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André Holley - Il Cervello Goloso (2009)

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André Holley - Il Cervello Goloso (2009)

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André Holley

Il cervello goloso

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Bollati Boringhieri

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Prima edizione settembre 2009

© 2009 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86

ISBN 978-88-339-20r8-4

Titolo originale Le ceroeau gourmand Les Éditions Odile Jacob, Paris

© 2006 Les Éditions Odile Jacob

Traduzione di Aglae Pizzone

Schema grafico della copertina di Pietro Palladino e Giulio Palmieri

In copertina, Norman Hollands, Redcurrants and leaves, 1996

© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari

www.bollatiboringhieri.it

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Indice

Il cervello goloso

rr r. Introduzione: a cosa serve il gusto? La minaccia, II Come se fosse un menu, I2 Un'idea sconcer­tante, I 3

IB 2. I cibi e i loro aromi Le scienze del gusto, 18 Il gusto, cos'è?, 19 Alla ricerca degli aro­mi: il connubio tra naso e cromatografo, 2 2 Complessità chimica e ricchezza sensoriale, 2 5 S-prigionare gli aromi in trappola, 2 7 Non sottovalutare la confezione, 29 Dare sapore a ciò che non ne ha, 30 Introspezione sensoriale a scopi industriali, 3 2

37 3. La nascita degli aromi Avangusto, 37 Punti di vista sugli aromi, 38 Complessità mole­colare e complessità sensoriale, 42 È possibile classificare gli odo­ri?, 44 Particolari da chiarire, 46 Un numero impressionante di recettori olfattivi, 48 La costruzione dell' «immagine olfattiva», 52 Un'interpretazione, 54

57 4. L'eredità olfattiva dell'uomo I geni olfattivi nell'uomo: geni e pseudogeni, 58 Vedere meglio i colori ma avere meno fiuto?, 60 Non tutti hanno lo stesso naso, 63

65 5. La percezione dei sapori Ultime verifiche prima di entrare, 65 Come si esprime il sapore, 66 Continuità e discontinuità nell'universo dei sapori, 67 Papil­le, gemme e cellule, 68 Tratte riservate o codici combinatori, 71 I recettori dei sapori, 75 Una prima conclusione, 83

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6 INDICE

85 6. Una sensibilità meno nota Mobilitazione generale dei sensi, 85 Il nervo a tre rami, 86 Solletico o prurito?, 88 Come il mentolo si traveste da cubetto di ghiaccio e la capsaicina da tizzone ardente, 90 Un nervo dav­vero diverso dagli altri, 91 Un'influenza reciproca: quando i denti rendono i sapori più intensi, 93 Piaceri inattesi, 95

97 7. All'origine del piacere di mangiare Un'esperienza consueta e misteriosa, 97 Un impulso all'azione, 98 Guazzabuglio di questioni preliminari, 99 L'incontro di piacere e bisogno, 102 Ricompensa e rinforzo, 104 Animali che consumano elettricità, 106 E di nuovo l'impulso all'azione, 108 Le droghe: da piacere a pericolosa abitudine, 109

III 8. Fame e sazietà Il balletto delle calorie, 1 11 La voce di fame e sazietà, 114 Molecole che indicano l'adiposità, 116 I segnali della sazietà, 120 L'ipotalamo, 122 Un po' di storia, 124 La spiegazione molecolare, 125 Regolazioni a lungo e a breve termine, 126

r29 9. Le mappe cerebrali degli odori, dei sapori e del piacere che si trae dal mangiare Vedere nel cervello, 129 Il cervello che percepisce gli odori, 131 Il cervello che assaggia, 13 7 Sinergia tra gusto e olfatto, 140 Le mappe di fame e sazietà, 141 Se si mangia della cioccolata, 142 Gusto e disgusto, 145

r48 10. Gradire, desiderare, scegliere Il ruolo fondamentale delle memorie, 149 Cacciare l'omuncolo, 152 Cosa ci dicono le stimolazioni artificiali, 155 L'intrigante ruolo della dopamina, 157 Nozioni molto meno chiare di quan­to si pretenda, 160

