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1 © 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati ••• APPROFONDIMENTI ••••• LA CITTADINANZA: PROFILI DI DIRITTO COMPARATO di Fabio TITTARELLI Nel nostro Paese si va verso una nuova legislazione sulla cit- tadinanza? Il dibattito di questi mesi e le diverse posizioni po- litiche in campo offrono l’occasione per ripercorrere, in questo articolo, il concetto giuridico di cittadinanza, le origini e l’evolu- zione storica della cittadinanza, la disciplina della cittadinanza in Italia e negli altri Paesi europei. IL CONCETTO GIURIDICO DI CITTADINANZA Per cittadinanza si intende, nel nostro sistema giuridico, la condizione di ogni per- sona fisica (perciò definita “cittadino”) alla quale viene riconosciuto dallo Stato un insieme di diritti civili e politici in funzione della sua appartenenza a esso. La citta- dinanza, quindi, si configura in due distinti modi, tra loro complementari: come uno status della persona (anzi, lo status primario), a cui si ricollegano diritti e doveri, e come rapporto giuridico che lega la persona (il “cittadino”) allo Stato. Spesso, impropriamente, si usa come concetto equivalente alla cittadinanza quello di nazionalità. In effetti, tale identificazione dei due termini è assai diffusa: basti pensare alla modulistica che deve essere compilata da ogni soggetto che intenda fare ingresso in un Paese straniero, la quale impone di dichiarare, tra l’altro, la propria “nazionalità”. Ciò è dovuto, in gran parte, al fatto che il termine “cittadinanza” esprime, nella lingua nazionale di molti Paesi, unicamente la relazione giuridica tra la persona e lo Stato, ossia il “modo” in cui ogni cittadino si relaziona allo Stato del quale fa parte, ma non rimanda ne- cessariamente al complesso dei diritti e dei doveri (status) che ne discende. Così, per esempio, si fa riferimento in alcuni Paesi alla “partecipazione civica” o all’“impe- gno civico” (Lettonia, Romania), ovve- ro alla “coscienza civica” (Polonia), ai “diritti e doveri civici” (Germania, Paesi Bassi, Regno Unito) ecc. La nazionalità, invece, dovrebbe più cor- rettamente indicare il vincolo che collega un dato individuo a un gruppo socio-etno- culturale, che può coincidere o meno con lo Stato. In tale accezione, la “nazione” costitui- sce il gruppo nel suo insieme, e la “nazionalità” il legame che esiste tra un soggetto e tale gruppo. Quest’ultimo (la “nazione”) presenta caratteri so-

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LA CITTADINANZA: PROFILI DI DIRITTO COMPARATOdi Fabio TITTARELLI

Nel nostro Paese si va verso una nuova legislazione sulla cit-tadinanza? Il dibattito di questi mesi e le diverse posizioni po-litiche in campo offrono l’occasione per ripercorrere, in questo articolo, il concetto giuridico di cittadinanza, le origini e l’evolu-zione storica della cittadinanza, la disciplina della cittadinanza in Italia e negli altri Paesi europei.

IL CONCETTO GIURIDICO DI CITTADINANZA

Per cittadinanza si intende, nel nostro sistema giuridico, la condizione di ogni per-sona fisica (perciò definita “cittadino”) alla quale viene riconosciuto dallo Stato un insieme di diritti civili e politici in funzione della sua appartenenza a esso. La citta-dinanza, quindi, si configura in due distinti modi, tra loro complementari: come uno status della persona (anzi, lo status primario), a cui si ricollegano diritti e doveri, e come rapporto giuridico che lega la persona (il “cittadino”) allo Stato. Spesso, impropriamente, si usa come concetto equivalente alla cittadinanza quello di nazionalità. In effetti, tale identificazione dei due termini è assai diffusa: basti pensare alla modulistica che deve essere compilata da ogni soggetto che intenda fare ingresso in un Paese straniero, la quale impone di dichiarare, tra l’altro, la

propria “nazionalità”. Ciò è dovuto, in gran parte, al fatto che il termine “cittadinanza” esprime, nella lingua nazionale di molti Paesi,

unicamente la relazione giuridica tra la persona e lo Stato, ossia il “modo” in cui ogni cittadino si relaziona

allo Stato del quale fa parte, ma non rimanda ne-cessariamente al complesso dei diritti e dei doveri (status) che ne discende. Così, per esempio, si fa riferimento in alcuni Paesi alla “partecipazione civica” o all’“impe-gno civico” (Lettonia, Romania), ovve-ro alla “coscienza civica” (Polonia), ai “diritti e doveri civici” (Germania, Paesi Bassi, Regno Unito) ecc.

