrimoniali (beni reali durevoli, moneta e attività finanziarie) posseduto da un

individuo in un determinato istante di tempo, cui viene riferita anche la misurazione del

suo valore.

Il reddito e la ricchezza di un agente economico sono legati da una significativa

relazione illustrata nella figura 43.

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Figura 43 – La relazione tra reddito e ricchezza

Come si può notare, nella figura 43 viene presa in considerazione una successione di

periodi temporali (𝑡1, 𝑡2 e 𝑡3). Il simbolo 𝑊0 indica il valore della ricchezza al tempo 0.

𝑌1, invece, rappresenta il reddito realizzato nel periodo 𝑡1. Questo reddito verrà in parte

consumato (𝐶1) e in parte risparmiato (𝑆1). La parte risparmiata si aggiunge alla

ricchezza iniziale posseduta al tempo 0. Pertanto, la ricchezza disponibile al tempo 1

sarà pari a:

𝑊1 = 𝑊0 + 𝑆1.

Analogamente, avremo che:

𝑊2 = 𝑊1 + 𝑆2.

L’analisi della figura 43 mette in evidenza come in ogni intervallo di tempo gli

agenti economici debbano prendere due decisioni. In primo luogo, essi devono decidere

quanta parte del loro reddito consumare e quanta parte di esso risparmiare:

In secondo luogo, essi devono scegliere la composizione della loro ricchezza. Essi, cioè,

devono scegliere quanta parte della loro ricchezza tenere sotto forma di moneta, e

quanta parte di essa invece investire in attività patrimoniali diverse dalla moneta:

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Il concetto di domanda di moneta può essere specificato considerando questa

seconda scelta di un individuo, relativa alla composizione della sua ricchezza. Per un

singolo soggetto economico domandare moneta significa decidere di impiegare parte

della propria ricchezza in moneta. La funzione di domanda di moneta specifica i fattori

che spingono un individuo, e l’insieme degli individui, a domandare moneta. In

particolare, la domanda di moneta (𝑀𝑑) è funzione dei seguenti tre fattori.

1. La ricchezza, che rappresenta il vincolo di bilancio del possessore di ricchezza.

Quanto maggiore la ricchezza, tanto più alto il valore della quantità di moneta detenuta:

𝑊 ↑ → 𝑀𝑑 ↑.

2. Il livello del reddito (𝑌). La relazione tra il livello del reddito e la domanda di

moneta si spiega con la funzione di mezzo di pagamento svolto dalla moneta. Un

individuo domanda moneta, perché questa gli è necessaria per poter acquistare i beni

che desidera consumare. E’ quindi del tutto ragionevole assumere che al crescere del

livello del reddito cresca anche la quantità di moneta domandata:

𝑌 ↑ → 𝑀𝑑 ↑.

3. Il tasso di rendimento delle attività patrimoniali alternative alla moneta. Per

individuare questo tasso di rendimento, nella Teoria generale Keynes ha assunto

l’esistenza di una unica attività alternativa alla moneta consistente nelle obbligazioni a

lungo termine aventi un rendimento pari a 𝑟, che corrisponde al tasso di interesse annuo.

Nello schema di Keynes, il rendimento della moneta è invece da considerarsi nullo.

Pertanto, a parità di livello del reddito (𝑌) e di ricchezza (𝑊), la domanda dipende dal

tasso di rendimento dei titoli a lungo termine (𝑟). Il tasso di interesse 𝑟 coincide con il

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costo opportunità della moneta, poiché rappresenta il rendimento cui un soggetto

rinuncia per mantenere la propria ricchezza nella forma più liquida possibile. In altri

termini, per Keynes, il tasso di interesse lungi dall’essere il premio per l’astensione dal

consumo, rappresenta invece il premio che deve essere pagato per indurre un possessore

di ricchezza a rinunciare a una parte o a tutta la quota più liquida del suo portafoglio.

Tanto più alto è il tasso di interesse, tanto più costoso diventa il tesoreggiamento di

moneta. Di conseguenza, si può ipotizzare che esista una relazione inversa tra il tasso di

interesse e la domanda di moneta:

𝑟 ↑ → 𝑀𝑑 ↓.

In definitiva, la funzione di domanda di moneta di un singolo agente economico può

essere specificata nel modo seguente:

𝑀𝑑 = 𝑓(𝑊, 𝑌, 𝑟) con 𝑑𝑀𝑑𝑑𝑊

> 0, 𝑑𝑀𝑑𝑑𝑌

> 0 e 𝑑𝑀𝑑𝑑𝑟

< 0.

Partendo dalle funzioni di domanda individuali, è possibile costruire la funzione di

domanda di moneta aggregata. A tal fine, è necessario prendere in considerazione il

valore aggregato della ricchezza e il valore del reddito complessivo generato

nell’ambito del sistema economico.

𝑀𝑑 = 𝑓(𝑊, 𝑌𝑁 , 𝑟), con

𝑊 (ricchezza aggregata), 𝑌𝑁 = 𝑃 ∙ 𝑌 (reddito nominale), e 𝑌 (reddito reale).

In genere, a livello aggregato la ricchezza viene trascurata, perché si fa riferimento a

una prospettiva di breve periodo, ovvero a un singolo periodo di tempo in cui la

ricchezza può essere considerata costante. Vale quindi la seguente relazione:

𝑀𝑑 = 𝑓(𝑌𝑁 , 𝑟) = 𝑓(𝑃 ∙ 𝑌, 𝑟).

La funzione di domanda di moneta può essere formulata anche in termini reali,

ovvero in base al potere d’acquisto di una determinata quantità di moneta. Essa, quindi,

è pari al rapporto tra la quantità di moneta (𝑀) e il livello dei prezzi (𝑃). Se, ad

esempio, fosse:

𝑀0 = 100

𝑃0 = 1,

si avrebbe:

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122

𝑀0𝑃1=100

1= 100.

Se, invece, fosse 𝑃2 = 2, la quantità reale di moneta sarebbe pari a:

𝑀0𝑃2=100

2= 50.

Formalmente, la funzione di domanda di moneta in termini reali si ottiene dividendo

la quantità di moneta e il reddito nominale per il livello dei prezzi:

𝑀𝑑𝑃= 𝑓 (

𝑃 ∙ 𝑌

𝑃, 𝑟) →

𝑀𝑑𝑃= 𝑓(𝑌, 𝑟).

Da questa espressione si evince che la domanda di moneta in termini reali dipende da

due fattori, il reddito reale (𝑌) e il tasso di interesse sui titoli a lungo termine (𝑟).

Generalmente, nei manuali, la funzione di domanda di moneta è definita in termini reali.

E’ quindi possibile distinguere due componenti della domanda di moneta in termini

reali:

una prima componente che dipende dal livello del reddito reale, e che rappresenta la

quantità di moneta necessaria a finanziare le transazioni (la domanda transazionale

di moneta)

𝑀𝑇𝑅 =𝑀𝑑𝑃𝑇(𝑌), e

una seconda componente che è invece funzione del tasso di interesse (la domanda

speculativa di moneta)

𝑀𝑆𝑃 =𝑀𝑑𝑃𝑆(𝑟).

E’ possibile specificare una versione lineare della funzione di domanda di moneta in

termini reali:

𝑀𝑑

𝑃= 𝑓(𝑌, 𝑟) →

𝑀𝑑

𝑃= 𝑀𝑇𝑅 +𝑀𝑆𝑃 →

𝑀𝑑

𝑃=𝑀𝑑

𝑃𝑇(𝑌)⏟ (+)

+𝑀𝑑

𝑃𝑆(𝑟)⏟ (−)

.

La domanda transazionale di moneta è una funzione crescente (+) del livello del

reddito reale, mentre la domanda speculativa di moneta è una funzione decrescente (−)

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123

del tasso di interesse (per una descrizione del fenomeno della speculazione secondo

Keynes si veda GB, capitolo 6, paragrafo 2).

La funzione di domanda di moneta è riportata nella figura 44.

Figura 44 – La funzione di domanda di moneta keynesiana

Il valore del tasso di interesse è indicato sull’asse delle ordinate, mentre su quello delle

ascisse viene mostrato il valore della quantità reale di moneta domandata. Per definire la

prima componente della domanda di moneta reale è necessario specificare il livello del

reddito reale. Se il reddito reale è pari a 𝑌0 si avrà:

𝑀𝑑𝑃𝑇(𝑌) =

𝑀𝑑𝑃𝑇(𝑌0).

Questa grandezza è indipendente dal livello del tasso di interesse (𝑟), e può quindi

essere rappresentata mediante una retta parallela all’asse delle ordinate.

La seconda componente, che corrisponde alla domanda speculativa di moneta, varia

inversamente rispetto al tasso di interesse. Si può assumere che esista un valore del

tasso di interesse, pari a 𝑟∗, in corrispondenza del quale la domanda speculativa di

moneta è nulla:

𝑟 = 𝑟∗ → 𝑀𝑑𝑃𝑆(𝑟∗) = 0.

Poiché la domanda speculativa di moneta cresce al diminuire del tasso di interesse,

questa seconda componente è rappresentata dalla curva decrescente che parte dal punto

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124

0 corrispondente a 𝑟∗. La somma delle due componenti indicate nella figura 44 dà

luogo alla curva di domanda di moneta in termini reali.

Per costruzione, la posizione della curva di domanda di moneta si modifica in

funzione del valore assunto dal reddito reale (𝑌). Infatti, una variazione del reddito

reale influenza la quantità di moneta domandata a scopi di transazione. Pertanto, un

aumento del reddito determina un incremento della domanda transazionale di moneta

che, data la componente speculativa della domanda di moneta, determina un incremento

della domanda complessiva, che si traduce in uno spostamento verso destra della curva

di domanda di moneta. Simmetricamente, nel caso di una diminuzione del livello del

reddito reale, la curva di domanda aggregata di moneta si sposta verso sinistra.

La figura 45 contiene una rappresentazione grafica degli effetti prodotti da un

aumento del livello del reddito reale (da 𝑌0 a 𝑌1 > 𝑌0).

Figura 45 - Lo spostamento della domanda di moneta keynesiana

per effetto di un aumento del livello del reddito

3.3. La funzione di offerta di moneta

La funzione di offerta di moneta descrive il processo di creazione della quantità di

moneta. Ricordiamo che la quantità di moneta in circolazione (𝑀) può essere

considerata sotto due differenti punti di vista. Da un lato, infatti, essa corrisponde alla

moneta creata dalla banca centrale, ovvero dalle autorità monetarie (offerta di moneta).

Dall’altro, essa invece corrisponde alla quantità di moneta posseduta dai diversi soggetti

economici (domanda di moneta).

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125

La banca centrale crea moneta attraverso una serie di operazioni che verranno

descritte più avanti. Per il momento, possiamo considerare la quantità di moneta in

circolazione (offerta di moneta), come una grandezza esogena determinata dalle autorità

monetarie. Pertanto, definiamo la seguente funzione di offerta di moneta:

𝑀𝑠 = �̅�.

Per giungere alla formulazione dell’offerta di moneta in termini reali dobbiamo

specificare il livello generale dei prezzi. Supponiamo, in particolare, che il livello dei

prezzi sia dato (𝑃 = �̅�). Di conseguenza, otteniamo la seguente funzione di offerta di

moneta in termini reali:

𝑀𝑠𝑃=�̅�

�̅� .

Figura 46 – La funzione di offerta di moneta in termini reali

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126

Questa funzione trova rappresentazione grafica nella retta parallela all’asse delle

ordinate contenuta nella figura 46.

3.4. L’equilibrio sul mercato della moneta keynesiano

Assumendo che il livello generale dei prezzi sia dato (𝑃 = �̅�), e che il livello del

reddito sia pari a quello che corrisponde all’equilibrio sul mercato dei beni (𝑌0), il

mercato della moneta descritto da Keynes nella Teoria generale può essere

rappresentato attraverso il seguente sistema di tre equazioni in tre incognite

(𝑀𝑑

�̅�,𝑀𝑠

�̅� e 𝑟):

1) 𝑀𝑑

�̅�= 𝑓(𝑌0, 𝑟) (domanda di moneta in termini reali)

2) 𝑀𝑠

�̅�=�̅�

�̅� (offerta di moneta in termini reali)

3) 𝑀𝑑

�̅�=�̅�

�̅� .

Sostituendo le equazioni 1) e 2) nella 3) si ottiene:

𝑓(𝑌0, 𝑟) =�̅�

�̅� .

Si tratta di una equazione in una sola incognita (𝑟), che definisce il valore del tasso di

interesse che mette in equilibrio il mercato della moneta. In altri termini, questa

equazione individua il valore del tasso di interesse in corrispondenza del quale il

pubblico è soddisfatto di possedere (domanda di moneta) esattamente la quantità di

moneta creata dalla banca centrale (offerta di moneta). Indichiamo questo valore con il

simbolo 𝑟0.

Dati 𝑌0 e �̅�, la figura 47 illustra graficamente l’equilibrio sul mercato della moneta.

Come si può notare, il valore di equilibrio del tasso di interesse (𝑟0) è individuato in

corrispondenza della intersezione tra le curve di domanda e di offerta di moneta in

termini reali:

𝑟 = 𝑟0 → 𝑀𝑑

�̅�= 𝑓(𝑌0, 𝑟0) =

�̅�0

�̅� .

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127

Figura 47 – L’equilibrio sul mercato della moneta

Supponiamo, a titolo di esempio, che le autorità monetarie abbiano creato una

quantità di moneta pari a 400 (�̅�0 = 400). Inoltre, poniamo il livello dei prezzi pari a 1

(�̅� = 1). Pertanto, l’offerta reale di moneta ammonta a:

𝑀𝑠

�̅�=�̅�0

�̅�= 400.

In questo caso, in corrispondenza del tasso di interesse di equilibrio (𝑟0) gli agenti

economici esprimono una domanda pari a 400 unità di moneta.

In realtà, in corrispondenza del tasso di interesse di equilibrio (𝑟0) non si realizza

soltanto l’equilibrio sul mercato della moneta, ma anche quello relativo al mercato dei

titoli. Abbiamo infatti ipotizzato che la ricchezza (𝑊) fosse impiegabile soltanto in due

modi, ovvero in titoli o in moneta. Di conseguenza:

𝑊 = 𝑀 + 𝐵,

con 𝑀 uguale alla quantità di moneta e 𝐵 uguale alla quantità di titoli.

Ciò significa che, dato il valore della ricchezza, la decisione di accumulare uno stock di

moneta equivalente a 𝑀𝑑(𝑌0, 𝑟0), implica la scelta di accumulare uno stock di titoli pari

a 𝑊 −𝑀𝑑(𝑌0, 𝑟0). Dato lo stock di ricchezza delle famiglie, la curva di domanda di

moneta consente quindi di esprimere anche la domanda di titoli. Questa conclusione è

descritta nella figura 48, in cui sull’asse delle ascisse viene riportato anche il valore

assunto dalla ricchezza dell’insieme degli agenti economici (𝑊 = �̅� = 1.000). La

curva di domanda di moneta esprime quindi sia la domanda di moneta che la domanda

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128

di titoli. In corrispondenza di 𝑟 = 𝑟0, la domanda di moneta è pari a 400, mentre la

domanda di titoli, che si legge per differenza, considerando l’intersezione tra la retta

verticale indicante il valore della ricchezza complessiva e l’asse delle ascisse, è pari a

600.

Figura 48 – L’equilibrio sul mercato della moneta e sul mercato dei titoli

(una esemplificazione)

�̅�

�̅�=𝑀𝑑

�̅�+𝐵𝑑

�̅� →

𝐵𝑑

�̅�=�̅�

�̅�−𝑀𝑑

�̅�, e se

𝑌 = 𝑌0 e 𝑟 = 𝑟0 → 𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0) = 400 →

𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0) =

�̅�

�̅�−𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0) = 1.000 − 400 = 600.

Sino ad ora abbiamo specificato la domanda di titoli, ma per completare la

descrizione del mercato dei titoli è necessario definire anche la funzione di offerta di

titoli, ovvero l’ammontare di titoli in circolazione nel sistema. A tal fine, consideriamo

il significato del concetto di ricchezza (𝑊). Come sappiamo, la ricchezza rappresenta

l’insieme delle attività patrimoniali (moneta, titoli di credito, azioni e beni durevoli)

posseduto dal pubblico. A scopi di semplificazione abbiamo ipotizzato che la ricchezza

sia costituita soltanto da due componenti, la moneta e i titoli. Quindi, se il valore della

ricchezza è pari a 1.000 e il valore dello stock di moneta è pari a 400, il valore dello

stock di titoli deve essere necessariamente pari a 600. Infatti:

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129

𝑊 = �̅� = 1.000 = Moneta + Titoli.

A fronte della ricchezza detenuta sotto forma di attività finanziarie come i titoli di

credito vi sono dei debitori:

Titoli di credito = debiti/debitori → 𝑊 = �̅� = Debiti = 1.000 .

I debitori coincidono con: i) la banca centrale che ha emesso moneta; ii) le imprese e il

settore pubblico che hanno emesso i titoli.

I debiti equivalgono alla ricchezza complessiva degli agenti economici, poiché un

ammontare di essi pari a 400 corrisponde allo stock di moneta, mentre la quota restante,

pari a 600, è uguale all’ammontare dei titoli di credito. Pertanto, avremo:

𝐵𝑠

�̅�= 600 (offerta di titoli).

Possiamo quindi concludere che in corrispondenza del punto 0, individuato dalle

coordinate (𝑌0, 𝑟0) (figura 48) sia il mercato della moneta che il mercato dei titoli di

credito sono in equilibrio:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0) =

�̅�0

�̅�= 400, e

𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0) =

𝐵𝑠

�̅�= 600.

3.4. La natura monetaria del tasso di interesse

Finora abbiamo mostrato che esiste un valore del tasso di interesse in corrispondenza

del quale il mercato della moneta è in equilibrio. Secondo Keynes, il tasso di interesse

assume sempre questo valore di equilibrio, perché esso rappresenta il prezzo della

moneta, ovvero il prezzo che assicura l’uguaglianza tra la domanda e l’offerta di

moneta.

Per meglio illustrare questa tesi, consideriamo le conseguenze di uno squilibrio sul

mercato della moneta. Ipotizziamo, quindi, che sia:

𝑟 = 𝑟1 > 𝑟0.

In questo caso, come mostra la figura 49, si registrerà uno squilibrio sia sul mercato

della moneta che sul mercato dei titoli.

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130

Figura 49 – L’eccesso di offerta di moneta

Sul mercato della moneta si manifesta una situazione di eccesso dell’offerta rispetto

alla domanda. Infatti:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0,𝑟1)⏟ 300

<𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0⏟

)

400

=�̅�

�̅�⏟400

→ 𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1) <

�̅�

�̅� .

Corrispondentemente, sul mercato dei titoli si registra un eccesso di domanda di titoli:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1)⏟ 700

=�̅�

�̅�⏟1.000

−𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1)⏟ 300

>𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 600

=𝐵𝑠

�̅�⏟600

.

Il pubblico desidera scambiare moneta (riducendone la quantità posseduta da 400 a 300

unità) contro titoli (aumentandone l’ammontare detenuto da 600 a 700 unità). In altri

termini, in corrispondenza di un livello del tasso di interesse pari a 𝑟1 il pubblico

domanderà titoli offrendo in cambio una parte della moneta in suo possesso. Di

conseguenza, sul mercato dei titoli si determina una situazione caratterizzata da un

eccesso di domanda rispetto all’offerta che si traduce in una pressione al rialzo del

prezzo dei titoli:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1)⏟ 700

>𝐵𝑠

�̅�⏟600

→ 𝑃𝐵 ↑.

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131

Per definire le conseguenze dell’aumento del prezzo dei titoli ricordiamo le

caratteristiche di un titolo di credito. Un titolo di credito attribuisce al suo possessore il

diritto di ricevere determinate somme di denaro nel futuro. Pertanto, il prezzo di un

titolo di credito corrisponde al valore attuale delle somme future che esso permette di

incassare.

Supponiamo che al tempo zero siano stati emessi titoli alternativi alla moneta per un

valore nominale pari a 100, con la promessa di corrispondere un interesse 𝑟0 uguale al

10% per un periodo di 𝑛 anni. Pertanto, chi acquista il titolo cede una quantità di

moneta pari a 100 in cambio del diritto di ricevere una somma in conto interessi uguale

a 10 unità di moneta per ciascuno degli 𝑛 anni della sua durata e il rimborso del suo

valore nominale alla scadenza di tale periodo di tempo. Il flusso degli incassi futuri

associati all’acquisto di un titolo di credito è illustrato nella figura 50.

Figura 50 – I flussi di moneta associati all’acquisto di un titolo di credito

Chi acquista questi titoli non è obbligato a tenerli in portafoglio fino alla loro

scadenza. In ogni momento, infatti, i titoli obbligazionari possono essere scambiati

contro moneta sui mercati finanziari a un prezzo 𝑃𝐵 che riflette le forze della domanda e

dell’offerta, e che rappresenta il valore attuale delle somme future che rimangono da

incassare. Supponiamo, per semplicità di calcolo del valore attuale, di essere al tempo

𝑛 − 1. Ipotizziamo, cioè, che gli scambi sul mercato finanziario avvengano a un anno

dalla scadenza del titolo. Il prezzo del titolo al tempo 𝑛 − 1 (𝑃𝐵(𝑛−1)) rappresenta

quindi il valore attuale della somma che il possesso del titolo consentirà di ricevere

dopo un anno di tempo:

Indicando con il simbolo 𝑟 il tasso di interesse corrente, ovvero il livello del tasso di

interesse al tempo 𝑛 − 1, varrà la seguente relazione:

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132

𝑃𝐵(𝑛−1) + 𝑟 ∙ 𝑃𝐵(𝑛−1) = 110 → 𝑃𝐵(𝑛−1) =110

(1 + 𝑟) .

Questa espressione definisce una relazione inversa tra il prezzo di mercato di un

titolo obbligazionario (𝑃𝐵) e il tasso di interesse corrente (𝑟):

(1 + 𝑟) =110

𝑃𝐵 → 𝑟 =

110

𝑃𝐵− 1.

In particolare:

se 𝑃𝐵(1) = 100 → 𝑟1 =110

100− 1 = 10%, e

se 𝑃𝐵(2) = 105 → 𝑟2 =110

105− 1 = 4,8%.

In corrispondenza del tasso di interesse 𝑟1, si registrano un eccesso di offerta di moneta

e un eccesso di domanda di titoli che provocano un incremento del prezzo dei titoli, e

quindi una caduta del tasso di interesse:

𝑟1 → eccesso di offerta di moneta ed eccesso di domanda di titoli → 𝑃𝐵 ↑ → 𝑟 ↓.

La caduta del tasso di interesse consente quindi di eliminare gli squilibri sui due

mercati. Da un lato, infatti, tale caduta determina un aumento della domanda di moneta,

mentre, dall’altro, essa provoca una riduzione della domanda di titoli:

La figura 51 illustra il caso simmetrico in cui il tasso di interesse corrente è inferiore

al livello che assicura l’equilibrio tra le quantità di moneta offerte e domandate (𝑟2 <

𝑟0). In questa situazione si avrà un eccesso di domanda di moneta cui corrisponde un

eccesso di offerta di titoli che si traduce in una pressione al rialzo del tasso di interesse.

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133

Figura 51 – L’eccesso di domanda di moneta

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0,𝑟2)⏟ 500

>𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0⏟

)

400

=�̅�

�̅�⏟400

→ 𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟2) >

�̅�

�̅� , e

𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟2)⏟ 500

=�̅�

�̅�⏟1.000

−𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟2)⏟ 500

<𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 600

=𝐵𝑠

�̅�⏟600

.

Il pubblico cerca di aumentare la quantità di moneta posseduta attraverso la cessione di

titoli. Di conseguenza, sul mercato dei titoli si registra un eccesso di offerta di titoli che

provoca una riduzione del prezzo dei titoli, e quindi un aumento del tasso di interesse

𝑟2 → eccesso di domanda di moneta ed eccesso di offerta di titoli → 𝑃𝐵 ↓ → 𝑟 ↑.

Pertanto:

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134

Nel mondo descritto da Keynes, dunque, il tasso di interesse è la variabile che assicura

l’equilibrio tra la domanda e l’offerta di moneta.

3.6. Gli effetti delle variazioni del reddito e della quantità di moneta sull’equilibrio

del mercato della moneta

L’equilibrio sul mercato della moneta può modificarsi per effetto di spostamenti della

funzione di offerta di moneta oppure della funzione di domanda di moneta. Come

abbiamo visto, dato il valore del reddito, la funzione di domanda di moneta specifica la

relazione tra il tasso di interesse e la quantità di moneta domandata dagli agenti

economici. Una variazione del reddito modifica la domanda di moneta che serve a

finanziare le transazioni, provocando quindi uno spostamento della curva di domanda di

moneta. La figura 52 contiene la rappresentazione grafica della situazione di equilibrio

sul mercato della moneta in corrispondenza di un valore del reddito pari a 𝑌0.

Figura 52 - L’effetto di un aumento del livello del reddito

sull’equilibrio del mercato della moneta (1).

Se 𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0⏟

)

400

=�̅�0

�̅�⏟400

allora 𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 600

=𝐵𝑠

�̅�⏟600

.

Come sappiamo, la posizione di 𝑀𝑑

�̅� dipende dal valore assunto da 𝑌. Supponiamo che

cambi il valore di 𝑌, con:

𝑌 = 𝑌1 > 𝑌0.

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135

Gli effetti di questa variazione del reddito sull’equilibrio del mercato della moneta

sono illustrati nella figura 53.

Figura 53 - L’effetto di un aumento del livello del reddito

sull’equilibrio del mercato della moneta (2)

L’incremento del reddito provoca un incremento della domanda di moneta per

finanziare le transazioni che determina uno spostamento della curva di domanda di

moneta complessiva verso destra:

se 𝑌1 > 𝑌0 → 𝑀𝑑

�̅�(𝑌1) >

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0), e quindi

𝑀𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟) ≠

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟).

In corrispondenza di 𝑟0 sul mercato della moneta si registra un eccesso di domanda:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟0)⏟ 500

>𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 400

=�̅�0

�̅�

⏟ .

400

Lo squilibrio sul mercato della moneta è accompagnato da uno squilibrio simmetrico sul

mercato dei titoli, ovvero da un eccesso di offerta di titoli:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟0)⏟ 500

= [�̅�

�̅�⏟1.000

−𝑀𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟0)⏟ 500

] <𝐵𝑠

�̅�⏟600

.

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136

Per effetto di questi squilibri, il pubblico cerca di procurarsi la moneta desiderata

vendendo titoli. L’eccesso di offerta di titoli provoca una riduzione del loro prezzo e un

corrispondente aumento del tasso di interesse:

𝑃𝐵 ↓ → 𝑟 ↑.

La variazione a rialzo del tasso di interesse continua sino a quando il mercato dei titoli e

quello della moneta tornano in equilibrio:

In corrispondenza di un livello del tasso di interesse pari a 𝑟1, infatti avremo:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟1)⏟ 400

=�̅�0

�̅�

⏟400

, e

𝐵𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟1)⏟ 600

=𝐵𝑠

�̅�⏟600

.

La nuova posizione di equilibrio emerge in conseguenza di una variazione della

composizione della domanda complessiva di moneta. Infatti, all’aumento della domanda

di moneta per transazioni (determinato dall’aumento del livello del reddito) si

contrappone la contrazione della domanda di moneta a scopi di speculazione (dovuta

all’aumento del valore assunto dal tasso di interesse):

𝑀𝑑

�̅�𝑇(𝑌1) +

𝑀𝑑

�̅�𝑆(𝑟1) = 400, con

𝑀𝑑

�̅�𝑇(𝑌1) >

𝑀𝑑

�̅�𝑇(𝑌0)

𝑀𝑑

�̅�𝑆(𝑟1) <

𝑀𝑑

�̅�𝑆(𝑟0).

Una diminuzione del livello del reddito produce un effetto simmetrico. Infatti, la

curva di domanda di moneta si sposta verso sinistra. Di conseguenza, il tasso di

interesse subisce una contrazione, determinando un aumento della domanda di moneta

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137

speculativa che compensa il calo della domanda di moneta a scopi di transazione indotto

dalla riduzione del livello del reddito.

L’equilibrio sul mercato della moneta può essere modificato anche a seguito di una

variazione dell’offerta di moneta. In un sistema economico in cui la moneta coincide

con la moneta legale creata dalla banca centrale, la quantità di moneta in circolazione

può variare in conseguenza delle operazioni di mercato aperto condotte dalle autorità

monetarie. Le operazioni di mercato aperto consistono nell’acquisto o nella vendita di

titoli effettuati dalla banca centrale sul mercato secondario, ovvero sul mercato in cui si

scambiano titoli emessi in periodi precedenti. Esse, quindi, non si svolgono sul mercato

primario, che rappresenta il mercato in cui vengono collocati i titoli di nuova emissione.

In maggiore dettaglio, le operazioni di mercato aperto condotte dalle autorità

monetarie si sostanziano:

nell’acquisto di titoli, quando la banca centrale compra titoli in cambio di moneta. In

questo modo essa immette moneta nel sistema economico e l’offerta di moneta

aumenta;

nella vendita di titoli, quando la banca centrale cede titoli in cambio di moneta. In

questo secondo caso essa drena moneta dal sistema economico e l’offerta di moneta

si riduce.

Consideriamo gli effetti di un aumento dell’offerta di moneta utilizzando la figura

54.

Figura 54 - L’effetto di un aumento dell’offerta di moneta (acquisto di titoli)

sull’equilibrio del mercato della moneta

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138

Il punto 0 individua la posizione di equilibrio iniziale, in cui:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 400

=�̅�0

�̅�

⏟400

, e 𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 600

=𝐵𝑠

�̅�⏟600

.

Supponiamo che le autorità monetarie intendano incrementare l’offerta di moneta di

100 unità (𝑑𝑀 = +100):

�̅�0

�̅�= 400 →

�̅�1

�̅�= 500.

Questa decisione implica un incremento della domanda di titoli da parte della banca

centrale:

𝑑𝑀 = +100 = 𝑑𝐵𝑑

�̅�𝐵𝐶 = +100.

Infatti, per riuscire a espandere l’offerta di moneta le autorità monetarie devono indurre

il pubblico a cederle titoli in cambio di moneta. Nella figura 54 questa decisione della

banca centrale provoca un aumento dell’offerta di moneta che si traduce in uno

spostamento verso destra della retta parallela all’asse delle ordinate. In corrispondenza

del tasso di interesse 𝑟0 si manifesta uno squilibrio sul mercato della moneta. Più

precisamente, la quantità di moneta offerta eccede la quantità di moneta domandata:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 400

<�̅�1

�̅�⏟500

.

Allo squilibrio sul mercato della moneta corrisponde uno squilibrio simmetrico sul

mercato dei titoli, perché l’intervento della banca centrale provoca un eccesso di

domanda rispetto all’offerta dovuto al fatto che in corrispondenza del tasso di interesse

𝑟0 il pubblico non è disposto a cedere titoli contro moneta:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 600

+𝐵𝑑

�̅�⏟100

𝐵𝐶 >𝐵𝑠

�̅�⏟600

.

L’eccesso di domanda sul mercato secondario dei titoli provoca un aumento del loro

prezzo (𝑃𝐵), e quindi una riduzione del tasso di interesse, che spinge il pubblico a

cedere titoli contro moneta. In altre parole, a livelli del tasso di interesse più bassi di 𝑟0 i

possessori di ricchezza sono disposti a cambiare la composizione dei loro portafogli:

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139

Quando il livello del tasso di interesse è sceso a 𝑟1, sarà stata raggiunta una nuova

posizione di equilibrio identificata dal punto 1, in cui il pubblico avrà aumentato la

quantità di moneta in suo possesso e ridotto la quota di titoli in portafoglio:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1)⏟ 500

=�̅�0

�̅�

⏟500

, e 𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1)⏟ 500

=𝐵𝑠

�̅�⏟500

.

La banca centrale può anche optare per una politica monetaria restrittiva,

riducendo l’offerta di moneta. Gli effetti di questa decisione delle autorità monetarie

sono descritti graficamente nella figura 55.

Figura 55 - L’effetto di un riduzione dell’offerta di moneta (vendita di titoli)

sull’equilibrio del mercato della moneta

Come nel caso precedente, iniziamo la nostra analisi dalla posizione di equilibrio

corrispondente al punto 0:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 400

=�̅�0

�̅�

⏟400

, e 𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 600

=𝐵𝑠

�̅�⏟600

.

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140

Supponiamo che la banca centrale decida di ridurre la quantità di moneta in circolazione

di 100 unità (𝑑𝑀 = −100):

�̅�0

�̅�= 400 →

�̅�1

�̅�= 300.

Per ottenere questo risultato, le autorità monetarie devono indurre il pubblico a

modificare la composizione della propria ricchezza, ovvero a cedere moneta in cambio

di titoli. Pertanto, la decisione della banca centrale di ridurre la quantità di moneta

comporta un aumento dell’offerta di titoli:

𝑑𝑀 = −100 = 𝑑𝐵𝑠

�̅�𝐵𝐶 = +100.

Come si può notare dall’esame della figura 55, le scelte della banca centrale

determinano uno spostamento verso sinistra della parallela all’asse delle ordinate. In

corrispondenza del tasso di interesse 𝑟0 si registra un eccesso della domanda di moneta

rispetto all’offerta, perché il pubblico continua a desiderare un ammontare complessivo

di moneta pari a 400:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 400

>�̅�1

�̅�⏟300

.

Allo squilibrio sul mercato della moneta si accompagna uno squilibrio simmetrico sul

mercato dei titoli, ovvero un eccesso di offerta di titoli:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)⏟ 600

<𝐵𝑠

�̅�⏟600

+ 𝑑𝐵𝑠

�̅�𝐵𝐶

⏟ 100

.

L’eccesso di offerta di titoli provoca una riduzione del loro prezzo e un corrispondente

aumento del tasso di interesse:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0) <

𝐵𝑠

�̅�+ 𝑑

𝐵𝑠

�̅�𝐵𝐶 → 𝑃𝐵 ↓ → 𝑟 ↑.

L’aumento del tasso di interesse spinge gli agenti economici a ridurre la domanda di

moneta e ad aumentare quella di titoli:

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141

Per effetto di questi cambiamenti, il mercato della moneta converge verso una nuova

posizione di equilibrio caratterizzata da un tasso di interesse pari a 𝑟1:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1)⏟ 300

=�̅�1

�̅�

⏟300

, e 𝐵𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1)⏟ 700

= [�̅�

�̅�⏟1.000

−𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1)⏟ 300

] =𝐵𝑠

�̅�⏟700

.

In conclusione, possiamo osservare che la teoria keynesiana descrive gli effetti di una

variazione della quantità di moneta in modo molto diverso da quello della teoria

monetaria neoclassica, che, come si ricorderà dalla prima parte del corso, coincide con

la teoria quantitativa della moneta.

La teoria neoclassica, infatti, mette in evidenza la relazione tra quantità di moneta e

livello generale dei prezzi. Questo approccio teorico postula il principio di neutralità

della moneta, secondo cui l’impiego della moneta non modifica le caratteristiche

strutturali del sistema economico, che, nel rispetto della sequenza Merce (M) → Denaro

(D) → Merce (M’), restano sostanzialmente quelle di una economia di baratto, e non

influenza i livelli del reddito e dell’occupazione.

La teoria monetaria keynesiana, invece, afferma il principio di non neutralità della

moneta. Secondo Keynes, la moneta rappresenta un elemento fondamentale per spiegare

le peculiarità delle moderne economie di mercato e le ragioni per le quali in esse non

vale la legge di Say, bensì il principio della domanda effettiva. La relazione tra la

quantità di moneta e il livello del tasso di interesse è centrale nell’analisi di Keynes. In

base a tale relazione, egli conclude che il tasso di interesse non rappresenta il premio per

l’astensione dal consumo, ma il premio per la rinuncia alla liquidità, mettendo quindi in

evidenza la natura monetaria del tasso di interesse.

4. Il modello IS-LM

4.1. Introduzione

Nei paragrafi precedenti abbiamo illustrato due aspetti fondamentali della teoria

keynesiana.

1. Il principio della domanda effettiva e la critica alla legge di Say. Questo elemento

della teoria keynesiana è stato analizzato sottolineando le caratteristiche delle decisioni

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142

di investimento e la loro importanza nelle economie contemporanee. Il principio della

domanda effettiva è stato formalizzato attraverso la costruzione del modello reddito-

spesa, che descrive il mercato dei beni in base all’assunzione che il tasso di interesse sia

dato.

2. Il secondo aspetto fondamentale della teoria keynesiana consiste nell’affermazione

del principio di non neutralità della moneta. Abbiamo sottolineato come nella teoria

keynesiana la realizzazione delle decisioni di investimento presupponga la disponibilità

di moneta e non già la disponibilità di risparmio. Pertanto, secondo Keynes, il tasso di

interesse non dipende dalle decisioni di risparmio, ma dalle decisioni delle autorità

monetarie. Esso, cioè, è un fenomeno monetario controllato dalla banca centrale

attraverso le decisioni riguardanti la quantità di moneta immessa nel sistema

economico. La natura monetaria del tasso di interesse è stata illustrata analizzando i

meccanismi che, a giudizio di Keynes, governano il mercato della moneta.

