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Anno 14 Numero 28 Foglio della comunità italiana di Foglio della comunità italiana di Capodistria Capodistria Giugno Giugno 2009 2009

Anno 14 Numero 28 GGiugnoiugno 20092009 citta28.pdfcaleidoscopio istriano: l’ italiano, lo sloveno e il croato. * Testo letto al convegno del 29 maggio all’Università del Litorale

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Anno 14 Numero 28

Foglio della comunità italiana di Foglio della comunità italiana di CapodistriaCapodistria

GiugnoGiugno 2009 2009

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La città

Auguri Radio Capodistriadi Aljoša Curavić

Caporedattore programmi italiani dell’emittente

Radio Capodistria nasce il 25 maggio 1949 come una stazione radio con programmi in lingua italiana, slovena e croata. Se è vero che le origini segnano il futuro, nel Dna di questa emittente, che in questi giorni celebra sessant’ anni, c’è la fotografia di questa regione e la volontà del dialogo fra lingue e culture differenti e altre. Sessant’ anni non sono pochi. Ce ne rendiamo conto noi e se ne rende conto anche chi, forse, alimenta ancora alcuni pregiudizi ereditati da una storia inclemente nei confronti delle popolazioni di queste terre.

Comunque sia, in sessant’anni di storia e di sconvolgimenti epocali, la radio si è sviluppata e assestata in due programmi indipendenti e autonomi: il programma in lingua italiana e il programma in lingua slovena, e nessun pregiudizio può dare un colpo di spugna ad una realtà che si pone come un esempio di tutela di una minoranza, di convivenza e di dialogo. La radio in se’, come mezzo di comunicazione, è sostanzialmente una voce, una voce che riflette la realtà e che parla a tutti coloro che quella realtà condividono, superando i confini e le barriere. Radio Capodistria, che dà voce al programma in lingua italiana, è una struttura programmaticamente autonoma con status di emittente, così come lo è Radio Koper, che dà voce al programma in lingua slovena. Entrambe convivono all’interno del Centro regionale della RTV di Slovenia. Entrambe hanno la soggettività per creare programmi e dare vita ad avvenimenti autonomi. Entrambe sono nate dalla volontà, sia pure strumentalmente politica, di dar voce ad un brulichio di lingue che ne’ la guerra, ne’ i regimi, ne’ i nazionalismi hanno potuto zittire. Penso e spero che la soggettività consapevole di questi due programmi non dia più fastidio a nessuno. Noi non abbiamo dimenticato le nostre origini. Non perdiamo mai di vista la minoranza italiana in tutto il suo insediamento storico, anche se dobbiamo fare i conti con la concorrenza radiofonica spietata

e un segnale radio che vorremmo più forte in Istria, Quarnero e Dalmazia, da aggiungere al segnale satellitare e a quello della rete, che ci sono e funzionano. Non abbiamo dimenticato i nostri ascoltatori, che poi sono quelli che contano più di tutto. E ci premiano. Lo dicono i numeri degli ascolti e lo dicono tutti coloro che dal Friuli Venezia Giulia, dal territorio del Litorale e dell’ Istria, sono venuti a trovarci in occasione dell’ormai tradizionale giornata delle porte aperte. Mai così tanti come quest’ anno.

Non ci siamo dimenticati degli altri, perchè sono convinto che una voce chiusa su se stessa, che parla per se stessa, ghettizzata in schemi dettati dalla paura del confronto con gli altri, è destinata a spegnersi. Per questo siamo entrati nel mondo dei giovani e abbiamo aperto le nostre porte al loro mondo, dando vita a trasmissioni nate fra i banchi di scuola, nelle strade, nelle piazze delle nostre città. Abbiamo dato voce agli extracomunitari per i quali l’Europa da chimera si è trasformata in dura realtà; abbiamo fatto parlare, qualche volta fregandocene delle regole grammaticali e dei sofismi linguistici (e chiedo scusa se qualcuno si è offeso per questo), una realtà brulicante di contrasti e vitalità, tentata dall’odio ma votata alla convivenza e alla comprensione reciproca. Abbiamo fatto cantare e suonare chi spesso non ha trovato un palco dove cantare o suonare, ma anche chi ha saputo sfondare sui più grandi palchi d’Europa. Infine, visto che le origini spesso ritornano, non ci siamo spaventati di dar voce contemporaneamente su tre frequenze (quelle di Radio Pula-Pola e Radio Koper-Capodistria), sia pure per soli quindici minuti, a tutte e tre le lingue che compongono questo splendido caleidoscopio istriano: l’ italiano, lo sloveno e il croato.

* Testo letto al convegno del 29 maggio all’Università del Litorale

Da sinistra: il caporedattore responsabile del programma

italiano di Radio Capodistria, Aljoša Curavić, il direttore del Centro regionale RTV Koper-

Capodistria, Dragomir Mikelič, la caporedattrice responsabile

del programma sloveno di Radio Koper, Maja Kirar ed il vicedirettore generale per la

radio e la televisione per la CNI, Antonio Rocco. (Maksimiljana

Ipavec – Primorske novice)

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A margine del 60.mo anniversario di Radio CapodistriaGiorgio Visintin ha partecipato alla fase pionieristica di Radio Capodistria, e dal novembre del 1952, fino ad oggi, quindi da buoni 56 anni, lavora per la RTV, con traduzioni e prestando voce alle sincronizzazioni. Gli

abbiamo posto alcune domande sugli inizi della radio.

In quale contesto nasce dunque Radio Capodistria?Per farla nascere in quel lontano periodo, di intensa conflittualità, c’erano almeno tre ragioni. Il confine tra Italia e Jugoslavia si chiamava dal giugno 1945 Linea Morgan; lasciava la penisola istriana (eccetto Pola) sotto amministrazione jugoslava e Trieste occupata dagli angloamericani, mentre Gorizia ritornava all’Italia nel settembre ’47. La linea Morgan tracciava pressapoco il confine poi stabilito dal trattato di pace, confine che era anche quello dell’oggi dimenticato TLT, il Territorio libero di Trieste, diviso con status provvisorio in due zone A e B, finchè il Consiglio di sicurezza dell’ONU non avesse nominato un governatore neutrale. L’accordo sulla sua persona, tra veti russi e veti alleati non fu mai raggiunto e la situazione rimase fluida e contesa fino al Memorandum di Londra dell’ottobre ‘54, con il quale passava all’amministrazione italiana la zona A, e alla jugoslava la zona B, che arrivava fino al Quieto e a Cittanova. Ricordo bene come ancora nel 1954, c’erano qui ancora molte, anche serissime persone, convinte che Trieste andrà alla Jugoslavia e ne costituirà, insieme all’odierno Litorale, la settima repubblica federativa. In una domenica estiva, il 15 agosto del ’54, durante un discorso di Tito dal balcone del palazzo Pretorio a Capodistria, dalla folla fu lanciato, non so se per la prima volta, ma certo per l’ultima, lo slogan in rima “Cona A, Cona Be, naši bosta obe!”(Le zone A e B saranno ambedue nostre).A Trieste invece era sentito il fronte per l’indipendenza del TLT, peraltro rudemente osteggiato, con distruzioni di sedi, pestaggi e accoltellamenti dei suoi attivisti, tra i quali anche mio zio. L’MSI, (il Movimento sociale italiano) organizzava le squadracce, che arrivavano in treno fin dal sud Italia. Manifestazioni e contromanifestazioni si susseguivano, continue e cruente, a malapena sedate dalla Military Police e dai cosiddetti “Cerini”, la Polizia Civile - istituita

dagli alleati. Risultavano nuove e sconvolgenti specie le loro cariche a cavallo. Nel ’52, venire dalla bolgia di Trieste a lavorare a Capodistria alla Radio, sembrava come entrare in un’oasi di pace -oasi per me- che però veniva abbandonata da troppo numerosi italiani, che per l’incalzare di stressanti cambiamenti, si sentivano peggio che pesci fuor d’acqua. Questo per capire i tempi che correvano.

Radio Capodistria, nasce dunque in questo clima, nel maggio del 1949.Si, nasce con il nome di Radio Trieste zona jugoslava. Già con il primo debole trasmettitore, s’inserisce subito con successo, nelle feroci polemiche del tempo, con commenti centrati e seguiti. Dicevo di più ragioni. La seconda ragione della sua nascita, e sembra si preferisca dimenticarla oggi - ma è storia - a seguito della scomunica della Jugoslavia da parte del Cominform, riunito a Bucarest nel giugno ‘48, Tito era visto come un eretico filo-occidentale da tutti i partiti comunisti e stalinisti di allora. Il Cominform sobillava apertamente al rovesciamento del governo e proprio i fedeli di “baffone” sono stati i primi a popolare la famigerata Isola Calva. Il movimento dei non allineati non era ancora nato, e alla Jugoslavia isolata, urgeva rendere pubbliche le proprie ragioni. Vennero spostati a Capodistria, mezzi e personale dal programma per l’estero di Radio Belgrado, che aveva poco ascolto. Venne a Capodistria anche un suo redattore, Ettore Battelli, polesano, che divenne molto popolare per le sue lucide rassegne domenicali di politica estera. E la terza ragione della nascita di Radio Capodistria, anche se non andrebbe citata per ultima, viene dalla politica di rispetto dei diritti delle minoranze nazionali, Il giornalista Silvano Sau e la speaker Maria Pfeifer

Giorgio Visintin alla mostra per i 50 anni della RTV slovena, in posa davanti a un'immagine che lo ritrae agli

albori di Tv Capodistria

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sanciti dalla costituzione. Il concretamento cioè del loro diritto all’informazione nella propria lingua. Negli anni cinquanta poi, il bilinguismo non era formale, come lo è abbastanza oggi, ma effettivo, onnipresente, e non solo a Capodistria, dove si sentiva parlare italiano per strada, in negozi, uffici e caffè, fino a che nel ‘54, non si aggravò, anche nella ex zona B, il pernicioso stillicidio dell’esodo della popolazione italiana.

Cosa trasmetteva allora la radio?Accanto al fil rouge politico dei suoi notiziari e commenti, Radio Capodistria ha immediatamente sviluppato anche una notevole produzione culturale: trasmissioni per i ragazzi delle scuole, si seguivano, ritrasmettevano e pure organizzavano le più varie manifestazioni: rassegne, cori, concerti. Capitava così che il mio professore di violino, Carlo Sanzin, talvolta mi diceva: “Niente lezione domani, devo preparare il concerto settimanale a Radio Capodistria”.Mezzi tecnici di registrazione, semplicemente non esistevano ancora, tutto andava in onda esclusivamente

dal vivo, anche il Teatro radiofonico, con commedioni in tre atti, con fino a quindici interpreti. Appena nel 1953-54 apparvero i primi registratori americani a filo, i Webster, di resa piuttosto carente; per cui i radiodrammi, allora di moda, e che piacevano molto al primo regista Anton Marti, si cominciarono a produrre appena nel 1957-58 quando comparvero i primi magnetofoni a nastro.

Ci racconti qualche aneddoto?Non vado nei dettagli di quello notissimo, finito anche sul foglio “La Nostra Lotta”, che è capitato quand’ero ancora speaker e in turno per il primo Notiziario delle 6.30. Non arrivavo, e il tecnico venne a svegliarmi. Mi son messo a correre, in pigiama, e il tecnico in camice bianco mi correva dietro; sono arrivato però in tempo utile. “La Nostra Lotta” ovviamente ci ha ricamato sopra, descrivendo una “mattiniera fuga dal manicomio”.Può essere maggiormente specchio di quei tempi un altro aneddoto. Poco prima del Memorandum d’intesa di Londra dell’ottobre 1954, che sanciva la spartizione del

TLT - con zona B de facto alla Jugoslavia, Trieste tornava all’Italia e se ne andavano gli alleati - nella continua tensione c’era stata un’escalation. L’allora presidente del consiglio italiano Scelba, già prima noto come “ministro-mitra” per il largo uso che faceva della polizia, aveva mandato l’esercito al confine. Ovviamente la Jugoslavia aveva fatto subito altrettanto. Segue un lungo tira-molla di trattative diplomatiche internazionali. E i più giovani fummo comandati allo stadio di Capodistria, dove con Tomizza, ci hanno inquadrato nei battaglioni di “volontari per la difesa dei confini”. Fortunatamente tutto si limitò alle riprese del cinegiornale “Filmske novosti”di Belgrado. Anche perchè, qualche settimana dopo, Tito, in uno dei suoi interminabili discorsi pronunciava, non ricordo se a Belgrado o a Spalato, la provvidenziale frase “Non faremo certo la guerra per Trieste”. Provvidenziale, per la distensione ed anche per me. Un giudice mi prosciolse infatti dall’accusa di aver propalato notizie sovversive. Cos’era successo? Parlavo con il direttore del Teatro, e lui m’aveva chiesto: “Cosa pensa: Trieste sarà jugoslava?” Conoscendo troppo bene la situazione, non potevo certo dirgli di sì. E il giorno dopo, mi convocava agli Affari interni in Piazzale Derin, un ufficiale dell’Udba, guarda caso, marito della segretaria del direttore, che era presente ed evidentemente attenta ai nostri discorsi.Ma Radio Capodistria si adoperava fin da allora per abbatterli i confini, lanciando sempre più ampi messaggi di apertura, di collaborazione, di reciproca conoscenza, e distensione, nonostante la guerra fredda tra Est ed Ovest, in un impegno continuo e appassionato, che vede oggi, direi, un suo coronamento, anche nella raggiunta Casa Europea.

Insomma un lavoro tra entusiasmo e, diciamo… censura…In qualità di “laudator temporis acti”, amo ricordare il periodo pionieristico della Radio, anche perchè coincide con i miei anni verdi. E mi piace sottolineare l’entusiasmo, che animava tutti negli anni ‘50, 60 e 70. Spesso il

L'ex direttore Mario Abram e la conduttrice Bruna Alessio

Stefano Lusa, caporedattore del programma informativo di Radio Capodistria, Donatella Pohar, responsabile del settore

musicale e di intrattenimento e la giornalista Lara Drčič.

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lavorare con passione, riusciva a sopperire a più di qualche manchevolezza. A Radio Capodistria, s’era comunque raccolto un nerbo di persone, di giornalisti e di altri profili di tutto rispetto. Va ricordato lo scrittore di fantascienza, Peter Kolosimo, altoatesino, e le sue trasmissioni satiriche “Le Follie”, in cui si recitava ed anche cantavano strofette sull’aria di canzoni in voga. Me n’è rimasta nella memoria solo una, dedicata al primo grande evasore fiscale italiano: “Povero Brusadelli, ha solo quattro ville e tre castelli, che tristezza!”Da Roma era giunto il solido commentatore Carlo Laurenzi; da Genova, Libero Verardo, i cui commenti significavano per gli speaker autentiche sfide, le sue frasi duravano fin 13 righe, prima di arrivare al punto. C’era Anton Marti, regista

specchio, genialissimo, che veniva dall’avanspettacolo, e partecipò poi alla fondazione della prima TV jugoslava a Zagabria. Mia Kalan di Trieste, bravissima nelle trasmissioni per ragazzi, passò al reportage settimanale, quando, fu assunto -terminato il liceo-il compianto amico Fulvio Tomizza; fra l’altro mattatore anche nella compagnia del Teatro del popolo di Capodistria, che in poco più di tre anni di vita diede la bellezza di 97 spettacoli. Mi piace ricordare anche Bruno Cannella, goriziano, che oltre che giornalista del turno notiziari, era attivo come attore negli “Angoli dei ragazzi”, magistralmente scritti da Tomizza. La principale preoccupazione di Cannella era di non dover interpretare personaggi che finivano per morire. Perchè diceva:“Poi la mia mamma, che mi ascolta, si spaventa!”.

Le giornaliste del programma sloveno Mateja Markončič, Neva Zajc, la speaker Janja Lešnik con il

direttore generale di RTV Slovenia, Anton Guzej.

1954. Bruno Cannella (giornalista), Lojze Vilhar (capo esecuzione), Tončka Ventin (speaker sloveno), Gašperlin

(redattore musicale) e Mihelič (speaker croato). In piedi Visintin

Il tecnico Danijel Matič in uno degli studi di Radio Koper-Capodistria assieme a giovani ospiti.

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Al trasmettitore di Croce Bianca

La seconda guerra mondiale ha duramente penalizzato parecchi studenti, specie dopo l’armistizio del settembre 1943. Alla fine dell’anno scolastico 1942-’43, io avevo concluso il ginnasio classico ed avevo affrontato con successo gli esami d’ammissione al liceo, ma purtroppo i miei studi classici si erano conclusi con quegli esami. Finita la guerra avevo ripreso gli studi iscrivendomi all’Istituto tecnico industriale di Lubiana, reparto elettrotecnico. Ho fatto questo preambolo per far comprendere che è stata proprio la conoscenza della lingua italiana il fattore determinante per il mio impiego a radio Capodistria. Infatti alla fine degli studi, dopo un breve periodo di pratica a Radio Lubiana, mi hanno mandato a Capodistria dove ho lavorato prima in regia, poi sono stato traferito al trasmettitore di Croce Bianca per sostituire alcuni tecnici triestini che avevano dato le dimissioni per ragioni finanziarie. I primi mesi di lavoro al trasmettitore sono trascorsi all’insegna di un lavoro piacevole, seppure a volte stressante.All’arrivo dell’inverno le cose sono cambiate a causa del freddo e della bora. Nei giorni di bora forte

dovevamo riscaldare all’aperto un bidone d’acqua per travasarla poi nel carter del gruppo elettrogeno che forniva l’energia elettrica al trasmettitore in caso di interruzioni alla linea di alta tensione. Oltre al lavoro di turno al trasmettitore questo era uno dei lavori più duri. L’altro lavoro impegnativo consisteva nel controllo e nella manutenzione dell’antenna del traliccio alta oltre 70 metri. Lavoro che si svolgeva sempre sotto il controllo del nostro capo Pino Hollstein. Durante l’inverno le oscillazioni provocate dal forte vento allentavano le viti, ragion per cui in primavera bisognava avvitarle. Mi ricordo che una volta, durante la visita di controllo degli ufficiali della VUJA (Vojna Uprava Jug. Armije) uno degli ufficiali stava discutendo sotto l’antenna con il segretario del nostro ente Oscar Venturini sul nostro lavoro e sulle nostre paghe. »Questi ragazzi – disse l’ufficiale – meriterebbero, per il lavoro che svolgono, una paga almeno del 15% in più«. Io, dopo esser sceso dall’antenna mi avvicinai all’ufficiale e gli dissi: »Noi non richiediamo un aumento, credo però sia giusto che ci paghino gli straordinari, specie durante l’inverno quando ci alziamo alle 4 per riscaldare l’acqua che dobbiamo poi travasare nel carter del gruppo elettrogeno«.Lo stesso ufficiale della VUJA,

alcuni mesi più tardi, nuovamente in ispezione al trasmettitore si era avvicinato a me e al mio collega Bruno Cocceani per chiederci tra l’altro se ci consideravamo cittadini jugoslavi o italiani. Cocceani gli rispose: »Io mi considero cittadino europeo«. Molto sorpreso l’ufficiale ripetè la domanda a me. Io per smorzare e mitigare la secca risposta di Cocceani risposi: »Gli stati europei sono ormai da centinaia di anni in continua lotta tra loro. La soluzione sarebbe una pacifica coesistenza fra tutti gli stati del vecchio continente, perciò mi sembra lecito aspirare a una cittadinanza europea«. Conclusi il mio dire sperando che non avremmo dovuto sopportare le conseguenze per aver pronunciato parole che nel 1950 erano alquanto azzardate. Per fortuna tutto si concluse senza conseguenze. Di queste parole mi ricordai spesso e in particolare dopo il 1951, quando nell’Europa occidentale iniziò prima un processo di integrazione economica e in seguito politica, cose che hanno contribuito a far diventare l’Europa una potenza economica di primo piano.

Ferdi Vidmar

Palazzo Tarsia, la prima sede di Radio Capodistria

Ferdi Vidmar intervistato dalla giornalista televisiva Claudia Raspolič

La vecchia antenna di Croce Bianca

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Nasce il sito della CAN comunale

Dall’inizio dell’anno è ufficialmente attivo il sito www.cancapodistria.org, della Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana di Capodistria. L’iniziativa è stata presentata in conferenza stampa dal presidente, Alberto Scheriani, affiancato dai due ideatori responsabili, che hanno lavorato al progetto, ovvero Roberto Colussi e Saša Geissa.

Per adesso le pagine non sono ancora complete, ma si conta di aggiornarle continuamente. “Un sito non è mai finito, ma cresce sempre” ha detto Colussi durante la presentazione. La funzione principale del portale è quella di garantire una maggiore riconoscibilità della Comunità Nazionale Italiana, attraverso l’uso di uno strumento che prende sempre più piede tra tutti i tipi di utenti, di diverse generazioni e diversi ceti sociali. Il sito web è stato creato in maniera da essere fruibile e funzionale. Si compone di diversi menù, con i documenti principali e le notizie fondamentali sulla CAN, come pure informazioni su Capodistria e la sua storia, dati su Palazzo Carli e su Palazzo Gravisi - Buttorai, sede della CI “Santorio Santorio” di Capodistria, la quale pure ha un suo menù, dove

saranno presentate le attività che vi si svolgono. Inoltre “La Città”, foglio del sodalizio capodistriano, è scaricabile in formato pdf anche da Internet. L’occasione è servita anche per affrontare altri argomenti, esposti da Aleksandro Burra rispettivamente Fulvio Richter. Il primo ha presentato i diversi progetti a livello europeo ai quali la CAN partecipa assieme a diversi enti della zona ed anche transfrontalieri – i quali verranno tutti illustrati sul nuovo sito. Richter, invece, ha toccato un tasto dolente, ovvero la problematica sorta attorno alla chiesetta della Madonna della Salute. Il luogo è oramai accerchiato dal cantiere stradale e da uscite e strade legate ai lavori per la superstrada Capodistria - Isola. Parte della superficie di cui poteva disporre è

stata diminuita, per cui si sta lavorando assieme al Comune di Capodistria ed alla parrocchia capodistriana, per riuscire a comunicare con la Società per le autostrade (DARS) per risolvere, almeno in parte, il problema dell’accesso e del parcheggio. Anche Flavio Forlani, presidente della Comunità autogestia costiera e vice di quella capodistriana, ha illustrato altri due progetti in cui la CAN è protagonista, che riguardano la scuola a Capodistria dal ‘45 in poi ed un altro intitolato “Progetto lingue”. Da entrambi dovrebbero risultare delle pubblicazioni nei prossimi anni. Interessante pure il progetto di fondare una libreria italiana proprio di fronte a Palazzo Carli, negli spazi in cui anni fa vi era un negozio di scarpe, ormai vuoto da molto tempo.

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Un libreria italiana nell'area costieraProposta al vaglio nell’ambito del progetto europeo »Lingua«

Vi sarà capitato qualche volta di entrare in una libreria del Capodistriano e di aver pensato: peccato che non ci sia qualche libro in più in lingua italiana? Ebbene fra non molto qualcosa potrebbe cambiare. Non tanto con l’allargamento dell’offerta delle librerie presenti, ma con la creazione di una libreria specializzata che metterebbe in vendita volumi italiani. È l’idea lanciata dall’Unione italiana da realizzare nell’ambito dell’ennesimo progetto che vede coivolta l’organizzazione della Comunità nazionale in Slovenia e Croazia, assieme a istituzioni della Comunità slovena nel vicino Friuli Venezia Giulia.