La nazionalità, invece, dovrebbe più cor-rettamente indicare il vincolo che collega

un dato individuo a un gruppo socio-etno-culturale, che può coincidere o meno con lo

Stato. In tale accezione, la “nazione” costitui-sce il gruppo nel suo insieme, e la “nazionalità”

il legame che esiste tra un soggetto e tale gruppo. Quest’ultimo (la “nazione”) presenta caratteri so-

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stanzialmente omogenei sul piano linguistico, religioso, delle tradizioni popolari, dei valori di riferimento. In questo senso, il gruppo può coincidere – come più so-pra accennato – con l’insieme della popolazione appartenente giuridicamente a uno Stato, ma può anche costituire soltanto una porzione di tale popolazione. Si hanno, di conseguenza, Stati uninazionali e Stati plurinazionali. L’Italia, per esempio, è considerata una nazione unica (con buona pace per il “popolo padano”, la “nazione padana” e simili amenità), in quanto gran parte della sua popolazione (il popolo dello Stato italiano) è accomunata dagli stessi caratteri culturali, religiosi ecc. Non così è per altri Paesi, come per esempio il Belgio (formato da due distinte “nazioni”, i valloni e i fiamminghi), la Svizzera (divisa in quattro “cantoni”, ciascuno dei quali presenta propri caratteri e differenziazioni sul piano linguistico) e altri Stati europei, prevalentemente di area balcanica. Può anche avvenire, però, che gruppi di persone appartenenti alla medesima “unità culturale” (nel senso più ampio di tale accezione) facciano giuridicamente riferimento a Stati diversi (questo, in genere, è il risultato di divisioni territoriali avvenute in seguito a conflitti bellici).

L’ATTRIBUZIONE DELLA CITTADINANZA

Ogni Stato fissa proprie regole per l’acquisto o la perdita della cittadinanza. In talu-ni casi esse sono stabilite a livello costituzionale, in altri – come in Italia – vengono demandate alla legge ordinaria. In generale – e al di là di particolari procedure di attribuzione – si possono individuare due distinte “filosofie” sottese all’acquisto della cittadinanza e dei diritti e doveri che a essa si ricollegano: quella basata sul-lo ius sanguinis e quella fondata sullo ius soli (o ius loci). Nei diversi Paesi, poi, le norme ispirate all’uno o all’altro principio cardine si “combinano” tra loro per meglio modellare il principio di cittadinanza, ma in definitiva ogni Stato “elegge” a fondamento della cittadinanza o il “vincolo di sangue” o il “vincolo della terra”.

a) Lo ius sanguinisIl principio del “diritto di sangue” (o “modello tedesco”, perché si fa risalire alla con-cezione del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte, 1762-1814) si fonda sulla di-scendenza da una stessa matrice etnico-culturale: si tratta, quindi, di una dimensione “oggettiva” della cittadinanza, in base alla quale risulta “cittadino” di uno Stato colui che può vantare una diretta discendenza da altri soggetti giuridicamente appartenenti a quel determinato Stato. In altri termini, si è cittadini di uno Stato per “diritto di sangue” per il fatto di essere nati da un genitore (generalmente il padre, ma in taluni ordinamenti anche la madre) in possesso della cittadinanza di quello Stato.

b) Lo ius soliIl principio del “diritto della terra” (o “modello francese”, perché adottato per pri-mo in questo Paese) fa riferimento, al contrario del precedente, a una concezione “soggettiva” della cittadinanza, in base alla quale si è cittadini di uno Stato per il fatto di essere nati sul territorio di quello Stato, indipendentemente dalla propria discendenza.

Negli Stati europei prevale, tra i due, lo ius sanguinis, con la notevole eccezione della Francia, dove lo ius soli vige dagli inizi del XVI secolo. In altri continenti, in-vece, vi è una prevalenza dello ius soli. È evidente che l’adesione a un principio an-ziché a un altro ha delle implicazioni non irrilevanti sul piano dell’attribuzione della cittadinanza. In particolare, negli Stati che adottano lo ius soli (o che comunque si ispirano in prevalenza a questo principio) la cittadinanza viene a essere tendenzial-mente più estesa rispetto a quella attribuita in base al principio dello ius sanguinis. Non a caso gli Stati che adottano il modello tedesco sono stati, in genere, interessati per lungo tempo da forti movimenti migratori verso l’esterno (si pensi all’Italia), per cui l’adozione del vincolo di sangue ha consentito loro di tutelare prioritariamente

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i diritti dei discendenti degli emigrati. Per converso, gli Stati che adottano in pre-valenza il modello francese sono stati interessati da consistenti flussi immigratori e sono caratterizzati, in genere, da un territorio in grado di ospitare una popolazione maggiore di quella originariamente residente (si pensi all’Argentina, al Brasile, al Canada, agli Stati Uniti ecc.). Per questo, in tali Stati, l’adozione del vincolo del suolo ha favorito l’estensione della cittadinanza a una popolazione via via crescente, tutelando così i diritti di tutti i nati nel proprio territorio.

L’apolidia e la doppia cittadinanza

Se un soggetto non risulta titolare di alcuna cittadinanza, egli è definito apolide. La condizione di apolidia può essere originaria, nel qual caso la persona nasce priva di cittadinanza e permane in tale condizione per tutta la vita, trasmettendola ai propri figli, oppure derivata, allorché – a seguito di particolari circostanze – il soggetto perde la propria cittadinanza senza acquisirne una nuova.

