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ISTITUTO DELLE SUORE MAESTRE DI S. DOROTEA DI VENEZIA VIA RAFFAELE CONFORTI, 25 00166 Roma • 06/6624041 E-MAIL: ardereperaccendere@pcn.net Anno XLI - Trimestrale - Poste Italiane Spa - Sped. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2 - DCB Roma ORIZZONTI ANTROPOS SOPHIA PRIMA PAGINA PRIMA PAGINA Il nuovo abita il tempo SOPHIA La bellezza che salva ANTROPOS Tempi di calamità e di gaudio ORIZZONTI Una società relazionale per lo sviluppo di tutti

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ISTITUTO DELLE SUORE MAESTRE DI S. DOROTEA DI VENEZIAVia Raffaele ConfoRti, 2500166 Roma • 06/6624041e-mail: [email protected]

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ORIZZONTIUna società relazionale per lo sviluppo di tutti

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PRIMA PAGINAIl nuovo abita il tempo .............................................................. 3

PAROLA E ARTELa Vergine del segno .................................................................. 4

ANTROPOSTempi di calamità e di gaudio .................................................. 7

SOPHIALa bellezza che salva ............................................................... 10

PATERIKONSincletica monaca .................................................................... 13

DOCUMENTILa Parola di Dio e la fede ........................................................ 16

KOINONIADon Luca Passi, lettere ............................................................ 19

SPAZIO DON LUCAL’amore parla di Dio ............................................................... 21

FACCE DI SUORE Anita, novizia a vita ............................................................... 24

ASTERISCOIl sogno di Papa Francesco ..................................................... 26

ORIZZONTIUna società relazionale fa bene allo sviluppo di tutti ............... 28

PASSI NELL’OPERARispondere al grido di aiuto ................................................... 32

DIA-LOGOSContro le mafie ...................................................................... 38

CRONACAI fatti di casa nostra ................................................................ 41

POSTULAZIONEIn dialogo con il Beato Luca Passi .......................................... 51

CI HANNO LASCIATO ............................................................ 55

INVITO ALLA LETTURA .......................................................... 59

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In copertina: Cattedrale di Reims, L’angelo che sorride

La Rivista viene inviata gratuitamente. Chi desidera contribuire alle spese può servirsi del c/c postale n. 82063009.

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Il nuovo abIta Il tempo

Suor Fernanda BarBiero

Q uesto primo numero di Ardere per Accendere si presenta come un grande mosaico. Ci sono tasselli diversi e complementari per comporre e leggere il mistero del tempo che “rotola” sino a noi, raggiungendoci dal cuore dei secoli

e ci dice, puntualmente, una cosa: è possibile re-iniziare, anzi, iniziare, ogni anno, ogni giorno, spendersi per migliorare la vita propria e degli altri: insieme. Questo inizio accade sempre. Si intreccia lungo le trame di un racconto a più voci semplice e ordinario, come semplice e feriale è la vita di tutti noi.Il primo contributo sviluppa il significato dell’icona di Maria in atteggiamento orante. È una delle più antiche rappresentazioni cristiane conosciute. Le braccia di Maria sono orientate verso il cielo, esprimono la domanda e l’attesa del Dono da parte di Dio e si trasformano in appello a riscoprirci, come Maria, grembo che genera alla fede, ritrovando il gusto della testimonianza cristiana, vale a dire la capacità di rendere visibile l’Altro che è in noi (N. Govekar)..Le pagine successive ci aiutano a decifrare, nel vivo della storia, l’arte di essere testimoni di speranza e non profeti di sventura; annunciatori della gioia del Vangelo, non narratori di passioni tristi. Testimoniare la gioia ha un impatto pastorale riconosciuto e fecondo (A. Toniolo). Rintracciare ciò che l’evento pasquale crea nel cuore e nell’esistenza di ogni credente, aiuta a stare dentro all’esperienza ecclesiale e riconoscervi il luogo di incontro con il Risorto (A. Arvalli). La tonalità del racconto si snoda semplice e chiara e muove suggestioni antiche. Fa sentire assai contemporanea la sapienza dei Padri e delle Madri della Chiesa destinata a maturare azioni corrispondenti; fatti concreti che hanno il sapore del Vangelo e ne esprimono la fecondità (Filocalica).Altre mani ridisegnano mappe celate per situarci dentro la freschezza carismatica delle origini (E. Trovò). Altre ancora aprono sentieri inesplorati, narrano esperienze dentro cui ritrovare gocce di vita vissuta (A. Vitari).La saggezza pasquale si rivela feconda a più livelli. Non ultimo nei percorsi ecclesiali attraenti della Evangelii gaudium in cui tutto è nuovo inizio, tutto sembra ricominciare (A. G. Bronzini). Alcune voci continuano il racconto su registri sociali e spalancano lo sguardo alle periferie dell’esistenza dove la fede cristiana si incarna nella voce dei popoli e delle nazioni del Sud del mondo (T. Bedin). Il volontariato dei laici scrive pagine di prossimità verso i più deboli, con l’impegno e il desiderio di giustizia per cambiare un Paese stremato, diseguale, prima che i cambiamenti dell’economia e della politica dello spreco, dentro le città e i territori, cambino noi e spengano i nostri desideri e la nostra voglia di fare insieme all’intera comunità che intende essere accogliente e inclusiva (A. Mazzarotto). Il cerchio si chiude nel dialogo con Libera (M. Niero - N. Chiarot) e con i racconti della Cronaca, I fatti di casa nostra, che sigilla il principio della realtà sempre superiore all’idea. L’attenzione va ai volti, ai fratelli incontrati, alle esperienze vissute. Un inizio che vogliamo avviare insieme a chi pensa di avere molte cose da migliorare, da imparare incontrando la realtà e gli altri. n

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Il glorioso concepimento si era impresso, come con un sigillo, nel tuo spirito, e anche dopo il parto era come se fosse (ancora) in te, poiché dalle tue membra si mostrava totalmente il suo splendore, e sulla tua bellezza era disteso il suo amore, e su di te, interamente, egli si era diffuso come un unguento. Tu hai tessuto un abito per lui ed egli ha dispiegato la sua gloria su tutti i tuoi sensi (Efrem, Inni sulla Natività, XXVIII, 7).

La poesia di sant’Efrem il Siro ci invita a contemplare questa

icona e a scoprire in essa una continuazione tematica delle immagini a noi più familiari dell’Annunciazione e della Natività. Su questa icona del XIII secolo la Vergine Maria assume la postura dell’Orante, conosciuta anche dall’arte pre-cristana. Questa postura è l’atteggiamento più adatto per esprimere la totale apertura e recettività necessaria per il dono dall’Alto, perciò diventa un modulo iconografico importante della Vergine-Madre, tanto che alle volte Maria-Orante può addirittura occupare da sola la conca absidale (come accade, ad esempio, nella cattedrale di Kiev). Da Maria-Orante si sviluppa quindi anche questo tipo di icona che in Russia viene chiamato Znamenie (“Segno”) in riferimento al versetto di Is 7,14 dove la concezione verginale costituisce un segno: Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele. La Vergine del Segno è “Segno

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della nostra salvezza”, perché in lei contempliamo il “Dio con noi”, l’Emmanuele, Dio che abita nell’umanità: Il Verbo di Dio pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre. Per questo Dio stesso ci ha dato come ‘segno’ della nostra salvezza colui che, nato dalla Vergine, è l’Emmanuele (Ireneo, Contro le eresie, 3, 20, 2-3). Per evidenziare la verginità di Maria “prima, durante e dopo il parto” ci sono le tre stelle, che adornano la sua fronte e le spalle. Ai lati della Vergine sono raffigurati due angeli che indicano la presenza del divino e inneggiano alla Tuttasanta. Romano il Melode mette sulla bocca della Theotokos questa esortazione alle creature terrestri e celesti: Rallegratevi con me, ora, terra e cielo, poiché tra le mie braccia io porto il vostro Creatore (Kontakion sulla Natività, II, 2).

La postura di Cristo, benché bambino, corrisponde a quella del Pantocratore che conosciamo dalle absidi medievali. La nostra icona è infatti un’immagine della compenetrazione dell’invisibile e del visibile, del divino e dell’umano: Se uno volesse cercare la tua natura invisibile, ecco, è nei cieli, nell’immenso grembo della divinità. E se uno volesse cercare il tuo corpo visibile, ecco, giace e fa capolino dal piccolo grembo di Maria (Efrem, Inni sulla Natività, XIII, 7). Questa compenetrazione del divino e dell’umano Maria la sperimenta in un modo unico, in quanto Madre di Dio: Tu sei in me e fuori di me, o tu che confondi la Madre tua, affinché possa contemplare la tua apparenza esterna, che giace davanti ai miei occhi. Invece la tua forma invisibile è stata impressa nel mio spirito. Nella tua forma visibile ho riconosciuto Adamo e in quella invisibile ho contemplato il Padre, che è unito a te (Efrem, Inni sulla Natività, XVI, 2- 3). È il Padre, infatti, il destinatario di questa preghiera che si innalza dall’icona. Le mani aperte e innalzate di Maria seguono esattamente la posizione delle braccia del Figlio, rendendo esplicito che l’atteggiamento orante della Madre è semplicemente un riflesso di Colui che porta nel grembo, il Figlio di Dio, l’Orante per eccellenza. La preghiera di Maria − come la nostra − è una partecipazione alla preghiera di Cristo e se uno prega veramente, lo si vede, perché i suoi modi pian piano diventeranno quelli di Cristo. Nella preghiera lo Spirito imprime anche in noi la forma invisibile del Figlio e in Lui ci unisce al Padre.

Questo tipo di immagini mariane è chiamato anche platytera, “più vasta dei cieli”. Il tuo grembo è più vasto dei cieli, poiché Colui che i cieli non poterono contenere, il tuo grembo lo ha contenuto canta un inno liturgico della Chiesa bizantina. Alla meraviglia per un Dio che per noi si fa così piccolo corrisponde lo stupore per questo grembo materno che riesce ad abbracciare l’Immenso. Mi fa stupire − scriveva sant’Efrem − che il

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se uno prega veramente, lo si vede, perché

i suoi modi diventeranno quelli di Cristo

Nella foto: La Vergine del Segno, detta anche l’Orante, 1224 ca., Galleria Tretjakov, Mosca.

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seno di Maria abbia potuto accoglierti, mio Signore. Sarebbe stata troppo piccola la creazione intera per nascondere la tua grandezza: troppo stretti, la terra e il cielo, per essere come braccia per nascondere la tua divinità. Troppo piccolo, per te, il seno della terra, ma grande per te, il seno di Maria (Efrem, Inni sulla Natività, XXIII, 11). L’utero dello Sheol concependolo si lacerò, e come poté sopportarlo l’utero di Maria? Le pietre sopra i sepolcri egli spezzo con il suo grido, e come poté sopportarlo il seno di Maria? (Efrem, Inni sulla Natività, IV, 190-191).

E di nuovo, dall’ammirazione per questo grembo “più vasto dei cieli”, si passa alla lode della condiscendenza divina: Se lei ti poteva portare, era perché il tuo grande monte aveva alleggerito il suo peso. Se ti poteva dare cibo, era perché tu avevi (assunto) la fame. Se poteva darti da bere, era perché avevi voluto aver sete. Se lei ti poteva abbracciare, era perché il carbone ardente d’amore custodiva il suo grembo (Efrem, Inni sulla Natività, XI, 5).

A partire da questo grembo, Dio ha voluto percorrere la via del paradosso (dall’immensamente grande al piccolissimo) per farsi prossimo a noi in un modo percepibile dai nostri sensi: L’utero di tua madre ha invertito gli ordini (delle cose): l’ordinatore dell’universo è entrato ricco ed è uscito povero, vi è entrato eccelso ed è uscito umile; vi è entrato splendido ed è uscito vestendo un colore miserabile. È entrato il prode e si è rivestito di timore all’interno dell’utero. È entrato colui che nutre l’universo e ha assunto la fame. È entrato colui che abbevera tutti e ha assunto la sete. Nudo e spoglio è uscito da lì colui che veste tutti (Efrem, Inni sulla Natività, XI, 7-8).

L’icona della Vergine del Segno è così innanzitutto un’icona della kenosi divina, icona di quella amorevole condiscendenza divina, di quell’adattamento di Dio alle nostre dimensioni che fa sì che la creatura possa contenere il Creatore, che l’umanità possa essere abitata e vissuta da Dio stesso.

La Vergine del Segno è anche un’icona della nostra divinizzazione. In una delle sue omelie mariane Nicola Cabasilas diceva che Dio aveva plasmato il genere umano in vista di sua Madre, e sull’icona della Vergine del Segno si rende visibile proprio questo. L’uomo è creato non solo in vista dell’incarnazione del Verbo – cioè non solo ad immagine di Cristo –, ma anche in vista della divinizzazione – in vista della Theotokos. Contemplando l’icona facciamo nostro lo stupore dei teologi-poeti, perché tutti noi siamo stati creati in modo da poter contenere Dio. n

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7andrea toniolo

tempI dI calamItà e gaudIo

profetI non dI sventura, ma dI speranza

“Questo vi chiedo: di essere pastori con ‘l’odore delle pecore’, pastori in mezzo al

proprio gregge, e pescatori di uomini”. Con queste parole Papa Francesco si è rivolto al clero di Roma durante la messa crismale del Giovedì Santo di quest’anno. Come molte frasi del Pontefice, essa è stata spesso riportata sotto forma di slogan o di battuta ad effetto, facendone perdere il profondo significato. Il Papa riesce ad arrivare a tutti in una forma semplice ma non semplicistica. E contro il semplicismo vorremmo ripercorrere l’intera omelia crismale notando il finissimo dualismo “olfattivo” che il pontefice istituisce tra l’olio profumato dell’unzione sacerdotale (il crisma appunto) e la puzza delle pecore. Una finezza di ragionamento che si sposa mirabilmente con la chiarezza del messaggio. Tuttavia, prima di addentrarci nell’analisi del discorso di Papa Bergoglio, vorremmo sottolineare come il tema del pastore si situi al centro del suo pensiero teologico soprattutto perché, come è noto, egli ha più volte rimarcato, e con forza, il suo essere “vescovo di Roma”. Questo ricordare il proprio ruolo episcopale non deve essere inteso, come spesso è stato fatto da tanta critica anche cattolica, come una rinuncia al proprio ruolo di pontefice universale. Egli si basa su un principio molto realistico (e molto gesuitico) per cui il particolare è regola dell’universale, la fedeltà nel poco basa la fedeltà nel molto. Se ognuno di noi è sorvegliante (letteralmente episkopos) del proprio fratello partendo dalla propria parrocchia e dalla propria diocesi, allora ciò

provocherà una catena universale di amore e di cura del prossimo che unirà tutto il mondo. Sarà una catena non annunciata nè declamata ma profondamente reale, i cui anelli di congiunzione saranno composti da tutti coloro che si curano del proprio vicino e dell’ambiente in cui vivono, a cominciare dal qui ed ora per arrivare al mondo e all’universale. Caino non risponde forse al Signore che lo interroga su Abele chiedendo a propria volta se fosse lui il “guardiano del proprio fratello”? Potremmo proficuamente tradurre “guardiano” con “vescovo” che significa propriamente “colui che pone il proprio sguardo sopra”. Quando si smette di essere “vescovi del proprio fratello” si apre la via della morte. Questa riflessione etimologica dovrebbe porre fine ad ogni sterile diatriba sulla presunta scarsa attenzione alla universalità del Papa in favore di una presunta particolarità dell’essere vescovo di Roma.

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Ma torniamo all’omelia e al dualismo odore-profumo. Il Papa inizia il proprio ragionamento dal Salmo 133: “È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste” . L’immagine dell’olio che si sparge, che scende dalla barba di Aronne fino all’orlo delle sue vesti sacre, è immagine dell’unzione sacerdotale che per mezzo dell’Unto giunge fino ai confini dell’universo rappresentato nelle vesti”. Con la parola “confini” torna uno dei temi più cari a Papa Francesco e cioè quello delle periferie: “L’olio prezioso che unge il capo di Aronne non si limita a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge ‘le periferie’. Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri,

per i malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio diventerebbe rancido … e il cuore amaro”.Ecco quindi la prima riflessione “olfattiva” che si basa sul profumo, uno dei simboli più forti che l’Antico Testamento utilizza per suggerire la presenza di Dio. E con il profumo arriva naturalmente il richiamo a non cadere nella mondanità spirituale (altro tema molto caro a Papa Bergoglio). Non farsi vanto del proprio profumo (e del colletto inamidato, verrebbe da aggiungere) e quindi non chiuderlo in una ampolla di autoreferenzialità; in essa l’olio perderebbe tutte le sue qualità attrattive. E su questo tema dell’unzione profumata, non rivolta a sé ma rivolta all’altro, prosegue il Papa: “Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo; questa è una prova chiara. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia. La nostra gente gradisce il Vangelo predicato con l’unzione, gradisce quando il Vangelo che predichiamo giunge alla sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite, ‘le periferie’ dove il popolo fedele è più esposto all’invasione di quanti vogliono saccheggiare la sua fede […] E quando (la gente) sente che il profumo dell’Unto, di Cristo, giunge attraverso di noi, è incoraggiata ad affidarci tutto quello che desidera arrivi al Signore: ‘preghi per me, padre, perché ho questo problema’, ‘mi benedica, padre’, ‘preghi per me’, sono il segno che l’unzione è arrivata all’orlo del mantello, perché viene trasformata in supplica, supplica del Popolo di Dio”. Il profumo che rimane chiuso nelle

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sagrestie o peggio ancora nei propri spazi di autocompiacimento, è un dono sprecato.“Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco - non dico ‘niente’ perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione - si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore ‘hanno già la loro paga’ e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con ‘l’odore delle pecore’ - questo io vi chiedo: siate pastori con ‘l’odore delle pecore’, che si senta quello, e pescatori di uomini”. Il profumo diventi quindi puzza, o meglio, il profumo trasfiguri la puzza e risollevi lo sguardo al cielo. Ecco un altro grande paradosso della fede e della missione cristiana. Chi è nel profumo non stia chiuso in sé ma porti il suo carisma negli altri, per gli altri. Non viva in una pasticceria (per usare un’altra immagine del Papa). Usi il suo dono per la condivisione. Nelle parole del Papa: “La nostra gente ci senta discepoli del Signore, senta che siamo rivestiti dei loro nomi, che non cerchiamo

altra identità; e possa ricevere attraverso le nostre parole e opere quest’olio di gioia che ci è venuto a portare Gesù, l’Unto”.Papa Francesco conclude la propria omelia riferendosi all’Unto per eccellenza che si è calato nell’odore delle proprie pecore. Questo finale non ci sembri scontato. Egli ci suggerisce che il vero senso dell’olio (del profumo tra l’odore) è il sacrificio; perché in Cristo l’olio dell’unzione si è trasformato in sangue che cola dalla croce. Per chiarire questo concetto non può esserci forma migliore che l’arte figurativa. I pittori hanno espresso la consustanzialità dell’olio e del sangue rappresentando la Maddalena affranta che fissa i piedi trafitti del Signore. Ella fissa quei piedi sanguinanti che erano stati lavati e unti, realizzando, con tutta la forza che solo la vita può suggerire, come tra il privilegio dell’unzione e la morte per gli altri vi sia assoluta coincidenza. n

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10andrea arvalli

la bellezza che salva

una traccIa dI contemplazIone pasquale

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Nella celebrazione della Settimana Santa suscita sempre profonda emozione l’ouverture gioiosa e

tripudiante dell’ingresso glorioso di Gesù in Gerusalemme. Com’è forte il contrasto che la liturgia della domenica delle Palme presenta fra il suo avvio gioioso e l’austera lettura del Passio!

La processione delle palme, con i canti, e l’incenso spalanca il cuore allo slancio, alla gioia, ed alla speranza, lasciando di per sé presagire un esito tutt’altro da quello tragico che viene poi letto nella seconda parte della liturgia. Ogni anno le giornate drammatiche dell’incomprensione, del rifiuto e del fallimento di Gesù si aprono con la gioia dei fanciulli di Gerusalemme che cantano e danzano al suo ingresso nella città santa. Non vi è forse in questo contrasto tanto stridente qualcosa su cui meditare? Durante la sua vita pubblica Gesù non conobbe momenti di gloria e consolazione

paragonabili a quel fugace mattino, ma insieme ci domandiamo che razza di gioia fu mai quella subito smentita dalla passione? Non fu un’illusione quella gioia così effimera? Perché mai allora gli evangelisti sentirono il bisogno di narrarla? Davvero c’era necessità di farlo, non sarebbe stato meglio passarla sotto silenzio?