Vediamo dunque nello specifico di che cosa si tratta. Abbiamo chiesto spiegazioni sulla proposta di aprire una libreria italiana nel territorio nazionalmente misto costiero alla responsabile dell’Ufficio di Unione italiana a Capodistria, ROBERTA VINCOLETTO.La minoranza italiana sta lavorando già da un anno con quella slovena per presentare un progetto strategico, questo bando del progetto operativo Italia-Slovenia 2007-2013. L’idea è quella di un progetto che vada a valorizzare e promuovere le lingue del territorio, quindi l’italiana sulla costa slovena e la lingua slovena nel Friuli Venezia Giulia. Sono previste diverse iniziative legate sia alle scuole che alle biblioteche e alle Università. Tra le iniziative proposte rientra anche l’apertura di una libreria italiana qui nel Capodistriano. Un’altra iniziativa, prevista nel progetto »Lingua« è, in previsione, anche quella di aprire un centro multimediale per la promozione della lingua slovena a San Pietro al Natisone. Perchè avete pensato a una libreria piuttosto che qualcos’altro?Abbiamo fatto un’analisi di quello che la minoranza italiana ha già sul territorio, quindi tra il Centro Combi, le Comunità degli italiani, le Can e l’Unione e abbiamo pensato – visto anche l’afflusso di numerosi studenti presso la Facoltà di umanistica indirizzo italianistica, di aprire una libreria di cui le nostre autorità parlano già da anni ma non si è mai realizzata. Speriamo che questa sia la volta buona, magari con l’aiuto del Comune di Capodistria. Se tutto andrà bene, le attività dovrebbero partire nel 2010.

Sulla scia di questa prospettiva, abbiamo cercato di capire – assieme a persone della Comunità nazionale impegnate nel mondo della cultura – come viene vista l’iniziativa e che tipo di nuova libreria in sostanza sarebbe utile per il territorio nazionalmente misto del Litorale. Il parere di AMALIA PETRONIO, responsabile del settore italiano della Biblioteca centrale di Capodistria.Io vedo tale iniziativa in modo positivo sia dal punto di vista culturale che come bibliotecario, come persona che legge, che ama i libri. Per me è una cosa positiva a patto che i prezzi siano concorrenziali, ciò significa che i prezzi devono essere bassi e indubbiamente non si deve avere l’intenzione di guadagnare, perchè è molto difficile oggi guadagnare con la vendita dei libri. Si deve prenderlo

come un fatto culturale, seminar libri per così dire. Oggi come oggi purtroppo il libro è sempre meno usato, perchè si usa il libro digitalizzato, si usa internet. Qui da noi spesso c’è richiesta di libri per ragazzi oppure il libro che è alla moda tipo »Harry Potter«, e non riusciamo a correre a Trieste ad acquistare il libro e allora sarebbe una bella cosa veramente avere la libreria qui in Calegaria. Uno scende e lo prende anche ad un prezzo, diciamo buono, non più caro che a Trieste. Penso che sono interessanti per la vendita i libri scolastici, i libri per i bambini piccoli che imparano la lingua italiana, ma anche per i bambini della minoranza, libri con caratteri grandi. Noi bibliotecari facciamo già da filtro, perchè l’Italia è un mercato enorme; scegliamo i libri migliori, meglio illustrati…quindi questa libreria deve venir guidata da una persona preparata. Questo è essenziale secondo me. Un problema anche da affrontare è la tassa sul libro dell’8,5 per cento che è un peso che io penso non è giustificabile.

Amalia Petronio nella sala di lettura intitolata a Fulvio Tomizza

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E poi parlo di prezzi concorrenziali perchè l’anno scorso, in giugno, sono stata a Lendava su invito della minoranza ungherese, e presso la loro Comunità ho visto la vendita di libri attuali a metà prezzo. Non so come sono riusciti a produrre nell’ambito della Comunità una specie di libreria e riescono a vendere i libri a metà prezzo. Devo dire che collaborano molto bene con Budapest, con il suo ambiente culturale e le biblioteche. La cultura è un investimento. In Francia so che a Natale ogni bambino riceve una novità libraria, anche questo è un modo per diffondere la cultura nazionale. Anche i politici italiani e sloveni devono trovare una metodologia per avvicinare sempre di più la cultura italiana e slovena ai ragazzi e agli adulti. Con la buona volontà si può arrivare lontano.

MARIO STEFFÉ, coordinatore culturale per la Comunità nazionale italiana presso il comune di Capodistria. È chiaro che come lettore e persona attenta a quelle che sono le questioni in campo librario, mi farebbe molto piacere che si aprisse uno spazio di questo genere. In realtà bisogna dire che l’opportunità per la stampa periodica in lingua italiana di essere presente sugli scaffali delle librerie, in tutti e tre i comuni costieri, si sia andata notevolmente affievolendo. Ci sono delle presenze sporadiche che sono inserite nella distribuzione complessiva sul mercato, nelle librerie e reti di distribuzione libraria, però è ben poca cosa. Io credo che ci sia una forte richiesta e un buon interesse

da parte della popolazione, non solo da quella autoctona della minoranza, ma anche da parte della maggioranza in gran parte bilingue o comunque interessata ad aspetti specifici della stampa in lingua italiana che può offrire dei titoli non presenti sul mercato nazionale in lingua slovena. Di conseguenza questa innovazione, questa introduzione di una libreria italiana, potrebbe diventare una buona opportunità in questo senso. Resta da capire poi se per una questione di mercato i prezzi diventerebbero concorrenziali rispetto alle stesse pubblicazioni periodiche o ai libri presenti in Italia. Che tipo di offerta vede in questa eventuale futura libreria italiana?Chiaramente l’offerta deve essere modellata in base a quella che è la richiesta. Credo che accanto a una buona offerta di quelli che sono i titoli che vanno per la maggiore nel campo della prosa, della letteratura di genere, della saggistica, dovrebbero trovarsi comunque delle pubblicazioni che riguardano il territorio, quindi di storia patria, saggistica di carattere storiografico ma anche pubblicazioni che possano interessare soprattutto il grosso pubblico. Questo tipo di offerta verrebbe a sopperire delle lacune che sono bene evidenziate.Con la caduta dei confini interni europei questo discorso diventa più facile?Per certi versi diventa paradossalmente anche più difficile. Vista la vicinanza con il territorio italiano bisogna chiarire anche la questione della competitività nei prezzi. E’ chiaro che al lato pratico se io trovo lo stesso libro nelle edicole o in una libreria specializzata qui a Capodistria a un prezzo superiore rispetto a quanto offerto a Trieste, vado a comperarlo oltre.

Il limite, le differenze tra biblioteca e libreria, si fanno sempre meno marcati nel contesto moderno della fruibilità libraria. Questo è il punto di vista del direttore della Biblioteca centrale »Srečko Vilhar« di Capodistria, IVAN MARKOVIĆ. L’idea è senz’altro interessante per noi che siamo fruitori regolari della letteratura e del libro italiano. Lo vediamo insomma come un fattore positivo. Le possibilità di collaborazione sono tante. Da una parte la possibilità di reperire dei libri per non dover andare nelle librerie d’oltreconfine, la possibilità magari di recuperare più facilmente le pubblicazioni edite dall’Edit o da altre istituzioni della Comunità nazionale italiana. Un momento di aggregazione che vedo senz’altro in luce positiva.Che tipo di pubblicazioni?Tutte le pubblicazioni che sono in qualche modo legate alla nazionalità italiana del territorio, Edit, Centro ricerche storiche e via dicendo. Poi naturalmente le novità librarie in Italia, la letteratura. Non dovrebbe mancare un settore di Storia patria; a Trieste ad esempio c’è una libreria come la »Italo Svevo« che ha una grandissima tradizione per quel che riguarda la pubblicazione e anche l’edizione di libri legati al territorio.Mario Steffè nella biblioteca della CI "Santorio Santorio"

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Un settore che troverebbe interesse anche tra i lettori sloveni, dunque non solo di madrelingua italiana.Senza dubbio. Noi in biblioteca vediamo che il libro italiano viene usato e fruito anche dai non appartenenti alla minoranza italiana. Poi qui c’è anche l’Università del Litorale. Come Università non vedo tanto i libri di testo quanto i sussidiari e tutto quello che un polo universitario può produrre. Io vedo che le possibilità sono tante. E’ una questione di domanda-offerta. Una buona offerta stimola la domanda. Oggi le grandi librerie sono accattivanti, invogliano alla lettura, non sono un momento di antagonismo ma piuttosto un momento di comunione, di riflessione in questo senso. Questa libreria potrà sopravvivere se avrà un’offerta di qualità.Come dev’essere una libreria moderna?La libreria moderna si avvicina sempre di più ad una biblioteca. E’ un posto di ritrovo sociale, non è solo una questione di mercato. E’ un momento di riflessione nel quale è possibile trovare, scegliere, immedesimarsi e vedere qual’è la situazione sul mercato. La libreria moderna, anche grazie ai mezzi informatici che ci sono a disposizione, deve dare l’opportunità di fruire e dare una scelta molto superiore rispetto a quella che poteva offrire una biblioteca-magazzino solo di qualche decennio addietro. Quindi in questo periodo le librerie sono un po’ come le biblioteche: non si va lì solo per comprare libri, ma anche per informarsi, vedere quelle che sono le novità. Le librerie hanno una grande importanza nella scelta di quelli che saranno i nuovi autori, i best seller, di quelli che saranno i futuri Premi Nobel, se volete. Quindi l’importanza di questa libreria italiana io la vedo in futuro se sarà in grado di essere competitiva sul mercato. Per essere competitiva sul mercato dovrà avere una vasta offerta, per il territorio e anche più in là.Nelle librerie si fanno sempre più presentazioni di autori.

Certo, perchè le librerie, come le biblioteche, sono quelle che fanno questi momenti di ritrovo, di serate letterarie e quindi al giorno d’oggi le librerie e le biblioteche sono molto vicine e direi, hanno un compito abbastanza affine rispetto a quella che è l’educazione al libro e alla lettura. Ognuno lo fa dal proprio punto di vista; le librerie sono un poco più legate al mondo del mercato, le biblioteche oggi purtroppo, o forse per fortuna, devono lavorare anche come librerie. I confini non sono più così separati come lo erano in passato.

Mladinska knjiga. Una delle attuali librerie di Capodistria.

Ivan Markovič davanti alla sede della Biblioteca centrale"Srečko Vilhar"

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VICESINDACI DI CAPODISTRIA E PIRANO ALLA FESTA DELLA SERENISSIMA

Rinsaldare i legami con Venezia

Ricordare la storia, rinsaldare antichi vincoli d’amicizia e rilanciare forme di collaborazione in campo culturale. Si è svolta in questo clima a fine marzo a Venezia, la cerimonia per l’anniversario della fondazione della Serenissima. A Palazzo Ducale sono convenuti numerosi Comuni dell’area Alto adriatica, che hanno legato la loro storia a quella della Repubblica. Tra gli invitati, anche le municipalità di Capodistria e Pirano. Nei saluti introduttivi di Franco Manzato, vicepresidente della Regione Veneto, del presidente della Provincia di Venezia, Davide Zoggia e del vescovo ausiliario

di Venezia, mons. Beniamino Pizziol, sono stati ricordati i fasti della Serenissima e le relazioni che ha tenuto con numerose città Adriatiche. Per cementare queste amicizie, che durano anche oggi in varia forma, è stato sottoscritto un protocollo che auspica collaborazioni in campo culturale sempre più strette. Nel suo messaggio di saluto il vicesindaco di Capodistria, Alberto Scheriani ha citato gli avvenimenti storici che hanno accomunato le due città, nei secoli passati alleate e antagoniste, ma in tempi più recenti sempre amiche. Scheriani ha fatto presente i frequenti contatti in

campo culturale degli anni passati, partendo dal 2000, quando fu rievocato il dazio che Capodistria si impegnò a inviare a Venezia: cento anfore di vino pregiato all’anno, in cambio della difesa in mare dalle incursioni dei pirati. Hanno fatto seguito alcune partecipazioni di equipaggi capodistriani alla regata storica. Il vicesindaco Scheriani ha espresso piena disponibilità a nuovi contatti con Venezia e le municipalità limitrofe. L’anno prossimo Venezia promuoverà un simposio ancora più importante sulle sue origini, coinvolgendo molte altre località Adriatiche.

Altare di S. Marco nel Duomo di Capodistria. Particolare dell'omonima pala di Stefano Celesti (1638) con raffigurazione di Piazza S. Marco a Venezia.

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A Tv Koper-Capodistria migliaia di nastri sono stati puliti, ricatalogati e rimessi in onda in una rubrica speciale realizzata dall’archivista Ketty Kovačič Poldrugovac che, in questo articolo ci racconta un po’ come nasce questa esperienza.

L’archivio di Tv Capodistria,un patrimonio da valorizzare

Ketty Kovačič Poldrugovac

La mia avventura nell’archivio di TV Capodistria è iniziata nel 2000, con l’avvicinarsi del 30esimo anniversario della nostra emittente.Il progetto si è rivelato una sfida sin dall’inizio, rappresentato da pile di bobine ammucchiate in uno sgabuzzino sconosciuto ai più. Il sistema di catalogazione era incarnato in mucchi di quaderni dal dubbio contenuto. Ben presto infatti molte trasmissioni presenti su bobine si sono rivelate non iscritte nei quaderni, mentre altre erano evidenziate, ma introvabili tra le bobine dello sgabuzzino. La ragione ho scoperto essere estremamente banale, tanto da sembrare un emblema

dell’incapacità dell’uomo di tenere fronte alle tecnologie che egli stesso crea. Accadde infatti, che attraverso gli anni si svilupparono e quindi cambiarono i sistemi di registrazione e salvaguardia dei materiali televisivi. Questi cambiamenti dettarono la necessità di riversare trasmissioni da un tipo di nastro a un altro. Al contempo la costante mancanza di fondi rese pratica comune l’uso di uno stesso nastro piu volte, con il risultato che alcuni contenuti sono andati definitivamente persi.Per chi si occupa di televisione, nel caso di mancata catalogazione dei nastri, giungono in aiuto i telopi. Si tratta di cartoncini, che

all’epoca sostitutivano le sigle e cosi fornivano un’accesso altrernativo alle informazioni di base necessarie per una catalogazione. Neanche a dirlo, non tutte le bobine ne erano fornite. Chi scrive lo scopriva dopo aver aperto scatole piene di muffa ed esaminato bobine dall’acre odore di prodotto chimico.Il piano era il seguente: pulire le bobine, visionarle e catalogarle. La prima fase venne affidata alla sede centrale di Lubiana. La seconda, il visionamento, richiedeva un’apposita macchina, all’epoca molto comune ma oggigiorno in disuso: la moviola. TV Capodistria non ne disponeva più, a differenza della sede di Lubiana. La prima soluzione proposta prevedeva il visionamento dei nastri a Lubiana. Onde evitare che chi scrive andasse alla proverbiale montagna, per di più con 600 nastri sotto braccio, feci venire la montagna a Capodistria. Assicurate le bobine pulite e la moviola ebbi a quel punto bisogno dell’aiuto di un montatore esperto, che trovai in Jolanda Grando, montatrice in pensione. La nostra collaborazione fu eccellente. Passammo l’estate del 2000 a visionare materiali, unendo nastri audio ai rispettivi nastri video e catalogandoli. Tutta l’estate si è rivelata un viaggio virtuale, che ci dette l’occasione di rivivere la nostra storia recente e rivedere conoscenti e amici, che non sono più tra noi.In occasione del 30esimo anniversario di TV Capodistria curai una serie di trasmissioni sulla storia della nostra emittente, dedicando mensilmente Jolanda Grando e Neva Grižonič nella sala di montaggio.

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una puntata ad un argomento: la Costiera, il debutto e l’informazione, le trasmissioni per ragazzi, le trasmissioni musicali e lo sport, ripercorrendo le varie tappe con ospiti che hanno fatto la nostra storia, da Dušan Fortič ad Andrea Facchi, da Minghetti a Diviacchi, da Gisella Pagano a Sergij Premru, il tutto condotto dalla storica Bruna Alessio.La mia idea sul programma era molto semplice: una ricostruzione cronologica della nostra storia. Inevitabilmente si pose la domanda sulle ragioni che hanno portato alla nascita dell’emittente. Questo discorso è fonte di vivaci discussioni ancora oggi. I fronti sono divisi tra coloro che ritengono, che la ragione principale della fondazione di TV Capodistria fu di natura economica e coloro che sostengono sia nata anzitutto come servizio per la minoranza italiana nell’allora Jugoslavia. Tra i vari interpreti di quel periodo, c’è chi vede la questione come la proverbiale domanda „E’ nato prima l’uovo o la gallina?“ e chi ritiene si sia trattato in ogni caso di una gallina dalle uova

d’oro.Al termine della serie di trasmissioni sulla storia di TV Capodistria, reduce da mesi di visionamento di materiali, desideravo far rivivere la nostra storia recente al grande pubblico, come ebbi occasione di fare con Jolanda in quell’estate del 2000. Naque così la serie spezzoni d’archivio.Durante la prima puntata apparve un indirizzo e-mail in sottopancia invitando gli spettatatori a inoltrare eventuali richieste di spezzoni o trasmissioni, che volessero rivedere. Allora TV Capodistria era visibile via satellite e di conseguenza giunsero molte richieste in particolare dall’Italia. Sfortunatamente non era possibile esaudire la maggior parte delle richieste, a causa di bobine andate perse negli anni. Per correttezza e cortesia era comunque necessario rispondere alle varie e-mail, il che mi portò nella spiacevole situazione di non riuscire a occuparmi in modo opportuno contemporaneamente delle trasmissioni e della corrispondenza. Finì che si decise di togliere il sottopancia per le richieste. In mia

difesa aggiungo che mantengo ancora oggi una vivace corrispondenza con alcuni di questi fedeli spettatatori.Inizialmente invitavo in studio persone che da ragazzi avevano partecipato alle trasmissioni scolastiche realizzate da Lucia Scher. La maggior parte di queste non si erano mai viste nella suddetta e vivevano l’occasione con grande sorpresa. Diversi spettatori da casa riconoscevano se stessi o amici e davano origine a chiamate a catena, che invitavano a sintonizzarisi su TV Capodistria. Nella fase seguente invitai anche diversi autori di trasmissioni, che sorprendentemente spesso non le ricordavano. Di regola gli ospiti non erano a conoscenza di cio che avrei fatto vedere loro, quindi non mancavano i momenti di emozione.L’archvio si rivelò ricco di materiale inerente alla storia della Jugoslavia. Così curai una serie di trasmissioni su questo tema, invitando lo storico, nonchè collega, Stefano Lusa a commentare gli spezzoni. Anche questa serie ebbe un piacevole riscontro di pubblico.Arriviamo così a tempi piu recenti. Ora mi sbizzarrisco inventado rubriche e argomenti in base al materiale trovato. Talvolta dedico trasmissioni ad anniversari (per esempio delle nostre Comunità), ad avvenimenti (l’apertura dei confini), a ricorrenze (Capodanno, Natale, Primo Maggio), o a personaggi (Ligio Zanini, Tito, Giusto Curto, Slavko Zlatić e altri).Il mio prossimo progetto è una trasmissione su Fulvio Tomizza, in occasione del 10.mo anniversario della sua scomparsa. Punto soprattutto su spezzoni in cui lo scrittore parla di sè, attingendo a materiali del nostro archivio, ma non solo. Il titolo della trasmissione sarà: »Io, Fulvio Tomizza«.Devo dire che le trasmissioni mi danno grandi soddisfazioni, sono in molti a farmi sapere che seguono la serie con interesse. Vorrei sfruttare l’occasione per ringraziare il pubblico fedele, nella speranza di aver incuriosito quello rimanente.

Ketty Kovačič Poldrugovac, autrice della trasmissione di Tv Capodistria in cui vengono riproposti spezzoni d'archivio dell'emittente.

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Tutti i valori della buona tavolaA Capodistria delegazione dell’Accademia della cucina

Visita a Capodistria, do-menica 29 marzo, per una delegazione Muggia-Capodistria dell’Accade-mia italiana della cucina. L’Organizzazione, che si prefigge si promuovere i valori della cucina ita-liana, la cultura del saper mangiare e bere di quali-tà, vanta sezioni in tutto il mondo. Alcuni anni fà è stata fondata la prima delegazione transfronta-liera, che raduna buon-gustai muggesani e ca-podistriani. La presiede Paolo Kulterer, mentre vicepresidente è Mau-rizio Tremul. Dopo una visita guidata della città, gli ospiti sono stati rice-vuti alla Comunità degli italiani »Santorio Santorio« dal presidente Lino Cernaz. Si sono infine traferiti a pranzo al ristorante Skipper del centro nautico di Capodistria. Come consuetudine in queste occasioni, hanno proceduto alla valutazione delle pietanze, a base di pesce, e dei vini serviti, nonchè della qualità del servizio e dell’accoglienza nel locale.

Studenti in visita Varie comitive di studenti e allievi hanno visitato anche negli ultimi mesi la nostra Comunità. Tra queste una comitiva dell'Istituto »Maria Consolatrice« di Milano, del Liceo Linguistico di Peano Cinisello Balsamo, del Liceo scientifico »Lorenzo Mascheroni« di Bergamo, dell'ITIS

Bernocchi di Legnano, della Scuola media Statale »Dante Alighieri« di Varese e dell'Istituto Comprensivo »Aldo Moro« di Cisiago. Inoltre hanno voluto conoscerci insegnanti e alunni della Scuola elementare slovena di S. Lucia, presso Pirano.

Gli alunni di S. Lucia al piano nobile della CI.Gli allievi delle scuole lombarde nel salone espositivo.

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Sul suolo dove è stata demolita recentemente la scuola elementare »Janko Premrl Vojko« sorgeva per secoli, fino al 1806, il convento di S. Domenico. Pubblichiamo uno scritto di Antonio Alisi, già direttore del Museo capodistriano, uscito a Firenze nel 1937 sulla rivista »Memorie domenicane«. Abbiamo trovato l’estratto nell’archivio del CRS di Rovigno. Una grazie di cuore al prof. Nicolò Sponza per avercelo fornito in fotocopia.

Chiesa e convento di S. Domenico di CapodistriaAntonio Alisi

Secondo la tradizione locale questo complesso di edifizi venne fondato nel 1217 (la tradizione locale però non ha fondamento storico, perchè S. Domenico nel 1217 mandò i pochi frati solo in cospicue città e nessun documento accerta che li abbia inviati nell’Istria). Quando i genovesi, durante la guerra con Venezia s’avvidero che per vincere quest’ultima si doveva impedire ogni rifornimento che potesse giungerle dall’Istria, essi non esitarono ad assaltare tutte le città costiere istriane. Nel 1354 Paganino Doria colle sue galere (galee, ndr) s’impossessava di Pola, di Parenzo, di Capodistria e d’altri porti istriani, ponendo tutte queste città a ruba ed a fuoco. Quattro anni dopo è firmata la pace, che è rotta nuovamente nel 1379 da una

guerra ancora più barbara. Al 1. luglio 1380 Capodistria è obbligata a darsi a Matteo Maruffo, ammiraglio genovese, che nuovamente pone la città al saccheggio delle sue ciurme, le quali non rispettano ne’ le chiese, ne’ i conventi, dai quali si tolgono, quale bottino di guerra, le reliquie ed i corpi santi. La pace di Torino del 1381, segna il ritorno alla vita normale, e ovunque gli istriani si affannano a porre riparo agli ingenti danni subiti. O nell’uno o nell’altro assalto dei Genovesi, precisamente quale non si sa, tanto la chiesa, quanto il convento dei Domenicani di Capodistria andarono distrutti; certo è che l’Ordine provvide sollecitamente alla ricostruzione di entrambi, ultimata avanti la fine del secolo XIV.

Una panoramica del cantiere dall'alto. (Ilona Dolenc – Primorske novice)

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Non è difficile supporre che entrambi gli edifici si costruirono nello stile gotico-veneziano dell’epoca; tenendo conto delle simpatie, che i Domenicani avevano destate fra i cittadini, si può anche ritenere che quella ricostruzione si effettuasse con una certa larghezza di concetti, però nulla si è conservato fino ad oggi di essa. Si sa tuttavia che sopra la porta della chiesa era stata posta una lapide colla scritta:

Anno Domini 1401 die prima mensis maijConsacrata fuit haec Ecclesia cum omnibus

Suis altaribusCoemeterio, Claustro, et Capitulo

Tempore prioratusFr. Dominici Lippi de Firmo Ordinis

Praedicat.