Un esempio del primo tipo è dato da talune popolazioni minoritarie tuttora dedite al noma-dismo o “tendenzialmente nomadi”, che hanno perduto i legami giuridici con il Paese natale senza acquisire lo status di cittadini del Pae-se ospitante. L’apolidia derivata, invece (più frequente) può derivare da una perdita della cittadinanza per motivi discriminatori (etnici, politici ecc.), non accompagnata dall’acquisto di altra cittadinanza, così come può essere do-vuta a errori o difficoltà amministrative nella registrazione delle nascite, ma anche alla stes-sa volontà del soggetto, che intenda rinunciare alla propria cittadinanza senza ottenere quella di un altro Stato. Più frequentemente, ciò può avvenire quando un individuo rinunci alla cit-tadinanza di uno Stato per aderire a quella di un altro Stato, ma al venir meno della cittadinanza

originaria, a causa di lungaggini burocratiche, fa seguito un “vuoto attributivo” da parte dell’altro Stato, determinando una forzosa condizione di apolidia. Al contrario, può avvenire che un soggetto risulti titolare di una doppia cittadi-nanza. Il caso più frequente si ha quando una persona sia cittadino di uno Stato che adotti il principio dello ius sanguinis e, contemporaneamente, cittadino di un altro Stato che adotti quello dello ius soli (per esempio, il figlio di un italiano a suo tempo emigrato in Argentina, il quale sia nato in quest’ultimo Paese). Poiché tali condizioni di doppia cittadinanza possono causare inconvenienti, gli Stati tendono ad adottare normative atte a prevenirle, e tuttavia non sono rari i casi di doppia cit-tadinanza che permangono anche per lungo tempo, in difetto di opportuni controlli o per la mancanza di specifici accordi internazionali al riguardo.

c) L’acquisto della cittadinanza in seguito a matrimonio

Il diritto di cittadinanza si può acquistare anche per effetto di matrimonio. In alcuni ordinamenti tale risultato è automatico al perfezionarsi del vincolo coniugale, in altri è soltanto un presupposto per l’ottenimento della cittadinanza in forza di un successivo, ed eventuale, atto ufficiale dello Stato (si veda oltre). Vi sono poi Stati che ancora non equiparano i generi in materia, nel senso che la moglie straniera di un cittadino può acquisire la medesima cittadinanza di lui, mentre non avviene il contrario: il marito straniero di una cittadina mantiene la propria cittadinanza di origine (ossia, rimane straniero anche dopo il matrimonio).

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d) L’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione

Infine, la cittadinanza si può ottenere in conseguenza di un provvedimento della pubblica autorità (nella forma del decreto, o della concessione o di altro atto ufficia-le, secondo i diversi ordinamenti). Ciò avviene, di solito, qualora si verifichino de-terminati presupposti: la residenza per un periodo particolarmente lungo e continua-to sul territorio nazionale, o il matrimonio con cittadino/a (allorché tale vincolo non abbia già determinato automaticamente l’acquisto della cittadinanza), o la rinuncia alla cittadinanza di origine, o altre condizioni specificamente previste da ogni Paese.

ALLE ORIGINI DEL CONCETTO DI CITTADINANZA

Il principio di cittadinanza ha origini antiche, in quanto si fa risalire, nella sua for-ma originaria, alle poleis greche, ossia alle città-stato (o meglio, agli “Stati-città”) del periodo ellenico. Ma la portata dell’attribuzione della cittadinanza risultava, all’epoca, assai diversa dall’attuale. Ad Atene, per esempio, era qualificato “citta-dino” il maschio libero, nato da padre ateniese, di età compresa fra i 18 e i 59 anni. Il diritto spettava, quindi, soltanto: a) all’uomo, non anche alla donna; b) al libero, non allo schiavo; c) all’individuo adulto, in una determinata fascia di età. Inoltre: d) la cittadinanza veniva attribuita per diritto di sangue soltanto in base a discendenza in linea maschile. Tali condizioni facevano sì che i cittadini ateniesi fossero assai pochi rispetto all’insieme degli abitanti della città: si calcola che nella fase di mas-sima espansione del potere di Atene i suoi cittadini fossero di poco superiori alle 40mila unità, mentre oltre 270mila erano i soggetti esclusi dal diritto di cittadinanza (130mila circa tra donne, anziani e minori di età, quasi 30mila i meteci, cioè gli stra-nieri stabilmente residenti ad Atene, e oltre 110mila gli schiavi). Inoltre, a seguito di un editto emanato da Pericle (attorno al 450 a.C.) poterono accedere al diritto di cittadinanza soltanto coloro i cui genitori fossero stati entrambi cittadini ateniesi. Per comprendere tale limitazione al diritto di cittadinanza, occorre però averne pre-sente la particolare natura: essere “cittadino”, nell’antica Grecia, significava poter disporre, oltre che di diritti civili (che spettavano anche agli altri membri liberi della comunità “non cittadini”, come le donne, gli anziani, i meteci ecc.), anche dei diritti politici. Il cittadino ateniese, per esempio, in forza del suo status partecipava alla gestione degli affari pubblici, poteva riunirsi liberamente in luoghi stabiliti al fine di dibattere le grandi questioni relative allo Stato, assumeva le decisioni fondamen-tali per la vita della comunità. Tutto ciò era negato a coloro che, pur godendo di un complesso di diritti civili, non erano qualificati come “cittadini”. Nell’ordinamento romano, accanto allo status libertatis (che distingueva il libero dallo schiavo) e allo status familiae (che conferiva particolari diritti al paterfami-lias rispetto agli altri membri della famiglia), si poneva lo status civitatis, attri-