In sintesi, abbiamo descritto il mercato dei beni assumendo che il tasso di interesse

(𝑟) fosse dato. Inoltre, abbiamo descritto il mercato della moneta ipotizzando che fosse

dato il livello del reddito (𝑌). Ora dobbiamo studiare le interdipendenze tra questi due

mercati. A tal fine, costruiremo un particolare modello teorico, noto con l’acronimo IS-

LM, in cui 𝑟 e 𝑌 sono variabili endogene al sistema. In altri termini, vedremo che nel

modello IS-LM il livello del reddito e quello del tasso di interesse vengono determinati

congiuntamente per effetto dell’influenza reciproca esercitata tra le variabili reali e

quelle monetarie del sistema.

4.2. Le equazioni del modello e la determinazione analitica dei valori di equilibrio

del reddito e del tasso di interesse

Cominciamo la nostra analisi dalle equazioni che descrivono il mercato dei beni.

a) 𝐷𝐴 = 𝑌

Questa equazione rappresenta l’equilibrio sul mercato dei beni e, come nel modello

reddito-spesa, è il livello della domanda aggregata a determinare quello del reddito, e

non viceversa:

𝐷𝐴 → 𝑌.

b) 𝐷𝐴 = 𝐶 + 𝐼 + �̅�

Questa seconda equazione illustra la composizione della domanda aggregata. In

particolare, consideriamo il livello della spesa pubblica (𝐺), e anche quello della

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143

tassazione (𝑇), come dati, perché vengono definiti autonomamente dalle autorità di

governo.

c) 𝐶 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ (𝑌 − �̅�)

I consumi sono una funzione lineare crescente del livello del reddito disponibile.

d) 𝐼 = 𝐼(𝜑, 𝑟)

Nel modello IS-LM gli investimenti sono funzione non soltanto delle aspettative

relative ai ricavi futuri degli imprenditori, ma anche del livello del tasso di interesse.

Come abbiamo accennato sopra, il tasso di interesse non è più una variabile esogena,

bensì una variabile determinata in modo endogeno. Pertanto, consideriamo la seguente

funzione lineare degli investimenti:

𝐼 = 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 con 𝑏 > 0.

La figura 56 contiene tre distinte rappresentazioni grafiche di questa funzione lineare

degli investimenti.

Figura 56 – La sensibilità al tasso di interesse della funzione lineare degli investimenti

Le differenti inclinazioni delle curve rappresentate nella figura 56 indicano la

diversa sensibilità degli investimenti rispetto al tasso di interesse. La funzione degli

investimenti disegnata nella figura 56(b) è ‘rigida’, cioè poco sensibile alle variazioni

del tasso di interesse, perché anche una significativa variazione del livello del tasso di

interesse non determina forti incrementi del volume degli investimenti. Al contrario, la

funzione degli investimenti tracciata nella figura 56(c) è altamente elastica, perché

anche piccole variazioni del valore assunto dal tasso di interesse producono effetti

rilevanti sul livello degli investimenti. Infine, la funzione degli investimenti riportata

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144

nella figura 56(a), può essere considerata un caso intermedio. In tutti e tre i casi, il

valore assunto da 𝐼0 e la posizione della retta sul piano riflettono gli animal spirits degli

imprenditori, per usare l’espressione originariamente utilizzata da Keynes per descrivere

la loro maggiore o minore propensione all’investimento in base ai ricavi futuri attesi.

Le equazioni che descrivono il mercato dei beni consentono di ricavare l’espressione

dell’equazione IS, e quindi il valore del reddito (𝑌). Sostituendo le equazioni d) e c)

nella b), si ottiene:

𝐷𝐴 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ 𝑌 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�,

da cui

𝐷𝐴 = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�⏟ 𝐷𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎 𝑎𝑢𝑡𝑜𝑛𝑜𝑚𝑎 (𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒 𝑑𝑎 𝑌)

+ 𝑐 ∙ 𝑌⏟𝐷𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎 𝑖𝑛𝑑𝑜𝑡𝑡𝑎 (𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒 𝑑𝑎 𝑌)

.

Sostituendo quest’ultima espressione nella a), possiamo scrivere:

𝑌 = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + 𝑐 ∙ 𝑌

𝑌 − 𝑐 ∙ 𝑌 = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�

𝑌 ∙ (1 − 𝑐) = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� .

Pertanto, l’equazione IS è data da:

𝑌 =1

(1 − 𝑐)⏟ 𝑀𝑜𝑙𝑡𝑖𝑝𝑙𝑖𝑐𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒

∙ (𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�)⏟ 𝐷𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎 𝑎𝑢𝑡𝑜𝑛𝑜𝑚𝑎

.

Esiste una significativa differenza tra questa equazione e quella che individua il

livello del reddito di equilibrio nel modello reddito-spesa. In quest’ultimo caso, infatti,

il valore della domanda autonoma è dato, perché il tasso di interesse è considerato una

variabile esogena. Pertanto, l’espressione che definisce il reddito di equilibrio è

costituita da una equazione in una sola incognita (𝑌). Nel caso della equazione IS,

invece, il tasso di interesse non è dato, ma rappresenta una variabile che incide sul

volume degli investimenti, e quindi sui livelli della domanda autonoma e del reddito. In

altri termini, l’equazione IS contiene due incognite, 𝑌 e 𝑟. Il nome IS deriva dal fatto

che essa permette di ricavare tutte le combinazioni dei valori di 𝑌 e di 𝑟 coerenti con

l’equilibrio sul mercato dei beni. Infatti, sappiamo che quando questo mercato è in

equilibrio gli investimenti eguagliano i risparmi (𝐼 = 𝑆).

A differenza di quanto abbiamo visto quando è stato descritto il modello reddito-

spesa, nel modello IS-LM il livello del reddito di equilibrio può essere determinato

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145

soltanto se si conosce il valore del tasso di interesse. A tal fine, è necessario specificare

le equazioni che descrivono il mercato della moneta.

e) 𝑀𝑑

�̅�= 𝑓(𝑌, 𝑟) con 𝑓′(𝑌) > 0 e 𝑓′(𝑟) < 0

Come per la funzione degli investimenti, utilizziamo una versione lineare della funzione

di domanda di moneta:

𝑀𝑑

�̅�= 𝑘 ∙ 𝑌 − ℎ ∙ 𝑟 con 𝑘 > 0 e ℎ > 0.

Completiamo la descrizione del mercato della moneta con le equazioni che definiscono

l’offerta di moneta (equazione f)) e la condizione di equilibrio (equazione g)):

f) 𝑀𝑠

�̅�=�̅�

�̅�

g) 𝑀𝑑

�̅�=𝑀𝑠

�̅�

Sostituendo le equazioni e) e f) nella g) si ottiene una nuova versione della condizione

di equilibrio sul mercato della moneta denominata equazione LM. Si tratta di una

equazione in due incognite, 𝑌 e 𝑟, che permette di individuare tutte le combinazioni del

reddito (𝑌) e del tasso di interesse (𝑟) in corrispondenza delle quali il mercato della

moneta si trova in equilibrio:

𝑘 ∙ 𝑌 − ℎ ∙ 𝑟 =�̅�

�̅� .

Possiamo quindi descrivere i mercati dei beni e della moneta attraverso il seguente

sistema di due equazioni lineari:

Mercato dei beni

𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�) (equazione IS)

Mercato della moneta

𝑘 ∙ 𝑌 − ℎ ∙ 𝑟 =�̅�

�̅� (equazione LM) .

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146

Questo sistema di due equazioni in due incognite (𝑌 e 𝑟) consente di studiare

l’interdipendenza tra il mercato dei beni e quello della moneta. Dal punto di vista

formale, infatti, si tratta di un sistema integrato, per il quale non è cioè possibile

definire un ordine di soluzione come nel caso del modello neoclassico, in cui l’ordine

causale che governa il sistema è coerente con la legge di Say.

In maggiore dettaglio, possiamo osservare che la prima equazione mette in evidenza

la relazione causale che dal valore del tasso di interesse (𝑟) conduce alla

determinazione del livello del reddito (𝑌). La seconda equazione, invece, mostra il

legame causale che dal livello del reddito (𝑌) porta alla definizione del valore del tasso

di interesse (𝑟):

L’interdipendenza tra il mercato dei beni e il mercato della moneta può essere

studiata in due modi. Il primo metodo consiste nel calcolare il valore di equilibrio del

reddito risolvendo il sistema per 𝑌. Il secondo metodo consiste invece nella

determinazione grafica dei valori di equilibrio di 𝑌 e di 𝑟.

Iniziamo l’esame del modello IS-LM con il calcolo del valore di equilibrio del

reddito. A tal fine, poniamo:

1

(1 − 𝑐)= 𝛼.

Inoltre, usiamo il simbolo 𝐴 per indicare la componente della domanda autonoma che

non dipende da 𝑟:

(𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 + �̅�) = 𝐴.

Pertanto, è possibile riscrivere il modello IS-LM nel modo seguente:

1) 𝑌 = 𝛼 ∙ (𝐴 − 𝑏 ∙ 𝑟) (equazione IS)

2) 𝑘 ∙ 𝑌 − ℎ ∙ 𝑟 =�̅�

�̅� (equazione LM)

Risolviamo il sistema, cominciando a ricavare il valore di 𝑟 dall’equazione 2):

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147

𝑘 ∙ 𝑌 = ℎ ∙ 𝑟 +�̅�

�̅� ,

da cui

𝑟 =1

ℎ∙ (𝑘 ∙ 𝑌 −

�̅�

�̅�) =

𝑘

ℎ∙ 𝑌 −

1

ℎ∙�̅�

�̅� .

Sostituendo questa espressione nella equazione IS, si ottiene una equazione in una

sola incognita (Y), il cui valore può essere specificato mediante i seguenti passaggi:

𝑌 = 𝛼 ∙ [𝐴 − 𝑏 ∙ (𝑘

ℎ∙ 𝑌 −

1

ℎ∙�̅�

�̅�)]

𝑌 = 𝛼 ∙ [𝐴 − 𝑏 ∙𝑘

ℎ∙ 𝑌 +

𝑏

ℎ∙�̅�

�̅�]

𝑌 = 𝛼 ∙ 𝐴 − 𝛼 ∙ 𝑏 ∙𝑘

ℎ∙ 𝑌 + 𝛼 ∙

𝑏

ℎ∙�̅�

�̅�

𝑌 + 𝛼 ∙ 𝑏 ∙𝑘

ℎ∙ 𝑌 = 𝛼 ∙ 𝐴 + 𝛼 ∙

𝑏

ℎ∙�̅�

�̅�

𝑌 ∙ (1 + 𝛼 ∙ 𝑏 ∙𝑘

ℎ) = 𝛼 ∙ 𝐴 + 𝛼 ∙

𝑏

ℎ∙�̅�

�̅� .

In definitiva, si ricava la seguente espressione del reddito di equilibrio:

𝑌 =𝛼

(1 + 𝛼 ∙ 𝑏 ∙𝑘ℎ)∙ 𝐴 +

𝛼 ∙ 𝑏

(1 + 𝛼 ∙ 𝑏 ∙𝑘ℎ) ∙ ℎ

∙�̅�

�̅� .

Questa espressione permette di definire le variabili che influenzano il livello del reddito.

Poiché vale il principio della domanda effettiva, il reddito è funzione dei fattori che

influenzano le diverse componenti della domanda aggregata. In particolare, esso

dipende: i) dal valore di 𝐴, che rappresenta la componente della domanda autonoma che

non dipende dal valore assunto da 𝑟; ii) dal valore di 𝛼, che rappresenta il moltiplicatore

del reddito, che, a sua volta, dipende dalla propensione marginale al consumo; iii) dal

valore della quantità reale di moneta �̅� �̅�⁄ . Come si può notare, esiste una relazione

diretta tra la quantità reale di moneta e il livello del reddito reale:

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148

�̅�

�̅� ↑ → 𝑌 ↑.

Tale relazione può essere spiegata ricordando che, secondo la teoria keynesiana, una

variazione della quantità di moneta incide sul livello del tasso di interesse, e quindi sul

volume degli investimenti. Per esempio, si consideri l’ipotesi di una politica monetaria

espansiva che determina l’aumento della quantità di moneta. Come sappiamo, questa

decisione della banca centrale provoca la caduta del tasso di interesse. Con la discesa

del tasso di interesse, si osserva una crescita della domanda per beni di investimento,

cui fa seguito un aumento della spesa aggregata e, di conseguenza, un incremento del

livello del reddito. Vale cioè la seguente sequenza causale:

�̅�

�̅�↑ → 𝑟 ↓ → 𝐼 ↑ → 𝐷𝐴 ↑ → 𝑌 ↑.

4.3. L’analisi grafica dei meccanismi di funzionamento del modello IS-LM

4.3.1. La curva IS

Passiamo ora alla determinazione grafica dei valori di equilibrio di 𝒀 e di 𝒓. A tal

fine, riportiamo i valori del reddito (𝑌) sulle ascisse e i valori del tasso di interesse (𝑟)

sulle ordinate, in modo da poter tracciare la curva IS e la curva LM sul piano.

La curva IS, che come abbiamo visto trova espressione nell’equazione

𝑌 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�),

permette di rappresentare tutte le combinazioni di valori del reddito e del tasso di

interesse in corrispondenza delle quali il mercato dei beni è in equilibrio.

Per tracciare la curva IS, possiamo individuare una prima combinazione di valori che

soddisfa questa condizione di equilibrio, assegnando un dato valore al tasso di interesse,

per esempio 𝑟 = 𝑟0. Se il tasso di interesse è pari a 𝑟0, allora il valore del reddito è

determinato attraverso l’equazione che definisce la IS. Infatti:

per 𝑟 = 𝑟0 → 𝑌 = 𝑌0 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟0 + �̅�).

La combinazione di valori (𝑌0, 𝑟0) è individuata nella figura 57, che si compone di due

grafici. Il grafico superiore individua il valore di equilibrio del redito in base alla

condizione di equilibrio:

𝐷𝐴(𝑌, 𝑟0) = 𝑌.

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149

Quindi vale:

𝐷𝐴(𝑌, 𝑟0) = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟0 + �̅� + 𝑐 ∙ 𝑌.

Questa espressione rappresenta una retta con intercetta pari a:

𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟0 + �̅�.

Figura 57 – La costruzione grafica della curva IS

Il valore di equilibrio del reddito (𝑌0) è individuato dal punto di intersezione tra la retta

𝐷𝐴(𝑌, 𝑟0) e la retta a 45° che rappresenta la condizione di equilibrio 𝐷𝐴 = 𝑌. In questo

modo abbiamo individuato una prima combinazione di valori (𝑌0, 𝑟0) in corrispondenza

della quale il mercato dei beni è in equilibrio. Questa combinazione è rappresentata dal

punto 0 nel secondo grafico, quello situato più in basso nella figura 57.

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150

Replichiamo questa procedura per individuare una seconda combinazione di valori di

𝑌 e di 𝑟 che assicura l’equilibrio sul mercato dei beni. A tal fine, ora supponiamo che il

tasso di interesse sia pari a 𝑟1 > 𝑟0. In questo caso, il valore del reddito corrispondente a

𝑟1 sarà diverso da 𝑌0 (𝑌1 ≠ 𝑌0).

Per determinare la natura della variazione di Y, ricordiamo che un aumento del tasso di

interesse provoca una riduzione degli investimenti, e quindi dei livelli della domanda

autonoma e del reddito. Pertanto avremo:

𝑌(𝑟1) < 𝑌(𝑟0).

In sintesi:

se 𝑟 ↑ → (𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟) ↓ → 𝐷𝐴 ↓ → 𝑌 ↓.

Come in precedenza, il nuovo valore del reddito di equilibrio è individuato sul primo

grafico. In particolare, osserviamo che una variazione del tasso di interesse modifica il

valore dell’intercetta della curva di domanda aggregata, perché il volume degli

investimenti diminuisce. Di conseguenza risulta:

𝐷𝐴(𝑌, 𝑟1) = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟1 + �̅� + 𝑐 ∙ 𝑌, e

𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟1 + �̅� < 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟0 + �̅�.

Il nuovo valore del reddito di equilibrio corrisponde al punto di intersezione della retta

𝐷𝐴(𝑌, 𝑟1) con la retta che taglia il piano a 45° (punto 1). Anche in questo caso, la nuova

combinazione che definisce l’equilibrio sul mercato dei beni (𝑌1, 𝑟1) può essere riportata

sul grafico inferiore in corrispondenza del punto 1.

Consideriamo, infine, l’ipotesi che il tasso di interesse assuma un valore pari a

𝑟2 < 𝑟0. In tal caso:

𝑟2 < 𝑟0 → 𝑌(𝑟2) = 𝑌2 ≠ 𝑌(𝑟0).

Per effetto della riduzione del valore del tasso di interesse, gli investimenti, la domanda

aggregata e il reddito aumentano:

se 𝑟 ↓ → (𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟) ↑ → 𝐷𝐴 ↑ → 𝑌 ↑.

Di conseguenza, la caduta di r provoca uno spostamento verso l’alto della nuova curva

di domanda aggregata, perché:

𝐷𝐴(𝑌, 𝑟2) = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟2 + �̅� + 𝑐 ∙ 𝑌, e

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𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟2 + �̅� > 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟0 + �̅�.

Il nuovo valore di equilibrio del reddito è indicato dal punto 2 nel grafico superiore

della figura 57, mentre la nuova combinazione di valori del reddito e del tasso di

interesse (𝑌2, 𝑟2) che assicura l’equilibrio sul mercato dei beni è ancora una volta

riportata nel grafico inferiore della figura 57 (punto 2).

Sulla base di queste considerazioni, è possibile tracciare una retta inclinata

negativamente sul piano (𝑌, 𝑟) che passa attraverso i punti 0, 1 e 2 del grafico inferiore

della figura 57. Tale retta contiene tutte le combinazioni di valori di 𝑌 e di 𝑟 in

corrispondenza delle quali il mercato dei beni è in equilibrio. Questa retta è una

versione lineare della cosiddetta curva IS.

Figura 58 – L’eccesso di offerta di beni

Pertanto, tutte le combinazioni di valori di 𝑌 e di 𝑟 che si trovano al di fuori della

curva IS corrispondono a situazioni di squilibrio sul mercato dei beni. Ad esempio,

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152

consideriamo la combinazione che corrisponde al punto 3) della parte inferiore della

figura 58, data da 𝑌0 e da 𝑟1 > 𝑟0.

La natura dello squilibrio che si determina sul mercato dei beni può essere specificata

osservando che:

𝐷𝐴(𝑌, 𝑟1 > 𝑟0) < 𝐷𝐴(𝑌0, 𝑟0) = 𝑌0,

e quindi che

𝐷𝐴(𝑌, 𝑟1 > 𝑟0) < 𝑌0.

In altri termini, in corrispondenza del punto 3 della parte inferiore della figura 58 si

registra un eccesso di offerta di beni. Generalizzando questa conclusione, osserviamo

che per tutte le combinazioni dei valori del reddito e del tasso di interesse che si trovano

al di sopra della curva IS, il sistema si trova in una situazione di eccesso di offerta di

beni.

In modo simmetrico, la combinazione individuata dal punto 4 nella parte inferiore della

figura 59, quella cioè data da 𝑌0 e da 𝑟2 < 𝑟0, configura una situazione in cui:

𝐷𝐴(𝑌, 𝑟2 < 𝑟0) > 𝐷𝐴(𝑌0, 𝑟0) = 𝑌0,

e quindi

𝐷𝐴(𝑌, 𝑟2 < 𝑟0) > 𝑌0.

Di conseguenza, possiamo concludere che tutte le combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 che si

trovano al di sotto della curva IS identificano uno squilibrio caratterizzato da un eccesso

di domanda aggregata sul mercato dei beni.

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153

Figura 59 – L’eccesso di domanda di beni

L’ultima considerazione relativa alla curva IS riguarda la specificazione dei fattori

che ne influenzano la posizione. Le combinazioni di valori di 𝑌 e di 𝑟 coerenti con

l’equilibrio sul mercato dei beni sono state individuate considerando come dati i valori

di 𝐶0, 𝐼0, �̅� e �̅�.

Ciò significa che la posizione della IS cambia in relazione alle variazioni di queste

quattro grandezze. Supponiamo, ad esempio, che la curva IS che passa per i punti 0, 1 e

2 nella figura 60 sia stata definita in corrispondenza di un valore della spesa pubblica

pari a �̅�0. Analizziamo le conseguenze di una variazione del livello della spesa pubblica

a seguito di una decisione delle autorità di governo.

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154

Figura 60 - Gli spostamenti della curva IS in funzione di

variazioni delle componenti autonome della domanda aggregata

(gli effetti di un aumento e di una diminuzione della spesa pubblica)

Ipotizziamo, in particolare, che le autorità fiscali optino per un incremento della

spesa pubblica (�̅�1 > �̅�0). A parità di tasso di interesse (𝑟0), l’aumento della spesa

pubblica determina un incremento della domanda aggregata, e quindi del reddito di

equilibrio, che assume un valore pari a 𝑌∗ > 𝑌0. Per effetto di queste variazioni la

𝐼𝑆(�̅�1) si sposta verso destra.

Nel caso di una riduzione della spesa pubblica, si osserva invece uno spostamento

simmetrico verso sinistra della IS. Supponiamo che il livello della spesa pubblica sia

tale che (�̅�2 < �̅�0). In conseguenza di questa scelta delle autorità fiscali, a parità di

tasso di interesse (𝑟0), la domanda aggregata diminuisce, determinando una caduta del

reddito di equilibrio che si traduce nello spostamento verso sinistra della curva 𝐼𝑆(�̅�2).

4.3.2. La curva LM

Per completare l’analisi grafica del modello IS-LM dobbiamo rappresentare anche la

curva LM, che rappresenta tutte le combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 coerenti con l’equilibrio

sul mercato della moneta. In altri termini, la curva LM individua tutte le combinazioni

dei valori del reddito e del tasso di interesse che soddisfano l’equazione:

𝑘 ∙ 𝑌 − ℎ ∙ 𝑟 =�̅�

�̅� (equazione LM).

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155

Figura 61 – La costruzione grafica della curva LM

Si tratta di una equazione lineare in una sola incognita corrispondente al tasso di

interesse (𝑟). Risolvendola per 𝑟 si ottiene il valore del tasso di interesse coerente con

l’equilibrio sul mercato della moneta (𝑟 = 𝑟0). La combinazione (𝑌0, 𝑟0) è individuabile

guardando alla costruzione grafica della curva LM rappresentata nella figura 61.

Nel grafico di sinistra sono riprodotte le curve di domanda e di offerta di moneta.

L’offerta di moneta corrisponde alla quantità reale di moneta che, dato il livello dei

prezzi, è controllata dalle autorità monetarie. La curva di domanda di moneta è tracciata

per un dato valore del reddito. Consideriamo, innanzitutto, la curva di domanda di

moneta cui corrisponde un livello del reddito pari a 𝑌0. L’intersezione tra questa curva

di domanda di moneta e la retta parallela alle ordinate che rappresenta l’offerta di

moneta (punto 0 nel grafico di sinistra) determina il valore del tasso di interesse che

assicura l’equilibrio sul mercato della moneta quando il reddito è pari a 𝑌0, ovvero

(𝑟 = 𝑟0). La combinazione (𝑌0, 𝑟0) è stata riportata sul grafico di destra (punto 0), in cui

i valori di 𝑌 vengono indicati sull’asse delle ascisse, mentre quelli di 𝑟 sono individuati

sull’asse delle ordinate

Come nel caso della curva IS, procediamo alla identificazione di una seconda

combinazione di 𝑌 e di 𝑟. Supponiamo che valga:

𝑌 = 𝑌1 > 𝑌0.

A parità di tasso di interesse, l’aumento del livello del reddito provoca un incremento

della domanda di moneta che si traduce in uno spostamento verso l’alto della curva di

domanda di moneta. Pertanto, in corrispondenza di 𝑟0 si registra un eccesso di domanda

di moneta. Infatti:

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156

𝑀𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟0) >

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0) =

�̅�

�̅� ,

e quindi

𝑀𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟0) >

�̅�

�̅� .

Come sappiamo, all’eccesso di domanda di moneta corrisponde un eccesso di offerta sul

mercato dei titoli che provoca una riduzione del loro prezzo e un contestuale aumento

del tasso di interesse:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟0) = [

�̅�

�̅�−𝑀𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟0)] < [

�̅�

�̅�−𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)] =

𝐵𝑠

�̅�,

per cui

𝐵𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟0) <

𝐵𝑠

�̅� → 𝑃𝐵 ↓ → 𝑟 ↑.

Il valore assunto dal tasso di interesse continua a crescere sino a quando il mercato della

moneta torna in equilibrio in corrispondenza di 𝑟1 > 𝑟0. La nuova condizione di

equilibrio corrisponde quindi alla coppia di valori (𝑌1, 𝑟1) individuata dal punto 1 nel

grafico di sinistra della figura 61. Questa particolare combinazione dei valori del

reddito e del tasso di interesse è riportata anche nel grafico di destra della figura 61

(punto 1).

Infine, cerchiamo di individuare una terza combinazione di 𝑌 e di 𝑟. A tal fine,

ipotizziamo che il reddito assuma il valore 𝑌 = 𝑌2 < 𝑌0. A parità di tasso di interesse, la

riduzione del livello del reddito determina una diminuzione della domanda di moneta.

Per effetto di queste variazioni, la curva di domanda di moneta si sposta verso sinistra.

In corrispondenza di 𝑟0, sul mercato della moneta si manifesta quindi un eccesso di

offerta rispetto alla domanda, perché:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌2, 𝑟0) <

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0) =

�̅�

�̅� ,

e quindi

𝑀𝑑

�̅�(𝑌2, 𝑟0) <

�̅�

�̅� .

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157

Come nel caso precedente, lo squilibrio sul mercato della moneta è accompagnato da

uno squilibrio simmetrico sul mercato dei titoli, ovvero da un eccesso di domanda di

titoli rispetto all’offerta, che provoca un aumento del loro prezzo dei titoli e una

corrispondente riduzione del livello del tasso di interesse:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌2, 𝑟0) = [

�̅�

�̅�−𝑀𝑑

�̅�(𝑌2, 𝑟0)] > [

�̅�

�̅�−𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0)] =

𝐵𝑠

�̅�,

per cui

𝐵𝑑

�̅�(𝑌2, 𝑟0) >

𝐵𝑠

�̅� → 𝑃𝐵 ↓ → 𝑟 ↑.

Quando l’aumento del tasso di interesse si arresta in corrispondenza di un valore pari a

𝑟2 < 𝑟0 (punto 2 nel grafico di sinistra della figura 61), il mercato della moneta torna in

equilibrio. Questa condizione di ritrovato equilibrio è rappresentata dalla combinazione

di valori del reddito e del tasso di interesse (𝑌2, 𝑟2) individuata dal punto 2 nel grafico di

destra della figura 61.

La curva LM è quella tracciata attraverso i punti 0, 1 e 2 nel grafico di destra della

figura 61. Essa rappresenta tutte le combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 che assicurano l’equilibrio

sul mercato della moneta.

Di conseguenza, tutte le combinazioni dei valori del reddito e del tasso di interesse

che stanno al di fuori della LM configurano delle situazioni di squilibrio sul mercato

della moneta. Consideriamo, per esempio, la combinazione che corrisponde al punto 3

nel grafico di destra della figura 62 (𝑌 = 𝑌0 e 𝑟 = 𝑟1 > 𝑟0).

Figura 62 – L’eccesso di offerta di moneta

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158

Per definire il tipo di squilibrio che caratterizza il mercato della moneta nel punto 3,

prendiamo come riferimento la posizione di equilibrio individuata dal punto 0. A parità

di reddito, un aumento del tasso di interesse (da 𝑟0 a 𝑟1) provoca una riduzione della

domanda di moneta che si traduce in un eccesso di offerta di moneta. Infatti:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1) <

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0) =

�̅�

�̅� ,

e quindi

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1) <

�̅�

�̅� .

Generalizzando, possiamo concludere che tutte le combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 che si

trovano al di sopra della curva LM danno origine a un eccesso di offerta di moneta.

Tutte le combinazioni che si trovano al di sotto della LM danno invece luogo a uno

squilibrio simmetrico caratterizzato da un eccesso di domanda di moneta.

Figura 63 – L’eccesso di domanda di moneta

Prendiamo, per esempio, la combinazione di 𝑌 e di 𝑟 individuata dal punto 4 nel

grafico di destra della figura 63 (𝑌 = 𝑌0 e 𝑟 = 𝑟2 < 𝑟0). Se prendiamo ancora come

riferimento la posizione di equilibrio indicata dal punto 0, possiamo notare che, a parità

di livello del reddito, una riduzione del tasso di interesse provoca un aumento della

domanda di moneta. Di conseguenza si determina una situazione di eccesso di domanda

di moneta:

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159

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟2) >

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟0) =

�̅�

�̅� ,

e quindi

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟2) >

�̅�

�̅� .

In ultimo, dobbiamo specificare i fattori che influenzano la posizione della curva

LM. A tal fine, ricordiamo che la LM è stata costruita in base all’assunzione che il

valore della quantità reale di moneta (�̅� �̅�⁄ ) fosse dato. Pertanto, la posizione della LM

è funzione della quantità di moneta creata dalla banca centrale. Gli effetti di una

variazione della quantità di moneta sulla posizione della LM sono illustrati nella figura

64.

Figura 64 – Gli spostamenti della curva LM determinati dalle variazioni

della quantità di moneta decise dalle autorità monetarie

Partiamo dall’equilibrio sul mercato della moneta contraddistinto dal punto 0 nel

grafico di sinistra della figura 64, in corrispondenza, quindi, di un valore della quantità

reale di moneta pari a �̅�0 𝑃⁄ . La combinazione di valori (𝑌0, 𝑟0) si trova sulla curva

𝐿𝑀 (�̅�0

�̅�) disegnata nel grafico di destra della figura 64.

Per descrivere gli effetti prodotti da una variazione dell’offerta di moneta

supponiamo che l’offerta di moneta cresca:

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160

�̅�1

�̅�>�̅�0

�̅� .

Di conseguenza, la curva di offerta di moneta si sposta verso destra, e in corrispondenza

del tasso 𝑟0 si registra un eccesso di offerta di moneta e un eccesso di domanda di titoli

legato all’intervento della banca centrale sul mercato secondario ai fini dell’espansione

della quantità di moneta in circolazione. L’eccesso di domanda di titoli provoca un

aumento del loro prezzo (𝑃𝐵) e una riduzione del tasso di interesse (𝑟):

𝑑𝐵𝑑

�̅�𝐵𝐶 +

𝐵𝑑

�̅�>𝐵𝑠

�̅� → 𝑃𝐵 ↑ → 𝑟 ↓.

Il tasso di interesse continua a diminuire sino a quando si raggiunge una nuova

posizione di equilibrio sul mercato della moneta corrispondente al punto 1 nel grafico di

sinistra della figura 64, caratterizzata dalla combinazione di valori del reddito e del

tasso di interesse (𝑌0, 𝑟1 < 𝑟0). Infatti, avremo:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌0, 𝑟1) =

�̅�1

�̅� .

La nuova combinazione di equilibrio (𝑌0, 𝑟1) è riportata nel grafico di destra della

figura 64. Come si può notare, la nuova LM, corrispondente a una quantità di moneta

pari a �̅�1 𝑃⁄ passa per il punto 1. In conclusione, quindi, un aumento della quantità di

moneta si traduce in uno spostamento verso il basso della curva LM.

Supponiamo ora che le autorità monetarie riducano l’offerta di moneta, portandola a:

�̅�2

�̅�<�̅�0

�̅� .

In questo caso, la curva di offerta di moneta si sposta verso sinistra. Pertanto, in

corrispondenza di 𝑟0 sul mercato della moneta si registra un eccesso di domanda di

moneta, mentre sul mercato dei titoli si osserva un eccesso di offerta dovuto al tentativo

delle autorità monetarie di ridurre la quantità di moneta in circolazione attraverso la

vendita di titoli.

L’eccesso di offerta di titoli determina una riduzione del loro prezzo e un aumento

del tasso di interesse, sino a quando il mercato della moneta raggiunge una nuova

posizione di equilibrio corrispondente al punto 2 nel grafico di sinistra della figura 64,

caratterizzata dalla combinazione (𝑌0, 𝑟2 > 𝑟0). Questa nuova combinazione di valori

del reddito e del tasso di interesse contraddistingue la condizione di equilibrio

individuata dal punto 2 nel grafico di destra della figura 64, ed è attraversata dalla

nuova curva LM corrispondente alla quantità di moneta �̅�2 𝑃⁄ . Di conseguenza,

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161

possiamo concludere che una riduzione dell’offerta di moneta sposta la LM verso

l’alto.

4.3.3. L’equilibrio IS-LM

Una volta disegnate le curve IS e LM che rappresentano, rispettivamente, le

combinazioni di valori di 𝑌 e di 𝑟 coerenti con l’equilibrio sul mercato dei beni e

l’equilibrio sul mercato della moneta, possiamo rappresentare graficamente la coppia di

valori di 𝑌 e di 𝑟 che assicura l’equilibrio contemporaneo sui due mercati.

Tale combinazione è individuata dall’intersezione tra le curve IS e LM riportate nella

figura 65 (punto 𝐸).

Figura 65 – L’equilibrio congiunto sul mercato dei beni e sul mercato della moneta

La combinazione (𝑌𝐸 , 𝑟𝐸) assicura l’esistenza di un equilibrio congiunto sui mercati dei

beni e della moneta, perché essa si trova contemporaneamente sulla curva IS e sulla

curva LM. Infatti, risulta:

𝐷𝐴(𝑌𝐸 , 𝑟𝐸) = 𝑌𝐸, e

𝑌𝐸 =1

(1 − 𝑐)∙ (𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟𝐸 + �̅�).

Inoltre, vale:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌𝐸 , 𝑟𝐸) =

�̅�

�̅� , e

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162

𝑘 ∙ 𝑌𝐸 − ℎ ∙ 𝑟𝐸 =�̅�

�̅� .

L’equilibrio IS-LM presenta due caratteristiche significative:

1. Si tratta di un equilibrio stabile. Si può mostrare, infatti, che il sistema economico

converge verso la combinazione individuata dal punto 𝐸, con (𝑌𝐸 , 𝑟𝐸).

2. Esso non è necessariamente un equilibrio di piena occupazione, perché può essere

che 𝑌𝐸 < 𝑌𝑃𝑂.

Per mostrare che l’equilibrio IS-LM è un equilibrio stabile, consideriamo la figura

66 e supponiamo che il sistema sia caratterizzato da una combinazione di valori

(𝑌𝐸 , 𝑟𝐴 > 𝑟𝐸) individuata dal punto 𝐴.

Figura 66 – Le caratteristiche di stabilità dell’equilibrio IS-LM (1)

In corrispondenza del punto A si avrà uno squilibrio sia sul mercato dei beni che sul

mercato della moneta, perché la coppia di valori (𝑌𝐸 , 𝑟𝐴 > 𝑟𝐸) si trova al di fuori sia

della IS che della LM.

Per determinare la natura di questo doppio squilibrio osserviamo che sul mercato dei

beni si registra una situazione di eccesso di offerta di beni (il punto 𝐴 si trova sopra la

curva IS). Infatti:

𝐷𝐴(𝑌𝐸 , 𝑟𝐴 > 𝑟𝐸) < 𝐷𝐴(𝑌𝐸 , 𝑟𝐸) = 𝑌𝐸,

e quindi

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163

𝐷𝐴(𝑌𝐸 , 𝑟𝐴 > 𝑟𝐸) < 𝑌𝐸 .

L’eccesso di offerta induce le imprese a ridurre la produzione, provocando così una

diminuzione del livello del reddito:

𝐷𝐴(𝑌𝐸 , 𝑟𝐴 > 𝑟𝐸) < 𝑌𝐸 → 𝑌 ↓.

In secondo luogo, osserviamo che sul mercato della moneta si determina una

situazione di eccesso di offerta di moneta (il punto 𝐴 si trova anche sopra la curva LM).

In effetti:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌𝐸 , 𝑟𝐴 > 𝑟𝐸) <

𝑀𝑑

�̅�(𝑌𝐸 , 𝑟𝐸) =

�̅�

�̅� ,

e quindi

𝑀𝑑

�̅�(𝑌𝐸 , 𝑟𝐴 > 𝑟𝐸) <

�̅�

�̅� .

Poiché il pubblico detiene più moneta di quella che desidera, cercherà di cederne una

parte in cambio di titoli. All’eccesso di offerta di moneta corrisponde quindi un eccesso

di domanda di titoli che provoca un aumento del loro prezzo e una caduta del tasso di

interesse:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌𝐸 , 𝑟𝐴 > 𝑟𝐸) >

𝐵𝑠

�̅� → 𝑃𝐵 ↑ → 𝑟 ↓.

Possiamo quindi concludere che, in corrispondenza del punto A, il sistema si trova in

una situazione instabile, perché gli squilibri sul mercato dei beni e sul mercato della

moneta determinano una diminuzione sia del livello del reddito che del tasso di

interesse. Di conseguenza, il sistema si sposta verso una nuova combinazione (𝑌, 𝑟)

caratterizzata da valori del reddito (𝑌 < 𝑌𝐸) e del tasso di interesse (𝑟 < 𝑟𝐸) inferiori a

quelli che contraddistinguono l’equilibrio instabile individuato dal punto 𝐴. Nella

figura 67, questa nuova combinazione corrisponde al punto 𝐵.

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164

Figura 67 – Le caratteristiche di stabilità dell’equilibrio IS-LM (2)

La combinazione (𝑌𝐵 < 𝑌𝐸 , 𝑟𝐵 < 𝑟𝐴) si trova sulla curva IS. Ciò significa che il

mercato dei beni è in equilibrio:

𝐷𝐴(𝑌𝐵, 𝑟𝐵) = 𝑌𝐵.