Il Padre Rossi De Gasperis, tentando di rispondere a queste domande invita a considerare come spesso nelle Sacre

Scritture le cose belle create da Dio sembrano durare poco. La gioia dell’Eden dura per Adamo ed Eva lo spazio d’un soffio, non solo, ma nelle pagine successive vedremo il sangue

d’un cruento fratricidio, ed un’alluvione che pare segnare la fine della vita sulla terra. Anche nella storia d’Israele lo schema si ripete: il regno di Davide non resta unito nemmeno ottant’anni, e quel che ne resta tramonta dopo quattro secoli con l’esilio

babilonese.

Anche a Gesù le cose belle non sembrano riuscire: dei dodici discepoli uno tradisce, gli altri lo rinnegano, e il suo unico momento di gloria, l’ingresso trionfale a Gerusalemme, è il preludio della passione.

Anche nella nostra vita le cose belle durano poco. Non alludo solo alla bellezza fisica, non si tratta solo di questo,

Un cuore gioioso è il normale risultato

di un cuore che arde d’amore

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certo la freschezza delle gote luminose, di un sorriso giovanile, o i capelli neri, sono doni che passano presto. Tuttavia anche altre dimensioni della vita sono toccate da questa logica. Quanta gioia e quanta speranza v’è in tutti noi quando otteniamo un diploma, una laurea, o nel giorno del nostro matrimonio, della vestizione, della professione religiosa, o delle sacre ordinazioni! Ma cosa rimane poi di quella gioia di lì a pochi anni? Che ogni gioia debba essere provata dalla vita, è una verità che tutti pensiamo di sapere, eppure quando accade a noi di doverlo sperimentare ci troviamo sempre impreparati, e ci assale lo scetticismo.

Chi non conosce lo scoraggiamento, la delusione, la perdita d’entusiasmo dopo le prime difficoltà? Da lì poi può iniziare una pericolosa deriva verso il cinismo, il pessimismo, la rassegnazione, il lamento amaro, l’abbandono degli ideali. Avremmo dovuto sapere che le cose belle devono essere provate con il fuoco, ma ci siamo invece lasciati abbattere. Il crollo delle speranze umane avrebbe potuto e dovuto diventare il punto di partenza di una nuova speranza, invece ci siamo lasciati invadere dal dispetto, dal risentimento e dall’amarezza.

Celebrare il mistero pasquale, vivere un’esistenza pasquale significa saper sostituire alle morte speranze umane la speranza risorta in Cristo. Nella luce pasquale comprendiamo che Dio non realizza i nostri sogni, ma le sue promesse. Il mistero pasquale ci parla di un Dio che realizza le sue promesse passando per le

strade più difficili della storia, e bagnandole con il suo pianto. Gesù nell’atto di entrare a Gerusalemme, si ferma e piange (Luca 19,41-44) non già maledicendo Gerusalemme, ma amaramente constatando la chiusura di cuore del suo popolo. Tuttavia proprio attraverso queste lacrime apre la via ad un orizzonte di salvezza definitivo.

È attraverso queste misteriose strettoie che il Padre realizza le profezie di

salvezza. Sentendo il bisogno di ricordare l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme è come se i quattro evangelisti avessero voluto dirci: “Fate attenzione, sì quella gioia dell’ingresso

di Gesù a Gerusalemme fu presto smentita da una grande sofferenza. Eppure, alla luce della Pasqua, dobbiamo dire che quella gioia non fu vana, né fuori posto. La Pasqua ci insegna che chi a Gerusalemme aveva accolto Gesù, aveva effettivamente accolto il Re Messia annunciato dai profeti! Nulla è andato perduto di quella giornata!”. L’ingresso a Gerusalemme rimane così profezia evangelica dell’accoglienza escatologica che l’Israele definitivo riserva a Gesù Messia e Signore. Il senso di quel trionfo modesto non era perduto, quella bellezza apparentemente sprecata non era stata inutile.

La grazia speciale del tempo di Quaresima e di Pasqua ci aiuta a far passare qualcosa di tutto questo nella nostra vita. Anche noi abbiamo l’impressione che tante cose belle della nostra vita siano andate sprecate per sempre: le promesse infrante, i sogni

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Occorre un colpo d’ ala contro il pessimismo,

soprattutto fra i credenti

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mancati, i progetti falliti, sono per noi come altrettante ricchezze perdute, pezzi smarriti della nostra vita. Tuttavia le cose belle donate da Dio non sono mai perdute.

La conversione evangelica sta nella capacità di trovare motivi di speranza anche nel crollo delle nostre speranze. Come tutti anche noi credenti facciamo l’esperienza di ammalarci, fallire, commettere peccati, ma la chiamata ricevuta non sta nell’essere esentati dall’esperienza della fragilità, ma nel “dare ragione della speranza che è in noi” (1Pt.3,15-16) anche nelle prove. Le promesse di Dio si realizzano anche attraverso i nostri fallimenti, per

itinerari misteriosi ed imponderabili. Rileggere i fatti della passione alla luce della risurrezione ha

portato gli apostoli a scoprire la passione come il cammino verso una speranza che pareva morta, e che invece era viva. Quando qualcosa inizia ad andare storto, proprio allora il Signore inizia ad agire. Eravamo partiti carichi di convinzioni e di entusiasmo, avevamo un progetto bello, tanto a lungo accarezzato, tutto pareva procedere al meglio. Poi d’improvviso, dopo una breve luna di miele, ecco nascere le difficoltà che presto divengono insormontabili.

La vera sfida consiste allora nell’imparare a credere in Lui. La speranza risorge quando iniziamo a credere che comunque Egli realizzerà i suoi progetti migliori, anche attraverso i nostri sogni infranti. La Pasqua ci parla di una vita che abbraccia anche la Morte. Le cose belle come le faremmo noi non durano che un istante, ma Dio sa come fare bene tutte le cose. La bellezza che salva non esita a passare attraverso le impervie strade degli uomini, profezia che ha già iniziato a realizzarsi nella storia, pur segnata dalla lotta e dal pianto. n

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Cantoria della Robbia, OPA Firenze

la bellezza è l’espressione visibile

del bene,

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Le persone grandi sono

innanzitutto umili

Accanto ai Padri della Chiesa sono esistite alcune Madri della Chiesa, la più celebre delle quali è Santa Sincletica, detta la madre del deserto. Nata in una famiglia della nobiltà alessandrina, ma di origine macedone, Sincletica alla morte dei genitori rinunciò alla ricca eredità, preferendo ritirarsi in una caverna per condurre una vita appartata e di preghiera. La fama delle sue virtù e della sua santità richiamò molte persone, alle quali la donna rivolse quegli insegnamenti che costituiscono il nucleo più cospicuo della sua biografia. La Vita di Sincletica, madre del deserto, è stata a lungo attribuita ad Atanasio, l’autore della Vita di Antonio (ca. 355), (PG 28,1487-1558), con la quale presenta ampi parallelismi; ora non più, e si ritiene che sia un testo di origine egiziana da datarsi al V secolo.

È un racconto dallo stile «faticoso, ridondante, ripetitivo, ma…, a differenza delle successive produzioni dell’agiografia orientale, lascia poco spazio al meraviglioso» così la descrive Lisa Cremaschi monaca della comunità di Bose in Donne di comunione. Vite di monache d’oriente e d’occidente, Edizioni Qiqajon 2013, pp. 79-146, che apre il sipario sulle sue colleghe dei primi secoli, vere e proprie matriarche o madri della Chiesa da accostare a patriarchi e padri della cristianità. Sincletica, celebrata negli Acta sanctorum come la perla ignorata da molti, è una donna patrizia di Alessandria d’Egitto, ritiratasi a vita contemplativa in uno dei tanti edifici funerari egizi orientati verso il Nilo. Potente nel suo ritratto biografico abbozzato

da un altro grande della cristianità alessandrina, sant’Atanasio, che guarda la rappresentazione del suo crepuscolo nel disfacimento fisico: divenuta un agnello sacrificale afono come il Servo messianico cantato dal profeta Isaia (53,7), fissa lo sguardo sull’Invisibile perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne (cf G. Ravasi in Il Sole 24 Ore del 4 agosto 2013).

Sincletica è tra le donne che, come i numerosi cristiani del IV secolo, si spinsero nel deserto egiziano in cerca di una vita radicalmente evangelica. Si inoltrò nel deserto assieme alla sorella

non vedente, per vivere ancor più nel nascondimento. La sua fama crebbe tuttavia a tal punto che si radunarono attorno a lei molte giovani desiderose di essere

guidate nella lotta spirituale e nell’ascesi monastica. Sincletica, dopo un’iniziale contrarietà, diede vita assieme a loro a una forma di vita quasi cenobitica, nella quale il riferimento centrale era l’obbedienza, che essa riteneva via più sicura per acquisire la povertà del cuore rispetto alla purificazione consentita dalla mera ascesi anacoretica.

Sulle tracce di Gesù, mite e umile di cuore, Sincletica visse e condusse molte discepole alla gioia profonda che è accessibile nella vita cristiana a chi accetta di vivere un cammino di abbassamento per amore. Sincletica morì dopo una lunga e tragica malattia, che ne sfigurò il viso e che la rese muta e cieca,

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senza peraltro impedirle di rimanere con la propria vita, sino alla fine dei suoi giorni, testimone eloquente della buona notizia del Vangelo.

I suoi preziosi insegnamenti sono raccontati nella Vita. La parte centrale del libro riguarda il pensiero di Sincletica sui “pensieri malvagi”, una riflessione di estrema attualità, capace di una fine e moderna analisi psicologica sui meccanismi del male che ciascuno sperimenta dentro di sé. Sincletica è una prova che esiste un monachesimo femminile anche se molto inferiore rispetto a quello maschile, sia perché le monache sono vissute in maggiore isolamento religioso, sia perché gli archivi dei loro monasteri, trovandosi in zone di clausura, sono rimasti inaccessibili agli studiosi. Gli studi più recenti rilevano che le fonti letterarie occidentali segnalano l’esistenza

di comunità femminili anteriormente a quella di comunità maschili. Come Sincletica altre donne. Ambrogio di Milano, nel 376, descrive la vita di un gruppo di donne bolognesi votate alla verginità e impegnate a diffondere il loro ideale fra altre donne. Nel 384 la lettera di due preti cita un’altra comunità femminile stanziata nella Tebaide egiziana. Nello stesso anno, a Roma, Girolamo descrive la comunità di Lea, ottima madre spirituale usando il termine monastero. È con queste notizie, tutte riferite a donne, che il monachesimo cristiano entra nella letteratura latina.

Apoftegmi di Sincletica

Come un tesoro scoperto va perduto, così qualsiasi dono sbandierato da chi se ne vanta, svanisce.

Come è impossibile costruire una nave senza chiodi, così è impossibile raggiungere la salvezza senza l’umiltà.

L’umiltà viene esercitata in mezzo alle violenze, tra le piaghe; affinché ascoltino lo stolto e l’insipiente, il povero e il misero, il malato e l’invalido, lo sbadato nell’agire, chi fa proposte irragionevoli, chi ha un aspetto disprezzabile, il debole di forza. Questi sono i nervi dell’umiltà.

Principio e fine delle virtù è che tu sia povero. Dice infatti il Signore: «Imparate da me

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Come la cera si scioglieaccanto al fuoco,

così l’anima si svuotase cerca le lodi

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che sono mite e umile di cuore». Presta attenzione a chi parla così, diventa suo perfetto discepolo. Dice povero il modo di pensare, non solo l’apparenza, accenna velatamente all’intimo dell’uomo: infatti, anche l’esterno si conforma ad esso.

Sincletica disse: «Grande è il travaglio e lo sforzo per coloro che inizialmente si accostano a Dio. Infatti, come coloro che desiderano accendere un fuoco, agli inizi si affumicano e lacrimano e in questo modo riescono nell’intento, così è necessario che anche noi, poiché si dice che il nostro Dio è un fuoco che consuma, accendiamo il fuoco divino piangendo e faticando».

Disse ancora: «È bene non adirarsi. Se ciò accade, chi ha detto: “non tramonti il sole sulla vostra ira”, per questa passione non ti ha concesso neppure un giorno di tempo. E tu aspetti che passi tutta la tua esistenza? Perché odiare chi ti ha procurato noia? Il torto non è suo, ma del diavolo. Prenditela col male, non col malato!».

Disse inoltre: «Quando stiamo nel cenobio è preferibile l’ubbidienza all’ascesi: una infatti insegna l’orgoglio, l’altra l’umiltà».

Disse ancora: «Occorre che noi guidiamo l’anima con discernimento. Stando nel cenobio, non dobbiamo fare i nostri interessi, né seguire la nostra opinione, ma dare retta a chi ci è padre per fede»

Disse inoltre: «Se sei in un cenobio, non mutar di luogo perché ti causerebbe un grande danno: come un uccello, che lascia le uova, le rende infeconde, così pure il monaco o la vergine che vanno in giro, si raffreddano e si spengono alla fede».

Disse ancora:«Imita il pubblicano, affinché tu non sia condannato insieme al fariseo. Scegli la mansuetudine di Mosè, perché il tuo cuore, che è duro come pietra, si trasformi in una fonte d›acqua»

PREGHIERA

Saggiamente hai guidato la vita comune consigliando alle tue compagne di dimorare stabilmente in un luogo. Con le tue parole e il tuo esempio, non hai temuto di rendere alle monache questo servizio nella verità. Per la sua preghiera, Dio nostro, abbi pietà di noi e salvaci. n

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la parola dI dIo e la fede

omelIe del beato luca passI

I temi della fede e della Parola di Dio, nella scaletta degli appunti di predicazione che don Luca ci ha lasciato, occupano un riferimento rilevante, a significare l’importanza che egli attribuiva alla riflessione e proposta di questi argomenti per favorire il processo di conversione e cambiamento di vita nei suoi uditori. La predica sulla “Necessità di ascoltare la Parola di Dio” porta il numero uno nello schema di predicazione, tenuta nella Chiesa dei Carmini a Venezia nel 1861 e l’altra sulla “Necessità della fede per ascoltare con frutto la Parola di Dio”, il numero diciotto, anche se non porta la data e, però, egli annuncia che la prima predica sarà seguita dalla seconda. Le due proposte, quindi, sono a integrazione l’una dell’altra. Ambedue sono supportate da un riferimento alla parola di Dio, soprattutto dell’Antico Testamento, ma non solo, e ricalcano il compito che i profeti Geremia ed Ezechiele in particolare, hanno svolto rispetto al popolo d’Israele, accogliendo l’ordine da Dio di annunciare la Parola e invitando il popolo ad accoglierla con cuore aperto e disponibile. Non mancano inoltre riferimenti e richiami ricavati dalle lettere di Paolo.

Necessità di annunciare la ParolaNella prima predica, riflettendo sulla cultura a indirizzo illuministico del suo tempo, don Luca nota come il conflitto tra ragione e fede metta la prima in opposizione alla seconda, giacché, egli afferma: “viviamo in un’età oltremodo gonfia di sé medesima e che crede di innalzare sé stessa col detrarre le età passate” (Predica, 1, p.5). A fronte dell’indifferenza religiosa, trionfa la

ricerca di evasione, l’ostentazione della ricchezza, la fame di potere: “dappertutto […] un lusso che non riconosce misura, divenuto costume […]. Che dirò poi della sete dell’oro divenuta oggi si può dire la passione dominante. Tutti vorrebbero ingrandire, innalzarsi. Da questo deriva poi tanta malafede nel commercio, tante frodi nelle arti, tante usure nei prestiti; a dir tutto in breve, di tutto si fa mercato persino della coscienza” (idem, p.6). Tuttavia, aggiunge, la religione che si condanna e si rifiuta non si conosce o è ridotta a puri atti di culto. Il vangelo non si osserva e non si vive, perché non è conosciuto. Ed ecco il compito del missionario che è quello di annunciare e di far conoscere. Don Luca ricorda come Dio ordinò al profeta Ezechiele di annunciare senza timore la Parola: “E da ciò si saprà che c’è un profeta che parla in nome di Dio” (Ez 2, 3 ss.), perché è fondamentale l’ascolto di Dio, ma per ascoltare ci vuole chi annunci, e se “riguardandoti come uno di loro si ridessero di tue minacce, gli dirai che vieni in nome mio e che loro la mia parola annunci”. Anche a Geremia, citano sempre gli appunti, allorché venne mandato in qualità di profeta ai figli d’Israele, Dio disse: “Ecco che io ti ho posto sulle labbra le mie parole e ti ho costituito sovra le nazioni ed i regni, affine ad estirpare e distruggere, disperdere e dissipare, e finalmente perché tu abbia ad edificare e piantare (Ger 1, 9 ss.)”. Don Luca, perciò, forte di questi riferimenti, presentandosi ai suoi ascoltatori, ritiene importante chiarire che non è mosso da iniziativa personale, ma si presenta quale inviato, in forza del dovere che incombe al profeta di

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trasmettere non parole sue, bensì parole che egli stesso ha ascoltato e accolto. Il compito missionario si alimenta con la personale familiarità con la parola biblica, masticata nella preghiera, nella riflessione, nella contemplazione personale, possibile mediante il dono dell’intelletto che sostiene sia colui che annuncia come colui che ascolta, dacché, per comprendere quanto si ascolta è necessaria una luce, cioè il “lume dell’intelletto, riconosciuto dallo stesso profeta Davide: Benedicam Dominum qui tribuit mihi intellectum” (Sl 16,7). Dio comunica questo dono agli uomini, sostiene sempre don Luca, con la “predicazione esterna che fa risuonare alle orecchie la verità e con le illustrazioni interne che fanno sentire al cuore la verità” (Predica, 1, p.11).Le due vie comunque procedono sempre insieme: “Se tace il suono della parola al di fuori, tace anche il suono della divina grazia al di dentro” (idem). La parola divina fa da veicolo a tutte le grazie interne che Dio vuole diffondere su di noi: “Sembra veramente che Dio nel fondare la sua chiesa abbia legate tutte le sue grazie, tutta la forza dei Sacramenti e la salute intera del mondo alla sua Parola” (idem). È la Parola divina che ci rigenera nel Battesimo, che ci assolve nella Penitenza, che ci prepara un cibo divino sui nostri altari. È sempre dalla Parola che è scaturita e si è diffusa la religione, poiché “piacque a Dio donare la salvezza ai credenti, mediante la stoltezza della predicazione: placuit Deo per stultitiam praedicationis salvos facere credentes” (1Cor 1, 21). Da ciò l’importanza di ascoltare la divina parola e di annunciarla. Non ci sono scuse che giustifichino né

gli annunciatori né gli ascoltatori. “Si deve annunciare per istruire, per scuotere le coscienze, per confermare, perché lo Spirito santo diffonda nei cuori la sua grazia; e chi è ignorante ha la morale necessità di ricevere le istruzioni, di accogliere gli ammonimenti, preparando così la via alla grazia ” (idem).

La parola di Dio e la fedeLa condizione fondamentale dell’efficacia dell’ascolto, afferma sempre don Luca è la fede, pena il rischio di rendere vana la predicazione, anche se al profeta Isaia Dio confida: “ La mia parola non tornerà a me vuota: Verbum meum non recedetur ad me vacuum” (Is 55, 11). Tuttavia, come ricorda Paolo, “la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo: fides ex auditu et auditus autem per verbum Christi” (Rom 10,17), istituendo una specie di movimento circolare fra fede e parola, fra annuncio e ascolto-accoglienza di esso. Don Luca lo propone con forza: “Negli eterni decreti è fisso che la religione si stabilisca e si propaghi per mezzo della parola” la quale a sua volta alimenta la fede. Per questo Paolo ai Tessalonicesi dichiara: “Per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti; gratias agimus Deo sine intermissione, quoniam cum accepissetis a nobis verbum accepistis illud non ut verbum hominum sed, sicut est vere, verbum Dei quod et operatur in vobis (1Tes 2, 13)”. Come dichiarò Gesù nel vangelo: “Chi ascolta voi ascolta me” (Lc 10, 16), anche se “la divina

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parola è efficace in proporzione delle disposizioni dei soggetti su cui agisce, cioè opera conforme il modo con cui viene ricevuta; […] e se ricevuta come Parola di Dio ad essa egli comunica di possanza e diviene vento impetuoso che abbatte, o fuoco divoratore alla cui attività niente resiste” (Predica, 18, p.4). Ma, egli aggiunge, servono delle disposizioni o delle condizioni “perché la parola di vita fruttifichi” (idem), e sono umiltà d’intelletto e docilità di cuore: umiltà per sottomettere l’intelletto alle massime del Vangelo; docilità per piegare il cuore secondo le massime del Vangelo. Le due condizioni, afferma sempre don Luca, è difficile si possano ottenere con la sola parola umana, soprattutto quando essa contraddice la ragione, cioè richiede di fare del bene in contraccambio a chi ci fa del male, o di porgere l’altra guancia a chi ci percuote, o offrire pure la tonaca a chi chiede il mantello, ad amare la povertà e non la ricchezza, così come tutto il messaggio delle beatitudini. E se questo è difficile da accettare sul piano della conoscenza e della dottrina, ancora più difficile è far aderire a questa parola il cuore e assumerla e sperimentarla nella vita ordinaria quotidiana. Se consideriamo le scuole dei filosofi, soprattutto le scuole sorte nell’antica Grecia, costatiamo che in esse, così dichiara don Luca, non è fiorita molta virtù, mentre alla predicazione di Giona “cangiar costumi una città dissoluta” (Gio 3, 1 ss.); “ai parlari di un Esdra licenziarsi le spose straniere egualmente dal popolo che dai principi di Israele” (Esd 9 ss.), ed “alla voce di pochi rozzi pescatori riformarsi il mondo intero” (Predica, 18, p. 6). Mentre i filosofi parlavano con parole d’uomo in nome dell’uomo, i secondi parlavano come inviati di Dio e, trovando docile il cuore, consentirono che “la verità poté passare dall’intelletto al cuore” e rinnovare il comportamento. Inoltre chi annuncia la parola di Dio genera la fede in chi ascolta se parla con sincerità. Basta riferirsi alla franchezza con cui Natan parlò a Davide (2 Sam 12, 1 ss.); Michea parlò ad Accab (Mi, 3 ss.); il Battista ad Erode (Mt 14, 1 ss.), Stefano ai suoi uccisori (Atti, 7 ss.).