buzione spettante al solo civis romanus, rispetto al “non cittadino”. In una prima fase, l’acquisizione dei diritti inerenti a quest’ultimo status rispondeva ai mede-simi presupposti delle poleis greche: era cittadino romano il maschio adulto, libe-ro, nato da padre cittadino. Nel corso del tempo, però, il diritto di cittadinanza fu progressivamente esteso – con appositi provvedimenti normativi – alle popola-zioni che via via erano conquistate dai Romani e inglobate nell’impero. Ciò co-stituì, per così dire, una necessità indot-ta dall’espansione territoriale, in quanto le popolazioni sottomesse al dominio di

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Roma mal sopportavano l’insieme dei privilegi appartenenti ai cittadini romani, e che a loro erano negati. L’attribuzione dello status civitatis agli stranieri, quindi, fu successivamente “utilizzato” come strumento di controllo politico sulle aree di recente conquista. In una terza fase, infine, si procedette a unificare lo status di tutti gli abitanti dell’impero, prevalentemente per ragioni militari e “fiscali” (i cittadini avevano l’obbligo di prestare servizio militare e quello di contribuire al pagamento delle imposte allo Stato romano). Correlativamente, però, lo status civitatis perdette gran parte delle originarie attribuzioni sul piano politico: le de-cisioni erano largamente concentrate nelle mani del sovrano e del suo ceto buro-cratico e lo Stato divenne sempre più assolutista.

LA CITTADINANZA NELL’ETÀ MODERNA E CONTEMPORANEA

Dopo la lunga parentesi storica che ha condotto alla dissoluzione delle entità statuali prima (feudalesimo) e al potere assolutistico poi – ciò che di fatto azzerò il “valore” della cittadinanza – il ritorno a una riflessione ampia e approfondita sulla relazione individuo-Stato avvenne con l’affermarsi della filosofia illuminista e con le grandi rivoluzioni borghesi della fine del XVIII secolo. Il passaggio dallo Stato assoluto allo Stato di diritto, con il trasferimento dell’origine della sovranità dal monarca al popolo, segnò anche la ripresa del concetto di cittadinanza, intesa come fondamento della sovranità popolare. Il “cittadino” non è più, secondo la concezione illumi-nista, un suddito soggetto al potere del principe, ma un libero soggetto razionale in grado di scegliere il proprio governo. Il popolo, in questa ottica, altro non è che l’insieme dei cittadini che decidono liberamente e in piena autonomia di vivere sotto un comune ordinamento, attraverso la “sottoscrizione di un contratto sociale” (Rousseau). In tal modo si ripropose, a più ampio raggio, il valore originario del-la cittadinanza in quanto partecipazione attiva e gestione della cosa pubblica, così come si era andato formando in epoca ellenica. Con il sostanziale abbandono, nell’Ottocento, della filosofia illuminista per una con-cezione romantica che conferiva valore e pienezza al concetto di “nazione”, anche il senso della cittadinanza mutò, depotenziato nei suoi connotati politici e agganciato ben più saldamente al requisito del territorio, in armonia con le istanze indipen-dentiste dell’epoca. In tal senso la cittadinanza divenne il mezzo per distinguere gli appartenenti a una nazione, identificandosi così con il concetto di “nazionalità”. La cittadinanza perdette, di conseguenza, lo stretto legame con il godimento dei diritti politici, mutuato dalla concezione classica, per individuare lo specifico rap-porto tra l’individuo e lo Stato, alla cui sovranità rimane soggetto. Il venir meno della relazione tra lo status di cittadino e la titolarità dei diritti politici fece sì che si potessero avere cittadini ai quali fosse impedito l’esercizio di alcuni fondamentali diritti, come quelli di elettorato attivo e passivo (alle donne, per esempio, tale diritto

fu inibito, in gran parte degli Stati europei, fino a pochi decenni fa). Tale orientamento, nelle sue linee essenziali, rimane tuttora, al punto che – lo si diceva in precedenza – si assiste a una sostanziale identificazione tra il concetto di cittadinanza e quello di nazionalità (impropriamente intesa, quest’ultima, come appartenenza a uno Stato).