Il mercato della moneta, invece, non è in equilibrio, perché, come il punto 𝐴, anche il

punto 𝐵 si trova sopra la curva LM. Pertanto, permane una situazione di eccesso di

offerta di moneta rispetto alla domanda:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌𝐵, 𝑟𝐵) <

�̅�

�̅� .

Come sappiamo, all’eccesso di offerta di moneta corrisponde un eccesso di domanda di

titoli. Di conseguenza, la spinta alla crescita del prezzo dei titoli e alla diminuzione del

tasso di interesse non si arresta:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌𝐵, 𝑟𝐴 > 𝑟𝐸) >

𝐵𝑠

�̅� → 𝑃𝐵 ↑ → 𝑟 ↓ .

La caduta del tasso di interesse determina un aumento del livello degli investimenti,

della domanda aggregata, e quindi del reddito:

𝑟 ↑ → 𝐼 ↑ → 𝐷𝐴 ↑ 𝑌 ↑.

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165

Per effetto di queste dinamiche, il sistema si sposta verso il punto 𝐶 (figura 68), in

corrispondenza del quale il livello del reddito è superiore (𝑌𝐶 > 𝑌𝐵), mentre quello del

tasso di interesse è inferiore (𝑟𝐶 < 𝑟𝐵) rispetto ai valori osservati nel punto 𝐵.

Figura 68 – Le caratteristiche di stabilità dell’equilibrio IS-LM (3)

La coppia di valori di 𝑌 e di 𝑟 corrispondente al punto 𝐶 si trova sulla LM. Ciò significa

che il mercato della moneta è in equilibrio. Infatti:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌𝐶 , 𝑟𝐶) =

�̅�

�̅� .

Tuttavia, ora è il mercato dei beni a non essere più in equilibrio, perché il punto 𝐶 è

situato al di sotto della curva IS. Come abbiamo visto in precedenza, tutte le

combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 che stanno al di sotto della curva IS contraddistinguono una

situazione di eccesso di domanda di beni. Pertanto:

𝐷𝐴(𝑌𝐶 , 𝑟𝐶) > 𝑌𝐶 .

L’eccesso di domanda spinge le imprese ad aumentare la produzione di beni. La

corrispondente variazione del reddito però modifica l’equilibrio sul mercato della

moneta, perché aumenta anche la quantità di moneta domandata. Di conseguenza, si

registra un eccesso di domanda di moneta:

𝑀𝑑

�̅�(𝑌 > 𝑌𝐶 , 𝑟𝐶) >

𝑀𝑑

�̅�(𝑌𝐶 , 𝑟𝐶) =

�̅�

�̅� ,

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166

e quindi

𝑀𝑑

�̅�(𝑌 > 𝑌𝐶 , 𝑟𝐶) >

�̅�

�̅� .

Poiché il pubblico cercherà di soddisfare la domanda di moneta aggiuntiva offrendo

titoli in cambio di moneta, si registra un eccesso di offerta di titoli che provoca una

diminuzione del loro prezzo e un aumento del tasso di interesse:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌 > 𝑌𝐶 , 𝑟𝐶) <

𝐵𝑠

�̅� → 𝑃𝐵 ↓ → 𝑟 ↑ .

Figura 69 – Le caratteristiche di stabilità dell’equilibrio IS-LM (4)

Il sistema si sposta verso il punto 𝐷 indicato nella figura 69, in corrispondenza del

quale, rispetto alla coppia di valori di 𝑌 e di 𝑟 che caratterizzava il punto 𝐶, sia il livello

del reddito (𝑌𝐷 > 𝑌𝐶) che quello del tasso di interesse (𝑟𝐷 > 𝑟𝐶) sono più elevati.

Questi esempi mostrano che il sistema, partendo da una posizione di squilibrio come

quella indicata dal punto 𝐴, converge verso il punto di equilibrio 𝐸. In corrispondenza

della combinazione 𝐸, entrambi i mercati sono in equilibrio e i valori del reddito e del

tasso interesse rimarranno stabili.

La seconda caratteristica rilevante dell’equilibrio IS-LM consiste nel fatto che non

necessariamente il reddito di equilibrio (𝒀𝑬) determinato dalla intersezione tra la

curva IS e la curva LM corrisponde all’equilibrio di piena occupazione (𝒀𝑷𝑶).

Infatti, generalmente 𝑌𝐸 < 𝑌𝑃𝑂, come indicato nella figura 70.

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167

Figura 70 – L’equilibrio IS-LM e il reddito di piena occupazione

Ricordiamo quali sono le caratteristiche del reddito di piena occupazione. Si tratta

del reddito ottenuto impiegando tutti i lavoratori disposti a lavorare al salario che

assicura l’equilibrio sul mercato del lavoro. Supponiamo che il mercato del lavoro sia

rappresentato dalle curve di domanda e di offerta di lavoro tracciate nella figura 71.

Assumiamo, inoltre, che il salario reale sia pari proprio a 𝑊 𝑃⁄ 0. Secondo la teoria

neoclassica, in corrispondenza di 𝑊 𝑃⁄ 0 il sistema si trova in una situazione di piena

occupazione (𝑁𝑃0), perché in base alla legge di Say le decisioni di produzione

assicurano la creazione di un flusso di domanda aggregata capace di assorbire il reddito

di piena occupazione. A giudizio di Keynes, invece, nelle economie contemporanee la

legge di Say non vale, perché le decisioni di produzione sono condizionate dal livello

della domanda aggregata. In altri termini, il livello della produzione, e quindi del

reddito, dipendono dalle decisioni di consumo e di investimento. In coerenza con il

principio della domanda effettiva, nel modello IS-LM il reddito di equilibrio (𝑌𝐸) è

determinato proprio dal livello della domanda aggregata. Per questo motivo, esso può

essere inferiore al livello del reddito di piena occupazione (𝑌𝑃𝑂):

𝐷𝐴 → 𝑌 = 𝑌𝐸 < 𝑌𝑃𝑂 .

In tal caso, il numero di lavoratori impiegati dalle imprese è pari a 𝑁𝐸 < 𝑁𝑃𝑂, anche

quando il salario reale è pari a 𝑊 𝑃⁄ 0 (figura 71).

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168

Figura 71 – La disoccupazione involontaria in corrispondenza

del salario di equilibrio sul mercato del lavoro

4.4. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria

Secondo Keynes, le autorità di politica economica sono in grado di stimolare il livello

della domanda aggregata, e quindi di espandere il livello dell’occupazione nei casi in

cui il sistema si trovi in una situazione di disoccupazione involontaria come quella

descritta poco sopra. A tal fine, le autorità di governo e la banca centrale possono

manovrare gli strumenti della politica fiscale e della politica monetaria.

Per analizzare gli effetti prodotti dalla politica fiscale e dalla politica monetaria

utilizziamo lo schema concettuale del modello IS-LM.

Consideriamo, in primo luogo, i risultati di una manovra di politica fiscale. Le

autorità di governo possono incidere sui livelli della domanda aggregata e

dell’occupazione attraverso la spesa pubblica (𝐺) e la pressione fiscale (𝑇). In

particolare, agendo sull’imposizione fiscale il governo può influenzare il livello del

reddito disponibile, e quindi la capacità di spesa delle famiglie.

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Gli effetti di una variazione della spesa pubblica sono già stati descritti quando

abbiamo esaminato i meccanismi di funzionamento del modello reddito-spesa. La

figura 72 ci consente di ampliare l’analisi al contesto del modello IS-LM.

Figura 72 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica

nel modello reddito-spesa e nel modello IS-LM.

Il grafico inferiore descrive l’equilibrio IS-LM per un dato valore della spesa

pubblica. Per 𝐺 = 𝐺0̅̅ ̅ l’equilibrio IS-LM corrisponde al punto 𝐸, con 𝑌 = 𝑌𝐸 e 𝑟 = 𝑟𝐸.

Il grafico superiore, invece, riproduce l’equilibrio sul mercato dei beni nel modello

reddito-spesa. Ricordiamo che questo equilibrio è determinato in corrispondenza di un

dato valore del tasso d’interesse, che ipotizziamo essere pari a 𝑟𝐸, il valore, cioè, che

definisce la posizione di equilibrio nell’ambito del modello IS-LM.

Se la spesa pubblica passa da �̅�0 a �̅�1 > �̅�0, non aumenta soltanto la spesa delle

amministrazioni pubbliche, ma anche il livello della domanda aggregata e quello del

reddito. Come si evince dall’esame del grafico superiore, l’incremento di 𝐺 determina

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uno spostamento verso l’alto della curva di domanda aggregata. Come sappiamo, nel

modello reddito-spesa il livello del tasso di interesse è dato. In altre parole, esso non

varia al variare del livello della spesa pubblica. Pertanto, l’aumento della domanda

aggregata causa un incremento del reddito, che raggiunge un valore pari a 𝑌1.

Il grafico inferiore descrive gli effetti della variazione di 𝐺 nell’ambito del modello

IS-LM. L’aumento di 𝐺 determina uno spostamento della IS verso destra, perché, a

parità di tasso di interesse, la domanda aggregata cresce. In corrispondenza del tasso di

interesse 𝑟𝐸 la 𝐼𝑆(�̅�1) passa per il punto 1, in cui il livello del reddito è pari a 𝑌1. Il

livello del reddito determinato in conseguenza dello spostamento della curva IS è uguale

a quello definito nell’ambito del modello reddito-spesa, ove, per ipotesi, il tasso di

interesse non varia (𝑟 = 𝑟𝐸).

Tuttavia, nel modello IS-LM il sistema non può restare nella posizione individuata

dal punto 1, perché in tale posizione è in equilibrio il mercato dei beni, ma non quello

della moneta. In particolare, quando 𝑌 = 𝑌1 e 𝑟 = 𝑟𝐸, sul mercato della moneta si

registra un eccesso di domanda (il punto 1 si trova al di sotto della LM):

𝑀𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟𝐸) >

𝑀𝑑

�̅�(𝑌𝐸 , 𝑟𝐸) =

�̅�

�̅� ,

e quindi

𝑀𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟𝐸) >

�̅�

�̅� .

Come sappiamo, a questo squilibrio sul mercato della moneta corrisponde un eccesso di

offerta di titoli che determina una caduta del loro prezzo e un aumento del tasso di

interesse:

𝐵𝑑

�̅�(𝑌1, 𝑟𝐸) <

𝐵𝑠

�̅� → 𝑃𝐵 ↓ → 𝑟 ↑.

L’aumento del tasso di interesse provoca una contrazione degli investimenti che

produce un effetto restrittivo sul livello del reddito, parzialmente controbilanciato

dall’effetto espansivo prodotto dall’iniziale incremento della spesa pubblica:

se 𝑟 ↑ → 𝐼 ↓ → 𝑌 ↓.

Il sistema si sposta verso una combinazione (𝑌, 𝑟), quella individuata dal punto 2 nella

parte inferiore della figura 72, caratterizzata da un valore del tasso di interesse

maggiore e da un livello del reddito minore (𝑌2 < 𝑌1, 𝑟2 > 𝑟𝐸) rispetto a quelli

individuati nel punto 1. Pertanto, nell’ambito del modello IS-LM gli effetti espansivi di

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un dato incremento di spesa pubblica sono inferiori a quelli misurati nel contesto del

modello reddito-spesa:

𝑑�̅� → 𝑑𝑌 = 𝑌1 − 𝑌𝐸 (modello reddito-spesa)

𝑑�̅� → 𝑑𝑌 = 𝑌2 − 𝑌𝐸 < (𝑌1 − 𝑌𝐸) (modello IS-LM).

La ragione di questa differenza deriva dal fatto che nel modello reddito-spesa gli

effetti della variazione del reddito sul tasso di interesse vengono trascurati, perché si

assume che il tasso di interesse non vari al variare del reddito. Nel modello IS-LM,

invece, si tiene conto dell’interdipendenza tra il mercato dei beni e quello della moneta:

𝑠𝑒 �̅� ↑ → 𝑌 ↑ → 𝑀𝑑

�̅�(𝑌 ↑) >

�̅�

�̅� → 𝑟 ↑ → 𝐼 ↓ → 𝑌 ↓.

Le autorità possono influenzare il livello del reddito anche attraverso una manovra di

politica monetaria.

Figura 73 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta nel modello IS-LM

Nel modello IS-LM la politica monetaria coincide con la manovra della quantità di

moneta. Poiché il livello dei prezzi è dato, le decisioni delle autorità monetarie

riguardanti la quantità nominale di moneta (𝑀) determinano anche la quantità di

moneta in termini reali

Il modello IS-LM definisce la seguente relazione causale tra quantità di moneta (𝑀)

e livello del reddito (𝑌):

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𝑀 ↑ → 𝑟 ↓ → 𝐼 ↑ → 𝑌 ↑.

Questa sequenza causale può essere illustrata con l’aiuto della figura 73. Partiamo

dall’equilibrio IS-LM corrispondente al punto 𝐸. La LM che passa per il punto 𝐸 è

definita in relazione a una quantità reale di moneta pari a �̅�0 𝑃⁄ . Supponiamo che le

autorità monetarie decidano di espandere l’offerta di moneta portandola a un livello pari

a �̅�1 𝑃⁄ > �̅�0 𝑃⁄ .

Come abbiamo visto in precedenza, un aumento della quantità di moneta comporta

uno spostamento della LM verso destra. Pertanto, in corrispondenza di 𝑟𝐸, sul mercato

della moneta si registra un eccesso di offerta di moneta (il punto 𝐸 si trova sopra la

curva LM):

�̅�1

�̅�>�̅�0

�̅�=𝑀𝑑

�̅�(𝑌𝐸 , 𝑟𝐸).

Simmetricamente, sul mercato dei titoli si registra un eccesso di domanda, perché la

banca centrale offre moneta domandando titoli:

𝑑�̅�

�̅�> 0 → 𝑑

𝐵𝑑

�̅�𝐵𝐶 = 𝑑

�̅�

�̅� ,

e quindi

𝑑𝐵𝑑

�̅�𝐵𝐶 +

𝐵𝑑

�̅�(𝑌𝐸 , 𝑟𝐸) >

𝐵𝑠

�̅� → 𝑃𝐵 ↑ → 𝑟 ↓ .

L’eccesso di domanda di titoli provoca un aumento del loro prezzo e una caduta del

tasso di interesse. Pertanto, il sistema tende a spostarsi verso il punto 1 caratterizzato

dalla combinazione (𝑌𝐸 , 𝑟1 < 𝑟𝐸). Tuttavia, in corrispondenza di questa coppia di valori

di 𝑌 e di 𝑟 il sistema non è in equilibrio, perché il punto 1 si trova al di sotto della IS. Di

conseguenza, sul mercato dei beni si registra un eccesso di domanda aggregata:

𝐷𝐴(𝑌𝐸 , 𝑟1 < 𝑟𝐸) > 𝐷𝐴(𝑌𝐸 , 𝑟𝐸) = 𝑌𝐸,

e quindi

𝐷𝐴(𝑌𝐸 , 𝑟1 < 𝑟𝐸) > 𝑌𝐸 → 𝑌 ↑.

Il livello del reddito aumenta per effetto dell’incremento degli investimenti. La crescita

del reddito è accompagnata da un aumento della domanda di moneta che si traduce in

un incremento del tasso di interesse. Pertanto, il sistema si sposta verso la nuova

situazione di equilibrio corrispondente al punto 2 (𝑌2, 𝑟2), in cui:

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𝑀𝑑

�̅�(𝑌2, 𝑟2) =

�̅�1

�̅� , e

𝐷𝐴(𝑌2, 𝑟2) = 𝑌2.

In conclusione, pur specificando le determinanti del tasso di interesse e

l’interdipendenza tra il mercato della moneta e quello dei beni, il modello IS-LM

presenta ancora notevoli limiti. In particolare, esso:

1. fa riferimento al contesto di una economia chiusa agli scambi con l’estero,

2. si basa sull’assunzione che i salari monetari e i prezzi siano dati, e

3. identifica la moneta con le passività emesse dalla banca centrale, senza tenere in

conto la presenza della moneta di origine bancaria.

5. Il modello IS-LM per una economia aperta

La versione del modello IS-LM riferita al caso di una economia aperta agli scambi con

l’estero prende anche il nome di modello Mundell-Fleming, in omaggio ai due

economisti che hanno contribuito alla sua elaborazione.

5.1. Il mercato dei beni in una economia aperta

Iniziamo la nostra analisi del modello Mundell-Fleming, descrivendo il mercato dei

beni in una economia aperta.

In precedenza, la descrizione del mercato dei beni ci ha permesso di illustrare il

principio keynesiano della domanda effettiva, basato sulla relazione causale:

𝐷𝐴 → 𝑌.

Rispetto a una economia chiusa agli scambi con l’estero, la composizione della

domanda aggregata (𝐷𝐴) cambia, perché è necessario prendere in considerazione anche

le esportazioni, ovvero la domanda di prodotti nazionali proveniente da soggetti

residenti all’estero (𝐸𝑆𝑃). Pertanto, avremo:

a) 𝐷𝐴 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝐸𝑆𝑃.

Inoltre, in una economia aperta la domanda aggregata complessiva non genera un

equivalente incremento del reddito nazionale (𝑌), poiché una parte della domanda

stessa viene soddisfatta da produttori esteri, dando così origine a un flusso di

importazioni di beni (𝐼𝑀𝑃). Di conseguenza, vale la seguente relazione di equilibrio:

b) 𝐷𝐴 = 𝑌 + 𝐼𝑀𝑃.

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Sostituendo la a) nella b), otteniamo:

𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝐸𝑆𝑃 = 𝑌 + 𝐼𝑀𝑃,

e quindi

c) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝐸𝑆𝑃 − 𝐼𝑀𝑃.

5.1.1. Le diverse nozioni di tasso di cambio

Per sommare le grandezze che compaiono nella condizione di equilibrio per il mercato

dei beni in una economia aperta, è necessario poterle esprimere in una stessa unità di

misura. In altre parole, occorre che le grandezze economiche prese in considerazione

siano tra loro omogenee. Nel caso di una economia aperta, 𝐶, 𝐼 e 𝐺 sono espressi in

moneta nazionale. Anche le esportazioni, che corrispondono a beni e servizi prodotti

all’interno di un paese, sono espresse in valuta nazionale. Le importazioni, invece, che

sono rappresentate da beni e servizi prodotti all’estero, sono espresse in valuta estera.

Il valore delle importazioni non è quindi immediatamente confrontabile con il valore

delle altre grandezze prese in considerazione.

Al fine di rendere omogenee le grandezze economiche che definiscono il livello del

reddito nazionale (𝑌), è necessario introdurre la nozione di tasso di cambio.

Per semplicità, consideriamo un mondo suddiviso in due parti, composte, da un lato,

dal nostro paese di riferimento, in cui viene usata la valuta nazionale costituita dall’euro

(€), e, dall’altro, dal resto del mondo, in cui viene impiegata la valuta estera data dal

dollaro ($).

E’ possibile specificare due distinte definizioni di tasso di cambio tra queste due

valute:

1. Il tasso di cambio nominale, e

2. Il tasso di cambio reale.

A sua volta, anche il tasso di cambio nominale può essere definito in due modi,

ovvero come:

a) prezzo della valuta nazionale espresso in termini di valuta estera (ovvero come

numero di dollari ($) necessari per acquistare un euro (€)), e

b) prezzo della valuta estera espresso in termini di valuta nazionale (ovvero come

numero di euro (€) necessari per acquistare un dollaro ($)).

Nelle nostre lezioni utilizzeremo la prima definizione di tasso di cambio nominale.

Pertanto, da qui in avanti il tasso di cambio nominale (𝑬) indicherà la quantità di

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valuta estera (nel caso specifico, la quantità di dollari) necessaria per l’acquisto di una

unità di valuta nazionale (euro):

𝐸 → $ per acquistare 1 €.

Un aumento di 𝐸 (𝐸 ↑) significa che occorre un numero maggiore di dollari per

acquistare un euro. In questi casi, si usa affermare che si è registrato un apprezzamento

o una rivalutazione del tasso di cambio nominale.

Al contrario, una riduzione di 𝐸 (𝐸 ↓) indica che è diminuita la quantità di dollari

necessaria all’acquisto di un euro. In altri termini, in questi casi, il tasso di cambio

nominale ha subito un deprezzamento o una svalutazione.

Il tasso di cambio reale, invece, offre una misura della competitività di prezzo dei

prodotti nazionali rispetto ai prodotti esteri.

Il significato di questo concetto può essere spiegato attraverso un semplice esempio

numerico. Consideriamo due prodotti omogenei, ad esempio due automobili della stessa

categoria, realizzati l’uno in Europa, e l’altro negli Stati Uniti. Supponiamo, inoltre, che

il prezzo dell’auto europea (𝑃) sia pari a 10.000 €, mentre quello dell’auto americana

(𝑃∗) è pari a 10.000 $.

Ipotizziamo, poi, che i costi di trasporto per il trasferimento di beni tra i paesi europei e

gli Stati Uniti siano nulli. Di conseguenza, ogni consumatore europeo o americano può

acquistare l’automobile europea al prezzo di 10.000 €, oppure quella americana al

prezzo di 10.000 $. Per stabilire quale delle due auto sia più conveniente in termini di

prezzo, ciascun consumatore deve confrontare i prezzi dell’auto europea e di quella

americana facendo riferimento a una stessa unità di misura. A tale scopo, il singolo

consumatore deve conoscere il tasso di cambio nominale (𝐸). Immaginiamo che il tasso

di cambio sia 1:1, ovvero che:

𝐸 = 1 (1 $ 1 €).⁄

Pertanto, il prezzo dell’auto europea espresso in termini di dollari è pari a:

𝐸 ∙ 𝑃 = 1 $ ∙ 10.000 € = 10.000 $.

In questo caso, il consumatore americano è indifferente rispetto all’acquisto di un’auto

europea o di un’auto americana, perché il loro costo è uguale, cioè pari a 10.000 $.

La stessa conclusione vale anche per il consumatore europeo che calcola il prezzo in

euro di una automobile costruita negli Sati Uniti. Egli, infatti, si chiederà quanti euro

dovrebbe spendere per acquistare un’auto americana che costa 10.000 $. Poiché il tasso

di cambio nominale indica la quantità di dollari che si possono ottenere in cambio di un

euro, la quantità di euro equivalente a 10.000 $, che indichiamo con il simbolo 𝑥, è pari

a:

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176

𝑥 =10.000 $

𝐸 .

In corrispondenza di un tasso di cambio nominale 𝐸 = 1, otteniamo:

𝑥 =10.000 $

1= 10.000 € .

Anche il consumatore europeo è quindi del tutto indifferente rispetto all’acquisto di una

automobile costruita in Europa o negli Stati Uniti.

E’ possibile esprimere questa condizione di indifferenza per l’acquisto di prodotti

nazionali o esteri, specificando il rapporto tra i prezzi delle due automobili espressi in

dollari:

𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗=

Prezzo dell'auto europea in $

Prezzo dell'auto americana in $ .

Come abbiamo visto poco sopra, nel nostro esempio questo rapporto è pari a 1. In tale

circostanza, vige una situazione di equivalenza o di indifferenza rispetto all’acquisto del

prodotto nazionale o di quello estero.

Naturalmente, il valore del rapporto di cui sopra cambia, se si modificano i prezzi (𝑃

e/o 𝑃∗), oppure il livello del tasso di cambio nominale (𝐸). Supponiamo, per esempio,

che si osservi una rivalutazione del tasso di cambio nominale (𝐸 ↑), e che dopo la

rivalutazione occorrano 1,3 $ per acquistare 1 € (𝐸 = 1,3 $ 1 €)⁄ .

A seguito della rivalutazione dell’euro, la competitività di prezzo tra l’auto costruita

in Europa e quella realizzata negli Stati Uniti si modifica. In effetti, il prezzo dell’auto

europea in termini di dollari diventa:

𝐸 ∙ 𝑃 = 1,3 $ 1 €⁄ ∙ 10.000 € = 13.000 $.

Per i consumatori statunitensi, l’auto europea è dunque diventata più costosa, mentre

quella costruita nel loro paese è diventata più conveniente.

La stessa conclusione vale per i consumatori europei, che, in corrispondenza della

mutata condizione di cambio tra il dollaro e l’euro, troveranno anch’essi più

conveniente acquistare una automobile prodotta negli Stati Uniti. Infatti, il prezzo in

euro dell’auto costruita in Europa è sempre pari a 10.000 €, mentre il prezzo in euro

dell’auto realizzata negli Stati Uniti è sensibilmente calato, essendo ora pari a:

𝑥 =10.000 $

𝐸=10.000 $

1,3= 7.692 € .

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In sintesi, la rivalutazione del tasso di cambio nominale (𝐸) peggiora la competitività

dei prodotti nazionali in rapporto a quelli esteri, perché rende più costosi i primi rispetto

ai secondi. La variazione della competitività di prezzo è misurata dal rapporto:

𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗=

Prezzo dell'auto europea in $

Prezzo dell'auto americana in $=13.000

10.000= 1,3.

Un aumento del valore di questo rapporto indica un peggioramento della competitività

di prezzo del prodotto nazionale rispetto a quello estero. Infatti:

se 𝐸 ↑ → 𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗↑.

Di conseguenza:

i) la convenienza del consumatore statunitense ad acquistare una automobile europea si

riduce, mentre

ii) aumenta la convenienza del consumatore europeo ad acquistare una automobile

costruita negli Stati Uniti.

Per definire il tasso di cambio reale (𝜀) riscriviamo il rapporto di cui sopra

utilizzando le seguenti grandezze:

𝐸 = tasso di cambio nominale,

𝑃 = indice dei prezzi dei prodotti e dei servizi realizzati in Europa

(deflatore del PIL del paese nazionale), e

𝑃∗ = indice dei prezzi dei prodotti e dei servizi realizzati negli Stati Uniti

(deflatore del PIL USA).

Pertanto, il tasso di cambio reale corrisponde a:

𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗ .

In sintesi:

una rivalutazione del tasso di cambio reale (𝜀 =𝐸∙𝑃

𝑃∗ ↑) peggiora la competitività di

prezzo dei prodotti nazionali;

viceversa, una svalutazione del tasso di cambio reale (𝜀 =𝐸∙𝑃

𝑃∗↓) migliora la

competitività di prezzo dei prodotti nazionali.

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Sino ad ora abbiamo preso in considerazione soltanto due valute. Tuttavia, nella

realtà ne esiste un numero molto più elevato. E’ quindi possibile calcolare numerosi

tassi di cambio bilaterali tra una valuta nazionale e le diverse valute estere. Inoltre, è

possibile calcolare anche un tasso di cambio multilaterale corrispondente alla media

dei tassi di cambio bilaterali, ponderata in base all’importanza degli scambi economici

intercorrenti con i diversi paesi esteri.

Una volta introdotto il concetto di tasso di cambio, possiamo esprimere le

componenti del reddito prodotto in una economia aperta in termini omogenei.

A tal fine, ricordiamo la distinzione tra:

𝑌 = reddito reale (misurato a prezzi correnti), e

𝑌𝑁 = reddito nominale (misurato a prezzi costanti).

Ricordiamo, inoltre, il concetto di deflatore del PIL (𝑃 =𝑌𝑁

𝑌), da cui si ricavano le

seguenti due relazioni:

𝑌𝑁 = 𝑌 ∙ 𝑃 (reddito nominale), e

𝑌 =𝑌𝑁𝑃 (reddito reale).

Partendo dalla relazione c) vista in precedenza, possiamo scrivere la seguente

definizione di reddito nominale:

d) 𝑌𝑁 = 𝐶𝑁 + 𝐼𝑁 + 𝐺𝑁 + 𝐸𝑆𝑃𝑁 − 𝐼𝑀𝑃𝑁 .

Ogni grandezza nominale può essere espressa come prodotto tra la corrispondente

grandezza in termini reali e l’indice dei prezzi. Avremo quindi:

𝐶𝑁 = 𝐶 ∙ 𝑃, 𝐼𝑁 = 𝐼 ∙ 𝑃 e 𝐺𝑁 = 𝐺 ∙ 𝑃.

Indicando con 𝑋 il valore delle esportazioni in termini reali, risulterà:

𝐸𝑆𝑃𝑁 = 𝑋 ∙ 𝑃.

Tutte le grandezze nominali definite sopra sono state espresse in termini di euro (𝑃,

infatti, rappresenta il deflatore del PIL nazionale). Per completare la definizione del PIL

nominale (𝑌𝑁) è necessario specificare anche il valore nominale delle importazioni in

termini di euro.

A tale scopo, indichiamo con 𝐼𝑀 il valore delle importazioni in termini reali e con 𝑃∗

l’indice dei prezzi dei beni importati in valuta estera (dollari). Pertanto, l’espressione:

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𝐼𝑀 ∙ 𝑃∗

corrisponde al valore nominale delle importazioni in termini di dollari. Per ottenere il

valore nominale delle importazioni in termini di euro dobbiamo dividere il valore delle

importazioni espresso in dollari per il tasso di cambio nominale (𝐸). Avremo quindi:

𝐼𝑀𝑃𝑁 =𝐼𝑀 ∙ 𝑃∗

𝐸= importazioni nominali misurate in euro.

Di conseguenza, possiamo scrivere:

e) 𝑌𝑁 = 𝐶𝑁 + 𝐼𝑁 + 𝐺𝑁 + 𝑋 ∙ 𝑃 −𝐼𝑀 ∙ 𝑃∗

𝐸 .

Partendo da questa espressione, si ricava la seguente equazione per il reddito reale (𝑌):

f) 𝑌 =𝑌𝑁𝑃=𝐶𝑁𝑃+𝐼𝑁𝑃+𝐺𝑁𝑃+𝑋 ∙ 𝑃

𝑃−𝐼𝑀 ∙ 𝑃∗

𝐸∙1

𝑃 .

Ponendo:

𝐶𝑁𝑃= 𝐶,

𝐼𝑁𝑃= 𝐼 e

𝐺𝑁𝑃= 𝐺, si ottiene

g) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 − 𝐼𝑀 ∙ (𝑃∗

𝐸 ∙ 𝑃).

E poiché:

𝑃∗

𝐸 ∙ 𝑃=

1

𝐸 ∙ 𝑃𝑃∗

=1

𝜀, si può scrivere

1) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀 .

5.1.2. Le determinanti delle esportazioni e delle importazioni

Per completare la descrizione del mercato dei beni, dobbiamo specificare i fattori che

influenzano le diverse componenti della domanda aggregata. Per quanto riguarda 𝐶, 𝐼 e

𝐺, valgono le considerazioni svolte con riferimento alla realtà di una economia chiusa

agli scambi con l’estero:

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2) 𝐶 = 𝐶(𝑌 − �̅�)

3) 𝐼 = 𝐼(𝜑, 𝑟)

4) 𝐺 = �̅�.

Restano quindi da individuare le determinanti delle esportazioni (𝑋) e delle

importazioni (𝐼𝑀) in termini reali.

Le esportazioni in termini reali (𝑿) sono funzione di due fattori. In primo luogo,

esse dipendono dal reddito del resto del mondo (𝒀∗). Possiamo infatti assumere che

esista una relazione diretta tra il livello di 𝑌∗ e le esportazioni, perché, a parità di altri

fattori, se crescono i redditi dei paesi esteri (Stati Uniti, Cina, Giappone, etc.) aumenta

la domanda di prodotti e servizi nazionali espressa da soggetti stranieri:

se 𝑌∗ ↑ → 𝑋 ↑ , e

se 𝑌∗ ↓ → 𝑋 ↓.

In secondo luogo, le esportazioni in termini reali dipendono dalla competitività di

prezzo dei prodotti nazionali rispetto a quelli esteri. Esse, cioè, sono funzione anche

del tasso di cambio reale (𝜀). Un aumento di 𝜀 rende più costosi i prodotti nazionali per

i consumatori stranieri, determinando una riduzione delle esportazioni reali (𝑋). Al

contrario, una svalutazione del tasso di cambio reale provoca un incremento delle

esportazioni reali:

se 𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗↑ → competitività peggiora → 𝑋 ↓ , e

se 𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗↓ → competitività migliora → 𝑋 ↑.

In definitiva, possiamo quindi scrivere la seguente equazione:

5) 𝑋 = 𝑋(𝑌∗, 𝜀) con 𝑑𝑋

𝑑𝑌∗> 0 e

𝑑𝑋

𝑑𝜀< 0.

Anche le importazioni in termini reali (𝑰𝑴) sono funzione di due fattori. In primo

luogo, infatti, esse dipendono dal livello del reddito nazionale (𝒀), perché a un

aumento del reddito disponibile dei soggetti nazionali corrisponde una crescita della

loro domanda di beni, che si indirizza non solo ai beni e servizi prodotti internamente,

ma anche a quelli prodotti all’estero. Pertanto, ci aspettiamo che esista una relazione

diretta tra il reddito reale generato all’interno del paese (𝑌) e le importazioni di beni e

servizi in termini reali (𝐼𝑀):

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se 𝑌 ↑ → 𝐼𝑀 ↑ , e

se 𝑌 ↓ → 𝐼𝑀 ↓.

Il secondo fattore che incide sul volume delle importazioni è anche in questo caso

costituito dalla competitività di prezzo dei beni e dei servizi nazionali rispetto a quelli

esteri, e quindi dal livello del tasso di cambio reale (𝜀). Una rivalutazione del tasso di

cambio reale rende più costosi i beni e i servizi nazionali, aumentando così la

convenienza ad acquistare i beni e i servizi realizzati all’estero. Viceversa, una

svalutazione del tasso di cambio reale, aumenta la convenienza all’acquisto di beni e

servizi realizzati internamente, determinando una contrazione delle importazioni:

se 𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗↑ → competitività peggiora → 𝐼𝑀 ↑ , e

se 𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗↓ → competitività migliora → 𝑋 ↑.

Avremo quindi la seguente funzione delle importazioni in termini reali:

6) 𝐼𝑀 = 𝐼𝑀(𝑌, 𝜀) con 𝑑𝑋

𝑑𝑌> 0 e

𝑑𝐼𝑀

𝑑𝜀> 0.

5.1.3. La derivazione della curva IS in economia aperta

Sostituendo le equazioni 2), 3), 4), 5) e 6) nella equazione 1) otteniamo l’espressione

dell’equazione che descrive il mercato dei beni in una economia aperta, e che

corrisponde alla curva IS relativa a una economia aperta agli scambi con l’estero:

1) 𝑌 = 𝐶(𝑌 − �̅�) + 𝐼(�̅�, 𝑟) + �̅� + 𝑋(𝑌∗, 𝜀) −𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)

𝜀 .

La differenza tra le esportazioni e le importazioni viene definita saldo commerciale

(𝑵𝑿):

𝑁𝑋 = 𝑋(𝑌∗, 𝜀) −𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)

𝜀 .

Dagli schemi dei conti di contabilità nazionale ricordiamo che:

Saldo delle partite correnti (𝑆𝑃𝐶) = (𝐸𝑆𝑃 − 𝐼𝑀𝑃)⏟ 𝑆𝑎𝑙𝑑𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑟𝑐𝑖𝑎𝑙𝑒

+ (𝑅𝑀 − 𝑅𝑋)⏟ 𝑆𝑎𝑙𝑑𝑜 𝑑𝑒𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜

.

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182

Supponiamo, per semplicità, che:

𝑅𝑀 = 𝑅𝑋 = 0.

In questo caso, il saldo delle partite correnti coincide con il saldo commerciale, ovvero:

𝑁𝑋 = 𝑋(𝑌∗, 𝜀) −𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)

𝜀= 𝑆𝑃𝐶.

Il saldo commerciale è funzione di tre variabili:

𝑁𝑋 = 𝑋(𝑌∗, 𝜀) −𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)

𝜀 → 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀).

Come varia il saldo commerciale al variare di queste tre variabili?

Vediamo innanzitutto gli effetti prodotti dalle variazioni del livello del reddito nel

resto del mondo:

𝑑𝑁𝑋

𝑑𝑌∗ ? → se 𝑌∗ ↑ → 𝑁𝑋 ?

Se 𝑌∗ ↑ → 𝑋 ↑ → (le esportazioni aumentano a parità di importazioni) → 𝑁𝑋 ↑.

Pertanto:

𝑑𝑁𝑋

𝑑𝑌∗> 0.

In secondo luogo, dobbiamo esaminare l’impatto prodotto dalle variazioni del livello

del reddito nazionale:

𝑑𝑁𝑋

𝑑𝑌 ? → se 𝑌 ↑ → 𝑁𝑋 ?

Se 𝑌 ↑ → 𝐼𝑀 ↑ → (le importazioni aumentano a parità di esportazioni) → 𝑁𝑋 ↓.

Di conseguenza:

𝑑𝑁𝑋

𝑑𝑌< 0.

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183

Infine, dobbiamo chiederci quali sono gli effetti prodotti da una variazione del tasso

di cambio reale:

𝑑𝑁𝑋

𝑑𝜀 ?

Il primo canale di influenza è quello relativo alle variazioni del valore reale delle

esportazioni:

𝜀 → 𝑋 ?

Ricordiamo che:

𝜀 =𝐸 ∙ 𝑃

𝑃∗, con 𝑃 = �̅� e 𝑃∗ = 𝑃∗̅̅ ̅.

Consideriamo il caso di una diminuzione del livello del tasso di cambio reale, ovvero

una svalutazione del cambio reale determinata da una svalutazione del tasso di cambio

nominale. Per ipotesi, infatti, l’indice dei prezzi nazionale e quello del resto del mondo

sono dati:

𝐸0 = 1 $/1 € → 𝐸1 = 0,9 $/1 € .