Ancora: la parola di Dio è semplice e si comunica ai semplici perché cade in un terreno su cui frequenti scendono le divine rugiade e, perché benedetto da Dio, produce erbe utili a quanti lo coltivano, ma se infestato da spine e rovi, non vale nulla e finirà bruciato (cfr Eb 6, 7). Del resto, il primo miracolo dopo la discesa dello Spirito Santo fu il dono delle lingue perché tutti intendessero la parola, dando conferma di quanto Paolo già ha ricordato, cioè che “Dio volle donare la salvezza ai credenti mediante la stoltezza della predicazione” (1Cor 1, 21).

ConclusioneL’Esortazione Apostolica postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI, raccogliendo i contributi della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi del 2008, offre un’ampia riflessione sulla Parola di Dio e la missione della Chiesa e ricorda come tutta la vita della chiesa, la liturgia, la catechesi, la teologia attingano alla Bibbia, rendendola parola viva e attuale.Leggendo gli appunti delle prediche che ho tentato di presentare, colpisce come tutto il pensiero di don Luca sia intessuto di riferimenti a testi biblici, ne proponga letteralmente continui richiami e come, fatto salvo lo stile certamente non più attuale, tutta la trama del suo parlare rimandi a una familiarità ampia e profonda con il testo rivelato, assunto certamente, non si può essere smentiti, non solo attraverso lo studio e la dottrina, ma attraverso lunghe meditazioni e intenso tempo di preghiera. Così esse fanno emergere, in modo sempre più definito, anche il profilo spirituale e la statura sacerdotale di questo beato, a conferma del giudizio dei contemporanei sul fascino della sua predicazione, ma ci offrono insieme la chiave segreta per comprenderne l’efficacia e dar ragione della vastità della sua azione e dell’incidenza della sua opera, quale monito per noi, oggi, di alimentare la nostra spiritualità con il contatto vivo, prolungato e orante con la Parola di Dio, fonte e nutrimento della fede della Chiesa. n

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L’Istituto delle Suore Maestre di S. Dorotea ha voluto perpetuare il ricordo della beatificazione del

suo Fondatore, il Servo di Dio Don Luca Passi, anche raccogliendone le Lettere in una elegante e ben curata edizione, stampata dalla Tipografia Vaticana. Il volume, desiderato da tempo dalle dorotee, e da esse accolto festosamente come prezioso dono del loro Padre, è documento importante per conoscere meglio non solo la vastità e l’intensità dell’azione apostolica svolta da Don Luca, ma soprattutto lo zelo che lo animava per la gloria di Dio e il bene del prossimo, e così far tesoro dei suoi illuminati insegnamenti. L’epistolario mette pertanto in animo il desiderio di riscoprire i tratti quotidiani della sua santità, della sua appassionata testimonianza del Vangelo, e “aiuta ad alimentare quel fuoco di carità che egli desiderava vedere sempre acceso nelle nostre case” (dalla Presentazione della Superiora generale, Madre Teresa Simionato).

Sono per lo più lettere di organizzazione pratica, in quanto relative agli impegni di predicazione e organizzazione della Pia Opera di Santa Dorotea, che Don Luca desiderava venisse “sparsa in tutto il mondo, vedendo il gran bene che si ottiene da per tutto”; trattative e sostegno per la fondazione dell’Istituto religioso, specie nella città di Brescia, che affidò alla direzione della maestra Marina Marini. A lei, divenuta in seguito superiora provinciale e poi generale sono, infatti, indirizzate la quasi totalità delle

lettere. Molte altre, di specifica direzione spirituale e ritenute le più belle, che Don Luca scrisse alla stessa superiora e ad altre religiose, purtroppo sono andate perdute: consegnate a Don Angelo Teanini, prevosto di Almenno S. Salvatore (Bergamo), non si sono più trovate: morì inaspettatamente prima di comporre la biografia che gli era stata commissionata.

Tuttavia, la raccolta che viene presentata (452 lettere, che vanno dal 1819 al 1866), benché incompleta, rivela un cuore grande, aperto a Dio e ai fratelli; dà un’ampia visione di quella meravigliosa

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corrente di carità spirituale che circolava tra Don Luca e tante persone significative del suo tempo: fondatrici e fondatori, molti dei quali da tempo elevati agli onori degli altari come: Maddalena di Canossa, Bartolomea Capitanio, Crocifissa di Rosa, Teresa E. Verzeri, Paola Frassinetti e Annunciata Cocchetti – Antonio Gianelli, Lodovico Pavoni, Antonio Rosmini, Luigi Palazzolo, Giovanni Antonio Farina e il Papa Pio IX, cui si aggiungono tanti altri, dalla Chiesa già riconosciuti venerabili.

Veramente una lunga catena di santa amicizia, alla quale era strettamente unito anche l’amatissimo fratello Don Marco.Indirettamente poi è documentata, anche attraverso le numerose note poste in calce

alle lettere, la stima e benevolenza che il Passi riscuoteva non solo da autorità religiose e civili, ma da un numeroso coro di popolo, semplice e devoto, che affollava le chiese durante la sua “robusta” predicazione di “missionario apostolico”. La sua fede-speranza e carità, la sua affabilità, la sua edificante testimonianza, l’ardente desiderio che lo consumava, perché piccoli e grandi si avvicinassero a Dio, lo facevano credere “uomo tutto di Dio”, ed era quindi naturale che, ovunque passava, germogliassero frutti di bene. Possano tali frutti maturare ancora oggi, aiutando in particolare le suore e i cooperatori dell’Opera di S. Dorotea a tenere vivo il suo spirito e ad imitarne la santità. n

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Venezia Casa Madre, ingresso Cappella dove riposa don Luca

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don Luca trova nel mistero della Pasqua il segreto e la grazia di dare la vita per il fratello, di

generarlo alla vita in Cristo. È la realtà più straordinaria che il Signore Gesù ci ha lasciato:“un mistero di bontà”, “un mistero di amore che non si può capire”. Il Fondatore, in modo assai diretto considera il mistero pasquale presente nel Sacramento dell’amore: sacramento che racconta la salvezza offerta dalla passione e morte e resurrezione del Signore. L’amore -dunque- è la via pasquale alla salvezza. E la salvezza si compie nell’amore.

Un’esistenza al ritmo della PasquaNella vita spirituale di don Luca l’eucaristia occupa un posto privilegiato fin dai tempi della formazione al sacerdozio, sia nell’adorazione, sia nella celebrazione della S. Messa. La sua lunga esistenza sacerdotale, conferma questa impostazione eucaristica - pasquale. Non sorprende perciò che agli occhi di chi lo conosceva egli desse prova di essere uomo di Dio, tutto preso da pensieri e progetti di bene per la gloria di Dio. La cognata Elisabetta Zineroni nei suoi Appunti lo descrive così: “Sentiva la religione, anzi non viveva che per questa in un modo straordinario. Il bene della Chiesa, la sua prosperità erano i suoi pensieri, le sue gioie; afflizioni i suoi combattimenti. Quando celebrava la S. Messa o era esposto il SS. Sacramento sembrava alle volte che andasse in estasi. Quando non aveva da predicare, si può dire che fosse sempre in orazione”. Giustamente, la contessa rimarca il grande amore di Don Luca per la Chiesa, per l’Eucarestia e la vita di orazione che curava con esemplare assiduità.

La logica dell’amore che dona se stessoUno degli aspetti singolari dell’esperienza pasquale secondo don Luca è quello del fare la comunione: fare comunione col Signore Gesù. Lo dicono le molte lettere indirizzate alle suore. Fare comunione col Signore Gesù significa davvero immergersi nell’intero mistero pasquale, significa morire col Signore Gesù, perché ci cibiamo del suo corpo spezzato e del suo sangue versato, ma significa anche attraversare il mistero della morte nella luce pasquale che, con la forza dello Spirito Santo, rinnova quel corpo e quel sangue chiamandolo alla pienezza della risurrezione. Fare la comunione, espressione ricorrente, quasi a indicare che cibandoci dell’eucarestia siamo inevitabilmente raggiunti dalla stessa logica di amore con cui il Signore Gesù ha dato se stesso, morendo per noi e risorgendo a vita nuova. Allora fare la comunione è dinamicamente venire coinvolti, con tutto il nostro essere, nell’intera vicenda pasquale del Signore Gesù. Un’attitudine tanto preziosa e feconda per don Luca che si era fatto apostolo della comunione frequente. Egli diffondeva “pensieri sulla Comunione frequente” (cf. lett. 33); consegnava o spediva libretti per rendere le sue figlie spirituali “tutte amanti ardenti di Gesù Sacramentato” (lett. 269). “Parlava spesso dell’adorabile mistero della SS. Eucaristia […] e concludeva: È un mistero di bontà, un amore che non si può capire!”.

Il fuoco dell’amore che accende e infiammaCome responsabile nella Confraternita del SS. Sacramento, viene a trovarsi nella privilegiata condizione di crescere sempre più nell’amore e adorazione a Gesù Sacramentato, e nello zelo per promuovere

Fernanda BarBiero SmSd

l’amore parla dI dIo

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la devozione negli associati. Impara a riproporre in sé le stesse caratteristiche del suo Signore, che fatto pane per amore, rende il suo discepolo pane per gli altri. “l’Eucaristia è un tal fuoco amoroso che accende ed infiamma chiunque gli si avvicina” (F. SARTORI, cit., p. 25). Questi sentimenti si trasformeranno in fede operosa e fonte ispiratrice di tutte le sue scelte apostoliche. Nella consapevolezza di essere compartecipe dell’opera di salvezza di Dio e in forza del suo amore per Gesù eucaristico, egli sa che dovrà diventare “eucaristia”, per i fratelli; presenza viva e amica; parola che guida e promuove; offerta ininterrotta di sé e di quanto possiede. “Non fa meraviglia se ritraendo in sé i principali caratteri di Gesù, egli si mostrasse tutto zelo pel bene delle anime” (F. SARTORI, cit., p. 25).Il suo ministero di annunciatore della Parola e di apostolo e padre dei giovani, lo rende discepolo, associato a Gesù, erede di una passione che lo assimila a Gesù, al suo patire per la salvezza. “Non dimenticate che a Gesù Cristo costò tutto il preziosissimo sangue la salvezza di un’anima sola… Dunque se voi l’amate davvero cosa non dovete fare?”.

Un Dio che non solo dona, ma che si dona È interessante notare, in don Luca, che la Pasqua è il contesto in cui scaturisce il sacramento dell’Amore. Nelle sue prediche egli sottolinea la dimensione della notte pasquale: una notte drammatica, terribile; la più buia ed oscura delle notti, la notte in cui ha agito il male, tramite il cuore indurito di Giuda, abbagliato dal denaro. Giuda vende Gesù ai suoi nemici. Lo vende con un bacio. Leggiamo, in una delle sue prediche, l’atmosfera pasquale dell’ultima cena: “Compiuta appena quella cena memoranda in cui G.C. manifestò per dir così l’eccesso dell’amor suo per noi poiché

intanto, come opportunamente rileva l’appostolo, che gli uomini macchinavano il nero tradimento e levar lo voleano dal mondo in qua nocte tradebatur amor lo indusse per rimanersene tra noi ad istituire l’augusto sacramento dell’altare. Oh se veduto l’aveste allora che preso in mano quel pane, e quel calice sacrato, acceso in volto scintillante negli occhi con voce e gesto da esprimere assai più che non dicea, rivolto a discepoli suoi prendete loro disse: Quest’è il mio corpo. Quest’è il mio Sangue. E così il mio cuore è pago poiché

potrò rimanermene con esso voi sino alla consumazione de secoli […]. Anime amanti, ricordatelo sempre che questo Sacramento d’amore è stato instituito in quella notte medesima in cui era tradito: in qua nocte tradebatur” (Predica, “Passione”). Don Luca nel racconto dell’ultima cena, ci offre l’opportunità di riscoprire l’identità cristiana in radicale rapporto con il mistero dell’amore di Cristo che dà la vita è quindi il mistero che chiama l’uomo alla verità

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dell’amore. Il punto essenziale e costitutivo del mistero dell’Amore egli lo appoggia nell’atto che Gesù compie “nella notte in cui fu tradito” […] in qua nocte tradebatur, ad una croce lo affiggono ma non per questo vien meno la carità sua. Poiché su di essa confitto anzi da crocifissori inumani beffeggiato, e deriso raccoglie le poche forze che dalla barbarie de suoi nemici ancor gli si lasciano, per iscusare presso del Padre il lor nefando attentato ed alzando la moribonda sua voce: Padre mio, gli dice, perdonate loro perché non sanno quel che si facciano” (Predica, “Carità – filantropia”). La notte del tradimento viene posta in parallelo con la cena pasquale. Nell’ultima cena, prima di morire, Gesù riassume, con i gesti e con le parole tutto il senso della sua vita e della sua morte: una vita offerta. Si rivela così, la verità dell’Amore di Dio fatto dono per noi. Un Dio che non solo dona, ma che si dona. Gesù raggiunge con la forza dell’amore la nostra vita, tocca e penetra la nostra esistenza nell’abisso della sua oscurità, di quella grazia di salvezza che viene dalla croce e dalla resurrezione. Grazia che non si può accogliere senza essere mutati, trasformati, convertiti. Così sono i doni di Dio, sempre!

Scoprire di essere amati“Nella notte in cui veniva tradito… il costituirsi del memoriale eucaristico è accompagnato da un dramma sconvolgente. Le parole del dono: “il mio sangue versato per voi”, sono precedute da quelle del tradimento. Questo fatto è per don Luca l’aspetto più inquietante dell’esperienza pasquale. Il memoriale del dono contiene al suo interno la storia del dono tradito. Un storia che minaccia tutti, giacché sulla tavola della cena ci sono le mani di tutti i discepoli, “tutti cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò”. Il dono “tradito”: è possibilità sempre incombente. “In qua nocte tradebatur!”. Sta qui, per don Luca il dramma dell’esperienza cristiana: in essa la gratuità del dono è sempre esposta al tradimento. Giuda tradisce quel Gesù che ha ricevuto nella cena come corpo a lui donato. Il dono vive nella prigione del tradimento, proprio nella sua forma più alta. Don Luca lo esprime nella drammaticità dell’offerta fatta da Gesù: […]

ricordatelo sempre che questo Sacramento d’amore è stato instituito in quella notte medesima in cui era tradito: in qua nocte tradebatur” (Predica, “Passione”). È tutta una visione teologica della storia umana e del suo rapporto con Dio che qui viene espressa: Dio accetta di essere “tradito” dall’uomo, portando su di sé questo tradimento lo redime. Il peccato dell’uomo che, apparentemente, vince su Dio è in realtà accolto da Dio. Dunque l’esperienza pasquale è anche l’altra faccia della storia umana; la storia in cui il dono viene tradito. Diventa, perciò, necessario essere raggiunti dal suo amore. Noi non siamo capaci di generare l’amore in noi stessi. L’amore ci raggiunge quando scopriamo di essere amati e dunque capaci di rinunciare a noi stessi. Non ci può essere amore si cerca se stessi. Solo quando non si ha più nessuna certezza propria, quando non c’è più niente che possa servire per la propria affermazione si è nella condizione di scoprire l’amore. “La scoperta dell’amore è infatti la scoperta di essere amati ed essere amati significa sperimentare di non meritare l’amore. Fino a quando si pensa di essere meritevoli di amore e di essere capaci di fare il bene, si cammina verso il tradimento e il rinnegamento” (M. Rupnik).

Saper morire a causa dell’amoreSi comprende, allora, che ciò che vogliamo salvare non va stretto in pugno, ma va donato. Ciò che dura per la vita eterna, lo avvolge l’amore e lo si seppellisce nelle mani degli altri. La pasqua, in don Luca, esprime il volto della carità, dell’amore realizzato. Si tratta di imparare a saper morire a causa dell’amore. Ma per morire nell’amore bisogna rinunciare alla propria volontà e compiere la volontà di Dio. Alla logica umana sembra impossibile che per vivere occorra morire, che per realizzarsi sia necessario cedere il posto. Per entrare nell’esperienza pasquale questo è l’unico varco. Ed è proprio l’immagine dell’amore quella che più di ogni altra parla di Dio. La Pasqua è il rivelarsi dell’amore di Dio in Cristo, amore ricevuto, amore dato, amore nel quale si realizza l’uomo. n

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diminutivo di Anna, Anita significa graziosa. Nome tutto femminile, che sta a pennello alla protagonista

di questa breve storia. (Breve per lo spazio che ci è dato). La definirei una persona dalla triplice identità: una ragazza tutt’altro che emergente, che vive in una cittadina di provincia e lavora per sostenere la famiglia. Non ha grilli né grandi progetti per il suo avvenire. È sana dentro e fuori.Le capita di conoscere un uomo dal volto di patriarca, consumato, dallo sguardo vivo. E’ un padre che ha perso la figlia piccola. Quest’uomo non cede al dolore pungente, anzi si attiva e inventa un centro di accoglienza per bambini, che abbiano qualsiasi necessità. Lui non fa selezioni: siano orfani, ammalati, abbandonati, o semplicemente affamati. Tale incontro determina una svolta nella routine quotidiana di Anita: da casa-chiesa il suo piccolo mondo si apre. E il suo cuore si dilata. Fa compagnia ai piccoli ospiti del centro, li intrattiene nel gioco, racconta loro fiabe semplici, che inventa o ricorda. Tempi brevi. Vuole tuttavia imparare, per rendere la sua presenza più professionale. Prende confidenza con i manuali di medicina e scopre di poter affrontare il ruolo di infermiera. È una ragazza sicura, di una sicurezza che non ostenta, ma che mette a servizio. Questo nuovo spazio operativo le offre opportunità insperate, buone e insidiose insieme. Anita è una giovane generosa, gentile e intelligente quanto basta per intuire i pericoli. Un medico pediatra, con il quale collabora, la corteggia, ma lei coglie in quelle sue proposte qualcosa di non chiaro e si difende con la franchezza propria di chi è semplice e dall’animo puro. Sapeva pure di una sua compagna di lavoro, che era stata illusa e tradita in proposito.

Cuore sognante Dunque, una ragazza sicura, sana e pura. Questo è il corredo di Anita, la sua ricchezza. Scevra dagli inquinamenti delle opinioni correnti e dai modelli mondani, si affida alla bontà del suo compito al quale ri-dice sì convintamente. E mentre persevera accanto ai bambini con la competenza guadagnata nello studio e la sua tenerezza naturale, prova a spostare lo sguardo in avanti e ad interrogarsi. Trascorrono quasi tre decenni. Vado a Torino per la visita alla Sacra Sindone e la incontro durante una sosta del nostro viaggio, nella Piccola Casa della Divina Provvidenza, fondata dal Cottolengo. Perché sei qui? le chiedo sorpresa.Anita riannoda i fili della trama della sua vita, interrotta dalle circostanze, e dice di sé quasi trasognata: avevo sentito viscere materne, e sognavo di tenere tra le braccia un figlio, dodici figli, allora. Cioè? Nella vicenda del medico, taglia corto. Ma qui ne ho di più, tanti di più. Mi era nato un sogno e quel sogno oggi è realtà tangibile, fatto carne e vita. Mi sento madre di tutti i bambini del mondo, il cui volto si riflette nel viso di questi miei ospiti. Questo è lo spirito del mio Istituto e la sua missione:.”Essere donne sintonizzate con il progetto caritativo evangelico, per umanizzare la sofferenza di fratelli respinti o abbandonati dagli altri” (dai documenti dell’Istituto).

