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Si apre con questo numero de Il Ponte una nuova rubrica che parlerà di famiglia. Chi può essere seriamente titolato a farlo? Sono così tan- ti e così diversi i modi in cui è possibile oggi interpretare la vocazione più antica e difficile del mondo… Per questo in queste righe non par- leremo di famiglie modello, ma di famiglie reali, non di famiglie esemplari, ma di esempi di famiglie, scelte non per meriti particolari, ma solo in quanto protagoniste di storie che vale la pena raccontare. E oggi iniziamo con Pietro, Elisa e Daniela. A dire il vero come sala parto la nostra è stata un po’ particolare. Due gran- di finestroni da cui si vedeva un albero di cachi, una collezione di dalmata sul bel mobile antico, da quello minuscolo, stile regalo dell’ovetto Kinder, a quelli più grossi, il salotto di una casa, sede della Comunità. Grande l’e- mozione comunque quando dal retro della porta, dopo un’occhiata di na- scosto, è sbucato Pietro, il nostro “neonato di cinque anni” che ci ha subito messo al corrente del fatto che adorava la cioccolata, proprio non soppor- tava i piselli e che di mamme ne aveva già avute un paio e “non voleva una mamma nuova”. Particolare è stata anche l’ecografia, una foto mostrata dall’assistente so- ciale un paio di settimane prima, dove si vedeva un bel bimbo sotto una vi- te con in mano un grappolo d’uva: una foto che confortava, in fondo noi siamo un po’ campagnoli. Molto particolare anche il travaglio, durato più o meno tre annetti, dal mo- mento della consegna della domanda ai servizi sociali, e le visite di con- trollo dove ci si sentiva un po’ sotto pressione con tutte quelle domande sulla vita personale e familiare, fatte da psicologi e assistenti sociali. Un po’ particolare anche quello che succede dopo la notizia del concepi- mento, che corrisponde all’idoneità del Tribunale dei minori, perché anzi- ché pensare al nome del nascituro, a camerette e corredini si inizia a girare l’Italia per visitare enti che si occupano di adozione, alla ricerca di qualcu- no più serio degli altri con cui scegliere il paese straniero per dare il man- dato. Per il resto la storia di una adozione è una storia uguale uguale a quella di una coppia che concepisce un figlio in modo naturale. Al desiderio di avere una famiglia si aggiunge quello di dare una famiglia a un bimbo che quella famiglia non ce l’ha oppure non è in grado di crescerlo. L’esperienza di tante coppie conosciute durante il cammino ci porta a dire che all’adozione si arriva in genere dopo averle provate tutte (o quasi). E dopo tante domande del tipo “ma perché tutti riescono ad avere figli e a noi non arrivano?”. E così poco a poco si inizia ad accarezzare l’idea, si inizia a documentarsi un po’, a cercare qualche coppia che l’adozione l’ha già affrontata, si inizia anche – come dicono gli psicologi – ad elaborare il lutto della gravidanza mancata e a concentrarsi, anima e cuore, sul nuovo progetto. Certo i dubbi non mancano. Intendiamoci, un bambino è sempre un bam- bino ma…..che storia avrà? Sarà sano? Ce la faremo? Riuscirà a inserirsi in un contesto nuovo, magari arrivando da un altro Paese, senza conoscere la lingua? Poi pian piano abbiamo scoperto che era assolutamente possibi- le e anche bello essere genitori in un modo diverso e con il tempo abbiamo sentito che questo figlio ci cresceva dentro. Perché alla fine il cammino dell’adozione, se maturato e vissuto nel profon- do, è un bel cammino, di cui, pur nella difficoltà, nell’ansia e nell’incertezza delle molte scelte che si incontrano, ringraziamo Dio con tutto il cuore. E dopo? Dopo è iniziato il cammino di famiglia, come per tutti coloro che hanno un figlio. A dire il vero senza problemi particolari. Certo all’inizio Pietro, che cam- biava il terzo asilo in due anni, qualche bizza l’ha fatta, tipo nascondersi sotto i tavoli dove per stanarlo c’è andata tutta la pazienza della maestra Nadia. Ma la voglia di famiglia era tanta anche per lui e tutto era una sco- perta: il pc, mai visto prima, dove vedere i film tipo Nemo o giocare a Ma- dagascar, le serate con gli amici dove immancabilmente era il protagoni- sta, le vacanze al mare, la casa in campagna con la cagnolina Lady che al- l’inizio lo terrorizzava, salvo poi diventare sua grande amica. Poi la scuola, senza drammi ma a dire il vero senza troppa passione, le esperienze scout, i campi con la parrocchia, le prime uscite con gli amici, esperienze normali di crescita dove, ed è questa certamente una conclusio- ne dell’articolo, non fa grande differenza se si è figli naturali o adottivi. Oggi Pietro ha 17 anni. A dire il vero che sia un ragazzo adottato ce lo sia- mo scordati, bisogna veramente pensarci per farselo tornare in mente… e se lo è scordato anche lui. I problemi ci sono, la scuola continua sempre ad essere un ostacolo e guar- dandosi allo specchio il naso proprio non piace... ma sono i problemi di tut- ti i ragazzi nell’adolescenza, l’adozione al momento non è vissuta come un problema in più. Che dire? Un’esperienza che consigliamo. Certamente la nostra può dirsi buona, ma vivendo a contatto con tante coppie adottive possiamo dire che le esperienze negative sono poche. Alle coppie che stanno pensando all’adozione, che sia nazionale o interna- zionale, possiamo dire di andare avanti senza voltarsi mai, senza farsi inti- morire da servizi sociali, tribunali, associazioni. I bambini, sia italiani che stranieri, hanno bisogno di una famiglia e i geni- tori adottivi riceveranno comunque un affetto incredibile e quello che c’è dietro l’angolo è solo felicità. Elisa e Daniele ANNO XIV - NumerO 4 - settembre 2016 La vignetta di Roberta «Ora le tende nella mia testa...» Ogni tappa della vita od ogni esperienza importante ha un proprio simbolo. Se penso al mio primo giorno delle medie, mi viene in mente una finestra impolverata con una veneziana un po’ piegata sulla destra. Se penso alla Juve, vedo tanti gradini da scalare per mano al nonno per arrivare al nostro posto lassù in alto al Delle Alpi. Se penso a tutti i weekend di inizio della scorsa estate o alla Sindone, arrivano le tende. Tende grandi, blu, con una porta sul davanti e 4 finestre: 12 tende in due file da 6 e in mezzo il prato. Il blu è un po’ scolorito, in realtà. Per chiudere bene la porta ci sono tanti lacci, come quelli del montgomery; ho scoperto che si chiama “chiusura ad alamaro”. Il mio montgomery ha la cer- niera, perché non ho mai voglia di mettere i bottoni ne- gli occhielli. E la porta della tenda ha tanti occhielli. Ol- tre alle chiusure ad alamaro, bisogna anche inserire al- tri cordoni bianchi in dei buchini con un meccanismo particolare, ma questo ho imparato a farlo dopo diversi giorni e a spiegarlo credo non imparerò mai. Dopo tutti questi cordini, la tenda è chiusa. Dentro la tenda ci sono 10 brandine. Sopra ogni brandina mettiamo un cuscino e un lenzuolo usa e getta. Le tende ci sono perché siamo nel Villaggio Giovani, in viale Thovez, nel parco del Seminario Minore. Ogni weekend (ma a volte anche di settimana) arrivano fino a 120 ragazzi da tutta Europa, per vedere la Sindone o le case di don Bosco. Arrivano in aereo dalla Puglia o in furgone dal Veneto o in auto dall’Austria. Sono 4 universitari, 10 seminaristi, 50 giovanissimi. Sono accompagnati da un giovane parro- co parigino con la talare e gli occhialini, che al mattino dirige un canto a mille voci; o da un frate africano som- merso da ragazzini delle medie che gli saltano in testa; o da un animatore che urla fortissimo; o da un’educatri- ce con una figlia di due mesi che dalla Sicilia ha portato il suo gruppo di quarta superiore. Arrivano al pomerig- gio o a mezzanotte. Vogliono pregare un po’, giocare ad un mega giallo che finisce con il video di don Bosco che svela il colpevole, o solo dormire. Tutti vogliono la colazione. Allora arrivano altri volontari. Io e Sandro dormiamo lì (non nelle tende), ma gli altri arrivano da tutta Torino per aiutarci a preparare latte, caffè o te e bi- scotti alle 7 del mattino. I francesi non capiscono mai che il caffè è forte e si riempiono un tazzone intero. Poi puliamo il tendone della colazione, che non è blu, ma bianco. E poi puliamo le tende: si devono togliere tutte le brandine, ma la porta è stretta. Poi si spazza. Poi si aprono le finestre. Ogni volta che qualcuno dorme, bi- sogna pulire bene anche negli angoli, perché ogni bri- ciola dimenticata porta file e file di formiche o ragni enormi. Poi si lavano le cose della colazione e i bagni, che sono più facili perché si usa la gomma. Invece nelle tende fa caldo, la porta stretta e le brandine pesanti da portare fuori e poi dentro. E ci sono solo due scope e una paletta e un solo cestino, lontano dalle tende. Quel periodo me lo ricordo anche perché è stato uno dei pochi periodi in cui guardavo le previsioni speran- do non piovesse. Invece ha piovuto. Quando piove normale, bisogna solo andare a controllare che nessuna copertura della finestra sia stata dimenticata su e che l’infinita procedura di chiusura della tenda sia stata eseguita correttamente. Se un solo piccolo passaggio è stato dimenticato, puoi scommettere che la tenda sia allagata. Anche se tutto è stato fatto bene, puoi scom- mettere che tutte le 12 tende siano allagate se la Prote- zione Civile dice che pioverà fortissimo e viene a con- trollare per verificare che le tende siano ancora in piedi dopo un lungo temporale. E allora non importa quale giorno della settimana sia o che ora sia o se Sandro è a lavorare o se io dovrei studiare, bisogna aprire tutte le chiusure con le dita incrociate e togliere le brandine e poi togliere l’acqua con la scopa. Quando non ha piovuto per tutta la settimana, puoi scommettere che ci siano le formiche. Non è il caso che i pellegrini arrivino e trovino i cordoni di insetti da una tenda all’altra. Allora bisogna andare a controllare ogni due giorni e togliere le formiche, i ragni, le forbici. So- no stati due mesi intensi. Abbiamo lavorato tanto. Pen- so alle tende. Piene di ragazzi in festa che riempivano di allegria i vuoti lasciati dal sonno. Un anno dopo, una settimana fa, le rivedo. Lo so che non erano nuove, che avevano già ospitato i terremota- ti, pellegrini da una casa distrutta a una da ricostruire. Ma sono ricomparse davanti ai miei occhi in tv a mi- gliaia di chilometri più a sud di dove le avevo lasciate. Sono ancora più scolorite e ancora più piene di ragazzi. Però nella tendopoli di San Ferdinando, vicino a Rosar- no, non ci sono le stesse grida allegre. Il pellegrinaggio di quei pellegrini doveva essere dalla morte alla vita. In- vece li ha portati ad una morte lenta. Ora le tende nella mia testa sono piene anche quando dovrebbero essere completamente svuotate e ripulite per togliere le bricio- line. Sono caldissime e fuori non c’è la freschezza della basilica di Colle don Bosco o la profondità del percorso verso la Sindone, ma campi di pomodori da raccogliere per pochi centesimi l’ora. Sono allagate quando piove tanto come adesso. Sono aperte, perché chiuderle è un processo lungo minuti, e quindi piene di insetti. Su ogni brandina ordinata non ci sono cuscini e lenzuola usa e getta per distrarre dalla scomodità lunga una o due notti al massimo, ma cuscini e lenzuola da riutilizzare sulla brandina che è il letto. Le tende nella mia testa non sono più il simbolo di un periodo entusiasmante, ma una realtà che non molto lontano da qui imprigiona. Elisa Testera Vi ricordate l’estate del 2005? Eravamo tutti proiettati verso le XX Olimpiadi Invernali. Una immagine scolpita nella mente di tutti: Chiamparino che esce dall’aereo e sventola la bandiera olim- pica con un entusiasmo e una eccitazio- ne che ha contagiato ognuno di noi. Poi la corsa ai preparativi a 360°: cantieri di ogni genere, dalla metropolitana alla facciata del più piccolo dei condomini, non solo in città ma in tutta la provincia, non solo nei comuni sede di gare ma in ogni dove, sino alla più piccola frazione di montagna. Abbiamo messo il vestito della festa, non solo alle cose ma anche nella nostra mente. In quegli anni tutto sembrava possibile. C’era il sapore del riscatto agli occhi dell’Italia e del mon- do della prima Capitale d’Italia, spesso dimenticata e sempre in ombra rispetto a Roma e Milano. In quell’estate la feb- bre delle Olimpiadi cominciava a salire contagiando tutti, anche chi non era di- rettamente coinvolto in qualche prepa- rativo. Pragelato, agosto 2005, come in molte sedi di gare, si tiene la cerimonia dell’alza bandiera. Stefania Belmondo, i bambini che hanno partecipato all’E- state Ragazzi, il sindaco e moltissime persone, mentre risuonano le note del- l’inno di Mameli, piangono lacrime di gioia e di speranza. strada senza rinunciare a nessun privi- legio, senza tagli agli stipendi o perlo- meno gesti, magari simbolici che fac- ciano capire concretamente la condivi- sione dei sacrifici con i cittadini. Perlo- meno questa è la percezione di tutti. Non c’è più destra o sinistra, centro o periferia, quartiere Crocetta o Mirafiori sud, upper class o lower class, profes- sionista o esodato senza stipendio né pensione, laureato o con la licenza me- dia, ma solo un esercito di disillusi della politica e di anni di amministrazione lo- cale che non tenta neppure simbolica- mente di essere vicina ai problemi della gente comune. Perlomeno questa è la percezione generale. Perciò, caro Fassino, niente di perso- nale, ma neppure tu hai saputo trasmet- tere la tua vicinanza politica e concreta ai bisogni delle persone. Non è bastato essere un gran lavoratore e tutto som- mato un buon amministratore, meglio sicuramente di moltissimi altri. Al citta- dino medio, alla sinistra storica della città, alla Torino operaia, non basta più. Così dopo 20 anni di sindaci di sinistra eletti al primo turno, le elezioni di giu- gno 2016 hanno rappresentato un vero e proprio terremoto, così profondo e ra- to allungamento dell’età pensionabile, gli esodati, cioè le migliaia di persone che hanno firmato un patto con lo Stato con una previsione di pensione, la- sciando volontariamente il lavoro sulla base di questo contratto, per poi vedersi cambiare le carte in tavola, unilateral- mente e fraudolentemente. Oggi rispetto a 10 anni fa siamo tutti più poveri, più stanchi, delusi e con poche speranze per il futuro. Le prospettive di una serena e prospera vecchiaia per chi ha lavorato tutta una vita, si allontanano inesorabilmente e si trasformano in un miraggio. Dopo gli studi, la possibilità di mettere a frutto i propri sforzi nella città in cui si è cresciuti, in cui si è stu- diato, è diventato un privilegio per po- chissimi, per quei pochi che hanno qualche “santo in paradiso”. Il divario, o gap per usare un termine di moda, tra la politica e i cittadini è aumentato sem- pre di più. Mentre i cittadini si dibatto- no tra mille problemi, la sensazione che nei palazzi della politica chi fa parte della “casta” non stia facendo nessun sacrificio neppure formale o simbolico è sempre più radicata. Mentre tutti noi paghiamo ogni giorno più tasse, faccia- mo delle rinunce su tutti i fronti, sembra che i politici, gli amministratori, i diri- genti comunali, proseguano per la loro Poi l’ubriacatura delle Olimpiadi, l’a- poteosi delle notti bianche olimpiche con milioni di persone felici e spensie- rate per le strade di una Torino bellissi- ma. Le XX Olimpiadi Invernali di Tori- no sono universalmente considerate tra quelle meglio amministrate e meglio riuscite della storia. E poi? Poi la delusione a metà delle grandi opere mai finite o terminate a fatica dopo dieci anni di lungaggini, interruzioni, fallimenti delle imprese coinvolte… Molti dei siti olimpici di- menticati e lasciati a se stessi, invece di rappresentare un’opportunità, si sono trasformati in cattedrali nel deserto, in monumenti alla cattiva amministrazio- ne, fino al definitivo abbandono o addi- rittura allo smantellamento. Solo Torino ha saputo in parte sfruttare l’immagine olimpica trasformandosi in città turistica, fino al grande successo degli ultimi anni quando il Museo Egi- zio e la Reggia di Venaria sono annove- rati tra i siti più visitati d’Italia. Ma tutto questo non è bastato. La crisi interna- zionale che attanaglia tutti i settori, il trasferimento della sede amministrati- va e produttiva delle principali fabbri- che torinesi, la cronica mancanza di la- voro dei giovani e non solo, il progres- sivo irreversibile e all’apparenza infini- Suor Rosalia e suor Ruth quanto prima verranno ad abitare i lo- cali della nostra parrocchia. In attesa di conoscerci sempre meglio, Il Ponte dà loro un sin- cero benvenuto e invia un grazie riconoscente a chi le ha aiutate a fare questa scelta. Fanno parte dell’Istituto Id di Cristo Redentore dei Missio- nari e Missionarie Identes (in spagnolo Instituto Id de Cristo Redentor) che è un istituto di vi- ta consacrata di diritto pontifi- cio fondato da Fernando Rielo Pardal (1923-2004). «Identes» è una parola composta dall’impe- rativo del verbo spagnolo «Ir» (cioè andare); Id, ispirato nelle parole di Cristo «Andate dun- que e fate discepoli tutti i popo- li, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spiri- to Santo» (Mt 28,16-20), e dalla desinenza del participio latino entes. A distanza di pochi anni dall’ulti- mo terremoto con vittime e danni ingenti, siamo di nuovo qui a contare morti, feriti e case di- strutte. Le mille polemiche delle scorse settimane sulla mancata preven- zione (che avrebbe molto proba- bilmente reso meno pesante il bi- lancio di questa tragedia) non hanno messo in ombra la genero- sità di molti, dai soccorritori pro- fessionali ai volontari, ai cittadini che hanno subito donato sangue, generi di prima necessità e dena- ro, perché spesso dalle tragedie più grandi scaturiscono gesti di solidarietà ancora più grandi. Se la sensibilità ai bisogni degli altri aumenta nel momento in cui l’emotività e la commozione han- no il sopravvento, ricordiamoci di non metterla da parte nel tempo successivo. (continua in quarta pagina)