LA CITTADINANZA IN ITALIA

Il nostro ordinamento, in materia di cittadinanza, si ispira al principio di derivazione germanica dello ius sanguinis. La relativa normativa, però, ha subìto alcune modifi-che nel corso del tempo, anche se non particolarmente penetranti. Nello Statuto albertino – la Carta costituzionale precedente all’attuale, emanata nel 1848 – non veniva fatta menzione della cittadinanza, ma indirettamente se ne fa-ceva riferimento, prevedendo (art. 24) la formale uguaglianza dinanzi alla legge di

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“tutti i regnicoli”. Si trattava, peraltro, di un’uguaglianza che potremmo definire fittizia, poiché le donne, in base alla legislazione vigente all’epoca, erano subordi-nate all’autorità del paterfamilias. In conseguenza, qualsiasi evento riguardante la cittadinanza del marito si rifletteva necessariamente sulla moglie e sui figli, sia con riferimento al suo acquisto, sia alla sua perdita o al suo riacquisto. Il 13 giugno 1912, con la legge n. 555, venne emanata una specifica disciplina in materia, che sopravvisse per ben ottanta anni. Con essa si confermava il primato del marito nell’unione matrimoniale e, in relazione a questo, la soggezione della moglie e dei figli agli eventi dell’uomo che potevano avere riflessi sulla cittadinanza. In particolare:

veniva sancito lo ius sanguinis a fondamento dell’attribuzione della cittadinanza (mentre lo ius soli era contemplato solo come ipotesi residuale);

i figli, di massima, acquisivano la cittadinanza del padre;

la donna riceveva, ugualmente, la cittadinanza del marito, ma poteva perderla in caso di matrimonio con uno straniero, assumendo la cittadinanza di quest’ultimo.

L’attuale normativa in materia risale al 5 febbraio 1992, emanata con la legge n. 91. Tale disciplina è poi stata soggetta ad alcune modifiche e integrazioni, ma è rimasta inalterata nel suo impianto complessivo. Essa dispone che la cittadinanza italiana possa venire concessa per nascita, per eventi a essa successivi (principio della iuris communicatio), per beneficio di legge (in condizioni particolari) e per concessione statale (naturalizzazione). In particolare, la cittadinanza si acquisisce per nascita in base a uno dei seguenti presupposti:

è cittadino italiano per nascita il figlio di padre o madre cittadini, secondo il prin-cipio dello ius sanguinis. Tale norma riscrive in chiave equiparativa la precedente disposizione che, come sopra accennato, conferiva la trasmissibilità del diritto di cittadinanza solo all’uomo;

il principio dello ius soli è applicato solo residualmente, consentendosi l’acquisto della cittadinanza al soggetto nato in territorio italiano i cui genitori siano ignoti o apolidi.

In base alla iuris communicatio si contemplano diverse fat-tispecie di acquisto della cittadinanza successivamente alla nascita del soggetto. Così:

diviene cittadino italiano chi sia stato riconosciuto figlio di genitore cittadino durante la minore età;

qualora maggiorenne, questi può eleggere cittadinanza ita-liana entro un anno dal riconoscimento;

parimenti acquista la cittadinanza lo straniero adottato da cittadini italiani (prima dell’entrata in vigore della presente normativa);

infine, diviene cittadino italiano il coniuge di cittadino ita-liano – straniero o apolide – qualora risieda legalmente nel territorio dello Stato da almeno sei mesi, o dopo tre anni dalla data del matrimonio (se non sussiste separazione le-gale, divorzio, annullamento ecc.).

La cittadinanza si acquista per beneficio di legge, da parte di uno straniero, in se-guito a una sua espressa manifestazione di volontà di divenire cittadino italiano, nei casi seguenti:

se i genitori (uno o entrambi) o uno degli ascendenti in linea retta di secondo gra-do (nonni) siano stati cittadini per nascita, qualora presti servizio militare per lo Stato italiano, ovvero assuma pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche

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all’estero, o, infine, risieda legalmente e ininterrottamente, al raggiungimento del-la maggiore età, da almeno due anni in Italia;

se, essendo nato in Italia, vi abbia risieduto ininterrottamente sino alla maggiore età, qualora dichiari di voler eleggere la cittadinanza entro un anno da tale data.

La cittadinanza si acquisisce, infine, per naturalizzazione, con decreto del Presi-dente della Repubblica, qualora la condizione dello straniero risponda a uno dei seguenti requisiti:

il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado (nonni) siano stati cittadini per nascita oppure egli sia nato in Italia e vi risieda legalmente da almeno tre anni (nel caso in cui non abbia voluto o potuto optare per l’elezione della cittadinanza per beneficio di legge);

sia stato adottato da un cittadino italiano, sia maggiore di età e risieda legalmente nel territorio italiano da almeno cinque anni successivamente all’adozione;

abbia prestato servizio, anche all’estero, alle dipendenze dello Stato italiano per almeno cinque anni;

sia cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea – oppure sia apolide – e abbia risieduto legalmente in Italia da almeno quattro anni;

sia cittadino di uno Stato extra Ue, purché risieda legalmente in Italia da almeno dieci anni;

abbia reso eminenti servizi all’Italia;

quando ricorra eccezionale interesse dello Stato.