La vita è noviziatoSei stata raggiunta da una vocazione limpida, affermo con ammirazione. Diciamo piuttosto raggiunta dalla grazia di essere per una missione bellissima, totale, troppo esigente, che mi porta e riporta alla sorgente del mio vivere da “fedele serva dei poveri” (Regole,1834).

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Anita mi accompagna nella visita alla sua Piccola Casa. Ad un certo punto mi trae in disparte: vedi, siamo negli ambienti del noviziato, sono stata accolta qui, tra questi muri. Si commuove, sospende le parole per un attimo, poi continua: il noviziato… lo ritengo “la terra buona”, che ho attraversato come rischio e liberazione, e nella quale ho pregato e imparato ad assumere la forma umana e concreta del Vangelo della Carità, la straordinaria Parola detta per tutte le Piccole Sorelle della Divina Provvidenza. È in essa che risuona per noi ogni giorno lo stupore della chiamata. Poi afferma sicura: questo è luogo di lavoro, di fatica, di vita, di appartenenza. Tutto questo vive e cresce nell’interiorità, e converge a definire il tuo profilo. E vivi ancora qui, in noviziato? Sì, accompagno le novizie nella formazione e mi sento novizia con loro e come loro. La fedeltà va imparata e ri-assunta continuamente, perché sia vissuta (cfr. Regole). È un esercizio profondo di amore. È ginnastica del cuore.

L’amore i suoi segretiHo notato, Anita, che hai dimestichezza con il verbo imparare: imparare le competenze, imparare la fedeltà, imparare il Vangelo. Si può imparare l’amore? Una

domanda da quiz la tua. Nell’esperienza dell’amore esiste un segreto, o meglio un mistero, che è questo: noi non sappiamo perché amiamo una persona invece di un’altra, e perché è proprio quella.Sembra di poter dire che è un fatto incomprensibile anche a noi stessi.Comunque l’amore è la vocazione universale, per tutti, specie per noi che siamo segnati dal vincolo sacramentale con Gesù Cristo, modello sommo di amore. Dalla mia esperienza, imparo e re- imparo ad accettare il rischio di essere una perdente; di investire il cuore, la mente, le energie a vuoto. Nel senso di non avere riscontri di utilità immediata o a lungo termine; nel senso di non conteggiare favori personali, nel senso di non vedere i frutti auspicati.Il mio amare, come il tuo, che sei suora come me, è un investimento che si fonda su una fiducia cieca, senza garanzie e senza logica. La pietra miliare è la Promessa di Colui che mi ha provato il suo amore con la morte. Forse le vicende tristi che ci toccano vengono da un amore negato. La vita vuota di amore s’infetta di infelicità e produce frutti amari, di anti-vita. I nostri ospiti ne sono il riscontro e la conseguenza. Per questo siamo chiamate all’amore. n

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«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione, più che per l’autopreservazione». Papa Francesco non ha paura di dire chiaramente che il suo è un “sogno”: qualcosa di bello, grande e gioioso, voluto con tutto il cuore, ma difficile da realizzare. Di conseguenza, ne affronta la sfida e chiama tutti i credenti a ritrovare la gioia autentica dell’annuncio pasquale, per illuminare di essa un mondo sempre più cupo e disperato.

La gioia del vangelo e la gioia di evangelizzare La relazione tra gioia e vangelo/evangelizzare è più stretta di quanto si immagini: la gioia è per se stessa inclusa nel vangelo, che etimologicamente, come si sa, vuol dire buona notizia e che storicamente già nell’uso profano indicava il gioioso annuncio di una vittoria.Il tema scelto da Papa Francesco richiama idealmente le ultime due esortazioni apostoliche di Paolo VI: Gaudete in Domino (1975) ed Evangelii nuntiandi (1975): numerose, si possono vedere, le citazioni soprattutto di quest’ultima, a riprova di una lunga ri-meditazione di un problema sempre attuale e impellente. La novità della Evangelii Gaudium sta nell’unire vangelo ed evangelizzazione non con le categorie tradizionali della missione e dell’impegno concreto (che pur sono chiaramente presenti nell’esortazione attuale), ma con la categoria tipicamente evangelica della gioia: gioia da annunciare, gioia da annunciare con gioia, gioia di annunciare.

L’intenzione principale dell’esortazionePur essendo ovviamente in stretta relazione con il Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione (2012), la Evangelii Gaudium non porta la consueta intitolazione di post-sinodale; e il Papa ne spiega la ragione: “Ho accettato con piacere l’invito dei Padri sinodali di redigere questa Esortazione. Nel farlo, raccolgo la ricchezza dei lavori del Sinodo [...]. Ma ho rinunciato a trattare in modo particolareggiato queste molteplici questioni, che devono essere oggetto di studio e di attento approfondimento”.Dunque, il Papa rimanda al mittente (Vescovi e Conferenze Episcopali) le questioni sollevate nel Sinodo e raccolte nelle Propositiones, perché “non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori”. Questa decisione spiega, a sua volta, una singolare (e finora inedita) presenza accordata alla voce degli Episcopati: oltre a citare gli ormai classici documenti di Puebla e di Aparecida, sono di volta in volta citati i pronunciamenti dei Vescovi di Brasile (nn. 64 e 191), Francia (nn. 66 e 205), Filippine (n. 215), Stati Uniti d’America (n. 220) e Congo (n. 230); a ribadire il concetto già espresso, di un magistero dei Vescovi, da considerare attentamente accanto a quello pontificio. Qual’è, dunque, la vera intenzione del documento? “In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni”.La Evangelii Gaudium allarga l’orizzonte e va oltre il campo di attenzione tracciato dai Padri sinodali, per darsi due obiettivi

Il sogno dI papa francesco

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essenziali: invitare i fedeli cristiani (tutti!) a una nuova tappa evangelizzatrice marcata dalla gioia; e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni.Il primo obiettivo segna una svolta quanto al modo e allo stile: “Un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale!”; affermazione che richiama quella altrettanto espressiva detta da Papa Bergoglio il 6 luglio 2013: “Ma per favore: mai suore, mai preti con la faccia di peperoncino in aceto, mai! La gioia viene da Gesù”.Il secondo obiettivo (indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni) fa capire che il Papa ha pensato l’Esortazione come un vero e proprio documento programmatico del suo Pontificato.

Programma del pontificatoCon molto realismo, e non senza una punta di umorismo, Papa Bergoglio afferma: “Non ignoro che oggi i documenti non destano lo stesso interesse che in altre epoche, e sono rapidamente dimenticati. Ciononostante, sottolineo che ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti”. Ciò significa che i temi e le linee pastorali, che formano l’ossatura dell’esortazione, vengono proposti a tutti i cristiani come altrettanti punti fermi di un programma da portare avanti con fervore e dinamismo, punto per punto:Capitolo primo: Una Chiesa missionaria e in uscita, che “non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso”.Capitolo secondo: La crisi dell’impegno comunitario e la rassegna delle patologie sociali, delle sfide culturali e delle tentazioni pastorali (accidia, pessimismo, mondanità...).Capitolo terzo: L’annuncio del Vangelo è compito di tutta la Chiesa e di tutti nella Chiesa; con una sezione bellissima, e in parte inattesa, dedicata all’Omelia e un’altra al rinnovamento della catechesi.Capitolo quarto: La dimensione sociale dell’evangelizzazione, di particolare importanza perché “nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con

gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale, il cui centro è la carità”. Ciò che dà modo a Papa Francesco di ribadire alcuni suoi temi ricorrenti: l’inclusione sociale dei poveri e la cura delle fragilità, il bene comune e la pace sociale...Capitolo quinto: prima di concludere l’Esortazione, il Papa ritorna sul tema fondamentale degli agenti pastorali: gli evangelizzatori con lo Spirito sono quelli che si aprono senza paura all’azione dello Spirito Santo, attraverso l’incontro personale con Cristo e l’apertura costante alla speranza. La preghiera finale a Maria, “Madre del Vangelo vivente, sorgente di gioia per i piccoli”, non è lì solo pro forma: sta ad affermare, ancora una volta, lo stile mariano che deve avere l’evangelizzazione.

ConclusionePer finire questa rapida carrellata su un documento che merita ben altro commento e deve, comunque, essere letto e gustato fino in fondo, voglio ricordare una citazione del Documento di Aparecida, che il Papa fa al n. 25 della sua Esortazione: “Ora non ci serve una semplice amministrazione. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno stato permanente di missione”. n

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era sembrato un modo per... sdrammatizzare la sorpresa che lo Spirito Santo aveva preparata

per Chiesa. “Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo…”: così Papa Francesco si era presentato in Piazza San Pietro e nelle case di milioni e milioni di persone di tutto il mondo, quasi rassicurare tutti che il primo a rendersi conto della “stranezza” della scelta era proprio lui. Invece era solo l’inizio della sua predicazione.La “fine del mondo” è stata ben presto ben presto definita “periferia”: invito alla Chiesa e ai cristiani ad essere “decentrati”. “La Chiesa è istituzione, ma quando si erige in ‘centro’ si funzionalizza e un poco alla volta si trasforma in una Ong”.E subito, perché non si assimilasse la “periferia” all’America latina, cioè perché non si riducesse la sua predicazione all’esperienza di vescovo argentino, “callejero”, di strada, ha parlato di “periferie esistenziali”. In luglio ha condiviso la sua visione proprio con i vescovi latino-americani: “Mi piace dire che la posizione del discepolo missionario non

è una posizione di centro bensì di periferie: vive in tensione verso le periferie… incluse quelle dell’eternità nell’incontro con Gesù Cristo. Nell’annuncio evangelico, parlare di ‘periferie esistenziali’ decentra e abitualmente abbiamo paura di uscire dal centro. Il discepolo missionario è un ‘decentrato’: il centro è Gesù Cristo, che convoca e invia. Il discepolo è inviato alle periferie esistenziali”.“Tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima. E le strade sono quelle del mondo dove la gente vive, dove è raggiungibile effettivamente e affettivamente. Tra queste strade ci sono anche quelle digitali, affollate di umanità, spesso ferita: uomini e donne che cercano una salvezza o una speranza”, ha ulteriormente spiegato in gennaio nel Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni sociali.

Forse non è venuto dalla “fine del mondo”Le “periferie esistenziali”, cioè tutto ciò che è marginale per la cultura dominante, ogni persona che viene considerata come uno “scarto” dal sistema economico e sociale, inglobano anche le periferie delle grandi città; queste ultime sono un simbolo dell’essere tagliati fuori.L’America latina è piena di questi “simboli”: cambiano nome a seconda del paese, ma indicano le stesse persone, le stesse vite. Le favélas del Brasile sono quelle più note, ma altrove hanno nomi tragicamente evocativi anche in italiano: villas miserias in Argentina, ciudades perdidas in Messico, tugurios in Colombia; e poi callampas in Cile, guasmos in Ecuador e barrios marginales in Perú, ranchitos in Venezuela.“Villas miserias” abitate da milioni di persone che paradossalmente proprio qui

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sono arrivate per scampare ad una miseria ancor più tragica, perché senza neppure la speranza che qualcosa potesse cambiare. Invece da qui puoi vedere il “centro”, puoi anche andarci. Ma poi devi tornare alla tua baracca perché tu sei “periferia”, sei uno che vive ai margini; la tua stessa esistenza è marginale. Intanto però in questo andirivieni dalla baracca al “centro” i bambini hanno imparato a sopravvivere in strada, da soli. I più grandi si illudono in altri “viaggi”: vittime e complici dei narcotrafficanti, trasformano se stessi in periferia.La dimensione continentale di queste condizioni ha certamente dato un’impronta alla Chiesa latino-americana, che da decenni ha maturato la scelta preferenziale per i poveri. Non una scelta sociologica, ma risposta alla missione: “Mi ha mandato ad evangelizzare i poveri”. “È puro Vangelo”, chiosa spesso Papa Francesco quando teme che qualcuno interpreti parole e gesti della Chiesa come una novità.Se non in America Latina, dove il Vangelo può essere vissuto? In questo continente vive il 42 % dei cattolici di tutto il mondo. Vengono da questo continente anche gli “hispanos” che vivono negli Stati Uniti. In tutto oltre la metà dei cattolici sono latino-americani.Vien da pensare: lo Spirito Santo è andato a prendersi il vescovo di Roma non alla “fine del mondo” ma nel cuore della Chiesa.

Il cibo diritto costituzionaleA Roma è stato chiamato due anni fa un altro latino-americano, per nulla noto né allora né ora in Italia e in Europa, ma capace di portare nel cuore di un’altra istituzione planetaria la vita dell’America Latina. L’istituzione è la Fao (il Fondo dell’Onu per l’Agricoltura, che ha sede appunto a Roma); lui è José Graziano da Silva, figlio di genitori brasiliani immigrati negli Stati Uniti, agronomo, ministro per la sicurezza alimentare del Brasile con il presidente Luiz Inácio Lula da Silva, dall’1 gennaio 2012 direttore generale della Fao.Uno degli obiettivi della Fao è l’eliminazione della fame nel mondo. All’inizio di questo millennio l’atlante geografico della fame comprendeva anche il Brasile; oggi non più. La regressione della fame non è figlia dello sviluppo economico: è piuttosto il fatto che molti

mangino di più ad accelerare la crescita complessiva del Brasile.Il punto di partenza è stato infatti il riconoscimento di diritti agli affamati: secondo la Costituzione del 1998 il cibo è diritto costituzionale in Brasile. Poi l’attuazione di questo diritto è inserita nel programma di governo: 1 gennaio 2003, discorso di insediamento del presidente del Brasile Lula: “Finché ci saranno un fratello o una sorella brasiliani che avranno fame, avremo motivi d’avanzo per coprirci di vergogna. Per questo ho stabilito tra le priorità del mio governo un programma di sicurezza alimentare che ha il nome di ‘Fame Zero’.

Se alla fine del mio mandato, tutti i brasiliani avranno la possibilità di fare colazione, pranzare e cenare, avrò compiuto la missione della mia vita”. Dal programma all’azione: c’è un ministero speciale per la lotta alla fame, a dirigerlo Lula chiama l’agronomo Luis Graziano da Silva, che attua il programma “Fame zero”.Alla base del programma non c’è il sussidio ma il lavoro di una parte degli “affamati”, i piccoli produttori agricoli. Ad esempio gli incentivi finanziari servono a far accedere i coltivatori diretti alla fornitura di pasti per le scuole, forniture fino ad allora sempre vinte dalle grandi imprese agroalimentari. Si è calcolato che 28 milioni di brasiliani siano usciti dalla soglia di povertà attraverso questo programma.Ora che è a Roma alla guida della Fao, l’agronomo Luis Graziano da Silva prova a ripetere lo schema a livello planetario.La Fao ha scelto il 2014 come anno

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mondiale dell’agricoltura familiare. Visto che per sconfiggere la fame non è servito l’aumento delle produzioni (che le multinazionali hanno gestito impoverendo milioni di contadini della terra, che sono stati privati persino della titolarità delle sementi), si segue la strada brasiliana puntando sui produttori locali, creando sussistenza per loro e cibo per i territori in cui vivono. Ha spiegato bene il direttore della Fao: “Più del 70 % delle popolazioni che vivono in stato d’insicurezza alimentare risiedono in zone rurali nei Paesi in via di sviluppo. In grande parte si tratta di agricoltori famigliari, produttori di sussistenza, che coltivano per l’autoconsumo. Fino a non molto tempo fa, per questo motivo, erano visti soltanto come un soggetto a cui dedicare delle politiche sociali, e non come importanti attori produttivi. Erano considerati parte del problema della fame nel mondo, mentre sono parte della soluzione”.Nessuno è così povero da non avere nulla da offrire, spiegherebbe evangelicamente Papa Francesco.

Cittadini americani figli di clandestiniLe scelte fatte in Brasile con il programma “Fame Zero”, ora rilanciate a livello globale dalla Fao, hanno il pregio di spiegare in concreto, in carne ed ossa, chi sono le “periferie esistenziali” incontro alle quali Papa Francesco sprona la Chiesa e invita i giovani. Sono persone che diventano “periferia” perché non vengono incontrate. Spesso vengono respinte. Altre volte ci si difende da loro: ufficialmente, legalmente.Ecco come si formano nuove “periferie” in America latina. Sono quasi 5 milioni i bambini statunitensi che hanno almeno un genitore “clandestino”. Sono bambini nati negli Stati Uniti, e quindi sono cittadini americani,

da genitori immigrati latino-americani privi di cittadinanza. La conseguenza è che questi piccoli americani devono subire la deportazione del padre o della madre (o di entrambi).Il recente rapporto dei Gesuiti statunitensi (“Un fallimento documentato. Le conseguenze della politica anti-immigrazione lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti”), che riporta questa situazione, segnala anche “la separazione dei migranti dai familiari operata dalla polizia di frontiera statunitense. Il fenomeno è particolarmente grave per le donne che, nel 30% dei casi secondo il governo messicano, vengono separate dai propri accompagnatori e rispedite in centri di accoglienza in Messico dove rischiano di subire abusi”. Qui sono le leggi a creare le “periferia esistenziali”.In Honduras il Parlamento aveva preso la decisione di diventare il primo Stato del pianeta nel quale costruire una ventina di “città private”. Dovevano essere costruite con 15 miliardi di dollari di finanziamenti provenienti da imprese internazionali, ed avrebbero avuto un sistema monetario e tributario, leggi e politiche di immigrazione e di sicurezza proprie. La Corte costituzionale ha cassato la decisione perché metteva a rischio la sovranità nazionale e - almeno per ora - non se ne fa nulla. Segnalano però - anche perché

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nascono da filosofie che vengono dal “centro” del pianeta - l’altro modo di creare “periferie”: difendendosi da esse, isolandosi nella propria ricchezza.L’errore del ricco EpuloneLa promessa - o meglio il miraggio - che anche la proposta delle “città private” faceva alle “periferie” già esistenti è sempre la stessa: per costruirle arriveranno dei soldi, tanti, è qualche dollaro finirà anche in periferia.L’America latina ha sperimentato negli ultimi 25 anni ricette economiche e politiche differenti. Complessivamente c’è stata una crescita generalizzata, tanto che il Brasile è ormai fra gli attori dell’economia globale. L’insieme del continente non è più percepito come “in via di sviluppo”.Eppure è la regione del pianeta con la maggiore disuguaglianza: è stato calcolato che il 10 % dei più ricchi tra gli abitanti ha in tasca 84 volte più risorse rispetto al 10 % dei più poveri. Per farci un’idea, in Italia (che è il paese europeo con la maggiore disuguaglianza) i più ricchi hanno in tasca 12 volte le risorse dei più poveri.La situazione dell’America latina conferma che la crescita economica da sola non basta a creare giustizia; anzi chi sta al “centro” del sistema è in grado di intercettare la maggior parte delle nuove risorse, aumentando così la disuguaglianza.È sempre più evidente che la fragilità di

uno dei pilastri dell’ideologia capitalistica: la ricchezza dei ricchi fa bene anche ai poveri, secondo il principio della “ricaduta favorevole”. Non è un principio nuovo, visto che Gesù si è premurato di dedicare ad esso una delle parabole più dure, quella del ricco Epulone (con i suoi cani e le sue briciole).“È Vangelo puro”, dice Papa Francesco. Vangelo da cui si ricava che l’alternativa è la “relazione”: un’altra delle parole più usate dal Papa. Una società “relazionale” - che quindi escluda in sé di avere delle periferie - è anche la terapia indicata da alcuni studiosi per riprenderci dall’infarto finanziario globale generato da trent’anni di capitalismo individualista.Per il 21 dicembre del 2012 il calendario dei Maya aveva previsto la “fine di un mondo”, caratterizzato proprio dall’individualismo. Nessuno ha preso sul serio quella profezia fiorita in America latina. Meno di tre mesi dopo però proprio dall’America latina è arrivato un vescovo che si è fatto chiamare Francesco. n

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rIspondere al grIdo dI aIuto

Ho 50 anni, e ho sempre lavorato come operatore sociale, nell’ambito dei servizi e dei progetti per il

benessere delle persone. Cioè per la possibilità di tutte le persone di essere cittadini, membri di una comunità, soggetti di relazioni di amicizia, di lavoro, o per la semplice condivisione di tempo libero. Forse ci sono tanti motivi che mi hanno spinto a scegliere di lavorare nel sociale. Ricordo che quando all’università studiavo marketing e finanza, e mi immaginavo in banca o in una multinazionale come molti miei amici dell’epoca, mi sentivo inquieto, perché sentivo che non era la mia strada.