ANNO XIV - NumerO 4 - settembre 2016 · in un contesto nuovo, magari arrivando da un altro Paese, senza conoscere ... Juve, vedo tanti gradini da scalare per mano al nonno ... Un

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Page 1: ANNO XIV - NumerO 4 - settembre 2016 · in un contesto nuovo, magari arrivando da un altro Paese, senza conoscere ... Juve, vedo tanti gradini da scalare per mano al nonno ... Un

Si apre con questo numero de Il Ponte una nuova rubrica che parleràdi famiglia. Chi può essere seriamente titolato a farlo? Sono così tan-ti e così diversi i modi in cui è possibile oggi interpretare la vocazionepiù antica e difficile del mondo… Per questo in queste righe non par-leremo di famiglie modello, ma di famiglie reali, non di famiglieesemplari, ma di esempi di famiglie, scelte non per meriti particolari,ma solo in quanto protagoniste di storie che vale la pena raccontare.E oggi iniziamo con Pietro, Elisa e Daniela.

A dire il vero come sala parto la nostra è stata un po’ particolare. Due gran-di finestroni da cui si vedeva un albero di cachi, una collezione di dalmatasul bel mobile antico, da quello minuscolo, stile regalo dell’ovetto Kinder,a quelli più grossi, il salotto di una casa, sede della Comunità. Grande l’e-mozione comunque quando dal retro della porta, dopo un’occhiata di na-scosto, è sbucato Pietro, il nostro “neonato di cinque anni” che ci ha subitomesso al corrente del fatto che adorava la cioccolata, proprio non soppor-tava i piselli e che di mamme ne aveva già avute un paio e “non voleva unamamma nuova”.Particolare è stata anche l’ecografia, una foto mostrata dall’assistente so-ciale un paio di settimane prima, dove si vedeva un bel bimbo sotto una vi-te con in mano un grappolo d’uva: una foto che confortava, in fondo noisiamo un po’ campagnoli.Molto particolare anche il travaglio, durato più o meno tre annetti, dal mo-mento della consegna della domanda ai servizi sociali, e le visite di con-trollo dove ci si sentiva un po’ sotto pressione con tutte quelle domandesulla vita personale e familiare, fatte da psicologi e assistenti sociali.Un po’ particolare anche quello che succede dopo la notizia del concepi-mento, che corrisponde all’idoneità del Tribunale dei minori, perché anzi-ché pensare al nome del nascituro, a camerette e corredini si inizia a girarel’Italia per visitare enti che si occupano di adozione, alla ricerca di qualcu-no più serio degli altri con cui scegliere il paese straniero per dare il man-dato.Per il resto la storia di una adozione è una storia uguale uguale a quella diuna coppia che concepisce un figlio in modo naturale. Al desiderio di avere una famiglia si aggiunge quello di dare una famiglia aun bimbo che quella famiglia non ce l’ha oppure non è in grado di crescerlo.L’esperienza di tante coppie conosciute durante il cammino ci porta a direche all’adozione si arriva in genere dopo averle provate tutte (o quasi). Edopo tante domande del tipo “ma perché tutti riescono ad avere figli e a noinon arrivano?”. E così poco a poco si inizia ad accarezzare l’idea, si inizia a documentarsiun po’, a cercare qualche coppia che l’adozione l’ha già affrontata, si iniziaanche – come dicono gli psicologi – ad elaborare il lutto della gravidanzamancata e a concentrarsi, anima e cuore, sul nuovo progetto.Certo i dubbi non mancano. Intendiamoci, un bambino è sempre un bam-bino ma…..che storia avrà? Sarà sano? Ce la faremo? Riuscirà a inserirsiin un contesto nuovo, magari arrivando da un altro Paese, senza conoscerela lingua? Poi pian piano abbiamo scoperto che era assolutamente possibi-le e anche bello essere genitori in un modo diverso e con il tempo abbiamosentito che questo figlio ci cresceva dentro.Perché alla fine il cammino dell’adozione, se maturato e vissuto nel profon-do, è un bel cammino, di cui, pur nella difficoltà, nell’ansia e nell’incertezzadelle molte scelte che si incontrano, ringraziamo Dio con tutto il cuore.E dopo? Dopo è iniziato il cammino di famiglia, come per tutti coloro chehanno un figlio.A dire il vero senza problemi particolari. Certo all’inizio Pietro, che cam-biava il terzo asilo in due anni, qualche bizza l’ha fatta, tipo nascondersisotto i tavoli dove per stanarlo c’è andata tutta la pazienza della maestraNadia. Ma la voglia di famiglia era tanta anche per lui e tutto era una sco-perta: il pc, mai visto prima, dove vedere i film tipo Nemo o giocare a Ma-dagascar, le serate con gli amici dove immancabilmente era il protagoni-sta, le vacanze al mare, la casa in campagna con la cagnolina Lady che al-l’inizio lo terrorizzava, salvo poi diventare sua grande amica.Poi la scuola, senza drammi ma a dire il vero senza troppa passione, leesperienze scout, i campi con la parrocchia, le prime uscite con gli amici,esperienze normali di crescita dove, ed è questa certamente una conclusio-ne dell’articolo, non fa grande differenza se si è figli naturali o adottivi.Oggi Pietro ha 17 anni. A dire il vero che sia un ragazzo adottato ce lo sia-mo scordati, bisogna veramente pensarci per farselo tornare in mente… ese lo è scordato anche lui.I problemi ci sono, la scuola continua sempre ad essere un ostacolo e guar-dandosi allo specchio il naso proprio non piace... ma sono i problemi di tut-ti i ragazzi nell’adolescenza, l’adozione al momento non è vissuta come unproblema in più.Che dire? Un’esperienza che consigliamo. Certamente la nostra può dirsibuona, ma vivendo a contatto con tante coppie adottive possiamo dire chele esperienze negative sono poche. Alle coppie che stanno pensando all’adozione, che sia nazionale o interna-zionale, possiamo dire di andare avanti senza voltarsi mai, senza farsi inti-morire da servizi sociali, tribunali, associazioni. I bambini, sia italiani che stranieri, hanno bisogno di una famiglia e i geni-tori adottivi riceveranno comunque un affetto incredibile e quello che c’èdietro l’angolo è solo felicità.