La consacrazione era impartita dal vescovo di Capodistria Mons. Giovanni Loredano (1390 – 22.4.1411), assistito dal capitolo.Non si hanno notizie di lavori nel complesso domenicano di Capodistria fino al 1534 (Archivio Comunale di Capodistria N. 1336, I-IV fasc.), quando un Maistro Pietro di Zuara si commette il nuovo organo per la chiesa. In essa però si è già cominciato a sostituire qualche altare vecchio, sul quale poggiava probabilmente qualche preziosa ancona intagliata e dorata, con altro nuovo, più conforme ai gusti del tempo; così si spiega la spesa incontrata nel 1580 per aggiustare il tabernacolo del Santissimo, non riuscito perfettamente. Nel 1673, finalmente, i Domenicani hanno affidato al proto Alessandro Fremignan la trasformazione totale della Chiesa e del Chiostro. Quarant’anni prima Fremignan aveva sperperato tutta la sostanza dei patrizi Fini nella costruzione della Chiesa di S. Moisè di Venezia, con i Domenicani di Capodistria è evidente ch’egli avrà moderato e la foga barocca e le pretese. Dai conti che si sono conservati, appare ch’egli nell’anno anzidetto aveva commesso cinque statue in legno di ciruolo a Venezia e che le aveva fatto dorare; da quanto sappiamo, solamente due statue v’erano nella chiesa e non è neppure certo che facessero parte del gruppo. Nel 1676 il Fremignan dà i disegni per l’altare di S. Rosa in marmi diversi, che sono approvati ed egli lo commette a Venezia. L’altare non era però ancora finito nel 1691, essendo già rilevanti le spese, il capitolo del convento decide di aprire una speciale »Cassa della fabbrica della chiesa«, cioè un proprio registro nel quale un incaricato speciale segnerà dettagliatamente le entrate e le uscite per tutti i lavori ancora da farsi. Nel 1694 è pagato il pittore Ambrogio Bon di Venezia per la sua pala di S. Pietro Martire.Intorno a quest’anno circa il vescovo capodistriano fra Paolo Naldini di Padova (11.3.1686-21.4.1713) prendeva gli appunti che poi dovevano servirgli per la sua importantissima »Corografia Ecclesiastica di Capodistria«

(Venezia, 1700) e fra gli altri anche quelli sulla chiesa dei Domenicani. Essa »constava d’una semplice navata, a’ giusta proporzione alta, lunga e larga, con tre regolate cappelle a’ fronte, la maggiore delle quali serve di coro diurno, e le due laterali formano i Santuari del glorioso istitutore dell’Ordine e della Beata Serafina da Siena. Chiudesi il Coro coll’Altarmaggiore, il quale da quattro grandi Colonne, sovra d’altrettanti Piedestalli eretti, cinto e ripartito, piega in tre vaghi e pomposi archi; nel maggiore dei quali in maestosa Mensa, da più gradini sostenuta, s’erge il Tabernacolo del Venerabile, e ne’ due laterali, sovra le Porte conducenti al Coro, veggonsi gli adorati simulacri de’ i gloriosi Alberto Magno e Tomaso Aquinate, il maestro e il discepolo. Si corona l’opera con altri Altari distribuiti a’ fianchi della Navata, tutti ricchi di marmi, ma singolarmente pretiosi di pitture; tra le quali celeberrime sono la Palla del Santo Antonio Abbate e la figura del Padre Eterno sovra l’altare della B. V., anche fatture insigni delli due Tiziani padre e figlio. Sono pure di raro pregio i Misteri del Santissimo Rosario, parte delineati da Stefano Celesti, e parte coloriti da Pietro Bellotti».

Archeologi sempre molto attivi

L’anno scorso è venuta alla luce un’estesa fascia delle mura veneziane, sotto Sanpieri. Il basamento della Torre medievale della munission in Riva Vojko è stato lasciato a vista. Ora gli archeologi stanno lavorando alacremente nell’ampio Piazzale del museo, dove è stato demolito l’edificio della scuola elementare »Janko Premrl Vojko«, una scuola costruita sessant’anni fa sulle macerie delle carceri, che furono costruite a loro volta dagli austriaci sui resti del Duecentesco convento domenicano. E’ un’area cittadina questa, di notevole interesse storico: gli archeologi e una trentina di studenti, guidati da Alfred Trenz dell’Istituto per la tutela dei beni artistico-culturali di Pirano, hanno riportato alla luce la pianta originale dell’antico monastero con i resti ben conservati della canalizzazione. Sono stati rivenuti reperti d’epoca tardo-antica, diverse tombe e i resti dell’abside della chiesa di San Domenico, descritta nei secoli passati come la seconda chiesa di Capodistria, per grandezza e ricchezza artistica. Quello che ha stupito di più gli esperti è l’enorme cisterna costruita dagli austriaci. Il tunnel circolare è così largo che lo speleologo Franc Malečkar vi è potuto entrare comodamente con un piccolo gommone. I lavori finiranno in estate, dopodichè sul sito della ex scuola si comincerà a scavare a fondo per realizzare un parcheggio sotterraneo di quattro piani. Con un progetto a lungo termine, l’amministrazione capodistriana intende togliere gradualmente le macchine da vie e piazze del centro storico.

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Frattanto nel 1683-84, si era ricostruito il chiostro, ad archi su pilastri a bugnato in pietra di Grisignana, sotto la direzione di Maestro Matteo Lucchese, taiapiera, e di suo figlio Valentino. Essi mettono in opera anche i trentacinque gradini in pietra, venuti dalle cave di Torre del Quieto, per la scala che condurrà al primo piano del Convento. Tali lavori però vanno troppo lentamente, i frati protestano e infine chiamano a compierli i maestri taiapiera Sebastiano Venturini e Giacomo Pecora, nel 1691.L’ultimo vecchio altare che sia stato sostituito nella chiesa, sembra fosse quello di S. Tomaso, perchè nel 1694 si registra il compenso dato »al pitor di Venezia«, per la rispettiva pala.In quanto ai pittori nominati da Mons. Naldini, rilevaremo che di Stefano Celesti, meno valente di suo figlio Andrea, e perciò meno noto, v’è nel Duomo di Capodistria una pala, coll’immagine di S. Marco. Di Pietro Bellotti s’è pure conservata a Capodistria un’altra pittura, la pala di S. Antonio di Padova ch’egli fece per la chiesa di S. Francesco e dopo la soppressione di essa, passò nella chiesa di S. Anna dei Minori Osservanti. Il Bellotti dovrebbe essere nato intorno al 1625 a Venezia ed ivi morto di 75 anni.La chiesa possedeva oltre l’altare maggiore, dedicato a S. Antonio Abate, ancora otto altari laterali, di cui due, come sappiamo nelle cappelle ai lati del presbiterio, uno dedicato a S. Domenico, l’altro a S. Caterina da Siena. Degli altri sei, gli altari appoggiati alla parete settentrionale erano:

di S. Rosa, del SS. Rosario, di S. Vincenzo Ferreri: lungo l’altra parete l’altare del Nome di Dio o del Crocifisso, di S. Tommaso d’Aquino e di S. Pietro Martire.Nella chiesa v’erano varie sepolture: quella della Confraternita del Rosario dinanzi all’altare omonimo; di fianco ad essa l’altra della Confraternita di S. Antonio Abate e poco distante da quella della Confraternita della Madonna del Carmine, detta dal popolo »la Madonna dell’abito«. Fra il 1450 e il 1470 ebbe sepoltura nella chiesa l’oratore della repubblica e patrizio capodistriano Rainaldo de Gavardo. Nel 1677 chiede ed ottiene sepoltura nel coro il dott. Girolamo Vergerio, della antica famiglia nobile che a Capodistria diede i due Pier Paolo, l’uno filosofo e letterato, l’altro noto per l’apostasia. Nel 1751 donna Mattea Zarotti dichiara nel suo testamento di non voler essere sepolta nella tomba che la sua famiglia aveva in San Domenico dinanzi all’altare di S. Vincenzo, ma in quella dei Servi.Nel 1725 la Scuola (confraternita, ndr) di S. Antonio Abate vota un contributo unico di 100 ducati per la ricostruzione del vecchio coro »cadente e rovinoso« e cominciano subito i lavori per farne uno più ampio e in muratura più solida. Nel 1742 il campanile, cui non si era ancora pensato, minaccia di crollare; lo si deve demolire e rifare nella parte superiore e si accomodano le scale che conducono alla cella delle campane. I frati sono poveri, dopo tante spese e non è da meravigliarsi se nel 1715 si videro obbligati a lasciare che le panche della chiesa siano rifatte a spese delle famiglie che ne avevano chieste delle nuove. Intorno a quest’anni il Maestro falegname e intagliatore Bernardino Martinuzzi da Tricesimo (Udine) consegnava gli stalli per il nuovo coro.Al 25 aprile 1806 era intimato ai Domenicani di Capodistria il decreto di soppressione e poco dopo, con un accanimento incredibile quanto v’era nel loro complesso così faticosamente rifatto ed abbellito, fu

Il tunnel pieno d'acqua che circonda l'enorme cisterna rinvenuta (Franc Malečkar)

Frammento della tomba dei Tarsia, che la famiglia fece murare sul proprio palazzo (oggi sede del giornale

Primorske novice) dopo averla tolta dalla chiesa di S. Domenico.

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messo all’asta, mentre i fondi e gli edifici rimanevano di proprietà dell’erario. Sarebbe lungo estrarre dagli atti che si conservano nell’Archivio Comunale di Capodistria ulteriori dettagli per illustrare quei penosi momenti, ci limiteremo a constatare che tutto andò disperso e a mala pena si è riusciti a conservare nel locale Museo Civico un puteale quattrocentesco ed una lapidetta a memoria di quell’istituzione già così fiorente.Fino intorno al 1818 nessuno si prese cura ne’ della chiesa, ne’ del convento, che abbandonati, rapidamente deperivano; poi il governo austriaco ebbe la felice idea di trasformare il tutto in un penitenziario, senza tener conto

dell’ubicazione, la migliore che vi sia a Capodistria, nella parte più alta, prospettante verso il mare, con ampia vista nel golfo di Trieste. La parte occidentale del convento fu ricostruita in modo da darle quasi l’aspetto di un castello quadrato, a due piani, con torri quadrate agli angoli; poi man mano si elevarono d’un piano le altre parti includendovi la chiesa, che divenne oratorio dei carcerati. Così sussiste ancora quale nocciolo originale nell’interno, il chiostro con le sue poderose arcate (dopo la seconda guerra mondiale anche questi resti vennero abbattuti, ndr).

La biblioteca del convento di S. DomenicoStando a diverse autorevoli testimonianze (Girolamo Gravisi, Baccio Ziliotto, Domenico Venturini), una delle biblioteche più antiche ed importanti di Capodistria è stata la biblioteca del convento dei domenicani. Purtroppo a causa della soppressione del convento (1806) da parte dei Francesi e la sua successiva demolizione per opera degli austriaci (1818), di questa biblioteca a Capodistria non è rimasta alcuna traccia. La biblioteca dei domenicani è stata trasportata a Trieste per ordine del prefetto Calafati e da Trieste al Seminario di Gorizia dove se ne conservano ancora le opere superstiti.In una lettera a Calafati, Girolamo Gravisi, a nome dell’Accademia dei Risorti, chiese nel 1806 al prefetto che »i libri vengano benignamente accordati all’Accademia per uso non solo dei suoi membri, ma di tutti i cittadini«. Il prefetto napoleonico non solo consegnò i libri dei conventi alla Biblioteca Civica di Trieste, ma soppresse anche l’Accademia. Alcuni anni dopo i volumi passarono al al Seminario di Gorizia. Ancora oggi parecchi libri e manoscritti di questa biblioteca portano diciture legate all’ambito dei conventi di San Domenico e San Francesco di Capodistria. Notizie tratte da »Fondi librari e biblioteche a Capodistria« di Ivan Marković.

Passaggi sotterranei affiorati durante gli scavi in Piazzale del Museo.

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La Casa di pena di Capodistriadalla sua istituzione alla sua demolizione

di Vlasta Beltram

Fin dal loro sorgere, le formazioni sociali provvidero anche alla punizione di chi minava l’ordinamento sociale costituito. Le prime pene consistettero innanzi tutto nell’espulsione dalla comunità dei responsabili di tale condotta, più tardi si fece ricorso alle pene corporali – ad un determinato reato corrispondeva la punizione della parte del corpo che se ne era resa responsabile (ad esempio, il furto era punito con l’amputazione della mano); gli avversari politici ed i responsabili di gravi violazioni delle norme sociali venivano, di regola, condannati alla pena capitale.

Con lo sviluppo dello stato di diritto, le pene corporali furono sostituite dalla privazione dei diritti fondamentali dell’uomo e dei beni materiali. Il reo era privato della libertà e del patrimonio, un metodo, peraltro ancora in vigore.L’applicazione della pena di privazione della libertà richiese il ricorso ad appositi stabilimenti di pena. I loro albori risalgono al medioevo, quando il feudatario, investito dell’autorità giudiziaria, si dotava, all’interno del suo castello, di appositi vani con celle e prigioni. Esse

erano destinate in primo luogo ai sudditi renitenti alle datazioni obbligatorie, ai cacciatori di frodo, eccetera. Erano i precursori delle carceri moderne. Ne furono dotate anche le città, sovente in prossimità delle sedi delle massime autorità cittadine, investite anche della funzione giudiziaria, oppure, a seguito dell’istituzione di appositi tribunali, nei loro pressi.Nell’Ottocento e nel Novecento comparve un’inedita e massiccia categoria di carcerati – quella dei prigionieri politici. Le carceri furono, beninteso, da sempre colme anche di avversari del principe o del regime di turno, di antesignani e protagonisti dello sviluppo e delle trasformazioni sociali (di innovatori, scienziati, riformatori religiosi), dediti alla demolizione dei modelli sociali esistenti ed ammessi, ma il più delle volte non vi soggiornarono a lungo, perchè costoro venivano di regola condannati alla pena capitale. Il fenomeno culminò nel corso del ‘900, con l’avvento dei regimi totalitari.Dalle nostre parti, il fenomeno dei detenuti politici, e della persecuzione politica in genere, assunse vaste proporzioni durante il fascismo, quando la popolazione reagì all’azione snazionalizzatrice del regime. Le carceri di Capodistria poi, sorte sin dalla prima metà dell’800, pullularono sempre di detenuti politici – in epoca austro-ungarica ne furono perlopiù vittime gli italiani (carbonari, irredentisti), durante il regime fascista e sotto l’occupazione tedesca ne subirono invece le restrizioni gli sloveni ed i croati della Venezia Giulia come pure gli antifascisti istriani di lingua italiana, un »bacino d’utenza« che nel corso della guerra si allargò anche ai

Alcuni libri della biblioteca della CI "Santorio Santorio" portano i timbri dell'Istituto carcerario

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territori jugoslavi occupati ed annessi della Provincia di Lubiana e della Dalmazia.Ed è precisamente quest’ultima categoria di carcerati ad esssere oggetto del presente opuscolo. Vi si affronta la storia delle carceri di Capodistria; di un penitenziario eretto sin dall’epoca della monarchia asburgica, ossia, di uno stabilimento di pena dalle dimensioni tali, da far sì che l’enorme quadrilatero, sovrastato da due torri merlate, marcasse il profilo architettonico della città a guisa di monito intimidatorio rivolto a tutta la popolazione (…).

La monarchia asburgica

Le carceri di Capodistria funsero dapprima da penitenziario in cui i condannati dovevano scontare la loro pena. Lo stabilimento penale assunse nel corso degli anni diverse denominazioni (Casa di castigo, Penitenziario, Casa di pena, Istituto carcerario, Stabilimento penale, Casa di reclusione). Più tardi furono attribuite anche le funzioni di carcere giudiziario. La loro gestione fu affidata alle competenze del ministero della giustizia.Da una lettera del commissario straordinario indirizzata al ministero della giustizia nel 1923 si apprende che lo stabilimento penale capodustriano era stato eretto dalle autorità austriache nel 1850 e precisamente sul sedime di un complesso monastico formato da due conventi dismessi – uno, più vasto, di S.Domenico, ed uno minore, di S.Gregorio, separati l’uno dall’altro da una pubblica via. Sopra il sedime del convento domenicano era stato

eretto l’enorme edificio carcerario che racchiudeva dei cortili interni. Esso era dotato di celle carcerarie, di uffici, una chiesadisponeva di un proprio personale e di tutti i servizi necessari, fra i quali anche un’infermieria. Sull’area dell’ex convento glagolita di S. Gregorio, lungo quella che si chiamava Via Castel Musella, sorgevano alcuni edifici minori che ospitavano i detenuti minorenni, officine, mentre il cortile adiacente fungeva da lavanderia e asciugatoio.Vi era una chiesa anche in S. Gregorio, nel quale la liturgia ortodossa era officiata a beneficio dei detenuti provenienti dalla Dalmazia. Di fatto erano stati adibiti a carcere i vani di due conventi che erano stati aboliti dalle autorità francesi nel 1806; un intervento che richiese dei rimaneggiamenti e delle integrazioni edili di modesta portata, per far fronte alle nuove esigenze sin dalla prima metà dell’800, sin dagli anni attorno al 1820. In una lettera del 1836 le carceri sono indicate Imperial-regia Casa di castigo.L’approvigionamento idrico delle carceri fu una sfida, alla quale si pose mano con maggior lena solo agli inizi degli anni Sessanta. Nel 1863 fu elaborato un progetto di condotta idrica che avrebbe dovuto convogliarvi l’acqua delle sorgenti in località Campel ai piedi di Paugnano. L’impresa avrebbe dovuto coinvolgere anche le autorità civili di Capodistria, perchè a trarne beneficio sarebbe stata la cittadinanza intera.L’illuminazione fu inizialmente assicurata da lumi a petrolio, mentre nel 1910 il complesso carcerario si vide allacciato alla rete elettrica.

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I detenuti provenivano dai territori dell’Istria e della Dalmazia, e di conseguenza anche la loro estrazione linguistica appariva quanto mai variegata. Inizialmente vi si utilizzarono i ceppi, sia per gli arti inferiori che per quelli superiori, le catene ed altri metodi cruenti di restrizione della libertà, che nel corso degli anni Sessanta dell’Ottocento furono aboliti. Spiccava all’epoca l’alta mortalità fra i detenuti. Pure in seguito all’abolizione degli strumenti di detenzione cruenti, le condizioni carcerarie rimasero pessime, al punto da prestare fianco per ripetuti ammutinamenti. Sin dal 1868 il comune cercò di ovviarvi, ricorrendo ad una guarnigione di 300 soldati. Verso la fine di dicembre del 1899 scoppiò fra i carcerati uno sciopero generale che vide i condannati, insofferenti del duro regime carcerario, rifiutare le prestazioni di lavoro inerenti alla gestione diurna e dal funzionamento delle officine interne. L’amministrazione richiese il rinforzo di soldati di stanza a Trieste, mentre il podestà richiese a tal fine lo stabilimento permanente a Capodistria di una guarnigione di 80 soldati.

Verso la fine degli anni Sessanta fu introdotta nelle carceri l’istruzione a beneficio dei detenuti. I giornali locali riportano notizie sugli esami sostenutivi, sugli insegnanti eccetera, ma soltano per gli anni Settanta, mentre di vani didattici e del personale docente si fa menzione anche nel 1922. Così ad esempio, si legge che il 21 dicembre 1871 si svolsero, presso le carceri, gli esami per gli allievi dei corsi scolastici avviati qualche anno prima. Essi furono infatti obbligatori dapprima soltanto fino al ventesimo anno d’età, dal 1872 in poi, fino al 24.mo anno d’età. Per il 1877 si legge che vi avevano operato due sezioni, ciascuna articolata in due corsi: la sezione italiana con 72 allievi, quella slava di 129. Insegnò presso la prima Simeone Vascotti, mentre presso la seconda (frequentata perlopiù da contadini dalmati analfabeti) Matteo Cristofich. Le materie di studio erano religione, lingua materna, storia e geografia austriache, fisica aritmetica, canto e disegno; accanto ai due maestri citati vi insegnarono due sacerdoti cattolici (Giorgio Zubranich e Biagio Glavina) ed uno ortodosso (Vladimiro Kordich).Nel 1861 venne istituito un comitato di assistenza ai reduci dal carcere, domiciliati nel comune di Capodistria. I carcerati che scontavano la pena detentiva venivano addetti ai lavori nelle officine del penitenziario, ma erano tenuti a prestazioni lavorative anche nell’ambito dei molteplici lavori pubblici esterni. Furono, ad esempio, impiegati nella costruzione del terrapieno e della strada di Semedella , nonchè dei lavori di manutenzione della strada per Isola.

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Nel marzo del 1915 le autorità austriache evacuarono le carceri. Detenuti impiegati e personale di sorveglianza furono trasferiti a Maribor. Una prigione funzionò anche al pianterreno del Palazzo Pretorio: tre vani destinati agli indagati per reati comuni e politici in fase istruttoria.

Il Regno d’Italia

Nel 1919, le autorità italiane provvidero alla riapertura dello stabilimento penitenziario (nel 1922 fu introdotto il Regolamento vigente nel resto del territorio del Regno). Furono invece abbandonati i vani dell’ex convento di San Gregorio. Negli anni 1920-21 fu demolita gran parte del maggiore dei suoi edifici, mentre il resto del complesso fu destinato alle esigenze dell’11.mo Reggimento di fanteria. Venne inoltre abolita la liturgia ortodossa, per la presunta assenza di detenuti provenienti dalla Dalmazia, mentre sei quadri ed il lampadario della chiesa di S. Gregorio sarebbero stati affidati alle cure dell’allora Civico museo di Storia ed Arte.Fino alla fine della guerra operarono nel complesso carcerario diverse officine, al cui fabbisogno di manodopera sopperirono esclusivamente i detenuti. Le carceri nell’appendice di Palazzo Pretorio funsero all’epoca da carcere femminile. Durante il primo decennio del regime fascista, tali necessità non dovettero apparire pressanti se nel 1931 il ministro della giustizia decise di disfarsene affidandoli al comune e di ricorrere all’uopo, alle carceri triestine. Più tardi furono riaperti e nel corso della guerra si rivelarono sovraffollati. Funsero allora anche da tappa di transito delle detenute politiche provenienti dai territori jugoslavi occupati dall’esercito italiano e destinate ad istituti di pena dell’interno dell’Italia. Verso la fine del 1942, il ministero chiese al comune di poter utilizzare, a tal fine, altri vani adiacenti ed il cortile.Le carceri di Capodistria, dotate dello statuto sia di carcere giudiziario, sia di istituto di pena, accolsero un numero crescente di detenuti politici, persino preponderante, nel corso della guerra. Vi trascorsero periodi più o meno lunghi (come in occasione delle paventate celebrazioni clandestine del Primo maggio, di visite in loco di gerarchi di spicco e di altri eventi politici di rilievo). Altri stabilimenti carcerari operarono, entro un

breve raggio, a Trieste (le carceri del Coroneo, quelle Ai Gesuiti), a Gorizia ed a Fiume, ma nelle testimonianze memorialistiche ricorre spesso la considerazione che fu proprio quello di Capodistria a goder della peggior fama. Incutevano terrore le celle di isolamento, dette »tombe dei vivi«, deputate a rendere gli inquisiti più malleabili alla vigilia degli interrogatori. Prima della guerra gli interrogatori si svolgevano in Questura o alla stazione dei Carabinieri di Semedella; durante la guerra invece, ebbero luogo nel carcere. Gli interrogatori furono il più delle volte accompagnati da torture proporzionali alla gravità del reato politico imputato.La maggior parte dei detenuti politici era di origine slava, proveniente da tutta l’area della Venezia Giulia; seguivano per incidenza, gli antifascisti italiani dell’Istria. La conquista da parte italiana di territori jugoslavi nel corso della seconda guerra mondiale, estese il bacino di provenienza dei carcerati, facendo registrare un afflusso di detenuti dalle province di Lubiana e della Dalmazia. Lo stabilimento carcerario fu così investito anche di un ruolo inedito – quello di tappa di transito di detenuti politici (uomini e donne), condannati dinnanzi alle corti marziali nei territori occupati e destinati alle carceri all’interno del paese. Essendo disponibili, per le carceri di Capodistria, soltanto modeste fonti d’archivio, sarà probabilmente impossibile giungere a dei dati quantitativi completi sul numero dei detenuti politici di qualisiasi nazionalità transitati attraverso l’istituto. Dovette tuttavia trattarsi di un numero consistente, posto che la sua capienza ufficiale era di 2100 detenuti e considerando che nel corso della lotta di liberazione vi avrebbero soggiornato fino a 5 mila detenuti. In un censimento conservato presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia, si riportano – per il 1943 – ben 7500 posizioni carcerarie per altrettanti detenuti (il dato si riferisce sia alle carceri maschili che a quelle femminili). Non è difficile immaginarne le condizioni di vita.