Se 𝑃 = 10.000 €, allora la svalutazione del tasso di cambio nominale determina una

riduzione del prezzo in dollari delle autovetture prodotte in Europa, perché 0,9 ∙

10.000 = 9.000 $ < 10.000 $. Pertanto, il volume delle esportazioni aumenta e il saldo

commerciale migliora:

se 𝜀 ↓ → 𝑋 ↑ → 𝑁𝑋 ↑.

Il secondo canale di influenza è invece quello relativo alle variazioni della quantità

di beni importati. Una svalutazione rende più competitivi i prodotti nazionali e riduce

il volume delle importazioni (𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)), provocando quindi un miglioramento del saldo

delle partite correnti:

𝜀 → 𝐼𝑀(𝑌, 𝜀) ↓ → 𝑁𝑋 ↑.

Il terzo canale, infine, si manifesta attraverso le variazioni del prezzo dei beni

importati. Una svalutazione del cambio reale indotta da una svalutazione del tasso di

cambio nominale determina un aumento del prezzo in termini di euro dei prodotti e dei

servizi realizzati nel resto del mondo. Tornando all’esempio numerico utilizzato poco

sopra, se il prezzo di una automobile costruita negli Stati Uniti è pari a 𝑃∗ = 10.000 $,

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in conseguenza di una diminuzione del tasso di cambio nominale la quantità di euro

necessari all’acquisto di tale automobile passa da 10.000 a:

10.000 $

𝐸=10.000 $

0,9= 11.111 €.

La svalutazione produce un duplice effetto di segno opposto sul valore delle

importazioni definito in euro. Infatti, se da un lato essa provoca una riduzione della

quantità dei beni importati, dall’altro essa determina un incremento del prezzo in euro

dei beni importati stessi.

In conclusione, una variazione del tasso di cambio reale produce tre effetti distinti sul

saldo commerciale:

un effetto sulle quantità esportate;

un effetto sulle quantità importate, e

un effetto sul prezzo in euro delle quantità importate.

Nel caso di una svalutazione del tasso di cambio reale, questi tre effetti possono essere

sintetizzati schematicamente nel modo seguente:

L’impatto complessivo di una variazione del tasso di cambio reale sul saldo

commerciale dipende dall’intensità relativa di questi tre effetti. I primi due effetti

possono essere definiti come effetto-quantità (effetto-quantità esportazioni ed effetto-

quantità importazioni), mentre il terzo è un effetto-prezzo (effetto-prezzo

importazioni).

Se prevalgono gli effetti-quantità, allora una svalutazione del tasso di cambio reale

determinerà un miglioramento del saldo commerciale:

𝜀 ↓ → 𝑁𝑋 ↑.

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Nel caso contrario di una rivalutazione del tasso di cambio reale, in presenza di una

prevalenza degli effetti-quantità il saldo commerciale è invece destinato a peggiorare:

𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓.

Infine, il saldo commerciale peggiora anche nei casi in cui l’effetto prezzo sui prodotti

importati prevalga sugli effetti-quantità.

Si può dimostrare che gli effetti-quantità prevalgono sull’effetto-prezzo in presenza di

una determinata condizione che prende il nome di condizione di Marshall-Lerner. Nel

prosieguo delle nostre lezioni assumeremo che valga tale condizione, e quindi che

l’impatto di una variazione del tasso di cambio reale sul saldo commerciale sia

determinato dalla prevalenza degli effetti-quantità sull’effetto prezzo.

In base alle considerazioni precedenti, riscriviamo l’equazione della curva IS per una

economia aperta agli scambi con l’estero nel modo seguente:

1) 𝑌 = 𝐶(𝑌 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀).

Se assumiamo come dati i valori di:

�̅�, 𝜑, �̅�, 𝑌∗ e 𝜀 = 𝜀,̅

abbiamo una equazione in due incognite, 𝑌 e 𝑟.

La IS definisce tutte le combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 che soddisfano l’equazione 1),

ovvero tutte le combinazioni dei livelli del reddito e del tasso di interesse coerenti con

l’equilibrio sul mercato dei beni.

Possiamo rappresentare tutte queste combinazioni attraverso un grafico, come nella

seguente figura 74.

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186

Figura 74 – Le combinazioni dei livelli del reddito e del tasso di interesse

in una economia aperta

In corrispondenza di 𝑟 = 𝑟0, il livello del reddito è pari a 𝑌 = 𝑌0. In particolare:

𝑌0 = 𝐶(𝑌0 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟0) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌0, 𝜀).

Se prendiamo in considerazione un livello del tasso di interesse superiore a 𝑟0, per

esempio 𝑟 = 𝑟1 > 𝑟0, il livello del reddito varia (𝑌1 ≠ 𝑌0). Più precisamente:

𝑌1 = 𝐶(𝑌1 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟1) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌1, 𝜀), con

𝑌1 < 𝑌0 perché 𝐼(𝜑, 𝑟1 > 𝑟0) < 𝐼(�̅�, 𝑟0).

Come nel caso di una economia chiusa agli scambi con l’estero, la IS è dunque

inclinata negativamente. Tuttavia, la IS relativa a una economia aperta differisce dalla

IS relativa a una economia chiusa per due caratteristiche.

In primo luogo, varia il grado di inclinazione della curva. Il cambiamento del grado

di inclinazione della curva IS ha un importante significato economico che possiamo

illustrare confrontando i grafici delle curve IS in economia chiusa e in economia aperta.

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Figura 75 – La diversa inclinazione della curva IS in economia aperta

Cominciamo la nostra analisi dal caso di una economia chiusa agli scambi con

l’estero.

L’inclinazione della curva IS rappresenta la sensibilità del reddito (𝑌) alle variazioni

del tasso di interesse (𝑟). Tale sensibilità è influenzata da due fattori. Per poterli

evidenziare, dobbiamo innanzitutto riscrivere le equazioni (lineari) che descrivono il

mercato dei beni in una economia chiusa agli scambi con l’estero:

a) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + �̅�

b) 𝐶 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ (𝑌 − �̅�)

c) 𝐼 = 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟.

Sostituendo la b) e la c) nella a), otteniamo:

𝑌 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ (𝑌 − �̅�) + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�

𝑌 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ 𝑌 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�

𝑌 − 𝑐 ∙ 𝑌 = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�

𝑌 =1

1 − 𝑐∙ [𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅�].

Come possiamo notare, il primo fattore da cui dipende l’inclinazione della curva IS è

il valore del parametro 𝒃, che, come abbiamo visto nella prima parte del corso,

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rappresenta la sensibilità delle decisioni di investimento (𝐼) rispetto alle variazioni del

tasso di interesse (𝑟). Infatti, al variare di 𝑏, una variazione del livello del tasso di

interesse può provocare una variazione più o meno accentuata degli investimenti.

Questa circostanza emerge con chiarezza dall’esame della figura 76, che riproduce le

tre distinte rappresentazioni grafiche della funzione lineare degli investimenti definita

dall’equazione c) già viste nella precedente figura 56.

Figura 76 – La sensibilità al tasso di interesse della funzione lineare degli investimenti

Poiché le variazioni della spesa per beni di investimento provocano delle variazioni del

livello del reddito, anche queste ultime sono influenzate dal valore assunto dal

parametro 𝑏. In particolare:

se 𝑏 è elevato, una variazione del tasso di interesse, provocando una sensibile

variazione degli investimenti, determina anche una forte variazione del livello del

reddito (elevata sensibilità del reddito rispetto al tasso di interesse);

se, invece, 𝑏 è basso, una variazione del tasso di interesse, determinando una esigua

variazione degli investimenti, induce soltanto una piccola variazione del livello del

reddito (scarsa sensibilità del reddito rispetto al tasso di interesse).

Il secondo fattore da cui dipende l’inclinazione della curva IS è rappresentato dal

valore del moltiplicatore del reddito, che, come sappiamo è funzione della

propensione marginale al consumo (𝑐). A questo proposito, consideriamo il seguente

esempio numerico:

se 𝑐 = 0,75 → 1

1 − 𝑐=

1

1 − 0,75=

1

0,25= 4, mentre

se 𝑐 = 0,80 → 1

1 − 𝑐=

1

1 − 0,80=

1

0,20= 5.

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In definitiva, la sensibilità di 𝑌 rispetto a 𝑟 aumenta al crescere del moltiplicatore, e

quindi al crescere della propensione marginale al consumo.

Una volta esaminati i fattori che incidono sulla inclinazione della curva IS in una

economia chiusa, possiamo passare all’analisi del caso di una economia aperta agli

scambi con l’estero. Per determinare di quanto aumenta 𝑌, quando il livello del tasso di

interesse scende da 𝑟1 a 𝑟0, dobbiamo chiederci come variano i due parametri 𝑏 e 1

1−𝑐

passando da una economia chiusa a una economia aperta.

Supponiamo che il valore del parametro 𝑏 rimanga costante. Ciò significa che, a

parità di riduzione del livello del tasso di interesse, l’incremento degli investimenti non

varia rispetto al caso di una economia chiusa agli scambi con l’estero.

Che cosa accade, invece, al moltiplicatore (1

1−𝑐) ?

Come sappiamo, in una economia chiusa vale la seguente relazione causale:

𝐷𝐴 → 𝑌.

Pertanto, un aumento dei consumi o degli investimenti determina un aumento della

domanda aggregata che, a sua volta, provoca un incremento del livello del reddito.

Tuttavia, in una economia aperta una parte dell’aumento di domanda aggregata indotto

dall’aumento dei consumi o degli investimenti si dirige verso i prodotti e i servizi

realizzati all’estero, e viene quindi soddisfatta dalle importazioni. Di conseguenza, in

una economia aperta il valore del moltiplicatore del reddito non può che essere inferiore

a quello del moltiplicatore del reddito in una economia chiusa. Quindi, a parità di

diminuzione del livello del tasso di interesse, l’incremento di reddito indotto

dall’aumento della spesa per beni di investimento sarà inferiore rispetto a quello

osservabile in una economia chiusa agli scambi con l’estero.

Sulla base di queste considerazioni, possiamo concludere che in una economia aperta

la curva IS è più inclinata (più rigida) di quanto non lo sia in una economia chiusa,

perché le variazioni del reddito sono meno sensibili in rapporto alle variazioni del tasso

di interesse:

𝑑𝑌 = 𝑌0′ − 𝑌1

′ < 𝑑𝑌 = 𝑌0 − 𝑌1.

Partendo dalle relazioni lineari che descrivono il mercato dei beni, possiamo

determinare analiticamente il valore del moltiplicatore del reddito in una economia

aperta.

1) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀

2) 𝐶 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ (𝑌 − �̅�)

3) 𝐼 = 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟

4) 𝐺 = �̅�

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5) 𝑋 = 𝑋(𝑌∗, 𝜀)̅ → 𝑋 = �̅�

6) 𝐼𝑀 = 𝐼𝑀(𝑌, 𝜀)̅ → 𝐼𝑀 = 𝑚 ∙ 𝑌 con

𝑚 =𝑑𝐼𝑀

𝑑𝑌(propensione marginale alle importazioni) > 0

Sostituendo le equazioni 2), 3), 4), 5) e 6) nella equazione 1) otteniamo:

1) 𝑌 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ (𝑌 − �̅�) + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + �̅� −𝑚 ∙ 𝑌

𝜀̅, da cui

𝑌 = 𝐶0 + 𝑐 ∙ 𝑌 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + �̅� −𝑚 ∙ 𝑌

𝜀̅

𝑌 − 𝑐 ∙ 𝑌 +𝑚 ∙ 𝑌

𝜀̅= 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + �̅�

𝑌 ∙ (1 − 𝑐 +𝑚

𝜀̅) = 𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + �̅�

𝑌 =1

1 − 𝑐 +𝑚𝜀̅

∙ [𝐶0 − 𝑐 ∙ �̅� + 𝐼0 − 𝑏 ∙ 𝑟 + �̅� + �̅�]

Dal confronto tra il moltiplicatore del reddito in una economia aperta e il moltiplicatore

del reddito in una economia chiusa emerge che, avendo il primo un denominatore

maggiore del secondo, quest’ultimo assume un valore più elevato:

1

1 − 𝑐 +𝑚𝜀̅

< 1

1 − 𝑐 .

La seconda differenza tra la IS relativa a una economia aperta e la IS relativa a una

economia chiusa riguarda la posizione sul piano della curva.

Infatti, come si evince dalla figura 77, in una economia aperta la posizione della curva

IS sul piano è funzione del valore assunto dal tasso di cambio reale (𝜀).

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Figura 77 – La posizione della curva IS in funzione del valore del tasso di cambio reale

Nel caso di una diminuzione del valore del tasso di cambio reale la curva IS si sposta

verso destra:

se 𝜀 = 𝜀1 < 𝜀0 → 𝜀 ↓ → 𝑁𝑋 ↑ → (𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑁𝑋) ↑ → 𝑌 ↑ con 𝑌1 > 𝑌0.

Viceversa, in caso di un aumento di valore del tasso di cambio reale, la curva IS si

sposta verso sinistra:

se 𝜀 = 𝜀2 > 𝜀0 → 𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → (𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑁𝑋) ↑ → 𝑌 ↓ con 𝑌2 < 𝑌0.

5.2. La bilancia dei pagamenti

Lo studio delle relazioni economiche internazionali non si limita all’analisi delle

esportazioni e importazioni di beni e servizi, ma comprende anche l’esame dei flussi di

valuta associati alle diverse operazioni economiche messe in atto da agenti economici

residenti in paesi diversi.

5.2.1. Il saldo delle partite correnti

Ai fini dell’esame delle relazioni finanziarie internazionali, partiamo dal concetto di

saldo commerciale (𝑁𝑋), che, come abbiamo visto in precedenza, nell’ipotesi che il

saldo dei trasferimenti di reddito di un paese (𝑅𝑀 − 𝑅𝑋) sia nullo, coincide con il saldo

delle partite correnti (𝑆𝑃𝐶).

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Consideriamo ancora una volta l’equazione che descrive l’equilibrio sul mercato dei

beni in una economia aperta, e definiamo il reddito disponibile nel caso in cui il saldo

dei trasferimenti di reddito sia nullo:

a) 𝑌 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀

b) 𝑌𝑑 = 𝑌 + 𝑅𝑀 − 𝑅𝑋 con 𝑅𝑀 = 𝑅𝑋 = 0

c) 𝑌𝑑 = 𝑌.

Sostituendo la a) nella c) otteniamo l’equazione d):

d) 𝑌𝑑 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀, da cui

𝑌𝑑 − 𝐶 = 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀 .

Sottraendo a entrambi i membri di quest’ultima espressione il valore delle entrate del

settore pubblico (𝑇), possiamo scrivere:

𝑌𝑑 − 𝑇 − 𝐶 = 𝐼 + 𝐺 − 𝑇 + 𝑋 −𝐼𝑀

𝜀 .

Pertanto:

Il saldo commerciale e, per effetto dell’ipotesi di nullità del saldo dei trasferimenti di

reddito, il saldo delle partite correnti, possono quindi essere interpretati

equivalentemente come differenza tra le esportazioni e le importazioni reali o come

differenza tra il risparmio e l’investimento nazionali:

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Di conseguenza:

se 𝑁𝑋 = 0 → 𝑆 = 𝐼,

se 𝑁𝑋 > 0 → 𝑆 > 𝐼, e

se 𝑁𝑋 < 0 → 𝑆 < 𝐼.

Per comprendere il significato economico di queste relazioni, riprendiamo il concetto

di risparmio che abbiamo utilizzato quando abbiamo descritto la teoria keynesiana del

tasso di interesse. In particolare, consideriamo la relazione tra risparmio (𝑆) e ricchezza

(𝑊), e ricordiamo che, in ciascun periodo, il flusso di risparmi corrisponde alla

variazione dello stock di ricchezza:

𝑆 = 𝑑𝑊.

Come sappiamo, risparmiare significa accumulare potere d’acquisto sotto forma di

moneta e, in termini più generali, di titoli di credito. E poiché i titoli di credito sono

emessi dai debitori, l’accumulo di titoli di credito da parte dei risparmiatori coincide con

l’emissione di impegni di pagamento da parte dei debitori. Ne consegue che, in una

economia chiusa, vale necessariamente l’eguaglianza tra risparmi e investimenti:

𝑆 = 𝐼.

Infatti, ai titoli di credito accumulati dai risparmiatori corrispondono esattamente i titoli

di credito emessi dagli operatori economici nazionali. In altre parole, i debiti

equivalgono agli investimenti e viceversa.

In una economia aperta agli scambi con l’estero, tuttavia, questa equivalenza si

riscontra soltanto quando il saldo delle partite correnti è nullo:

𝑆𝑃𝐶 = 𝑁𝑋 = 0 → 𝑆 = 𝐼.

Quando, invece, il saldo delle partite correnti è attivo (𝑆𝑃𝐶 > 0), i titoli di credito

accumulati dai risparmiatori eccedono quelli emessi per finanziare la spesa per beni di

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investimento degli operatori economici nazionali. Ciò significa che esiste un credito

netto degli operatori economici nazionali nei confronti di quelli stranieri:

𝑆𝑃𝐶 = 𝑁𝑋 > 0 → 𝑆 > 𝐼.

Viceversa, quando il saldo delle partite correnti è passivo (𝑆𝑃𝐶 < 0), i titoli di credito

accumulati dai risparmiatori sono inferiori al numero di quelli emessi per finanziare gli

investimenti effettuati dagli operatori nazionali. In questo caso, quindi, si registra un

indebitamento netto degli operatori economici nazionali nei confronti di quelli stranieri:

𝑆𝑃𝐶 = 𝑁𝑋 < 0 → 𝑆 < 𝐼.

In altre parole, poiché l’ammontare dei titoli di credito emessi per finanziare gli

investimenti è superiore all’ammontare dei titoli di credito sottoscritti dai risparmiatori

nazionali, una parte degli investimenti nazionali è stata finanziata da operatori stranieri.

Quali sono gli strumenti utilizzati per rappresentare la variazione della posizione

netta creditoria o debitoria degli operatori nazionali nei confronti dell’estero?

Per rispondere a questa domanda, illustriamo il caso più semplice, supponendo che le

importazioni (𝐼𝑀) e le esportazioni (𝑋) di beni e servizi vengano regolate in contanti, e

che le monete coinvolte negli scambi commerciali tra due paesi siano costituite

dall’euro e dal dollaro.

In tal caso, un importatore che voglia acquistare beni denominati in dollari deve

procurarsi i dollari necessari alla realizzazione dei suoi piani di spesa. A tal fine, egli

acquista dollari in cambio di euro. Pertanto, una operazione di importazione dà luogo a:

una offerta di euro in cambio di dollari o, equivalentemente,

una domanda di dollari in cambio di euro.

Queste operazioni vengono gestite dalla banca centrale del paese del soggetto

importatore.

L’attività di un esportatore dà origine a una operazione esattamente simmetrica. In

questo caso, infatti, sono gli operatori stranieri che si rivolgono alla loro banca centrale

per procurarsi degli euro in cambio di dollari. Nello specifico, sarà la banca centrale

americana a chiedere euro in cambio di dollari alla BCE. Questa operazione equivale a

quella compiuta dalla BCE, quando, per finanziare le importazioni di beni nei paesi

dell’eurozona, domanda dollari in cambio di euro alla banca centrale americana. Per

semplicità, possiamo anche immaginare che gli importatori stranieri paghino i prodotti

importati in dollari, e che, successivamente, gli esportatori nazionali convertano i dollari

in euro presso la loro banca centrale nazionale. In entrambe le situazioni l’esportazione

di beni determina:

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una offerta di valuta estera (dollari) in cambio di valuta nazionale (euro), e quindi

una domanda di euro in cambio di dollari.

In definitiva, possiamo scrivere che il saldo delle partite correnti, che, a scopi di

semplificazione, abbiamo fatto coincidere con il saldo commerciale di un paese, ovvero

con la differenza tra le esportazioni e le importazioni del paese stesso, equivale alla

variazione delle riserve ufficiali in valuta della banca centrale:

𝑁𝑋 = 𝑑𝑅𝑈.

Immaginiamo, per esempio, di partire da un saldo commerciale in pareggio (𝑁𝑋 =

0):

𝑁𝑋 = 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 0.

In particolare:

𝑁𝑋 = 0 → 𝑋 =𝐼𝑀

𝜀= 1.000 €.

Supponiamo, inoltre, che il tasso di cambio nominale sia pari a 1:

𝐸 = 1 (1 $ 1 €).⁄

In questo caso, il valore complessivo delle esportazioni sarà uguale a:

𝐸 ∙ 1.000 € = (1 $ 1 €) ∙ 1.000 € = 1.000 $.⁄

Gli esportatori chiedono alla banca centrale di poter scambiare i dollari ottenuti per la

vendita di beni e servizi all’estero contro euro Pertanto:

Esportatori → cedono 1.000 $ e acquistano 1.000 €,

Banca centrale → acquista 1.000 $ e cede in cambio 1.000 €.

Per pagare le importazioni, gli importatori devono invece procurarsi un ammontare di

dollari pari a:

𝐸 ∙ 1.000 € = (1 $ 1 €) ∙ 1.000 € = 1.000 $.⁄

Di conseguenza, gli importatori si rivolgono alla banca centrale, chiedendo di poter

scambiare euro contro dollari:

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Importatori → cedono 1.000 € e acquistano 1.000 $,

Banca centrale → acquista 1.000 € e cede in cambio 1.000 $.

Complessivamente, i flussi di domanda e di offerta di euro e di dollari si bilanciano. Di

conseguenza, la variazione di riserve ufficiali è nulla, e quindi è nulla anche la

variazione di quantità di moneta (nel caso specifico, di euro) immessa nel sistema:

𝑑𝑅𝑈 = 0 → 𝑑𝑀 = 0.

Le cose cambiano, quando il saldo commerciale di un paese, che, nella ipotesi di

nullità del saldo dei trasferimenti di reddito, corrisponde al saldo delle partite correnti,

non è in pareggio:

𝑁𝑋 ≠ 0 → 𝑑𝑅𝑈 ≠ 0.

Ipotizziamo, per esempio, che il saldo commerciale (𝑁𝑋) sia uguale a 500 €, ovvero

che le esportazioni superino l’ammontare delle importazioni per un valore pari a 500 €:

𝑋 = 1.500 € > 𝐼𝑀

𝜀= 1.500 € → 𝑁𝑋 = 500 €.

Se il tasso di cambio nominale è ancora pari a 1 (1 $ 1 €)⁄ , gli esportatori riceveranno:

𝐸 ∙ 1.500 € = (1 $ 1 €) ∙ 1.500 € = 1.500 $.⁄

Anche in questo caso, i proventi delle vendite all’estero vengono cambiati presso la

banca centrale:

Esportatori → cedono 1.500 $ e acquistano 1.500 €,

Banca centrale → acquista 1.500 $ e cede in cambio 1.500 €.

A loro volta, poiché le importazioni hanno un controvalore complessivo uguale a 1.000

€, gli importatori si rivolgono alla banca centrale per ottenere:

𝐸 ∙ 1.000 € = (1 $ 1 €) ∙ 1.000 € = 1.000 $.⁄

Di conseguenza:

Importatori → cedono 1.000 € e acquistano 1.000 $,

Banca centrale → acquista 1.000 € e cede in cambio 1.000 $.

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Pertanto, a un aumento delle riserve in dollari della banca centrale pari a 500 unità,

corrisponde un incremento della quantità di euro, e quindi della quantità di moneta in

circolazione, pari anch’esso a 500 unità:

𝑁𝑋 = 500 € → 𝑑𝑅𝑈 = 500 → 𝑑𝑀 = 500.

Qualora, invece, si dovesse registrare un disavanzo commerciale di 500 €, perché le

importazioni superano l’ammontare delle esportazioni per un valore uguale a 500 €:

𝑋 = 1.000 € < 𝐼𝑀

𝜀= 1.500 € → 𝑁𝑋 = −500 €,

a una riduzione delle riserve in dollari della banca centrale pari a 500 unità,

corrisponderebbe una diminuzione della quantità di euro, e quindi della quantità di

moneta in circolazione, pari anch’essa a 500 unità:

𝑁𝑋 = −500 € → 𝑑𝑅𝑈 = −500 → 𝑑𝑀 = −500.

Questi ultimi due esempi hanno dunque permesso di mettere in evidenza non soltanto

la natura della relazione tra il saldo delle partite correnti (𝑆𝑃𝐶 = 𝑁𝑋) e la variazione

delle riserve ufficiali (𝑑𝑅𝑈), ma anche l’esistenza di un secondo canale, oltre a quello

delle operazioni di mercato aperto visto in precedenza, attraverso il quale la banca

centrale può creare (o distruggere) moneta. In altri termini, esiste anche un canale

estero di creazione (o di distruzione) della moneta, corrispondente alla variazione

delle riserve ufficiali indotta da uno squilibrio del saldo delle partite correnti (del saldo

commerciale):

𝑁𝑋 = 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀.

5.2.2. I movimenti di capitale

Completiamo la nostra analisi dei flussi di valuta tra paesi diversi, introducendo la

nozione di movimenti di capitale. I movimenti di capitale consistono in operazioni

finanziarie associate all’acquisto di titoli denominati in valuta estera o in valuta

nazionale. In particolare:

gli operatori economici nazionali acquistano titoli denominati in valuta estera (titoli

del debito pubblico di paesi stranieri, oppure azioni/obbligazioni emesse da società

straniere), mentre

gli operatori economici esteri acquistano titoli denominati in valuta nazionale (titoli

del debito pubblico nazionale, oppure azioni/obbligazioni emesse da società

nazionali).

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198

Supponiamo che il saldo commerciale sia positivo e pari a 500 €. Come sappiamo, in

tal caso:

𝑁𝑋 = 500 → 𝑑𝑅𝑈 = 500 → 𝑑𝑀 = 500.

Ipotizziamo, inoltre, che il tasso di cambio nominale sia uguale a:

𝐸 = 1 (1 $ 1 €).⁄

Immaginiamo, ora, una prima operazione finanziaria consistente nell’acquisto di

titoli denominati in valuta straniera (dollari), cui corrisponde un controvalore in euro

pari a 200, da parte di agenti economici nazionali. A tal fine, gli acquirenti dei titoli

esteri devono rivolgersi alla banca centrale per ottenere una quantità di dollari uguale a:

𝐸 ∙ 200 € = (1 $ 1 €) ∙ 200 € = 200 $.⁄

Questa operazione produce un effetto analogo a quello determinato da una importazione

di beni sulle riserve ufficiali detenute dalla banca centrale. Se indichiamo con la sigla

𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 la grandezza corrispondente alla variazione delle attività finanziarie

sull’estero, ovvero l’ammontare di titoli esteri acquistati da operatori economici

nazionali, con riferimento all’esempio di cui sopra avremo:

𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 = 200, e quindi

𝑑𝑅𝑈 = 𝑁𝑋 − 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 = 500 − 200 = 300.

Pertanto, vale la seguente relazione:

𝑁𝑋 = 𝑑𝑅𝑈 + 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇.

Completiamo il nostro esempio, prendendo in considerazione una seconda

operazione finanziaria, consistente nell’acquisto di titoli denominati in valuta nazionale,

per un valore complessivo di 400 €, effettuato da parte di agenti economici stranieri. I

residenti all’estero si rivolgeranno quindi alla banca centrale per ottenere l’ammontare

di valuta nazionale necessario all’acquisto dei titoli nazionali, cedendo in cambio una

quantità di valuta straniera (dollari) pari a:

𝐸 ∙ 400 € = (1 $ 1 €) ∙ 400 € = 400 $.⁄

Questa operazione produce un effetto analogo a quello determinato da una esportazione

di beni sulle riserve ufficiali detenute dalla banca centrale. Se indichiamo con la sigla

𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 la grandezza corrispondente alla variazione delle passività finanziarie

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sull’estero, ovvero l’ammontare di titoli nazionali acquistati da operatori economici

stranieri, con riferimento al nostro esempio avremo:

𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 = 400.

Complessivamente, le transazioni in beni e servizi e le operazioni finanziarie con

l’estero hanno prodotto la seguente variazione delle riserve ufficiali detenute dalla

banca centrale:

𝑑𝑅𝑈 = 𝑁𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 − 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 = 500 + 400 − 200 = 700.

Quest’ultima relazione viene definita conto della bilancia dei pagamenti. Come

abbiamo visto, tale conto mette in evidenza gli effetti sulle riserve ufficiali detenute

dalla banca centrale prodotti dalle seguenti operazioni economiche:

transazioni commerciali in beni e servizi (𝑁𝑋), e

movimenti di capitale (𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 − 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇).

In particolare, la differenza tra la variazione delle attività finanziarie sull’estero e la

variazione delle passività finanziarie sull’estero (𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 − 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇) viene chiamata

saldo dei movimenti di capitale (𝑆𝑀𝐶). Il saldo dei movimenti di capitale assume un

valore positivo, quando l’incremento delle passività finanziarie sull’estero è maggiore

dell’incremento delle attività finanziarie sull’estero. Questa definizione può sembrare

controintuitiva. Tuttavia, il suo significato emerge con chiarezza, se si ricorda che:

𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 → afflusso di capitali dall'estero (incremento delle riserve ufficiali), e

𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 → deflusso di capitali verso l'estero (decremento delle riserve ufficiali).

5.2.3. Il saldo della bilancia dei pagamenti

Il saldo della bilancia dei pagamenti corrisponde alla somma del saldo commerciale e

del saldo dei movimenti di capitale:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋 + 𝑆𝑀𝐶 = 𝑑𝑅𝑈.

Di conseguenza:

se 𝑆𝐵𝑃 = 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 0,

se 𝑆𝐵𝑃 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 > 0, e

se 𝑆𝐵𝑃 < 0 → 𝑑𝑅𝑈 < 0.

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200

5.2.4. La curva BP e l’equilibrio nel saldo della bilancia dei pagamenti

La differenza fondamentale tra una economia aperta e una economia chiusa riguarda la

definizione degli obiettivi delle autorità di governo. Nel caso di una economia chiusa

agli scambi con l’estero, l’unico obiettivo fondamentale di politica economica consiste

nel raggiungimento della piena occupazione della forza lavoro disponibile. In

precedenza abbiamo visto come, nell’ambito del quadro concettuale fornito dal modello

IS-LM, le autorità di governo possono perseguire questo obiettivo attraverso l’uso degli

strumenti di politica fiscale e di politica monetaria.

Nel contesto di una economia aperta agli scambi con l’estero, oltre all’obiettivo della

piena occupazione della forza lavoro disponibile, le autorità di politica economica si

prefiggono anche il raggiungimento dell’equilibrio dei conti con l’estero. Infatti,

mentre è possibile registrare disavanzi temporanei delle partite correnti (della bilancia

commerciale) o della bilancia dei pagamenti, un paese non può sopportare disavanzi nei

conti con l’estero per un periodo di tempo prolungato, perché ciò comporterebbe una

continua erosione delle riserve di valuta detenute dalla sua banca centrale che, per

definizione sono limitate:

𝑆𝐵𝑃 < 0 → 𝑑𝑅𝑈 < 0.

E’ quindi necessario capire come, nell’ambito di una economia aperta, si possono

utilizzare gli strumenti della politica fiscale e della politica monetaria per raggiungere

due distinti obiettivi di politica economica, quello della piena occupazione e quello

dell’equilibrio dei conti con l’estero.

A tal fine, dobbiamo innanzitutto definire le equazioni che caratterizzano il modello

IS-LM in economia aperta. Iniziamo dalle equazioni che individuano l’equilibrio sul

mercato dei beni e il saldo della bilancia dei pagamenti:

1) 𝑌 = 𝐶(𝑌 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀)

2) 𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀) + 𝑆𝑀𝐶.

Per poter completare il modello IS-LM in economia aperta, occorre studiare i fattori

che influenzano il saldo dei movimenti di capitale (𝑆𝑀𝐶):

𝑆𝑀𝐶 = 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 − 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇,

e quindi le determinanti del comportamento dei possessori di ricchezza nazionali e

stranieri.

Ricordiamo che, in una economia chiusa, i possessori di ricchezza devono decidere

la composizione dei loro portafogli scegliendo tra moneta e titoli nazionali:

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Viceversa, in una economia aperta, la scelta dei possessori di ricchezza si estende anche

ai titoli esteri:

Sostanzialmente, quindi, nel caso di una economia aperta agli scambi con l’estero le

scelte dei possessori di ricchezza dipendono dal differenziale (spread) tra i tassi sui

titoli nazionali e quelli sui titoli esteri, ovvero dalla differenza di rendimento tra i titoli

nazionali e quelli esteri:

differenziale di tasso (spread) = (𝑟 − 𝑟∗).

A parità di altre condizioni, gli effetti di una variazione dello spread (𝑟 − 𝑟∗) sul

saldo dei movimenti di capitale possono essere riassunti schematicamente nel modo

seguente.

In particolare, nel caso di un aumento dello spread:

Al contrario, nel caso di una diminuzione dello spread:

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Come si può notare, esiste una relazione diretta tra la dinamica dello spread e il saldo

dei movimenti di capitale.

Per descrivere le caratteristiche del modello IS-LM in economia aperta, possiamo

quindi aggiungere una terza equazione alle due equazioni già presentate poco sopra:

3) 𝑆𝑀𝐶 = 𝑓(𝑟 − 𝑟∗) con 𝑓′ > 0.

Affinché questa relazione sia effettivamente valida, è necessario specificare le

seguenti due condizioni:

la prima condizione è relativa ai gradi di rischio dei titoli nazionali e di quelli esteri.

Infatti, se la rischiosità dei due gruppi di titoli dovesse variare, la domanda per i titoli

nazionali e quelli esteri varierebbe indipendentemente dal valore assunto dallo

spread;

la seconda condizione riguarda invece le aspettative circa il valore futuro del tasso di

cambio nominale (𝐸), che devono essere stabili.

Per meglio comprendere le implicazioni di quest’ultima condizione, è bene

rammentare che il tasso di cambio nominale non rappresenta una grandezza data e

immutabile, ma che esso è soggetto a delle oscillazioni.

Possiamo illustrare l’effetto indotto da una variazione delle aspettative circa il valore

futuro del tasso di cambio nominale attraverso un semplice esempio numerico.

Ipotizziamo che al tempo presente il tasso di cambio nominale sia pari a 1:

𝐸0 = 1 (1 $ 1 €).⁄

Supponiamo, inoltre, che si diffondano delle aspettative relative a una svalutazione del

cambio, e che il valore atteso del tasso di cambio nominale tra un anno sia pari a 0,9:

𝐸1 = 0,9 (0,9 $ 1 €).⁄

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Consideriamo, ora, il comportamento di un operatore che disponga di una ricchezza 𝑊

uguale a 1.000 €. Questo operatore si trova di fronte a due tipi di scelta. In primo luogo,

infatti, egli può decidere di acquistare titoli denominati in euro che offrono un

rendimento nominale del 5%:

In secondo luogo, egli può decidere di acquistare titoli denominati in dollari che offrono

anch’essi un rendimento nominale del 5%:

𝐸 ∙ 1.000 € = (1 $ 1 €) ∙ 1000 € = 1.000 $.⁄

Quale è il rendimento effettivo offerto da queste due scelte di portafoglio?

Il tasso di rendimento in termini di dollari è pari al 5%. Infatti:

1.050 $ − 1.000 $

1.000 $= 5%.

Il tasso di rendimento in termini di euro, invece, dipende dal valore del tasso di cambio

nominale dopo un anno dall’acquisto dei titoli:

se 𝐸1 = 1 → 1.050 $ = 1.050 € → 1.050 € − 1.000 €

1.000 €= 5%, mentre

se 𝐸1 = 0,9 → 1.050 $ ∙ (1 $ 0,9 €)⁄ =1.050

0,9= 1.167 €.

Di conseguenza:

1.167 € − 1.000 €

1.000 €= 16,7%.

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Tenendo conto di queste considerazioni, possiamo riscrivere l’equazione che

definisce il saldo della bilancia dei pagamenti (𝑆𝐵𝑃), sostituendo l’equazione 3) nella

equazione 2):

2) 𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀) + 𝑆𝑀𝐶(𝑟 − 𝑟∗).

Ipotizzando che 𝑌∗, 𝑟∗ ed 𝜀 siano dati, ovvero che si tratti di grandezze esogene, e che

valga, in particolare:

𝜀 = 𝜀̅ → �̅� ∙ �̅�

𝑃∗̅̅ ̅ ,

l’equazione 2) diventa una equazione in due incognite, 𝑌 e 𝑟.

Assumiamo che l’obiettivo delle autorità di governo sia quello di ottenere l’equilibrio

dei conti con l’estero, che corrisponde al sostanziale pareggio del saldo della bilancia

dei pagamenti:

𝑆𝐵𝑃 = 0.

Possiamo quindi riscrivere nuovamente l’equazione 2), tenendo conto dell’obiettivo

delle autorità di politica economica:

2) 𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀) + 𝑆𝑀𝐶(𝑟 − 𝑟∗) = 0.

Partendo da questa equazione siamo ora in grado di ricavare tutte le combinazioni dei

valori del reddito (𝑌) e del tasso di interesse (𝑟) che assicurano l’equilibrio del saldo

della bilancia dei pagamenti (𝑆𝐵𝑃 = 0). L’insieme di tali combinazioni può essere

rappresentato in un grafico che riporta i valori del tasso di interesse (𝑟) sull’asse delle

ordinate e quelli del reddito (𝑌) sull’asse delle ascisse (figura 78).