Elisa e Daniele

ANNO XIV - NumerO 4 - settembre 2016

La vignetta di Roberta

«Ora le tende nella mia testa...»Ogni tappa della vita od ogni esperienza importante haun proprio simbolo. Se penso al mio primo giorno dellemedie, mi viene in mente una finestra impolverata conuna veneziana un po’ piegata sulla destra. Se penso allaJuve, vedo tanti gradini da scalare per mano al nonnoper arrivare al nostro posto lassù in alto al Delle Alpi.Se penso a tutti i weekend di inizio della scorsa estate oalla Sindone, arrivano le tende. Tende grandi, blu, conuna porta sul davanti e 4 finestre: 12 tende in due file da6 e in mezzo il prato. Il blu è un po’ scolorito, in realtà.Per chiudere bene la porta ci sono tanti lacci, comequelli del montgomery; ho scoperto che si chiama“chiusura ad alamaro”. Il mio montgomery ha la cer-niera, perché non ho mai voglia di mettere i bottoni ne-gli occhielli. E la porta della tenda ha tanti occhielli. Ol-tre alle chiusure ad alamaro, bisogna anche inserire al-tri cordoni bianchi in dei buchini con un meccanismoparticolare, ma questo ho imparato a farlo dopo diversigiorni e a spiegarlo credo non imparerò mai. Dopo tuttiquesti cordini, la tenda è chiusa. Dentro la tenda ci sono10 brandine. Sopra ogni brandina mettiamo un cuscinoe un lenzuolo usa e getta. Le tende ci sono perché siamonel Villaggio Giovani, in viale Thovez, nel parco delSeminario Minore. Ogni weekend (ma a volte anche disettimana) arrivano fino a 120 ragazzi da tutta Europa,per vedere la Sindone o le case di don Bosco. Arrivanoin aereo dalla Puglia o in furgone dal Veneto o in autodall’Austria. Sono 4 universitari, 10 seminaristi, 50giovanissimi. Sono accompagnati da un giovane parro-co parigino con la talare e gli occhialini, che al mattinodirige un canto a mille voci; o da un frate africano som-merso da ragazzini delle medie che gli saltano in testa;o da un animatore che urla fortissimo; o da un’educatri-ce con una figlia di due mesi che dalla Sicilia ha portatoil suo gruppo di quarta superiore. Arrivano al pomerig-gio o a mezzanotte. Vogliono pregare un po’, giocaread un mega giallo che finisce con il video di don Boscoche svela il colpevole, o solo dormire. Tutti vogliono lacolazione. Allora arrivano altri volontari. Io e Sandrodormiamo lì (non nelle tende), ma gli altri arrivano datutta Torino per aiutarci a preparare latte, caffè o te e bi-scotti alle 7 del mattino. I francesi non capiscono maiche il caffè è forte e si riempiono un tazzone intero. Poipuliamo il tendone della colazione, che non è blu, mabianco. E poi puliamo le tende: si devono togliere tuttele brandine, ma la porta è stretta. Poi si spazza. Poi siaprono le finestre. Ogni volta che qualcuno dorme, bi-sogna pulire bene anche negli angoli, perché ogni bri-ciola dimenticata porta file e file di formiche o ragnienormi. Poi si lavano le cose della colazione e i bagni,che sono più facili perché si usa la gomma. Invece nelletende fa caldo, la porta stretta e le brandine pesanti da

portare fuori e poi dentro. E ci sono solo due scope euna paletta e un solo cestino, lontano dalle tende.Quel periodo me lo ricordo anche perché è stato unodei pochi periodi in cui guardavo le previsioni speran-do non piovesse. Invece ha piovuto. Quando piovenormale, bisogna solo andare a controllare che nessunacopertura della finestra sia stata dimenticata su e chel’infinita procedura di chiusura della tenda sia stataeseguita correttamente. Se un solo piccolo passaggio èstato dimenticato, puoi scommettere che la tenda siaallagata. Anche se tutto è stato fatto bene, puoi scom-mettere che tutte le 12 tende siano allagate se la Prote-zione Civile dice che pioverà fortissimo e viene a con-trollare per verificare che le tende siano ancora in piedidopo un lungo temporale. E allora non importa qualegiorno della settimana sia o che ora sia o se Sandro è alavorare o se io dovrei studiare, bisogna aprire tutte lechiusure con le dita incrociate e togliere le brandine epoi togliere l’acqua con la scopa. Quando non ha piovuto per tutta la settimana, puoiscommettere che ci siano le formiche. Non è il caso chei pellegrini arrivino e trovino i cordoni di insetti da unatenda all’altra. Allora bisogna andare a controllare ognidue giorni e togliere le formiche, i ragni, le forbici. So-no stati due mesi intensi. Abbiamo lavorato tanto. Pen-so alle tende. Piene di ragazzi in festa che riempivanodi allegria i vuoti lasciati dal sonno. Un anno dopo, una settimana fa, le rivedo. Lo so chenon erano nuove, che avevano già ospitato i terremota-ti, pellegrini da una casa distrutta a una da ricostruire.Ma sono ricomparse davanti ai miei occhi in tv a mi-gliaia di chilometri più a sud di dove le avevo lasciate.Sono ancora più scolorite e ancora più piene di ragazzi.Però nella tendopoli di San Ferdinando, vicino a Rosar-no, non ci sono le stesse grida allegre. Il pellegrinaggiodi quei pellegrini doveva essere dalla morte alla vita. In-vece li ha portati ad una morte lenta. Ora le tende nellamia testa sono piene anche quando dovrebbero esserecompletamente svuotate e ripulite per togliere le bricio-line. Sono caldissime e fuori non c’è la freschezza dellabasilica di Colle don Bosco o la profondità del percorsoverso la Sindone, ma campi di pomodori da raccogliereper pochi centesimi l’ora. Sono allagate quando piovetanto come adesso. Sono aperte, perché chiuderle è unprocesso lungo minuti, e quindi piene di insetti. Su ognibrandina ordinata non ci sono cuscini e lenzuola usa egetta per distrarre dalla scomodità lunga una o due nottial massimo, ma cuscini e lenzuola da riutilizzare sullabrandina che è il letto. Le tende nella mia testa non sonopiù il simbolo di un periodo entusiasmante, ma unarealtà che non molto lontano da qui imprigiona.

Elisa Testera

Vi ricordate l’estate del 2005? Eravamotutti proiettati verso le XX OlimpiadiInvernali. Una immagine scolpita nellamente di tutti: Chiamparino che escedall’aereo e sventola la bandiera olim-pica con un entusiasmo e una eccitazio-ne che ha contagiato ognuno di noi. Poila corsa ai preparativi a 360°: cantieri diogni genere, dalla metropolitana allafacciata del più piccolo dei condomini,non solo in città ma in tutta la provincia,non solo nei comuni sede di gare ma inogni dove, sino alla più piccola frazionedi montagna. Abbiamo messo il vestitodella festa, non solo alle cose ma anchenella nostra mente. In quegli anni tuttosembrava possibile. C’era il sapore delriscatto agli occhi dell’Italia e del mon-do della prima Capitale d’Italia, spessodimenticata e sempre in ombra rispettoa Roma e Milano. In quell’estate la feb-bre delle Olimpiadi cominciava a salirecontagiando tutti, anche chi non era di-rettamente coinvolto in qualche prepa-rativo. Pragelato, agosto 2005, come inmolte sedi di gare, si tiene la cerimoniadell’alza bandiera. Stefania Belmondo,i bambini che hanno partecipato all’E-state Ragazzi, il sindaco e moltissimepersone, mentre risuonano le note del-l’inno di Mameli, piangono lacrime digioia e di speranza.

strada senza rinunciare a nessun privi-legio, senza tagli agli stipendi o perlo-meno gesti, magari simbolici che fac-ciano capire concretamente la condivi-sione dei sacrifici con i cittadini. Perlo-meno questa è la percezione di tutti.Non c’è più destra o sinistra, centro operiferia, quartiere Crocetta o Mirafiorisud, upper class o lower class, profes-sionista o esodato senza stipendio népensione, laureato o con la licenza me-dia, ma solo un esercito di disillusi dellapolitica e di anni di amministrazione lo-cale che non tenta neppure simbolica-mente di essere vicina ai problemi dellagente comune. Perlomeno questa è lapercezione generale. Perciò, caro Fassino, niente di perso-nale, ma neppure tu hai saputo trasmet-tere la tua vicinanza politica e concretaai bisogni delle persone. Non è bastatoessere un gran lavoratore e tutto som-mato un buon amministratore, megliosicuramente di moltissimi altri. Al citta-dino medio, alla sinistra storica dellacittà, alla Torino operaia, non basta più.Così dopo 20 anni di sindaci di sinistraeletti al primo turno, le elezioni di giu-gno 2016 hanno rappresentato un veroe proprio terremoto, così profondo e ra-

to allungamento dell’età pensionabile,gli esodati, cioè le migliaia di personeche hanno firmato un patto con lo Statocon una previsione di pensione, la-sciando volontariamente il lavoro sullabase di questo contratto, per poi vedersicambiare le carte in tavola, unilateral-mente e fraudolentemente. Oggi rispetto a 10 anni fa siamo tutti piùpoveri, più stanchi, delusi e con pochesperanze per il futuro. Le prospettive diuna serena e prospera vecchiaia per chiha lavorato tutta una vita, si allontananoinesorabilmente e si trasformano in unmiraggio. Dopo gli studi, la possibilitàdi mettere a frutto i propri sforzi nellacittà in cui si è cresciuti, in cui si è stu-diato, è diventato un privilegio per po-chissimi, per quei pochi che hannoqualche “santo in paradiso”. Il divario,o gap per usare un termine di moda, trala politica e i cittadini è aumentato sem-pre di più. Mentre i cittadini si dibatto-no tra mille problemi, la sensazione chenei palazzi della politica chi fa partedella “casta” non stia facendo nessunsacrificio neppure formale o simbolicoè sempre più radicata. Mentre tutti noipaghiamo ogni giorno più tasse, faccia-mo delle rinunce su tutti i fronti, sembrache i politici, gli amministratori, i diri-genti comunali, proseguano per la loro

Poi l’ubriacatura delle Olimpiadi, l’a-poteosi delle notti bianche olimpichecon milioni di persone felici e spensie-rate per le strade di una Torino bellissi-ma. Le XX Olimpiadi Invernali di Tori-no sono universalmente considerate traquelle meglio amministrate e meglio riuscite della storia.E poi? Poi la delusione a metà dellegrandi opere mai finite o terminate afatica dopo dieci anni di lungaggini,interruzioni, fallimenti delle impresecoinvolte… Molti dei siti olimpici di-menticati e lasciati a se stessi, invece dirappresentare un’opportunità, si sonotrasformati in cattedrali nel deserto, inmonumenti alla cattiva amministrazio-ne, fino al definitivo abbandono o addi-rittura allo smantellamento.Solo Torino ha saputo in parte sfruttarel’immagine olimpica trasformandosi incittà turistica, fino al grande successodegli ultimi anni quando il Museo Egi-zio e la Reggia di Venaria sono annove-rati tra i siti più visitati d’Italia. Ma tuttoquesto non è bastato. La crisi interna-zionale che attanaglia tutti i settori, iltrasferimento della sede amministrati-va e produttiva delle principali fabbri-che torinesi, la cronica mancanza di la-voro dei giovani e non solo, il progres-sivo irreversibile e all’apparenza infini-

Suor Rosalia e suor Ruth quantoprima verranno ad abitare i lo-cali della nostra parrocchia. In attesa di conoscerci sempremeglio, Il Ponte dà loro un sin-cero benvenuto e invia un graziericonoscente a chi le ha aiutate afare questa scelta. Fanno parte dell’Istituto Id diCristo Redentore dei Missio-nari e Missionarie Identes (inspagnolo Instituto Id de CristoRedentor) che è un istituto di vi-ta consacrata di diritto pontifi-cio fondato da Fernando RieloPardal (1923-2004). «Identes» èuna parola composta dall’impe-rativo del verbo spagnolo «Ir»(cioè andare); Id, ispirato nelleparole di Cristo «Andate dun-que e fate discepoli tutti i popo-li, battezzandoli nel nome delPadre e del Figlio e dello Spiri-to Santo» (Mt 28,16-20), e dalladesinenza del participio latinoentes.