Trascorsero giorni da incubo nelle carceri di Capodistria, subendo cruenti interrogatori, anche gli inquisiti, gli imputati ed i condannati ad alcuni processi che ebbero grande risonanza pubblica: fra essi, quello dei partecipanti alla sollevazione di Maresego del maggio 1921, nonchè quello ai militanti dell’organizzazione clandestina Borba

Manette della prigione conservate nel Museo Regionale

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nel settembre del 1930, imputati dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, convocato in via eccezionale a Trieste (fra loro i quattro condannati a fucilati al poligono di Basovizza) nonchè quello agli antifascisti, di svariata estrazione politica, imputati, ancora una volta a Trieste, dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, nel dicembre del 1941 (con l’esecuzione di cinque condanne capitali presso il poligono di Opicina). Accanto a loro passarono per il carcere molti antifascisti locali, militanti in formazioni partigiane (…).

La liberazione dei detenuti nel settembre del 1943

L’armistizio, reso pubblico l’8 settembre, accese le speranze di una sollecita liberazione dei detenuti. Esse rimasero tuttavia deluse. Il 9 ed il 10 settembre, i parenti dei detenuti originari dei villaggi circostanti organizzarono delle manifestazioni per rivendicare la liberazione dei carcerati. Contestualmente, i detenuti stessi si ammutinarono, ottenendo la liberazione dei detenuti originari del circondario, metre quelli di nazionalità italiana erano stati rilasciati in precedenza. In un telegramma dell’11 settembre, indirizzato dal commissario di pubblica sicurezza di Capodistria al Questore di Pola, lo scrivente motivò la decisione di rilasciare i detenuti locali: il giorno prima i militari italiani avevano disertato in massa di fronte all’avanzata dell’esercito germanico, mentre la gente s’appropriava delle armi, delle uniformi e delle vettovaglie abbandonate, ponendo con ciò a rischio l’ordine pubblico. Al tempo stesso, congiunti ed amici

dei detenuti politici ne rivendicarono la liberazione. Di fronte alla situazione incerta, alla scarsità di forze a sua disposizione ed all’eventualità che la protesta di massa potesse sfociare in una sollevazione generale dei detenuti e nella loro evasione, dispose il rilascio degli arrestati.Sorte ben peggiore spettò ai detenuti originari di altre regioni. L’invasore tedesco ne dispose la deportazione. Le donne furono traferite il 15 settembre nelle carceri maschili per venir due giorni dopo avviate alle carceri di Venezia ed altrove in Italia. Il 26 settembre un gran numero di detenuti maschi fu deportato verso i campi di concentramento in Germania. Il giorno seguente la popolazione dei dintorni di Capodistria, con l’aiuto dei partigiani croati (il primo battaglione della seconda brigata croata, che allora presidiava il territorio) liberò i detenuti rimasti, e nei giorni che precedettero l’offensiva tedesca, scatenata il 2 ottobre, asportarono dalle carceri un’enorme quantità di materiale che fu dapprima custodito presso gli edifici scolastici dei villaggi, per venir quindi inoltrato a Pinguente.Circa le modalità dell’azione che condusse alla liberazione dei detenuti, uno dei partecipanti, Nazario Bordon della frazione di Cesari, conserva il seguente ricordo: »La sortita avrebbe dovuto svolgersi il 26 settembre. Fu in quel giorno che i combattenti si diedero appuntamento a Pobeghi, alle 8 del mattino. Ci dividemmo per manipoli e ci dirigemmo verso Capodistria. Fui designato a recarmi in avanscoperta sul monte sopra Pobeghi. Ben presto scorsi tre navi, salpate da Trieste alla volta di Capodistria. Corremmo ad avvertire l’unità che intercettammo nei pressi di Prade. Le navi fecero fuoco in direzione di Bertocchi. Tornai a Cesari dove la mattina successiva

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venne a cercarmi Vincenc Kocjančič (membro del comitato distrettuale del Partito Comunista Sloveno per la zona dei Brkini e la parte slovena dell’Istria) perchè lo affiancassi nell’operazione volta a liberare i detenuti. Aggregammo a noi un gruppo di persone e ci dirigemmo a Capodistria. Assieme al Kocjančič e a qualche attivista di Bertocchi bussammo alla porta delle carceri. Esigemmo che ci aprissero e ci consegnassero le chiavi. Dopo una breve trattativa ottenemmo lo scopo: il custode aprì la porta e ci consegnò le chiavi. Dall’una del pomeriggio alle undici di sera si snodò poi un via-vai di camion, carichi di materiali sequestrati all’Istituto di pena e smistate presso le sedi scolastiche di Monte, Maresego, Cesari, Prade e S. Antonio. Caricammo sul camion anche dei fascisti capodistriani: il direttore delle carceri, il maresciallo dei carabinieri, il veterinario, i fratelli Almerigogna, il maestro Zetto. Furono dapprima trasferiti a Maresego, quindi a Pinguente, dove tuttavia i tedeschi provvidero ben presto a rimetterli in libertà«.Nel volume Slovenska Istra v boju za svobodo (L’Istria slovena nella lotta per la libertà) lo svolgimento degli eventi è stato così integrato, sulla scorta di alcune fonti memorialistiche: il medico capodistriano Giovanni Paruta, incaricato anche del servizio medico carcerario, usava nascondere i prigionieri politici sloveni coprendoli con delle lenzuola ed asserendo che si trattava di malati gravi. Nelle ore notturne del 25 settembre i tedeschi trasferirono numerosi detenuti politici, a bordo di una nave, per associarli alle carceri triestine del Coroneo. Ne rimasero circa 200, in attesa di subire una sorte analoga, perciò il comitato distrettuale del PCS per la zona dei Brkini e dell’Istria slovena, dette avvio all’azione volta

a liberarli e portata a buon fine dai villici delle frazioni del circondario, coadiuvati dai partigiani croati. Una volta entrati e liberati i detenuti, fecero schierare di fronte ad essi il personale carcerario, per consentire il riconoscimento, in quei ranghi, degli aguzzini più feroci.

Il governo militare dell’Armata jugoslava

L’imponente edificio sopravvisse per soli tre anni alla fine della guerra. Nel maggio del 1945 vi erano stati rinchiusi dei prigionieri di guerra tedeschi (fra loro anche appartenenti all’organizzazione di lavoro coatto tedesca TODT di Villa Decani), ma non funse più da istituto carcerario. Vi operarono una falegnameria ed un’officina meccanica e, dal novembre 1946, anche una filatura. Vi elessero inoltre sede diverse organizzazioni e piccole imprese che vi perseverarono addirittura qualche anno dopo che nel 1948 ne era stata avviata l’opera di demolizione. Il materiale edile ricavatone fu perlopiù riutilizzato per la costruzione delle sedi cooperative che sorsero, a quel tempo, e si diffusero massicciamente in tutte le frazioni. Sopra l’area nord-orientale del sedime del complesso carcerario fu avviata la costruzione della scuola elementare slovena ed italiana; il 21 luglio 1949 si svolse la cerimonia della posa della prima pietra. Sul resto del sedime sorsero più tardi un grattacielo e la sede degli uffici postali.

* Per gentile concessione dell’autrice, tratto dal libro »Le carceri capodistriane«, 2008

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Da dicembre a giugno alla CI…e dintorni

5 dicembre – »Itinerario per la terraferma veneta nel 1483 di Marin Sanuto«. Presentazione del libro curato da Roberto Bruni e Luisa Bellini, dell’Associazione culturale »Terzomillennio«, con l’appoggio del Centro di ricerche storiche di Rovigno e del Circolo culturale istro-veneto »Istria«.19 dicembre – Inaugurazione sito web della CAN di Capodistria, a palazzo Carli,www.cancapodistria.org, presentato dal presidente Alberto Scheriani e dai due ideatori responsabili, Roberto Colussi e Saša Geissa. 22 dicembre – Serata ricordo per Matteo ScocirRicordati i 25 anni dalla scomparsa di Matteo Socir, maestro di mandolino presso il sodalizio. Lo hanno ricordato Lidia Colarich e Marino Orlando, già suo studente di musica, presso l’allora Circolo di cultura italiana, ed in chiusura la conferenza-concerto, tenuta dai musicisti Sergio Zigiotti e Fabiano Merlante, duo mandolino e chitarra.5 gennaio – nasce il coro »Porporella« della CI Santorio. Diretti da Emil Zonta i componenti del gruppo s’incontrano per le prove ogni lunedì sera.Carnevale – ballo tradizionale in Circolo.

3 febbraio – incontro degli studenti del »Carli« con rappresentanti della CNI. Incontro dei giovani di III e IV classe del ginnasio Gian Rinaldo Carli con il Console generale d’Italia a Capodistria, Carlo Gambacurta, ed esponenti della CNI: Alberto Scheriani (CAN Capodistria), Lino Cernaz (CI Santorio), Roberto Battelli (deputato al Parlamento sloveno) e Maurizio Tremul (Giunta esecutiva UI). 27 febbraio – serata di poesia nel settore italiano della biblioteca in Calegaria. Serata bilingue, dedicata alla poesia al femminile. A questo incontro, organizzato dall’Associazione Pari Opportunità, POEM, e dalla sua responsabile Isabella Flego, hanno preso parte le poetesse Ines Cergol di Capodistria ed Alessandra

Pecman Bertok di Muggia.2 marzo – mostra artisti FVG. Mostra »Artisti dalle province del Friuli Venezia Giulia«, inaugurata venerdì 27 febbraio. Inaugurata da Enzo di Grazia, a cui si deve il concetto e la cura dell’esposizione, il quale ha presentato i quattro artisti che espongono ciascuno un’opera – Carmelo Cacciato, Massimo Poldelmengo, Franco Vecchiet e Carlo Marzuttini.

5 marzo – incontro con l’ombudsman Čebašek-Travnik. Conferenza-dibattito »Ma adesso noi – diritti umani e libertà fondamentali dell’uomo«, organizzata dall’Associazione per le pari opportunità, »POEM«, responsabile Isabella Flego, dalla CI »Santorio Santorio« e dall’Ufficio del deputato al seggio specifico per la CNI presso la Camera di Stato, Battelli. Ospite la dott. Zdenka Čebašek-Travnik, tutore pubblico della RS per i diritti umani e civili.

7 marzo – premi CAN. Consegna dei premi annuali della Comunità autogestita della nazionalità italiana di Capodistria a Matilde Crevatin, Nadia Vidovich e Lidia Colarich. 9 marzo – concerto in occasione della Festa della donna. Si sono esibiti in concerto Monica Cesar, soprano, Neven Stipanov, baritono e clarinetto, accompagnati da Federico Consoli al pianoforte, con l’ospite d’eccezione sempre al piano, Serena Buremi. 29 marzo – visita delegazione dell’Accademia italiana della cucina.

"Carnaval: Se no i xe mati no li volemo!"

Roberto Battelli, Vanja Vitoševič, Zdenka Čebašek Travnik e Isabella Flego

La presentazione di Enzo di Grazia

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7 aprile – presentazione del libro di Marco Apollonio. »L’altra parte del cielo«, pubblicazione inclusa ne »Lo Scampo Gigante – collana della nuova letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero« dell’EDIT di Fiume, è stata introdotta da Elis Deghenghi Olujić, docente universitario di letteratura italiana e critico letterario, e poi discussa dal letterato e traduttore Gašper Malej assieme all’autore stesso.7 aprile – inaugurazione sala di lettura »Fulvio Tomizza« presso la Biblioteca centrale.Pubblico delle grandi occasioni per la cerimonia ufficiale di intitolazione della sala di lettura del settore italiano della biblioteca civica »Srečko Vilhar« di Capodistria a Fulvio Tomizza.Interventi di Ivan Markovič, direttore della biblioteca capodistriana, Amalia Petronio, responsabile del settore italiano, del vicesindaco e presidente della CAN, Alberto Scheriani, Maurizio Tremul, presidente della Giunta UI, Lino Cernaz, presidente della CI »Santorio Santorio« e Isabella Flego, amica della famiglia Tomizza che non poco ha contribuito all’evento celebrato. Vi è stata poi la parte più professionale e letteraria legata all’autore, presentato da Irene Visintini, professoressa e critico letterario.26 aprile – la Madonna di Semedella. Tradizionale rito in ricorrenza della »Beata Vergine delle Grazie«, più comunemente denominata »la Semedella«. Messa celebrata dal vescovo Mons. Metod Pirih, coadiuvato dall’ex parroco Mons. Bojan Ravbar e da Don Giovanni Gasperutti.12 maggio – Serata dedicata a Giorgio Depangher (Capodistria 1941 – Trieste 2001). Note biografiche a cura di Roberto Dedenaro. Parte centrale poi la lettura delle poesie dell’autore, recitate con tatto e stile da Mario Mirasola, regista radiofonico, la cui voce veniva fluidificata dal sottofondo delicato ed azzeccato proposto dal compositore e pianista Silvio Donati. Una serata tutto sommato proprio in armonia con lo spirito di entrambe gli enti organizzatori (la CI »Santorio Santorio« ed il Circolo di cultura istro-veneta »Istria«), e dello stesso personaggio definito »capodistriano, insegnante, letterato e uomo di confine aperto alla convivenza«.15 maggio – Scuole lombarde in visita in Istria. La comitiva di scuole italiane in visita in Istria, si è fermata pure presso la Comunità degli Italiani di Capodistria, con i ragazzi dell’Istituto »Maria Consolatrice« di Milano, del Liceo linguistico di Peano Cinisello Balsamo, del Liceo scientifico »Lorenzo Mascheroni« di Bergamo, dell’ITIS Bernocchi di Legnano, della Scuola media Statale “Dante Alighieri” e dell’ISISS “F.Daverio” di Varese, nonchè dell’Istituto Comprensivo “Aldo Moro” di Cisiago. 15 maggio – presentazione volume e DVD Santuari Mariani. Presentata la pubblicazione accompagnata dal documentario su DVD »Santuari Mariani dall’Adriatico alle Alpi«. Si tratta dei prodotti realizzati nell’ambito

del progetto “I luoghi di culto e le tradizioni religiose del territorio transfrontaliero”, portato avanti in seno al programma di iniziativa comunitaria Interreg III A Italia - Slovenia 2000 – 2006. Presenti Sergij Pahor, ideatore del progetto, David Bandelj, autore dei testi, e Flavio Forlani, presidente della Società Italiana di Ricerca di Capodistria.

29 maggio – presso l’estivo serata »ArtiIstria« del Forum Tomizza. Presso l’estivo della CI si è ufficialmente chiusa la data capodistriana del »Forum Tomizza 2009« con il tradizionale spettacolo di poesia e musica »ArtiIstra«. In programma le musiche di Maxmaber Orchestra e dei Katalena, che hanno accompagnato ed intercalato le letture dei poeti Dorta Jagić, Karlo Hmeljak, Arjan Leka e Roberto Dedenaro.30 maggio – Concerto nel salone per il Convegno dei 60 anni di Radio Capodistria. Sul palco Dario Marušić, Tamara Obrovac e il gruppo »Transhistria electric«.31 maggio – Raduno della Mailing List Histria. Nono raduno della Mailing List Histria, la cui prima parte è stata inaugurata dai saluti di rito, effettuati da Maria Luisa Botteri, presidente della Commissione di valutazione dei lavori in concorso e da Mario Steffè, coordinatore culturale della CI capodistriana. Pervenuti 155 elaborati per 221 partecipanti.11 giugno – "Capodistria per sempre..." Serata letteraria e presentazione dei lavori di ricerca in collaborazione con la Scuola elementare "Pier Paolo Vergerio il Vecchio" a cura dei mentori Nicoletta Casagrande e prof. Lorena Chirissi, con la partecipazione degli alunni della VI, VII e VIII classe.12 giugno – "Cappuccetto rosso". Rappresentazione scenica del Teatrino instabile dei genitori fantasiosi in collaborazione con l'Asilo "Delfino blu". A cura delle educatrici del giardino d'infanzia e con la partecipazione dei genitori dei bambini d'asilo.17-21 giugno – San Nazario. Manifestazioni culturali e sportive co-organizzate in occasione della festa patronale.

Flavio Forlani, David Bandelj e Drago Štoka

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12 marzo - Mostra del gruppo creativo “dipinto su seta” alla CI di Pirano. È stata inaugurata in Casa Tartini, sede della Comunità degli Italiani “Giuseppe Tartini” di Pirano, la mostra dei quadretti realizzati dal gruppo creativo “dipinto su seta” della Comunità degli Italiani di Bertocchi. Il gruppo conta cinque attiviste che si incontrano regolarmente una volta alla settimana con la mentore Liana Vincoletto.

13 marzo – Formazione ed aggiornamento in campo agricolo. Dal 2006 ad oggi si svolge, presso la CI di Bertocchi, un nuovo ciclo di lezioni (negli anni precedenti si è svolto quello sulla viticoltura), sempre in collaborazione con l’UI e l’UPT, riguardante l’olivicoltura e dirette dal prof. Paolo Parmegiani. Dopo una serie di lezioni teoriche che hanno visto coinvolti diversi connazionali, si è svolta anche una prima lezione pratica sulla potatura nell’aprile 2008, presso l’oliveto del connazionale Franco Vojvoda. Le tematiche affrontate, nel corso delle lezioni teoriche sono state le seguenti: i parassiti e la difesa antiparassitaria per l’olivo, le tecniche di estrazione dell’olio dalle olive, il terreno, l’impianto dell’oliveto e le varietà coltivate, la conduzione agronomica dell’oliveto. Il 13 marzo di quest’anno si è svolta una seconda lezione pratica di potatura presso l’oliveto del connazionale Gianfranco Vincoletto, guidata sempre dal prof. Parmegiani. Anche questa lezione ha visto la partecipazione di oltre venti connazionali, molto soddisfatti delle nozioni apprese.

29 marzo – con il “Lasciapassare”, risate e divertimento garantito! La CI di Bertocchi ha ospitato presso la Casa di Cultura la Compagnia Filodrammatica della Comunità degli Italiani “Giuseppe Tartini” di Pirano. Quest’ultima si è presentata con la commedia: “Cos’ha da dichiarare? – Propustnica –Prepustnica – Lasciapassare”, cripto storie di confine dalla propustnica a Schengen. Un “collage” di vari pezzi che ricordano fatti veramente accaduti, ma che sono stati con successo un po’ “romanzati” ed enfatizzati dall’autore nonché regista Ruggero Paghi, sulla scia della ben nota domanda “Cos’ha da dichiarare?”

18 aprile – “Saluto alla primavera”. All’ormai tradizionale manifestazione hanno preso parte il coro “S. Ignazio” di Gorizia diretto da Liviano Brumat, il gruppo di danza moderna Blue Dream della CI Fulvio Tomizza di Umago, il Coro Misto Giuseppe Tartini di Pirano diretto da Neven Stipanov, la filodrammatica della CI di Momiano con lo sketch “Buon giorno” interpretato da Gianluca Zubin e Caterina Visintin ed il quintetto vocale “Volta” di Verteneglio. La manifestazione, dove ha regnato il bel canto, la danza e il divertimento, non si è conclusa sul palcoscenico anzi è proseguita con la serata sociale che ha unito i gruppi attraverso la musica e il canto inoltre, sono nati nuovi legami e programmi futuri per nuovi scambi culturali.

10 maggio - la CI di Bertocchi in bancarella a Capodistria. Alla ormai tradizionale presentazione delle Comunità Locali ed altri enti ed associazioni, lungo la Via del Porto, in occasione della Festa del Comune città di Capodistria, per il terzo anno consecutivo ha preso parte anche la CI di Bertocchi. Sulla bancarella sono stati messi in mostra i lavori del Gruppo creativo “dipinto su seta”, attivo presso la CI ed altri lavoretti realizzati dagli alunni della Scuola elementare Pier Paolo Vergerio il Vecchio, sezione periferica di Bertocchi.

Il semestre alla Comunità degli Italiani di Bertocchi

Inaugurazione della mostra a Pirano.

Il prof. Parmegiani e i connazionali durante la lezione pratica di potatura dell’olivo. La bancarella allestita dalla Comunità

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23 maggio – bambini e amici vallesi in scena. I piccoli del Giardino d’infanzia Delfino blu, sezione periferica di Bertocchi hanno preparato una poesia ed un allegro cha-cha-cha dedicato alle mamme. Inoltre abbiamo avuto il piacere di ospitare la Comunità degli Italiani di Valle, che si è presentata con balli, il canti e poesie. La serata si è conclusa con la rappresentazione della commedia „Il paese di carta“ in cui hanno recitano i bambini del Gruppo filodrammatico “Le nuvole” della CI di Bertocchi, mentore Edda Viler, in collaborazione con la Scuola elementare Pier Paolo Vergerio il Vecchio, sezione di Bertocchi e le loro insegnanti.

Momenti della commedia “Il paese di carta”

Le classi Seconda, Terza e Quarta della scuola italiana di Bertocchi il 6 giugno 1955. In piedi da sinistra: Sonia Marsetič, Maria Kuret, Edda Apollonio, Renata Brajnik, Elena Vincoletto, Giuseppe Babuder. In basso: i fratelli

Gianfranco e Maurizio Vincoletto. Maestra Maria Kalan.

Il Console generale d'Italia a Capodistria, Carlo Gambacurta, è giunto al termine del suo mandato. Lascia la città a fine giugno per nuovo incarico.Prima di partire ha donato seicento libri della sua biblioteca personale alla locale Comunità degli italiani. Nella foto il console Gambacurta, secondo da sinistra, dopo l'ambasciatore Pietromarchi, al ricevimento offerto lo scorso 3 giugno in occasione della festa della Repubblica italiana.

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La grande guerra portò lutti, distruzioni e dolore, tanto dolore. Di persone che si ricordano di questo tragico evento ormai non ce ne sono più. Tanto tanto tempo fa Maria Colombin allora centenaria accennò a quel periodo con parole dolci e sagge, definì quell’evento come l’ultima guerra di cavalleria dove pur essendo nemici i soldati si rispettavano, rispettavano regole non scritte, in tempo di guerra, regole di pace. Finita la guerra molti tornarono feriti nel fisico e nell’ animo, numerosi furono i morti e numerosi quelli che non tornarono: i dispersi. I parenti si attivarono per le ricerche e qualcuno venne trovato e tornò a casa con moglie russa a carico. Ci furono altri che non ne vollero sapere di tornare perché i loro affetti li avevano costruiti in terra ucraina. Qualcuno dovette ritornare dopo pesanti pressioni da parte della famiglia. Il documento che segue è un carteggio fra il comune di Muggia e l’allora Console d’Italia a Odessa.

Il tutto frutto delle ricerche del gruppo storico etnografico della Comunità degli italiani di Crevatini. Nella foto, in piedi il soldato Giuseppe Srelz.