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Figura 78 – L’equilibrio del saldo della bilancia dei pagamenti

Consideriamo innanzitutto la combinazione di valori (𝑌0, 𝑟0) in corrispondenza della

quale il saldo della bilancia dei pagamenti è in equilibrio:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌0, 𝑟0) = 0.

Confrontiamo poi tale combinazione con la coppia di valori (𝑌𝐴 > 𝑌0, 𝑟 = 𝑟0), e

chiediamoci come cambia il saldo della bilancia dei pagamenti:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌0, 𝑟0) = 0 ↔ 𝑆𝐵𝑃 (𝑌𝐴 > 𝑌0, 𝑟 = 𝑟0) ?

Sappiamo che quando il reddito aumenta, il saldo commerciale peggiora:

se 𝑌 ↑ → 𝐼𝑀

𝜀↑ → 𝑁𝑋 ↓.

Di conseguenza, a parità di altre condizioni, anche il saldo della bilancia dei pagamenti

peggiora:

𝑌 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓, e quindi

𝑆𝐵𝑃 (𝑌𝐴 > 𝑌0, 𝑟 = 𝑟0) < 𝑆𝐵𝑃 (𝑌0, 𝑟0).

Nell’ipotesi che il reddito sia pari a 𝑌𝐴, come dovrebbe variare il tasso di interesse

(𝑟) perché anche in corrispondenza di 𝑌𝐴 il saldo della bilancia dei pagamenti sia in

equilibrio? In altre parole, stiamo cercando un valore di 𝑟 tale che:

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𝑟 = 𝑟𝐴 → 𝑆𝐵𝑃 (𝑌𝐴, 𝑟𝐴) = 0.

Guardando al saldo della bilancia dei pagamenti, osserviamo che esso dipende da due

componenti, poiché ne rappresenta, per definizione, la somma:

il saldo delle partite correnti, che è funzione del livello del reddito (𝑌), e

il saldo dei movimenti di capitale, che invece dipende dal valore del tasso di interesse

(𝑟).

Pertanto, quando il reddito aumenta, al fine di ottenere 𝑆𝐵𝑃 = 0, il tasso di interesse

deve crescere in misura tale che il saldo dei movimenti di capitale possa compensare la

variazione del saldo delle partite correnti. In altri termini, 𝑟𝐴 deve provocare un

miglioramento del saldo dei movimenti di capitale di entità tale da bilanciare il

peggioramento del saldo delle partite correnti (del saldo commerciale) determinato

dall’incremento del livello del reddito.

𝑆𝐵𝑃 (𝑌𝐴 > 𝑌0, 𝑟𝐴 > 𝑟0) = 𝑆𝐵𝑃 (𝑌0, 𝑟0) = 0.

Figura 79 – L’equilibrio e le situazioni di avanzo e di disavanzo

della bilancia dei pagamenti

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In base a queste considerazioni, è possibile individuare la retta BP che rappresenta tutte

le combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 coerenti con l’equilibrio del saldo della bilancia dei

pagamenti (𝑆𝐵𝑃 = 0). Come emerge dalla figura 79, tutte le combinazioni che non si

trovano sulla curva BP rappresentano situazioni di squilibrio dei conti con l’estero,

ovvero di avanzo o di disavanzo della bilancia dei pagamenti.

In particolare, la combinazione 𝐵 (𝑌0, 𝑟1 > 𝑟0) rappresenta una situazione di avanzo

della bilancia dei pagamenti, perché il tasso di interesse assume un valore maggiore di

quello coerente con l’equilibrio dei conti con l’estero quando il livello del reddito è pari

a 𝑌0 (a fronte di un saldo immutato della bilancia commerciale, il saldo dei movimenti

di capitale migliora).

Al contrario, la combinazione 𝐴 (𝑌𝐴, 𝑟0 < 𝑟1) rappresenta una situazione di disavanzo

della bilancia dei pagamenti, perché il tasso di interesse assume un valore minore di

quello coerente con l’equilibrio dei conti con l’estero quando il livello del reddito è pari

a 𝑌𝐴 (a fronte di un saldo immutato della bilancia commerciale, il saldo dei movimenti

di capitale peggiora).

L’inclinazione della curva BP consente di misurare la dimensione della variazione

del tasso di interesse (𝑟) necessaria a compensare l’effetto prodotto da una variazione

del reddito (𝑌) sul saldo della bilancia dei pagamenti. L’inclinazione della curva BP

dipende dal grado di sensibilità dei movimenti di capitale al tasso di interesse. In

particolare, la figura 80 contiene tre diverse rappresentazioni della curva BP, cui

corrispondono diversi gradi di reattività dei movimenti di capitale alle variazioni del

tasso di interesse.

Figura 80 – L’inclinazione della curva BP

Se i movimenti di capitale sono molto sensibili alle variazioni del tasso di interesse,

allora anche solo un piccolo aumento di quest’ultimo sarà sufficiente a compensare gli

effetti di un incremento del reddito. E’ questa la situazione rappresentata nel grafico (𝑏)

della figura 80.

La sensibilità dei movimenti di capitale rispetto al tasso di interesse, e quindi

l’inclinazione della curva BP, dipendono dal grado di mobilità dei capitali, che è tanto

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più elevato quanto minori sono gli ostacoli al trasferimento dei capitali da un paese

all’altro. Da questo punto di vista, il grafico (𝑎) della figura 80, che individua una

situazione di maggiore rigidità dei movimenti di capitale in rapporto alle variazioni del

tasso di interesse, dà anche conto delle maggiori difficoltà incontrate dagli operatori

economici a trasferire i capitali oltre la frontiera del loro paese.

Infine, il grafico (𝑐) della figura 80 rappresenta il caso di perfetta mobilità dei

capitali, ovvero una situazione in cui i titoli nazionali e i titoli esteri sono perfetti

sostituti gli uni degli altri. In questo caso, i titoli nazionali e quelli esteri devono avere

lo stesso rendimento e il differenziale di tasso (spread) è quindi nullo (vale la legge del

prezzo unico):

𝑟 − 𝑟∗ = 0.

Come si evince dalla figura 80, per 𝑟 = 𝑟∗ la curva BP è piatta. In corrispondenza del

punto 0 il saldo della bilancia dei pagamenti è in equilibrio:

(𝑌 = 𝑌0, 𝑟 = 𝑟∗) → 𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌0, 𝑟 = 𝑟

∗) = 0.

Cosa accade, quando il livello del reddito aumenta, come per esempio nel punto 1 del

grafico (𝑐)?

Anche in questo caso, il saldo della bilancia dei pagamenti è in equilibrio:

(𝑌1 > 𝑌0, 𝑟 = 𝑟∗) → 𝑆𝐵𝑃 (𝑌1 > 𝑌0, 𝑟 = 𝑟

∗) = 0.

Ciò avviene, perché la sensibilità dei movimenti di capitale rispetto al tasso di interesse

tende a infinito. Pertanto, l’incremento necessario a compensare gli effetti prodotti

dall’aumento del livello del reddito sul saldo della bilancia dei pagamenti è così piccolo

da poter essere trascurato.

5.2.5. I fattori che influenzano il valore del tasso di cambio nominale

Per esaminare i fattori che influenzano il livello del tasso di cambio nominale (𝐸),

sottolineiamo, innanzitutto, che esso rappresenta un prezzo, ovvero il prezzo di una

valuta in termini di un’altra valuta.

Pertanto, un primo fattore di influenza sul valore del tasso di cambio nominale è

costituito dalle variazioni della domanda e dell’offerta per la valuta nazionale. Più nello

specifico, il livello del tasso di cambio nominale dipende:

dalla domanda di valuta nazionale in cambio di valuta estera o, equivalentemente,

dalla offerta di valuta nazionale in cambio di valuta estera.

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Per quanto riguarda la domanda di valuta nazionale (€) in cambio di valuta estera ($),

ricordiamo che essa trae origine:

dalle esportazioni di beni e servizi (𝑋), e

dalla quantità di titoli nazionali acquistati da operatori economici stranieri

(𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇).

Quindi, possiamo scrivere:

Domanda di € in cambio di $ = 𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇.

L’offerta di valuta nazionale (€) in cambio di valuta estera ($) trae invece origine:

dalle importazioni di beni e servizi (𝐼𝑀

𝜀), e

dalla quantità di titoli esteri acquistati da operatori economici nazionali (𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇).

Di conseguenza, abbiamo che:

Offerta di € in cambio di $ =𝐼𝑀

𝜀+ 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇.

Possiamo dunque concludere che il tasso di cambio nominale (𝐸) è stabile, quando la

domanda e l’offerta di valuta nazionale in cambio di valuta estera sono in equilibrio,

ovvero quando:

𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 =𝐼𝑀

𝜀+ 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇.

Inoltre, da questa uguaglianza otteniamo:

Quando il saldo della bilancia dei pagamenti è in equilibrio, anche la domanda e

l’offerta della valuta nazionale in cambio di valuta estera sono in equilibrio, e il tasso di

cambio nominale (𝐸) è stabile.

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Qualora, invece, il saldo della bilancia dei pagamenti fosse in avanzo, la domanda di

valuta nazionale in cambio di valuta estera eccederebbe l’offerta, e il tasso di cambio

nominale si rivaluterebbe:

𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 >𝐼𝑀

𝜀+ 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 → 𝐸 ↑.

Infine, se il saldo della bilancia dei pagamenti è in disavanzo, sarebbe l’offerta di

valuta nazionale in cambio di valuta estera ad eccedere la domanda, e il tasso di cambio

nominale si svaluterebbe:

𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 <𝐼𝑀

𝜀+ 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 → 𝐸 ↓.

Il primo fattore che influenza il valore del tasso di cambio nominale (𝐸) è dunque

costituito dal saldo della bilancia dei pagamenti:

se 𝑆𝐵𝑃 = 0 → Domanda di € in cambio di $ = Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 è stabile,

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se 𝑆𝐵𝑃 > 0 → Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si rivaluta ↑,

se 𝑆𝐵𝑃 < 0 → Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si svaluta ↓.

Il secondo fattore che influenza il valore del tasso di cambio nominale (𝐸) è invece

rappresentato dal comportamento delle autorità monetarie, ovvero dalle decisioni di

politica monetaria della banca centrale. Infatti, in presenza di uno squilibrio tra la

domanda e l’offerta di valuta nazionale, la banca centrale può decidere di intervenire per

impedire una variazione del tasso di cambio nominale (𝐸).

Nel caso in cui:

𝑆𝐵𝑃 = 0 → Domanda di € in cambio di $ = Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 è stabile,

la banca centrale non interviene sul mercato dei cambi.

Viceversa, qualora si presentasse una situazione in cui:

𝑆𝐵𝑃 > 0 → Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si rivaluta ↑,

le autorità monetarie possono intervenire sul mercato dei cambi per riequilibrare la

discrepanza tra le quantità di valuta nazionale domandate e offerte, offrendo euro (€) e

acquistando dollari ($). In tal caso avremo:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 → 𝑑𝑀 = 𝑑𝑅𝑈.

Cerchiamo di chiarire questa conclusione attraverso un semplice esempio numerico.

Supponiamo, in particolare che:

𝑆𝐵𝑃 = 500 → Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $, con

Domanda di € in cambio di $ = 𝑋 + 𝑑𝑃𝐹𝐸𝑆𝑇 = 1.500 €, e

Offerta di € in cambio di $ = 𝐼𝑀

𝜀+ 𝑑𝐴𝐹𝐸𝑆𝑇 = 1.000 €.

In mancanza di un intervento della banca centrale sul mercato dei cambi, il tasso di

cambio nominale è destinato ad aumentare, ovvero a rivalutarsi (𝐸 ↑). Per evitare

questa variazione del tasso di cambio nominale, le autorità monetarie devono offrire

euro (€) e acquistare dollari ($) in misura pari alla differenza tra la domanda e l’offerta

di euro in cambio di dollari. In altre parole, l’offerta di euro (€) e l’acquisto di dollari

($) deve pareggiare l’avanzo del saldo della bilancia dei pagamenti:

𝑆𝐵𝑃 = 500 = 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 = 500.

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212

In tal caso, il tasso di cambio nominale (𝐸) rimarrà stabile, anche in presenza di uno

squilibrio nel saldo della bilancia dei pagamenti (𝑆𝐵𝑃 ≠ 0).

Naturalmente, l’intervento delle autorità monetarie sul mercato dei cambi può essere

anche di segno opposto. Infatti, quando il saldo della bilancia dei pagamenti è in

disavanzo:

𝑆𝐵𝑃 < 0 → Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si svaluta ↓,

la banca centrale può impedire la svalutazione del tasso di cambio nominale

domandando euro (€) e offrendo dollari ($), ovvero cedendo dollari ($) e acquistando

euro (€), in misura pari al disavanzo del saldo della bilancia dei pagamenti:

𝑆𝐵𝑃 = −500 = 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 = −500.

Anche in questo caso, il tasso di cambio nominale (𝐸) rimarrà stabile, nonostante

l’esistenza di uno squilibrio nel saldo della bilancia dei pagamenti (𝑆𝐵𝑃 ≠ 0).

5.2.6. I regimi di cambio

Come abbiamo visto poco sopra, il valore del tasso di cambio nominale (𝐸) è funzione:

del saldo della bilancia dei pagamenti (𝑆𝐵𝑃), e

delle decisioni di politica monetaria della banca centrale.

In base a questi elementi possiamo distinguere tra due cosiddetti regimi di cambio:

1. Il regime di cambi fissi, caratterizzato dal fatto che le banche centrali dei vari paesi

sono vincolate a intervenire per colmare le differenze tra le domande e le offerte che si

presentano sui mercato di cambio, al fine di stabilizzare i tassi di cambio nominali tra le

diverse valute.

2. Il regime di cambi flessibili, invece caratterizzato dal fatto che le autorità monetarie

si astengono dall’intervenire sui mercati di cambio nei casi in cui si manifestano delle

discrepanze tra le domande e le offerte per le varie valute. In altri termini, in presenza di

un regime di cambi flessibili, il valore del tasso di cambio nominale (𝐸) è libero di

fluttuare in funzione della domanda e dell’offerta di valuta, ed eventuali squilibri nel

saldo della bilancia dei pagamenti che si riflettono in uno squilibrio della domanda e

dell’offerta di valuta vengono eliminati attraverso le variazioni del tasso di cambio

nominale (𝐸).

A quest’ultimo proposito, consideriamo il seguente esempio. Immaginiamo una

situazione in cui il saldo della bilancia dei pagamenti è in avanzo:

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213

𝑆𝐵𝑃 > 0 → Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si rivaluta ↑.

Che cosa accade al saldo della bilancia dei pagamenti, quando il tasso di cambio

nominale (𝐸) si rivaluta?

𝐸 ↑ → 𝜀 =�̅� ∙ �̅�

𝑃∗̅̅ ̅↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓.

La rivalutazione del tasso di cambio nominale provoca una rivalutazione del tasso di

cambio reale, e quindi un peggioramento del saldo commerciale che si traduce in una

riduzione dell’avanzo della bilancia dei pagamenti. Questo meccanismo di

aggiustamento si arresta quando il saldo della bilancia dei pagamenti torna in pareggio.

A quel punto, anche lo squilibrio tra la domanda e l’offerta di valuta sul mercato dei

cambi sarà stato eliminato.

𝑆𝐵𝑃 = 0 → Domanda di € in cambio di $ = Offerta di € in cambio di $.

Ovviamente, il meccanismo di aggiustamento funziona anche nel caso di un

disavanzo di bilancia dei pagamenti:

𝑆𝐵𝑃 < 0 → Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $ → 𝐸 si svaluta ↓.

In conseguenza della svalutazione del tasso di cambio nominale, si svaluta anche il

tasso di cambio reale, determinando così un miglioramento del saldo commerciale, e

quindi una riduzione del disavanzo di bilancia dei pagamenti.

𝐸 ↓ → 𝜀 =�̅� ∙ �̅�

𝑃∗̅̅ ̅↓ → 𝑁𝑋 ↑ → 𝑆𝐵𝑃 ↑.

Anche in questo caso, il meccanismo di aggiustamento si arresta quando il saldo della

bilancia dei pagamenti torna in pareggio e lo squilibrio tra la domanda e l’offerta di

valuta sul mercato dei cambi è stato eliminato.

𝑆𝐵𝑃 = 0 → Domanda di € in cambio di $ = Offerta di € in cambio di $.

Se consideriamo l’esperienza italiana, nel periodo dal 1945 a oggi si evidenzia una

alternanza di fasi di cambi fissi e di cambi flessibili:

1945-1972 (fase di cambi fissi)

A seguito della firma degli accordi di Bretton Woods, nel luglio del 1944, nel secondo

dopoguerra venne costituito il sistema monetario internazionale fondato sul dollaro

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214

statunitense ($), unica tra tutte le valute dei vari paesi a poter essere convertita in oro a

un tasso di cambio predeterminato. Per effetto di questi accordi, la Federal Reserve, la

banca centrale statunitense, era dunque vincolata a convertire in oro le riserve in dollari

($) possedute dalle banche centrali degli altri paesi. Il sistema di Bretton Woods

prevedeva non soltanto un tasso di cambio fisso tra il dollaro statunitense ($) e l’oncia

d’oro, ma anche tassi di cambio nominali bilaterali fissi tra il dollaro e le valute degli

altri paesi.

1971-1979 (fase di cambi flessibili)

Nell’agosto del 1971, l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon annunciò la

sospensione della convertibilità del dollaro americano ($) in oro. Di lì a poco, il sistema

monetario internazionale basato sugli accordi di Bretton Woods avrebbe quindi cessato

di esistere, e i tassi di cambio della lira italiana nei confronti delle valute degli altri paesi

rimasero liberi di fluttuare.

1979-1992 (fase di cambi fissi nei confronti delle valute dei paesi aderenti al

Sistema monetario europeo (SME))

Nel 1979 l’Italia aderisce al sistema monetario europeo (SME), un accordo di cambio

tra i paesi aderenti alla CEE, che obbligava le banche centrali di tali paesi a intervenire

sul mercato dei cambi per garantire che le oscillazioni dei tassi di cambio nominali non

superassero le bande fissate attorno a una determinata parità centrale.

1992-1996 (fase di cambi flessibili)

Nel 1992 il Sistema monetario europeo entra in crisi. A seguito di una serie di attacchi

speculativi, l’Italia esce dallo SME nel mese di settembre, subendo una svalutazione

della propria valuta nei confronti del marco tedesco di oltre il 30%.

1996-1998 (nuova fase di cambi fissi nell’ambito dello SME)

Nel novembre del 1996 l’Italia rientrò nello SME, godendo di bande di oscillazione

attorno alle nuove parità centrali fissate nei confronti delle valute degli altri paesi

europei aderenti agli accordi di cambio maggiori di quelle stabilite nel primo periodo di

permanenza. Lo SME cessò di esistere il 31 dicembre del 1998, in conseguenza

dell’entrata in vigore dell’euro all’inizio del 1999.

1999 ad oggi (fase di adesione all’Unione monetaria europea)

I tassi di cambio tra le valute dei paesi entrati a fare parte dell’Unione economica e

monetaria europea sin dal mese di gennaio del 1999 sono stati determinati dal Consiglio

europeo in base ai loro valori di mercato al 31 dicembre del 1998, in modo tale che un

ECU, l’unità di valuta europea vigente nello SME, fosse pari a un euro. Il primo

gennaio del 1999 l’euro è diventato la nuova moneta ufficiale dell’Italia e di altri dieci

paesi membri dell’Unione europea. Inizialmente, l’euro è stato introdotto come moneta

virtuale per i pagamenti non in contanti e a fini contabili, mentre le vecchie valute

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215

continuavano a essere utilizzate per i pagamenti in contanti e considerate come

“sottounità” dell’euro. Successivamente, dal primo gennaio del 2002, l’euro ha

cominciato a circolare anche fisicamente, sotto forma di banconote e monete metalliche.

Attualmente, l’euro è la valuta comune ufficiale dell’Unione europea (considerata nel

suo insieme), e la moneta unica adottata dall’Italia e da altri 18 dei 28 Stati membri

dell’Unione aderenti all’Unione economica e monetaria dell’Unione europea (UEM)

(Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia,

Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e

Spagna).

5.3. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria in una economia

aperta (modello Mundell-Fleming)

5.3.1. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria in una economia

aperta in regime di cambi fissi

Ricordando che in un regime di cambi fissi:

𝐸 = �̅� → 𝜀 = 𝜀̅ =�̅� ∙ �̅�

𝑃∗̅̅ ̅ ,

possiamo rappresentare il modello IS-LM in una economia aperta in cui le banche

centrali sono vincolate a intervenire per garantire la stabilità dei tassi di cambio

nominali (𝐸) attraverso il seguente sistema di equazioni.

1) 𝑌 = 𝐶(𝑌 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀)̅

2) 𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀)̅ + 𝑆𝑀𝐶(𝑟 − 𝑟∗).

Ipotizzando di essere in presenza di perfetta mobilità dei capitali, ovvero in una

situazione in cui il tasso di interesse interno (𝑟) tende a essere uguale al tasso di

interesse estero (𝑟∗), e quindi in cui il differenziale di tasso (spread) tende a essere

nullo, avremo:

3) 𝑟 = 𝑟∗.

Il modello è completato con l’introduzione dell’equazione LM che definisce l’equilibrio

sul mercato della moneta:

4) 𝑀

�̅�= 𝑓(𝑌, 𝑟).

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216

Come si può notare, a differenza di quanto abbiamo visto nel caso del modello IS-

LM in economia chiusa, nella versione del modello IS-LM riferita a una economia

aperta in regime di cambi fissi, la quantità di moneta è determinata in modo

endogeno in funzione dell’obbligo della banca centrale di intervenire sul mercato dei

cambi per stabilizzare il livello del tasso di cambio nominale (𝐸).

Nel paragrafo precedente è stato mostrato che le variazioni della quantità di moneta

indotte dagli interventi delle autorità monetarie ai fini della stabilizzazione del tasso di

cambio nominale (𝐸) dipendono dal saldo della bilancia dei pagamenti. In particolare:

se 𝑆𝐵𝑃 ≠ 0 → 𝑑𝑅𝑈 ≠ 0 → 𝑑𝑀 ≠ 0,

se 𝑆𝐵𝑃 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 > 0 → 𝑑𝑀 > 0, e

se 𝑆𝐵𝑃 < 0 → 𝑑𝑅𝑈 < 0 → 𝑑𝑀 < 0.

Abbiamo definito un sistema in quattro equazioni e in quattro incognite

(𝑌, 𝑆𝐵𝑃, 𝑟 e 𝑀), che ammette il seguente ordine di soluzione:

dato 𝑟∗, l'equazione 3 → determina 𝑟,

dato 𝑟, l'equazione 1 → determina 𝑌,

dati 𝑟 e 𝑌, l'equazione 2 → determina 𝑆𝐵𝑃, e

dati 𝑟 e 𝑌, l'equazione 4 → determina 𝑀.

Come nel caso dell’economia chiusa, possiamo rappresentare i valori di equilibrio

del reddito e del tasso di interesse tramite un grafico che riporta 𝑌 sull’asse delle ascisse

e 𝑟 sull’asse delle ordinate (figura 81).

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217

Figura 81 – L’equilibrio sul mercato dei beni, sul mercato della moneta e dei conti con

l’estero in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali

Come sappiamo, per determinare la posizione della curva LM sul piano, è necessario

conoscere la quantità di moneta (𝑀). Sappiamo anche che tale quantità è funzione degli

interventi della banca centrale ai fini della stabilizzazione del tasso di cambio nominale

(𝐸).

Si può dimostrare che la quantità di moneta (𝑀) creata dalla banca centrale per

stabilizzare il tasso di cambio nominale (𝐸) è pari alla quantità di moneta che assicura

l’equilibrio sul mercato della moneta in corrispondenza dei valori di 𝑌 = 𝑌0 e di 𝑟 = 𝑟∗

(punto 0). In particolare, tale quantità di moneta è pari a 𝑀 = 𝑀0.

Qualora

𝑀 = 𝑀1 < 𝑀0,

l’offerta reale di moneta sarebbe pari a:

𝑀1

�̅�<𝑀0

�̅� .

Poiché in corrispondenza di una quantità di moneta uguale a 𝑀0 la curva LM passa

per il punto 0, quando la quantità di moneta diminuisce sino al livello 𝑀1 < 𝑀0, la LM

si sposta verso sinistra (verso l’alto) (figura 82).

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218

Figura 82 – Gli effetti di una riduzione della quantità di moneta in ipotesi

di cambi fissi e perfetta mobilità dei capitali (1)

Come si può notare, in corrispondenza del punto 1:

𝑌1 < 𝑌0 e 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗.

Ma mentre il punto 1 caratterizza una situazione di equilibrio sia sul mercato dei beni

che sul mercato della moneta, i conti con l’estero non sono in equilibrio. Ricordiamo,

infatti, che tutte le combinazioni di 𝑌 e di 𝑟 che si trovano al di sopra della curva BP

contraddistinguono i casi in cui la bilancia dei pagamenti si trova in avanzo, e quindi

una condizione in cui la domanda di euro (€) in cambio di dollari ($) eccede l’offerta:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌1 < 𝑌0 , 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Per poter stabilizzare il tasso di cambio nominale (𝐸), la banca centrale si vede

obbligata a intervenire sul mercato dei cambi e a offrire euro (€) in cambio dell’acquisto

di dollari ($). Pertanto, le riserve di valuta della banca centrale tendono ad aumentare:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 > 0 → 𝑀 ↑ , e quindi 𝑀2 > 𝑀1 → 𝑀2

�̅�>𝑀1

�̅� .

In conseguenza dell’aumento della quantità di moneta, la LM si sposterà verso destra

(verso il basso) sino a intersecare la curva IS nel punto 2 (figura 83).

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219

Figura 83 – Gli effetti di una riduzione della quantità di moneta in ipotesi

di cambi fissi e perfetta mobilità dei capitali (2)

In corrispondenza del punto 2:

𝑌0 > 𝑌2 > 𝑌1 e 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗.

Anche in questo caso, il sistema è caratterizzato da situazione di equilibrio sul mercato

dei beni e sul mercato della moneta, ma da uno squilibrio nei conti con l’estero, perché

il punto 2 si trova al di sopra della curva BP. Pertanto, la bilancia dei pagamenti si trova

ancora in avanzo, e la domanda di euro (€) in cambio di dollari ($) continua a eccedere

l’offerta:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌2 < 𝑌0 , 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

La banca centrale prosegue quindi nella sua politica di stabilizzazione del tasso di

cambio nominale (𝐸), offrendo euro (€) e domandando (acquistando) dollari ($) sul

mercato dei cambi. Per effetto di questi interventi, le riserve di valuta della banca

centrale crescono ulteriormente:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 > 0 𝑀 ↑ ,

mentre l’aumento della quantità di moneta provoca un nuovo spostamento verso il basso

(verso destra) della curva LM.

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220

Questo meccanismo di aggiustamento si arresta, quando la curva LM interseca le curve

IS e BP in corrispondenza del punto 0 (figura 83), contraddistinto dalla combinazione

(𝑌 = 𝑌0 e 𝑟 = 𝑟∗), in cui:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌0 , 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 = 0.

La quantità di moneta creata dalle autorità monetarie ai fini della stabilizzazione del

tasso di cambio nominale (𝐸) è uguale alla quantità di moneta che assicura l’equilibrio

sul mercato della moneta quando i livelli del reddito e del tasso dell’interesse sono pari,

rispettivamente, a 𝑌 = 𝑌0 e a 𝑟 = 𝑟∗.

In conclusione, abbiamo mostrato che, nel caso di una economia aperta in regime di

cambi fissi, esistono dei meccanismi di aggiustamento che determinano la convergenza

del sistema verso una condizione di equilibrio non solo sul mercato dei beni e sul

mercato della moneta, ma anche nei conti con l’estero.

Tuttavia, come evidenzia la figura 84, tale condizione di equilibrio non corrisponde

necessariamente a un equilibrio di piena occupazione. Infatti, nella figura 84:

𝑌0 ≠ 𝑌𝑃𝑂.

Figura 84 - L’equilibrio del modello IS-LM in economia aperta (in ipotesi di cambi fissi e

di perfetta mobilità dei capitali) e l’equilibrio di piena occupazione

Dobbiamo quindi chiederci, se le autorità di politica economica possono guidare il

sistema verso una situazione di piena occupazione della forza lavoro disponibile, in cui

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂, attraverso l’uso degli strumenti di politica fiscale e politica monetaria.

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221

Iniziamo la nostra analisi dagli effetti prodotti dalla politica fiscale. In particolare,

consideriamo gli esiti prodotti da una politica fiscale espansiva consistente in un

aumento della spesa pubblica (𝐺):

𝑑𝐺 > 0 con �̅�1 > �̅�0.

Figura 85 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (1)

Come si evince dalla figura 85, quando:

𝐺 ↑ → 𝐷𝐴 ↑ → (a parità di 𝑟) 𝑌 ↑ → la IS si sposta verso l'alto (verso destra).

In corrispondenza del punto 1:

𝑌1 > 𝑌0 e 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗.

Il punto 1 caratterizza una situazione di equilibrio sul mercato dei beni e sul mercato

della moneta, ma di squilibrio dei conti con l’estero, perché esso si trova al di sopra

della curva BP. Di conseguenza, la bilancia dei pagamenti si trova in avanzo, e la

domanda di euro (€) in cambio di dollari ($) eccede l’offerta:

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222

𝑆𝐵𝑃 (𝑌1 > 𝑌0 , 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Anche in questo caso, dunque, la banca centrale si vede obbligata a intervenire sul

mercato dei cambi e a offrire euro (€) in cambio dell’acquisto di dollari ($).

Queste operazioni sul mercato dei cambi determinano un aumento delle riserve di valuta

della banca centrale, che si traducono in un aumento della quantità reale di moneta, e

quindi in uno spostamento verso il basso (verso destra) della curva LM (figura 86):

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 > 0 → 𝑀 ↑ , e quindi 𝑀1 > 𝑀0 → 𝑀1

�̅�>𝑀0

�̅� .

Di conseguenza, in corrispondenza del punto 2 avremo:

𝑌2 > 𝑌1 > 𝑌0 e 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗.

Figura 86 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (2)

Anche il punto 2 individua una situazione di equilibrio sul mercato dei beni e sul

mercato della moneta, ma di squilibrio nei conti con l’estero. Infatti, esso si trova ancora

al di sopra della curva BP. Pertanto, la bilancia dei pagamenti continua a trovarsi in

avanzo, e la domanda di euro (€) in cambio di dollari ($) supera ancora l’offerta:

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𝑆𝐵𝑃 (𝑌2 > 𝑌1 , 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Per stabilizzare il tasso di cambio nominale (𝐸), la banca centrale prosegue i suoi

interventi sul mercato dei cambi, offrendo euro (€) in cambio di dollari ($). Per effetto

di queste operazioni le riserve di valuta della banca centrale continuano ad aumentare,

così come la quantità di moneta.

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 > 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 > 0 → 𝑀 ↑ → 𝑀2 > 𝑀1 → 𝑀2

�̅�>𝑀1

�̅� .

L’aumento della quantità reale di moneta provoca un ulteriore spostamento verso il

basso (verso destra) della curva LM, che si arresta quando essa interseca le curve IS e

BP in corrispondenza del punto3 (figura 87).

Figura 87 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (3)

Il punto 3, caratterizzato dalla combinazione di valori del reddito e del tasso di

interesse (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 e 𝑟 = 𝑟∗), rappresenta una situazione di equilibrio stabile, in cui

all’equilibrio sul mercato dei beni e sul mercato della moneta corrisponde anche

l’equilibrio dei conti con l’estero. Infatti:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂, 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 = 0.

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224

La prima conclusione della nostra analisi sui risultati prodotti dalla politica

economica in una economia aperta è quindi questa: in regime di cambi fissi, la politica

fiscale è uno strumento efficace per aumentare il livello del reddito e il numero di

lavoratori occupati.

Passiamo ora agli effetti indotti dalla politica monetaria. Come sappiamo,

nell’ambito del modello IS-LM, il meccanismo di trasmissione della politica monetaria

è il seguente:

𝑀 ↑ → 𝑟 ↓ → 𝐼 ↑ → 𝑌 ↑.

Supponiamo che la banca centrale decida di porre in atto una politica monetaria

espansiva, e quindi di aumentare la quantità di moneta.

All’aumento della quantità nominale di moneta corrisponde l’incremento della quantità

reale di moneta:

𝑑𝑀 > 0 → 𝑀1

�̅�>𝑀0

�̅� .

Di conseguenza, la curva LM si sposta verso il basso (verso destra) sino a intersecare la

curva IS in coincidenza del punto 1 della figura 88, in cui:

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 e 𝑟1 < 𝑟 = 𝑟∗.

Figura 88 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (1)

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225

Nel punto 1 il mercato dei beni e il mercato della moneta sono in equilibrio in

corrispondenza di un livello del reddito compatibile con la piena occupazione della

forza lavoro (𝑌𝑃𝑂). Tuttavia, si registra un disavanzo della bilancia dei pagamenti.

Infatti, il punto 1 si trova al di sotto della curva BP, e sul mercato della moneta l’offerta

di euro (€) in cambio di dollari ($) eccede la domanda:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 , 𝑟1 < 𝑟 = 𝑟∗) < 0

Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $.

Ai fini della stabilizzazione del tasso di cambio nominale (𝐸), in questo caso la banca

centrale interviene sul mercato dei cambi offrendo dollari ($) in cambio di euro (€).

L’intervento delle autorità monetarie si traduce in una diminuzione delle riserve di

valuta, e quindi in una diminuzione della quantità nominale e reale della moneta:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 < 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 < 0 → 𝑀 ↓ → 𝑀2 < 𝑀1 → 𝑀2

�̅�<𝑀1

�̅� .

La riduzione della quantità reale di moneta determina uno spostamento verso l’alto

(verso sinistra) della curva LM, sino a quando essa interseca la curva IS in

corrispondenza del punto 2 (figura 89), in cui:

𝑌2 < 𝑌𝑃𝑂 e 𝑟2 < 𝑟 = 𝑟∗.

Figura 89 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (2)

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226

Anche nel punto 2 il mercato dei beni e il mercato della moneta sono in equilibrio.

Ma il saldo della bilancia dei pagamenti continua a essere negativo, perché anche il

punto 2 si trova al di sotto della curva BP. Pertanto, sul mercato della moneta si registra

ancora un eccesso dell’offerta di euro (€) in cambio di dollari ($) rispetto alla domanda:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌2 < 𝑌𝑃𝑂 , 𝑟2 < 𝑟 = 𝑟∗) < 0

Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $.

La ripetuta vendita di dollari ($) in cambio di euro (€) da parte della banca centrale

provoca una ulteriore contrazione del livello delle riserve di valuta, e quindi una

riduzione della quantità nominale e reale della moneta, sino a quando quest’ultima torna

al livello compatibile non solo con l’equilibrio sui mercati dei beni e della moneta, ma

anche con quello dei conti con l’estero:

𝑆𝐵𝑃 = 𝑑𝑅𝑈 < 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 < 0 → 𝑀 ↓ → 𝑀2 < 𝑀1 → 𝑀3

�̅�=𝑀0

�̅�<𝑀1

�̅� .

Ciò significa che lo spostamento della curva LM verso l’alto (verso sinistra) si arresta in

corrispondenza del punto 0, in cui la LM interseca sia la curva IS che la curva BP

(figura 90).

Figura 90 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali (3)

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227

In particolare, nel punto 0:

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 e 𝑟 = 𝑟∗.

Inoltre, l’equilibrio definito dalla combinazione di 𝑌 e di 𝑟 che contraddistingue il punto

0 è un equilibrio stabile, perché:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌0, 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝑑𝑅𝑈 = 𝑑𝑀 = 0.

La seconda conclusione della nostra analisi sugli effetti prodotti dagli interventi di

politica economica in una economia aperta agli scambi con l’estero è quindi che, in

regime di cambi fissi, la politica monetaria non è uno strumento efficace ai fini

dell’aumento del livello del reddito e del numero di lavoratori occupati.

5.3.2. Gli effetti della politica fiscale e della politica monetaria in una economia

aperta in regime di cambi flessibili

Rappresentiamo il modello IS-LM per una economia aperta in regime di cambi flessibili

attraverso le seguenti equazioni:

1) 𝑌 = 𝐶(𝑌 − �̅�) + 𝐼(𝜑, 𝑟) + �̅� + 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀)

2) 𝑆𝐵𝑃 = 𝑁𝑋(𝑌∗, 𝑌, 𝜀) + 𝑆𝑀𝐶(𝑟 − 𝑟∗).

Anche in questo caso, ipotizziamo di essere in presenza di perfetta mobilità dei capitali,

ovvero in una situazione in cui il tasso di interesse interno (𝑟) tende a essere uguale al

tasso di interesse estero (𝑟∗), e quindi in cui il differenziale di tasso (spread) tende a

essere nullo. Pertanto, avremo:

3) 𝑟 = 𝑟∗.

Per completare il modello, introduciamo l’equazione LM che definisce l’equilibrio sul

mercato della moneta:

4) �̅�

�̅�= 𝑓(𝑌, 𝑟).

Quando i tassi di cambio sono flessibili, la quantità di moneta è esogena. Essa,

cioè, è funzione delle autonome determinazioni delle autorità monetarie, come nel caso

del modello IS-LM per una economia chiusa agli scambi con l’estero.

Siamo dunque nuovamente in presenza di un sistema di quattro equazioni in quattro

incognite (𝑌, 𝑆𝐵𝑃, 𝑟 e 𝜀).