A distanza di pochi anni dall’ulti-mo terremoto con vittime e danniingenti, siamo di nuovo qui acontare morti, feriti e case di-strutte.Le mille polemiche delle scorsesettimane sulla mancata preven-zione (che avrebbe molto proba-bilmente reso meno pesante il bi-lancio di questa tragedia) nonhanno messo in ombra la genero-sità di molti, dai soccorritori pro-fessionali ai volontari, ai cittadiniche hanno subito donato sangue,generi di prima necessità e dena-ro, perché spesso dalle tragediepiù grandi scaturiscono gesti disolidarietà ancora più grandi. Se la sensibilità ai bisogni deglialtri aumenta nel momento in cuil’emotività e la commozione han-no il sopravvento, ricordiamoci dinon metterla da parte nel temposuccessivo.

(continua in quarta pagina)

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2 Anno XIV - Numero 4 - Settembre 2016

I CONSIGLI DEL DOTTOR...Confrontarsi con lo psicologo:

quando la crisi diventa un’opportunità

Nel linguaggio comune la parola stressricorre abbondantemente con un’acce-zione fortemente negativa, come qual-cosa da evitare se si vuole vivere bene.Non tutti sanno che questo termine, pre-so in prestito dalla fisica, definisce inve-ce un cambiamento dovuto a una qual-siasi sollecitazione ambientale. Ognicambiamento, per piccolo o grande chesia, comporta la rottura di un equilibrioprecedente per crearne uno nuovo. Datoche la vita è caratterizzata da continuicambiamenti, non è dunque possibilepensare ad una vita senza stress.In alcuni momenti esistenziali però la vi-ta ci pone di fronte a eventi particolar-mente stressanti, si tratta di cambiamentiche non siamo in grado di fronteggiare,come uno scalino troppo alto per le no-stre gambe, che ci fa incespicare. Pur es-sendo abituati a categorizzare gli eventicome piacevoli o spiacevoli, in realtàtutti i cambiamenti significativi possonosuperare le nostre possibilità di farvifronte. Ecco dunque che la morte di unapersona cara, una separazione, la perditadel lavoro o di una situazione abitativa,possono metterci in grosse difficoltà, so-prattutto se sono eventi inattesi. Ma anche la nascita di un bambino, uncambiamento atteso e desiderato comeun matrimonio, un avanzamento di car-riera, possono rivelarsi più problematicidi quello che ci aspettavamo. Ciò cherende traumatico un cambiamento va in-fatti oltre la connotazione sociale dell’e-vento e si riferisce alla nostra esperienzasoggettiva di quell’evento. Per quantoatteso e desiderato ogni cambiamento ècomunque anche una perdita di ciò cheavevamo o che eravamo prima, e di soli-

to è solo dopo aver perso qualcosa che cirendiamo conto di quanto fosse impor-tante per noi.Il disagio nasce dunque nell’individuoquando il cambiamento è percepito co-me fonte di fatica, di sofferenza, di per-turbazione del normale equilibrio con ilsuo ambiente lavorativo, scolastico, fa-miliare, sociale. Tale perturbazione sipuò riverberare nel suo stato psicofisicodando luogo a domande che suscitanoangoscia, incertezza, smarrimento: “so-no normale? è normale quello che pro-vo? è normale quello che penso? il miocomportamento è adeguato?”.Anziché rimanere nel silenzio e nell’iso-lamento, è possibile rivolgersi ad unprofessionista della salute psichica peravere un confronto con un pensiero di-verso che stimoli a riflettere su questedomande, sgomberando il campo dall’i-dea che bisogna seguire un modelloideale per essere sempre la persona giu-sta nella situazione giusta. Ma a qualeprofessionista rivolgersi? Per poter sce-gliere con maggiore consapevolezza achi affidarsi è necessario definire breve-mente in cosa si distinguono i diversiprofessionisti della salute psichica.Lo psichiatra è un medico con una spe-

cializzazione in psichiatria, e dunquemaggiormente orientato a considerare ildisturbo mentale come derivante da unmalfunzionamento e/o uno sbilancia-mento a livello biochimico del sistemanervoso centrale. Per questo motivo laprincipale modalità di cura proposta dal-lo psichiatra è quella farmacologica. Lo psicologo è innanzitutto un profes-sionista dell’ascolto che utilizza il lin-guaggio, ascolta le narrazioni, sollecitaapprofondimenti, rielaborazioni, fa ri-flettere con paragoni e metafore, ampliail senso di quello che viene detto congiochi di parole, allo scopo di mettere inluce nuovi modi di raccontare e raccon-tarsi. La narrazione della propria storia èun modo attraverso cui diviene possibile

produrre dei cambiamenti, che possonoessere anche significativi e profondi.Parlare con lo psicologo ha dunque lafunzione di stimolare la consapevolezzadelle risorse creative individuali al finedi trovare una risposta personale ade-guata al proprio ambiente sociale e affet-tivo.Quando l’individuo percepisce unaesplicita situazione di disagio inteso co-me malessere si presenta l’urgenza diuna domanda di cura; in questo caso ildisagio si manifesta come uno stato sin-tomatico più strutturato: i disturbi la-mentati più frequentemente sono ansia,fobie, stati depressivi, attacchi di panico,disturbi alimentari, insonnia, vari tipi dipatologie organiche che non trovano unriscontro in seguito ad accertamenti me-dici. Ecco che in questo caso può essereutile il ricorso ad uno psicoterapeuta.Questi può essere uno psicologo o unmedico specializzato nella gestione del-la clinica di tali disturbi. Ma, mentre peril medico psicoterapeuta la cura è intesacome trattamento farmacologico deisintomi o utilizzo di terapie atte a risol-verli da un punto di vista fisico, per lopsicologo-psicoterapeuta la cura è intesacome “prendersi cura” dell’altro: perché

i sintomi più comuni come depressionee ansia di fatto non sono altro che reazio-ni fisiologiche a eventi stressanti dellavita. Definirli “disturbi” dà una connota-zione unicamente negativa e la terapiaintesa in senso medico come “elimina-zione della malattia” rischia di favorireil percorso di estraniamento della per-sona dalle sue emozioni e dai suoi statid’animo. Per lo psicoterapeuta di formazione psi-cologica, parlare di guarigione significalavorare per reintegrare quegli stessi sta-ti d’animo all’interno della esperienza divita del soggetto, non tentando di ripri-stinare l’equilibrio perduto con la malat-tia, ma aiutando il paziente a costruireun equilibrio tutto nuovo. Questo lavoronecessita di tempo e pazienza, e lo psi-coterapeuta ha proprio il compito di ri-condurre il paziente alla pazienza, di so-stenere la ricerca di un significato esi-stenziale che sembra perduto, e di con-trastare la pressione di un ambientesociale, lavorativo, familiare, che civuole sempre prestanti, reattivi, invinci-bili. Perché qualsiasi esperienza, perquanto dolorosa, è un’occasione per cre-scere e anzi ogni crescita può avveniresolo attraverso una crisi di passaggio,

che comporta la dolorosa perdita di unequilibrio.Spesso accade che dopo essersi rivolti almedico di base o ad uno specialista perquella che si riteneva una malattia su ba-se organica, si scopre che questa è stretta-mente legata alla particolare situazioneche stiamo attraversando, e che un sup-porto psicologico che aiuti a comprende-re il legame tra come stiamo e cosa pro-viamo può avere un effetto equiparabileo superiore a una terapia farmacologica. Occorre ancora fare i conti con la confu-sione fra disturbo mentale e disagio psi-chico e affrontare il pregiudizio che gra-va ancora sulla figura dello psicologo,inducendo a credere che a lui si rivolga-no solo persone particolari, con il risul-tato che ci si arriva solo dopo averle pro-vate tutte. Ma se accrescere la propriaconsapevolezza è un modo per sceglierepiù liberamente, è auspicabile che com-prendere queste differenze possa con-sentire a sempre più persone di poterscegliere in base alle proprie esigenzequal è la modalità più adatta per prender-si cura di sé.

Dott.ssa Grazia Ballatore Psicologa, Psicoterapeuta

Specializzata in Psicologia Clinica

25 giorni di attività = 5 giorni x 5 settimane

Bambini iscritti: 343 = 9 materna + 242 elementari + 92 medie

Ragazzi Animatori: 77

Servito: 2150 pasti + 2700 colazioni + 2700 merende

Acqua: 140 boccioni da 18,5 litri dalla SMAT (pari a 2590 litri) con 61.000 bicchieri

Gite: 8 “fuori porta” con l’impiego di 31 bus + 4 per i campi

Campi a Oulx: 2 per un totale di 100 ragazzi e animatori

Media di presenza di 172 ragazzi per settimanacon un picco di 228

L’Estate Ragazzi 2016 è terminata e credo di poter dire, sen-za presunzione alcuna, che possiamo ritenerci soddisfattiper come sia andata. I numeri che vedete rappresentati nelgrafico e nel box (che per ragioni di spazio non abbiamo po-tuto pubblicarli tutti) indicano l’impegno e le risorse messea di sposizione da tutte le persone che vi hanno partecipato.La grande soddisfazione per me e per tutti noi sono state co-munque le molteplici persone che a titolo diverso – o con mes-saggi o in incontri casuali per la strada o che sono venute ap-posta in parrocchia – si sono complimentate sull’andamentodi questa Estate Ragazzi: per l’organizzazione, per le gite, peraver fatto vivere in modo intenso questi momenti ai loro figli.Il mio sincero e profondo ringraziamento – e credo di poterinterpretare anche quello di don Daniele e di don Geppe del-l’Assunzione di Maria Vergine – va a tutte le persone chehanno permesso che tutto ciò avvenisse: a Nicoletta in pri-mis che ha saputo come sempre dare un valore aggiunto aiformatori presenti e alla grande squadra degli animatori,senza i quali non poteva essere un’Estate Ragazzi così bellae ricca di attività; a tutte quelle persone che dietro le quintehanno dato la possibilità di mangiare, di avere un serviziobevande e gelati e un servizio di accoglienza “tecnologico”cortese e professionale; e a chi ha dato la possibilità di inse-gnare loro qualcosa. A tutti e a ciascuno il mio/nostro rin-graziamento.Vi aspettiamo, in attesa dell’Estate Ragazzi 2017, tutti i sa-bati in oratorio dalle 15.00 alle 17.30 partendo dall’8 otto-bre al Patrocinio di San Giuseppe. GRAZIE!