La cittadinanza si può perdere, in base alla vigente normativa in materia, tanto per volontà del cittadino quanto per statuizione di legge. In ogni caso, è esclusa la sua perdita per motivi politici. In particolare, la cittadinanza può venir meno contro la volontà del soggetto qualora quest’ultimo abbia accettato un impiego pubblico da uno Stato estero o presti servizio militare all’estero e non ottemperi all’intimazione rivoltagli dal governo italiano di abbandonare l’impiego o il servizio che sta svol-gendo. La cittadinanza, però, viene mantenuta in tali condizioni se non si verifica la predetta intimazione, a meno che la fattispecie non si determini in periodo di guerra, nel qual caso, a far tempo dalla cessazione dello stato di guerra, il soggetto perde automaticamente la cittadinanza italiana qualora mantenga l’impiego o continui il servizio militare in uno Stato estero. La cittadinanza si può riacquistare, di massima, per il venir meno delle situazioni che avevano determinato la sua perdita e per espressa dichiarazione di volontà del soggetto, a meno che la perdita sia stata determinata da indegnità. Quest’ultimo caso si verifica allorché il soggetto abbia servito, senza esservi obbligato, uno Stato estero in guerra con l’Italia.

Attribuzione della cittadinanza in Italia anno 2009(fonte: Ministero dell’Interno)

per naturalizzazioneper matrimonio

cittadinanze concesse

domande di cittadinanza non definite

domande di cittadinanza respinte o inammissibili

domande di cittadinanza presentate

2296217122

120896726

9121525

3596325373

0 10000 20000 30000 40000

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LA CITTADINANZA IN ALCUNI ORDINAMENTI EUROPEI

a) La disciplina sulla cittadinanza in Francia

In Francia si pone una precisa distinzione fra la nationalité e la citoyenneté, essendo la prima una condizione necessaria per l’acquisizione della seconda, ma non an-che sufficiente: per essere citoyen, infatti, occorre godere appieno dei diritti civili e politici, cosa che, per esempio, per alcune tipologie di diritti è possibile soltanto al raggiungimento della maggiore età (in particolare il diritto di elettorato attivo). Ne consegue che, in questo Paese, la “nazionalità” coincide a grandi linee con il nostro concetto di “cittadinanza”, mentre quest’ultima espressione in Francia indica lo sta-tus relativo alla titolarità dei diritti civili e politici. Ciò premesso, in Francia la nationalité può essere ottenuta in tre distinti modi:

per nascita. È cittadino francese il figlio – legittimo o naturale – nato in territorio francese quando almeno uno dei due genitori sia nato in Francia, indipendente-mente dalla sua cittadinanza. La presente disposizione normativa, già di per sé ispirata al principio dello ius soli, è stata ulteriormente rafforzata in tal senso da una successiva modifica legislativa del 1998, in base alla quale ogni persona nata in Francia da genitori stranieri acquisisce di diritto la cittadinanza francese al com-pimento della maggiore età se, a quella data, risulta avere, o avere avuto, la pro-pria residenza nel Paese per almeno cinque anni (anche per periodi discontinui). Per quanto riguarda l’acquisizione della nationalité per filiazione, è francese il figlio – legittimo o naturale – nato da genitori dei quali almeno uno sia francese, indipendentemente dal luogo di nascita (in tal caso si applica il principio dello ius sanguinis);

per matrimonio. Una persona straniera acquisisce la nationalité allorché contrae matrimonio con un cittadino o una cittadina francese;

per naturalizzazione. In forza di un provvedimento dell’autorità governativa, la nationalité può essere concessa allo straniero maggiorenne che dimostri di aver risieduto stabilmente e legalmente nel territorio francese da almeno cinque anni, periodo ridotto a due anni qualora egli abbia frequentato un istituto universitario per almeno due anni. Tale beneficio non spetta, comunque, a chi abbia riportato condanne penali che comportino pene detentive superiori o uguali a sei mesi di reclusione, così come colui il quale versi in una condizione di irregolare, o sia destinatario di un provvedimento di espulsione. Si prescinde, infine, dal requisito della residenza nei riguardi degli stranieri che abbiano ottenuto la qualificazione di “rifugiati”.

b) La disciplina sulla cittadinanza in Germania

Come sottolineato in precedenza, la Germania adotta il “modello” dello ius san-guinis, anche se, in base a una modifica della disciplina emanata nel 2000, si è introdotto il principio dello ius soli. Altra caratteristica di rilievo di questo ordi-namento è la disposizione in forza della quale la conoscenza della lingua tedesca diviene una conditio sine qua non per ottenere la cittadinanza: in base a una re-cente normativa (anno 2007), infatti, si è stabilito che il richiedente la cittadinanza debba superare preventivamente un esame, scritto e orale, in lingua tedesca. In particolare:

i figli di cittadini tedeschi acquistano la cittadinanza dei genitori (ius sanguinis). I figli di stranieri nati in Germania acquistano parimenti la cittadinanza tedesca (ius soli) qualora almeno uno dei genitori risieda stabilmente e legalmente nel Paese da un minimo di otto anni. I minori che divengono cittadini tedeschi per nascita, di norma, acquisiscono anche la nazionalità dei genitori stranieri in base al principio di filiazione. Al compimento della maggiore età essi hanno, però, cinque anni di