Volevo cambiare il mondoIo volevo cambiare il mondo. Volevo cambiare le regole del commercio internazionale, del rapporto tra i popoli, volevo abolire le guerre, la fame e le malattie. Volevo un mondo più giusto e più equo, e volevo potermi prendere una parte del merito.Vedevo intorno a me tanta ingiustizia, e all’epoca ritenevo giusto imbracciare un fucile e combattere il sistema per modificarlo radicalmente. Per fortuna nessuno me lo ha mai offerto, un fucile.Allora ho aperto gli occhi, e mi sono reso conto che ognuno di noi è chiamato a dare testimonianza di giustizia e onestà ovunque

si trovi, nel proprio lavoro, nella famiglia, in ogni piccola o grande responsabilità della nostra vita. In quel tempo avevo anche a portata di mano un grande tesoro, e decisi allora la mia fedeltà a quel tesoro: l’amicizia delle persone disabili. Da quel momento, molte delle mie scelte, e in particolare quelle di lavoro, sono state orientate dalla fedeltà alla loro amicizia.Sono entrato a Fede e Luce – un movimento cristiano di incontro con le famiglie di tante persone disabili mentali – a 14 anni, e ho incontrato lì le mie migliori amicizie; amicizie indifferentemente di ragazzi con problemi e non, e con i loro genitori. Queste amicizie e la lunga militanza nel movimento mi hanno reso e dato molto di quello che sono oggi, ma soprattutto tre doni inestimabili:Cristiana, mia moglie, conosciuta a Fede e Luce e con la quale lì abbiamo condiviso una parte importante della nostra vita prima del nostro matrimonio;La gratuità nell’amicizia, che vive di ascolto autentico del cuore dell’amico, di bisogni colti prima che io li esprima. Ma anche di una ricerca di comunicazione fatta secondo le possibilità di ciascuno, chi a gesti, chi con il silenzio, chi con parole apparentemente poco sensate. La fedeltà nelle relazioni, fatta di attese senza pretese, di affetto che dura nel tempo

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La testimonianza del Direttore generale Fondazione Territori Sociali Altavaldelsa1 costituisce un importante apertura per il dialogo con i Laici Cooperatori dell’OSD. Si cercano strade nuove di servizio, aperture alle periferie esistenziali. Si prospettano impegni. Ci si impegna perché si crede nell’amore, la sola certezza che non teme confronti, la sola che basta ad impegnarci personalmente. Impegno, questa è la parola – chiave che muove chi lavora nel sociale. Non esistono scorciatoie, strade facili o percorsi alternativi, solo l’impegno. Impegno che non riguarda solo “gli addetti ai lavori”, ma ci tocca tutti intimamente; impegno che non si esaurisce negli orari di lavoro, ma che diventa “compito per casa”; impegno che non conosce limiti spaziali, ma che sorpassa ogni barriera architettonica, naturale, culturale, mentale.

1 La Fondazione Territori Sociali Altavaldelsa, costituita nel 2006, gestisce i servizi sociali per conto dei Comuni dell’Alta Val d’Elsa.

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senza sbiadire, una fedeltà che non giudica, ma che testimonia sempre la gioia del rincontrarsi.

Lavorare per le persone più deboliIl passo è stato breve: decidere che la mia fedeltà sarebbe stata quella di lavorare per le persone più deboli, e da allora è sempre stato così. Ed oggi faccio un bellissimo lavoro, organizzo i servizi sociali a favore di tutte le persone in difficoltà di un piccolo territorio.Per chi non ha un parente anziano, un amico disabile, o non ha conosciuto una giovane mamma sola, è difficile capire quanto grande sia il mondo del bisogno sociale. Noi tutti immaginiamo che ci sia una parte delle persone che ha qualche difficoltà, e supponiamo (e pretendiamo) che le istituzioni se ne pre – occupino.Ma manteniamo un’idea della nostra società sostanzialmente conformata a quello che ci raccontano in televisione, che propone come normali i modelli di successo, bellezza, ricchezza.Invece il mondo reale è fatto di persone e famiglie che vivono un quotidiano fatto di affetti normali, di lavoro faticoso e mal

retribuito, e che cercano nient’altro che la salute e la felicità per sé e per i propri cari. Tra queste, oggi tante famiglie hanno aggiunto alle solite preoccupazioni (la salute, la casa, ecc.) l’ansia di un lavoro che non c’è più, e quando c’è è molto precario. Fino a pochi anni fa, gran parte del nostro lavoro (in una zona ricca della provincia toscana), era orientato alla qualità della vita di anziani e disabili. L’evoluzione demografica ha portato nel tempo a potenziare molto i servizi residenziali e domiciliari per le persone non autosufficienti, anche per sopperire alla diminuita capacità della famiglie di occuparsene direttamente.Negli ultimi anni la crisi di lavoro ha messo in grande difficoltà tante famiglie, che sono state sfrattate perché non riescono a pagare l’affitto; che stanno per perdere anche la cassa integrazione e non vedono altre prospettive professionali; che si sentono umiliate nel dover chiedere aiuto ai centri di ascolto della caritas, o ai servizi sociali.Tante coppie non hanno retto alle difficoltà economiche, e allora la povertà sta anche facendo esplodere un grande problema di disagio minorile, con tanti bambini che non

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possono più contare sui loro genitori, e ai quali dobbiamo trovare una nuova famiglia, un nuovo luogo di accoglienza.Che cosa lega la difficoltà economica alle difficoltà genitoriali? Non ne sono sicuro, ma almeno in parte penso che se costruiamo il nostro modello familiare su uno status sociale basato su ciò che consumiamo e su ciò che possiamo regalare ai nostri figli, il venir meno delle possibilità mette in crisi anche i legami tra marito e moglie, tra figli e genitori.

Il volontariato, un fatto individuale, privato?Il resto lo fa una società che negli ultimi 30 anni ha aumentato tantissimo le diseguaglianze economiche e la centrifuga sociale. Si è affermata nella nostra società l’idea che la generosità, il volontariato, la prossimità, debba essere un fatto individuale, privato. Non è la collettività che si deve far carico dei deboli, ma la solidarietà individuale. Un modello che corrisponde esattamente alla cultura individualista cresciuta in tutta la società. Trasformato nella prassi delle politiche sociali, siccome è ovvio che ci sarà sempre qualcuno (e sempre di più) che ha bisogno dei servizi, è forte la tentazione che la risposta al bisogno della persona sia una “prestazione di cura”, come in ospedale per curare una malattia. Hai un problema specifico, ti do una risposta puntuale.Se ho sempre meno risorse farò sempre meno servizi, e darò meno risposte, fino a che, inesorabilmente, la massa di persone sofferenti e arrabbiate sarà talmente

grande e talmente sofferente da prendere con la forza ciò di cui ha bisogno, per disperazione.C’è una gradualità anche nella rabbia e nel modo di vivere la propria povertà. Ci sono persone che hanno avuto una vita felice, prospera, e che negli ultimi anni hanno bisogno di assistenza. Sono grati alla vita, e domandano in punta di piedi, sono pieni di riconoscenza per ciò che ricevono e verso chi glielo garantirà.Ci sono famiglie che sono ferite da una vita diversa da ciò che avrebbero voluto.

Hanno avuto un figlio speciale, che non potrà trovare da solo la propria strada nella vita. La ferita è profonda e piena di sale, e i genitori oscillano tra l’angoscia del futuro, la rassegnazione ad una vita di sacrifici, e la ricerca di un colpevole (Dio, il mondo, il coniuge, ecc.).E ci sono famiglie che vivono uno stato di bisogno immediato in grande ansia, ne danno la colpa alle istituzioni, al datore di lavoro, al padrone di casa, e ritengono giusto e dovuto che tutti li aiutino. Urlano la rabbia e la frustrazione, usano gli strumenti che questi sentimenti mettono loro a disposizione, aggressività, minacce.Queste sono le voci individuali, quelle che arrivano al nostro cuore, al cuore di tutti quelli che operano nei servizi, nel volontariato; poi ci sono le voci sociali, la capacità dei poveri di avere chi si batte per loro, che dà loro voce nelle istituzioni, nei luoghi dove si impegnano le risorse.

I laici una risorsa per la societàLa voce degli anziani è forte, per fortuna,

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perché è la voce di tutti i pensionati italiani, che sono tanti e organizzati in sindacato. La voce dei disabili è debolissima, si appoggia su alcuni testimoni eccellenti, su alcune associazioni ben organizzate, ma sostanzialmente è una voce inascoltata.Poi ci sono gli altri: i bambini, i poveri, i senzatetto, ecc. La loro voce è talmente flebile che sembra arrivare da stanze insonorizzate, tutte le orecchie sono sorde.La nostra responsabilità di operatori sociali e di cristiani è dunque doppia: c’è quella di ascoltare il grido del singolo, e di cercare di rispondere ciascuno per le proprie possibilità e responsabilità. Ma c’è anche quella di dare voce a chi non l’ha, di diventare noi il grido sociale di chi ha talmente perso la fiducia e la speranza da non riuscire più a chiedere aiuto.C’è una idea forte dietro tutto questo ragionamento, una idea che può darci grande speranza ed incoraggiamento per il futuro: rispondere al grido di aiuto con tutta una Comunità (la città, il quartiere, ecc.) che accoglie, che include. Ci sarà sempre bisogno di più pane e di più servizi, per rispondere a quella parte di povertà più assoluta e materiale.

Ma per molte altre persone, il grido di aiuto esprime un bisogno di ascolto, di accoglienza, di relazione: di inclusione. Ci siamo abituati a rispondere con i soldi perché la nostra cultura ci porta ad esprimere tutti i bisogni in termini materiali, e anche a dare risposte materiali. Per i servizi pubblici, per le istituzioni è senz’altro più facile rispondere con i soldi: li ho, ne hai diritto, te li do; non li ho, non ne hai diritto, non te li do. Fine del discorso.E invece… tanta parte della povertà è una povertà che assomiglia tanto alla solitudine, e che va sconfitta con l’accoglienza e l’inclusione.Dobbiamo superare l’io generoso, fatto di tante iniziative, di tante comunità accoglienti, e metterci a disposizione di una Comunità più grande, dove finalmente anche le istituzioni si mettano in gioco, e accettino una sfida culturale: organizzare risposte della Comunità nel suo complesso, valorizzando e non cancellando le appartenenze e le identità di ciascuno e di ciascuna comunità, gruppo, associazione; ma rendendole parte di uno sforzo solidale consapevole e collettivo. n

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l’opera sI dIffonde In molIse

La Famiglia Dorotea che opera nella diocesi di Campobasso(Molise), ha messo in gioco se stessa consapevole

che come il fiume inizia con una goccia, la notte inizia con una stella e l’amore inizia con un sogno, non ha aspettato che siano gli altri ad iniziare, a fare. Ha voluto essere la piccola goccia di quel fiume, la stella di quel cielo, il sogno di quell’amore. E così nella solennità della festa di S. Dorotea, nella parrocchia di Monteverde di Bojano mentre le suore hanno rinnovato il IV voto e cinque cooperatrici la loro Promessa. Altre

cooperatrici hanno maturato la decisione di impegnarsi con la Promessa come risposta ad una singolare chiamata da parte di Dio e come impegno in uno specifico servizio ecclesiale. La richiesta è stata accolta con gioia dal gruppo dei cooperatori, dalla comunità delle suore e dalle Delegate dell’Opera di S. Dorotea. Si è subito iniziato un cammino di preparazione e deciso le modalità e la data per avere una presenza da parte del consiglio provinciale. Domenica 9 marzo, presente Suor Annapaola Mazzucco, vicaria

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Il mondo si muove se noi ci muoviamo, si muta se noi mutiamo, si fa nuovo se qualcuno si fa nuova creatura. La primavera comincia con il primo fiore, la notte con la prima stella, il fiume con la prima goccia d’acqua, l’amore col primo pegno. Troppo spesso stiamo seduti nella platea del teatro della vita a guardare, senza vedere davvero, quello che succede davanti a noi, credendo erroneamente che non sia una questione che ci riguarda. Abbiamo dimenticato che noi, in quanto esseri umani ci realizziamo come “esseri in relazione”, come “apertura a” che diventa “incontro”, “dialogo”: è proprio nel relazionarci “autentico” che prendiamo coscienza della nostra responsabilità nel rapporto con l’altro e, interpellati all’impegno mettiamo in gioco la totalità del nostro essere.

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sante donne che Intercedono per noI

poco lontanto da Sarezzo, a Carcina, si trova la pala che Serafina Regis, attivissima Cooperatrice dell’Opera

di S. Dorotea aveva commissionato nel 1853 a Luigi Campini per l’Oratorio che lei stessa aveva fatto costruire intitolandolo alla Santa Patrona.I personaggi di questo dipinto hanno offerto lo spunto per un pomeriggio di canti e preghiere presso la comunità delle suore dorotee di Sarezzo, in prossimità della Festa di S. Dorotea.Per l’animazione musicale si è offerto il quartetto femminile Sidus Praeclarum, composto da due giovani e da due mamme saretine. Il repertorio di questo gruppo vocale raccoglie composizioni medievali e moderne di brani sacri mariani.Tante le persone convenute, di tutte le età, che hanno riempito la casa per questa occasione nata ricordando che “la Vergine Addolorata, santa Dorotea e sant’Angela Merici sono protettrici dell’Istituto e dell’Opera, e modelli di azione apostolica”.All’intercessione di queste donne e a quella di san Luigi Gonzaga che nella pala rappresenta tutti i giovani, abbiamo affidato il desiderio vivo in tutti i Cooperatori di farsi “amorosa guida” nel cammino della vita, e la rinnovata apertura delle suore ad accogliere e vivere l’eredità che il beato

Luca ha lasciato loro nel suo testamento spirituale: compiere l’ufficio di “seconde madri”.La santa amicizia che caratterizza l’Opera è stata invocata come dono per tutti i giovani della parrocchia, perché questa esperienza possa aiutarli a crescere secondo la vita buona del vangelo. n

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provinciale e animatrice dei Cooperatori, nella chiesa parrocchiale di Spinete, due cooperatrici, la signora Bambina Calabrese e la signora Rosalba Iacopucci, a cui si è aggiunta la signora Anna Patullo del vicino paese di S. Polo, hanno emesso per la prima volta la Promessa di cooperare nell’Opera di S. Dorotea. Il parroco don Josè Lopez che opera sia a Spinete che a S: Polo ha dato a questo evento una solennità particolare riconoscendo che la presenza delle suore dorotee come quella delle cooperatrici

è una ricchezza per la Chiesa molisana. Sappiamo bene che ciò che facciamo è qualcosa di molto semplice e piccolo: non è che una goccia nell’oceano della storia. Ma se questa goccia non ci fosse all’oceano mancherebbe. L’esperienza della Promessa, così intensa, si è conclusa con l’incontro formativo del percorso annuale. Tutto il gruppo ha gioito insieme alle nuove cooperatrici e con le Suore hanno riflettuto su quale strade spingersi per incontrare il mondo giovanile con l’ardore del beato Luca Passi. n

Foto: “Madonna Addoloratacon le sante Dorotea e Angela Merici e S. Luigi Gonzaga”L. Campini, 1853 - Pala, olio su telaCarcina (BS) - Oratorio S. Dorotea

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contro le mafIe

mara nIero parla dI lIbera1

Che cos’è Libera e di che cosa si occupa?Libera è un coordinamento di 1600 associazioni, gruppi, scuole, istituzioni e realtà di base per costituire sinergie politiche culturali e organizzative capaci di diffondere la legalità democratica. L’obiettivo principale di Libera è la vicinanza ai familiari delle vittime di mafia e il grande impegno nelle scuole e nelle università, quindi la sfida culturale e i percorsi educativi. Il terzo grande obiettivo è stata la raccolta di 96.000.000 di firme per dare continuità alla legge di Pio La Torre (che prevede il sequestro dei beni appartenuti ai mafiosi) ed al quale noi di Libera abbiamo aggiunto una variante che prevede l’utilizzo sociale di questi beni che ora proponiamo di estendere anche ai corrotti. Altre attività concrete sono il sostegno ai testimoni di giustizia e gli sportelli S.o.S giustizia che aiutano i famigliari vittime di mafia, i testimoni di giustizia e gli imprenditori vittime del racket e dell’usura.

Come è nato il suo impegno nell’Associazione?Io ho 40 anni e da quando ne avevo 16 mi sono occupata di attività politica e sociale, grazie soprattutto allo stimolo dei professori

che ho avuto la fortuna di incontrare durante il mio percorso scolastico e in particolare al mio professore di Diritto: Paolo Nasuti. Da quando frequentavo le superiori mi sono sempre interessata di questioni legate alla criminalità. Infatti nella storia del nostro paese il fatto che ricordo maggiormente sono gli attentati del ‘92 che hanno provocato la morte di Falcone e Borsellino. La morte di Borsellino la ricordo in particolar modo, il secondo magistrato morto in così poco tempo. Ricordo mia madre che mi ha chiamato quasi urlando. Ero nella mia camera, stavo studiando per il mio esame di maturità, e rammento lo stupore, lo sbigottimento, la confusione e il silenzio che aleggiava tra di noi...perciò quando nella mia zona è nato il primo presidio la mia è stata una scelta spontanea ed insieme a una mia amica che ora non c’è più e che voglio ricordare: Sonja Slavik è nato il Presidio e l’impegno in Libera.

Come si può oggi definire la mafia e come è organizzata? Che cos’è la mafia? è il silenzio impaurito, è il tono alto della voce e l’imposizione prepotente, e la logica del tutto e subito senza fatica, è violenza, oblio, arroganza, la

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1 Responsabile del presidio di Libera per l’area del Miranese (Venezia)

a cura di nicola chiarot

In questa Rubrica ci mettiamo in dialogo con esperienze di frontiera davanti alle quali è più facile trincerarsi nel recinto delle nostre paure: tutto ciò che è diverso da noi, che non rientra nei nostri schemi mentali è visto come qualcosa da temere, da sfuggire. Ma se cediamo a questa inclinazione ciò che muove le nostre vite degrada in un processo di inarrestabile individualizzazione. Sviluppiamo una graduale e inevitabile perdita di valori, di punti di riferimento per l’itinerario della vita.Abbiamo bisogno di testimoni che navigano controvento, che leggono il mondo in una prospettiva “diversa”. È la prospettiva da cui si guarda che determina l’interpretazione della realtà. Una volta appreso questo sarà facile aprirci verso gli altri diventare parti di un mondo che opera per la giustizia e la legalità e insieme cooperare scoprendo che possiamo essere ricchezza, risorsa da liberare… con un po’ di impegno.

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mafia è discordia e disinteresse. Alla parola mafia si contrappone quella di conoscenza e legalità che comporta per noi di Libera la presenza di due elementi essenziali la responsabilità individuale e la giustizia sociale, quest’ultima è a fondamento della nostra costituzione, quindi per noi significa riconoscere l’importanza dei diritti del uomo in quanto essere umano e cittadino e il rispetto della sua dignità. Per quanto riguarda l’organizzazione della mafia posso solo dirle che la mafia ha una struttura molto complessa con dei livelli superiori e inferiori, con specifici gradi e compiti e che opera nei settori più svariati da quelli tipici criminali quali racket, estorsioni, traffico, droga, traffico di rifiuti illeciti etc.. a quelli legali quali alberghi, centri commerciali, villaggi turistici nei quali ricicla il denaro proveniente dalle attività illecite.

Quanto è presente oggi ? È presente solo a Sud o ci sono cosche che operano anche nel nord-Italia?Oggi la mafia è diffusa in tutto il mondo e ovviamente non è presente solo al sud ma anche al nord. In Lombardia ormai vi sono indagini e sentenze che a più riprese confermano la presenza della ‘ndrangheta così pure in Piemonte. Nel Veneto un tentativo di penetrazione da parte della criminalità organizzata è stato attuato nel 2009 dalla camorra,clan dei casalesi, ma è stato scoperto e sgominato grazie al cosidetto processo “Gamorra in Veneto”. In Veneto esistono fenomeni criminali e tentativi di penetrazioni nel tessuto economico e politico da parte della criminalità organizzata , che devono destare in noi la giusta attenzione perché il fenomeno non dilaghi sempre più.