Mentore: Maria Pia Casagrande

Crevatini: Il disperso che non voleva tornare

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Al »Delfino blu« di Crevatini, ospitati alunni di BledTra il giardino d’infanzia »Delfino blu« di Capodistria e la scuola elementare di Bled è stata instaurata una proficua collaborazione. Grazie al contributo della Società turistica e degli albeghi »Sava« di Bled, la scuola slovena si è presentata a Crevatini, nella Casa di cultura di Bosici, con uno spettacolo di animazione per i bambini dell’asilo dal titolo »Il cigno Zaki ritrova i genitori« di Cvetka Bevc. Si tratta di una piacevole favola ambientata sulle sponde del rinomato lago e tradotta in italiano da Barbara Forza. In scena gli alunni della scuola ospitata, mentre nello spettacolo sono stati coinvolti anche i bambini dell’asilo capodistriano. In futuro si punta a contraccambiare la visita organizzando una gita nella nota località slovena.

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Comune, premiati Zubin e Steffè

Quest’anno i riconoscimenti per la festa comunale sono andati al Club alpinistico del Litorale (nella foto il presidente Aldo Zubin) e a Fabio Steffè. Di Steffè la motivazione ricorda la sua lunga carriera nella polizia, iniziata nel 1973. Nei reparti marittimi ha ricoperto vari incarichi, sino a diventare comandante della motovedetta M-44. Quindi, con il grado di ispettore, ha curato le questioni legate all’immigrazione. La conoscenza della lingua italiana gli ha permesso di allacciare proficui contatti con le forze dell’ordine italiane. È stato sempre convinto assertore della necessità di superare i confini e d’instaurare rapporti di amicizia nella zona transfrontaliera. Durante la guerra per l’indipendenza della Slovenia, nel 1991, e nel periodo immediatamente precedente, è stato in prima linea nelle operazioni per difendere la zona dagli attacchi dei reparti federali jugoslavi.

Una pulitina ai balconiDa quando è andato in pensione, Claudio Antonaz, certamente non si annoia. Dopo una vita passata al Museo come restauratore, Claudio è ora impegnato a mettere in sesto oggetti antichi nel suo laboratorio di Calle dei carreri, ma viene spesso anche incaricato di pulire stemmi e altri particolari architettonici in pietra bianca. Qui l’abbiamo sorpreso mentre tira a lucido il balcone della Biblioteca centrale.

La poesia di Giorgio DepangherSerata letteraria organizzata assieme al Circolo Istria

Il 12 maggio la Comunità ha ospitato una serata letteraria dedicata a Giorgio Depangher, capodistriano, insegnante, letterato e uomo di confine aperto alla convivenza, al quale i Comuni di Capodistria e Duino Aurisina hanno intitolato un premio letterario per gli allievi delle scuole. L’evento a palazzo Gravisi è stato organizzato dalla CI “Santorio Santorio” insieme al Circolo di cultura istro-veneta“Istria”. La serata è stata presentata da Roberto Dedenaro, insegnante e poeta, ed arricchita dalla voce recitante di Mario Mirasola, regista radiofonico, accompagnato dal compositore e pianista Silvio Donati. Presente in prima fila anche la vedova dell’autore, Anna Maria Depangher. In chiusura il presidente del Circolo “Istria”, Livio Dorigo, si è augurato di cuore che lo stesso autore abbia potuto ascoltare ed emozionarsi come il pubblico in sala. Attraverso La Città formuliamo una proposta: dato che i libri di Depangher sono ormai difficilmente reperibili, molti lettori sarebbero sicuramente interessati ad una ristampa (magari una raccolta) delle opere principali.

Claudio Antonaz sotto il balcone di palazzo Brutti.

Da sinistra: Livio Dorigo, Lino Cernaz, Mario Steffè, Anna Maria Depangher, Fabio Scropetta,

Roberto Dedenaro.

Aldo Zubin, il sindaco Boris Popovič e Fabio Steffè

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Campus studentesco itinerante,oltre i confini e oltre le lingue

A fine aprile il salone del Museo regionale di Capodistria ha ospitato l’incontro finale del Campus studentesco transfrontaliero, iniziativa che vede collaborare Licei sloveni e italiani da una parte e dall’altra del confine.

Philip Tarsia, docente al »Galilei« di Trieste, è uno degli ideatori del progetto. Quali le caratteristiche del Campus 2009? Devo dire che la concretezza e la pratica concreta sono state le caratteristiche fondamentali di quest’azione. L’azione SPIN, di per se’ dall’acronimo inglese significa ciclico, rotazione, continua rivisitazione della conoscenza che si ha per costruirne nuove. I ragazzi quest’anno hanno complementato, o si sono preparati al Campus, attraverso una serie di incontri preparatori che li hanno calati nella realtà didattica. Quindi sono arrivati al Campus, che è il punto terminale del progetto, avendo osservato, sperimentato, valutato, costruito. Quindi questo credo che sia uno degli approcci “bottom-up” che noi dovremmo assimilare nella pratica didattica quotidiana, cioè mettere lo studente in grado di ideare percorsi formativi e quindi di essere lui protagonista di piattaforme di discussione, di progettualità, ideare insieme ai docenti una nuova scuola. E mi pare che in questo Campus questo messaggio è stato colto.Sono stati formati gruppi misti fra diverse scuole che a più riprese

hanno analizzato aspetti specifici del mondo dell’istruzione.Avremmo potuto chiuderci nella nostra referenzialità di scuole, presentare i nostri progetti invece si è lavorato in gruppi misti fin dall’inizio.I ragazzi mi hanno detto “E’ stato diverso, più interessante di quanto avrei immaginato”.Avendo aperto le porte, facendoli entrare in classe, i docenti erano osservati; quindi hanno toccato con mano quello che veniva fatto, quanto il docente stimolava o quanto il docente ostacolava la discussione in classe, come la valutava, come portava avanti i suoi metodi, quindi hanno avuto modo di viverla questa cosa. Loro hanno visto istituti diversi dal loro. Dopo due-tre visite preparatorie, li abbiamo messi a contatto con diverse realtà, ruotando come lo SPIN ci fa capire. Sono passati dal Liceo Galilei, al Liceo Prešeren, ai Ginnasi sloveno e italiano di Capodistria, al Sema di Pirano; si sono confrontati e alla fine hanno detta la loro.Slovenia e Italia sono nell’Unione europea, ma all’interno del mondo dell’istruzione vi sono tra i due Paesi ancora parecchie differenze. I ragazzi le hanno fatto notare.

Ed infatti, questa credo sia la costruzione di una dimensione europea. Questo è un microcosmo, un crocevia di interessi, di lingue, di gente…quindi secondo me una delle potenzialità di quest’area è proprio questa, la ricchezza della diversità ma anche la voglia di costruire insieme con un modello che ha l’Europa come sfondo. Direi che la novità di quest’anno è che abbiamo avuto una collaborazione a diversi gradi: dagli studenti ai docenti, agli uffici scolastici referenti, alle istituzioni a livello più alto. Quindi la risposta che hanno dato, creando la possibilità dui interagire in questo modo, è stata una risposta di altissima qualità. Questo ci fa sperare di poter continuare l’esperienza. Io credo che abbiamo seminato adesso, e che a lungo andare noi potremo cogliere ancora altri risultati; però certamente queste iniziative devono continuare ad essere incoraggiate, devono rappresentare per i giovani degli appuntamenti fissi, degli appuntamenti ricchi di proposte di novità.

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Abbiamo chiesto a Luca del »Petrarca« di Trieste se c’è qualche differenza nelle scuole in Slovenia che gli piacerebbe fosse adottata anche in Italia.Sicuramente una differenza che spero venga adottata anche nel sistema scolastico italiano è la possibilità di avere vari livelli per le materie. Quindi ad esempio in Slovenia l’insegnamento della matematica e dell’inglese sono su vari livelli a seconda della bravura degli studenti. Io auspico che questo venga adottato anche in Italia perchè è il modo migliore per riuscire veramente a far migliorare gli studenti nelle materie per le quali sono più portati e quindi anche magari interessano di più. Seconda cosa un numero inferiore di studenti per classe permette di avere lezioni migliori, un migliore rapporto tra studenti e professori, e c’è la possibilità da parte dell’insegnante di seguire più nel dettaglio le singole capacità di ogni studente.Che cosa ti lascia questo Campus?Sicuramente la dimostrazione che i confini per noi giovani non sono caduti

soltanto nelle cartine geografiche, ma sono caduti realmente. E questa

secondo me è la cosa più importante, perchè noi vogliamo dare vita a un’Unione europea coesa, unita nella diversità.Si è svolto tutto come avevi immaginato prima di partecipare?Immaginavo di trovare maggiori difficoltà a svolgere questo lavoro e invece è stato veramente facile perchè tutti i ragazzi erano entuasiasti e c’è stata subito una collaborazione stretta sia tra noi che con gli insegnanti. E’ stata un’esperienza che credo ci aiuterà a crescere anche come persone.

Vprašali smo za mnenje tudi prof. Loredano Guštin, ravnateljico Znanstvenega Liceja »France Prešeren« iz Trsta.

Meni je bilo letos bistveno več všeč, dijaki so veliko več sodelovali. So videli vsako posamezno šolo, so tudi prisostvovali pouku, sledili lekcijam in bili kar precej kritični do italijanskega šolskega sistema tako kot do slovenskega. Je bilo pa tudi zelo zanimivo to naše soočanje na različnih nivojih, tudi med ravnatelji smo se srečali in na zavodu za šolstvo. In se mi zdi da smo to leto prvič dejansko sodelovali. Na začetku je bilo neke okornosti, drugačnih gledanj…sedaj pa, z dobro mero dobre volje in želja po tem da bi se še naprej srečevali in da bi vse čim boljše uspelo, smo vse to premagali in tudi uspeli. Kot tudi sprašujem malo

dijake vidim veliko nasmejanih obrazov. Danes sem nalašč prišla v Koper nekaj prej in sem se podala z njimi do Pirana, sem se pomešala z dijaki in opazovala če dejansko prihaja do izmenjave…ker pač večkrat se zgodi da so projekti zelo lepi, lepo nastavljeni, ampak konkretne izmenjave med osebami ni, ali je zelo pomanjkljiva. Tokrat sem opazila da so bile v večini primerov skupine pomešane med sabo, se pogovarjali, tudi jezika sta se prepletala. In to je zame že neke vrste rezultat, ne glede na to da so tudi predstavili svoja dela in projekte. Pomembno je to da so nekaj skupaj naredili, da so se med sabo pomešali in da so videli da, v bistvu, niso tako različni. Zdi se mi da so v večji meri premostili te tako imenovane stereotipe, oziroma kalupe v katere smo nekje vklenjeni vsi skupaj.

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Gli allievi e le due professoresse che accompagnavano gli alunni, la professoressa di spagnolo Selma Širca e la professoressa di psicologia Elena Bulfon, hanno organizzato l’escursione con l’aiuto di guide locali. È stato proprio grazie a loro, che ci hanno guidato da Lloret de Mar (Costa Brava), dove il nostro gruppo alloggiava, a Barcellona, che abbiamo conosciuto i lunghi più significativi e i monumenti più importanti della città.

Gli allievi di spagnolo sono stati divisi in 6 gruppi con l’obbiettivo di osservare i vari monumenti e di lavorare insieme per approfondire sul posto le conoscenze su Barcellona. Così abbiamo potuto ammirare e contemplare luoghi come l’impressionante cattedrale Sagrada Familia, non ancora ultimata, del rinomato architetto catalano Antonio Gaudí, il parco di sua progettazione, il Parc Güell e attraversando la Avinguda Diagonal, la Gran vía, abbiamo contemplato la casa Milà. Nel quartiere Eixample, abbiamo poi visitato l’acquario di Barcellona (Aquarium Barcelona) con i suoi acquari, tra i più grandi d’Europa per quanto riguarda il mar Mediterraneo, siamo saliti sul monte Monjuïc con il suo castello e lo stadio, che ci ha offerto una panoramica sulla città e sul porto davvero spettacolare, così come abbiamo potuto godere dello scenario dello stadio Port Nou con il museo della

squadra di calcio del Barcelona. Il nostro percorso ci ha portato verso Barceloneta per infine immergerci tra la folla del centro di Barcellona passeggiando per Las Ramblas e il Barri Gòtic.

Abbiamo gustato la tipica gastronomia catalana e spagnola facendo lunghe passeggiate per il centro di questa metropoli affascinante. Gli allievi hanno potuto usare la lingua spagnola imparata a scuola, cercando di familiarizzare anche con la lingua catalana che è una delle due lingue ufficiali in Catalogna.

La sera abbiamo assistito ad uno spettacolo di flamenco con canti e balli in una suggestiva sala a Santa Susana a pochi chilometri da Lloret de Mar sulla Costa Brava. Oltre a Barcellona abbiamo potuto osservare il fenomeno del turismo di massa sviluppatosi soprattutto sulle coste mediterranee della Spagna. Il nostro viaggio si è concluso alle prime ore del mattino del 1° maggio.

Il lavoro fatto dagli allievi durante l’escursione sarà presentato a scuola alla fine dell’anno scolastico.

Selma Širca

Ragazzi del “Gian Rinaldo Carli” a Barcellona

Dal 24 aprile al 30 aprile di quest’anno gli allievi che studiano lingua spagnola del “Ginnasio Gian Rinaldo Carli” di Capodistria hanno partecipato all’escursione a Barcellona. L’escursione, con lo scopo di far conoscere questa città cosmopolita, la sua cultura, le lingue, le tradizioni, la gastronomia e il turismo, è stata denominata “Conoscere Barcellona”.

Una parte del gruppo in Una parte del gruppo in PlaPlaçça de Colona de Colon dopo la prima giornata trascorsa a Barcellona. dopo la prima giornata trascorsa a Barcellona.

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Giulio Coniglio e la raccolta delle oliveLibro realizzato dai bambini della scuola di Semedella

Il 27 maggio scorso gli alunni della Scuola elementare italiana di Semedella, presso Capodistria, hanno presentato un libro preparato da loro, ispirato dal racconto “Giulio Coniglio” della scrittrice per l’infanzia Nicoletta Costa.

L’anno scorso avevano incontrato Nicoletta Costa presso la sezione italiana della Biblioteca centrale “Srečko Vilhar” di Capodistria, ora le alunne della seconda classe della Vergerio il Vecchio di Semedella, si sono ripresentate di fronte alla scrittrice con un libro tutto loro. Prendendo spunto dal racconto “Giulio coniglio”, seguiti dall’insegnante Silvia Furlanič, hanno immaginato e raccontato una storia ambientata in Istria, durante la raccolta delle olive. Un libro con tanto di disegni al quale le vispe ragazzine hanno fatto accompagnare raffigurazioni

inerenti al racconto prodotte su legno, vetro, piastrelle e quant’altro. Alla presentazione ha partecipato la stessa Nicoletta Costa che ha rilevato l’importanza per una scrittrice per l’infanzia di incontrare e confrontarsi con il suo pubblico. »È importantissimo – ci spiega la scrittrice – perchè il primo riscontro che ho del mio lavoro, dei libri che faccio, è quando ne parlo con i bambini, quando i bambini che hanno letto il libro me ne parlano. Allora il libro diventa reale. Prima era soltanto qualcosa nella mia testa.

Poi questi bambini sono stati eccezionali, hanno veramente lavorato tanto, hanno interpretato Giulio Coniglio che è il mio personaggio preferito in questo momento e mi hanno dato molta soddisfazione, sono stati molto bravi”.

Nicoletta Costa, Giulio Coniglio e Silvia Furlanič

I lavori preparati dagli alunni

Nika, Pilar, Aida, Ana, Ilaria e Lara

La Città è il foglio semestrale della CI di Capodistria. Responsabile Alberto Cernaz. Stampa Pigraf s.r.l. Isola. Tiratura 1300 copie. Si invia gratuitamente ai soci.

Indirizzo: Comunità degli italiani, Via Fronte di liberazione 10, 6000 Capodistria.

NUOVO INDIRIZZO EMAIL: [email protected]

Foto in copertina: Arcobaleno su Capodistria (Gianni Katonar).

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Concerto di canti patriarchiniaquileiesi al Duomo di Capodistria

Il Duomo di Capodistria era quasi troppo stretto per ospitare tutti gli amanti della musica che hanno voluto sentire il canto patriarchino aquileiese, intonato a Capodistria dopo ben cinque secoli, intonato in un singolare concerto organizzato dalla Biblioteca centrale »Srečko Vilhar« di Capodistria sui testi originali da essa custoditi. È stata un’occasione unica poi, per sentire il suono dell’organo del Duomo di Capodistria, un famoso “Callido” (Gaetano Antonio Callido, Este, 14 gennaio 1727 – Venezia, 8 dicembre 1813), organaro italiano che in 44 anni di attività costruì ben 430 organi, dal suono delicatissimo ma deciso.

Il Reparto di storia patria della Biblioteca centrale »Srečko Vilhar« di Capodistria custodisce, tra gli altri cimeli, anche una preziosa raccolta di codici musicali, perlopiù Graduali e Antifonari del sec. XV. Per sottolineare l’importanza dei preziosi testi e renderli noti al vasto pubblico ci siamo rivolti al maestro Luigi Donorà che li ha studiati anche dal punto di vista musicologico oltre che bibliografico. I canti del Graduale (1500) e Antifonario (1503) sono una particolare forma di canto gregoriano, detta canto patriarchino aquileiese, che era in uso in Istria almeno fino alla fine del sec. XVI. Il maestro Donorà ha scelto cinque canti e li ha trascritti e armonizzati dall’antica notazione quadrata, chiamata anche notazione di Guido D’Arezzo, nella notazione moderna. Tali canti sono stati poi eseguiti in concerto nel Duomo di Capodistria (17 aprile c.a.), dal soprano Giovanna De Liso dell’Opera di Torino e dal tenore Rusmir Redžić dell’Opera di Lubiana, accompagnati all’organo dallo stesso maestro Donorà.»I codici della Biblioteca Civica di Capodistria - così il maestro Donorà - contengono quella particolare forma di canto gregoriano denominato canto patriarchino che serviva a solennizzare la liturgia celebrata nella Basilica di San Marco e in altre chiese del Patriarcato di Venezia. Il particolare schema liturgico della Basilica di San Marco era eseguito in altre chiese della Serenissima, ma anche in Istria e Dalmazia. Il canto patriarchino si completa in due forme pricipali: il Graduale e l’Antifonario. Il canto patriarchino dei nostri codici è scritto in notazione “quadrata” su tetragramma, con sottoposte in scrittura gotica i relativi testi latini, variabili secondo il calendario dell’anno liturgico. I canti necessiterebbero di uno studio accurato sotto ogni punto di vista, sia melodico che estetico, con una profonda conoscenza del canto gallicano, mozarabico e

romano, onde compararli con i canti gregoriani intonati nella sede di Roma e con quelli della sede di Aquileia«. Partendo dai nostri codici musicali, il maestro Donorà ha trascritto e composto originali composizioni per organo e tenore, organo e soprano, rendendo in questo modo il canto patriarchino in qualche modo più ascoltabile anche dal nostro orecchio ormai sordo a questo tipo di musica. Operazione ardua è stato l’improbo compito dell’armonizzazione del “cantus planus”, con tutte le difficoltà legate all’armonizzazione del canto modale del canto gregoriano. L’armonizzazione con accordi, per citare nuovamente il maestro, nel canto modale della chiesa cristiana non viene accettato, proprio perché il “cantus planus” è nato ancora quando non si conoscevano minimamente le prime combinazioni della diafonia, e se vogliamo della polifonia. Il risultato di questo lavoro di filologia musicale oltrecché di armonizzazione e creatività artistica, è stato il concerto che abbiamo organizzato nel Duomo di Capodistria, un avvenimento unico di questo genere mai realizzato non soltanto nella nostra città ma ben oltre.Per la biblioteca e per la Città, è senz’altro il modo migliore per studiare, rivalutare e pubblicizzare il prezioso patrimonio librario che ci è dato in custodia e presentarlo al vasto pubblico. In questo modo conosciamo meglio e diamo nuova linfa ai libri, alla cultura e alla nostra eredità culturale. Soltanto in questo modo, si completa e si arricchisce anche il significato della biblioteca nel suo territorio, non soltanto nel ruolo di tutore del patrimonio librario, ma anche e soprattutto come ente culturale vivo e intraprendente e che si assume l’obbligo, oltre che di custodire, anche di studiare e rivalutare il ricco patrimonio culturale di queste terre.

Ivan Marković

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Freschi di stampa

»Capodistria 1947. L’ultimo confine«

Libro intervista di Edoardo Gridelli con don Lucio Gridelli, sacerdote triestino che racconta il periodo passato nel Seminario di Capodistria alla fine del secondo conflitto mondiale. Il volumetto, edito da »Franco Rosso editore«, parla tra le altre cose dell’aggressione subita dal vescovo Santin e presenta anche una serie di foto inedite scattate in quel periodo. Ho avuto ospiti Edoardo e Lucio Gridelli negli studi di radio Capodistria. (a.c.)