don Max

Un’altra edizione dell’Estate Ragazzi Triparrocchiale si è conclusa con successo.Non c’è bisogno di ricordare tutti i numeri dell’edizione 2016, che sono riportatisulla foto ufficiale. La domanda è un’altra: che senso ha continuare ogni anno a pro-porre l’Estate Ragazzi nelle nostre parrocchie? Che senso ha intraprendere ogni an-no un’attività così impegnativa, faticosa e carica di responsabilità come un’EstateRagazzi? Chiedete ai volontari della mensa, che tutti i giorni, per 4 ore, con le cocenti tempe-rature tipiche del periodo fine giugno-inizio luglio, che si sono adoperati per prepa-rare un pasto a oltre 300 persone, se l’Estate Ragazzi non è un’avventura massa-crante. O a quei due genitori che mi hanno accompagnato in un’uscita coi bambini, i quali,pur occupando sul posto di lavoro ruoli di grande responsabilità (caposala in ospe-dale), a fine giornata sono venuti a dirmi in tutta sincerità: “Guarda Nicoletta, è mol-to meglio andare a lavorare piuttosto che assumersi la responsabilità che vi assume-te voi con tutti questi bimbi”. Che senso ha, dunque, ogni anno caricarsi di tale fardello? Innanzi tutto, senza cercaredi nascondersi dietro a un dito, c’è una motivazione prettamente egoistica, il bisognoumano di adoperarsi per rendere felice qualcuno; poter dire “sono utile a qualcosa”,“servo per una causa”, spendersi attivamente per la felicità di oltre 300 bambini, pervedere ogni giorno il sorriso stampato sui loro volti, ma anche le lacrime per una cadu-ta, per sentire le urla per un risultato conseguito, le confidenze e le paure. E poi c’è il senso della gratitudine e della riconoscenza di cui ti investono le fa-miglie in generale ma soprattutto quelle per cui hai rappresentato una valida al-ternativa ad un parcheggio anonimo ed educativamente inutile; mamme e papàcontagiati dall’entusiasmo dei loro figli, dei nostri animatori e perfino di noi “ra-gazzi cresciuti”. O alcuni genitori che in modo più intimo e sofferto ti ringrazia-no per non averli lasciati soli con il loro piccolino un po’ speciale. Tra l’altro,l’Estate Ragazzi 2016 ha visto, per la prima volta, l’accoglienza di un ragazzinodiversamente abile, che interagisce con il mondo attraverso una carrozzella e uneducatore, e questa esperienza è stata preziosa proprio alla luce della ricerca disenso con cui ho iniziato questo articolo. Il vero senso, però, sta nel bisogno inalienabile di tenere vivo il principio di Co-munità, così fondamentale quando scopriamo che è ciò che realmente ci rendeumani e ci “protegge” soprattutto nei momenti di difficoltà. Sta nel mantenere at-tivo un punto di riferimento, un luogo fisico che accoglie e che rende unica l’e-sperienza di essere persona e non numero. Comunità vuol dire appartenenza, e ilsenso di appartenenza è ciò che realmente muove il volontariato, sentire chequalcosa ci appartiene non come bene materiale ma come esperienza che arric-chisce il cuore.Un’ultima cosa, l’Estate Ragazzi rappresenta la conclusione del cammino formati-vo di molti adolescenti del quartiere, un cammino che dura tutto un anno e che que-st’anno si è concluso con l’esperienza di respiro mondiale che è stata la GiornataMondiale della Gioventù di Cracovia. I nostri animatori il loro “senso” lo hanno tro-vato e riposto nelle mani di Gesù Cristo!I have a dream… che lo sforzo, la fatica, l’entusiasmo non siano di 30 giorni ma sitrasformino in un’esperienza permanente, in una testimonianza continua e costantedell’Amore del Signore per ognuno di noi. Vuoi far parte di questo sogno?

Nicoletta Sansone

Quella di Cracovia è stata la mia pri-ma Giornata Mondiale della Gioven-tù e non nascondo la preoccupazionee titubanza nel parteciparvi a ridossodella partenza: ma ho sfidato me stes-so. Gli incarichi di responsabilità –non solo dei 30 ragazzi delle nostreparrocchie, ma di altri 170 – mi hannomesso alla prova anche dalle variedifficoltà organizzative; ma con qual-che aggiustamento e qualche telefo-nata in più, è andato bene… forse for-tuna dei principianti!Devo anche dire che la gioia più gran-de è stata quella data dai “miei ragaz-zi”, i 30 delle nostre parrocchie, chehanno saputo vivere certe difficoltàcon ironia e sopportazione dandoesempio di persone responsabili e nonhanno mai disatteso la mia fiducia inloro. Quello che abbiamo vissuto in-sieme è che la GMG è innanzi tutto unpellegrinaggio: prepararsi ad attraver-sare regioni straniere e soggiornare inuna terra che non è la propria, prepara-re uno zaino che coniughi esigenze edessenzialità. Portare con sé, oltre ai ba-gagli, aspettative, speranze, curiosità,preoccupazioni.Gran parte delle attese sono state col-mate nelle prime 24 ore di soggiornoin Polonia, tra l’arrivo nelle famigliee la prima giornata a Sosnowiec, dio-cesi del gemellaggio. L’accoglienzada parte di persone estranee è statacalda e premurosa, vera testimonian-za di fraternità nei confronti di noi ra-gazzi. L’avvicinamento alle tradizio-ni gastronomiche locali è stato im-mediato (visti i quantitativi di ciboche ogni famiglia ci offriva) ed è sta-to uno dei passi indispensabili per

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Anno XIV - Numero 4 - Settembre 2016 3

MI PIACE... TI PIACE?Il Museo del Cinema

(una delle «perle» di Torino)Iniziamo con il dire che il Museo del Ci-nema di Torino si trova nella Mole Anto-nelliana, simbolo architettonico di Torinoiniziata nel 1863 dall’architetto novareseAlessandro Antonelli. Concepita inizial-mente come una sinagoga, fu acquisitadal Comune di Torino (non ancora termi-nata) nel 1878 per farne un simbolo del-l’unità nazionale. Terminata nel 1889, laMole era all’epoca l’edificio più alto inEuropa, con i suoi 167 metri. AlessandroAntonelli chiamava la sua opera “un so-gno verticale”, normale quindi che laMole diventasse la casa naturale dellafabbrica dei sogni, cioè il cinema. Il Museo del Cinema di Torino non èun’esposizione di macchine, foto o re-perti… o almeno non solo. Non può esi-stere un museo della celluloide senza ifilm, e allora non perdetevi l’Aula delTempio, la pancia della Mole, con gran-di scenografie che raccontano alcunigrandi temi del cinema: animazione,western, horror, musical, fantascienza,cinema sperimentale, amore e morte,noir, Cabiria, vero o falso. Da restaresenza fiato, sedetevi su una delle pol-troncine rosse sistemate nell’aula, comese fosse la sala di un cinema qualsiasi. Immergetevi in quelle scenografie, ma-

gari avendo come sottofondo le musichedi Ennio Morricone, e vi troverete in unbaleno tra Rod Steiger e James Coburnnel Messico di Sergio Leone, giù la testami raccomando! Non trastullatevi troppo però perchéavete poco tempo, bisogna andare! Pro-cedete immediatamente nei corridoi cheportano all’archeologia del cinema, chevi spiegheranno com’è nata la settimaarte. Il teatro delle ombre, la scatola otti-ca, le lanterne magiche, la riproduzionedei movimenti, la cronofotografia e voi-là il cinematografo. Veloci vi infilerete poi nella galleria deimanifesti, lo sguardo di Alberto Sordivigile impettito, gli occhi feriti di AnnaMagnani su Roma città aperta, il WoodyAllen pensieroso sotto il ponte diBrooklyn, Ray Liotta, Bob De Niro e

Joe Pesci bravi ragazzi di Martin Scor-sese, e tanti altri. Mi scuserete se ho cita-to i miei preferiti. Insomma la poesiac’è, ora avete capito com’è nato, non viresta che buttarvi nella produzione. Edecco la sala di montaggio, tra celebri se-quenze, oggetti di scena, bozzetti di re-gia, appunti di registi celebri, battutescritte, immaginate e magari mai dette.Insomma tutto ciò che precede il primociak. Lo sapevate ad esempio che unodei protagonisti di Amici miei dovevaessere Raimondo Vianello?Pietro Germi e Mario Monicelli, cheereditò il film dopo la morte del primo,avevano pensato di ricomporre la famo-sa coppia con Ugo Tognazzi, protagoni-sta negli Anni Cinquanta in televisione. Vianello rifiutò perché le riprese coinci-devano con il mondiale di calcio del1974, e come si sa Raimondo era ungrande appassionato di calcio. Passione che gli costò la partecipazionea uno dei capolavori del cinema italiano. Proseguite e guardatevi le macchine daripresa del secolo scorso, immaginateuno di quei pionieri che inventavanol’arte che ha consentito a tutti di sognarea occhi aperti. Capirete o carpirete ungrande segreto: esiste solo ciò che sta in

scena, ecco perché il cinema riproducela magia della vita. Il Museo è concepito per essere un insie-me di suoni e stimoli visivi, proprio com’èun film, capace in ogni momento di emo-zionare. Cosa fare dopo la visita del Mu-seo? Andate a casa e guardatevi il filmdella vostra vita, perché se anche non velo ricordate esiste sicuramente. Ecco perme la visita al Museo del Cinema di Tori-no è un’immersione. Jean Luc Godard di-ceva che la fotografia è verità, il cinema èverità ventiquattro volte al secondo. Nellesue pieghe, in una scena, in un passaggiosta il concetto che un narratore, il regista èsolo quello, vuole farvi arrivare. Quello che mi colpisce di più ogni voltache entro nella Mole è lo sguardo deibambini quando sono dentro l’Aula delTempio: rapiti dalla maestosità della Mo-le, dalla grandezza del luogo, distrattidall’ascensore panoramico, che sale finoal cielo, attratti da immagini e suoni,spesso incredibilmente in silenzio, comese fossero entrati nella grande giostra del-la vita. Ecco se il cinema ci farà tornareper una volta sola quei bambini, avràsvolto il compito per cui i fratelli Lumiérel’avevano concepito.

Diego Serra

GEMELLAGGIO con la Diocesi di SOSNOWIEC (19-25 luglio 2016)

Partenza il 19 sera (ore 20) in autobus privato 20 luglio accoglienza gruppi e sistemazione in alloggio della Diocesi di Sosnowiec 21 luglio programma organizzato e svolto nelle parrocchie 22 luglio pellegrinaggio al Santuario della Madonna Nera (Jasna Gora)

a Częstochowa con Santa Messa e visita del Santuario23 luglio visita al campo di concentramento di Auschwitz.