Rispetto al tema della legalità come è messa secondo lei l’Italia?Attraverso una lettura superficiale e poca attenta si potrebbe affermare che nel nostro paese il senso della legalità non sia molto sentito. In realtà si notano un fiorire di iniziative su questo tema, il che denota che la questione viene sentita e interessa. Moltissimi giovani ogni estate partono per fare attività di volontariato nelle cooperative di Libera Terra sui beni confiscati alla criminalità organizzata. Inoltre è vero che nel nostro paese c’è la mafia e la criminalità

organizzata più forte, ma l’Italia, il nostro Paese, è stato anche il primo paese che si è dotato di una legislazione antimafia all’avanguardia non solo in Europa ma anche nel mondo. Certo non possiamo mai abbassare la guardia e dobbiamo sempre vigilare e sviluppare e mantenere sani gli adeguati anticorpi dati dalla democrazia,dalla giustizia sociale e dallo stimolo alla cittadinanza attiva. Pressando la politica e i politici che devono fare bene la loro attività di servizio al Paese, garantendo i diritti ai cittadini e in particolar modo il diritto al lavoro.

Rispetto al fenomeno delle mafie come la pensano i giovani? I giovani sono interessati al fenomeno e cercano di comprenderlo e di essere attivi con iniziative di sensibilizzazione per la legalità e con progetti concreti ad esempio fornendo un sostegno alle cooperative di Libera con attività di volontariato grazie al progetto Estate Liberi, dove alla mattina si lavora insieme ai soci della cooperativa e al pomeriggio si fa attività di formazione. Questo atteggiamento tra i giovani si sviluppa quando capiscano che la criminalità organizzata non è una cosa lontana ma vicina a loro che può minare, anche senza alcun motivo,le loro vite e quelle dei loro famigliari, privandoli del bene più prezioso che è quello della libertà e della dignità in quanto uomini e cittadini.

Siete presenti nelle scuole? Ricordi un episodio che ti ha profondamente colpita durante le vostre iniziative nelle scuole?Si siamo presenti nelle scuole. Non ho un ricordo particolare. I ragazzi sono sempre meravigliosi e mi stupiscono in più di un’occasione per la loro capacità di ascoltare argomenti così difficili per ore di fila senza stancarsi e per le domande semplici ma puntuali che pongono agli esperti che non lasciano spazio al compromesso e che come diceva Borsellino sono la bellezza del profumo del senso libertà tipica della loro giovane età che può portare a migliorare il nostro Paese.

Qual è l’importanza della confisca dei beni? I beni confiscati sono importantissimi perchè oltre ad essere una sanzioni penale concreta che va ad incidere non solo

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economicamente ma anche sul potere e il prestigio dei boss; la confisca dei beni ai sensi dell’art. 416 bis del codice penale, permette un loro riutilizzo sociale ciò significa che possono essere trasformati in beni di accoglienza, recupero, incontro e assistenza per persone in difficoltà, che vivono ogni giorno in condizioni di povertà e marginalità sociale, oltre che offrire

possibilità di lavoro ai giovani del sud e non solo che non trovano lavoro, ciò avviene attraverso le Cooperative e il progetto Libera Terra. La confisca dei beni permette il riscatto economico e sociale a quei territori che per anni hanno subito i soprusi e la violenza della criminalità organizzata.

Il mondo cattolico come può operare per una cultura della legalità? A questa domanda rispondo in base a quanto da sempre sostiene il nostro Presidente Don Luigi Ciotti: “La Chiesa deve interferire, risvegliare le coscienze, denunciare non solo gli affari criminali e le ingiustizie sociali, ma l’illegalità diffusa e le morali di convenienza”. A questo proposito rincuorano le recenti e

forti posizioni prese da Papa Francesco in particolare mi riferisco al Messaggio per la Giornata della Pace, ma non solo,dove Papa Francesco rivolgendosi ai cattolici afferma: “Un autentico spirito di fraternità vince l’egoismo individuale che contrasta la possibilità delle persone di vivere in libertà e in armonia tra di loro. Tale egoismo si sviluppa socialmente sia

nelle molte forme di corruzione, oggi così capillarmente diffuse, sia nella formazione delle organizzazioni criminali, dai piccoli gruppi a quelli organizzati su scala globale, che, logorando in profondità la legalità e la giustizia, colpiscono al cuore la dignità della persona. Queste organizzazioni offendono gravemente Dio, nuocciono ai fratelli e danneggiano il creato, tanto più quando hanno connotazioni religiose.” Don Ciotti nel suo libro:“La speranza non è in vendita” scrive: La fede non può essere un salvacondotto. Non esonera dalla responsabilità della vita civile, sociale, politica. Non solleva dalle scelte difficili e dall’impegno in prima persona”, il che chiama evidentemente i credenti sempre a un esame di coscienza. n

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ai fatti di casa nostra

FORGARIA

ecHi deLLa BeatificazioNe di doN Luca paSSi

Camminare nel tempo, per incontrare e vivere delle emozioni inaspettate, delle esperienze che riempiono l’anima di passione e coraggio.Nel cammino del tempo, dentro la mia comunità, ho potuto conoscere la grande sensibilità, il grande coraggio, l’immensa disponibilità delle suore che, ogni giorno, incontriamo per le nostre vie, che guardiamo da lontano e comprendiamo quanto amore possano dare anche nei loro silenzi, al nostro paese.Le guardo da lontano e capisco nei loro atteggiamenti la grandezza della loro tenerezza, della loro voglia di aiutare e sacrificarsi, per ognuno di noi. Ero curioso di comprendere, di capire, di sentire quegli abbracci che, in quelle parole ed in quegli sguardi, loro ti donano.Ho partecipato con entusiasmo alla Beatificazione di Don Luca Passi, il fondatore delle Dorotee, ho partecipato perché era un atto, nato dal cuore e quando questa sensazione nasce dalla volontà di esserci, bisogna costruirla ed anche perché volevo ringraziare chi ha permesso di inviare presso la nostra comunità quelle presenze così importanti; ed ho partecipato, pregato, ho rappresentato tutta una comunità attraverso la fascia tricolore che vestivo, perché con me c’era un paese che voleva ringraziare le strette di mano che, le nostre suore, ogni giorno ci dedicano.Nel cammino del tempo, si

vivono esperienze che ti lasciano segni indelebili nell’anima, una di queste è stata la celebrazione vissuta a Venezia nella Basilica di San Marco. Si respirava una particolare partecipazione, spirituale ed umana, si è vissuto una rievocazione in cui, ogni preghiera era un ringraziamento a chi ha donato tanto agli altri. Per me è stata una giornata che mi ha permesso di capire l’immensità delle parole, delle gesta, della sensibilità viva anche nei piccoli momenti quotidiani della nostra vita; da questa esperienza e da quello che le suore del mio paese mi donano ogni giorno, ho compreso che devo costruire quelle emozioni che possono dipingere le vie, le case, un pensiero, un abbraccio, partendo da quelle pagine scritte in quella giornata.Grazie ancora a Suor Terenziana, a Suor Claudina ed a Suor Elisanna. n

Il Sindaco Molinaro Pierluigi

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VIAREGGIO

“La caStagNata”

Anche quest’anno la nostra castagnata è stata un successo. Gli ingredienti hanno funzionato alla grande: voglia di stare insieme, collaborazione e cose buone da mangiare sono stati la formula giusta!!! Sabato 9 Novembre sono arrivati i papà specialisti del barbecue che hanno “riscaldato” le griglie. Più tardi le mamme dei bambini si sono sistemate al loro posto di combattimento e alle 11 tutti insieme abbiamo dato il via alla festa. Nell’aria si è subito espanso un profumo invitante:salcicce, rosticciana, castagne. Sui tavoli salumi, formaggi, dolci a non finire. La pesca dei bambini ha fatto in modo che i due piani di scale fossero un continuo viavai di piccoli e grandi! Altri si sono improvvisati cantanti e con il “Karaoke” hanno messo in moto l’ugola facendoci sentire brani moderni o classici. Nel pomeriggio c’è stato il solenne momento della premiazione e tutti in sala verde abbiamo applaudito chi ha ottenuto il riconoscimento con tanto di motivazione del premio “io c’ero!” Ecco le categorie: premio “grafica”, “fotografia”, “il fuoco di Don Luca Passi”, “il pesca persone”, “vengo anch’io!”, “ci vado io!”, “ci penso io!”, “immediata disponibilità” e ringraziamenti e applausi. Presente “il mercatino di Dorotea” che ha riscosso attenzione.

Alla sera,dopo aver riposto gli oggetti e pulito tutto ci siamo salutati, come si suol dire “stanchi ma felici”. Abbiamo ringraziato il cielo che ci ha permesso di fare festa, nonostante le previsioni preoccupanti. Siamo stati “bene”: genitori, bambini, maestre, suore, nonni. La castagnata è un appuntamento storico che ci permette di conoscerci meglio e di far del “bene”, potendo così offrire un aiuto a sostenere le missioni delle nostre suore. “Ardere per accendere”, il motto di Don Luca Passi, sempre attuale che noi proteggiamo e promuoviamo con il fuoco dell’amicizia. Ci siamo donati a vicenda un sacco di cose belle: la gioia di esserci, l’allegria di fare, disfare, rifare, il profumo e il gusto delle cose buone da mangiare, gli applausi, i canti. Il progetto didattico di questo anno “Il Dono” va prendendo sempre più forma e sostanza: le insegnanti, i bambini ci lavorano in aula. Con i genitori lavoriamo in giardino, in sala verde negli incontri di formazione, nella preghiera. Insieme per donare, per donarci, per arricchirci. Un’altra bella serata ci arricchisce con il messaggio forte di un Piccolo Bambino che sta per nascere: è la serata del 19 dicembre nella Basilica di San Paolino con la tunica rossa bordata di oro il coro dei nostri bimbi ci allieta con i canti gospel: musica, movimenti, colore per far festa e dar gloria a Gesù. Ma… il nostro concerto fa replica: nel Centro di Viareggio le voci del nostro coro si sono sentite ancora per arricchire l’atmosfera natalizia e offrire .un dono alla città. E ora? Altre cose importanti ora ci aspettano per continuare a crescere, per donare la nostra gioia, il nostro impegno, per poter ardere e accendere! n

Maestra Antonella

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ROANA

a viSo aperto capita cHe…

Si chiamano Chiara, Federica, Isabel, Silvia, Luca, Alessandro, Riccardo e Lodovico. Sono i protagonisti di questa storia. Giovani di differente età e provenienti da località diverse, ma tutti sono stati raggiunti da angeli che hanno dato loro un lieto annuncio. Un annuncio “a viso aperto”: il Signore ti sta cercando! Si sono incamminati e la stella che seguivano si è fermata su Roana. Si sono fidati senza indugio e hanno portato in dono i loro cuori, le loro speranze, le loro consapevolezze, le loro domande, le loro fatiche... Davanti alla mangiatoia tutti insieme si sono ritrovati e si sono lasciati guidare da chi, prima di loro, si è lasciato stupire da questo Dio bambino, piccolo e indifeso, ma nello stesso tempo così infinitamente grande. Così la diffusione della gioia ebbe inizio e ai loro occhi tutto fu meraviglia.Intanto il tempo passava. La stella era ancora lì e nei loro cuori entrava la gioia vera quella che illumina ogni uomo. Anche se non conoscevano bene quel Bambino avvolto in fasce, si avvertiva, osservandoli, che avevano proprio voglia di scoprire il Suo volto, di stare con Lui, di lasciarsi incontrare da quell’amore tenero che li aveva portati fin lì, di contemplarlo. E così, fiduciosi e a viso aperto, si sono messi in ascolto di chi li aveva preceduti: Maria, Giuseppe, gli angeli, i pastori, i re magi e, in loro compagnia, cercavano di collocarsi in quella mangiatoia per scorgere il volto di quella Vita carica di eterno nonostante le grotte, le notti, i dubbi e le incertezze... Ma non basta sapere. Bisogna incontrare. E’ giunto il momento di mettersi in cammino. Accompagnati da Bartimeo i giovani sono

scesi nelle loro profondità senza paura. Hanno saputo riconoscere i loro bisogni e li hanno affidati a quell’Amore che piano piano li stava conquistando. Sono stati coraggiosi a buttar via i “mantelli” che impedivano loro di non vedere, di non toccare, di non abbracciare e di non dare fiducia alla Via, alla Verità, alla Vita. E così anche loro dopo essere andati e aver visto, dopo essersi lasciati conquistare dalla tenerezza di quel Bambino, dopo essere diventati Uno, fecero ritorno nelle loro case glorificando e lodando Dio per quell’incontro, per quelle vite intrecciate, per quelle storie arricchite di chiavi e di

un frutti, per quella gioia che ha coinvolto aprendo i cuori, per quel volto che ha concesso pace, per quella santa amicizia che iniziava a prendere forma, per quella fiamma che si è accesa…Ed io dal quel giorno continuo a benedire il Dio della vita per averli incontrati. Li porto nel cuore e sul braccio legati a un braccialetto colorato dal verde, che mi ricorda la speranza e la forza di Chiara e Isabel, dal giallo, che mi ricorda la gioia di Federica e di Silvia, dal blu, che mi ricorda la profondità di Alessandro e Riccardo, dal bianco, che mi ricorda la semplicità di Lodovico e di Luca, dal rosso, che mi ricorda la passione di Suor Stefania, di Suor Lisa e di Suor Giancarla. n

Giusi Canino

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CALCINATE

prezioSa SempLicità

Preziosa semplicità: già queste due parole, da sole, racchiudono il senso di quanto è avvenuto nella chiesa parrocchiale di Calcinate lo scorso 7 dicembre, nella Vigilia della Solennità dell’Immacolata.Al termine della Celebrazione Eucaristica presieduta dal Vicario generale della diocesi di Bergamo, mons. Davide Pelucchi, già superiore dei Preti del Sacro Cuore, successori del Collegio Apostolico del quale furono membri anche il Fondatore, il fratello don Marco e lo zio mons. Marco Celio.Ai piedi dell’immagine sorridente del Beato don Luca si trovavano, disposte quasi a cascata sui gradini dell’altare, le copie della nuova edizione delle sue Lettere: un dono per sacerdoti, suore e cooperatori che così possono nuovamente accostarsi al suo cuore di pastore ed educatore sapiente e amorevole. Insieme al parroco, diversi sacerdoti della Chiesa bergamasca hanno concelebrato con cuore riconoscente a Dio per il dono della santità di don Luca. In particolare don Alessandro Baitelli, storico dei preti del Sacro Cuore, durante l’omelia ha messo in parallelo il Verbo fatto carne

in Maria nell’Annuciazione con la vita del nostro Fondatore, tutta dedita all’annuncio della Parola perché potesse essere accolta e vissuta da quanti incontrava nel suo servizio durante le missioni al popolo. Ha inoltre invitato a scorgere, tra le righe delle lettere, la storia sacra che il Signore ha continuato a scrivere anche attraverso le relazioni di don Luca e i santi del suo tempo.È dunque risuonata nell’assemblea la cifra di un’amicizia sacerdotale che irrobustisce la dedizione al Signore e la passione per i fratelli. Al termine della S. Messa, i Cooperatori dell’Opera di S. Dorotea, i responsabili dei vari gruppi e i rappresentanti delle varie Istituzioni si sono quindi presentati all’altare per ricevere dalla Superiora Generale dell’Istituto, Madre Teresa Simionato un nuovo “scrigno”. Mi richiamano infatti l’immagine del tesoro, infatti, queste lettere, e anche quella di “gomitoli”, intrecciati di fede, zelo apostolico, passione per i fratelli. Sì. Le lettere di don Luca mi sembrano proprio dei “gomitoli”. Se li srotoli con pazienza, trovi vigorose tracce di fede, amore, passione, slancio, premura; è uno stimolo perché anche noi oggi srotoliamo, riconosciamo, apprezziamo, impariamo a discernere i vari fili per dar vita a nuovi … “manufatti” nella concretezza dell’esistenza e nella

grandezza del cuore. Si è trattato di un nuovo slancio per laici e suore, a cui ancora oggi è affidato il “beato” compito di farsi amorose guide per le giovani generazioni. n

Suor Elena Palazzi

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BURUNDI - GIHIZA

Liceo ScieNtifico “Beato Luca paSSi”

Il 28 gennaio 2014 è stata una giornata memorabile per i cinquecento giovani alunni del liceo scientifico e collegio (= scuola media) “Santa Dorotea”. Sono state benedette e inaugurate ufficialmente le tre nuove aule costruite con l’aiuto del gruppo Amici del Mondo fondato dal Sacerdote friulano Don Danilo Burelli che svolge il ministero tra gli emigrati italiani in Svizzera, nostri benefattori dal 1985.La nostra grande e bella sorpresa è stata quando Don Danilo, alla vigilia dell’inaugurazione, ci ha mostrato la targa, che si applica sulla parete esterna dell’edificio, con inciso il nome del donatore e dedicata al Beato Luca Passi, nostro Fondatore!Al mattino dopo la solenne Celebrazione Eucaristica nella chiesa parrocchiale di

Gihiza, presieduta dal supervisore diocesano delle scuole cattoliche nell’arcidiocesi di Gitega, Abbé Vincent Bandeba, e concelebrata dall’Abbé Albert Ntibazonkiza vicario parrocchiale e direttore dello stesso liceo, si è proceduto alla benedizione e

inaugurazione delle tre aule.È stata immensa la gioia di scoprire il telo che copriva la bella sorridente immagine di Don Luca con vicino la targa-dedica, tra gli applausi, i suoni dei tamburi e le danze dei numerosi giovani alunni, professori, sacerdoti, genitori, rappresentanti delle autorità civili, operai che hanno realizzato la costruzione e, in particolare, noi suore di Don Luca!Per tutta la popolazione è un segno di speranza, di amore e di certezza che la presenza delle Suore Dorotee a Gihiza è viva e operante.I santi del nostro Istituto restano lì a proteggere e guidare le giovani generazioni: la principale scuola elementare di Gihiza è dedicata a Suor Gina Simionato, la scuola media a Santa Dorotea, il liceo al Beato Luca Passi! n

Suor Maria Vera di Gregorio

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CASTELL’ARQUATO

La parroccHia iN feSta per S. dorotea

Domenica, 9 febbraio 2014, nella Collegiata di Castell’Arquato dedicata a Maria Assunta, il Parroco don Giuseppe Rigolli celebra l’Eucarestia in onore di S. Dorotea. La Chiesa è gremita di fedeli che, stretti attorno alle Suore, partecipano con grande devozione alla celebrazione. Il quadro della Santa, esposto di fianco all’altare, mette in risalto, con i suoi colori vivaci, la bellezza e la giovinezza di questa martire, che sacrificò la propria vita per amore del Signore. Le mele e le rose poste sull’altare e davanti al quadro di S. Dorotea, con il loro intenso colore rosso ci richiamano all’amore, al sacrificio, ma anche all’esultanza della vittoria della fede nel Signore.Don Giuseppe, nell’omelia, rileva che quando la Chiesa celebra un martire tutti noi siamo presi da un senso di profonda trepidazione e ci sentiamo a contatto con il Cristo. Il Beato Luca Passi affidando questa Congregazione di Suore a S. Dorotea, ha voluto che la giovane martire trovasse in loro la possibilità di essere segno di quello che lei era stata, in mezzo a noi. Poi chiede a Suor Fernanda di prendere la parola, che si rivolge ai fedeli, con calore, porgendo il saluto a tutti coloro che nel corso degli anni ha potuto conoscere e a tutti i presenti che hanno voluto condividere la celebrazione. Ha voluto essere presente prima di tutto per dare rilievo alle consorelle che hanno scritto pagine di storia nel paese di Castell’Arquato insieme a tutti i compaesani. Una presenza, la sua che esprime riconoscimento. Una seconda ragione che l’ha spinta ad essere presente, è il debito di gratitudine per voi, dice ,rivolgendosi all’assemblea , che custodite così bene le mie consorelle. Grazie-dunque-a don Giuseppe e a tutto il paese.E siamo tutti qui per dare significato alla festa di oggi dalla quale dobbiamo

trarre il messaggio per la nostra vita. S. Dorotea è una giovane martire di cui, una Passio molto antica, ci parla del suo martirio. Alle origini del Cristianesimo gli imperatori romani perseguitavano i cristiani. Dorotea era una ragazza che non passava inosservata, era rilevante, significativa, si faceva notare perché era bella e si provava per lei grande simpatia. Seppe rimanere ferma nella sua fede e testimone di Cristo fino al sangue. Un giovane, Teofilo, che la scherniva lungo la strada verso il patibolo le chiese: “Quando vai dal tuo Sposo, mandami delle mele e delle rose” ed ecco apparire un angelo nelle sembianze di un bambino che portava un cesto di mele e rose: Teofilo si convertì e finì martire. L’essere cristiani, anche oggi, domanda

coraggio; non bisogna avere paura di mostrare la propria fede. Nel dialogo che si legge nella Passio, fra Dorotea e le due amiche, Crista e Callista che vinte dalla paura avevano ceduto all’apostasia, Dorotea richiama due cose importanti: “Non bisogna mai disperare della misericordia di Dio” perché non c’è ferita che Dio non possa guarire, non c’è peccato che Dio non possa perdonare. Per questo il Dio in cui crediamo si chiama Salvatore. Inoltre nel racconto del martirio di Dorotea, viene evidenziato come la giovane cristiana conoscesse l’arte di dare volto al comandamento dell’amore di Dio: Amatevi gli uni gli altri come io ho amato