Sulle vicende del Seminario di Capodistria è stato scritto già parecchio. Perchè ha ritenuto opportuno pubblicare questo libro testimonianza?EDOARDO: Un motivo è sicuramente il periodo a cui sono molto legato, non solo per le testimonianze di Lucio. Il secondo motivo, mi piace la storia in generale, mi piace la storia »equa«, perchè molti storici dicono che non ci può essere equità nel raccontare la storia. Posso esser d’accordo e anche no, cioè la storia non può avere due facciate, l’importante è avere testimonianze di ogni parte soprattutto se queste testimonianze vengono riportate con candore e pulizia mentale. Un confronto dopo si può cominciare a fare.I semplici ricordi personali a volte aiutano a capire determinate vicende storiche, più che un articolato libro di storia. Per forza di cose sì. Il libro è nato

anche quando Lucio mi ha detto: »Sai, io ho delle fotografie di allora«. Come? Hai delle fotografie? E ho pensato opportuno pubblicarle assieme a quest’intervista.Don Lucio, ha accettato subito la proposta di Edoardo.LUCIO: Subito e volentieri. Perchè di recente un gruppo di scout mi ha chiesto di raccontare le esperienze dei tempi di guerra globalmente intese, e questa di Capodistria è una delle vicende di cui mi sono sentito più partecipe. Avevo cercato forse per un certo tempo di cancellarla, perchè il dispiacere di quanto avevo vissuto era rimasto. Però ti rendi conto che raccontarlo, con onestà, possa aiutare a capire il passato, in barba al discorso se la historia est magistra vitae o no, mi sembrava utile che si sapessero certi particolari per capire meglio il presente.»Spesso – scrive nella postfazione – la verità viene tenuta per chiusa in un cassetto nella segretezza di un vecchio rullino fotografico«. Nel libro vengono infatti pubblicate per la prima volta delle foto scattate in quei concitati momenti di 60 anni fa. Don Lucio, come mai decise di scattarle?A quei tempi la macchina fotografica era una cosa rara. Credo che in seminario nessuno la possedesse. E sono andato dal fotografo Pizzarello il quale, a suo rischio e pericolo, me ne ha prestata una. E quindi mi è sembrato che fissare in immagini quelle cose sarebbe stato qualcosa di significativo.Edoardo, in prefazione leggiamo brevi note di Claudio Magris e dello storico Roberto Spazzali…

EDOARDO: Sono due nomi di prestigio che hanno notato, penso, l’importanza che possono avere 10-12 fotografie e la testimonianza di mio cugino, pulita, serena, obiettiva.Don Lucio, a distanza di tanti anni le cose si vedono più offuscate o nitide?LUCIO: Direi più nitide perchè si inquadrano meglio, intanto su altre testimonianze sui medesimi fatti, e poi si ragiona anche su altri elementi, una visione più complessiva della storia. Magris parla di »sguardo oggettivo« su quella che reputa »un’indegna violenza«.EDOARDO: Sono completamente d’accordo. Ma vorrei cogliere l’occasione di chiedere una cosa al pubblico. C’e’ una piccola nicchia che Spazzali ha detto, cioè stranamente non c’è nessuno, o almeno non è risultato ne a me ne a Spazzali, che abbia detto nulla di chi stava dall’altra parte in quel momento. Cioè se c’è qualcuno tra coloro che allora manifestò contro la presenza di Santin, che si faccia avanti. Mi piacerebbe altrettanto intervistarlo e altrettanto riproporre la visione dall’altra parte, perchè la storia deve essere non univoca ma »biunivoca«.Ricordiamo allora per sommi capi quanto accadde quel 19 giugno del 1947 a Capodistria. Allora la città è sotto amministrazione militare jugoslava; è la festa del patrono, quando per antica tradizione si faceva la processione. Da Trieste arriva il vescovo Santin e un gruppo di persone venne a manifestare davanti al seminario.E’ arrivata inizialmente una delegazione che ha chiesto di parlare col vescovo con questo messaggio:

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»Lei è compromesso col fascismo, noi non vogliamo che tocchi i nostri bambini«. Monsignor Santin deve aver risposto – non so perchè non ero presente – che lui il suo dovere (di impartire la cresima, ndr) doveva farlo, e loro se ne sono andati. Son tornati dopo mezz’oretta, un gruppo di 40-50 persone, alle quali dopo si sono aggiunte molte altre. Gente, a quanto mi hanno raccontato i capodistriani, portati via via coi camion dal contado e si è raggiunto un numero di parecchie centinaia. Tutti del circondario?Qualche capodistriano probabilmente c’era, anche perchè nel libro cito due che sono arrampicati sul muro – quelli erano capodistriani. Ma certamente tutto era stato ben organizzato. Ricordo bene questo particolare: quando entravano, gridando dal cortile esterno, arrivavano estremamente adagio, di modo che ci fosse tutto il modo di vedere, di capire, di sentire. E racconto nel volumetto che un prete, ormai defunto, Don Raffaele Tomizza e un seminarista, morto anche lui in un incidente d’auto, Pippo Dreossi…ci siamo messi davanti alla porta, così in un gesto simbolico di difesa. E la gente, organizzata da quello stesso che era venuto per parlare col vescovo, gridava questo slogan: »Rispettiamo le vostre divise, ma vogliamo fuori il fascista«. Le divise?!Eravamo vestiti in veste cotta. Infatti l’unica violenza nei nostri confronti è stata quella di metterci fuori dai piedi. Null’altro. Avrebbero potuto schiacciarci, volendo. Poi, e questo ha fatto già sorridere diverse persone, resomi conto che avevano già sfondato la porta, che stavano entrando e che non potevo far niente, son corso per le strade di Capodistria cercando la polizia, ossia la Difesa popolare. Che ovviamente non ho trovato. Non solo loro, ma anche nei palazzi ufficiali, non c’era segno di vita; per cui mi son reso conto che stavo cercando qualcosa di sbagliato. Il tempo era sufficiente perchè accadesse tutto quello che doveva accedere. Quando son ritornato in seminario

gli aggressori erano spariti. E questa rimane una delle cose misteriose…ma neanche tanto infondo. Probabilmente avevano delle intenzioni molto precise, di manifestare la violenza, ma di non arrivare alle estreme conseguenze. Tutto però non finì li.Tutto non finì li. Fra parentesi alcuni, e questi credo capodistriani, erano entrati in cucina del seminario a prender dei coltellacci. Per cui c’erano delle frange chiamiamole »irregolari«. La gente di Capodistria diceva – ma sono quelle cosa da prendere con beneficio di inventario – che l’intenzione era di mettere il cadavere del vescovo sotto la Loggia circondato da quei cartelli. Quanto questa possa valere, non lo so. Quei cartelli ci sono, e i coltellacci c’erano anche. Però la parte ufficiale era conclusa, finita, sparita. C’era, questo l’ho raccontato anche, una cosa stranissima: in refettorio dove il vescovo era arrivato c’era lui con alcune suore e i seminaristi intorno che lo soccorrevano, era un momento smarrito, probabilmente per i tanti colpi ricevuti; e c’era un tizio, un giovane signore, elegante, ben vestito con occhiali scuri, con un giornale arrotolato in mano, appoggiato in un angolo. Che guardava. E so che gli ho chiesto: »Ma scusi, lei cosa fa qua?« Mi rispose: »A, io sono venuto da Trieste col vaporetto perchè capivo che sarebbe successo qualcosa«. Poi il discorso è finito lì. Poi sono arrivati alcuni agenti in borghese e la cosa ha preso una svolta diversa. Le autorità hanno dovuto prendere in mano la situazione. Immagino che l’uomo fosse uno della polizia politica che stava controllando la situazione. Dunque l’impressione sua è che l’aggressione al vescovo sia stata montata dall’alto?Questo l’ho capito dopo, un po’. Montato dall’alto e anche dei criteri ben calcolati. Degli scatenati lo avrebbero anche ammazzato, ma i responsabili non intendevano arrivare a questo. L’obiettivo era il clero in se’ o proprio la figura di Santin?In quel tempo era in atto una vera e propria ostilità nei confronti della

religione, perchè al di là di Santin, hanno aggredito Monsignor Ukmar nella parte slovena, hanno ammazzato Bulešić, quindi anche persone non italiane. Certo, in Santin si univa la massima espressione della Chiesa locale con una persona italiana istriana. Quindi, se l’espressione può passare per una vicenda così delicata, ‘due piccioni con una fava’. Quindi ambedue gli aspetti. E quindi da un lato la repressione religiosa, e dall’altro scoraggiare la resistenza di chi intendeva restare a Capodistria, che sperava in un avvenire diverso e cose di questo genere.I sacerdoti erano comunque un punto di riferimento per la popolazione.Sì. E in quei tempi più che non oggi. Poi Santin venne scortato in camion per il ritorno a Trieste, da dove poi non tornerà più in Istria…C’era la difficoltà di riuscire a portarlo via. Più avanti racconto delle perquisizioni nel seminario in cui sono venuti alcuni della Difesa popolare coi quali ho chiacchierato del più e del meno. Loro mi raccontarono che quando hanno formato un cordone di polizia per permettere a Santin di uscire la gente si è scatenata per davvero e ha calpestato alcuni poliziotti. Cioè la gente era stata così aizzata che non la faceva per scherzo. Per portarlo via hanno fatto accostare tre camion a sponda bassa riempiti di agenti della Difesa popolare. Su quello di mezzo hanno fatto salire il vescovo con uno dei preti del seminario, e via.Questo episodio rompe un certo equilibrio che, nonostante tutto, a Capodistria ancora si manteneva. Poi però venne chiuso il seminario. Con quale motivazione?Nel mio libro ho pubblicato tre lettere, una del Comitato distrettuale, cioè la Provincia, e due del Comitato cittadino, cioè il Comune. La prima diceva semplicemente che per necessità militari dobbiamo requisire il seminario. Punto e basta. Siccome da parte del seminario c’è stato un ricorso, probabilmente allora è emersa l’idea. Apro una parentesi: il rettore di allora Monsignor Labor,

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aveva da poco licenziato il portinaio per motivi che non ho il bene di sapere…un Nazario, detto Iaio, guardacaso. E si dice che lui avesse fatto la spia alla polizia che le suore avevano accumulato tanti viveri. Cosa comprensibile in momenti di crisi – perchè c’era fame in quel tempo; però si prestava certamente a un’accusa di sabotaggio economico. Quando poi di fatto è stato perquisito l’ambiente e parecchi di questi viveri sono stati trovati guasti, allora l’accusa di sabotaggio economico evidentemente era inevitabile. E quindi sì, si è rotto l’equilibrio nel senso che ci sono stati questi due ultimi passaggi – l’arresto del rettore Mons. Labor, e la chiusura del seminario – che hanno tolto ulteriori presenze religiose e italiane a Capodistria.Vogliamo spendere due parole su Mons. Marcello Labor, ex rettore del seminario capodistriano. Un ebreo convertito al cristianesimo del quale è in atto il processo di canonizzazione…E’ interessante, lui era stato direttore del seminario fino al ‘43-’44, e dicevano i seminaristi di allora che aveva il fervore del convertito. Era un po’ rigido. Un giorno – e questo me l’ha raccontato lui - sono venuti da lui due soldati delle SS a offrirgli del cianuro di potassio, in quanto ebreo. Lui ha rifiutato dicendo che se volevano ammazzarlo, lo facessero pure, ma che il cianuro non lo prendeva. Il vescovo l’ha saputo e l’ha trasferito in un paesino della Bassa veneta dove ha fatto il cappellano per un paio d’anni. Ecco, chi lo conosceva prima e chi lo ha visto dopo, l’ha visto cambiato tanto. L’aver vissuto due anni in una parrocchia lo aveva messo a contatto con una realtà molto più terra terra. E ricordo bene la prima messa che ha celebrato al suo ritorno, la festa di S.Pietro e Paolo del ‘45, appena arrivati i soldati di Tito. E ricordo ancora una sua frase. La lettura parlava che Pietro arrestato da Erode venne liberato dall’angelo, e la frase era questa: »Adesso ho capito davvero che Dio ha mandato il suo angelo e mi ha liberato dalle fauci di

Erode e dalle aspettative del popolo«. Era sfuggito ai tedeschi e non sapeva ancora che non sarebbe sfuggito ai giudici di Tito. Comunque per due anni è vissuto lì tranquillo, poi è stato arrestato con questa accusa. E’ stato condannato ad un anno se non sbaglio, e poi condonato a metà pena, per cui questo accadeva in agosto e durante le vacanze di Natale è arrivato a Trieste. Altra frase che mi sono segnato: »Un fatto che per noi è stato una grossa fregatura è stato questo: i comunisti italiani erano prima comunisti e poi italiani, cioè sinceramente internazionalisti; mentre quelli sloveni erano prima sloveni e poi comunisti; e quindi si sono serviti dei comunisti italiani che poi sono stati cacciati a loro volta. Gli stessi che costituivano le autorità politiche dei primi giorni«.Di questo ne son ben convinto. Per cui quando Edoardo diceva di trovare qualcuno dell’altra parte…questi stessi ad un certo momento…non dico che si siano convertiti…ma han dovuto rinunciare a certe loro posizioni per dati di fatto, insomma. Infatti quei documenti che citavo prima son tutti firmati da persone italiane, Deste per il Distretto e Piva per il Comune. Capodistria. All’epoca l’autorità locale era fatta da italiani.Don Lucio, nel ‘47 lei aveva 19 anni. Poi è più tornato a Capodistria?Direi che per almeno vent’anni no. Poi è venuta a trovarci una nostra vecchia amica, un’amica slovena che da Decani si era traferita a Capodistria. Poi sono andato io a trovarla. Erano passati decenni perchè veramente il dispiacere del ricordo, soprattutto deli amici che avevano dovuto fuggire, mi era rimasto sullo stomaco e non riuscivo a superarlo. Queste persone che poi tra l’altro, una volta venute a Trieste, erano tutt’altro che trattate bene, messe nei campi profughi.Ha riannodato i contatti coi colleghi seminaristi?Con quelli che sono venuti a Trieste sì. Nella mia classe c’erano solo due croati che però nel ‘45 furono trasferiti da Capodistria. C’erano tensioni interne, per cui i vescovi hanno deciso

di tenere a Capodistria solamente i seminaristi italiani e di mandare gli sloveni a Gorizia e i croati a Pisino. Anche con loro qualche volta ci siamo sentiti. Avendo collaborato con l’Opera Figli del popolo avrà conosciuto il capodistriano Don Marzari.Certamente sì. L’ho avuto a Capodistria per un trimestre, professore di filosofia. Ed è stato, devo dire, in tanti anni di studio, l’unico trimestre che mi sono entusiasmato per la filosofia. Peccato che era un semestre solo, perchè subito dopo è stato arrestato dai tedeschi e portato al Coroneo, torturato come si sà, perchè presidente del CLN (Comitato di liberazione nazionale, ndr). L’ho rivisto molto dopo quando oramai queste cose erano tutte superate. In visione futura, c’è un messaggio che vorrebbe lanciare ai giovani, sloveni e italiani, che ci leggeranno.Senza dubbio. Di conoscere bene la storia, non per motivo di ulteriori rivendicazioni o vendette, ma per rendersi conto che dalla dittatura, dalla violenza, dalla prepotenza non nasce mai nulla di costruttivo. Benchè bambino, io ero vissuto parecchie estati sul Carso e ho dei vaghi ricordi. Un bel giorno è arrivata una grande macchina nera a Tomaj per arrestare il parroco, che poi è rimasto nostro amico di famiglia. Lo portarono al Coroneo solo perchè faceva catechismo in sloveno. Questo è uno di quei ricordi che mi sono rimasti. L’altro ricordo, sul tram di Opicina c’erano spesso due fascisti armati che controllavano che la gente non parlasse sloveno. Son quei vaghi ricordi di ragazzino che però mi hanno fatto capire quello che poi ho letto in maniera più seria e più documentata, delle ingiustizie precedenti, delle quali non sempre si parla. Ora, la barbarie degli uni non giustifica la barbarie dell’altro. La vendetta non risolve i problemi. Però per avere una visione pacata della storia bisogna conoscere l’una e l’altra cosa. Conoscerla, ripeto, non per rinvangare; ma per dire che da questo nascono solo digrazie.

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Premi della CAN, le motivazioniA Matilde Crevatin, Nadia Vidovich e Lidia Colarich sono stati conferiti nel corso di una cerimonia solenne a Palazzo Gravisi, i riconoscimenti istituiti dalla Comunità autogestita della Nazionalità Italiana. L'evento si è svolto per la seconda volta, dopo il prologo dell’anno passato di quella che sembra destinata a diventare unatradizione della CNI capodistriana.

Matilde CrevatinLa signora Matilde Crevatin è una instancabile attivista della CI di Crevatini. Figura positiva ed amata. Oltre a partecipare alle molteplici manifestazioni della Comunità, a lei va il merito di aver saputo trasmettere ai giovani, con rara sensibilità e amore, le tradizioni locali. Da Lei i giovani hanno imparato ad apprezzare e custodire. Ricorderemo inoltre le lezioni di cucina che “nonna Elda” (come viene chiamata affettuosamente) tiene sia a scuola che in Comunità.

Prof. Nadia VidovichL’impegno nel mondo della scuola della prof. Nadia Vidovich è sempre stato caratterizzato da professionalità e serietà, condotto con discrezione e calore umano. Nata a Pola, dove ha frequentato l’Elementare e il Ginnasio italiani, consegue la laurea in Romanistica all’Università di Zagabria. Nel 1960 si trasferisce a Capodistria dove insegna al locale Ginnasio italiano del quale nel 1988 assume l’incarico di preside. Notevoli i suoi contributi anche nel campo didattico, pedagogico e anche organizzativo. La prof. Vidovich è stata capace di trasmettere l’amore per la lingua materna curandone tutti gli aspetti, sia quello linguistico che letterario.

Prof. Lidia ColarichLa figura dell’insegnante Lidia Colarich è una delle più significative della nostra Comunità nazionale. La sua attività e partecipazione non si limitano soltanto al mondo della scuola ma anche in un ambito più vasto della Comunità italiana. Nata a Fiume inizia la sua carriera scolastica nel 1958 impiegandosi presso la Scola elementare italiana di Capodistria in qualità di insegnante di classe. Nel 1981 diventa direttrice della scuola. A Lei va senz’altro il merito per l’apertura dell’asilo italiano di Crevatini nel 1982. Altro importante traguardo, nel 1990 la costruzione dello stabile che ospita l’asilo “Delfino blu” nel centro storico. In Comunità si è sempre prodigata affinché vi sia un costante collegamento tra la CI e il mondo scolastico.

Lidia Colarich, Matilde Crevatin, Nadia Vidovich ed il presidente della CAN Alberto Scheriani

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In Italia la Giornata del Ricordo dell’esodo, in Slovenia la Festa dell’annessione del Litorale alla Madrepatria. Due ricorrenze in cui non c’è gran spazio per la riflessione. Da una parte e dall’altra del confine si tende ad accusare gli altri. Muro contro muro. Pochi sono capaci di fare un discorso obiettivo che includa un minimo di autocritica. Reputo tale il commento pubblicato dal Piccolo lo scorso 10 febbraio. (a.c.)

Lo chiamano ricordo, ma quante rimozionidi Paolo Rumiz

A due settimane dal Giorno della Memoria, il 10 febbraio - oggi - ritorna il Giorno del Ricordo dedicato agli esuli d’Istria e Dalmazia e ai morti nelle foibe. Torna con la sua carica di emozioni forti e il suo seguito di dispetti diplomatici fra Italia, Slovenia e Croazia. Ogni volta la stessa storia. Quasi un tormentone a orologeria.Come noto, per metterci una pietra sopra, Roma chiede a Lubiana e Zagabria di concordare un atto simbolico di omaggio ai due luoghi contrapposti della barbarie: le foibe appunto, e la Risiera di Trieste, unico forno crematorio nazista in terra italiana. Un doppio atto catartico, si afferma. Una contrizione equanime e simmetrica, come i due piatti di una bilancia.Ma è qui il punto. So bene che molti non saranno d’accordo, ma a mio avviso quella tra le foibe e il Lager triestino è una falsa simmetria. Mi spiego. Noi chiediamo ai nostri vicini di riconoscere una colpa loro, e in cambio offriamo di dolerci di una colpa niente affatto nostra. La Risiera è un simbolo pesante. Ma ha un difetto: venne gestita da tedeschi, e Trieste era territorio del Reich.È difficile che funzioni. È come saldare un debito con moneta altrui. Perché non si cerca altro? Strano che l’Italia antifascista non ci pensi. Di luoghi alternativi ce n’è d’avanzo. Per esempio l’infame e italianissimo campo di concentramento di Gonars in Friuli, dove civili sloveni e croati furono fatti morire di fame; o il villaggio di Podhum sopra Fiume, una Marzabotto firmata Italia del ‘42, con cento civili fucilati, incendio e deportazione dei sopravvissuti.

Sarebbe facile, ma temo che se le nostre controparti ci dicessero davvero “offriteci un pentimento un po’ più italiano”, saremmo colti da amnesia collettiva. Da troppi anni il Paese evita il nodo del pentimento; si genuflette ad Auschwitz ma sorvola sui delitti del Ventennio. Squalifica i liberatori, li trasforma in occupatori, minimizza quel regime che pure Fini ha dichiarato “male assoluto”, e anziché chiedere scusa si limita a costruire un’agiografia di “fascisti buoni” salvatori di ebrei, o dedica strade a propagandisti del Ventennio.Ma questo crea un rischio concreto: che il 10 febbraio vada in collisione col 27 gennaio, o addirittura lo neghi. L’equivalenza criminale tra foibe e lager triestino sembra fatta per tirarsi dietro un’equivalenza politica: nazifascismo=comunismo, mali assoluti entrambi. Ma come possiamo sostenerlo senza negare proprio l’evento fondativo del Giorno della Memoria, e cioè che il 27 gennaio a entrare ad Auschwitz fu l’Armata Rossa?Non basta. Il 10 febbraio lascia intendere che pure noi italiani abbiamo avuto la nostra Shoah. Le nostre vittime, si dice, furono “martiri”. Ma il termine indica l’accettazione della morte in nome di un’idea, cosa che non fu, tanto è vero che non viene applicato nemmeno ai morti di Auschwitz. Difendere questa parola non rischia di sminuire l’orrore incommensurabile dell’Olocausto?Da noi tutto è soggetto a lifting, dalla faccia dei primi ministri alle leggi finanziarie: figurarsi il Ventennio. In questa cosmesi Trieste ha una funzione-chiave. Qui i liberatori dell’Est e dell’Ovest andarono a scontrarsi e la ferocia vendicativa dei primi si scatenò come sappiamo. Ciò ne fa una piazza irrinunciabile per la Destra. Il posto ideale per equiparare i partigiani ai briganti e riciclare i fascisti come difensori della frontiera minacciata dal comunismo.Ma se questo è il fine, allora il 10 febbraio e il 27 gennaio rischiano entrambi di svuotarsi di senso e ridursi a un’autoassoluzione. In fondo la colpa dei forni crematori è tedesca, quella delle foibe slava, e dunque possiamo sempre concludere: innocenti noi, barbari loro. Deponiamo corone d’alloro e torniamo a casa contenti di essere stati, ancora una volta, italiani “brava gente”.Pensiamoci un attimo. Siamo l’unica nazione europea che ha ben due giorni dedicati alla Memoria. E siamo anche gli unici a servircene non tanto per chiedere scusa quanto

Bambini nel campo di prigionia fascista di Arbe.

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per esigere scuse da altri. Ma allora a che serve questo nostro 10 febbraio? A celebrare morti e confortare profughi, come è doveroso, oppure ad assolvere gli stessi squadristi che plaudirono alle leggi razziali?L’Italia ignora che quelle leggi furono proclamate settant’anni fa proprio a Trieste ed ebbero un tragico preludio nella repressione contro sloveni e croati fin dal 1920, con diciotto (!) anni di anticipo sulla Notte dei Cristalli. E pochi sanno che i “nostri” ebrei furono portati a morire sulla base di liste tutte italiane, accuratamente redatte nel ’39 dall’ufficio “anagrafe e razza”. Perché non lo si dice chiaro?Perché quel giorno infausto, di cui è appena trascorso il settantesimo anniversario, è stato ricordato in tono minore? Perché non s’è detto chiaro che quel tragico annuncio in piazza Unità ebbe in risposta non un silenzio attonito ma sette – ripeto, sette - ovazioni? C’è chi dice che le leggi razziste dipesero dall’influenza tedesca, ma Mussolini fu esemplarmente chiaro: “Coloro i quali credono che noi abbiamo obbedito a imitazioni – disse - sono poveri deficienti cui non sappiamo se dirigere disprezzo o pietà”.Oggi in Italia si bruciano barboni, le ronde vanno a caccia di “musi neri”, nelle banlieues è scattata l’emergenza etnica, la presidenza del consiglio invece di unire il Paese lo spacca drammaticamente. Lo stesso Fini e parte della Destra sono preoccupati. Ma non è proprio questo che li dovrebbe obbligare a tener desta la memoria per evitare derive balcaniche al Paese? I Balcani non sono forse una tragedia etnica costruita sul cattivo uso della memoria?Invece l’antislavismo resta un pregiudizio vivo a Nordest, e Trieste continua a essere un tappo formidabile sulla Ostpolitik italiana. Il Muro è caduto vent’anni fa, il confine con la Slovenia è caduto, ma la “svendita dell’italianità” è ancora il termine insultante con il quale certa nostra imprenditoria, per invocare protezionismi, bolla in nome della patria ogni tentativo di accordo di frontiera, lasciando così in apnea il porto di Trieste.Non si capisce una cosa ovvia. La potenza tedesca si basa su un pilastro: l’aver chiesto scusa. È questo che ha dato credibilità all’espansione economica di Berlino a Oriente. Noi – che con tutta evidenza ci siamo macchiati di colpe minori - non l’abbiamo fatto, con la conseguenza che l’allargamento dell’Unione europea a Est va a due velocità. A Nord arriva alle porte di Pietroburgo; a Sud non arriva a Punta Salvore.Lo chiamano ricordo, ma quante rimozioni! Non si dice che nel ’19, dopo i bei Ragazzi del Novantanove, sulla frontiera arrivarono uomini neri a portare arroganza, sopraffazione e morte. Si omette che decine di migliaia di austriaci se ne andarono da Trieste a guerra finita perché l’Italia aveva chiuso le loro scuole, dopo che Vienna aveva lasciato fiorire la lingua italiana.Si dice che Trieste fu “redenta”, ma non aveva nulla da cui redimersi. Il porto funzionava, Vienna investiva cifre enormi nello sviluppo, la rete ferroviaria era al top. Il

fascismo invece castigò l’Adriatico: la flotta passò al Tirreno e Genova con Napoli saldarano il conto della sconfitta navale di Lissa, inflitta 50 anni prima dagli istro-dalmati sotto il vessillo dell’aquila bicipite.Perché oggi si dedicano discorsi persino ai papalini uccisi a Porta Pia, ma non agli istriani, dalmati, goriziani e triestini che morirono sul fronte russo per obbedire al loro imperatore? Per essi nemmeno un fiore sui Carpazi. Vanno dimenticati solo perché disturbano l’immagine di Trieste italianissima? Quanta storia inghiottita da un buco nero.Giampaolo Pansa fa le pulci alla Resistenza. Benissimo. La storia va sviscerata senza paura. Il problema è che pochi fanno le pulci al fascismo. Chi parla delle repressioni nella Trieste operaia, degli assalti agli sloveni e della loro lingua negata? Chi dei cognomi italianizzati in massa, o dei lager del Duce dove tanti bambini stranieri morirono di stenti tra il ’41 e il ’43? Silenzio indecente su tutto, anche sui 300 criminali di guerra mai passati in giudicato, o sugli squadristi riabilitati nel dopoguerra.È dal ’45 che la Destra persegue coerentemente questa rilettura. Ora ha in gran parte raggiunto il suo obiettivo. A furia di insistere ha ottenuto di fissare il Giorno del Ricordo al 10 febbraio, data del “tradimento” (il trattato di pace che ha ceduto terre a Tito) che mi pare scelta apposta per fomentare revanscismi. Nulla è più pertinace della memoria dei Vinti.Il risultato è che oggi l’Italia accetta di celebrare le foibe evocando solo la barbarie slava e ignorando quella italiana. Onestà vorrebbe che nel gioco delle scuse incrociate si sostituisse la falsa simmetria con una simmetria autentica. Solo così il dopoguerra, a mio avviso, potrà dirsi finito sulla frontiera. Senza onestà la memoria resta zoppa, e il giorno del Ricordo potrà creare tensioni ancora a lungo. A meno che non sia proprio questo che si vuole.