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tempo per decidere se mantenere la cittadinanza tedesca o eleggere quella dei ge-nitori. Nel caso non ottemperino alla scelta nei tempi indicati dalla legge, perdono automaticamente la cittadinanza tedesca. In ogni caso, non essendo ammessa la doppia cittadinanza, chi intenda mantenere la nazionalità tedesca deve dimostrare di aver perso quella straniera;

la cittadinanza per naturalizzazione si può acquistare dopo almeno otto anni di residenza continuata e legale in Germania, purché il richiedente dimostri la sua capacità di assicurare il mantenimento proprio e dei suoi familiari senza fare ricor-so a sussidi sociali o all’indennità di disoccupazione. Altri requisiti per ottenere la nazionalità sono quello, già accennato, di conoscere la lingua tedesca e quello di non aver riportato condanne penali per reati gravi.

c) La disciplina sulla cittadinanza nel Regno Unito

Nel Regno Unito vige un sistema misto fra i due modelli, quello tedesco e quello francese. Specificamente, è stabilito che la persona nata nel Regno Unito acquisisce la cittadinanza se almeno uno dei genitori sia già cittadino britannico. In alternativa, può acquisire la cittadinanza qualora almeno uno dei genitori, ancorché straniero, risieda stabilmente nel Paese. Il coniuge straniero di un cittadino britannico può, inoltre, acquisire la cittadinanza dopo aver vissuto legalmente e continuativamente per almeno un triennio nel Paese. La naturalizzazione avviene secondo diverse fattispecie. Il soggetto nato nel Regno Unito da cittadini stranieri può acquisire la cittadinanza britannica qualora almeno uno dei genitori successivamente divenga cittadino britannico o si stabilisca stabil-

mente nel Paese; la richiesta di cittadinanza va però esercitata dal minore entro il limite dei di-ciotto anni. Inoltre, può acquisire la cittadinan-za colui che abbia vissuto nel Regno Unito per i dieci anni successivi alla nascita in modo con-tinuativo (è previsto che eventuali assenze dal Paese non possano superare i novanta giorni). Infine, norme speciali sono stabilite per coloro che abbiano la cittadinanza britannica in terri-tori d’oltremare (ossia negli Stati appartenenti al Commonwealth): è richiesta la maggiore età, la residenza almeno quinquennale nel Regno Unito, le certificazioni relative alle buone con-dizioni fisiche e mentali, la conoscenza della lingua inglese (o gaelica o scozzese).

VERSO UNA NUOVA LEGISLAZIONE SULLA CITTADINANZA?

Come già evidenziato, il nostro ordinamento si ispira al principio dello ius san-guinis. Ciò ha rilievo, come è evidente, in ordine al problema dell’immigrazione. Il “modello” basato sul vincolo di sangue, infatti, è proprio di Paesi che speri-mentano consistenti flussi migratori verso l’esterno e assai scarsi flussi migratori verso l’interno; viceversa, il “modello” basato sul territorio è tipico di Paesi de-stinatari di flussi migratori provenienti da altri Stati. Il fatto è che, in Italia, ormai da molti anni, il saldo migratorio è ampiamente positivo, nel senso che sono assai più numerose, per ciascun periodo di riferimento, le persone immigrate di quelle emigrate. E tuttavia, l’attribuzione della cittadinanza in base allo ius soli rimane, secondo la vigente disciplina, confinata ai soli casi, del tutto residuali, di bambini figli di ignoti o apolidi. Di conseguenza, il bambino che nasce in Italia da cittadini stranieri non ha, attualmente, alcuna possibilità di diventare cittadino italiano fin-

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ché è minorenne. Anche per gli adulti, poi, la normativa vigente limita fortemente la possibilità di acquisto della cittadinanza, in quanto servono ben dieci anni (cin-que anni erano previsti nella disciplina precedente) di permanenza legale in Italia (non è sufficiente il possesso del solo permesso di soggiorno). Inoltre, pur aven-done i requisiti, il relativo procedimento di concessione della cittadinanza ha una durata non inferiore a due anni. In sostanza, nel migliore dei casi servono oggi non meno di dodici anni per avere una risposta alla propria richiesta di cittadinanza, mentre come sopra esposto in Francia e nel Regno Unito sono sufficienti cinque anni, e in Germania otto anni. «Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della citta-dinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità. Ai bambini nati in Italia in tal modo non viene riconosciuto un diritto fondamentale.» Così si esprimeva, soltanto qualche mese fa, il Presiden-te della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione dell’incontro, in Quirinale, con una delegazione di nuovi cittadini. Tale valutazione non ha mancato di susci-tare critiche e polemiche da un lato (specie da parte della Lega Nord) e plausi da un altro (particolarmente tra le forze politiche di centro-sinistra). D’altra parte, che il Paese sia diviso su questa tematica appare evidente anche con riferimento a un disegno di legge di modifica dell’attuale disciplina in materia di cittadinanza che il Consiglio dei ministri già nell’agosto del 2006 aveva approvato e trasmesso alla Camera per il successivo esame. Ma il Parlamento a tutt’oggi non ha ritenuto di prenderlo in considerazione, nonostante siano passati quasi sei anni da quella data. In quella bozza di legge si proponeva di aggiungere due fattispecie di ac-quisto della cittadinanza per nascita, ispirate allo ius soli. In particolare, veniva stabilito che la persona nata nel territorio italiano da genitori stranieri poteva ac-quistare la cittadinanza qualora almeno uno dei genitori risultasse residente legal-mente nel Paese da almeno due anni, ovvero almeno uno dei genitori fosse nato in Italia e vi risiedesse legalmente. Peraltro, non sembra che l’auspicio del Capo dello Stato possa favorire in tempi brevi l’emanazione di una normativa maggiormente equilibrata fra i due principi a fondamento della concessione della cittadinanza. Ciò in quanto l’attuale momento politico è fortemente caratterizzato dall’impegno delle forze parlamentari per il ri-sanamento del bilancio pubblico e la ripresa economica; inoltre, nella primavera del prossimo anno (2013) si dovranno tenere le elezioni per il rinnovo del Parlamento (vi è in discussione anche l’importante tematica della riforma della legge elettorale), per cui appare arduo ritenere che le Camere possano, in quest’ultimo scorcio di legi-slatura, procedere concordi alla discussione e approvazione di una nuova disciplina in materia.