I64 r 1. Preferenze e avversioni alimentari Premessa: la scelta, 164 La difficoltà di essere onnivori, 165 La squisita sinergia tra zuccheri e grassi, 166 Tendenze genera­li e scelte individuali, 168 Tra l'innato e l'acquisito: il coni­glietto e il feromone mammario, 169 Bisogna risalire a prima della nascita ... , 170 Come si configura la sensibilità del bambi­no e come cambiano le sue preferenze alimentari, 173 Quando i deficit orientano le preferenze alimentari, 176 Apprendimen­ti appetitivi, 177 Come evitare l'avvelenamento, 181

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INDICE

r85 12. Cos'è che non funziona? Dove sta il problema?, 185 Come si nutrono i nostri cugini?, 187 E si parla di nuovo di geni, 191 La transizione nutrizionale, 194 Troppi zuccheri o troppi grassi nel nostro menu?, 195 L'obesità dei poveri o le difficoltà economiche di nutrirsi correttamente, 198

20r Glossario

209 Ringraziamenti

2rr Bibuografia

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Il ceroello goloso

A Bénédicte

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I.

Introduzione: a cosa serve il gusto?

La minaccia

In questo libro paleremo di cibi, di sapori, di fame e sazietà, e an­che di piacere. In un certo senso, quindi, parleremo delle nostre espe­rienze più comuni. Cosa c'è di più comune dell'assaporare il gusto di una pietanza, quando si ha fame, e di trarne piacere? Cosa c'è di più naturale del rifiutarsi di mangiare quando non si ha fame o quan­do il cibo non è buono? Si tratta di esperienze quotidiane, fonti di piccole soddisfazioni o di piccole delusioni. Si tratta anche di mo­menti più preziosi, di pranzi della domenica preparati con cura, im­banditi, vissuti con entusiasmo, e poi ripetutamente commentati.

Ma ecco un'ombra stendersi minacciosa su questa tranquilla sem­plicità. Niente ormai può essere semplice in un mondo in continua trasformazione. Il gusto, ci dicono, si rovina e, certo, la qualità stes­sa del piacere diventa più debole. La meravigliosa varietà di sapori non si riduce forse drasticamente, schiacciata dalla standardizza­zione dei prodotti, dalla coltura intensiva, dall'allevamento in bat­teria e dalla deleteria sostituzione della cucina tradizionale con le preparazioni industriali? Per non parlare delle normative di Bruxel­les, che scovano tracce di sostanze sospette nei gustosi prodotti del territorio. E i nostri figli non finiranno per rovinarsi le papille gusta­tive, cedendo ben presto al fascino di falsi valori culinari, amman­tati di colori improbabili nei santuari della grande abbuffata?

E cosa ancora più grave, il piacere stesso, quel piacere che vor­remmo innocente, non risulterà alla fine colpevole? Cibi troppo ric­chi, troppo appetitosi, concepiti da industrie attente più al proprio

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12 CAPITOLO PRIMO

giro d'affari che alla salute dei consumatori, violentano la saggezza del corpo, sedotto dall'unione di zuccheri e grassi, e incrementano la massa adiposa di un numero sempre maggiore di consumatori. Il sovrappeso, un tempo segno di opulenza, indice del benessere eco­nomico che consentiva l'accesso alla buona tavola, oggi non è forse una malattia delle classi povere nelle società industrializzate?

Mangiare bene e trarne un legittimo piacere non è quindi cosl semplice come ci piacerebbe pensare. E di questo parleremo. Tut­tavia, il nostro punto di vista non sarà normativo. Non intendiamo dettare i comandamenti della salute alimentare. Cercheremo piut­tosto di capire cosa sta succedendo e per raggiungere lo scopo non seguiremo la via più breve, né la più comoda. Abbiamo un copio­ne e un'idea da seguire. Il copione metterà in relazione tra loro, basandosi sui dati della biologia, nozioni come sapore, aroma, sti­molo, fame, sazietà, piacere. L'idea, invece, si presenterà come un interrogativo sul senso da attribuire alle defaillance che oggi la regolazione biologica del consumo alimentare sembra conoscere.