Pomeriggio Santa Messa e Festa Gioventù (Piazza Papale a Sosnowiec)24 luglio giornata nelle famiglie e nelle parrocchie25 luglio visita a Kalvaria e Wadowize e arrivo a Cracovia

CRACOVIA (25 luglio-1° agosto 2016)

25 luglio accoglienza dei gruppi e sistemazione nei luoghi di alloggio(anche per chi parte il 24 luglio ore 20 da Torino)

26 luglio Santa Messa di apertura della XXXI GMG27 luglio catechesi con i vescovi e Santa Messa: Festa degli Italiani28 luglio catechesi con i vescovi e Santa Messa: accoglienza del Santo Padre29 luglio catechesi con i vescovi e Santa Messa: Via Crucis serale 30 luglio pellegrinaggio verso il luogo della Veglia e Veglia con il Santo Padre31 luglio Santa Messa finale con il Santo Padre; partenza nel pomeriggio1 agosto in serata arrivo a TorinoA Sosnowiec e Cracovia dal 19 luglio al 1° agosto 2016: viaggio, vitto, alloggio, kit delpellegrino 550 €

Quella di Cracovia è stata la mia pri-ma Giornata Mondiale della Gioven-tù e non nascondo la preoccupazionee titubanza nel parteciparvi a ridossodella partenza: ma ho sfidato me stes-so. Gli incarichi di responsabilità –non solo dei 30 ragazzi delle nostreparrocchie, ma di altri 170 – mi hannomesso alla prova anche dalle variedifficoltà organizzative; ma con qual-che aggiustamento e qualche telefo-nata in più, è andato bene… forse for-tuna dei principianti!Devo anche dire che la gioia più gran-de è stata quella data dai “miei ragaz-zi”, i 30 delle nostre parrocchie, chehanno saputo vivere certe difficoltàcon ironia e sopportazione dandoesempio di persone responsabili e nonhanno mai disatteso la mia fiducia inloro. Quello che abbiamo vissuto in-sieme è che la GMG è innanzi tutto unpellegrinaggio: prepararsi ad attraver-sare regioni straniere e soggiornare inuna terra che non è la propria, prepara-re uno zaino che coniughi esigenze edessenzialità. Portare con sé, oltre ai ba-gagli, aspettative, speranze, curiosità,preoccupazioni.Gran parte delle attese sono state col-mate nelle prime 24 ore di soggiornoin Polonia, tra l’arrivo nelle famigliee la prima giornata a Sosnowiec, dio-cesi del gemellaggio. L’accoglienzada parte di persone estranee è statacalda e premurosa, vera testimonian-za di fraternità nei confronti di noi ra-gazzi. L’avvicinamento alle tradizio-ni gastronomiche locali è stato im-mediato (visti i quantitativi di ciboche ogni famiglia ci offriva) ed è sta-to uno dei passi indispensabili per

sentirsi sì fuori casa propria ma inuna casa più grande chiamata mon-do.La settimana successiva, a Cracovia,ha dato la misura dell’esperienza cheavremmo vissuto nei giorni seguenti:tante persone, lingue e bandiere datutto il mondo, molti italiani che spes-so intonavano canti per far risaltare lapresenza. Insieme all’entusiasmo e aitanti km a piedi quotidiani, c’era an-che lo sguardo vigile al gruppo pernon perdersi, l’attenzione agli orari darispettare, l’elasticità mentale nellesituazioni più concrete, il k-way sem-pre alla mano visti i frequenti acquaz-zoni. GMG è anche la gioia della presenzadel Papa nei vari eventi, che forse hafatto pensare ingenuamente a cia-scuno di noi “sì c’ero anch’io quan-do Francesco ha detto di non esseregiovani pensionati sul divano, magiovani con gli scarponcini”. Il Papacredo abbia colpito il cuore e pene-trato nell’intimo di ognuno a scavaree ricercare una risposta di fede chenon sia solo a parole ma nella testi-monianza concreta dell’amore diDio. Il numero enorme di giovanipresenti è stata testimonianza con-creta della fede che la gioventù mon-diale ha.Nel mio cuore resta la gioia di esserestato dodici giorni con i ragazzi inmodo meno informale della vita dioratorio e di parrocchia e di aver vis-suto e condiviso con loro le piccoledifficoltà e le tante gioie che la GMGha saputo donarci. UN GRAZIE SPECIALE A TUTTI!

don Massimiliano

[Di seguito le testimonianze di alcunimiei compagni di viaggio e quella diun genitore che ha osservato da fuori]

La mia sarà una testimonianza un po’anomala. Cracovia è “Błogosławienimiłosierni, albowiem oni miłosierdziadostąpią”. Ovvero “Beati i misericor-diosi, perché riceveranno misericor-dia”. L’unica frase in polacco che hoimparato. Cracovia è essere accolti, sulsagrato d’una parrocchia dell’Alta Sle-sia, dopo 25 ore di pulman, da una co-munità in festa; la stessa che poi avreb-be messo a disposizione il tutto di cuidispone per accogliere al meglio 50 ra-gazzi giunti per incontrare il Papa. Cracovia è “Vai tranquillo, in Poloniaparlano tutti inglese!”, e ritrovarsiospitato da famiglie che parlano solopolacco. Ma Cracovia è anche riuscirea capirsi in ogni modo superando lebarriere linguistiche (grazie Googletraduttore!). Cracovia è trovare final-mente un prete che parla italiano. Cra-covia è fare cose che mai ti sognerestidi fare, neanche sotto tortura, come al-zarsi alle 4.45 per una marcia di 15 kmverso il santuario di Cestochowa. Giàsolo il fatto di andare a un santuario perme è quasi un affronto (ovviamente sischerza, anche se non è che i miei rap-porti con la religione siano molto idil-liaci di questi tempi): farsi 15 km a pie-di per arrivarci, poi! Però Cracovia èanche il the verde ghiacciato alla men-ta della signora Tereza, capace di cura-re tutti i mali.Cracovia è l’infinita pazienza e amici-zia dei volontari locali, ragazzi comenoi che hanno speso la loro estate perfar sì che la nostra esperienza polaccafosse la meglio possibile. Cracovia è lacena alle 8 del mattino. Cracovia è ve-

dere la signora Tereza alle 7.30 delmattino di domenica preparare damangiare per un esercito e chiederci“Chissà chi verrà oggi a pranzo?”; sal-vo poi scoprire che a pranzo eravamosoltanto noi: la signora, i suoi due ni-potini, Simone ed io. Cracovia è con-vertire una coppia di sposi polacchi al-la “pasta”. Cracovia sono le giornate (eserate) passate in compagnia di ungruppo fantastico, che rimarrà unitoper molto tempo se non per sempre. Etutti i km percorsi insieme a piedi. Cra-covia è essere giovani con le scarpe enon giovani-divano. Cracovia è statoquesto per me, e molto altro. Dowidzenia Polska! A presto!

Giulio, 18 anni

Sono un ragazzo che ha avuto la fortunae l’opportunità di partecipare alla GMGtenutasi a Cracovia nel luglio scorso.Mi hanno sempre attratto questi radunioceanici e mi domandavo il motivo percui milioni di giovani compissero lun-ghi viaggi con difficoltà rinunciandomagari a una vacanza al mare con ami-ci. Ecco non è facile spiegare cosa siprova ad “esserci” tra quella folla. Nonriuscirò a trasmettervi i miei pensieridurante il discorso del Papa e non potròraccontarvi le emozioni che gli occhi dimilioni di pellegrini come me rivelava-no. Non ci riuscirò, certo, ma vi possoassicurare che vivere una GMG è unadelle esperienze più belle e profondeche io abbia mai vissuto nei miei 18 an-ni, se non la migliore.

Nel gemellaggio con la città di Sosno-wiec abbiamo incontrato gente comune(e magari in difficoltà) ma che ci hannofatti sentire a casa nostra regalandoci illoro affetto e mettendosi a nostra com-pleta disposizione. Siamo rimasti a So-snowiec per 5 giorni e alla partenza ab-biamo salutato queste persone come ab-biamo fatto coi nostri veri genitori allapartenza da Torino. Incontrare personesimili fa sperare in un mondo migliore.Dopo, nella seconda settimana, siamostati ospitati in un paesino a 15 km daCracovia in famiglie altrettanto genero-se che ci hanno fatto vivere un soggior-no stupendo. Purtroppo, parlo a titolopersonale, non ho avuto modo di appro-fondire la conoscenza con la nostra hostfamily dal momento che trascorrevamoquasi tutta la giornata fuori casa. Craco-via è stata un’emozione unica: in ognivia si faceva fatica a camminare, s’in-contravano persone di tutto il mondo eognuna aveva qualcosa in comune: sor-ridevano. Il colpo d’occhio regalavauna distesa di bandiere differenti chesventolavano leggere come i giovaniche le reggevano. Abbiamo seguito momenti di preghie-ra, di comunione, di comunità, di stareinsieme che mi hanno dato tanto. Ab-biamo concluso quest’esperienza paz-zesca col pellegrinaggio (non facile de-vo dire) al Campus Misericordiae e laveglia di preghiera col Papa. Ci siamoaccampati con quello che avevamo.Non eravamo comodi ma eravamo feli-ci, tanto felici di esserci e lo si capivaguardandoci in faccia. La sera ho visita-to il “campus” assieme a un ragazzo piùgrande del mio gruppo e quel momentomi ha regalato un’emozione forte. Cisiamo entrambi resi conto che c’è anco-ra molto da sperare per questo mondoche spesso sembra soltanto volerci ab-battere e abbiamo trovato quel “moti-

vo” che prima della partenza cercavo dicomprendere, qualcosa di alto, qualco-sa di non tangibile ma che inspiegabil-mente lega gran parte dell’umanitàcreando situazioni meravigliose comequella che ci siamo trovati a vivere.La GMG, come ha detto il Papa, finisceil 31 luglio ma continua ogni giorno acasa nostra, nel nostro quotidiano, sta anoi che abbiamo partecipato continuarea vivere lo spirito di Cracovia. Sonopartito curioso e sono tornato meravi-gliato e felice. Mi sono proprio sentitoparte di qualcosa di grande. Augurando-ci di poter essere presenti a Panama nel2019, buona fine estate a tutti voi!

Andrea, 18 anni

Ciao a tutti! In queste righe vorrei tra-smettervi le emozioni vissute in differi-ta come genitore – “noi qui, voi là”, secosì si può dire – mentre tua figlia,Chiara, si trova a 1400 km da te a unaGMG. Già sto parlando di emozioni,emozioni vere, se pur non in diretta co-me hanno vissuto 26 ragazzi del Patro-cinio, Santa Monica e Assunta allaGiornata della Gioventù di Cracovia.Io e mia moglie Paola sembravamo riu-scire a restare collegati da un filo benpiù che immaginario agli sguardi, allesmorfie e ai commenti che nostra figliaci riusciva a far passare per i pochi con-tatti avuti. Le prime sere i collegamentiskype, per sms e quando si poteva perveloci contatti telefonici. Le altre infor-mazioni arrivavano puntuali e massivesu wathsapp, sul gruppo che si era crea-to spontaneo tra i genitori delle tre par-rocchie. I più tecnologici giravano fil-mati, foto su facebook, condivise ecommentate, tutti partecipi della mede-sima e forte emozione. Tra i genitori cicomunicavamo gli orari delle dirette tv,gli orari scanditi delle giornate dei no-stri ragazzi e in contemporanea i nostriocchi erano puntati sullo schermo attra-verso il quale arrivavano rassicurantifilmati di amore, unità e spiritualità.Paradossalmente pur non essendo unfanatico dei nuovi sistemi di comunica-zione, devo in questo caso ringraziarli.Con skype riuscivamo a vederla e pote-vamo percepire (quasi a toccare) le suegioie ed emozioni che fuoriuscivanocome un fiume in piena da una giovanedi 16 anni con la voglia di misurarsi,crescere e scoprirsi di fronte a questaesperienza. Al cellulare ci sembrava direspirare l’aria polacca: un mix di voci,

allegria, gioia; l’amore che per queigiorni ha prevaricato l’ansia e il terroreche avevano fatto da copertina nelle no-tizie di giornali e tg dei giorni preceden-ti. Poi che dire di wathsapp… è emersolo spirito di gruppo e di Comunità. Chil’avrebbe detto! Tutti ascoltavano, par-lavano… meglio scrivevano e parteci-pavano direttamente a quell’evento chemai più si pensava potesse entrare nellenostre case se non dopo il racconto deinostri figli al loro ritorno. E invece no,eravamo, se pur parzialmente, lì con lo-ro a emozionarci, a vibrare e gioire diun’esperienza che penso rimarrà per inostri ragazzi unica e irripetibile. Unevento di portata mondiale dove al cen-tro si respira un messaggio cristiano checondensa: amore, gioia, pace, fratellan-za e comunione.Grazie! Grazie don Max! Grazie Chia-ra! Grazie ragazzi! Grazie a tutti! E allaprossima esperienza!