Inverno 1947. I polesani abbandonano la loro città.

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Freschi di stampa

Marco Apollonio con «L’altra parte del cielo»si avventura nel mondo degli emarginati

“Lo scampo gigante”, la Collana della nuova letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero (per i tipi dell’EDIT) si è arricchita di un nuovo volume: “L’altra parte del cielo”, di Marco Apollonio.Nato a Capodistria nel 1964, Marco Apollonio viene annoverato in quel gruppo di autori apparsi nel panorama istro-quarnerino della nuova generazione, quella maturata nella seconda metà degli Anni Ottanta, autori provenienti dal mondo giornalistico ed universitario. Grazie alla loro solida preparazione culturale, tendono a immergersi nell’indagine personale e allargata del mondo spaziando tra la tradizione e l’innovazione, la conservazione e la sperimentazione, la ricerca di un’identità linguistica in una situazione di radicali mutamenti, di transizione. Ha pubblicato, per la “Firenze Libri”, la “Breve antologia dello humor nero”, mentre per i tipi dell’EDIT, in collaborazione con la Durieux, i racconti “Corpi / Tijela”, usciti in edizione bilingue italiano/croato. Diversi dei suoi racconti sono stati pubblicati sulle pagine della rivista di cultura e letteratura “La Battana” (EDIT) e nelle “Antologie” delle opere premiate al Concorso di arte e

cultura “Istria Nobilissima” dove si è guadagnato sempre ottime critiche.Nel volume “L’altra parte del cielo” l’autore si confronta con una realtà sociale costituita sempre più da emarginati, profughi, extracomunitari, emigrati, con destini segnati da un malessere profondo e da un’esistenza vissuta ai margini della società. Sono quattro i racconti proposti: “L’altra parte del cielo”, “Tempo”, “L’ultimo viaggio”, “Notte, all’inizio”. Il primo è ambientato nel Capodistriano, un “classico” giallo con morti, scomparsi, depistaggi, il coinvolgimento di servizi segreti, traffici loschi e, naturalmente, un esito inaspettato. Anche “Tempo” è un racconto inquietante, che prende spunto dal radiodramma di Dimitrij Kralj “L’ascensore”, in cui due persone, causa un guasto tecnico, rimangono chiuse in un ascensore. Cercando di immaginare il loro stato di terrore, Apollonio guida il lettore in un immaginario quanto allucinante viaggio nel tempo, in quel breve ma lunghissimo intervallo che deve trascorrere fino alla fine dell’incubo, con pensieri legati alla scienza, alla filosofia, alla storia, alla religione, riflessioni che presuppone

possano passare per la mente di una persona in simili difficoltà.“L’ultimo viaggio” propone una storia ormai, purtroppo, comune, basata su problematici rapporti familiari e affettivi, dove l’indifferenza emotiva, la falsità e l’incomunicabilità portano immancabilmente all’alienazione e all’insofferenza verso il prossimo. Uno stile linguistico sintetico, privo di attributi superflui, espressioni graffianti che riproducono la lingua parlata.Il miniracconto “Notte, all’inizio” vede protagonista un extracomunitario che si trova a subire le conseguenze di un’esistenza vissuta ai margini della società, in un ambiente non disposto ad accettare diversità di alcun genere, dove un semplice gesto di cortesia può venire considerato come un’ipotetica insidia. A testimonianza che la società in cui viviamo non lascia spazio alla fiducia verso il prossimo, soprattutto se questi non si include nei limiti del nostro immaginario mondo perbenista.Di Marco Apollonio viene rilevata la capacità di assorbire le suggestioni che derivano dal suo bagaglio culturale, una tradizione di riferimento per creare una linea narrativa propria. Attingendo al passato dà vita a nuove percezioni sensoriali e psicologiche, associando la tradizione all’influsso delle esperienze letterarie più recenti. La prefazione del volume è firmata da Elis Deghenghi Olujić che, nell’analizzare il repertorio dei racconti di Marco Apollonio ne sottolinea il pathos multiforme e metamorfico, una narrativa che “non si offre ad alcuna ambigua interpretazione, bensì testimonia come l’appartenenza ad una cultura e ad una comunità minoritaria non possono in alcun modo essere sinonimo di inferiorità”. (tratto da La Voce del Popolo)

La prof. Elis Deghenghi Olujić, Marco Apollonio e Gašper Malej.

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La pubblicazione è uscita in accompagnamento all’omonimo video prodotto su iniziativa della Federazione delle organizzazioni slovene – Svet slovenskih organizacij in collaborazione con enti e istituzioni delle Comunità nazionali slovena e italiana del Friuli Venezia Giulia e della Slovenia. Vuole sottolineare la continuità storico-culturale del

territorio a cavallo del confine ormai cancellato che si manifesta con la religiosità delle popolazioni locali espressa nel culto dei Santuari mariani sorti in varie epoche nell’area che va dal mare ai monti. Nel libro si compie un pellegrinaggio virtuale attraverso i santuari, da quello di Strugnano, passando per Semedella e Muggia Vecchia, fino a Barbana sulla costa e,

salendo fino al Monte Lussari. L’opera – realizzata con fondi del programma europeo Interreg, testi redatti da David Bandelj – vuole altresì contribuire alla consapevolezza che la concordia e la pace quali elementi del comune patrimonio spirituale dei popoli che qui si incontrano, possano essere i valori fondamentali delle convivenza reciproca.

Santuari Mariani dall’Adriatico alle Alpi

Sergio Settomini e Corrado Cimador, due degli interpreti della compagnia capodistriana »'Cademia Castel Leon«, all'incontro dei gruppi filodrammatici delle Comunità degli italiani dell’Istria e di Fiume

svoltosi, quest’anno a Rovigno.

I genitori dei bambini dell'asilo »Delfino Blu« hanno portato quest'anno in scena la favola di »Cappuccetto rosso«. Lo spettacolo si è svolto venerdì 12 giugno al

cospetto di un folto pubblico di bambini, parenti e amici.

La Madonna di Strugnano

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Lettere dal Siam

Bangkok, 24 Aprile 2009

Dalle Bocche di Cattaro a UlcinjViaggio, tra passato e presente, in terra montenegrina

Caro Alberto,prima de tornar al caldo del Siam, l’altro ano, go volesto, anca a seguito de la tua bela serie televisiva su la Dalmassia che ti ga fato insieme a Damian Fischer (a proposito complimenti a duti do!), andar a riveder quele località che vevo visto tante volte nei ani passai, ma che no vedevo più da l’epoca dela Jugoslavia. L’ultima volta no la posso dismentigar quando con un marco ti vevi 2 milioni de dinari! Jerimo duti milionari! Pecà solo che per un gelatin ti dovevi sborsarghene un intiero milion. Po’ xe andà anca pezo, ma la storia dei due milioni per un marco, me ven in mente ogni volta che penso a quel paese, che par lontan, ma che al xe sai vissin! Naturalmente per rivarghe go fato, pian pian, duta la Dalmazia, ma quel xe un altro discorso. Volevo solo ricordar, a proposito de Dalmazia, che un giorno ‘vevo sentì a Udine una conferenza de un che ‘veva scrito libri su Ragusa (Dubrovnik), ma che

nol saveva che esisti el corridoio de Neum, che interrompi la Croazia (e da secoli!), e tanto meno el perché de quel corridoio. E che invesse al ricordava solo el “ben” che se voleva Ragusei e Venessiani. Per Ragusa, mejo ver per confinanti i Turchi che i Venessiani. Insoma, lassemo la Croazia, subito dopo traversà la Neretva, passemo Neum, l’unico sboco al mar de la Bosnia (grazie a Ragusa/Dubrovnik), tornemo in Croazia, passemo sora Dubrovnik e subito dopo, confin!! Un confin no tanto semplice de passar, ma a noi la ne va ben e se fermemo subito dopo in un grande albergo, evidentemente costruì secondo i canoni del vecio regime, ma ben tignù e vissin a un bel bosco dove in mezo jera una villa de Tito. L’albergo Igalo, in origine, serviva evidentemente come alloggio per i sui ospiti. Anche perché al se trova in zona termale. Semo in un soborgo de Herceg-Novi, proprio all’inizio de

le Boche de Cattaro. Za la sera, con el sol che tramontava sull’Adriatico, e con una iluminasion particolare, le Boche le se presentava in modo sai acativante. Prometteva ben per i giorni che doveva rivar. Proprio davanti a la finestra dela camera, ‘vevo el boschetto che scondeva la vila de Tito, la Galeb (come el nome del suo yacht). Sula ponta del promontorio, che praticamente xe l’inizio dele Boche, riva anca el confin con la Croazia, per cui dute le Boche le se trova in teritorio montenegrin. Anche Herceg-Novi comunque no xe più quela de una volta. Xe sta costruì quartieri novi anca per ospitar un saco de novi rivai, in general profughi serbi, rivai da la Croazia e da la Bosnia per le vicende de la guera 1992-95. La cità vecia xe rimasta uguale, con la sua Torre del Orologio (Sahat Kula) del 1667, ma el resto gnanca de confrontar coi tempi andai. Questo per quel che se pol veder. Ma go paura che presto cambiarà duto e sai de più de quel che xe cambià fin desso.Ve ricordarè de sicuro che da almeno do secoli, la Russia ga sempre sercà de meter el “zampin” in Mediterraneo, sia che fussi la Russia zarista, sia l’Unione Sovietica e sia anca, per ultima fin adesso, la Russia post-comunista. I Inglesi che proprio mediterranei noi xe (come del resto i Russi) ga sempre sercà de oporse. El Mediterraneo jera un mar che lori veva praticamente serà, col possesso de Gibilterra a Ovest e de Suez a Est. Po’ i veva Cipro, po’ i se jera afretai a rivar a Malta, prima dei altri e anca sensa andarghe direttamente, i ‘veva ajutà Garibaldi a sbarcar in Sicilia, proteto apunto dale navi inglesi, ma i Russi no molava e la loro presensa Il Museo »Biljarda« di Cetinje.

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la jera sempre preoccupante (per i altri), tanto che dopo el teremoto de Messina (1908), le prime navi che xe atracade nel porto de Messina, jera quele de una flota russa. Se tratava de le navi “Makaroff”, “Giljak”, “Korec”, “Slava”, “Tzésarévitch” (secondo la traslitterazion del Comune de Messina) al comando del amiraglio Ponomareff, che al ‘veva praticamente preso in mano la direzione dei socorsi, fasendo adiritura fusilar duti i “sciacalli” che andava a robar nele case teremotate. Ma imediatamente dopo, come un’ombra eco rivar la flota inglese, mentre quela italiana xe rivada tanto in ritardo che i ga dovesto ancorarse nel porto, in tersa fila. Durante la guerra ecco che i eredi del Zar, la Unione Sovietica, ga sercà in duti i modi de ripeter quel tentativo, sia con la Jugoslavia (e Tito ghe se ga messo de traverso), con l’Albania (dove Mao ghe ‘veva subito dopo sbarà la strada, ma anche in Grecia dove la rivolta comunista de Markos la jera stada stroncada sempre con l’aiuto dei Inglesi. Insoma ancora una volta la ghe jera andada mal ai Russi in Mediterraneo. Ma adesso le robe le sta cambiando e la prima roba che i m’à contà, ciacolando con i locali, xe che la mafia russa la xe rivada con valige de soldi e che i compra duto. Par che duti i terreni delle Boche i xe ormai in man de la mafia russa. I me ga anca indicà chi, ma no avendo controprove, resto sule generali. D’altra parte esisti a Budva l’Albergo Splendid, che ga, fra le sue offerte, quela de una suite (“presidenziale” i la ciama) a 7000 Euro per note. No la xe certo destinada ai lavoratori montenegrini che i fa fadiga a meter insieme el pranzo con la sena. Ma evidentemente i clienti ghe xe! Insoma, quel che i Russi no veva rivà a far con la flota, i lo ga fato con la valige (de schei).A proposito de schei, in Montenegro, la moneda uficial xe l’Euro, anca se el Montenegro xe ben lontan de entrar nela comunità europea. Prima ancora i veva el marco tedesco (ancora in

uso in Bosnia dove i lo ciama però “Bosanska Marka” o “Konvertibilna Marka” e che ga el stesso valor che ‘veva el marco tedesco). I montenegrini i voleva anca far risusitar la moneda che i’ veva adotà quando che se ga formà, liberadisi dai Turchi, el primo stato montenegrin (solo nell’interno), cioè el “perper” (nel 1906), ma po’, memori del passato anche recente, i ga finì per adotar una moneda straniera, prima el marco e po’ l’euro.Prima discussion linguistica (ma ghe ne xe più de una): la parola italiana “sperperare” deriva da perper, “sperperare” cioè “butar via i perperi”, ma se i perperi jera stai adotai solo nel 1906, mentre la parola italiana xe sai più vecia? Cussì da qualche veloce ricerca (no son de sicuro un numismatico e de perperi no vevo mai sentì parlar) go scoperto che a parte un non antichissimo uso del perpero in Serbia, el primo perpero xe sta conià dal Imperador Bizantin Alessio I nel 1092 (perper voleva dir “raffinado”). E da là el nome xe rivà nela lingua italiana tramite i venesiani ma forse anche tramite i genovesi, dato che duti do i ‘veva basi comerciali, apunto, a Bisanzio.Le Boche le se trova in una classica zona mediterranea, con clima mite, palme lungo le rive (come a Capodistria), ma basta alzar la testa, se vedi una corona de monti spettacolosi, ma inquietanti, una completa anteprima de quel che trovaremo nell’interno. Ma intanto femo el giro dele Boche. No me ricordavo gnente, a parte la piassa de Cattaro, co’ la

tore del orologio. Voi savé duti che le Boche le penetra profondamente nella terra ferma formando una specie de fiordo, sai articolà. Se costeggia prima el Golfo de Tivat, se riva a la strozzatura de Verige, che xe el punto più streto de le Boche, quel che le rendeva praticamente inespugnabili per le marine de setanta ani fa. Infati l’Austria ne gaveva fato el porto militare più importante per la sua flota e altrettanto veva fato prima Venesia. Nissuna nave nemiga ga mai podù penetrar nele sue acque. Passada sta strossadura (el canal ga solo 300 metri de larghezza), dove ghe xe anca el traghetto che, in un quarto d’ora de tragitto, te fa risparmiar de far duto el giro dele Boche se ga una magnifica vision dei bacini interni. Ma a noi ne interessa veder le Boche e continuemo oltre la strossadura entrando subito nel Risanski zaljev. Un poco sula destra, all’inizio del Kotorski zaljev, vedemo de lontan, la famosa cità de Perasto/Perast, che ne farà parlar de un altro argomento che ga passionà quei che se interessa de robe “nostre”. Ma intanto proprio in mezo fra i due golfi, quel de Cattaro e quel de Risan, vedemo do isolete con su ogniduna una ciesa. Vignimo a saver che se trata de una ciesa ortodossa, sull’isola de San Giorgio, che xe un’isola naturale, e de la ciesa della Gospa od Škrpjela, ciamada spesso in italian Chiesa della Madonna dello Scarpello, che però xe costruida su una isola artificiale. Anca questa xe una storia interessante, ma longa. Sercaremo de contarla brevemente. Una volta, in quel preciso posto,

Madonna dello Scalpello a Perasto.

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esisteva una sola roccia che vigniva fora del mar. Qualchidun conta desso che la veva la forma de un scalpel, dal qual derivaria el nome italian de Madonna dello Scalpello. Un giorno ven trovado vissin a la rocia un quadro de una Madona che galegiava. Subito ven fato un voto e cioè quel de costruir sul posto una ciesa. Ma la rocia jera tropo picia e alora i se decidi de butar intorno a quela rocia, altre piere, afondando anca barche, in modo de formar una piataforma bastansa granda de costruirghe sora la ciesa. Un lavoro lunghissimo che ga durà oltre un secolo e ancora ogi i perastini, per ricordar quel grandioso lavor, i usa far, el 22 luglio, una procession de barche, ligade una all’altra come in un fascio (e infati la procession se ciama la “fassinàda”) e i va a butar una piera atorno all’isola. Quela roccia, che i disi la sia stada a forma de scalpel, la xe stada inglobada nela ciesa, costruida sora. Mi la go vista, ciesa e roccia, ma no go visto assolutamente somiglianze col scalpel. In inglese sta ciesa (Gospa od Škrpjela, Госпа од шкрпјела in croato e montenegrin), la xe ciamada Church of “Our Lady of the Rocks” e in tedesco “Unsere Liebe Frau vom Riff” che, evidentemente ga a che far con la roccia, ma no col scalpel. E alora se presenta la seconda discussion linguistica. Vegno a saver che la gente del posto la rocia i la ciama škrpjela,

ma anca questo no vol dir gnente dato che el termine local per rocia saria podù derivar dal nome dela ciesa e no viceversa. Infati in nissun altro posto, che mi sapia, la rocia ven ciamada škrpjela o con un termine simile. Go invesse sentì un’altra version e che el nome škrpjela saria sta dado a la ciesa, in omagio a la località greca (del resto non definida), da dove el quadro saria rivà. Qua podesimo continuar a l’infinito. Fermemose, se no qualchidun se stufa. A Perasto, incontremo la Dolores, una perastina, che sarà la nostra guida in Montenegro. La parla (quasi) perfetamente italian, ma no la fa parte de la Comunità italiana. La disi che la comunità la xe bastansa ativa, anca se non numerosa, ma per gran parte se trata de gente rivada in tempi bastansa recenti, quindi sensa radici profonde sul teritorio. Anca se la lingua italiana la xe conossuda da parecchia gente, non necessariamente de etnia italiana, per lo più atraverso l’ascolto de la TV, se trata de una conossensa abbastanza superficiale, tanto xe vero che anca quei italiani, diventai montenegrini de seconda generasion, oramai no i parla più l’italian in casa, per cui i fa comunque difficoltà a parlarlo, pena pena per farse capir. No jera cussì una volta, anche a seguito dela apartenensa dele Boche a la repubblica de Venessia dal 1420 al 1797, quasi 380 ani. In quei ani el venessian al jera la lingua franca, come ogi l’inglese nel mondo, e duti i lo parlava o comunque i lo conosseva, anca se no i jera venessiani. Anzi, quando xe finida la Serenissima (23 Agosto del 1797), xe sta proprio a Perasto che xe stado amainado l’ultimo gonfalon Venessian. Ancora ogi la comunità italiana, ricorda quel avenimento, famoso per el giuramento a la repubblica, fato dal capitano conte Viscovich a nome de tutti i Bochesi e conossù per el suo “ti con nu e nu con ti”. E alora ecco che se presenta la terza discussion linguistica. In che lingua xe sta fato el giuramento? Una volta se conosseva solo la version

in venessian, ma dopo xe saltà fora el testo, che i disi original, in croato, e che xe sta publicà nel 1898 ne la “Storia di Perasto” da un nevodo (Francesco) del capitano Viscovich in persona. Ma xe proprio quel l’original? Altra discussion che podaria no finir mai! Qualchedun infati se dimanda: “perché el testo croato xe saltà fora solo tanto dopo quel in venessian?” E subito otien la risposta: “e perché la “Stele de Rosetta” la xe stada trovada solo 1995 ani dopo che la jera stada scrita?”Curiosità: la più monumentale, completa e aggiornata storia del Montenegro (edita nel 2006) la xe stada scrita originariamente in italian (no la xe tradota) da un Bochese, Antun Sbutega, de etnia croata, nato a Cattaro nel 1949 ma emigrà a Roma nel 1991 a seguito de la guera. La xe scrita anca in bon italian, ance se no perfeto, e adesso el suo autor al xe Ambassador de la Republica de Montenegro presso el Vatican.Xe un picio stato, el Montenegro, un stato novo, ma tanto complicà per storia, geografia, cultura, che se ne podaria parlar tanto ma manca el spassio e semo ancora a le Boche, una picia parte de questa realtà. No vemo parlà dele etnie minoritarie (i Montenegrini xe meno del 50% de la popolasion). No andaremo verso l’Albania (la capitale se trova a soli 25 chilometri dal confin albanese e mi la go conossuda come Titograd e fasso fadiga desso a ciamarla Podgorica anca se quel jera el suo nome precedente, ma no el suo primo, che jera Ribnica). Ma anca se no gavemo podù parlar de Cattaro, Budva o Ulcinj, ne toca lassar sto paradiso e inoltrarse verso le montagne che circonda le Boche; qualche volta le par protettive, qualche altra minacciose. Comunque le se alsa subito su da la costa, come capita in duta la costa dalmata (salvo la foce de la Neretva), da Fiume fin zo a Ulcinj.Lassemo la costa a Budva e in pochi chilometri se riva a 1200 metri de altitudine, da dove se ga un panorama “mozzafiato” su la costa, sull’isola-

Scorcio di Cattaro.