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228

Inoltre, anche in questo caso possiamo rappresentare i valori di equilibrio del reddito

(𝑌) e del tasso di interesse (𝑟) tramite un grafico che riporta i livelli di 𝑟 sull’asse delle

ordinate e quelli di 𝑌 sull’asse delle ascisse (figura 91).

Come si può notare, nella figura 91, in corrispondenza del punto 1, caratterizzato

dalla coppia di valori (𝑌 = 𝑌1 e 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗), l’equilibrio sul mercato dei beni e sul

mercato della moneta non è accompagnato dall’equilibrio nei conti con l’estero, perché

il saldo della bilancia dei pagamenti è positivo. Infatti, il punto 1 si trova al di sopra

della curva BP. Di conseguenza, la domanda di euro (€) in cambio di dollari ($) eccede

l’offerta:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌1 , 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Figura 91 - Il processo di aggiustamento verso l’equilibrio in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (1)

Questo squilibrio determina una rivalutazione del tasso di cambio nominale (𝐸) che si

traduce in un aumento del tasso di cambio reale (𝜀), e quindi in una perdita di

competitività dei prodotti nazionali. Il conseguente peggioramento del saldo delle

partite correnti (del saldo commerciale) conduce a una riduzione dell’avanzo nel saldo

della bilancia dei pagamenti:

𝐸 ↑ → 𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓ .

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229

A seguito dell’aumento del tasso di cambio reale da 𝜀1 a 𝜀2 (𝜀2 > 𝜀1), la curva IS si

sposta verso il basso (verso sinistra), sino a quando interseca la curva LM in

corrispondenza del punto 2 (figura 92).

Nel punto 2:

𝑌2 < 𝑌1 e 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗.

Anche il punto 2 si trova al di sopra della curva BP. Quindi, al nuovo equilibrio sul

mercato dei beni e sul mercato della moneta continua a corrispondere una situazione di

avanzo della bilancia dei pagamenti, che si riflette in un eccesso di domanda di euro (€)

in cambio di dollari ($):

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌2 , 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Figura 92 – Il processo di aggiustamento verso l’equilibrio in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (2)

Pertanto, il processo di aggiustamento dello squilibrio nei conti con l’estero prosegue.

Alla rivalutazione del tasso di cambio nominale (𝐸) fa seguito un altro aumento del

tasso di cambio reale (𝜀), che determina una ulteriore perdita di competitività dei

prodotti nazionali. Il saldo delle partite correnti (del saldo commerciale) continua a

peggiorare, sino a quando l’avanzo nel saldo della bilancia dei pagamenti viene

completamente eliminato:

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230

𝐸 ↑ → 𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 = 0 .

Graficamente, il ripristino dell’equilibrio nei conti con l’estero è raggiunto quando la IS

termina di spostarsi verso il basso (verso sinistra), cioè quando essa interseca la curva

LM e la curva BP in corrispondenza del punto 0 (figura 93).

Figura 93 – Il processo di aggiustamento verso l’equilibrio in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (3)

Nel punto 0:

𝑌 = 𝑌0 e 𝑟 = 𝑟∗.

In corrispondenza di questa combinazione dei valori di 𝑌 e di 𝑟, il sistema si trova in

una situazione di equilibrio stabile, perché il saldo della bilancia dei pagamenti è pari a

zero e non ci sono spinte in direzione di una variazione del livello del tasso di cambio

reale (𝜀):

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌0, 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝜀0 stabile.

Anche in regime di cambi flessibili esistono dunque dei meccanismi di aggiustamento

che determinano la convergenza di un sistema economico aperto agli scambi con

l’estero verso una condizione caratterizzata dall’equilibrio sia sul mercato dei beni che

sul mercato della moneta e nei conti con l’estero.

Tuttavia, come nel caso di un regime di cambi fissi, anche in quello di un regime di

cambi flessibili, non è detto che l’equilibrio sul mercato dei beni, sul mercato della

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231

moneta e nei conti con l’estero corrisponda a un equilibrio di piena occupazione della

forza lavoro disponibile (figura 94).

Figura 94 - L’equilibrio del modello IS-LM in economia aperta (in ipotesi di cambi

flessibili e di perfetta mobilità dei capitali) e l’equilibrio di piena occupazione

Consideriamo quindi le opzioni a disposizione delle autorità di governo per cercare di

spostare il sistema verso una situazione di equilibrio stabile contraddistinta da un livello

del reddito corrispondente alla piena occupazione (𝑌𝑃𝑂). A tal fine, iniziamo ad

analizzare gli effetti prodotti da una politica fiscale espansiva consistente in un aumento

della spesa pubblica (𝐺):

𝑑𝐺 > 0 con �̅�1 > �̅�0 .

Come si evince dalla figura 95, quando:

𝐺 ↑ → 𝐷𝐴 ↑ → (a parità di 𝑟) 𝑌 ↑ → la IS si sposta verso l'alto (verso destra).

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232

Figura 95 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (1)

Il nuovo punto di intersezione tra la curva IS e la curva LM (punto 1) corrisponde a

una situazione di equilibrio sul mercato dei beni e sul mercato della moneta in cui:

𝑌1 > 𝑌0 e 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗.

Tuttavia, trovandosi sopra la curva BP, il punto 1individua una combinazione di valori

di 𝑌 e di 𝑟 che non è compatibile con l’equilibrio nei conti con l’estero. Infatti, il saldo

della bilancia dei pagamenti è in attivo:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌1 , 𝑟1 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Il conseguente eccesso di domanda di € in cambio di $ determina una rivalutazione del

tasso di cambio nominale (𝐸) che si traduce in un aumento del tasso di cambio reale

(𝜀), e quindi in una perdita di competitività dei prodotti nazionali, cui fa seguito un

peggioramento del saldo delle partite correnti (del saldo commerciale) accompagnato da

una riduzione dell’avanzo nel saldo della bilancia dei pagamenti:

𝐸 ↑ → 𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓ .

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233

La crescita del tasso di cambio reale da 𝜀0 a 𝜀1 (𝜀1 > 𝜀0), provoca uno spostamento

della curva IS verso il basso (verso sinistra), sino a quando essa interseca la curva LM

in corrispondenza del punto 2 (figura 96):

Figura 96 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (2)

Nel punto 2:

𝑌2 < 𝑌1 e 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗.

Anche il punto 2 si trova al di sopra della curva BP. Al nuovo equilibrio sul mercato dei

beni e sul mercato della moneta continua quindi a corrispondere una situazione di

avanzo della bilancia dei pagamenti, che si riflette in un eccesso di domanda di euro (€)

in cambio di dollari ($):

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌2 , 𝑟2 > 𝑟 = 𝑟∗) > 0

Domanda di € in cambio di $ > Offerta di € in cambio di $.

Pertanto, il processo di aggiustamento dello squilibrio nei conti con l’estero non si

ferma. Alla rivalutazione del tasso di cambio nominale (𝐸) fa seguito un altro aumento

del tasso di cambio reale (𝜀), che determina una ulteriore perdita di competitività dei

prodotti nazionali. Il saldo delle partite correnti (del saldo commerciale) continua a

peggiorare sino a quando l’avanzo nel saldo della bilancia dei pagamenti si annulla:

𝐸 ↑ → 𝜀 ↑ → 𝑁𝑋 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 ↓ → 𝑆𝐵𝑃 = 0 .

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234

Come si può notare osservando la figura 97, i conti con l’estero tornano in equilibrio

quando la IS termina di spostarsi verso il basso (verso sinistra), cioè quando essa

interseca la curva LM e la curva BP in corrispondenza del punto 0.

Figura 97 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (3)

Nel punto 0:

𝑌 = 𝑌0 e 𝑟 = 𝑟∗.

In corrispondenza di questa combinazione dei valori di 𝑌 e di 𝑟, il sistema si trova in

una situazione di equilibrio stabile, perché il saldo della bilancia dei pagamenti è in

equilibrio, e quindi non ci sono spinte in direzione di una variazione del livello del tasso

di cambio reale (𝜀).

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌0, 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝜀0 stabile.

In base alle considerazioni precedenti, la nostra prima conclusione riferita al caso di

una economia aperta in cui i cambi sono flessibili, è che la politica fiscale non è in

grado di determinare un incremento permanente del reddito che sposti il sistema in una

condizione di piena occupazione della forza lavoro disponibile.

Consideriamo ora il caso di una politica monetaria espansiva consistente in un

aumento della quantità di moneta creata dalla banca centrale.

All’aumento della quantità nominale di moneta corrisponde l’incremento della quantità

reale di moneta:

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235

𝑑𝑀 > 0 → �̅�1

�̅�>�̅�0

�̅� .

Di conseguenza, la curva LM si sposta verso il basso (verso destra) sino a intersecare la

curva IS in coincidenza del punto 1 (figura 98), in cui:

𝑌 = 𝑌1 e 𝑟1 < 𝑟 = 𝑟∗.

Figura 98 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (1)

Nel punto 1 il mercato dei beni e il mercato della moneta sono in equilibrio. Tuttavia,

si registra un disavanzo della bilancia dei pagamenti. Infatti, il punto 1 si trova al di

sotto della curva BP. Pertanto, sul mercato della moneta l’offerta di euro (€) in cambio

di dollari ($) eccede la domanda:

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 , 𝑟1 < 𝑟 = 𝑟∗) < 0

Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $.

Per effetto dell’eccesso di offerta di € in cambio di $ il tasso di cambio nominale (𝐸) si

svaluta, determinando così una diminuzione del tasso di cambio reale (𝜀), e quindi un

aumento di competitività dei prodotti nazionali, cui fa seguito un miglioramento del

saldo delle partite correnti (del saldo commerciale) accompagnato da una riduzione del

disavanzo nel saldo della bilancia dei pagamenti:

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236

𝐸 ↓ → 𝜀 ↓ → 𝑁𝑋 ↑ → 𝑆𝐵𝑃 ↑ .

A seguito della riduzione del tasso di cambio reale da 𝜀0 a 𝜀1 (𝜀1 < 𝜀0), la curva IS si

sposta verso l’alto (verso destra), sino a quando interseca la curva LM in corrispondenza

del punto 2 (figura 99):

Figura 99 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (2)

Nel punto 2:

𝑌2 > 𝑌1 e 𝑟2 < 𝑟 = 𝑟∗.

Anche il punto 2 si trova al di sotto della curva BP. Quindi, al nuovo equilibrio sul

mercato dei beni e sul mercato della moneta continua a corrispondere una situazione di

disavanzo della bilancia dei pagamenti, che si riflette in un eccesso di offerta di euro (€)

in cambio di dollari ($):

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌2 , 𝑟2 < 𝑟 = 𝑟∗) < 0

Domanda di € in cambio di $ < Offerta di € in cambio di $.

Di conseguenza, il processo di aggiustamento dello squilibrio nei conti con l’estero

continua. In particolare, il tasso di cambio nominale (𝐸) prosegue la sua discesa,

causando una ulteriore riduzione del tasso di cambio reale (𝜀), e quindi un continuo

incremento del grado di competitività dei prodotti nazionali. Il saldo delle partite

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237

correnti (il saldo commerciale) migliora ancora, sino a quando il disavanzo nel saldo

della bilancia dei pagamenti viene completamente eliminato:

𝐸 ↓ → 𝜀 ↓ → 𝑁𝑋 ↑ → 𝑆𝐵𝑃 ↑ → 𝑆𝐵𝑃 = 0 .

Come si evince dalla figura 100, il processo di aggiustamento termina quando la IS

interseca la curva LM e la curva BP in corrispondenza del punto 3.

Figura 100 - Gli effetti di un aumento della quantità di moneta in una economia aperta

in ipotesi di cambi flessibili e di perfetta mobilità dei capitali (2)

Nel punto 3:

𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 e 𝑟 = 𝑟∗.

A questa combinazione dei valori di 𝑌 e di 𝑟 corrisponde una situazione di equilibrio

stabile, perché il saldo della bilancia dei pagamenti è in equilibrio e non ci sono spinte

verso una variazione del livello del tasso di cambio nominale (𝐸), e quindi di quello

reale (𝜀).

𝑆𝐵𝑃 (𝑌 = 𝑌𝑃𝑂 , 𝑟 = 𝑟∗) = 0 → 𝜀 = 𝜀2 < 𝜀1 stabile.

Pertanto, con riferimento al caso di una economia aperta in cui i cambi sono

flessibili, la nostra seconda conclusione è che la politica monetaria rappresenta uno

strumento molto efficace ai fini del conseguimento di un incremento permanente del

reddito che sposti il sistema in una condizione di piena occupazione della forza lavoro

disponibile.

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238

Possiamo chiudere l’analisi relativa agli effetti della politica fiscale e della politica

monetaria nel contesto di una economia aperta agli scambi con l’estero, sottolineando

come i risultati prodotti da questi interventi di politica economica sui livelli del reddito

e dell’occupazione dipendano dal regime di cambio vigente. Riassumendo:

Regime di cambi fissi

la politica fiscale è efficace, mentre

la politica monetaria è inefficace;

Regime di cambi flessibili

la politica fiscale è inefficace, mentre

la politica monetaria è efficace.

Queste differenze dipendono dai differenti meccanismi di aggiustamento degli squilibri

della bilancia dei pagamenti.

Nel caso dei cambi fissi, un saldo della bilancia dei pagamenti diverso da zero dà

origine a una variazione delle riserve ufficiali, e quindi a una variazione della quantità

nominale e reale della moneta, che incide sulla posizione della curva LM:

𝑆𝐵𝑃 ≠ 0 → 𝑑𝑅𝑈 ≠ 0 → 𝑑𝑀 ≠ 0.

Nel caso dei cambi flessibili, invece, un saldo della bilancia dei pagamenti diverso da

zero determina una variazione del tasso di cambio nominale, e quindi del tasso di

cambio reale, che influenza la posizione della curva IS:

𝑆𝐵𝑃 ≠ 0 → 𝑑𝐸 → 𝑑𝜀.

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239

6. La teoria keynesiana dell’inflazione: la curva di Phillips

6.1. Introduzione

Nelle due versioni del modello IS-LM analizzate finora, quella relativa a una economia

chiusa e quella invece relativa a una economia aperta agli scambi con l’estero, i prezzi e

i salari erano fissati esogenamente (𝑃 = �̅� 𝑒 𝑊 = �̅�). Di conseguenza, in entrambi i

modelli il fenomeno dell’inflazione viene trascurato. Tuttavia, negli anni ’60 del secolo

scorso è stata elaborata una versione del modello IS-LM che includeva una relazione

nota come curva di Phillips, in base alla quale era possibile dare una spiegazione

dell’inflazione. La curva di Phillips deve il suo nome all’economista che, nel 1958,

pubblicò un lavoro contenente una analisi empirica sulla relazione tra il tasso di

variazione dei salari monetari e il tasso di disoccupazione osservata in Gran

Bretagna nell’arco di un periodo di tempo lungo circa un secolo, che andava dalla metà

dell’800 alla metà del ’900.

Il tasso di variazione dei salari monetari (𝑊𝑡̇ ) può essere definito come il rapporto

tra la differenza tra:

il salario monetario al tempo 𝑡 (𝑊𝑡), e il livello del salario monetario al tempo 𝑡 − 1

(𝑊𝑡−1), e

il livello del salario monetario al tempo 𝑡 − 1 (𝑊𝑡−1), ovvero

𝑊𝑡̇ =𝑊𝑡 −𝑊𝑡−1𝑊𝑡−1

.

Il tasso di disoccupazione (𝑢) corrisponde invece al rapporto tra il numero dei

disoccupati e quello della forza lavoro:

𝑢𝑡 =𝑈𝑡𝐿=𝐿𝑡 − 𝑁𝑡𝐿𝑡

=𝐿𝑡𝐿𝑡−𝑁𝑡𝐿𝑡= 1 −

𝑁𝑡𝐿𝑡

,

con:

𝐿 = forza lavoro

𝑁 = lavoratori occupati

𝑈 = lavoratori disoccupati e

𝐿 = 𝑁 + 𝑈.

In base ai dati relativi alla Gran Bretagna, Phillips individuò una relazione statistica

tra queste due variabili, rappresentata nella figura 101, successivamente divenuta

famosa in letteratura come curva di Phillips.

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240

Figura 101 – La curva di Phillips

Questa relazione ha due caratteristiche rilevanti:

1. Essa è inclinata negativamente:

𝑊𝑡̇ = 𝑓(𝑢𝑡) con 𝑓′ < 0.

In altri termini, il tasso di variazione dei salari monetari cresce al diminuire del tasso di

disoccupazione.

2. Esiste un valore del tasso di disoccupazione (uguale a 𝑢0) in corrispondenza del quale

il tasso di variazione dei salari monetari è pari a zero. In particolare, nel lavoro di

Phillips sui dati relativi alla Gran Bretagna questo valore era uguale al 5,5%. A valori

del tasso di disoccupazione superiori al 5,5% corrispondevano tassi di variazione dei

salari monetari negativi e viceversa.

Nel corso degli anni ‘60 sono stati pubblicati lavori simili, nei quali si dimostrava

che la relazione individuata da Phillips era valida anche per paesi diversi dalla Gran

Bretagna, come, per esempio, gli Stati Uniti.

Queste analisi empiriche hanno spinto gli economisti a inserire la relazione

individuata da Phillips nel modello IS-LM, che, come abbiamo osservato poco sopra,

fino ad allora era basato sull’ipotesi che i prezzi e i salari fossero fissi. Infatti, nei

modelli IS-LM visti sino ad ora, al variare del reddito (𝑌), dell’occupazione (𝑁) e del

tasso di disoccupazione (𝑢) i prezzi e i salari rimanevano costanti. Il lavoro di Phillips e

quello di altri economisti mostrava invece che i salari monetari variano in funzione del

livello del tasso di disoccupazione, e quindi dei livelli del reddito e dell’occupazione.

Effettivamente, dalla espressione analitica della curva di Phillips

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241

𝑊𝑡̇ = 𝑓(𝑢𝑡) con 𝑓′ < 0.

è possibile ricavare le seguenti due relazioni:

1.

𝑢𝑡 ↓ → 𝑊𝑡̇ ↑ ,

da cui, ipotizzando che la forza lavoro (𝐿) sia data,

𝑢𝑡 ↓ → 𝑁 ↑ → 𝑌 ↑.

2.

𝑢𝑡 ↓ = 1 −𝑁𝑡 ↑

𝐿𝑡 ,

e quindi

𝑁𝑡 ↑ → 𝑌𝑡 ↑ → 𝑊𝑡 .̇

Il significato economico della relazione empirica tra 𝑢𝑡 e 𝑊𝑡̇ può essere spiegato

considerando le caratteristiche del mercato del lavoro. Come si ricorderà,

presentando la teoria neoclassica abbiamo ipotizzato che il mercato del lavoro fosse

perfettamente concorrenziale, ovvero che in esso si confrontassero lavoratori tra loro

omogenei e un numero molto elevato di imprese anch’esse tra loro omogenee. In un

contesto di questo genere, né le decisioni della singola impresa né le decisioni di un

singolo lavoratore possono influenzare il prezzo del lavoro, vale a dire il salario di

equilibrio che si determina per effetto della interazione tra la domanda e l’offerta di

lavoro.

Abbandoniamo ora l’ipotesi di mercati perfettamente concorrenziali, e supponiamo

che sul mercato del lavoro il livello del salario monetario (𝑊𝑡) sia determinato dalla

contrattazione tra i rappresentanti dei lavoratori (i sindacati) da un lato e i rappresentanti

delle imprese (per esempio la Confindustria) dall’altro.

In tal caso, il livello dei salari monetari (𝑊𝑡) dipende dalla forza contrattuale dei

sindacati e delle imprese, ovvero dalla capacità di ciascuna di queste due istituzioni di

ottenere il livello di salario monetario coerente con i propri obiettivi.

Negli anni ’60, la relazione tra il tasso di variazione dei salari monetari e il tasso di

disoccupazione individuata da Phillips ha indotto gli economisti a concludere che la

forza contrattuale dei lavoratori dipendesse dal tasso di disoccupazione. Alti tassi di

disoccupazione inducono i lavoratori a rinunciare a chiedere salari monetari più elevati,

perché la loro preoccupazione fondamentale è quella di conservare il posto di lavoro,

mentre, al contrario, bassi tassi di disoccupazione li spingono a domandare aumenti

salariali.

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242

6.2. Il modello IS-LM con curva di Phillips

Per tenere conto della relazione descritta dalla curva di Phillips è quindi necessario

elaborare una nuova versione del modello IS-LM in cui i salari monetari (𝑊) e i prezzi

(𝑃) sono trattati come variabili endogene.

Le seguenti equazioni 1) e 2) corrispondono alle tradizionali equazioni IS-LM con

due importanti differenze. In primo luogo, introduciamo il tempo (𝑡), perché i salari e i

prezzi non sono costanti, ma variano con l’andare del tempo in funzione dei valori del

reddito, del numero dei lavoratori occupati e del tasso di disoccupazione. In secondo

luogo, 𝑃𝑡 diventa una variabile endogena al modello e non una grandezza esogena.

Pertanto, il sistema costituito dalle equazioni 1) e 2) che descrive il modello IS-LM

contiene non più due sole incognite (il livello del reddito e quello del tasso di interesse),

bensì tre incognite date da 𝑌𝑡, 𝑟𝑡 e 𝑃𝑡.

1) 𝑌𝑡 = 𝐶(𝑌𝑡 − 𝑇) + 𝐼(𝜑, 𝑟) + 𝐺 (equazione IS)

2) �̅�

𝑃𝑡= 𝑀𝑑(𝑌𝑡, 𝑟𝑡) (equazione LM).

Supponiamo che le imprese fissino il livello dei prezzi (𝑃𝑡) in funzione dei costi di

produzione rappresentati dal costo del lavoro. Indichiamo con 𝑊𝑡 il salario monetario

unitario e con 𝐴 la produttività di un singolo lavoratore, ovvero la quantità di prodotto

che, data la tecnologia, viene realizzata dal singolo lavoratore.

Per semplicità, ipotizziamo inoltre che la produttività marginale di ogni lavoratore

sia costante. In altre parole, abbandoniamo l’ipotesi che la produttività marginale del

lavoro sia decrescente. Il costo del lavoro per unità di prodotto diventa quindi:

𝑊𝑡𝐴 .

Presumiamo, per esempio, che risulti:

𝑊𝑡 = 100 unità di moneta

𝐴 = 20 unità di prodotto.

Avremo quindi:

𝑊𝑡𝐴=100

20= 5.

Indichiamo poi con 𝑃𝑡 il prezzo di una unità di prodotto. Questo prezzo viene fissato

dalle imprese in funzione del costo del lavoro per unità di prodotto:

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243

𝑃𝑡 = 𝑓 (𝑊𝑡𝐴) con 𝑓′ > 0.

Possiamo scrivere questa relazione in forma lineare nel modo seguente:

3) 𝑃𝑡 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡𝐴

con 𝜇 > 0.

L’espressione (1 + 𝜇) rappresenta il margine (mark-up) che serve a coprire le altre voci

di costo dell’impresa e ad assicurarle un determinato profitto. Dati 𝜇 e 𝐴, il livello dei

prezzi (𝑃𝑡) dipende dal livello del salario nominale (𝑊𝑡). Pertanto, l’equazione 3)

definisce il livello dei prezzi in funzione dei salari monetari pagati ai lavoratori.

Per completare il modello, è quindi necessario specificare il livello di questi ultimi. A

tal fine, facciamo ricorso alla relazione descritta dalla curva di Phillips e che trova

espressione nell’equazione 4):

4) 𝑊𝑡̇ = 𝑓(𝑢𝑡) con 𝑓′ < 0.

L’equazione 5) definisce il livello dei salari monetari al tempo 𝑡 in funzione del

salario del periodo precedente (𝑊𝑡−1) e del tasso di variazione dei salari monetari

determinato dall’equazione 4):

5) 𝑊𝑡 = 𝑊𝑡−1 ∙ (1 +𝑊𝑡̇ ).

L’equazione 6), invece, esplicita la relazione tra il tasso di disoccupazione e il

numero di lavoratori occupati (𝑁𝑡):

6) 𝑢𝑡 = 1 −𝑁𝑡𝐿𝑡 .

Sappiamo che esiste una relazione tra 𝑁 e 𝑌 definita dalla funzione di produzione:

𝑌 = 𝑓(𝑁,𝐾),

con

𝑁 = occupazione e

𝐾 = stock di capitale.

Poiché 𝐾 è dato, possiamo scrivere:

𝑌 = 𝑓(𝑁).

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244

Inoltre, ricavando la relazione inversa, è possibile ottenere il valore di 𝑁 in funzione di

quello di 𝑌, come nella equazione 7):

7) 𝑁𝑡 = 𝑔(𝑌𝑡).

Abbiamo quindi ottenuto un sistema di sette equazioni in sette incognite

(𝑌𝑡, 𝑟𝑡, 𝑃𝑡,𝑊𝑡, 𝑊𝑡̇ , 𝑢𝑡 e 𝑁𝑡). Per illustrare le caratteristiche di questa nuova versione del

modello IS-LM, supponiamo che nel sistema si registri quel particolare valore del tasso

di disoccupazione che, in base alla relazione definita dalla curva di Phillips, corrisponde

a un tasso di variazione dei salari monetari pari a zero:

𝑊𝑡̇ = 0.

Pertanto, risulterà:

𝑢𝑡 = 𝑢0 .

Si noti che nel lavoro originale di Phillips 𝑢0 era pari al 5,5%.

Se 𝑢𝑡 = 𝑢0:

𝑁𝑡 = 𝑁0 → 𝑢0 = 1 −𝑁0𝐿𝑡 .

Indichiamo con 𝑌𝑡 = 𝑌0 il livello di reddito coerente con 𝑁0.

Figura 102 – La condizione di equilibrio del modello IS-LM con curva di Phillips

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245

Inoltre, se:

𝑊𝑡̇ = 0 → 𝑊𝑡 = 𝑊𝑡−1 = 𝑊𝑡−2,

allora il livello del salario monetario è stabile (𝑊 = 𝑊0), e anche i prezzi sono stabili.

Questa situazione di equilibrio è rappresentata nella figura 102 di cui sopra.

6.3. Il ‘real balance effect’ e l’efficacia solo temporanea di una politica fiscale

espansiva

Supponiamo che le autorità di governo decidano di attuare una politica fiscale espansiva

per incrementare il livello del reddito. In particolare, consideriamo il caso di un

aumento della spesa pubblica:

𝑑𝐺 > 0 𝑐𝑜𝑛 �̅�1 > �̅�0

La politica fiscale espansiva determina un spostamento della curva IS verso destra

come mostrato nella figura 103, in cui la nuova situazione di equilibrio è caratterizzata

dalla combinazione di valori del reddito e del tasso di interesse (𝑌1 > 𝑌0, 𝑟1 > 𝑟0).

Figura 103 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica

nel modello IS-LM con curva di Phillips (1)

La combinazione di valori corrispondente al punto 1 rappresenta la nuova posizione

di equilibrio che il sistema raggiungerebbe nella versione tradizionale del modello IS-

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246

LM, quella cioè in cui i livelli dei prezzi e dei salari sono stabili, e quindi non variano al

crescere del reddito e dell’occupazione.

Tuttavia, se si considera la relazione tra salari, prezzi, occupazione e reddito definita

dalla curva di Phillips, questa conclusione non è più valida. Infatti, la combinazione 1

non rappresenta una posizione di equilibrio stabile, perché l’incremento del reddito e

dell’occupazione, e la corrispettiva riduzione del tasso di disoccupazione, aumentano la

forza contrattuale dei lavoratori. Pertanto, in corrispondenza di un livello del reddito

pari a 𝑌1 il tasso di crescita dei salari monetari è superiore a zero, determinando un

equivalente aumento del tasso di variazione dei prezzi, come mostrato nella seguente

tabella 1:

Equilibrio 0 Equilibrio 1

𝑌 = 𝑌0 𝑌 = 𝑌1 > 𝑌0

𝑁 = 𝑁0 𝑁1 > 𝑁0

𝑢 = 𝑢0 𝑢𝑡+1 < 𝑢0

𝑢0 → 𝑊𝑡̇ = 0 𝑢𝑡+1 → �̇�𝑡+1 > 0

�̇�𝑡 = 0 �̇�𝑡+1 > 0

Supponiamo che, per effetto della riduzione del tasso di disoccupazione, in

corrispondenza di 𝑌1 si abbia un aumento dei salari monetari del 10%:

�̇�𝑡+1 = 𝑓(𝑢𝑡+1 < 𝑢0) = 10%.

Quindi risulterà:

𝑊𝑡+1 = 𝑊𝑡 ∙ (1 + 0,1).

L’aumento dei salari monetari provocherà un aumento dei prezzi. Infatti:

�̇�𝑡+1 > 0, con

�̇�𝑡+1 =𝑃𝑡+1 − 𝑃𝑡

𝑃𝑡 , e

𝑃𝑡+1 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡+1𝐴 .

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247

Di conseguenza:

�̇�𝑡+1 =

(1 + 𝜇)𝐴 ∙ 𝑊𝑡+1 −

(1 + 𝜇)𝐴 ∙ 𝑊𝑡

(1 + 𝜇)𝐴 ∙ 𝑊𝑡

=𝑊𝑡+1 −𝑊𝑡

𝑊𝑡= �̇�𝑡+1 = 10%.

In definitiva, avremo:

𝑃𝑡+1 = 𝑃0 ∙ (1 + �̇�𝑡+1) = 1,1 ∙ 𝑃0.

L’aumento del livello dei prezzi modifica l’equilibrio IS-LM, perché provoca una

riduzione della quantità reale di moneta:

�̅�0𝑃𝑡+1

(quantità reale di moneta al tempo 𝑡 + 1), e

�̅�0𝑃0 (quantità reale di moneta al tempo 𝑡).

E poiché

𝑃𝑡+1 > 𝑃0,

si avrà:

�̅�0𝑃𝑡+1

<�̅�0𝑃0= 𝑀𝑑(𝑌1, 𝑟1) (eccesso di domanda di moneta).

A parità della quantità nominale di moneta immessa nel sistema dalle autorità

monetarie (𝑀0), l’aumento dei prezzi provocato dall’aumento del reddito determina una

riduzione dell’offerta reale di moneta. In corrispondenza della combinazione di valori

(𝑌1, 𝑟1), gli operatori economici esprimono una domanda reale di moneta che eccede

l’offerta reale di moneta. Pertanto, si registrerà un eccesso di domanda di moneta, cui,

come sappiamo, corrisponde un eccesso di offerta di titoli, perché il pubblico cede titoli

per procurarsi la moneta di cui ha bisogno:

eccesso di offerta di titoli → 𝑃𝐵 ↓ → 𝑟 ↑.

In termini di equilibrio IS-LM, la riduzione dell’offerta reale di moneta determinata

dall’aumento dei prezzi provoca uno spostamento della LM verso l’alto (verso sinistra).

Di conseguenza, il sistema raggiungerà la posizione corrispondente al punto 2 (figura

104):

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248

Figura 104 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica

nel modello IS-LM con curva di Phillips (2)

Anche la posizione di equilibrio corrispondente alla combinazione 2 non è stabile,

perché 𝑌2 > 𝑌0, e quindi 𝑢2 < 𝑢0. Ciò significa che nel periodo 𝑡 + 2, il tasso di

variazione dei salari monetari (�̇�𝑡+2) sarà ancora maggiore di zero, come pure il tasso

di inflazione (�̇�𝑡+2) (tabella 2):

Equilibrio 0 Equilibrio 1 Equilibrio 2

𝑌 = 𝑌0 𝑌 = 𝑌1 > 𝑌0 𝑌 = 𝑌2 > 𝑌0

𝑁 = 𝑁0 𝑁1 > 𝑁0 𝑁0 < 𝑁2 < 𝑁1

𝑢 = 𝑢0 𝑢𝑡+1 < 𝑢0 𝑢𝑡+2 < 𝑢0

𝑢0 → 𝑊𝑡̇ = 0 𝑢𝑡+1 → �̇�𝑡+1 > 0 𝑢𝑡+2 → �̇�𝑡+2 > 0

�̇�𝑡 = 0 �̇�𝑡+1 > 0 �̇�𝑡+2 > 0

L’aumento dei prezzi determina una nuova riduzione dell’offerta reale di moneta, e

quindi un nuovo spostamento della curva LM verso l’alto (verso sinistra). Il processo di

aumento dei salari e dei prezzi, che provoca un progressivo spostamento verso l’alto

della curva LM termina quando il sistema raggiunge il punto 𝐸, caratterizzato da un

livello del reddito pari a 𝑌0 (figura 105). Come sappiamo, in corrispondenza di questo

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249

livello del reddito il valore del tasso di disoccupazione (𝑢0) è tale da garantire la

stabilità del livello dei salari monetari (il tasso di variazione dei salari monetari è nullo),

e quindi la stabilità del livello generale dei prezzi. Pertanto, il punto 𝐸 rappresenta un

punto di equilibrio stabile, perché:

𝑌 = 𝑌0 ↔ 𝑢 = 𝑢0 → �̇� = 0 → �̇� = 0.

Figura 105 - Gli effetti di un aumento della spesa pubblica

nel modello IS-LM con curva di Phillips (3)

La specificazione della relazione tra salari monetari, prezzi, reddito, occupazione e

tasso di disoccupazione definita dalla curva di Phillips modifica sensibilmente le

conclusioni circa gli effetti della politica fiscale cui portava il tradizionale modello IS-

LM. Infatti, secondo la versione tradizionale di tale modello una politica fiscale

espansiva produce un effetto permanente sul livello del reddito. Al contrario,

l’incorporazione delle relazioni evidenziate dalla curva di Phillips nel modello IS-LM

induce a concludere che una politica fiscale espansiva può incidere soltanto

temporaneamente sul livello di reddito, perché la manovra fiscale espansiva provoca un

aumento del livello generale dei prezzi che retroagisce sui livelli del reddito e

dell’occupazione attraverso l’impatto sull’offerta reale di moneta:

𝑃 ↑ �̅�

𝑃↓ → 𝑟 ↑ → 𝐼 ↓ → 𝑌 ↓.

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250

6.4. Il ‘trade-off’ tra reddito e inflazione

Gli economisti dell’ortodossia keynesiana degli anni ‘60 del secolo scorso avevano

individuato una strategia che consentiva di espandere in modo permanente il livello del

reddito anche in un sistema economico in cui valevano le relazioni rappresentate

attraverso la curva di Phillips. Per poter ottenere un livello del reddito costantemente

pari a 𝑌1 era necessario annullare gli effetti dell’aumento dei prezzi sull’offerta reale di

moneta attraverso un incremento della quantità nominale di moneta proporzionale

all’aumento dei prezzi.

Se la crescita del livello del reddito da 𝑌0 a 𝑌1 determina un aumento del tasso di

inflazione del 10% (nella fattispecie dallo 0% al 10%), al fine di mantenere un livello

del reddito costantemente pari a 𝑌1, di periodo in periodo, le autorità monetarie devono

aumentare la quantità di moneta del 10% e accettare un tasso di inflazione del 10%.

In particolare, se in 𝑡 + 1

�̇�𝑡+1 = 10%,

per lasciare invariata l’offerta reale di moneta è necessario che il tasso di variazione

della quantità nominale di moneta (�̇�𝑡+1) sia pari al 10%:

�̅�𝑡+1 = �̅�0 ∙ (1 + 0,1),

𝑃𝑡+1 = 𝑃0 ∙ (1 + 0,1), con

�̅�𝑡+1𝑃𝑡+1

=�̅�0𝑃0 .

Nel periodo 𝑡 + 2, invece, in corrispondenza d un livello del reddito pari a 𝑌1:

�̇�𝑡+2 = 10% → �̇�𝑡+2 = 10% → �̇�𝑡+2 = 10%.

Di conseguenza:

�̅�𝑡+2𝑃𝑡+2

=�̅�0𝑃0 .

E così via per tutti periodi successivi. In questo modo, la posizione della curva LM non

cambia, perché:

�̅�0𝑃0=�̅�𝑡+1𝑃𝑡+1

=�̅�𝑡+2𝑃𝑡+2

= etc. ,

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251

e il sistema rimane in equilibrio in corrispondenza del punto 1, con 𝑌 = 𝑌1 > 𝑌0.

Nel modello IS-LM con curva di Phillips le autorità di politica economica possono

quindi aumentare in maniera permanente il livello del reddito, portandolo oltre il livello

coerente con la stabilità dei prezzi (𝑌0), a condizione che esse siano disposte ad

accettare un tasso di inflazione maggiore di 0. Nell’esempio appena esposto, le autorità

di politica economica possono ottenere un reddito pari a 𝑌1 > 𝑌0, se accettano un tasso

di inflazione del 10%.

E’ possibile individuare due distinte versioni della curva di Phillips. La prima di

queste versioni specifica la relazione tra il tasso di variazione dei salari monetari (𝑊)̇ e

il tasso di disoccupazione (𝑢) vista poco sopra. La seconda versione, invece, mette in

evidenza la relazione tra il tasso di inflazione al tempo 𝑡 (�̇�𝑡) e il livello del reddito

reale (𝑌𝑡).

La combinazione 0 del grafico di sinistra della figura 106 corrisponde alla

combinazione 0 del grafico di destra della medesima figura:

Figura 106 – Due distinte versioni della curva di Phillips

Quando:

𝑢 = 𝑢0 → �̇�(𝑢0) = 0 (punto 0).

Se:

𝑢 = 𝑢1 < 𝑢0 → �̇�(𝑢1) > �̇�(𝑢0) = 0 (punto 1).