Gianni e Paola, genitori di Chiara

Di ritorno dalla GMG ci sarebbero tan-te, troppe cose da raccontarvi, non ba-sterebbero diecimila caratteri per de-scrivere momenti ed emozioni vissutein quest’avventura! La GMG è stata apieno effetto un unirsi di culture conpersone giunte da mille e una nazione,dalla Cina agli Usa passando per il Mo-zambico, dal Messico all’Angola, dallaGermania all’Ungheria; la bellezza diparlare con loro, di aiutarsi anche solopassandosi una bottiglia di acqua dopoore sotto il sole; cantare e ballare insie-me sotto la pioggia, pregare. Ascoltarele catechesi, la bellezza della veglia,l’atmosfera, la condivisione di questomomento di preghiera molto intensoseppur breve, il dormire sotto le stelle ele parole del Santo Padre. No, è sempli-cemente indescrivibile! Le famiglie che ci hanno ospitato? Di -sponibili e squisite ad ogni richiesta, ecordiali da invitare tutto il nostro grup-po ogni sera a casa propria per stare in-sieme. Per non parlare di una mammapolacca che ha preparato la torta dicompleanno per una ragazza celiaca delnostro gruppo. Non posso che ringra-ziare i miei compagni di viaggio, connota speciale per don Massimiliano checi ha dato l’opportunità di vivere questimomenti. È stata la mia prima GiornataMondiale della Gioventù e, nonostantele difficoltà (caldo, sete, km da percor-rere a piedi), sono pronto a rivivere que-ste emozioni. Quando? Nel 2019. Ci rivediamo a Panama!

Gabriele, 17 anni

Page 4: ANNO XIV - NumerO 4 - settembre 2016 · in un contesto nuovo, magari arrivando da un altro Paese, senza conoscere ... Juve, vedo tanti gradini da scalare per mano al nonno ... Un

ne potessi impiegare per difendere an-che solamente una buona idea che poi,e ancora adesso mi fa soffrire, a Cina-glio non ha vinto». Il dolore più grande. Lo racconto coisoli fatti. Pochi mesi dopo la sua elezio-ne Valeria riceve la telefonata del re-sponsabile Caritas di Asti: ci sono seigiovani profughi di colore, maschi, chepotrebbero trovare ospitalità nella ca-nonica di Cinaglio vuota da anni e ri-manerci per alcuni mesi, in attesa delvisto. Certo, risponde lei con entusia-smo e scrive un avviso alla popolazio-ne, convocata in pubblica assemblea,

per conoscere ed accogliere con ungrande abbraccio gli ospiti. L’assem-blea degenera subito: in un clima di altatensione la popolazione si rivela inmaggioranza contraria, anche i giova-ni, anche i consiglieri. Valeria amareg-giata ci ripensa e poco alla volta si con-vince di aver sbagliato lei, forse dovevaessere più persuasiva: convoca unanuova assemblea e prepara benissimoil discorso: si rivolgerà ai cinagliesi chedecenni fa sono arrivati dal Sud ed ora

Anno XIV - Numero 4 - Settembre 20164

Abbiamo accoltoBianca PORTULANORobert BOIDI

Abbiamo salutato

Antonia ROTTAved. GORLATO

Mario VARETTOLuciano OTTRIASeverino IAMONACOMaria Antonietta DE FILIPPO

ved. BOLOGNAUgo COLOMBANO BORGNAAndreina GIULIANO

ved. BERGAMASCOSebastiano DIPIETROParide STROBINOAlessandra ZANARDO

ved. SAVASTAMaggiorino VAYGiovanni DEBERNARDIDolores VIGNOLI ved. PAVIA

Abbiamo gioito con

Paola ZARBOe Denis PORTULANO

Assunta MURDOCCA e Alessandro ARTESI

DALL’ARCHIVIO

dicale da portare un sindaco 5 Stelle, donna e giovanissima: Chiara Appendi-no. Piccola parentesi: personalmente l’appellativo “sindaca” penso sia unobbrobrio. Le donne che hanno degl’incarichi importanti non hanno bi-sogno di femminizzare il nome del proprio mestiere per affermare la lo-ro personalità femminile.Mai slogan elettorale è stato così vero: “L’alternativa è Chiara”. E la mag-gioranza dei torinesi l’ha fatto proprio e ha votato per questa alternativa inuna quantità che è andata al di là di qualsiasi previsione. Non c’è personapiù decisa e radicale di chi è disilluso. Ci siamo risvegliati dal sogno olim-pico in un modo che anche se non è totalmente negativo, ha però minatouno dei beni più preziosi di qualsiasi popolo: la fiducia e la speranza nel fu-turo. Molti dei progetti iniziati stanno faticosamente andando avanti o con-cludendo, alcuni sono stati portati a temine. Ma quando vedi il grattacielodella Regione, percepito come vero monumento allo spreco, lo stato di de-grado del Palazzo del Lavoro, i lavori della metropolitana spesso interrotti,le fabbriche chiuse e abbandonate, il villaggio olimpico, le serrande abbas-sate delle migliaia di negozi chiusi, cresce la voglia di cambiare, di dareuna svolta alla politica. Da parte dell’amministrazione torinese in questianni così difficili, non un gesto, neppure simbolico, di rinuncia a qualcheappannaggio, a qualche privilegio, a qualche clientelismo. Non ci sonostati grossi scandali, almeno a livello torinese, ma neppure qualche gestoche facesse riavvicinare in qualche modo la gente alla politica, all’ammi-nistrazione. Ma al contrario la sensazione è stata quella di persone distanti,

chiuse nei loro palazzi. Forse nonè proprio così, ma questa è stata lapercezione.Perciò, egregio signor Fassino,niente di personale, ma qualcosadi molto, molto reale. E adesso? Per dirla all’americana,God bless Torino (“Dio benedicaTorino”) e BUON LAVORO SIN-DACO APPENDINO! Nella tua amministrazione sono ri-poste le speranze della maggioran-za di tutti i torinesi che sperano, co-me hai detto nel tuo primo di -scorso, tu sappia essere il “SINDA-CO DI TUTTI”.

Grazia Alciati

-Anch’io è la prima volta che scrivo a Il Ponte, in risposta alla prece-dente lettera della sig.ra Demartini.

Qualche mese fa mi è stato chiesto (con la capacità che solo l’amico Edoardoha...) di scrivere un articolo in augurio e così ho fatto, evitando il narcisismoparrocchiale, politicamente corretto e che fa tanto «buoni cristiani», che va perla maggiore, ma che non mi appartiene.Ne ho letto la risposta, peraltro nemmeno correttamente citata (se si spacca ilcapello, occorre farlo bene), e per abitudine non lascio cadere le cose. Mammami ha fatto tignoso e caparbio e non mi son mai nascosto dietro un giornalequando forse una chiamata era umanamente più auspicabile e il metodo giàparla da sé, manco scrivessimo su testate internazionali nelle quali si è global-mente rovinata la buona fama dello scrivente, ma sì, dai, sto al gioco! Comesempre. Ma d’altronde non c’è stato dialogo manco potendo farlo de visu, nonposso pretendere. Già san Girolamo, nelle sue lettere, avvertiva: dum excusarecredis, accusas, «mentre credi di scusarti (giustificarti), ti accusi». Al di là deltempo in cui si permane in un posto, sta alla sensibilità del singolo il capire le si-tuazioni, gli intenti e l’approccio alle cose; e, in piena coscienza, credo di aver-li compresi a fondo e molto, molto bene! Viste anche le pessime e davveroignobili reazioni di alcuni, allora. Poi se non piace ciò che ne vien fuori è un’al-tra questione! Nel leggere questa frase consiglio di ascoltare l’incipit della can-zone del titolo, potrebbe essere illuminante e donare un amarcord musicale. Nulla di ciò che riguarda don Daniele nella precedente missiva può esser mes-so in discussione! È degno di tutta la stima, ma, per piacere, giocarsi la cartadell’«amiamo il nostro parroco», no dai! Credo che don Daniele non abbia bi-sogno di esser né incensato, né difeso, tantomeno «arruffianato». E, conoscen-dolo, gli darebbe pure alquanto fastidio... Siccome, poi, è la somma che fa il to-tale (copyright Totò), abbiamo una cartina di tornasole evangelica, che ci fa ca-pire il tutto: i frutti (gente nuova e idee nuove, il non star fermi riciclando cosesu cose, già fatte e ritrite), l’annuncio (del Vangelo e non di quanto si è belli e sifanno tante cose) e il cammino (parliamo di Concilio, ma lo conosciamo? O ci-tiamo le cose che ci hanno colpito e ci piacciono?). Se questi ci sono possiamoesser contenti! Concludo: possiamo opporci, sentirci offesi perché ci hannopizzicati con le mani nella marmellata e passiamo al contrattacco, ma il negarecose che mi paiono evidenti, non cambia lo stato dei fatti. Vox populi...

don Riccardo

IL PONTE è il giornale “quasibimestrale” della Parrocchia di Santa Monica, via Vado 9 – TorinoSara Vecchioni - direttore responsabileEnrico Periolo e Carla Ponziocoordinano i lavori

Collaborano alla redazione Grazia Alciati, don Massimiliano Canta, don Daniele D’Aria, Aldo Demartini, Roberto Di Lupo, Edoardo Fassio, Federica Fogliato, Maria Grazia Fontan, Cinzia Lorenzetto, Marco Montaldo, Roberta Oliboni, Maria Teresa Varaldae… tutti coloro che vorranno farsi avanti.Tiratura 2700 copie, distribuzione gratuita.

Videoimpaginazione e Stampa:la fotocomposizione - Torino

Il giornale viene distribuito gratuitamente a tutti iparrocchiani. Sono gradite le offerte di sostegno.

REGISTRAZIONE N. 5937 DEL 17-01-2006 AL TRIBUNALE DI TORINO

LA RICETTA DI...

Maria Grazia dal giugno scorso èentrata a far parte della Redazionede Il Ponte. Come saluto a tutti i let-tori del giornale ha pensato di rega-lare questa ricetta molto sfiziosa eche arriva da tanto… lontano. Ben-venuta Maria Grazia e grazie per latua disponibilità e collaborazione!

La stagione del melograno è l’autun-no; la Persia è la sua terra d’origine.Vale la pena assaggiare questo piattotradizionale della cucina persiana (inparticolare della regione del Mar Ca-spio) che utilizza questo mitico frut-to, simbolo di prosperità e longevitàin tutte le culture e ricco di sostanzecon proprietà antiossidanti, un verofarmaco naturale. Si tratta di uno stu-fato di pollo in una salsa di noci to-state e succo di melagrana che vieneservito con il riso pilaf. Si presta be-ne come piatto unico, adatto a creare

un clima festoso che io associo agli in-contri di famiglia. La prima volta che loassaggiai, a casa di mia suocera, rimasiletteralmente conquistata dal saporeineguagliabile della salsa, resa agro-dolce dal succo di melograno che sisposa benissimo con le noci tostate.Poiché lo sciroppo di melagrana è un

po’ difficile da trovare pronto, per que-sta ricetta io preparo in anticipo il succoutilizzando tre frutti maturi.Succo di melograno. Sgranare i fruttitenendo da parte qualche chicco per ladecorazione. Schiacciare i chicchi(pochi per volta) in uno schiacciapa-tate, sopra un recipiente. In un pento-lino far addensare il succo ottenuto(circa 200 ml) sul fuoco con un cuc-chiaio raso di zucchero e due cucchiaicolmi di succo di limone. Deve rag-giungere una consistenza sciropposa.Ingredienti (4-5 porzioni): due cipol-le; olio extravergine di oliva q.b.; 2 pet-ti di pollo (circa 1 kg); 250 g di gheriglidi noci; una presa di pepe; sale q.b.; 200ml sciroppo di melagrana; 400 ml circadi brodo vegetale; 1/2 cucchiaino dicannella; 1/2 cucchiaino di noce mo-scata; 1/2 cucchiaino di curcuma.Preparazione. Tritare molto finementele noci precedentemente sgusciate e fat-

te tostare in padella o nel forno (at-tenzione a non bruciarle!). In unapentola antiaderente con bordo altofare soffriggere nell’olio la cipollatritata. Aggiungere il pollo tagliato adadini e infarinato, salare e pepare efarlo colorire da tutti i lati. Versare ilbrodo, fargli prendere il bollore, poiabbassare la fiamma e continuare acuocere per mezz’ora. Trascorsoquesto tempo aggiungere in pentolale noci tritate, lo sciroppo di melagra-na e le spezie. Abbassare la fiamma,fare sobbollire ancora per un’orettacon un coperchio, mescolando di tan-to in tanto: la salsa deve addensarsiun po’ ma non asciugarsi completa-mente. Aggiustare di sale e pepe, de-corare con i chicchi di melograno eservire con riso bianco basmati cottocon preparazione tipo pilaf. Buon appetito!