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albergo de Sv. Stefan e sull’altra isola più picia, Sv. Nikola, proprio davanti a Budva e adesso messa all’asta per un prezzo base de solo 21 milioni de Euro. Con un picio (miga tanto) collegamento col Siam, de dove che scrivo, visto che l’ex primo ministro Tailandese, ora condannato e ricercato, ma sempre amato da molti, al concorri all’asta per crompar l’isola. Paese molto ospitale, el Montenegro, visto che a lui el Montenegro ghe ga anca rilascià el passaporto dopo che quel tailandese ghe jera sta revocà. Ve sembrarà strano, ma proprio a Cetinje, me vegnarà in mente un altro colegamento con la Tailandia. Ma ne parlaremo dopo.Cetinje xe una picia cità, ma tempo fa la iera la capitale (Prijestonica). La nassi quando la dinastia dei Crnojević, che iera sovrani del stato medioevale de Zeta, decidi de stabilirse in un posto sicuro dai atachi dei Turchi e fonda un Monastero. Posto tanto sicuro no iera, ma comunque per 200 e passa ani, i Turchi no i se veva fato veder. Ma po’ el pasha de Scutari, ga pensà ben de vignir quassù, in vacansa a respirar aria bona, ma tanto per confermar l’opinion che la gente veva quela volta dei Turchi (ammazza li Turchi!), al ga anca ben pensà de distrugger la città completamente. Circa un ventennio ga doperà i Montenegrini per rimetterla in sesto, ma poco ga doperà invesse el Visir turco de la Bosnia, per tornar a farla sparir de la carta geografica. Insoma fra Turchi e Venessiani; xe quindi solo a partir dal 1697, soto la dinastia dei Petrović che la cità se ga ripreso. No vemo de sicuro de perder tempo a sercar case vecie, qua a Cetinje. Sai poco xe restà e duto risali, grosso modo, ai primi del 1800 (1838 per l’esatessa) soto la guida de Petar II Petrović Njegoš. Xe durante el suo periodo che la località se trasforma in cità e in quel ano incomincia la costrusion del “Palazzo Reale”, che al vegnarà ciamà la Biljarda. Comico nome per un palazzo real (al par una casa normale), ma al xe dovudo al fato che in una de le sue

sale, jera sta instalà el primo tavolo de biliardo, mai arivà in zona. Solo nel 1878, comunque, col Congresso de Berlin, xe sta riconossuda la piena indipendenza del Montenegro e xe stada fissada la capitale apunto a Cetinje, che xe rimasta capitale quando el Montenegro xe diventà un regno (nel 1910), anche se la iera calcolada la più picia capitale del mondo, in quanto la gaveva, alora, solo 5895 abitanti. La xe restada capitale ancora per poco, perché za nel 1918, el Montenegro xe entrà a far parte del regno dei Serbi, Croati e Sloveni, diventà subito dopo Jugoslavia.Perché tante parole per contar sta storia? Ma perché el discendente de Petar II, Nikola I Mirkov Petrović-Njegoš, oltre a esser sta l’unico re montenegrin, al xe sta anca un grande poeta, l’autore de la Balkanska Carica e del popolar ino montenegrin Onamo, ‘namo! che secondo qualchidun varia dovù diventar l’ino nassional montenegrin.Nikola I xe sta el pare de la principessa Elena/Jelena Petrović-Njegoš, che ga sposà el principe de Napoli, quel che saria diventà re d’Italia. Cussì la Elena/Jelena xe diventada “Regina d’Italia, d’Albania e Imperatrice d’Etiopia”. Ma prima de ver duti sti titoli, quando ancora la jera solo Principessa de Napoli, la xe stada incontrada dal re del Siam (1897), che alora jera Rama V. Go tradoto in italian le letere che Rama V ga scrito

a la moglie principale, durante el suo viagio in Europa e al parla anca de la nostra “Jelena” in un modo no tanto lusinghiero, ma comunque simpatico, e per forsa me son dovesto ricordar de lui durante la salida a Cetinje. La lettera xe datada 7 Giugno 1897 e la parti da Roma. Prima parla de la Duchessa d’Aosta e disi che nol veva mai visto “una donna bella come lei. La Principessa di Napoli (la nostra Jelena), invece, appare molto più bella nella fotografia che dal vero. È nota solo per i begli occhi e le sopracciglia. Guardando più in basso, sembra un uomo, con le braccia magre, muscolose e pelose.”Ghe xe su de ela anche ipotesi molto poco piacevoli, quando la ga spinto Benito Mussolini a crear el stato fascista del Montenegro, nel 1941. La voleva meter sul trono de Cetinje el nevodo Mihajlo, ma questo se ga rifiutà e i tedeschi lo ga subito sbatù in galera insieme a la moglie Geneviève. Vista la mala parada, la Jelena che evidentemente la veva ancora tanta influensa sui tedeschi, la xe rivada a farli vignir fora duti do de la galera tedesca. Picio stato, picia capitale, picio palasso real, ma tanta storia, tanti ricordi, tanti incrosi. Insoma una bela esperiensa anca se tropo curta. Programemo, un aprofondimento?Se qualchiudun ghe interessa, me pol contatar per posta eletronica a [email protected]

Lucio Nalesini

Souvenir montenegrini

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In luglio torna FolkestCari lettori, anche quest’estate appuntamento tradizionale con Folkest, che si ferma da noi per per

offrirci tre serate di musica etno. I concerti si svolgeranno in luglio, uno all’estivo della Comunità degli Italiani di Crevatini e due in Piazza Carpaccio a Capodistria. La manifestazione è patrocinata come sempre dalla locale Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana. Il calendario completo di Folkest è ricchissimo e si articola per tutto il mese di luglio in una lunga serie di concerti nel Friuli - Venezia Giulia, in Istria (Slovenia e Croazia) e in Austria. Nelle tre serate di Crevatini e Capodistria avremo l’occasione di ascoltare musiche sempre vive e coinvolgenti.

Cominceremo con Crevatini, dove all’estivo della locale Comunità degli Italiani ospiteremo un gruppo proveniente da Malta, i NAFRA. Dal 1999 il compositore Ruben Zahra è impegnato nella valorozzazione di strumenti tradizionali maltesi, in particolare la zampogna maltese: iz-Zaqq. Il gruppo è costituito da musicisti di formazione classica, preparati ad affrontare ed eseguire strutture musicali complesse, così, partendo da materiale tradizionale elaborata trame contemporanee di rara efficacia. La musica dei NAFRA esplora un suono che per millenni ha fatto da crocevia del Mediterraneo.Ruben Zahra - strumenti tradizionali a fiato maltesi; Nadine Galea - violino; Andrew Micallef – fisarmonica;

Godfrey Mifsud - clarinetto basso; Luke Baldacchino - batteria e percussioneIl giorno dopo, Piazza Carpaccio ospiterà uno dei grandi nomi della musica tradizionale inglese: ALLAN TAYLOR. Consumato intrattenitore, ma anche tessitore di storie nelle quali la grazia trobadorica si fonde con racconti di vita vissuta, di eroi sconosciuti e di esistenze bruciate, Allan Taylor continua a riproporsi al pubblico di tutto il mondo con la sua caratteristica voce, immediatamente riconsocibile, dolcissima e scura, e il suo stile chitarristico intricato e dettagliato. Nel 1978 il suo album The Traveller vinse il Grand Prix du Disque de Montreaux come miglior disco europeo dell’anno,

mentre nel 2001 Colour to the Moon ebbe unanimi consensi per la grande maturità compositiva, a testimonianza dell’altissima qualità che ha caratterizzato e continua a segnare l’intera carriera di questo grande artista. Leaving at Dawn, uscita nell’aprile del 2009, ci presenta un ritorno a un modo compositivo e di suonare la chitarra molto vicino allo stile folk sviluppato da Allan Taylor negli anni Sessanta e Settanta e per i quali è un maestro riconosciuto. L’artista si esibirà con un trio di eccezionaliu musicisti britannici, la TOM McCONVILLE BAND. All’inizio di ogni suo concerto Allan fa un semplice invito: Sit back and enjoy the journey. Cosi sarà anche in Piazza Carpaccio: andateci, sedetevi e godetevi il viaggio. Allan Taylor – chitarra e voce; Tom McConville – violino; David Newey – chitarra; Joss Elliott - contrabbassoLa terza e ultima serata di Folkest a Capodistria sarà all’insegna di “tutti in piedi” per seguire i ritmi scatenati degli albanesi FANFARA TIRANA. E’ un’esaltante novità nella compagine delle fanfare balcaniche, dalle quali si distingue per il linguaggio musicale ben articolato su un percorso melodico trascinante e incalzante. La melodia, affidata a sax alto, clarinetto, tromba e sax tenore, esprime i tipici chiaroscuri di pura improvvisazione chiamati kaba, gazel, e taksim. Canto tipico del sud dell’Albania il primo, dell’area di Tirana e zone limitrofe gli altri due: carichi di vitalità, d’impossibili tempi dispari, mescolati a frenetici brani del nord del Paese e del Kosovo. Ogni canto rappresenta

Fanfara Tirana (Albania)

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una sorta di connubio e di transito: vita – morte, piacere – dolore. Un repertorio nel quale i temi tradizionali delle feste nuziali si sovrappongono alle ammalianti atmosfere balcaniche e orientali.Hysni (Niko) Zela – canto; Fatbardh Capi - sax/clarinetto; Gezim Haxhiaj

-sax/clarinetto; Xhemal Muraj - tromba; Gazmor Halilaj - tromba; Agim Sako - sax tenore/clarinetto; Roland Shaqja - sax baritono; Mark Luca - flic baritono; Pellumb Xhepi - flic baritono; Artan Mucollari - flic baritono; Luan Ruci - basso tuba; Kujtim Hoxha - batteria; Mario

Grassi - darbouka.Programma FOLKEST 2009 a Capodistria Organizzatore: AIAS CapodistriaPatrocinatore: Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana di Capodistria

Nafra (Malta)

Allan Taylor (Gran Bretagna)

Domenica, 12 luglio 2009Crevatini – Estivo della Comunità degli Italiani

di CrevatiniOre 21,30

Concerto: NAFRA (Malta)Ingresso libero

Lunedì, 13 luglio 2009Capodistria – Piazza Carpaccio

Ore 21,30Concerto: ALLAN TAYLOR

& TOM McCONVILLE TRIO (Gran Bretagna)

Ingresso libero

Martedì, 14 luglio2009Capodistria – Piazza Carpaccio

Ore 21,30 Concerto: FANFARA TIRANA (Albania)

Ingresso libero

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Repertorio italiano di corrispondenzaalle voci dialettali capodistriane

Tratto dall’appendice al Dizionario storico fraseologicoetimologico del dialetto di Capodistria di Giulio Manzini

M

Macchia – macia; (veg.) graiaMacchina fotografica – aparatoMacchiolina – màcolaMacellaio – bechèrMacellare – copàr, massàrMacelleria – becarìaMacello – masselMacigno – scòio, grotaMacina – molaMacinare – masenarMadia – albol: credensaMadonna – Madona, MamabelaMadre – mareMadrina – santolaMaestra (mar.) – maìstraMaestrale – maìstroMaestro – mestro, (artig.) mistroMaggio – maioMaggiolino – torciònMaggiore – major, più grandoMagia – strigarìaMagnifico – ‘saibelMagro – magro, sutìlMaiale – porco, porsèlMais – formentonMalaticcio – maladisso, deboloMalattia – malMalfattore – ludroMalignità – cativeriaMaligno – cativoMalinconico – passionà, saturnoMalmenare – scagnàrMalora – malora; (alla m.) a remengoMalumore – poca voia, lunaMalvolere – pica, in picaMammella – teta, nenaManaccia – sàtaMancia – bonamanManciata – manela, granpa, brancaMancino – sanchìnMandorla – màndola

Mandorlo – mandolèrMangereccio – bon, bon per magnarMangiucchiare – becolàr, slichignàrMannaia – manèraManovella – manìssaMansueto – giopo, bonatoMarea – (alta) colma, (bassa) secaMaretta – mareta, gaiolaMargine – orlo, oroMarinaio – marinèrMarinare – (il pesce) far in savòrMarna (roccia) – tassèlMartedì - màrtiMarza (agr.) – incalmelaMassaia – massera, dona de casaMasseria – cortivoMaterassaio – stramasserMatita – àpisMatrimonio – sposalissioMattacchione – mattarànMattonella – tavèlaMaturare – madurìrMazza – bastòn, massòca, massòcolaMediatore – sensàlMedico – medegoMeditare – pensarMela – pomoMelagrana – pomo ingranàMela lazzeruola – pomo sariòlMelma – plòcio, (fondo marino) velmaMelone – melon, baciro, sàtaMensola – scansìaMentire – flociàr, dar d’intenderMentitore – busiàro, falsoMento – barbùsMentre – intanto che, come cheMercato – mercà, marcàMerce – robaMercoledì – mèrcore, mercoMerenda – merenda, rebechinMeretrice – slòndraMeridione – ostroMerluzzo – bacalàMescolanza – missiansaMescolare – missiar

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Mestiere – arte, mistierMeticoloso – pipignosoMettere – meter, logar, ficarMettere a soqquadro – desbaretàrMezzadro – colonoMezzanino – mesàMiagolare – sgnaolàrMietere – siegar, siesolarMigliaio – mièr, miàrMille – mila (plur. mile)Millepiedi - zentogambeMimosa (veg.) – gasìaMinestra – manestra; (povera) bobaMiope – cisboMiscuglio – missioto, missmasMitilo – pedocioMoglie – mojèrMolestare – secar, tavanarMolla – sustaMollare – molar, lascar, desligarMolle (agg.) – molo, molisìn, tenero, fiapoMollica – molènaMolo – mol, banchina, porporelaMolti – tantiduniMolto – tanto, (a)saiMonaca – monega

Monaco – frateMonco – sònfoMontato – montà, caregàMontone – moltonMorale (agg.) – onestoMorbillo – sturagoMordere – morsegarMormorare – barbotar, brontolarMormorazione – ciacolaMormorio – sunsùroMorso – morsegon, rosegonMoscio – fiàpo, moloMossa – motoMozzare – zoncàrMozzicone – cicaMozzo – mosso, maliMucchio – mucio, grumo, tàsaMuggine (pesce) – bòsegaMugnaio - mulinerMungere – smolzer, monzerMunicipio – (la) comunMuricciolo – mureta, revelìnMurice (mollusco) – garùsaMuro a mare – banchina, galtaMustacchio – mostacioMutamento – ganbiamento

»Capodistria per sempre…« è il titolo della ricerca storica svolta e presentata in Comunità dagli alunni

della SEI “Pier Paolo Vergerio il Vecchio”.

Il coro “Porporella” costituito all’inizio dell’anno in seno alla CI, diretto da Emil Zonta. Obiettivo: recupero

delle canzoni tradizionali di Capodistria.

Lo scorso 25 marzo si è tenuto a Umago il Torneo di calcetto per le scuole elementari della CNI. Dodici le squadre in lizza. Ha vinto Capodistria battendo in finale i fiumani della “Belvedere”. Nella foto,

ripresa dal mensile “Arcobaleno”, la nostra squadra (Jan, Patrik, Bernard, Daniele, Martin e Nicola) con gli insegnanti Roberto Ponis e Giancarlo Galasso.

Indovina il risultato della finale, mandaci la risposta tramite lettera e VINCI UN LIBRO!Il quizIl quiz 2:1a 3:0b 4:3c

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In Memoriam

Lidia Kozlovich. Personaggio simbolo di quella che viene definita cultura di frontiera, per la coesistenza in lei di due anime, di due culture, oltre che per la perfetta conoscenza delle lingue italiana e slovena, è stata interprete per i programmi radiofonici di prosa della Rai di oltre 150 ruoli del repertorio teatrale, narrativo, poetico e storico. Ampia e qualificata anche la collaborazione sostenuta con i programmi di Radio Capodistria nell’arco della sua carriera. Dopo essersi diplomata all’Accademia d’arte drammatica di Lubiana nel 1965, inizia a Trieste un’intensa attività teatrale radiofonica, sia in lingua italiana che in lingua slovena. Scritturata da subito dal Teatro stabile sloveno di Trieste instaura un rapporto di collaborazione che è proseguito in tutti questi anni portandola ad interpretare oltre 60 personaggi del teatro classico e contemporaneo. Ha lavorato anche con il Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia e la Contrada di Trieste. Tra il 1989 e il ‘90 lavora con il teatro Eliseo di Roma e con lo Stabile di Torino accanto a Luca Ronconi e Umberto Orsini. Ha partecipato più volte al Mittelfest di Cividale e al Festival dell’Operetta di Trieste; degna di nota anche la sua collaborazione con il Cinema: una ventina i film d’autore in cui ha avuto una parte, accanto ad attori del calibro di Ben Kingsley, Tony Musante, Klaus Maria Brandauer, Omero Antonutti. Da alcuni anni si dedicava all’insegnamento, collaborando con l’Accademia teatrale »Nico Pepe« di Udine e con l’Accademia teatrale Città di Trieste. Oltre che per i svariati ruoli sostenuti nel corso di 40 anni carriera, Lidia Kozlovich verrà ricordata con affetto dai suoi ammiratori per i recenti ruoli sostenuti in »Sariandole« di Roberto Curci con la Compagnia della Contrada e per la regia di Francesco Macedonio in »La rigenerazione«, produzione dello Stabile regionale con la regia di Antonio Calenda nel monologo »Nora« scritto da Renzo Crivelli e diretto da Marko Sosič. Sono solo alcune, le ultime interpretazioni memorabili di un’attrice dalla straordinaria personalità e bravura.

Il noto artista Fedele Zvest Apollonio è mancato il 25 marzo. Nato a Bertocchi si era diplomato nel 1960 all’Accademia di belle arti di Lubiana, dove quattro anni dopo ottenne la specializzazione nella classe del prof. Stupica. Dal 1973 al 1989 era stato a sua volta insegnante e responsabile del dipartimento di grafica della stessa scuola. Nel corso della sua carriera, Apollonio, ha allestito oltre 300 mostre tra personali e collettive, esprimendosi con varie tecniche, dalla pittura alla scultura, cimentandosi anche come designer. Traeva ispirazioni dai suoi frequenti viaggi che lo portavano spesso in Italia, Francia, Spagna e Olanda. Ma nelle sue opere avevano un posto d’onore i motivi e le tradizioni istriane. Era sempre presente alle pricipali manifestazioni culturali nel Capodistriano ed era

anche in prima fila anche nelle iniziative umanitarie. Non era raro incontrarlo per le vie di Capodistria. La foto di Gianni Katonar lo ritrae nel luglio del 2007, in Via Fronte di liberazione, ad una mostra improvvisata all’aperto per il ventennale dell’Associazione degli artisti »Insula«.

La Comunità degli italiani »Santorio Santorio« di Capodistria esprime il più profondo cordoglio per la scomparsa del concittadino Nazario Norbedo di Giusterna e si associa al dolore dei famigliari. Le esequie si sono svolte il 28 gennaio al cimitero di San Canziano.

Un tragico incidente in montagna, a fine febbraio, è costato la vita a Gregor Abram, 34.enne di Premanzano. Membro attivo della Comunità degli italiani di Crevatini, Abram è stato anche rappresentante della minoranza e vicepresidente della Comunità locale di Crevatini-Ancarano. Lo ricordiamo con grande affetto.

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La maestra Giuliana Verardonel ricordo delle colleghe di lavoro

Lo scorso dicembre è mancata la signora Giuliana Verardo; una vita passata tra i banchi della Scuola elementare italiana di Capodistria. Abbiamo chiesto a due ex insegnanti, come la ricordano.

Ecco cosa ci ha raccontato Lidia Colarich: »Io sono arrivata nel febbraio del 1959 per il secondo semestre e la signora Verardo, la signora Mandič, Olivieri, la signora Bevk ecc. Erano già tutti a scuola. Noi allora giovani insegnanti eravamo venute a febbraio e

settembre. Dovevano prendere il posto di quelle insegnanti che non erano di nazionalità italiana e che la legge slovena di quel periodo non permetteva più che insegnassero nella scuola italiana. La Mandič e la Verardo erano i pilastri della scuola italiana di Capodistria di allora.Cosa ricorda della signora Verardo?La signora Verardo sempre piccola, elegante, corretta, sincera, discreta, riservata, sempre a dire una parola gentile, se avevi bisogno ti dava un suggerimento disinteressato. Si distingueva per la sua grande signorilità, era una vera signora. E poi: sempre presente. Se io ricordo bene, la signora Verardo non è stata mai assente per malattia ne per qualsiasi altro bisogno. Ha sempre insegnato alla Seconda classe?No, una volta si portava avanti i ragazzi dalla Prima alla Quinta. Poi è cambiata la legge e allora il nostro preside ha assegnato alla signora Verardo la Seconda. Lei ha trovato negli alunni e nei loro genitori tutta la stima che merita un’insegnante così gentile così retta, presente. Ed infatti lei è ricordata affettuosamente da molti di questi alunni come »la mia maestra della Seconda«. Parecchie alunne le venivano a far visita a casa, per le feste e anche nella casa di riposo di Isola. È stata veramente un’insegnante modello.Qualche aneddoto?Lei ci ha lasciato in silenzio nel mese di dicembre. E questo mese di dicembre per lei era importante. Non siamo riusciti a farle ne’ gli auguri di Buon Natale ne’ di Buon compleanno perchè lei è nata proprio il 25 di dicembre. Fatto sta che nel periodo della Jugoslavia, quando noi per il giorno di Natale si lavorava, la signora Verardo ci portava sempre il panettone e lo spumante. Noi quella volta avevamo l’aula magna insieme con la scuola economica slovena…e arrivava la signora Verardo col suo panettone e noi durante il grande riposo, la ricreazione lunga, si festeggiava. I colleghi sloveni ci guardavano, loro pensavano che noi stessimo festeggiando il Natale, invece festeggiavamo il compleanno della signora Verardo. E dopo si tornava in classe la quarta ora a continuare il nostro lavoro. Un personaggio, la signora Verardo, di cui resta a tutti noi un bel ricordo.

In bella memoria di tutti noi. Tutti noi, penso, le auguriamo un riposo sereno in questa terra che l’ha stimata come insegnante e come donna. Non è stata la sua terra, ma penso che sicuramente con gli anni lo sia diventata.

Ecco invece come viene ricordata la maestra Verardo da Isabella Flego: »Era una persona che ha fatto capire a molti di noi l’importanza della parole, ma anche l’importanza del silenzio. In occasioni di attrito, in seguito a qualche riunione, non ha mai alzato la voce. Con una pacca sulla spalla ti faceva capire che aveva capito tutto e che non c’era bisogno di alterarsi. E poi, le dirò, la sua influenza come insegnante parlante sempre una bella lingua italiana. Ha dato a tutte noi maestre un input a usare a scuola la lingua e meno il dialetto; non che a lei il dialetto non interessasse – anzi, lo apprezzava – ma a scuola era importante parlare correttamente visto che fuori l’italiano si andava perdendo. Stiamo parlando della fine degli anni ‘50 quando Capodistria si svuotava e quindi sentivamo parlare l’italiano soprattutto a scuola. E lei che era vissuta a Capodistria già da qualche anno prima, forse sentiva questo peso«. Che rapporto aveva con gli alunni?»Lei ha saputo inculcare nei ragazzi l’entusiasmo non solo per lo studio, ma per la vita; anche quando le difficoltà le avrebbero potuto impedire questo senso. Ha sempre affrontato i bambini col sorriso. Ha cominciato a lavorare quando le difficolta nelle nostre istituzioni erano enormi. Non avevamo riscaldamento, non avevamo materiale didattico, mancavano libri…e immaginate la signora Verardo proveniente da Asti che all’inizio non conosceva la lingua slovena, ha dovuto superare delle enormi difficoltà«.

Ci sembra doveroso ricordare anche la figura di Giorgina Pulić che ci ha lasciati nei mesi scorsi. Abitava in uno dei blocchi sulla salita del Belvedere. Personaggio legato alle nostre scuole, la signora Giorgina fu per molti anni segretaria del Ginnasio italiano di Capodistria e, dagli anni ’70 fino alla pensione, ne è stata la bibliotecaria. Le piacevano i libri e l’ordine. Spesso soleva dire: “Conosso ogni canton dela scola, e ogni canton ghe voio ben”.

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Pamela Vincoletto si è laureata il 2 marzo 2009 con una tesi di laurea in letteratura francese presso la Facoltà

di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in lingue e culture straniere moderne all’Università degli studi di Trieste. Titolo della tesi: L’ironia nell’opera di Fouad Laroui.

Voto: 110 e lode.

L'ex europarlamentare triestino Giorgio Rossetti intervistato in piazza dal giornalista di radio

Capodistria, Miro Dellore, a margine dell'ultima edizione del Forum Tomizza.

Si sono svolte nella nostra Comunità le premiazioni del Settimo concorso letterario Mailing List Histria. Nella foto Gianclaudio de Angelini assegna il riconoscimento

alla rovignese Sara Gržinić.

Una bella domenica di maggio allo stadio comunale di Pirano. Foto di gruppo prima dell’ormai tradizionale

incontro di calcio tra le squadre dei giornalisti del Capodistriano e quelli del Veneto.

Un momento della gita dei soci della CI nell'Istria centrale preceduta dalla presentazione di Dean Krmac.

La sosta al convento paolino di S. Pietro in Selve.

Emilia e Giovanni Pellizer, sposi da cinquant'anni.