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252

Individuiamo le combinazioni dei valori di �̇� e 𝑌 che corrispondono alle

combinazioni di �̇� e 𝑢 relative ai punti 0 e 1 sul grafico di sinistra della figura 106.

Se:

𝑢 = 𝑢0 → 𝑁 = 𝑁0 → 𝑢0 = 1 −𝑁0

�̅� .

Quindi, quando:

𝑁 = 𝑁0 → 𝑌 = 𝑌0.

In corrispondenza di 𝑌0, il tasso di inflazione (𝑃)̇ è pari a zero, perché anche il tasso di

variazione dei salari monetari è nullo:

�̇�(𝑢0, 𝑁0) = 0 (punto 0).

Viceversa, quando:

𝑢 = 𝑢1 < 𝑢0 → 𝑁 = 𝑁1 > 𝑁0 → 𝑌1(𝑁1) > 𝑌0.

In corrispondenza di 𝑌1, il tasso di inflazione (𝑃)̇ è maggiore di zero e pari al tasso di

variazione dei salari monetari (�̇�) associato a 𝑌1. Infatti, se:

𝑌 = 𝑌1 → �̇�(𝑌1, 𝑢1) > 0 → �̇�1(𝑌1) = �̇�(𝑌1, 𝑢1) > 0.

In particolare, se:

�̇�(𝑌1, 𝑢1) = 10% → �̇�1(𝑌1) = 10% (punto 1).

Il modello IS-LM con curva di Phillips presenta 2 caratteristiche fondamentali che lo

differenziano dal modello IS-LM tradizionale con prezzi e salari fissi.

1. In primo luogo, questo modello contiene una spiegazione dell’inflazione che dipende

da due fattori:

a) dal meccanismo di determinazione del livello dei salari monetari. Come abbiamo

visto in precedenza, i salari monetari vengono determinati attraverso la contrattazione

tra lavoratori e imprese. Il loro livello dipende quindi dalla forza contrattuale dei

lavoratori, che, a sua volta, è funzione del tasso di disoccupazione. Pertanto, i prezzi e i

salari non sono stabili, ma variano al variare del reddito reale e dell’occupazione.

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253

b) dal comportamento delle autorità monetarie. Affinché si possa mantenere nel tempo

un livello di reddito pari a 𝑌1, di anno in anno la banca centrale deve incrementare la

quantità nominale di moneta del 10% per compensare gli effetti prodotti da un aumento

dei prezzi del 10% sull’offerta reale di moneta.

2) In secondo luogo, nel modello IS-LM con curva di Phillips cambia la specificazione

degli obiettivi delle autorità di politica economica.

Se consideriamo il modello IS-LM tradizionale relativo a una economia chiusa agli

scambi con l’estero, in cui i prezzi e i salari sono fissi, possiamo affermare che le

autorità di politica economica perseguono un unico obiettivo, ovvero quello di garantire

un livello del reddito reale coerente con la piena occupazione della forza lavoro. Il

conseguimento di determinati livelli del reddito e dell’occupazione rappresenta un unico

obiettivo, perché queste due grandezze sono tra loro legate, secondo la relazione:

𝑌 → 𝑁.

Nel modello IS-LM tradizionale è quindi possibile espandere il livello del reddito a

parità di prezzi e di salari.

Invece, nel caso del modello IS-LM con curva di Phillips non è possibile espandere il

reddito mantenendo costante il livello dei prezzi. Il livello del reddito può essere

aumentato in maniera costante, ma soltanto se in cambio si accetta un incremento del

tasso di inflazione (trade-off tra reddito e inflazione). Pertanto, quando si considera il

modello IS-LM che incorpora le relazioni individuate dalla curva di Phillips, le autorità

fiscali e monetarie perseguono due fondamentali obiettivi di politica economica, dati, da

un lato, dal livello del reddito reale (𝑌) e, dall’altro, dal livello del tasso di inflazione

(�̇�). Tra questi due obiettivi esiste una relazione definita dalla curva di Phillips, che

assume il ruolo di una sorta di menu per le decisioni adottate dalle autorità di politica

economica. La curva di Phillips, infatti, indica tutte le combinazioni di 𝑌 e di �̇� che

possono essere scelte dalle autorità fiscali e monetarie. Le autorità di politica economica

possono quindi scegliere la combinazione 0 (𝑌0, �̇� = 0), oppure la combinazione 1

(𝑌1, �̇� = 10% > 0). Tuttavia, esse non possono scegliere la combinazione 𝐴 (𝑌1 >

𝑌0), �̇� = 0) (figura 106).

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PARTE TERZA

La controrivoluzione monetarista e il ritorno

alle conclusioni della teoria neoclassica

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255

1. Introduzione

Il modello IS-LM con curva di Phillips riassumeva i punti fondamentali della teoria

macroeconomica dominante negli anni ‘60 del secolo scorso e rappresentava il modello

generalmente accettato dagli economisti in quel periodo storico.

Questa situazione cambiò radicalmente nel corso degli anni ‘70. Come nel caso della

Grande Depressione degli anni ‘30, anche durante gli anni ‘70 la nuova ‘rivoluzione’

teorica trovava fondamento in un evento economico incoerente con il modello teorico

dominante.

Infatti, nel corso degli anni ‘70 si registrarono valori del tasso di inflazione e del

tasso di disoccupazione che contrastavano con la teoria economica coerente con la curva

di Phillips. L’esistenza di una relazione stabile tra tasso di variazione dei salari nominali

e tasso di disoccupazione (o, equivalentemente, tra tasso di inflazione e livello del

reddito reale) definita dalla curva di Phillips venne messa in forte dubbio dalla

manifestazione di un fenomeno, mai osservato sino ad allora, definito stagflazione,

consistente in una combinazione tra stagnazione economica (basso livello del reddito

reale e alta disoccupazione) e inflazione. Si trattava, con tutta evidenza, di una

combinazione che non era coerente con la relazione descritta dalla curva di Phillips,

che, come abbiamo visto in precedenza, associa la stagnazione economica a bassi tassi

di inflazione, e alti valori del tasso di inflazione a bassa disoccupazione (figura 107).

Figura 107 – La stagflazione

L’apparizione di questo nuovo fenomeno indusse gli economisti, come già nel corso

degli anni ’30 a seguito dello scoppio della Grande Depressione, a mettere in dubbio la

validità della teoria macroeconomica allora dominante. Questi dubbi furono alimentati

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256

in particolare dall’analisi condotta da Milton Friedman, il quale tra la fine degli anni ‘60

e l’inizio degli anni ’70 elaborò una critica molto efficace nei confronti del modello

elaborato dalla ortodossia keynesiana dell’epoca, ovvero la versione del modello IS-LM

che incorporava la curva di Phillips.

2. La critica di Friedman alla curva di Phillips

2.1. L’introduzione delle aspettative inflazionistiche e l’ipotesi di illusione monetaria

Milton Friedman ha messo in rilievo una lacuna fondamentale del modello IS-LM con

curva di Phillips, dimostrando che la relazione tra inflazione e tasso di disoccupazione

che caratterizza la curva di Phillips è valida soltanto se si ipotizza che i lavoratori si

comportino in modo irrazionale. Il modello macroeconomico della ortodossia

keynesiana degli anni ’60 non si fondava quindi su solide basi teoriche, perché era

basato sull’assunzione che i lavoratori fossero agenti economici irrazionali.

Possiamo renderci conto del significato della critica di Friedman al modello IS-LM

con curva di Phillips ricordando le caratteristiche salienti di questo modello. In partenza

abbiamo considerato una situazione in cui:

𝑢 = 𝑢0 → 𝑁 = 𝑁0 → �̇�(𝑢0, 𝑁0) = 0

Successivamente abbiamo descritto gli effetti di una politica fiscale espansiva,

definendo le condizioni necessarie affinché si possa ottenere un livello di reddito pari a

𝑌1 > 𝑌0. La nostra conclusione è stata che, per mantenere un livello di reddito pari a 𝑌1

al tempo 𝑡 + 1, al tempo 𝑡 + 2, etc., le autorità di politica economica dovevano

accettare un tasso di inflazione superiore a zero. Nel nostro esempio numerico il valore

del tasso di inflazione coerente con il mantenimento nel tempo di un livello del reddito

pari a 𝑌1 era uguale al 10%, cui corrispondeva un tasso di variazione dei salari monetari

anch’esso uguale al 10%. In ogni periodo, il livello di reddito sarebbe stato pari a 𝑌1, ma

soltanto a condizione che fosse:

�̇�𝑡+1 = �̇�𝑡+2 = ⋯⋯⋯ = 10%, e che

�̇�𝑡+1 = �̇�𝑡+1 = ⋯⋯⋯ = 10%.

A giudizio di Friedman, questo risultato implica un comportamento irrazionale da

parte dei lavoratori. Infatti, in corrispondenza del nuovo equilibrio caratterizzato da un

livello del reddito pari a 𝑌1, i salari monetari e i prezzi crescono nella stessa misura (del

10%). Ciò significa che i salari reali (𝑊/𝑃) rimangono costanti, e quindi che i

lavoratori richiedono aumenti dei salari monetari che non hanno alcun effetto sui salari

reali percepiti. Friedman sottolinea che questo comportamento dei lavoratori è

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257

irrazionale, perché l’unica ragione che li può spingere a chiedere aumenti dei salari

monetari è quella di ottenere un aumento del loro reddito reale.

Pertanto, non è ragionevole ipotizzare che i lavoratori chiedano continuamente,

periodo dopo periodo, aumenti dei salari monetari che non hanno alcun effetto sui loro

salari reali. Se, dopo aver chiesto e ottenuto un aumento dei salari monetari del 10%, i

lavoratori osservano che i prezzi sono aumentati del 10%, e che i loro salari reali sono

rimasti invariati, essi cercheranno di reagire a questa situazione. Di conseguenza, nel

periodo successivo essi non saranno disposti ad accettare un aumento dei salari del

10%, i cui effetti sono destinati a essere annullati da un aumento del tasso di inflazione

anch’esso pari al 10%.

Per ovviare a queste incoerenze, Friedman ha quindi elaborato un modello

alternativo, introducendo ipotesi più solide relative al comportamento dei lavoratori. In

particolare, egli parte dall’assunzione che i lavoratori chiedano incrementi dei salari

monetari allo scopo di poter accrescere il loro potere d’acquisto, e che essi non accettino

una situazione in cui gli effetti dell’aumento dei salari monetari siano continuamente

annullati dall’aumento del livello dei prezzi.

Friedman descrive il comportamento dei lavoratori Friedman, ipotizzando che i salari

monetari (𝑊) e i prezzi (𝑃) vengano fissati in istanti temporali diversi. Per illustrare il

pensiero di Friedman consideriamo un intervallo di tempo 𝑡, e supponiamo che esso

corrisponda a un anno:

Assumiamo che nell’istante 0 lavoratori e imprese contrattino il salario monetario

(𝑊𝑡). Il livello dei prezzi (𝑃𝑡) viene invece determinato dalle sole imprese durante il

periodo 𝑡, quando i salari monetari sono già stati fissati. Si tratta di una ipotesi

realistica, perché, di norma, i contratti di lavoro vengono rinnovati ogni due o tre anni,

con la fissazione dei salari monetari che verranno pagati nel corso del periodo della

contrattazione.

Questa ipotesi relativa alle modalità di determinazione dei salari monetari e dei

prezzi ha importanti implicazioni per quanto riguarda la costruzione della funzione di

offerta di lavoro. Finora, infatti, abbiamo considerato la funzione neoclassica di offerta

di lavoro, in base alla quale:

𝑁𝑠 = 𝑓 (𝑊

𝑃) → 𝑁𝑠𝑡 = 𝑓 (

𝑊𝑡𝑃𝑡).

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258

La funzione neoclassica di offerta di lavoro si fonda sull’ipotesi che, nel momento in

cui si contrattano i salari monetari (𝑊𝑡), sia noto anche il livello dei prezzi (𝑃𝑡).

Pertanto, se si assume che i prezzi e i salari vengano fissati in istanti temporali diversi,

questa funzione non può più essere valida.

Per questo motivo, Friedman descrive il comportamento dei lavoratori introducendo

il concetto di aspettative inflazionistiche. In particolare, egli indica con 𝑃𝑡𝑒 il livello

dei prezzi atteso dai lavoratori per il periodo 𝑡, specificando la seguente funzione di

offerta di lavoro:

1) 𝑁𝑠𝑡 = 𝑓 (𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒) con

𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 salario reale atteso dai lavoratori.

Poiché all’istante 0 i lavoratori non conoscono 𝑃𝑡, nella costruzione di Friedman

l’offerta di lavoro è funzione del salario reale atteso (𝑊𝑡 𝑃𝑡𝑒⁄ ) e non del salario reale

effettivo (𝑊𝑡 𝑃𝑡⁄ ) (figura 108):

Figura 108 – L’offerta di lavoro in funzione del salario reale atteso

Per completare la descrizione del mercato del lavoro dobbiamo specificare la

funzione di domanda di lavoro che, come sappiamo, sintetizza il comportamento delle

imprese. In precedenza abbiamo osservato che, all’istante 0, le imprese contrattano con i

lavoratori i salari monetari (𝑊𝑡), e che solo successivamente, nel corso del periodo 𝑡,

esse fissano il livello dei prezzi (𝑃𝑡). Dal momento che le imprese determinano i prezzi

di vendita quando i salari monetari sono già noti, esse sono in grado di controllare i

salari reali (𝑊𝑡/𝑃𝑡). In altri termini, le imprese sono in grado di fissare il livello dei

prezzi in funzione dei loro obiettivi di profitto.

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259

Al fine di specificare le caratteristiche della funzione di domanda di lavoro,

assumiamo che la forza lavoro disponibile sia pari a 𝐿 e che la produttività marginale di

ogni lavoratore sia costante e uguale ad 𝐴. Di conseguenza, 𝑊𝑡 𝐴⁄ rappresenta il costo

del lavoro per unità di prodotto. Inoltre, come abbiamo già visto in precedenza, in

occasione dell’illustrazione delle caratteristiche del modello IS-LM con curva di

Phillips, ipotizziamo che le imprese fissino il livello dei prezzi (𝑃𝑡) applicando un

mark-up al costo del lavoro che è commisurato ai loro obiettivi di profitto. Otteniamo

quindi la seguente equazione dei prezzi:

2) 𝑃𝑡 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡𝐴 con 𝐴 produttività del lavoro costante.

Possiamo illustrare questa relazione attraverso un semplice esempio numerico.

Supponiamo che risulti:

𝐴 = 100 (una unità di lavoro produce 100 unità di prodotto)

𝑊𝑡 = 100 unità di moneta

𝜇 = 1

𝑃𝑡 = (1 + 1) ∙100

100= 2 ∙ 1 = 2.

Dall’equazione 2) è possibile ricavare il valore del salario reale coerente con gli

obiettivi di profitto delle imprese. Infatti, otteniamo

𝑃𝑡 ∙ 𝐴 = (1 + 𝜇) ∙ 𝑊𝑡,

da cui ricaviamo:

3) 𝑊𝑡𝑃𝑡=

𝐴

(1 + 𝜇) .

Con riferimento al nostro esempio numerico abbiamo che:

𝑊𝑡𝑃𝑡=100

1 + 1= 50.

Dall’equazione 3) possiamo inoltre ottenere l’espressione della funzione di domanda di

lavoro. Infatti, se vale

𝑊𝑡𝑃𝑡=

𝐴

(1 + 𝜇) ,

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260

allora le imprese saranno disposte ad assumere tutti i lavoratori disponibili, perché il

salario reale (𝑊𝑡 𝑃𝑡 = 50)⁄ è inferiore alla produttività di ciascun lavoratore, che

sappiamo essere pari ad 𝐴 = 100. Per livelli del salario reale superiori a 𝑊𝑡 𝑃𝑡 = 50⁄ la

domanda di lavoro sarà invece pari a zero, poiché tali livelli del salario reale non sono

coerenti con gli obiettivi di profitto perseguiti dalle imprese (figura 109):

Figura 109 - La domanda di lavoro delle imprese nell’ipotesi che i prezzi vengano

determinati applicando un mark-up al costo del lavoro per unità di prodotto

Siamo ora in grado di rappresentare il mercato del lavoro disegnando su un unico

grafico sia la funzione di domanda che quella di offerta di lavoro (figura 110):

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261

Figura 110 – L’equilibrio sul mercato del lavoro di Friedman

Il mercato del lavoro che trova rappresentazione nella figura 110 presenta due

caratteristiche che differiscono da quelle del mercato del lavoro descritto dalla

tradizione neoclassica.

1. Possiamo osservare che le funzioni di domanda e di offerta di lavoro dipendono da

variabili differenti:

𝑁𝑠 = 𝑓 (𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒) ↔ 𝑁𝑑 = 𝑔 (

𝑊𝑡𝑃𝑡).

Il punto di intersezione tra le due curve indica quel particolare valore di 𝑁 (𝑁 = 𝑁0), in

corrispondenza del quale il salario reale atteso dai lavoratori (𝑊𝑡 𝑃𝑡𝑒⁄ ) è uguale al

salario reale effettivamente pagato dalle imprese (𝑊𝑡/𝑃𝑡). Verifichiamo le

caratteristiche di 𝑁0:

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262

Per 𝑁 = 𝑁0 quindi avremo:

𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 =

𝑊𝑡𝑃𝑡=

𝐴

(1 + 𝜇)= 𝛼.

Di conseguenza, deve essere:

𝑃𝑡𝑒 = 𝑃𝑡.

2. Il livello di occupazione che corrisponde al punto di intersezione delle due curve

riportate nella figura 110 non costituisce l’unico livello di occupazione possibile. Nel

caso del mercato del lavoro tradizionale rappresentato nella figura 111 riportata sotto,

non si può invece ottenere un valore di 𝑁 > 𝑁0. Infatti, per ottenere 𝑁1 devono valere le

seguenti condizioni:

Poiché:

𝑊𝑡𝑃𝑡= 𝛽(𝑁𝑠 = 𝑁1) ≠ 𝛾(𝑁𝑑 = 𝑁1),

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263

un livello di occupazione pari a 𝑁1 non può essere ottenuto.

Figura 111 – L’equilibrio sul mercato del lavoro tradizionale

Se si introducono le aspettative inflazionistiche e si assume che la domanda e

l’offerta di lavoro dipendano da variabili differenti, il sistema può invece convergere

verso una situazione caratterizzata da un livello di occupazione 𝑁1 > 𝑁0 (figura 112).

Figura 112 - La possibilità di ottenere un aumento del livello di occupazione

nel mercato del lavoro di Friedman

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264

A tal fine, devono valere le seguenti condizioni:

E’ quindi possibile ottenere un livello di occupazione pari a 𝑁1, a condizione che si

abbia

𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 = 𝛽 >

𝑊𝑡𝑃𝑡= 𝛼,

ovvero a condizione che valga la seguente disuguaglianza:

𝑃𝑡𝑒 < 𝑃𝑡 .

In conclusione, la condizione necessaria affinché si ottenga un livello di occupazione

superiore a 𝑁0 è che i lavoratori commettano un errore di previsione e si aspettino un

livello dei prezzi (𝑃𝑡𝑒) inferiore a quello effettivo (𝑃).

Possiamo illustrare questo risultato con un esempio numerico. Supponiamo che nel

periodo 𝑡 si abbia un livello di occupazione pari a 𝑁0, in corrispondenza del quale i

lavoratori non commettono errori di previsione:

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265

Calcoliamo il valore del salario nominale (𝑊𝑡) che induce i lavoratori a offrire 𝑁0 unità

di lavoro:

𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 = 𝛼 = 50 → 𝑊𝑡 = 50 ∙ 𝑃𝑡

𝑒 .

Al fine di determinare 𝑊𝑡 è quindi necessario conoscere 𝑃𝑡𝑒. Friedman assume che i

lavoratori elaborino le loro aspettative circa i prezzi futuri sulla base dell’osservazione

dei prezzi passati. Ipotizziamo che in passato si siano registrati prezzi stabili, ovvero

che:

𝑃𝑡−1 = 𝑃𝑡−2 = ⋯⋯⋯ = 2.

In tal caso, i lavoratori si aspettano che i prezzi rimangano stabili anche nel periodo 𝑡:

𝑃𝑡𝑒 = 𝑃𝑡−1 = 𝑃𝑡−2 = 2.

Pertanto, avremo:

𝑊𝑡 = 50 ∙ 𝑃𝑡𝑒 = 50 ∙ 2 = 100.

I lavoratori offriranno 𝑁0 unità di lavoro a condizione che il salario monetario (𝑊𝑡) sia

pari a 100. Dato un livello di prezzi atteso pari a 2, ciò equivale a un salario reale atteso

pari a 50.

𝑃𝑡𝑒 = 2 →

𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 =

100

2= 50 → 𝑁𝑠 = 𝑁0 .

Le imprese assumeranno gli 𝑁0 lavoratori a condizione che il salario reale effettivo sia

pari a:

𝑊𝑡𝑃𝑡=

𝐴

(1 + 𝜇)= 𝛼 .

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266

Le imprese sono in grado di determinare questo livello del salario reale fissando i prezzi

secondo l’equazione:

𝑃𝑡 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡𝐴 → 𝑃𝑡 = (1 + 1) ∙

100

100= 2 .

Di conseguenza avremo:

𝑊𝑡𝑃𝑡=100

2=𝑊𝑡𝑃𝑡𝑒 = 50 .

In corrispondenza di 𝑁0 i lavoratori non commettono errori di previsione. Infatti:

𝑃𝑡 = 𝑃𝑡𝑒 = 2.

Come sappiamo, in 𝑡 + 1 è possibile ottenere un livello di occupazione pari a 𝑁1 > 𝑁0

purché i lavoratori commettano un errore di previsione e si aspettino un livello futuro

del salario reale superiore a quello effettivo:

𝑊𝑡𝑃𝑡+1𝑒 = 𝛽 >

𝑊𝑡𝑃𝑡+1

= 𝛼 .

In tal caso:

𝑃𝑡+1𝑒 < 𝑃𝑡+1 .

Affinché in 𝑡 + 1 si possa avere un livello di occupazione pari a 𝑁1 si devono realizzare

le seguenti condizioni:

Possiamo calcolare il salario nominale (𝑊𝑡+1) necessario a indurre i lavoratori a offrire

𝑁1 unità di lavoro. Poiché

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267

𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1𝑒 = 𝛽 = 55,

otteniamo:

𝑊𝑡+1 = 55 ∙ 𝑃𝑡+1𝑒 .

Supponiamo che i lavoratori elaborino le loro previsioni circa i prezzi futuri sulla

base dell’osservazione dei valori assunti nei periodi precedenti, e che in passato i prezzi

fossero stabili:

𝑃𝑡 = 𝑃𝑡−1 = 𝑃𝑡−2 = ⋯⋯⋯ = 2

In questo caso, risulterà:

𝑃𝑡+1𝑒 = 𝑃𝑡 = 2.

Pertanto, il salario monetario necessario affinché i lavoratori offrano 𝑁1 unità di lavoro

sarà pari a:

𝑊𝑡+1 = 55 ∙ 2 = 110.

𝑃𝑡+1𝑒 = 2 →

𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1𝑒 = 55 → 𝑁𝑠 = 𝑁1 > 0 .

La seconda condizione necessaria perché si realizzi un livello di occupazione pari a

𝑁1 riguarda le imprese. Queste ultime assumeranno 𝑁1 lavoratori, se il salario reale

effettivo è pari ad 𝛼:

𝑁𝑑 = 𝑁1 se 𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1

= 𝛼 = 50.

Le imprese riusciranno a ottenere questo valore del salario reale fissando i prezzi in base

alla solita equazione, ovvero:

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𝑃𝑡+1 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡+1𝐴

= (1 + 1) ∙110

100= 2 ∙ 1,1 = 2,2.

In corrispondenza di un livello di prezzi pari a

𝑃𝑡+1 = 2,2

si otterrà:

𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1

=110

2,2= 50.

Il salario reale effettivo sarà quindi uguale a 50, e sarà minore del salario reale atteso dai

lavoratori, che, come abbiamo visto poco sopra è pari a 55. Questa discrepanza

corrisponde all’errore di previsione commesso dai lavoratori, che si attendevano un

livello dei prezzi uguale a 2, mentre quello effettivamente registrato è pari a 2,2:

𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1𝑒 = 𝛽 = 55 >

𝑊𝑡+1𝑃𝑡+1

= 𝛼 = 50 ↔ 𝑃𝑡+1𝑒 = 2 < 𝑃𝑡+1 = 2,2 .

L’errore di previsione commesso dai lavoratori può essere espresso anche in termini

di tasso di inflazione. Infatti, dato 𝑃𝑡+1𝑒 (ovvero il livello dei prezzi atteso dai lavoratori

per il periodo 𝑡 + 1), è possibile calcolare il tasso di inflazione atteso dai lavoratori

(�̇�𝑡+1𝑒 ):

�̇�𝑡+1𝑒 =

𝑃𝑡+1𝑒 − 𝑃𝑡𝑃𝑡

.

Con riferimento al nostro esempio numerico abbiamo che:

𝑃𝑡+1𝑒 = 2 e 𝑃𝑡 = 2 → �̇�𝑡+1

𝑒 =2 − 2

2= 0.

Il tasso di inflazione effettivo è invece pari a:

�̇�𝑡+1 =𝑃𝑡+1 − 𝑃𝑡

𝑃𝑡 .

E poiché

𝑃𝑡+1 = 2,2 e 𝑃𝑡 = 2,

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269

otteniamo:

�̇�𝑡+1 =2,2 − 2

2= 10% .

L’errore di previsione compiuto dai lavoratori può quindi essere definito sia in

termini di livelli dei prezzi che in termini di tassi di inflazione:

𝑃𝑡+1⏟2,2

> 𝑃𝑡+1𝑒⏟2

(livelli di prezzo)

�̇�𝑡+1⏟10%

> �̇�𝑡+1𝑒⏟0%

(tassi di inflazione)

2.2. L’instabilità della relazione tra il livello del reddito e il tasso di inflazione

descritta dalla curva di Phillips

L’analisi di Friedman porta a due importanti conclusioni. In primo luogo, egli ha

evidenziato che è possibile ottenere un livello di occupazione superiore a 𝑁0, a

condizione che si crei una discrepanza tra il salario reale atteso dai lavoratori e il salario

reale effettivamente pagato dalle imprese. Questa circostanza si determina quando i

lavoratori commettono un errore di previsione circa il tasso di inflazione dei periodi

futuri.

In secondo luogo, Friedman ha mostrato che l’equilibrio corrispondente a un livello

di occupazione pari a 𝑁1 > 𝑁0 può essere soltanto un equilibrio temporaneo, e che

l’unico equilibrio stabile è quello caratterizzato da un livello di occupazione pari a 𝑁0.

Intuitivamente, ciò si spiega col fatto che per mantenere il sistema al livello di

occupazione 𝑁1 i lavoratori devono continuare a commettere sempre lo stesso errore di

previsione. In altri termini, occorre che essi persistano nel prevedere un tasso di

inflazione uguale a 0, quando, in realtà, il tasso di inflazione effettivamente registrato in

ogni periodo è invece pari al 10%. Evidentemente non si tratta di un comportamento

razionale. Pertanto, è presumibile che i lavoratori modificheranno le loro aspettative,

cercando di eliminare l’errore di previsione. Nel lungo periodo, quindi, il sistema dovrà

convergere verso l’unico valore di 𝑁 in corrispondenza del quale i lavoratori non

commettono alcun errore di previsione.

Per dimostrare questo risultato, proviamo a definire le condizioni che si devono

realizzare nel periodo 𝑡 + 2 affinché il livello di occupazione sia pari a 𝑁 = 𝑁1.

A tal fine, ricordiamo che in 𝑡 + 1 si è ottenuto 𝑁 = 𝑁1, con un errore di previsione

dato da

�̇�𝑡+1(10%) > �̇�𝑡+1𝑒 (0%),

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270

che ha provocato una discrepanza tra il salario reale atteso dai lavoratori (𝛽) e il salario

reale effettivamente pagato dalle imprese (𝛼).

Per ottenere lo stesso livello di occupazione in 𝑡 + 2, il divario tra il salario atteso dai

lavoratori e il salario reale effettivamente pagato dalle imprese deve essere uguale a

quello osservato nel periodo precedente. Pertanto:

Condizione necessaria perché anche in 𝑡 + 2 venga impiegato un numero di lavoratori

pari a 𝑁1 è dunque che:

𝑊𝑡+2𝑃𝑡+2𝑒 = 𝛽 = 55 >

𝑊𝑡+2𝑃𝑡+2

= 𝛼 = 50 .

Ciò avverrà, se in 𝑡 + 2 i lavoratori commettono il medesimo errore di previsione già

commesso nel periodo precedente. In altre parole, dovrà risultare che:

�̇�𝑡+2 − �̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1

𝑒 = 10%.

Per poter determinare il valore del tasso di inflazione che si dovrà registrare in 𝑡 + 2

(�̇�𝑡+2) affinché il livello di occupazione possa essere pari a 𝑁 = 𝑁1, è necessario

specificare il valore del tasso di inflazione atteso (�̇�𝑡+2𝑒 ). Friedman ipotizza che i

lavoratori elaborino le loro previsioni relative al tasso di inflazione sulla base di un

meccanismo di aspettative adattive. Questo meccanismo implica che, in ogni periodo,

i lavoratori modifichino le loro aspettative inflazionistiche rispetto al passato basandosi

sull’errore di previsione commesso nel periodo precedente. Vale quindi la seguente

relazione:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1

𝑒 + 𝜆 ∙ (�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒⏟ )

𝐸𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑣𝑖𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑡+1

con 0 < 𝜆 ≤ 1.

Se l’errore di previsione fosse pari a 0, si avrebbe:

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�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1

𝑒 .

Qualora, invece, l’errore di previsione fosse uguale a

�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 > 0,

si avrebbe

�̇�𝑡+2𝑒 > �̇�𝑡+1

𝑒 .

Infatti, risulterebbe:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1

𝑒 + 𝜆 ∙ (�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 ) > �̇�𝑡+1

𝑒 .

Inoltre, possiamo osservare che, essendo

�̇�𝑡+2𝑒 − �̇�𝑡+1

𝑒 = 𝜆 ∙ (�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 ),

la differenza tra la previsione al tempo 𝑡 + 2 e la previsione al tempo 𝑡 + 1 dipende

dall’errore di previsione commesso.

Per semplicità, assumiamo che sia 𝜆 = 1. Avremo quindi:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1

𝑒 + 1 ∙ (�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 ) = �̇�𝑡+1

𝑒 + �̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 = �̇�𝑡+1.

In questo caso, il meccanismo di formazione delle aspettative è molto semplice, perché

il tasso di inflazione atteso per un dato periodo è pari al tasso di inflazione

effettivamente registrato nel periodo precedente. Pertanto, se consideriamo i valori

numerici utilizzati nel nostro esempio, si avrà:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1 = 10%.

Una volta determinato �̇�𝑡+2𝑒 possiamo calcolare il valore del tasso di inflazione che si

deve registrare in 𝑡 + 2 per mantenere un livello di occupazione pari a 𝑁 = 𝑁1. Questo

valore dovrà essere tale da provocare lo stesso errore di previsione già registrato nel

periodo 𝑡 + 1, ovvero un errore di previsione pari a 10 punti percentuali. In 𝑡 + 1 il

tasso di inflazione atteso dai lavoratori era pari a 0, mentre il valore del tasso di

inflazione effettivo era uguale al 10%. Poiché nel periodo 𝑡 + 2 il tasso di inflazione

atteso dai lavoratori è pari al 10%, il tasso di inflazione effettivo che assicura un errore

di10 punti percentuali dovrà essere uguale al 20%:

�̇�𝑡+2 − �̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1

𝑒 = 10% ↔ (20% − 10%) = (10% − 0%) = 10%.

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272

Verifichiamo questo risultato usando il solito esempio e considerando il periodo

𝑡 + 2. Come abbiamo visto sopra, per ottenere anche nel periodo 𝑡 + 2 un livello di

occupazione pari a 𝑁1, è necessario che si crei una discrepanza tra il salario reale atteso

dai lavoratori e il salario effettivo pari a (𝛽 – 𝛼):

Pertanto, il salario monetario necessario a indurre i lavoratori a offrire 𝑁1 unità di lavoro

è uguale a:

𝑊𝑡+2 = 𝛽 ∙ 𝑃𝑡+2𝑒 .

Per calcolare 𝑊𝑡+2 è quindi necessario conoscere �̇�𝑡+2𝑒 . Possiamo determinare il livello

atteso dei prezzi facendo ricorso al meccanismo delle aspettative adattive, ricordando

che:

𝑃𝑡+2𝑒 = 𝑃𝑡+1

𝑒 ∙ (1 + �̇�𝑡+2𝑒 ) .

Sappiamo che

𝑃𝑡+1 = 2,2 ,

e che in base al meccanismo delle aspettative adattive (con 𝜆 = 1), risulta:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1 = 10% .

Pertanto, avremo:

𝑃𝑡+2𝑒 = 2,2 ∙ (1 + 0,1) = 2,2 ∙ 1,1 = 2,42 .

A questo punto, possiamo finalmente calcolare il valore di 𝑊𝑡+2:

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𝑊𝑡+2 = 𝛽 ∙ 𝑃𝑡+2𝑒 = 55 ∙ 2,42 = 132.

Il tassodi variazione dei salari monetari è quindi pari a:

�̇�𝑡+2 =𝑊𝑡+2 −𝑊𝑡+1

𝑊𝑡+1=132 − 110

110= 20% .

La seconda condizione perché si realizzi un livello di occupazione uguale a 𝑁1 è che

le imprese domandino proprio 𝑁1 unità di lavoro. Come sappiamo, 𝑁𝑑 = 𝑁1 se:

𝑊𝑡+2𝑃𝑡+2

=𝐴

(1 + 𝜇)= 𝛼 = 50 .

Da questa espressione è possibile ricavare il livello dei prezzi che consente alle imprese

di pagare un salario reale pari a 𝛼. Infatti:

𝑃𝑡+2 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡+2𝐴 .

Con:

𝜆 = 1

𝑊𝑡+2 = 132

𝐴 = 100

si ottiene

𝑃𝑡+2 = (1 + 1) ∙132

100= 2 ∙ 1,32 = 2,64 .

Il tasso di inflazione effettivo relativo al periodo 𝑡 + 2 sarà quindi pari a:

�̇�𝑡+2 =𝑃𝑡+2 − 𝑃𝑡+1

𝑃𝑡+1=2,64 − 2,2

2,2= 20% .

Possiamo seguire lo stesso procedimento per specificare le condizioni che si devono

realizzare in 𝑡 + 3 per ottenere 𝑁 = 𝑁1. Anche in questo caso, il divario tra il salario

reale atteso (𝛽) e il salario reale effettivo (𝛼) deve restare immutato. Di conseguenza:

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274

Dovrà quindi risultare:

𝑊𝑡+3𝑃𝑡+3𝑒 >

𝑊𝑡+3𝑃𝑡+3

→ 𝑃𝑡+3𝑒 < 𝑃𝑡+3 → �̇�𝑡+3

𝑒 < �̇�𝑡+3 .

In altri termini, i lavoratori devono commettere lo stesso errore di previsione già

registrato nei periodi 𝑡 + 1 e 𝑡 + 2:

�̇�𝑡+3 − �̇�𝑡+3𝑒

⏟ 𝐸𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑣𝑖𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑡+3

= �̇�𝑡+2 − �̇�𝑡+2𝑒

⏟ 𝐸𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑣𝑖𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑡+2

= �̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒⏟

𝐸𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑣𝑖𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑡+1

.

Con �̇�𝑡+1𝑒 = 0 → �̇�𝑡+1 = 10% e con �̇�𝑡+2

𝑒 = �̇�𝑡+1 = 10% → �̇�𝑡+2 = 20% .

Pertanto, il valore di �̇�𝑡+3 dipende da �̇�𝑡+3𝑒 , che è definito in base al meccanismo delle

aspettative adattive visto sopra:

�̇�𝑡+3𝑒 = �̇�𝑡+2 = 20%.

In definitiva, il valore di �̇�𝑡+3 è quindi pari a:

�̇�𝑡+3𝑒 = 30% .

Sulla base dello stesso ragionamento possiamo calcolare anche il tasso di inflazione

effettivo che si deve realizzare in 𝑡 + 4 affinché il livello di occupazione rimanga

costante in corrispondenza di 𝑁 = 𝑁1. Poiché risulta:

�̇�𝑡+4𝑒 = �̇�𝑡+3 = 30% ,

si avrà

�̇�𝑡+4 = 40%.

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275

La conclusione raggiunta da Friedman è che nei periodi 𝑡 + 1, 𝑡 + 2, 𝑡 + 3 etc. è

possibile raggiungere e mantenere un livello di occupazione pari a 𝑁1 > 𝑁0, ma solo a

condizione che il tasso di inflazione aumenti costantemente nel tempo secondo la

sequenza:

𝑡 + 1 → �̇�𝑡+1 → 10%

𝑡 + 2 → �̇�𝑡+2 → 20%

𝑡 + 3 → �̇�𝑡+3 → 30%

𝑡 + 4⏟ ⋮⋮

→ �̇�𝑡+4⏟⋮⋮

→ 40%⏟ ⋮⋮

.

Il risultato dell’analisi di Friedman si distacca quindi nettamente da quello emerso

dall’esame del modello keynesiano con curva di Phillips, secondo cui è possibile

ottenere un livello di occupazione pari a 𝑁1 in presenza di un tasso di inflazione

costante (figura 113).