Come se fosse un menu

Nella sua struttura generale il copione è semplice, anche se la sua esposizione può portarci a sviluppi più complessi. Il nostro corpo ha bisogno di consumare sostanze nutritive e di assimilarle. A questo scopo dispone di un tubo digerente, di un cervello, di organi di sen­so e di un sistema motorio. Il cervello ha in mano il gioco. Conosce lo stato dei bisogni comunicati dal corpo in generale e dal tubo dige­rente in particolare. Il bisogno si esprime tramite lo stimolo della fame che indirizza il sistema motorio alla ricerca e all'ingestione di alimenti, valutati al loro passaggio dagli organi di senso. Quando gli alimenti sono conformi alle attese, i sensi parlano il linguaggio del piacere e l'ingestione segue il suo corso. Quando gli alimenti non piacciono o non piacciono più perché il tubo digerente invia segnali di sazietà, lingestione si ferma, fino alla volta successiva. Più tardi, il processo ricomincia con un nuovo pasto. E cosl via. Il consumo deve equilibrare il bisogno in qualità e quantità. In gene­rale, quando non ci sono problemi, lequilibrio viene raggiunto sul­le ventiquattro ore o in pochi giorni, con grande precisione.

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INTRODUZIONE: A COSA SERVE IL GUSTO? 13

È ovvio che si tratta di uno schema semplificato, tanto da sfio­rare la caricatura, ma ci sforzeremo di renderlo più sostanzioso. Tuttavia bisogna ancora sottolineare, nonostante i propositi di bre­vità a cui ci ispiriamo per il momento, che in questo adeguamento del consumo al bisogno, in questa ricerca di equilibrio energetico, come dicono gli specialisti, il gusto e il piacere non sono attori com­primari, a parte facoltativi o «ciliegine sulla torta». Essi orientano la scelta delle pietanze, stimolano o inibiscono l'uso della forchet­ta, e sono quindi parte integrante di quella funzione biologica fon­damentale che è la nutrizione.

Di fatto il piacere, con le sue oscillazioni verso lalto o verso il basso, è lo stratagemma inventato dall'evoluzione per indurre gli esseri umani - e senz'altro anche i più evoluti tra gli animali - a compiere le azioni adatte alla propria sopravvivenza, senza rin­chiuderli nelle costrizioni draconiane del rigido automatismo che regola la vita delle specie inferiori. Il piacere è più vicino a un invi­to gradevole che non a un ordine incontestabile. Il dispiacere non equivale a un divieto, quanto piuttosto al consiglio di astenersi. Al liinite, si può passare oltre. Deprimersi davanti al piacere o igno­rare il dispiacere richiede uno sforzo, anzi, per alcuni di noi, un grosso sforzo, e bisogna avere buoni motivi per farlo.

Un'idea sconcertante

Ma veniamo all'idea che intendiamo sviluppare. Dunque, i mec­canismi biologici che coordinano funzioni cosl diverse come la scel­ta del nutrimento, le azioni consapevoli di afferrarlo e ingerirlo, lassimilazione delle sue componenti e la loro trasformazione in energia o in materia viva sono tutti meccanisini senza dubbio estre­mamente complessi. Richiedono che il corpo tenga conto di nume­rosi vincoli e quindi risultano efficaci solo in quanto elaborati nel corso di un lunghissimo processo di adattamento dell'organismo ali' ambiente e alle sue condizioni di vita. Questo processo non è coininciato con gli ominidi, ma milioni di anni prima. Anche i pesci possiedono alcuni geni che, nella nostra specie, presiedono alla pro­duzione di recettori olfattivi e consentono cosl la percezione degli odori. La maggior parte dei circuiti cerebrnli che comandano la

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14 CAPITOLO PRIMO

fame e il piacere si sono formati prima della comparsa dei primati. Ci furono poi lenti adattamenti che hanno trasformato colui che mangia in ciò che è oggi.