LA CITTADINANZA NELLA UNIONE EUROPEA

Con il Trattato di Maastricht siglato dai Paesi aderenti alla Comunità europea nel 1992 fu istituita, fra l’altro, la cittadinanza dell’Unione, stabilendo il principio se-condo cui «è cittadino della Unione europea chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro». In base a tale disposizione è stato previsto un complesso di diritti spettanti ai cittadi-ni comunitari, che questi ultimi possono esercitare indifferentemente in qualunque Stato dell’Unione. Tali diritti possono così sintetizzarsi:

piena libertà di circolazione e di soggiorno in ciascuno Stato membro. Ciò com-porta che ogni cittadino comunitario ha il diritto di viaggiare, vivere, lavorare o studiare in ciascuno Stato membro della Unione senza bisogno di alcuna autoriz-zazione del governo del Paese ospitante e senza alcuna restrizione;

diritto di elettorato attivo e passivo con riferimento alle elezioni comunali nello Stato membro in cui il cittadino comunitario risiede, alla pari dei cittadini di quel-lo Stato, nonché nelle votazioni per le elezioni del Parlamento europeo. Questa

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disposizione, di grande rilievo, segna una chiara discontinuità – seppure limitata-mente alle consultazioni in sede locale – rispetto al collegamento, sin qui afferma-to, fra il principio di nazionalità-cittadinanza e il godimento dei diritti politici. In tal modo è tornato d’attualità il confronto giuridico in merito alla separazione del concetto di appartenenza nazionale da quello di partecipazione politica;

diritto di petizione al Parlamento europeo;

diritto di rivolgersi al mediatore europeo (ombudsman);

diritto di rivolgere istanze alle istituzioni europee in una delle lingue ufficiali della Unione e di ricevere risposta nella medesima lingua.

Inoltre, ciascun membro della Unione, in quanto cittadino comunitario, ha diritto alla tutela diplomatica e consolare nei Paesi extraeuropei, nei quali il suo Stato non è rappresentato, da parte delle autorità degli altri Stati membri. Con il Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 viene confermato e rafforzato il principio inerente la cittadinanza europea, esplicitando che quest’ultima non si pone “in alternativa” alla cittadinanza nazionale, ma si aggiunge a essa. L’art. 17 di que-sta fonte normativa, infatti, così recita: «È istituita una cittadinanza della Unione. È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell’Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale e non sostituisce quest’ultima». Con il Trattato di Lisbona entrato in vigore nel 2009, che ha riscritto molte norme relative all’architettura della Unione, sono state interamente recepite le disposizioni riguardanti la cittadinanza europea, senza apportare modifiche o integrazioni al testo originario.Un’ultima considerazione riguarda, ancora una volta, i diritti politici, con partico-lare riferimento al diritto di elettorato attivo e passivo. Come sopra evidenziato, il cittadino della Ue che risieda in un Paese straniero all’interno dell’area comunitaria ha accesso alle consultazioni comunali, ma non a quelle per l’elezione dei rappre-sentanti nelle altre istituzioni amministrative (in Italia la Provincia e la Regione), e tantomeno alle elezioni nazionali. Da più parti, tuttavia, si è manifestata l’opportu-nità di addivenire a una modifica della normativa comunitaria nel senso di prevedere l’estensione del diritto di elettorato attivo e passivo a tutte le elezioni, in sede sia locale sia nazionale. Inoltre, per quanto attiene agli stranieri extracomunitari, sappiamo che a essi sono attualmente preclusi i diritti politici nei Paesi della Ue, e ciò anche se la loro perma-nenza in tali Paesi si palesa legale, prolungata e continuata. In merito, il dibattito è discretamente vivace: una delle posizioni più permissive spinge affinché ai cittadini extracomunitari che rispondano a determinati requisiti possa consentirsi la parteci-pazione alle elezioni locali, escludendo invece la partecipazione alle elezioni nazio-nali, riservate ai cittadini comunitari.