Figura 113 – L’instabilità della relazione tra reddito e tasso di inflazione

Il grafico di sinistra della figura 113 illustra il mercato del lavoro, mentre quello di

destra rappresenta la curva di Phillips nella versione riferita alla relazione tra il reddito

reale e il tasso di inflazione. Il punto 0 sul grafico di sinistra indica il valore

dell’occupazione coerente con la stabilità dei prezzi e corrisponde al punto 0 sulla curva

di Phillips. Un livello di occupazione pari a 𝑁1 > 𝑁0 corrisponde a un livello di reddito

pari a 𝑌1 > 𝑌0. Secondo il modello keynesiano con curva di Phillips è possibile ottenere

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276

un livello di occupazione pari a 𝑁1 e un livello di reddito pari a 𝑌1 con un tasso di

inflazione costante, come, ad esempio, quello pari al 10% indicato nel punto 1del

grafico di sinistra della figura 113.

A giudizio di Friedman, invece, è possibile mantenere un livello di occupazione

uguale a 𝑁1 soltanto con un tasso di inflazione crescente. Egli ha mostrato che un

risultato compatibile con la curva di Phillips può essere ottenuto soltanto ipotizzando

che i lavoratori si comportino in modo irrazionale. Poco sopra abbiamo visto che è

possibile ottenere un livello di occupazione pari a 𝑁1 solo se si manifesta una

discrepanza tra il salario reale atteso dai lavoratori (𝛽) e quello effettivo (𝛼). Questa

discrepanza si realizza quando i lavoratori commettono un errore di previsione che, nel

nostro esempio numerico, è dato da una differenza tra il tasso di inflazione effettivo e

quello atteso pari a 10 punti percentuali.

Infatti, affinché si abbia 𝑁1 nei periodi 𝑡 + 1, 𝑡 + 2 e 𝑡 + 3 occorre che:

�̇�𝑡+1⏟10%

− �̇�𝑡+1𝑒⏟0

= 10%

�̇�𝑡+2⏟10%

− �̇�𝑡+2𝑒⏟0

= 10%

�̇�𝑡+3⏟10%

− �̇�𝑡+3𝑒⏟0

= 10% .

Si può quindi osservare che, nei diversi periodi presi in considerazione, a un errore di

previsione costantemente pari al 10% corrisponde un tasso di inflazione anch’esso pari

al 10% a condizione che il tasso di inflazione atteso non vari nel tempo. In altri termini,

affinché nei periodi 𝑡 + 1, 𝑡 + 2 e 𝑡 + 3 si abbia un errore di previsione pari a 10 punti

percentuali e un tasso di inflazione costante di pari entità, è necessario che il tasso di

inflazione atteso sia sempre uguale a zero:

�̇�𝑡+1𝑒 = �̇�𝑡+2

𝑒 = �̇�𝑡+3𝑒 = 0.

Occorre, cioè, che, durante una successione di periodi in cui si registra un tasso di

inflazione uguale del 10%, i lavoratori continuino a prevedere un tasso di inflazione

nullo. Con tutta evidenza, si tratta di un comportamento irrazionale. I lavoratori, infatti,

si accorgeranno dell’errore di previsione commesso, e cercheranno quindi di

correggerlo nei periodi di tempo successivi a quello in cui si è manifestata la

discrepanza tra aspettativa di inflazione e tasso di inflazione effettivo. Friedman ipotizza

che questa correzione avvenga in base al meccanismo delle aspettative adattive.

Se 𝜆 = 1, i lavoratori si aspettano un tasso di inflazione uguale all’ultimo tasso di

inflazione osservato. Come abbiamo visto poco sopra, in questo caso un livello di

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occupazione pari a 𝑁1 e un livello di reddito pari a 𝑌1 potranno essere ottenuti soltanto

in corrispondenza di un tasso di inflazione crescente.

Friedman ha quindi concluso che la relazione tra reddito reale e tasso di inflazione

definita da Phillips, ovvero

1) 𝑌 = 𝑓(�̇�)

debba essere sostituita dalla relazione seguente:

2) 𝑌 = 𝑔(�̇� − �̇�𝑒).

Pertanto, secondo Friedman il livello del reddito non è funzione del tasso di inflazione,

bensì dell’errore di previsione commesso dai lavoratori: non esiste alcuna relazione tra

il tasso di inflazione e il reddito reale. Quest’ultimo, invece, dipende esclusivamente

dall’errore commesso dai lavoratori in sede di stima del livello futuro del tasso di

inflazione. Di conseguenza, la relazione individuata dalla curva di Phillips vale soltanto

quando, in ogni periodo, �̇�𝑒 = 0, ovvero quando i lavoratori persistono nell’attendersi

un tasso di inflazione nullo nonostante quello effettivo sia maggiore di zero. La

precedente relazione 2) può anche essere espressa in termini lineari:

3) 𝑌 = 𝑌0 + 𝑔(�̇� − �̇�𝑒) con 𝑔 > 0.

Quando:

�̇� − �̇�𝑒 = 0 → 𝑌 = 𝑌0 con 𝑌0 = 𝑌(𝑁0).

Soltanto se:

�̇� − �̇�𝑒 > 0 → 𝑌 > 𝑌0 .

Con riferimento al nostro esempio numerico avremo che:

𝑌 = 𝑌1 → 𝑌1 = 𝑌(𝑁1) se �̇� − �̇�𝑒 = 10% .

La relazione 3) può essere rappresentata graficamente sul piano (𝑌, �̇�) utilizzato in

precedenza per descrivere la curva di Phillips, tenendo conto del fatto che ora la

relazione tra 𝑌 e �̇� dipende dal valore del tasso di inflazione atteso (�̇�𝑒) (figura 114).

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278

Figura 114 - Gli spostamenti della curva di Phillips in funzione

delle variazioni delle aspettative di inflazione (1)

Abbiamo visto che per ottenere 𝑁1 e 𝑌1, nel periodo 𝑡 + 1 è necessario che si abbia:

�̇�𝑡+1 − �̇�𝑡+1𝑒 = 10%.

In particolare, se:

�̇�𝑡+1𝑒 = 0 → �̇�𝑡+1 = 10% (punto 1 nella figura 114) .

Tuttavia, la relazione tra �̇� e 𝑌 non e stabile, perché, nel tempo, il valore del tasso di

inflazione atteso (�̇�𝑒) si modifica.

In 𝑡 + 2 il tasso di inflazione coerente con 𝑌1 è uguale al 10% soltanto se i lavoratori

continuano a prevedere un tasso di inflazione pari a zero (�̇�𝑡+2𝑒 = 0). Ma se le

aspettative di inflazione variano secondo il meccanismo delle aspettative adattive

descritto nelle pagine precedenti, in 𝑡 + 2si avrebbe:

�̇�𝑡+2𝑒 = �̇�𝑡+1 = 10% → �̇�𝑡+2 = 20% .

In questo caso, in corrispondenza di un livello del reddito uguale a 𝑌1 il tasso di

inflazione non sarebbe più pari al 10%, bensì al 20% (punto 2 della figura 115).

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279

Figura 115 - Gli spostamenti della curva di Phillips in funzione

delle variazioni delle aspettative di inflazione (2)

Poiché in ogni periodo il tasso di inflazione atteso varia in funzione dell’errore di

previsione commesso nel periodo precedente, in 𝑡 + 3 avremo che:

�̇�𝑡+3𝑒 = �̇�𝑡+2 = 20% .

Pertanto, in 𝑡 + 3 il tasso di inflazione coerente con un livello del reddito uguale a 𝑌1

sarà pari a �̇�𝑡+3 = 30% (punto 3 della figura 116).

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280

Figura 116 - Gli spostamenti della curva di Phillips in funzione

delle variazioni delle aspettative di inflazione (3)

2.3. La curva di Phillips di lungo periodo e la riaffermazione di validità della teoria

quantitativa della moneta

Concludiamo l’analisi della critica di Friedman alla curva di Phillips, ricordando gli

effetti di un aumento dei prezzi sull’offerta reale di moneta. Come abbiamo visto in

precedenza, quando il livello generale dei prezzi aumenta, a parità di offerta di moneta

nominale, l’offerta di moneta reale diminuisce:

𝑃 ↑ → �̅�0𝑃↓ .

La riduzione dell’offerta reale di moneta produce un effetto restrittivo sul reddito.

Infatti, sul mercato della moneta si registra un eccesso di domanda di moneta che, in

base ai meccanismi descritti dal modello IS-LM, si traduce in un rialzo del valore del

tasso di interesse, cui fa seguito una caduta degli investimenti e del reddito:

�̅�0𝑃↓ → 𝑟 ↑ → 𝐼 ↓ → 𝐷𝐴 ↓ → 𝑌 ↓ .

Per mantenere un livello di occupazione pari a 𝑁1 e un livello del reddito uguale a 𝑌1, le

autorità monetarie devono annullare gli effetti restrittivi prodotti dall’aumento dei prezzi

attraverso un aumento della quantità di moneta nominale pari al tasso di inflazione. Nel

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281

tempo, esse devono quindi essere disposte ad accettare un tasso di inflazione crescente,

e quindi ad aumentare continuamente il tasso di crescita della quantità di moneta.

Nell’esempio numerico utilizzato in precedenza, l’incremento dell’offerta nominale di

moneta avviene secondo la seguente progressione:

in 𝑡 + 1: 𝑁 = 𝑁1 se �̇�𝑡+1 = 10% → �̇�𝑡+1 = �̇�𝑡+1 = 10% ,

in 𝑡 + 2: 𝑁 = 𝑁1 se �̇�𝑡+2 = 20% → �̇�𝑡+2 = �̇�𝑡+2 = 20% , e

in 𝑡 + 3: 𝑁 = 𝑁1 se �̇�𝑡+3 = 30% → �̇�𝑡+3 = �̇�𝑡+3 = 30%.

Tuttavia, un comportamento di questo tipo da parte delle autorità monetarie non è

realisticamente ipotizzabile. Infatti, nessun sistema economico può sopportare un tasso

di inflazione costantemente crescente. Milton Friedman è perciò giunto alla conclusione

che è possibile raggiungere livelli di occupazione maggiori di 𝑁0 e livelli di reddito

superiori a 𝑌0 soltanto nel breve periodo, e che gli unici valori di equilibrio di lungo

periodo sono proprio 𝑌0 e 𝑁0.

Abbiamo appena visto che, a parità di reddito e di occupazione, la presenza di un

tasso di inflazione crescente richiede la disponibilità delle autorità monetarie a

espandere la quantità di moneta a un tasso anch’esso via via crescente. Proviamo ora a

valutare gli effetti prodotti dalla decisione delle autorità monetarie di espandere la

quantità di moneta a un tasso costante, pari, per esempio, al 10%:

�̇� = 10% → �̇�𝑡 = �̇�𝑡+1 = �̇�𝑡+2 = �̇�𝑡+3 = ⋯⋯⋯ = 10%

Possiamo specificare gli effetti prodotti da questa decisione in base alle seguenti

considerazioni:

1. In primo luogo, osserviamo che, nel caso di un tasso di crescita della quantità di

moneta nominale costante, il tasso di inflazione non può aumentare all’infinito, perché

ciò avviene soltanto quando le autorità monetarie decidono di espandere la quantità di

moneta a un tasso crescente.

2. Se il tasso di inflazione tende a un valore finito, allora l’errore di previsione

commesso dai lavoratori tenderà a zero. Infatti, poiché, di periodo in periodo, i

lavoratori elaborano le loro stime sulla base di un meccanismo di aspettative adattive,

essi correggeranno continuamente i loro errori di previsione, avvicinandosi così

progressivamente al valore effettivo del tasso di inflazione.

3. Se l’errore di previsione tende a zero, allora il reddito converge a 𝑌0. Vale infatti la

relazione:

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282

𝑌 = 𝑌0 + 𝑔(�̇� − �̇�𝑒).

Pertanto, se �̇� − �̇�𝑒 = 0, si avrà:

𝑌 = 𝑌0 e 𝑁 = 𝑁0 .

4. Se il livello del reddito converge a 𝑌0, l’unico effetto permanente prodotto dalla

variazione della quantità di moneta a un tasso costante riguarda l’inflazione. Tale effetto

può essere misurato facendo riferimento all’equazione degli scambi di Fisher:

𝑀 ∙ 𝑉 = 𝑃 ∙ 𝑌 .

Questa equazione può essere riscritta in termini di tasso di variazione. Avremo quindi:

�̇�⏟10%

+ �̇�⏟0

≅ �̇�⏟10%

+ �̇�⏟0

.

Assumendo che la velocità di circolazione della moneta sia indipendente dalla quantità

di moneta, avremo �̇� = 0. Inoltre, �̇� = 0. Pertanto, l’unico effetto permanente di una

variazione della massa monetaria è quello di determinare un tasso di inflazione uguale

al tasso di variazione della quantità di moneta.

In definitiva, la decisione di espandere la quantità di moneta a un tasso costante può

produrre soltanto un effetto temporaneo sul reddito reale e sull’occupazione. Nel lungo

periodo, gli unici effetti riguarderanno il tasso di inflazione. Per sottolineare questo

punto, Friedman distingue tra gli effetti di breve periodo e di lungo periodo di una

politica monetaria espansiva. Nel breve periodo, una politica monetaria espansiva può

produrre degli effetti sul reddito reale e sull’occupazione in quanto induce i lavoratori a

commettere degli errori di previsione. Ma nel lungo periodo, l’aumento della quantità di

moneta non avrà alcun effetto sul reddito e sull’occupazione. Possiamo quindi

distinguere tra una curva di Phillips di breve periodo inclinata positivamente sul piano

(𝑌, �̇�), e una curva di Phillips di lungo periodo verticale in corrispondenza di un livello

del reddito pari a 𝑌0. Scegliendo il tasso di crescita della quantità di moneta, nel lungo

periodo le autorità monetarie determinano il tasso di inflazione coerente con 𝑌0. Se, per

esempio, scegliessero di non far crescere affatto la quantità nominale di moneta

(�̇� = 0), il tasso di inflazione sarebbe nullo. Viceversa, se scegliessero un tasso di

espansione della quantità di moneta uguale a �̇� = 10%, nel lungo periodo il tasso di

inflazione sarebbe pari al 10% (punto 𝐸 figura 117).

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283

Figura 117 – Le curve di Phillips di breve e di lungo periodo

3. La spiegazione della stagflazione nell’ambito del quadro teorico descritto da

Friedman

L’analisi di Friedman, oltre ad aver messo in rilievo i limiti del modello keynesiano con

la curva di Phillips, ha anche consentito di elaborare una spiegazione del fenomeno

della stagflazione. Come accennato in precedenza, questo fenomeno è emerso nel corso

degli anni ’70 del secolo scorso, quando entrò in crisi il modello di sviluppo che si era

affermato negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, e che, nel

trentennio 1945-1975, aveva consentito una forte crescita dell’economia mondiale. Tale

modello di sviluppo si basava su tre punti (GB, capitolo 8, paragrafo 2.4, pp.171-174).

In primo luogo, esso era caratterizzato da una significativa presenza del settore pubblico

nell’economia. Tale presenza garantiva il sostegno al livello domanda aggregata e la

produzione di tutta una serie di servizi che davano vita al sistema di welfare. In secondo

luogo, il modello di sviluppo del secondo dopoguerra era contraddistinto da un patto

sociale tra imprese e lavoratori che, da un lato, consentiva alle imprese di dare vita a un

sistema industriale basato sulla creazione di fabbriche di grandi dimensioni, allo scopo

di poter sfruttare gli effetti delle economie di scala relativi alla produzione di beni di

largo consumo e, dall’altro, assicurava ai lavoratori salari che crescevano in funzione

dei guadagni di produttività. Infine, il trentennio successivo alla fine della seconda

guerra mondiale è stato caratterizzato dall’esistenza del sistema monetario

internazionale definito dagli accordi di Bretton Woods stipulati nel mese di luglio del

1944. Questo sistema era centrato sull’impiego del dollaro statunitense come mezzo di

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284

pagamento internazionale. Inoltre, il dollaro era l’unica valuta internazionale a poter

essere convertita in oro, mentre tutte le altre valute erano legate alla divisa statunitense

attraverso un sistema di cambi fissi.

A partire dalla seconda metà degli anni ’60, il modello di sviluppo della cosiddetta

golden age cominciò a entrare in crisi. Il segnale di crisi più evidente venne dal forte

aumento della conflittualità relativa alla distribuzione del reddito, che ebbe una doppia

dimensione:

la conflittualità relativa alla distribuzione del reddito all’interno dei paesi

industrializzati, e

la conflittualità tra paesi esportatori e importatori di petrolio.

Per quanto riguarda la crescente conflittualità per la distribuzione del reddito

all’interno dei paesi industrializzati, è bene rammentare come il periodo compreso tra

gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso sia stato un periodo di forte crescita per l’economia

mondiale, tanto che in molti paesi si era raggiunta una condizione di sostanziale piena

occupazione che aveva fortemente accresciuto il potere contrattuale dei lavoratori:

Forte crescita dell'economia

Piena occupazione

Crescita del potere contrattuale dei lavoratori.

Questo fenomeno è stato particolarmente intenso in Italia. Gli anni ’50 e ‘60 sono infatti

stati caratterizzati dal cosiddetto Miracolo economico. Con questa espressione si indica

la profonda trasformazione subita in quegli anni dall’economia italiana, che da

economia tipicamente agricola diventò una delle maggiori economie industriali

dell’Occidente.

Tuttavia, il processo di trasformazione dell’economia italiana non fu indolore, ma

comportò degli ingenti costi sociali. A questo proposito, basta ricordare come gli anni

del Miracolo economico furono caratterizzati dalla migrazione di milioni di persone che

si spostarono dalle aree più arretrate delle regioni meridionali e orientali del paese verso

quelle industriali del Nord Ovest. Queste ultime non erano attrezzate per accogliere i

nuovi arrivati, perché mancavano case, scuole, ospedali, etc. . Accanto alla creazione di

milioni di posti di lavoro nelle grandi fabbriche del Nord Ovest, lo sviluppo industriale

italiano fu quindi accompagnato da condizioni di lavoro e di vita fuori dalle fabbriche

molto pesanti. Questo aspetto del processo di sviluppo del nostro paese è alla radice

della fase di conflittualità iniziata alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso e dell’ondata

di rivendicazioni da parte dei sindacati dei lavoratori, che chiedevano un significativo

miglioramento delle condizioni di lavoro all’interno delle fabbriche e anche di quelle di

vita esterne alle fabbriche stesse. Questa fase di rivendicazioni non riguardò soltanto

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285

l’Italia, ma coinvolse anche tutti i paesi industriali che nel trentennio successivo alla

fine della seconda guerra mondiale registrarono uno straordinario periodo di crescita

economica.

L’intensificazione della conflittualità relativa alla distribuzione del reddito all’interno

delle economie industrializzate permette di illustrare il fenomeno della stagflazione. A

questo scopo, supponiamo che il sistema si trovi nella condizione di equilibrio di lungo

periodo descritta da Friedman, cui corrisponde il punto 0 nella figura 118. L’aumento

della conflittualità relativa alla distribuzione del reddito, dovuto all’aumento della forza

contrattuale dei lavoratori, può essere rappresentato attraverso uno spostamento verso

l’alto (verso sinistra) della funzione di offerta di lavoro. Infatti, questo spostamento

segnala che, a parità di offerta di lavoro, i lavoratori chiedono un salario reale atteso più

elevato. In particolare, nella figura 118 la nuova curva di offerta di lavoro diventa

𝑁𝑠′(𝑊 𝑃𝑒⁄ ).

Figura 118 – Gli effetti di un aumento della conflittualità relativa alla distribuzione del

reddito sugli equilibri del mercato del lavoro descritto da Friedman

In questo caso, 𝑁0 non rappresenta più un equilibrio stabile, perché il salario reale atteso

che i lavoratori chiedono per offrire 𝑁0 unità di lavoro è pari a 𝛽 ed è maggiore di

quello (𝛼) che le imprese sono disposte a pagare per assumere proprio quel numero di

lavoratori. Questa discrepanza implica che per mantenere un livello di occupazione pari

a 𝑁0 si dovrà registrare un tasso di inflazione crescente. Tuttavia, abbiamo visto che nel

lungo periodo ciò non è possibile. Pertanto, il sistema convergerà verso il punto 1

caratterizzato da un minor livello di occupazione e di reddito. Questa fase di recessione

sarà accompagnata da un incremento dell’inflazione, poiché fino a quando 𝑁 > 𝑁1 il

salario reale atteso dai lavoratori sarà maggiore del salario effettivamente pagato dalle

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286

imprese. Come sappiamo, questo è possibile a condizione che i lavoratori commettano

un errore di previsione, e che il tasso di inflazione effettivo sia superiore a quello atteso.

Infine, osserviamo che il processo che spinge il sistema dalla posizione di equilibrio

0 alla posizione 1 è contraddistinto dalla combinazione di stagnazione economica

(caduta dei livelli del reddito e dell’occupazione) e di inflazione, una combinazione di

fenomeni divenuta nota per l’appunto con il termine di stagflazione.

In secondo luogo, l’aumento di conflittualità relativo alla distribuzione del reddito

registrato all’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso ebbe per oggetto la

contrapposizione tra paesi importatori e paesi produttori di petrolio. Infatti, tra il 1973 e

il 1974 il cartello dei paesi produttori di petrolio aumentò il prezzo del petrolio di

quattro volte.

Per definire gli effetti di questa crisi petrolifera prendiamo come riferimento

l’equazione dei prezzi vista in precedenza:

𝑃𝑡 = (1 + 𝜇) ∙𝑊𝑡𝐴 .

Come sappiamo, il termine (1 + 𝜇) corrisponde al mark-up che le imprese applicano al

costo del lavoro, al fine di coprire gli altri costi di produzione e di garantirsi un margine

di profitto. Possiamo quindi ipotizzare che 𝜇 copra anche i costi per l’acquisto del

petrolio, e che un aumento del prezzo del greggio induca le imprese ad aumentare il

valore di 𝜇.

Di conseguenza, indichiamo con (1 + 𝜇0) il valore del mark-up prima di una crisi

petrolifera, mentre il valore del mark-up dopo l’inizio di una crisi petrolifera è dato da:

(1 + 𝜇1) > (1 + 𝜇0).

Tenendo conto di queste considerazioni, il nuovo livello dei prezzi sarà quindi pari a:

𝑃𝑡′ = (1 + 𝜇1) ∙

𝑊𝑡𝐴> 𝑃𝑡 = (1 + 𝜇0) ∙

𝑊𝑡𝐴 .

Partendo da questa espressione, possiamo ricavare il valore del salario reale effettivo

che le imprese sono disposte a pagare per assumere la forza lavoro disponibile:

𝑊𝑡𝑃𝑡′ =

𝐴

(1 + 𝜇1)<𝑊𝑡𝑃𝑡=

𝐴

(1 + 𝜇0) .

Gli effetti di un aumento del prezzo del petrolio possono essere illustrati con l’aiuto

della figura 119. Il punto 0 rappresenta la condizione di equilibrio prima dello scoppio

della crisi petrolifera. L’aumento del prezzo del petrolio determina una riduzione del

salario reale effettivo che le imprese sono disposte a pagare ai lavoratori.

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287

Ne consegue, che la funzione di domanda di lavoro si sposta verso il basso in

corrispondenza di un valore del salario reale effettivo pari a:

𝑊

𝑃′= 𝛾 .

Figura 119 - Gli effetti dell’aumento del prezzo del petrolio sugli equilibri

del mercato del lavoro descritto da Friedman

Il livello di occupazione 𝑁0 non rappresenta più una posizione di equilibrio stabile e

può essere mantenuto soltanto nel breve periodo, ma a costo di una inflazione crescente.

Nel lungo periodo il sistema si sposterà dalla posizione 0 alla posizione 1. Anche in

questo caso, quindi, si registrerà una fase di recessione accompagnata da inflazione,

perché in corrispondenza dei valori compresi tra 𝑁0 e 𝑁1, si registra una discrepanza tra

il salario reale atteso dai lavoratori e quello pagato dalle imprese. Questa discrepanza

corrisponde a un errore di previsione dei lavoratori dovuto al fatto che il tasso di

inflazione effettivo è maggiore di quello atteso. In conclusione, pure il processo di

aggiustamento che si mette in moto dopo una crisi petrolifera è caratterizzato dalla

presenza di stagflazione.

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288

4. Friedman, la Nuova Macroeconomia Classica e il ritorno alle conclusioni della

teoria neoclassica

Nel corso degli anni ’70, l’impatto del lavoro di Friedman sulla comunità degli

economisti fu molto forte. La sua analisi, infatti, presentava due punti di forza che

indussero gli economisti ad abbandonare il modello teorico di ispirazione keynesiana

elaborato negli anni precedenti. In primo luogo, Friedman mostrò i limiti della relazione

descritta dalla curva di Phillips, una relazione implicitamente basata sulla assunzione

che i lavoratori continuano a prevedere un tasso di inflazione pari a zero anche nei

periodi in cui l’inflazione è maggiore di zero. In secondo luogo, il lavoro di Friedman

permetteva di spiegare un fenomeno che sembrava incompatibile con le conclusioni

dedotte dalla curva di Phillips: la stagflazione.

La teoria sviluppata da Friedman prese il nome di monetarismo. Nel corso degli

anni ’80 e ’90, l’analisi di Friedman venne rielaborata e ulteriormente sviluppata grazie,

in particolare, al fondamentale contributo di Robert Lucas. Il lavoro di Lucas e dei suoi

coautori ha dato origine a un nuovo filone di letteratura macroeconomica divenuto noto

con il termine di Nuova Macroeconomia Classica (NMC).

In realtà, quella iniziata da Friedman e poi proseguita da Lucas non rappresentò una

vera e propria rivoluzione teorica, quanto piuttosto una controrivoluzione, perché,

ponendo fine al periodo dominato dalla ortodossia della ‘sintesi neoclassica’

keynesiana, il monetarismo e la Nuova Macroeconomia Classica, riproposero le

conclusioni fondamentali della teoria neoclassica sviluppata tra la fine dell’800 e i primi

decenni del ‘900.

A questo proposito, possiamo individuare tre punti fondamentali che accomunano la

Nuova Macroeconomia Classica e la teoria neoclassica.

1. Entrambi gli approcci accettano la teoria quantitativa della moneta

Friedman ha riaffermato il principio della neutralità della moneta elaborando una nuova

versione della teoria quantitativa della moneta che distingue tra gli effetti di breve e di

lungo periodo prodotti da una variazione della quantità nominale di moneta.

Nel breve periodo, una politica monetaria espansiva può avere effetti sul reddito e

sull’occupazione, perché può provocare un errore di previsione da parte dei lavoratori. I

lavoratori, infatti, formulano le loro aspettative circa il valore futuro del tasso di

inflazione sulla base dei valori osservati in passato, mentre una politica monetaria

espansiva determina un incremento dell’inflazione corrente. Nel breve periodo, quindi,

una politica espansiva può provocare un errore di previsione:

�̇� ↑ → �̇� → (�̇� − �̇�𝑒) > 0 → 𝑁 > 𝑁0 → 𝑌 > 𝑌0 .

Tuttavia, questi effetti sono soltanto temporanei, perché le autorità monetarie non

possono accettare di espandere la quantità di moneta a un tasso continuamente crescente

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289

che determinerebbe una dinamica esplosiva dell’inflazione. Inoltre, come abbiamo visto

in precedenza, nel lungo periodo la decisione di aumentare la quantità di moneta a un

tasso costante causa unicamente un equivalente aumento del tasso di inflazione.

2. L’inefficacia delle politiche economiche di ispirazione keynesiana

Friedman ha dimostrato che, in un mondo in cui l’offerta di lavoro è una funzione

crescente del salario reale atteso, le politiche fiscali e monetarie keynesiane sono

inefficaci. Nel lungo periodo, infatti, il sistema converge verso la posizione di equilibrio

definita dall’intersezione tra le curve di domanda e di offerta di lavoro. L’analisi di

Friedman ha indotto gli economisti a riabilitare le conclusioni della teoria neoclassica

sulla base di un ragionamento apparentemente semplice: se le politiche keynesiane non

sono in grado di influenzare i valori del reddito e dell’occupazione, allora si deve

concludere che questi valori dipendono dalle sole forze del mercato, le cui dinamiche

trovano sintetica espressione nelle funzioni di domanda e di offerta, anche nel caso del

mercato del lavoro.

Figura 120 - La disoccupazione naturale nel mercato del lavoro descritto da Friedman

In particolare, Friedman ha definito il livello di occupazione corrispondente al punto

0 nella figura 120 con l’aggettivo naturale, per sottolineare che:

a) il livello dell’occupazione dipende esclusivamente dalla interazione tra la domanda e

l’offerta di lavoro;

b) il livello naturale è l’unico livello di occupazione in corrispondenza del quale i

lavoratori non commettono errori di previsione;

c) esso è coerente con prezzi stabili e un tasso di inflazione pari a zero, e

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290

d) esso non è influenzato dalle politiche keynesiane di espansione della domanda

aggregata.

Friedman ha associato l’aggettivo naturale anche al livello di reddito (𝑌0)

corrispondente a un livello di occupazione pari a 𝑁0. Inoltre, egli ha definito tasso

naturale di disoccupazione il tasso di disoccupazione coerente con i livello di

occupazione 𝑁0. Con riferimento alla figura 120, data la forza di lavoro (�̅�), �̅� − 𝑁0

coincide con la disoccupazione cosiddetta naturale, mentre 𝑢0 = (�̅� − 𝑁0)/�̅�

rappresenta il tasso naturale di disoccupazione.

Il concetto di tasso naturale di disoccupazione può sembrare strano, perché quando

abbiamo presentato la teoria neoclassica abbiamo usato l’espressione equilibrio di

piena occupazione per indicare il livello di occupazione individuato dal punto di

intersezione tra le funzioni di domanda e di offerta di lavoro. In quel caso, la

disoccupazione registrata sul mercato del lavoro è volontaria, perché costituita dai

lavoratori che scelgono deliberatamente di non lavorare alle condizioni di mercato

(figura 121).

Figura 121 - La disoccupazione volontaria nel mercato del lavoro

della tradizione neoclassica

Come sappiamo, nella teoria neoclassica il mercato del lavoro è considerato

perfettamente concorrenziale, perché composto da imprese omogenee e da lavoratori

omogenei, che differiscono soltanto in relazione alle preferenze circa il tempo di lavoro

e il reddito. Il concetto di tasso naturale di disoccupazione si applica invece a un

mercato del lavoro che non ha caratteristiche perfettamente concorrenziali. In un

mercato del lavoro di questo tipo è possibile definire la forza di lavoro (�̅�) come

l’insieme degli individui che devono lavorare per poter vivere, e assume rilevanza il

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291

concetto di forza contrattuale dei lavoratori, perché sia le condizioni di lavoro che il

livello del salario derivano dalla contrattazione tra le istituzioni che rappresentano i

lavoratori e quelle che rappresentano le imprese. In questo caso, la funzione di offerta di

lavoro riflette le scelte contrattuali dei sindacati e dei lavoratori, e Friedman e i

sostenitori della Nuova Macroeconomia Classica possono concludere che il tasso

naturale di disoccupazione è una conseguenza del comportamento dei sindacati che

chiedono salari incoerenti con un tasso di disoccupazione naturale pari a zero (si veda il

punto A della figura 122, cui corrisponde un livello del salario reale atteso pari a 𝛽, e si

confronti la citazione di Luigi Zingales a p. 194 GB).

Figura 122 - Gli effetti della moderazione salariale sul livello della disoccupazione naturale

nel mercato del lavoro descritto da Friedman

L’ovvio corollario di questa conclusione è che, se i salari fossero perfettamente

flessibili e i sindacati fossero disposti ad accettare un livello del salario reale coerente

con un tasso di disoccupazione naturale pari a zero, si arriverebbe ad azzerare la

disoccupazione. Come si evince dalla figura 122, in tal caso la curva di offerta di lavoro

si sposterebbe verso destra (verso il basso) passando per il punto 𝐸. Nel punto E il

sistema raggiungerebbe un nuovo equilibrio caratterizzato da un tasso di disoccupazione

pari a zero, in cui tutta la forza di lavoro disponibile sarebbe occupata (sui limiti di

questa analisi si veda GB, appendice 3, pp. 247-252, e appendice 4, pp. 253-258).

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292

3. Sia per il monetarismo che per la Nuova Macroeconomia Classica vale la legge di

Say

In altri termini, sia per Friedman che per Lucas e i loro epigoni le decisioni di

produzione determinano le condizioni che assicurano la presenza di un livello di

domanda aggregata tale da consentire l’assorbimento di tutti i beni e servizi prodotti.

Come abbiamo visto in precedenza, secondo la teoria neoclassica il meccanismo che

assicura la validità della legge di Say è dato dalla flessibilità del tasso di interesse. A

giudizio dei sostenitori della scuola neoclassica esiste sempre un valore positivo del

tasso di interesse che spinge le imprese a realizzare un flusso di investimenti tale da

assorbire i risparmi di piena occupazione.

Anche gli economisti che si riconoscono nel filone di pensiero della Nuova

Macroeconomia Classica assumono che esista questo valore del tasso di interesse.

Tuttavia, nella Nuova Macroeconomia Classica il meccanismo che assicura il

raggiungimento di questo particolare valore del tasso di interesse viene specificato in

modo diverso. Nel caso della teoria neoclassica, infatti, il tasso di interesse viene

considerato come la remunerazione del risparmio, e quindi come il prezzo che mette in

equilibrio il mercato dei capitali, ovvero il mercato nel quale si scambiano le risorse

risparmiate. Nel caso della Nuova Macroeconomia Classica, invece, il meccanismo di

convergenza del tasso di interesse verso il valore coerente con le conclusioni della legge

di Say viene definito considerando la relazione tra il livello dei prezzi (𝑃), la quantità

reale di moneta (𝑊 𝑃⁄ ) e il tasso di interesse (𝑟) che caratterizza il modello teorico

keynesiano:

se 𝑃 ↑ → �̅�0𝑃↓ → 𝑟 ↑ → 𝐼 ↓ → 𝑌 ↓ , mentre

se 𝑃 ↓ → �̅�0𝑃↑ → 𝑟 ↓ → 𝐼 ↑ → 𝑌 ↑ .

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293

Figura 123 - La flessibilità dei prezzi alla base del meccanismo di

aggiustamento automatico verso l’equilibrio naturale (1)

I sostenitori della NMC osservano che quando 𝑁 ≠ 𝑁0 e il sistema si trova al di fuori

del suo equilibrio naturale, si registra una variazione del livello dei prezzi che determina

il ritorno alla situazione di equilibrio naturale. Supponiamo che sia 𝑁1 > 𝑁0 (figura

123). Come abbiamo visto in precedenza, nel breve periodo ciò è possibile a condizione

che si registri un tasso di inflazione crescente:

𝑊

𝑃𝑒>𝑊

𝑃 → �̇� > �̇�𝑒 .

L’aumento dei prezzi spinge il sistema verso l’equilibrio naturale, perché provoca una

riduzione dell’offerta reale di moneta che ha un effetto restrittivo sul tasso di interesse, e

quindi sul livello della domanda aggregata:

𝑃 ↑ → �̅�0𝑃↓ → 𝑟 ↑ → 𝐼 ↓ → 𝑌 ↓ → 𝑁 ↓ sino ad arrivare a 𝑁0 .

Il processo di aggiustamento si arresta quando l’occupazione raggiunge il suo livello

cosiddetto naturale (𝑁0).

Naturalmente, questo meccanismo funziona anche nel caso opposto, quando il

sistema si trova in una condizione in cui il livello di occupazione è inferiore a quello

naturale (𝑁2 < 𝑁0) (figura 124).

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Figura 124 - La flessibilità dei prezzi alla base del meccanismo di

aggiustamento automatico verso l’equilibrio naturale (2)

In questo caso, la presenza di un elevato livello di disoccupazione provoca una

riduzione dei salari monetari (𝑊), e quindi dei prezzi (𝑃), che produce un effetto

espansivo legato all’aumento dell’offerta reale di moneta e alla conseguente riduzione

del valore del tasso di interesse:

𝑊 ↓ → 𝑃 ↓ → �̅�0𝑃↑ → 𝑟 ↓ → 𝐼 ↑ → 𝑌 ↑ → 𝑁 ↑ sino ad arrivare a 𝑁0 .

Pertanto, la flessibilità dei prezzi garantisce che il tasso di interesse raggiunga il valore

coerente con l’equilibrio naturale e il rispetto della legge di Say.

Come è stato sottolineato in precedenza, l’ipotesi che esista un valore positivo del

tasso di interesse capace di spingere le imprese a realizzare un livello di investimenti

coerente con la piena occupazione (o con il livello naturale di occupazione) vale

all’interno di una economia grano, in cui le decisioni di investimento vengono prese in

condizioni di certezza. Questa ipotesi non è valida se, invece, si considera l’economia

monetaria di Keynes o l’economia capitalista di Schumpeter. Secondo Keynes e

Schumpeter le moderne economie di mercato sono intrinsecamente instabili, e quindi

soggette a fluttuazioni anche molto forti dei livelli dell’occupazione e del reddito.

Inoltre, non esistono meccanismi automatici di aggiustamento che assicurano la

presenza di un flusso di domanda aggregata capace di assorbire il livello di reddito

coerente con una occupazione pari a 𝑁0 (a questo proposito si veda GB, capitolo 7,

paragrafi 1.2 e 1.3, pp. 142-150, e le appendici 3 e 4).