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TAVERNA

uN aBBraccio di vita

Quest’anno il mio augurio è un po’ diverso dal solito. Non ho scritto nulla anche se il cuore vorrebbe mettere nero su bianco quanto si muove in questo momento. Ma non posso e non voglio tirarmi indietro dal dire una parola semplice, magica, che apre il cuore.Da qualche mese sto seguendo un percorso di spiritualità sulla misericordia, proposto da Suor Mariangela Tassielli sul blog Cantalavita. Questa settimana la proposta è di stilare una lista dei grazie. Perché dire grazie è non dare nulla per scontato. Dire grazie è riconoscersi non necessari in questo mondo. Dire grazie è riconoscere di esserci grazie a qualcuno.La memoria della nostra Santa Patrona, quindi, si inserisce con insistenza in questa lista perché da questo grazie scaturiscono tutti gli altri. Ognuno di voi mi ha regalato qualcosa. Ha condiviso con me un pezzo di strada. Ha contributo a rendere a colori la mia vita. Ha

aggiunto gioia e speranza al mio vivere. Ha contagiato e trascinato al Bene. Ha avuto fiducia. Ha portato e porta la croce insieme a me. Ha alimentato la voglia di spendersi per il bene del fratello. Ha saputo seminare nella mia terra arida. Ha teso la sua mano per aiutarmi a rialzarmi. Ha prestato i suoi piedi e le sue mani per farmi raggiungere e toccare la perla preziosa. Ha tolto dal mio essere tutte quelle insistenti incrostazioni che non facevano arrivare la luce e il calore dell’Amore. Ha saputo mettersi di fianco a

voi. Dorotea era la manifestazione della carità di Dio. Il martire è proprio colui del quale Dio si serve per dimostrarci il suo amore: un amore forte come la morte. C’è un programma di vita in questa Santa che suore, cooperatori e tutta la comunità

cristiana sono invitati a vivere nella propria esistenza come un fuoco che arde a gloria di Dio e in testimonianza feconda per le giovani generazioni. n

Giuliana Bozzoni

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me e indicarmi la bellezza del Dono più grande. Ha plasmato il mio cuore e lo ha aperto alla Vita in abbondanza. In questi quasi 10 anni di esperienze dorotee ognuno di voi ha fatto tutto questo per me. Ed è per questo che sono qui ad esprimere il mio grazie al Dio della Vita e dell’Amore per avervi messo sulla mia strada. Il mio non vuole essere un grazie scontato, fatto giusto perché domani è la festa di Famiglia... Il mio grazie nasce dal profondo (dopo duri momenti) e con la consapevolezza che se oggi prendo la mia vita e ne faccio un capolavoro è solo grazie

a tutti voi. Se oggi posso essere una fiamma che arde per incendiare l’altro è solo grazie alla vostra passione che si è poggiata in modo indelebile sul mio cuore... Allora vi/mi affido alla nostra Santa Patrona perché ci faccia sempre sentire l’abbraccio immenso, forte, quasi da togliere il fiato al nostro Dio. Solo se ci sentiremo immersi in questo abbraccio d’amore,

avremo la stessa dolcezza persuasiva, la stessa fermezza nella fede, la stessa forza di trascinare al Bene che ha avuto Dorotea. E tutto questo per un unico scopo: accompagnare i giovani da Cristo. Io ci credo! Credo in adulti significati, credo in anime contagiose desiderose di camminare insieme e portare gioia e speranza. E con don Luca, Vi dico: allarghiamo il cuore a grandi speranze... tanto si ottiene quanto si spera...Buona Festa a tutti.Con immenso affetto n

Giusi Canino

COLLE D’ANCHISE

ceNtro di SpirituaLità e cuLtura S. famigLia di Nazaret

Il Centro di spiritualità e cultura nasce con la consapevolezza che è necessario comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, che la famiglia è la prima e la più importante fra le strade lungo le quali cammina l’uomo, credere nella famiglia è costruire il futuro. Si propone di annunciare il Vangelo dell’amore, del matrimonio, della famiglia, della vita. Accoglie persone, gruppi, coppie, famiglie promuovendo incontri di formazione e di spiritualità. Accompagna le coppie al matrimonio, segue il cammino delle coppie passo dopo passo, aiuta i genitori ad essere per i figli

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La domeNica deLLe famigLie

Si è svolto domenica 2 marzo 2014 l’appuntamento delle famiglie organizzato dalla Pastorale Familiare in collaborazione con le Suore Maestre di S. Dorotea che animano il Centro.Il tema scelto per quest’anno pastorale è la rivisitazione dei luoghi dove Maria è vissuta (Betlemme, Nazaret, Efeso) o ha sperimentato eventi significativi (Cana) per darne una lettura in chiave familiare ricondotta ai nostri tempi. In questo cammino le famiglie della Diocesi “entrano” nelle case di Maria e rileggono la propria storia fatta di relazioni intense e significative, con una serie di simboli mai fini a sé stessi e attraverso la ricostruzione scenica di episodi di vita vissuta.La casa del resto è la metafora della vita vissuta in vari luoghi che rimandano ad altrettanti aspetti dell’esperienza familiare: ascolto, comunicazione, condivisione, riposo, ricordi, cura dell’ altro, cadute.Prossimi appuntamenti programmati domenica 6 aprile 2014domenica 4 maggio 2014. n

Suor Massimiliana Bandiera

“genitori efficaci”, promuove incontri per coppie separate, divorziate.Il Centro Famiglie Incontro è un villaggio che si estende su una superficie di circa diecimila metri nel verde e nella quiete della campagna nel comune di Colle d’Anchise (CB). A poca distanza dalla struttura si apre

uno spazio di ventimila metri con campi da calcetto, tennis, pallavolo, percorsi nel bosco.Nel centro vi risiede una piccola comunità di suore Maestre di S. Dorotee: Suor Massimiliana, Superiora, Suor Annaclara, Suor Osanna. Le suore, oltre agli impegni pastorali nelle parrocchie vicine, dedicano momenti di preghiera a favore della famiglia, curano l’accoglienza e seguono i gruppi. Il Centro Famiglie Incontro è una struttura a servizio della pastorale

familiare. Viene data a chiunque ne fa richiesta. Lo stile è quello dell’autogestione. È tuttavia possibile usufruire dei servizi con altre modalità concordabili con la Superiora. n

Mons. Angelo Spina Vescovo di Sulmona - Valva

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Tutto quello che fai al fratello più piccolo, tu l’hai fatto a meMt 25, 40

La Fondazione MSD.Ve (Missioni Solidarietà Dorotee Venezia) – Onlus è stata costituita il giorno 5 novembre 2012 dall’Istituto delle Suore Maestre di S. Dorotea per continuare a promuovere e sostenere, grazie all’aiuto di tanti benefattori, progetti di sviluppo internazionali in Albania (Burrel), in Africa (Repubblica Democratica del Congo, Burundi, Cameroun, Madagascar), in America Latina (Bolivia, Brasile, Colombia).La Fondazione, che ha la sua sede legale a Treviso in Via Pierre de Coubertin n. 8 presso la comunità “Il Mandorlo”, intende perseguire le sue finalità di solidarietà sociale oltre che all’estero, anche in Italia accogliendo e proponendo progetti a favore dell’assistenza sociale, dell’istruzione e della formazione. Sostenere un Progetto attraverso la Fondazione permette ai donatori di usufruire degli sgravi fiscali previsti per i cittadini che destinano offerte a scopo benefico.Alla Fondazione può essere destinato anche il 5 x 1000 compilando l’apposito riquadro nel modulo per la dichiarazione annuale dei redditi.Le offerte e le donazioni di tanti amici hanno permesso alle comunità di suore dorotee che operano nei Paesi di missione di sostenere attraverso l’adozione il percorso scolastico di tanti ragazzi che diversamente non avrebbero potuto frequentare la scuola. Sono stati realizzati inoltre progetti per costruire scuole, pensionati studenteschi, spazi ricreativi per bambini, ragazzi e giovani. Inoltre, grazie a questi aiuti è stato possibile mantenere le strutture dove i ragazzi possono trovare qualcuno che si prende a cuore la loro vita e li accompagna nel cammino formativo.I bisogni sono ancora tanti: il cammino però può continuare grazie a tutti coloro che anche in futuro vorranno esprimere vicinanza e solidarietà attraverso i Progetti che la Fondazione ha attivato per contribuire a un futuro migliore per coloro che incontriamo.

Per donazioni o offerte Banca Carige Italia IT 91J0343112120000000387580Per il 5 x 1000: C.F. 94142410268www.msdve.itFondazione MSD.VE – onlus, Via P. de Coubertin, 8 - 31100 Treviso. Tel. 0422 263534

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In dIalogo con Il beato luca passI a venezIa nell’anno 2013

dal quaderno deI vIsItatorI

(3–1-2013)Sono tante le cose che vorrei dirti, caro don Luca. Ti voglio bene e il mio grande desiderio che da tanto è nel mio cuore è quello di fare qualcosa per i giovani; comunque la mia preoccupazione per il momento è quella di stare accanto ai miei figli; tu sai di cosa hanno bisogno e perciò ti raccomando tutta la mia famiglia. Se tu vuoi che io faccia qualcosa per gli altri giovani ti affido i miei progetti. (Firmato)Ti chiedo, Padre, la salute per tutta la mia famiglia, tanta felicità in compagnia del mio amore, e altre grazie. (Rita)

(15-1-2013)Carissimo don Luca, come sono contenta che il mio sogno si sia realizzato. Ora ti chiedo per tua intercessione di benedire, di aiutare, di sostenere quelle persone che tu sai e che porto nel mio cuore. (Imelda)

(19–1-2013)Grazie per l’incontro di preghiera nella tua casa, don Luca, in attesa della tua beatificazione. (Guido)Ti affidiamo, don Luca, il nostro percorso vissuto e da vivere… la nostra scelta di vita … il nostro matrimonio. (Marta – Samuele)Caro don Luca, ti affido tutta la mia famiglia e le mie nipotine e invoco la tua misericordia e benedizione. (Bianca)Don Luca, proteggi tutti e la mia famiglia, dacci salute e serenità, guidaci sempre per la retta via. (Nicole, Simone e altri)Caro, don Luca, ti chiedo la grazia della conversione di mio figlio. (Davide)

(13-3-2013)Carissimo don Luca, auguri per l’anniversario della tua ordinazione sacerdotale! Grazie per la tua immensa opera di educazione della gioventù, in particolare di mio figlio, tramite la cura e l’istruzione attuata dalle suore; ti raccomando la salute fisica e spirituale del prossimo pontefice romano e del papa emerito Benedetto XVI, nonché della mia famiglia nel segno dell’antica croce di Aquileia: unde origo inde salus. (Dante)Don Luca, prega per la mia famiglia. Non ti chiedo tanto, solo la salute per i miei nipoti, che crescano con la fede nel cuore e che stiano lontano dal male. (Merisio)

(13-4-2013)Alla tua intercessione affido la comunità delle suore maestre di santa Dorotea, da te voluta, una in particolare: la piccola comunità che è in Suc, Albania, Diocesi di Reshen. (Cristoforo, Vescovo)Don Luca Passi, proteggi tutta la mia famiglia e tutti i miei nipoti e quelli che Dio mi manderà; proteggici tutti insieme. (Loredana)Grazie per averci infuso il tuo ‘spirito’; fa che noi possiamo portarlo ed infonderlo in altri. Sii tu il nostro intercessore. (Antonietta)Giorno indimenticabile e gioia immensa per la tua beatificazione! Don Luca Passi, guidaci da lassù a camminare con la tua fede. (Bianca)Don Luca, ti ringrazio per aver fatto guarire Giulia. Aiutaci tutti. (Antonietta)Caro Padre Luca, ti affidiamo tutte le suore Dorotee, particolarmente noi di Cemmo ed anche la piccola congregazione del Buon Pastore che ora cammina con noi. Ti affidiamo tutte le giovani e i giovani in

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questa gioia del cuore, in cui sentiamo unite anche tutte le fondatrici. (Sr. Amelia)Caro don Luca fa’ che ci amiamo tanto per amare di più il Signore. (Sabina)

(14-4-2013)Signore Gesù, per intercessione del beato Luca ti affidiamo le intenzioni del nostro cuore e ti ringraziamo sin d’ora per quanto vorrai donarci. (Fabio–Anna)Grazie, d. Luca, per la tua “presenza” tra noi. Ti affido tutte le sorelle e confido in te. Sono felicissima di questo evento. (S. A.)Don Luca tu sai cosa ho nel cuore: Ti prego per tutta la mia famiglia e specialmente per i miei figli e nipoti. Godi la gloria del paradiso, insieme a Mariagnese e tutti i Passi. Grazie di tutto. (Ludovica Passi Melzi)

(16-4-2013)Merci a Dieu, a don Luca Passi pour son élévation au rang de bienheureuse. Je viens de te visiter dans ton reposons après ta Béatification. Prie pour nous, pour nos familles et particulièrement pou nos jeunes en Afrique. (Balola Vital)Gracias Beato Lucas por todas tus benediciones, a hora puedo decir “todo fine bendecido”, ayudame a ser un fuego ardente amor por el Reino de Dios. (Bertha Quiroz)

(9-5-2013)Sono qui per pregare il beato Luca Passi perché interceda per mia figlia Lucia ed ella guarisca dalla sua depressione, si avvicini a Gesù e possa vivere una vita serena, onesta ed equilibrata. Possa trovare il giusto compagno della sua vita. Ringrazio le suore per la grande gentilezza. (Luisa)

(11-5-2013)Don Luca, aiuta la mia zia perché possa tornare a sorridere. (Arianna)

(13-5-2013)Il piccolo resto della casa provinciale di Brescia è venuto a trovare don Luca per ringraziarlo dei doni della fede, della speranza e della carità che ha trasmesso

a tutte noi con la sua vita. Chiediamo la grazia di nuove vocazioni e della gioia per tutto l’Istituto. (Sr. Celina)Carissimo don Luca, chiedi per noi al Signore un po’ del tuo zelo apostolico.(Sr. Lucina)Ti sentiamo particolarmente “amico” e “compagno di viaggio”. Sii sempre a noi vicino. (Rosanna, Piermaria)

(12-4-2013)Ciao Sr. […]. Ti volevo tanto ringraziare per il dono della rivista che mi hai fatto avere. È un dono del Signore… Lo sento! Proprio ieri mi sentivo affranta per le difficoltà nel mettermi in opera per fare la volontà di Gesù…quella di salvare mio figlio (N). Non è facile perché ha rancore verso di me […]. Ma confido in Gesù. Ieri sera stavo leggendo il mio solito libro… ma non riuscivo perché i miei occhi si chiudevano

dal sonno. Poi, all’improvviso la rivista Ardere per Accendere. Apro… leggo e con una forza “ardente” comincio a leggere. E, non ho più sonno, anzi un’energia alimenta

fortemente il mio cuore: è Gesù. Lui che mi guida e che sempre risponde alle mie suppliche, che non mi lascia soffrire mai più di un giorno, che sempre mi viene incontro. Trovo nella correzione fraterna di don Luca Passi il metodo e la via per avvicinarmi a mio figlio […]. Testualmente leggo: “per voler aspettare circostanze più opportune, non si fa mai nulla […]. Si proceda come chi vuol fabbricare una casa, ed ha pochi mezzi di fortuna. Se non può completarla in un anno, si contenta di vederla terminata in dieci, e bada solo che quel poco che fa, sia stato secondo il disegno, altrimenti sarebbe e spesa e tempo perduto” (Pia Opera). Altre cose mi hanno “illuminato” nella lettura: te ne parlerò quando verrò a trovarti. Ti ringrazio e prego per te. Un abbraccio. “Gesù ci ama tantissimo e lo sento ogni giorno!”.

(Lettera firmata)

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BOFFO (Agnese) suor FABIA nata a San Zenone degli Ezzelini (TV) il 15.9.1938morta a Padova il 29.10.2013

Agnese, nasce il giorno della Vergine Addolorata. Trascorre la sua infanzia serena in una famiglia ricca di valori cristiani, circondata da quattro fratelli ed altrettante sorelle. Terminata la licen-za elementare, entra nell’Apostolinato a Padova, dove tra preghiera, lavoro e studio, matura la sua vocazione alla vita religiosa. Durante questo periodo frequenta il Patronato di San Benedet-to, dove vive una Comunità Dorotea. Lì, assieme ad altre ragazze, lavora in labo-ratorio e si specializza in maglieria. A 19 anni, maturato il suo cammino vo-cazionale, entra nell’Istituto delle Suore Maestre di Santa Dorotea, a Venezia, il 5 ottobre 1957.Agnese veste l’abito religioso il 30 ago-sto 1958 e le viene dato il nome di Fa-bia. Nel 1960 fa la prima professione e nel 1965 si dona definitivamente al Si-gnore con il suo sì per sempre!Suor Fabia non aspira a cose alte, dal punto di vista umano, ma si dedica, con umile generosità, a quelle attività della vita ordinaria, indispensabili per la vita delle comunità nella quale l’obbedien-za la porta per un lungo periodo della sua vita (laboratorio, cucina). Padova, Scorzè, Thiene, Maserada e dal 1993 a Padova! Tutto fa nella serenità, nel-la tranquillità, nella riservatezza, con

bontà e generosità, possiamo dire, in punta di piedi senza disturbare nessu-no. Senz’altro impara questo stile di vita da Gesù “mite ed umile di cuore” che incontra ogni giorno nella preghiera fre-quente, prolungata, intensa e fervente.Ma la vita silenziosa e serena di Suor Fa-bia, ad un dato momento, è visitata dalla sofferenza, cosa che tutti, in un modo o nell’altro, prima o poi incontriamo. La malattia si inserisce gradualmente nella sua vita, fino a diventare una vera croce, una croce pesante, che ad un certo mo-mento la inchioda su quel letto, da cui il Signore l’ha chiamata a sé, liberando-la dal pesante giogo e portandola a far parte della sua gioia. Lei non si ribella alla sofferenza. Anzi, con la forza che le viene dall’amore a Cristo Crocifisso, sa arricchire la sua vita di una nuova caratteristica: la sofferenza diviene per lei un modo nuovo di amare Gesù. La croce non la separa da Lui, ma la unisce a Lui più profondamente. Così il dolore diventa amore!Pensiamo e ne siamo certe, che Suor Fabia, alla fine di una vita, vissuta nel-la semplicità e segnata da una lunga e dolorosa sofferenza, giunto il momento di passare dalla Chiesa di quaggiù alla Chiesa celeste, Gesù l’ha chiamata con le parole dette un giorno alla folla che lo seguiva:“Vieni a me, tu Fabia, stanca e affatica-ta; ora e per sempre io ti darò ristoro. Sazierò la tua fame e sete di amore, per-ché sperimenterai in pienezza quanto ti ho sempre amato, sazierò la tua fame e sete di felicità, perché ti riempirò della mia gioia divina, E questa sarà la tua vita per l’eternità”. Chiude la sua esistenza nell’infermeria di Padova. Ora i suoi re-sti mortali riposano nel cimitero di Ca’ Rainati, suo paese natale.

Comunità di Padova

SALVATORI (Lea)suor ALESSANDRINAnata a Passo di Treia (Macerata),il 4.10.1928morta a Padova il 4.11.2013

Lea Salvatori conosce le Suore Dorotee del Beato Luca Passi, presenti in paese, le frequenta con amore e, guidata dalla lam-pada della fede e dell’amore, si prepara alle nozze con Cristo. Sente la chiamata alla vita contemplativa, ma, per motivi familiari, entra nella famiglia religiosa di Santa Doro-tea a Venezia il 3 ottobre 1956, a 28 anni.Il noviziato è per lei un tempo di intenso impegno, per adornarsi di tutte quelle virtù che la renderanno sempre più gradita allo Sposo divino che l’aveva scelta e chiama-ta. Chi l’ha conosciuta, da vicino, ricorda il suo fervore nell’attesa della Prima Pro-fessione avvenuta il 1 settembre 1959 che l’avrebbe legata a Cristo per tutta la vita.Lea con il nome nuovo di Suor Alessan-drina, può dire a Cristo con gioia: “Mi hai chiamato, eccomi Signore!”.Tra le molte caratteristiche che la distin-sero Suor Alessandrina e la resero cara a Dio e a quanti la incontrarono, nel percorso della sua lunga vita, ne spicca una: il suo grande amore per la preghie-ra e per la casa della preghiera, amore che si rifletteva in tutto il suo comporta-mento, nel rapporto con le consorelle e con quanti incontrava.