Maria Grazia Fontan

Arcangela, una giovane del primo gruppo giovani, studiamedicina, partecipa alla vita parrocchiale e nel suo gruppo.Ha detto, a volte, che intende consacrare la sua vita al Si-gnore, ma senza dire né dove né quando. Un giorno viene acasa nostra (abitavamo in via san Pio V) e dice decisa: “Misono decisa a entrare nel monastero Cottolenghino di clau-sura a Cavoretto. Mi hanno fissato il giorno e l’ora, ma c’èun problema; mio padre non mi vuole accompagnare.Chiedevo a te, Palmina, se venivi con la mia mamma”.Suor Palmina accetta, e nel giorno stabilito accompagnaArcangela, con la mamma, in monastero. La domenica do-po don Beppe dice al papà: “Allora Sebastiano, oggi vo-gliamo andare a trovare Arcangela?”. Risposta: “Se vai tuvengo anch’io”. E da quel giorno quante cose hanno fattoquesti genitori in quel monastero! Sono passati anni, suorArcangela è stata anche Priora in monastero; oggi continuaa donare la sua vita con amore e gioia, portando nella pre-ghiera non solo i suoi cari, ma tutta la comunità di SantaMonica. E oltre al tempo della preghiera e del servizio allesorelle, dipinge bellissime icone di ogni tipo e soggetto.Mauro, anche lui dello stesso gruppo giovani, in ricercasulla strada e sul modo di impegnare la vita. Conosce per-sone che fan parte di un gruppo iniziato da un gesuita, pa-dre Cappelletto, Ricostruttori della Preghiera, dove ci sonoanche sacerdoti. Capisce che lì il Signore lo chiama, entrain Seminario, e dopo anni di preparazione è ordinato sacer-dote a Novara. Oggi è parroco, compie sereno il suo mini-stero e a volte viene da noi. Coi giovani di ieri, come lui, s’ètrovato da suor Arcangela in monastero. Insieme hanno ri-cordato il cammino nel gruppo e i bei momenti condivisi.Sempre di quel gruppo giovani anche Patrizia ha donatola sua vita al Signore come consacrata laica. Ha conosciutonoi Luigine e dopo anni di cammino ha scelto di entrare inCongregazione come consacrata, pur restando a casa econtinuando come insegnante nelle elementari. Nel 1995,

nella cappella della Casa Madre ad Alba, s’è impegnata coivoti di povertà, castità, obbedienza. Era presente anche lasua mamma e don Beppe, che l’aveva seguita, ha celebratol’Eucaristia. Da Santa Monica c’era un bel gruppo: i giova-ni della sua età e tanti amici. Oggi continua il suo servizionella scuola, si trova con noi alla sera nei momenti di pre-ghiera ed è operatrice al Centro Accoglienza con gli immi-grati. Partecipa in Congregazione alle giornate proposte.Enrico, impiegato bancario, sposato e padre di due figli.D’accordo con la moglie presenta la domanda per essereordinato diacono. Il Vescovo l’accoglie, e nella Cappelladelle Suore del Cottolengo (oggi Cappella di Santa Moni-ca) riceve l’ordinazione. Per anni presta servizio nella no-stra comunità, poi si trasferisce fuori Torino.Luigi, sposato e padre di 2 figli anch’essi sposati, non piùgiovane ma disponibile al servizio, è ordinato diacono dalVescovo in Cattedrale. Continua il suo lavoro, alternandolocol servizio a Santa Monica, nella sua comunità. Anche dapensionato segue i suoi malati, e quando qualche parroc-chiano è ricoverato si premura di andarlo a trovare. Dopo lamorte della moglie continua il suo servizio, finché non loferma la malattia. Nel 2013 il Signore l’ha chiamato perdargli il premio riservato “al servo buono e fedele”.Giorgio, sposato e padre di due figli, viene ordinato dia-cono in Cattedrale nel 2001. Presta servizio per anni incomunità, ma nel 2014 la malattia lo ferma. Quando sisente torna a fare il suo servizio e constata che la preghie-ra della comunità lo accompagna e sostiene. Il Signore lochiama a marzo dello scorso anno.Per anni nella nostra comunità abbiamo avuto il serviziodi tre diaconi. Oggi a Santa Monica non ci sono diaconi.Preghiamo il Signore perché susciti nei giovani il deside-rio e l’impegno necessario per donare la vita, con volontàe perseveranza, fino alla fine.

suor Francesca Cerino

Ogni volta che nel mio paese vedo al-l’opera Gianfranco il cardiologo chedopo l’ospedale cura gratis tutti i com-paesani che a lui si rivolgono, o la bellasignora A. che si fa carico del vicino so-lo al mondo rifiutato dai più, o la giova-ne sindaca che si spende e lotta contro imulini a vento, ogni volta che li vedo oli penso continuo a chiedermi: perché?Chi glielo fa fare? Perché buttarsi in unmare di generosità che non sai quantopotrà essere grande e profondo ma dicerto sai che ti risucchierà?Gliel’ho chiesto direttamente alla sin-daca (che per caso è anche mia cugina).

Valeria, chi te l’ha fatto fare?E così mi ha risposto.«La mia ingenuità e credo anche quelbisogno di amare, di adoperarmi e didarmi che sento, a volte anche come unacondanna, fin da quando sono piccola.Quando mi sono candidata ero anche inun momento della mia vita in cui cerca-vo in tutte le direzioni la mia strada e hosentito che forse poteva essere quella.Gli studi che avevo fatto e un po’ di vani-tà pure mi hanno convinto».Quando, più di due anni fa, si è presen-tata alle elezioni con la sua lista di coe-tanei, Valeria aveva 33 anni, due bam-bini, uno di tre anni e l’altra di pochimesi, un marito ricciolone ed era da po-co tornata a stabilirsi in paese, nel cuoredi una grande famiglia che comprendeanche il papà e i suoi due fratelli. For-mazione superclassica: liceo classico,danza classica, laurea in giurispruden-za. Un po’ meno classico il percorso la-vorativo: ha rifiutato dopo tre anni dipratica la carriera di avvocato quandoha visto che nella piccola città di Asti èdifficile volgere la professione alla di-fesa di chi è davvero da difendere. Hacercato altre strade e nel frattempo so-no arrivati i bambini, voluti ed amatismisuratamente.

Cosa ti sei immaginata di fare unavolta sindaca?

«Ho immaginato di fare di Cinaglio ilpiù bel paese del mondo. C’era nei mieipiani, e c’è ancora, di donargli qualco-sa di unico, ad esempio un senso di co-munità e di civiltà esclusivi, che richia-masse le persone da tutto il mondo eche potesse legare stretti tutti noi. Mispremo ancora oggi le meningi per tro-vare quell’idea che accenda Cinagliodi luci, che apra i negozi, che faccia in-contrare persone di mondi diversi chelo faccia diventare proprio un bel postoin cui vivere».Ecco questo è il linguaggio della nostrasindaca, per lei Cinaglio e il mondohanno la stessa grandezza. E io, che ho30 anni più di lei, mi lascio affascinareda questa sognatrice cocciuta e realistache non sa non sognare e lo fa solo ingrande. E come posso la sostengo.

I momenti e le cose più belle chehai inseguito e che ti sono capitatein questo mandato.

«Ho inseguito con allegria tutto il fer-mento della preparazione del program-ma elettorale carico di ideali». Tra i punti del programma il PROGETTO

BELLEZZA rispecchia meglio la femmi-nilità e la grazia di Valeria che ha ridi-pinto le facciate degli edifici pubblici,coltivato il verde, recuperato i vecchicrottini, svecchiato i discorsi ufficiali

con l’uso di parole semplici e coi bimbiper mano, portato i jeans sotto la fasciatricolore, abbracciato e baciato tutti co-me fanno oggi i giovani.«Ho inseguito poi l’idea del giornalinofino alla sua nascita e ogni numero miemoziona ancora». E qui mi inorgoglisco anch’io che faccioparte della redazione. A cadenza trime-strale esce il giornale di Cinaglio, un li-brettino colorato con una grafica nuova,in cui i cinagliesi trovano le loro facce,storie, informazioni. Lo ricevono in bu-ca o in versione online sul sito del Co-mune e ne sono contenti pare. Come IlPonte per Santa Monica, il giornalino diCinaglio è lo specchio di una comunitàche si riflette e si vuole un po’ più bene.Però i soldi sono pochi e non sappiamoquanta vita potrà ancora avere… «Mi è capitato di vincere il bando perla ristrutturazione della scuola ed èstato forse il momento più bello, hosentito che stavo facendo bene».Qui devo correggere: non le è capitato,è stata tanto brava da costruire un pro-getto giusto e inviarlo in tempi recordcosì da piazzarsi nei primi posti di unagraduatoria nazionale e vedere asse-gnata al nostro paesino la bella cifra di350.000 euro per la ristrutturazionedell’edificio scolastico e dell’oratorio.

Le difficoltà? «La vicenda dell’accoglienza dei pro-fughi è stata una grande prova. Ho mi-surato per la prima volta il mio valore eho capito quanto coraggio mi scorres-se dentro, quanta forza e determinazio-

sono ben integrati. Peggio che mai. Imeno disposti all’accoglienza sonoproprio loro e l’assemblea degenera piùdella prima. Il dolore di Valeria e deisuoi 4 sostenitori è grande, ma lei nonrinuncia: si rivolge alle autorità civili,religiose, da cui riceve dichiarazioni disolidarietà e inviti alla cautela. Nessunprofugo è stato accolto in paese.

Quanto guadagni al mese?«Non c’è uno stipendio fisso. Il sindacodi un paese fino a 1000 abitanti puòfruire di un’indennità mensile lorda fi-no a 1400 euro al mese. Nulla è previ-sto per le altre cariche. Io ho scelto dipercepire uno stipendio netto di 300euro al mese, di cui 50 vanno al vice-sindaco e altri 50 all’assessore».Ora Valeria fa un lavoro che le piacemolto: gestisce insieme a dei soci unacaffetteria letteraria, in Asti. Preparacose buone da mangiare ed eventi cul-turali insieme. Nella caffetteria lavoraun profugo. Quando nel suo locale in-contra un artista lei pensa a come por-tarne il talento a Cinaglio. Da quando ènelle sue mani il nostro paese è più bel-lo e gentile, anche se non si cancellanoin pochi anni durezze di secoli.

Come ti immagini tra 25/30 anni? «Una signora minuta con una lungatreccia grigia che si occupa del suo re-lais “San Rocco” ed accudisce tutta lasua grande famiglia ».

[Nella fotografia: la sindaca Valeria conla scrittrice Margherita Oggero e la no-stra Carla Ponzio]

Spezzatino iraniano di petto di polloin salsa di noci e melagrana (fesenjun)