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La sua vicinanza a Cristo, mediante la pre-ghiera, non poteva non creare in lei anche un grande amore per la casa del Signore, la Chiesa, dove Cristo Sposo è presente e vivo, specialmente nell’Eucarestia.Ancora novizia viene mandata a Casier presso il Seminario dei Padri Sacramen-tini, poi nelle comunità di Asolo, Vene-zia, Roma e nel 1972 a Venezia, Casa Madre. A lei è affidata la cura della Cappella e del guardaroba, servizi che ha svolto con passione e meticolosità.Suor Alessandrina è stata un’ottima sar-ta! Quante consorelle ha reso felici so-prattutto a Venezia finché ha potuto!La vita trascorre, passa in fretta e per tutti giunge la vecchiaia con i suoi ma-lanni. E anche per suor Alessandrina si aprì l’ultima fase della vita, quella della sofferenza che la portò fino all’impossi-bilità di comunicare con gli altri.Suor Alessandrina è entrata nella inferme-ria di Padova il 25 novembre 2011. È stato, per lei, il tempo della grande attesa di in-contrare definitivamente lo Sposo. Poteva dire, e certamente diceva, con le parole del Salmo: L’anima mia attende il Signore.Ed il Signore venne, quasi in punta di piedi, una serena mattina di novembre, per dirle: Vieni, mia sposa, ricevi la co-rona che ti ho preparato. I suoi funerali sono stati celebrati il 7 novembre 2013 nella Cappella dell’Istituto e nel pome-riggio al suo paese natale, dove ora ri-posa vicino ai suoi cari.

Comunità di Padova

VANIN suor ROSALIAnata a Quinto il 21.12.1929morta a Padova il 14.11.2013

Rosalia ha vissuto con gioia e impegno la preparazione a divenire Suora Doro-

tea, prima nella sua famiglia, a Quinto di Treviso, poi a servizio dei sacerdoti di Santa Cristina: Mons. Tognana e il cap-pellano Don Luigi Spolaore, che erano di lei assai contenti perché era brava e svelta, sempre serena e allegra. Essen-do molto giovane e con tanta voglia di giocare, approfittava dei momenti liberi per andare a divertirsi con le ragazze della famiglia Durigon che abitava vici-no alla Canonica. E l’amica Rosalia Du-rigon, che la ricorda con affetto, quando doveva recarsi a Quinto in bicicletta volentieri si prestava a passare dalla sua mamma per alcune commissioni.A vent’anni, Rosalia Vanin entra in Isti-tuto a Venezia e alla vestizione le viene dato il nome “Prosdocima”; riprenderà poi quello di battesimo. Sua attitudine particolare fu la cura costante e l’amore ai fiori, la passione per il canto sacro. In qualche paese, dove è stata come edu-catrice nella scuola dell’Infanzia, ha gui-dato il coro per l’animazione liturgica.Quando è stata chiusa la Comunità a Ramon di Loria, dove ella era respon-sabile, si rese disponibile ad aiutare in una casa di riposo. Trasferita a Masera-da, si prodigò nei vari servizi alle sorel-le anziane, in particolare come autista per accompagnarle a visite e cure negli ospedali della zona. Quando si è creata la necessità di fare raggio con la scuola materna di Varago, ella visse questa esperienza di pendola-re per alcuni anni. Era molto espansiva, creava facilmente buoni rapporti con la gente. Ancora oggi la ricordano.Anche a Maserada riuscì a riorganizzare il “Coro Parrocchiale” dopo che il mae-stro in carica Graziano Santolin decise di rispondere al bel dono della chiamata ad entrare in Seminario. Ad Alessandro Facchin, giovane parrocchiano, Suor Rosalia scoprì il talento della musica e gl’insegnò con costante pazienza le pri-me nozioni, che poi egli perfezionò e completò al conservatorio.Nel 2002 venne mandata alla casa di ri-poso di Pagnano continuando il servizio che già svolgeva a Maserada. Le forze però cominciarono a diminuire e dopo alcuni anni fu trasferita a Venezia. Ne-cessitando dell’intervento di protesi al ginocchio, dopo l’operazione all’Ospe-dale di Monastier, fece la convalescenza a Maserada dove tornò stabilmente nel 2010. Riprese a coltivare la passione per i fiori e abbelliva con gusto la cappella; teneva compagnia alle sorelle che era-no stabilmente a letto recando conforto e pregando con loro. Nel gennaio 2013 si ammalò seriamente con forti e persi-

stenti febbri. Ricoverata all’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso, dopo varie indagini e lunga degenza non fu trovata la causa dei suoi mali, ma il fisico appariva visibilmen-te provato e un successivo ricovero in car-diologia evidenziò la fragilità del suo esse-re. Ritornata in Comunità aveva bisogno di molte attenzioni, e la Madre Provincia-le le propose di entrare nell’infermeria di Padova, più strutturata e funzionale. Suor Rosalia accettò con la speranza di guarire. La Superiora, Suor Francalisa, e le sorelle infermiere l’hanno accolta con tanto amo-re prodigandosi per la sua salute.Suor Rosalia ebbe uno sprazzo di ripre-sa, ma il male lavorò nascostamente. Morì il mattino del 14.11.2013 dopo aver ricevuto l’Eucaristia, mentre se-guiva la santa Messa trasmessa tramite microfono.Il rito funebre si svolse nella Cappella delle Suore, via S. Pietro; concelebrava-no: Mons. Angelo Cecchinato, cappella-no della casa, e Don Mirco Moro, par-roco di Maserada. Erano presenti i suoi fratelli, familiari e una discreta presenza di amici di Maserada.La salma è stata tumulata nel cimitero di Padova. Il 14 dicembre il coro “San Giorgio” ani-mò la S. Messa di trigesimo a Maserada, e vi fu la partecipazione dei parrocchia-ni e dei familiari.Grazie, Suor Rosalia, del tuo tratto di strada vissuto serenamente con noi. Ora dal Paradiso intercedi per noi luce, co-raggio, amore, fedeltà alle indicazioni del nostro Beato Fondatore che disse: “La carità domanda a ciascuno di pren-dersi a cuore la salvezza del prossimo” e “Io temo solo quando si manca di confi-denza in Dio”.

Le consorelle di Maserada e di Padova

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PARENTI DEFUNTI

Caterina Zani sorella di suor Bonaventura (Brescia, “Villa S. Giuseppe”)

Cristoforo Boldini papà di suor Caterina (Brescia, Via Marsala 30)

Maddalena Dusi sorella di suor Clemenzia (Brescia, “Villa S. Giuseppe”)

Carlo Sabatti fratello di suor Francesca (Calcinate)

fr. Romeo Pirazzo, dei Missionari d’Africafratello di suor Annaclara (Colle d’Anchise)

Sante Mazzuccofratello di suor Annapaola (Padova, Curia Provinciale)

Giovanni Cervifratello di suor Sara (Asolo)

Antonio Marangonfratello di suor Luciana (Vorno)

Giuseppe Vecchifratello di suor Gerardina (Padova, via S. Pietro)

Carmela Cappellettosorella di suor Giannamaria (Thiene)

Stefano Tasinazzofratello di suor Giannalberta (Padova, via S. Pietro)

Giuditta Bettariga Bergomimamma di suor Marialuisa (Roma, viale Vaticano)

Ilde Marosticasorella di madre Angela (Padova, Curia provinciale)

Bianca Andreolle Dal Broisorella di suor Isangela (Roma, Casa generalizia)

e di suor Maria Chiara (Padova, via S. Pietro)

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una guIda, un padre

all’alba del 13 febbraio, il Signore ha chiamato a sé Mons. Vincenzo Carbone, e con viva riconoscenza e affetto in tutte noi Dorotee si è ravvivato il suo ricordo ed elevata la preghiera di suffragio. Nato il 5-4-1920 a Mercogliano, provincia di Avellino e diocesi

dell’Abbazia Territoriale di Montevergine, fu ordinato sacerdote il 27-6-1943. Nel 1945 gli fu assegnata la Cattedra di Teologia Dogmatica nel Pontificio Seminario Regionale del Lazio Superiore, a Viterbo, svolgendo contemporaneamente anche l’incarico di Professore nell’Istituto Tecnico Statale e di Preside della Scuola Media e dell’Istituto Magistrale “G. Merlini”. Nel settembre 1959 fu chiamato a Roma da Papa Giovanni XXIII con l’incarico di collaborare nella Segreteria Generale del Concilio Vaticano II. La sua vita, già tutta a servizio della Chiesa, divenne da allora specificatamente rivolta alla preparazione e svolgimento di quel grande evento, con un ruolo assolutamente centrale, come prezioso ed intelligente assistente del Segretario Generale, Monsignor Pericle Felici, e come Segretario del Tribunale Amministrativo. Concluso il Concilio egli desiderava ritornare a insegnare a Viterbo, ma Paolo VI lo volle Archivista ufficiale dei documenti del Vaticano II. Con il suo solito stile di deferenza, Monsignor Carbone obbedì al Papa e con indicibile acribia e pazienza certosina si accinse a raccogliere tutti gli Atti del Concilio in 64 poderosi volumi. La sua ferrea memoria era poi un “computer” di quell’importante storia della Chiesa, e molti studiosi lo consultavano.

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A Roma abitò nel territorio della Parrocchia di S. Maria delle Grazie e le nostre suore studenti di Viale Vaticano subito lo conobbero, ne apprezzarono le doti e la sensibilità sacerdotale, tanto che con unanimità di voti (27 su 27) lo scelsero come loro Confessore Ordinario. Il 2-9-1960 fu inaugurata la cappellina nella nostra casa e quindi diverse furono poi le occasioni perché egli vi celebrasse la S. Messa con omelie sempre qualificate e dense di insegnamenti dottrinali. Da allora Monsignore accompagnò, con amore costante e paterno, la vita del nostro Istituto. In particolare ricordiamo le tappe più significative: il Capitolo Generale Speciale per l’unione dei tre Istituti; la revisione e riformulazione delle Regole e delle Norme; l’epistolario di Madre Guardini… Guidò molte suore con la direzione spirituale, corsi di formazione, esercizi spirituali. Era sempre pronto ad ogni richiesta di consiglio o di assistenza spirituale e per celebrazioni proprie dell’Istituto. Il Patriarca Card. Albino Luciani, sapendo quanto ci fosse vicino, dopo la morte di Paolo VI, gli telefonò a Mercogliano pregandolo di sostituirlo nella celebrazione del rito della Professione perpetua a Venezia il 3 settembre 1978, prevedendo di trovarsi in Conclave. Eletto Papa il 28 agosto, Giovanni Paolo I gli ritelefonò per assicurarsi che l’indomani avrebbe presieduto la nostra funzione. A seguito dell’avviso dato a tutte le Comunità della sua morte, molte risonanze sono pervenute alla Superiora generale.

“Tutte partecipiamo a questo lutto nella preghiera e nella speranza, perché siamo certe di aver ricevuto un immenso dono divino nella persona di Mons. Vincenzo Carbone e rendiamo lode e ringraziamento al Padre che ce lo ha dato. In particolare Madre Vincenza, Sr. Scolastica, la sottoscritta con le sorelle che a vario titolo lo hanno conosciuto e apprezzato ne conservano un ricordo grato e orante.

Il Signore ha rivelato in Lui il suo Amore paterno: Monsignore infatti ci ha aiutato e sostenuto con rara competenza, anche nei momenti più delicati del cammino della nostra Famiglia religiosa, e con indefesso e amoroso servizio nell’approfondimento del Carisma e nella precisazione della Storia dell’Istituto che Egli ha molto amato […]” - Suor Gerolama.

“Abbiamo ricevuto la comunicazione della morte del nostro carissimo padre e amico, Monsignor Vincenzo Carbone. Non nascondo che la notizia mi ha commossa, ripercorrendo tutto il suo prezioso servizio non solo alla Chiesa e all’Istituto, ma anche e in modo particolare alla sottoscritta. Tanto per indicare un suo importante intervento a mio favore: se non ci fosse stato lui, credo che non avrei potuto tenere nella mia scelta di diventare medico. Il Signore lo ricompenserà anche solo per questo! Quando penso a quante persone (sono migliaia e decine di migliaia) ammalate, povere, rifugiate, carcerate, ecc. ho potuto aiutare e continuo ad aiutare, grazie al mio servizio e alla mia competenza di medico, non posso non ringraziare il Signore e il suo servo, Mons. Carbone! E che il nostro padre continui a pregare per noi dal cielo!” – Suor Lucia n

Suor Ritalberta Mazzoni

Chi si fida di Dio,mette Dio in obbligo

di prendersi cura di lui

In punto di mortenon piangete,

è l’ora della gioia

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WALTER KASPER,Il vangelo della famigliaQueriniana Brescia 2014, € 9

Tema del libro è la “buona notizia” della famiglia: la famiglia, cioè, nella prospettiva della fede cristiana. Fra l’altro, il teologo e cardinale tedesco suggerisce che non basta considerare il complesso e spinoso problema dei divorziati risposati esclusivamente dal punto di vista canonico-giuridico e dalla prospettiva della Chiesa come istituzione; abbiamo invece bisogno di cambiare paradigma, considerando la situazione – come ha fatto il buon Samaritano – anche dalla prospettiva di chi soffre e chiede aiuto. Su queste posizioni, è aperto il dibattito.Aprendo i lavori del concistoro straordinario sulla famiglia, il 20 febbraio 2014 papa Francesco si è rivolto al collegio cardinalizio con queste parole: «La famiglia rappresenta nel mondo come il riflesso di Dio, Uno e Trino. Eppure la famiglia oggi è disprezzata, è maltrattata, e quello che ci è chiesto è di riconoscere quanto è bello, vero e buono formare una famiglia, essere famiglia oggi; quanto è indispensabile questo per la vita del mondo, per il futuro dell’umanità. Ci viene chiesto di mettere in evidenza il luminoso piano di Dio sulla famiglia e aiutare i coniugi a viverlo con gioia nella loro esistenza, accompagnandoli in tante difficoltà, con una pastorale intelligente, coraggiosa e piena d’amore». Dopo la relazione, lo stesso papa Francesco si è complimentato così: «Nel lavoro del cardinal Kasper, che vorrei ringraziare, ho trovato profonda teologia, direi anche un pensiero sereno nella teologia. È piacevole leggere teologia serena. E ho trovato anche il sensus Ecclesiae, l’amore alla Madre Chiesa. Mi ha fatto bene e mi è venuta un’idea: questo si chiama “fare teologia in ginocchio”. Grazie! Grazie!». n

JOAN CHITTISTERFelicitàQueriniana Brescia 2013,

«Joan Chittister non delude mai; ma qui ha superato se stessa. Il libro è uno studio profondo, perspicace e ampio del tema “felicità”. E tuttavia è anche molto più di questo. Il lettore sarà sicuramente più saggio, dopo averlo letto: si sentirà più completo e – sono pronta a scommetterlo – più sereno» (Phyllis Tickle).Che cos’è la felicità? Felicità e piacere sono la stessa cosa? La felicità è una chimera, è un risultato da perseguire con fatica o la si può anche conseguire del tutto? E perché mai la felicità, anche in ambito cristiano, a volte non pare essere considerata un valore? Certo, la felicità non deriva dalle cose che si possiedono, ma perché sentirsi in colpa se si va alla ricerca della felicità? Siamo stati educati a fare ciò che agli altri dà felicità, non a noi stessi. Siamo stati educati a valorizzare la fatica e il lavoro, l’obbedienza e la disciplina, a essere persone forti e indipendenti: tutte cose importanti e doverose. Se però queste cose mi distolgono dalla valorizzazione dei miei talenti o dei miei desideri, allora forse trascorro la vita mettendo a tacere una parte costitutiva della mia umanità: e la felicità diventa una creazione fittizia della mia fantasia. Questo libro rema controcorrente. Sviluppa una archeologia della felicità, operando uno scavo profondo. Mette ordine nel pietrame di secoli, negli archivi dei principali campi di studio dell’umano – biologia, neuroscienze, psicologia, sociologia, filosofia, religione… – per capire le molteplici dimensioni di ciò che di epoca in epoca è stato chiamato ‘felicità’. Non ne risulterà una formula magica, valida per tutti. Ma, questo sì, un insieme di intuizioni, domande e provocazioni utili a riflettere personalmente sulla felicità, sul punto in cui realizziamo al meglio ciò che siamo destinati a essere. n

invito alla lettura a cura di Suor Fernanda BarBiero

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MICHAEL DAVIDE SEMERAROEtty Hillesum - Umanità radicata in Dio Paoline, Milano 2013, € 13,50

L’itinerario spirituale di Etty Hillesum, a settant’anni dalla sua morte nel campo di sterminio di Auschwitz (30 novembre 1943). Si tratta di un omaggio che fratel Michael Davide Semeraro rende alla giovane ebrea e al suo incredibile percorso spirituale ed esistenziale. Inizialmente lontana da Dio, Etty lo scopre guardando in profondità dentro se stessa e con l’aiuto di un’assidua preghiera.Nel suo diario scrive: “Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio”. In questi settant’anni il seme della vita di Etty Hillesum è diventato un albero su cui tanti hanno trovato rifugio e conforto attingendo a piene mani il balsamo necessario alle molte ferite della vita: le ferite ricevute, ma anche quelle provocate con la superficialità, l’egoismo, l’indifferenza.Diversamente dalle altre recenti pubblicazioni su questa figura poliedrica, il libro di fratel Michael Davide si pone come modello per un percorso spirituale proponibile anche alle nuove generazioni, con il pressante invito a cercare Dio nella propria vita, partendo dall’incontro vero e profondo con se stessi.Scrive l’autore nell’introduzione: “Etty Hillesum è testimone della possibilità di trasformare la storia accettando di trasformare profondamente e radicalmente la propria vita. […] In queste pagine non ci sono chissà quali novità su Etty e sul suo percorso né sul suo destino, ma sono un modo per creare un clima di ri-ascolto. Proprio come se ci trovassimo attorno al focolare per risentire le stesse storie, quelle di sempre. Eppure ogni volta che le riascoltiamo troviamo qualcosa che ritorna e nello stesso tempo rincuora”. n

card. LUIS ANTONIO GOKIM Tagle, arcivescovo di ManilaRaccontare Gesù. Parola – Comunione – MissioneEMI, 2014, pp. 64, € 6,90

«è uno scandalo che ogni giorno abbia luogo una cancellazione di tanti “ultimi” del mondo». Con questa denuncia si chiude il nuovo libro del cardinale Luis Antonio Gokim Tagle, arcivescovo di Manila, voce autorevole della chiesa asiatica e tra i nomi più in vista della «nuova» chiesa di papa Francesco. Nel volumetto il cardinale filippino affronta la missione della chiesa nel mondo sotto tre aspetti: il primato della parola di Dio, la centralità dell’eucaristia come offerta di sé al prossimo, il ruolo dei cristiani nel contesto asiatico, dove i credenti in Cristo rappresentano una piccola minoranza (3%), osteggiata e spesso perseguitata, ma anche «piccolo gregge» fedele alla propria identità.Tagle affronta, con la sapienza del teologo e la passione del pastore «con l’odore delle pecore», per usare un’espressione cara a Papa Francesco, il rapporto tra essere credenti e il mondo contemporaneo partendo dagli «ultimi», i primi destinatari dell’annuncio di Cristo: «I poveri, le bambine, le donne, i rifugiati, i migranti, le minoranze, i popoli indigeni, le vittime di diversi tipi di violenza domestica, politica ed etnica, l’ambiente, vedono soffocare le loro storie. La chiesa racconta la storia di Gesù, le cui parole spesso rimasero inascoltate. La chiesa in Asia gli rende omaggio riconoscendosi nella funzione di narratrice delle storie dei senza voce, in modo che la voce di Gesù sia udita nelle loro storie soppresse». n

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60 Ardere per Accendere

Anno LII - n. 1 - Gennaio/Aprile 2014

Finito di stampare nel mese di Aprile 2014

PERIODICO QUADRIMESTRALE DELLE SUORE MAESTRE

DI S. DOROTEA DI VENEZIA

Iscritto sul Registro della stampa del Tribunale di Roma

al N. 367/’82 del 9.11.1982

Direttore Paola Galetti (Suor Eliana)

Coordinatrice Suor Fernanda Barbiero

Gruppo redazionale Andrea Ballarin - Fernanda Barbiero

Nicola Chiarot - Eliana Galetti Maria Elisa Perinasso - Emmarosa Trovò

Foto a cura della Redazione

Progetto grafico, impaginazione trattamento immagini

Pacifico Montozzi, Punto a capo - Roma

Stampa Tipografia “Città Nuova” della PAMOM

Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma

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