Nel giro di qualche decennio però - pochissimo sulla scala evo­lutiva - l'esplosione tecnologica, con le sue conseguenze economi­che e culturali, ha completamente stravolto il paesaggio alimenta­re, mentre il consumatore rimane, biologicamente parlando, lo stesso di centinaia di migliaia di anni fa. Il cibo che da tempi imme­morabili era raro, difficile da conquistare per la maggior parte degli esseri umani, disponibile in maniera episodica, è diventato abbon­dante, facilmente accessibile e sempre disponibile. Se prima la scel­ta alimentare era di necessità passabilmente monotona, ora è diventata sempre più diversificata, mentre l'apporto calorico dei prodotti non smette di crescere. E dato che il motore di quest'ab­bondanza è il profitto, e che per vendere bisogna produrre, ven­gono profuse ingenti energie per soddisfare le attese edoniche del consumatore. Mangiamo troppo, cibi troppo ricchi, non facciamo abbastanza sforzi per ottenerli e soffriamo di malattie da sovrab­bondanza, di malattie cardiovascolari.

L'ambito della regolazione alimentare non è certo il solo in cui gli esseri umani si trovano impreparati davanti alle rapide trasfor­mazioni della società. Qui tuttavia entra in gioco qualcosa di abba­stanza specifico, ossia l'adattamento biologico. Ora, molto verosi­milmente, l'adattamento biologico non ci aiuterà. Non invertirà la sua tendenza - che è stata al contrario quella di gestire le carenze -per proteggere dall'abbondanza una parte dell'umanità che potrem­mo chiamare privilegiata, se non soffrisse proprio a causa di quel­!' abbondanza. I nostri geni non subiranno mutazioni, comunque non alla velocità che ci servirebbe, e in ogni caso non siamo pronti a pagare il prezzo esorbitante richiesto da una selezione dei più adatti a questo nuovo contesto.

Gran parte dei mezzi di cui lorganismo dispone per controllare l'alimentazione passa attraverso l'uso dei sensi chiamati chimici, l'o­dorato e il gusto, dotati per apprendimento della sorprendente capacità di generare piacere, dispiacere o disgusto. Questi sensi, e in paNicolare l'odorato, saranno ricordati come esempio di adatta­mento problematico di una funzione biologica alle condizioni in cui deve esplicarsi.

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INTRODUZIONE: A COSA SERVE IL GUSTO? 15

Diversamente dal senso del gusto, destinato esclusivamente alla conoscenza degli alimenti, quello dell'olfatto, altra componente del gusto, ha un vasto campo di applicazione. In molte specie viene impiegato con successo sia nell'esplorazione dell'ambiente dal pun­to di vista chimico sia nella ricerca di indicazioni sullo status socia­le, la condizione fisiologica o la disponibilità amorosa di eventuali partner sessuali. Secondo la formula canonica, interviene in mol­teplici comportamenti orientati tanto alla sopravvivenza dell'indi­viduo quanto alla conservazione della specie. 1

Come si usa dire e non a torto, negli esseri umani centinaia di funzioni dell'odorato hanno perso parte dell'importanza che han­no invece presso numerose altre specie animali. Abbiamo abban­donato, ci viene inoltre detto, l'uso dei due terzi dei recettori olfat­tivi ricevuti in eredità in quanto mammiferi. I nostri cromosomi ospitano moltissimi geni, un tempo capaci di costruire minuscole macchine molecolari in grado di individuare gli odori ma che oggi non sanno più farlo. Sono degli pseudogeni. Hanno subito una mu­tazione, ma sono rimasti al loro posto. L'evoluzione ha trascurato di farli scomparire, senza dubbio perché, pur non servendo più, non davano comunque fastidio.

In effetti esistono ambiti comportamentali in cui l'odorato non è più quello di una volta. Siamo ancora in grado di individuare le ema­nazioni di una raffineria o di un campo concimato, tanto da esserne infastiditi, ma se invece cerchiamo di rintracciare con l'olfatto il sen­tiero dell'uomo che ha attraversato la prateria un'ora fa, allora è tut­ta un'altra storia. Nonostante gli sforzi meritori dei ricercatori per provare il contrario, è poco probabile che gli esseri umani eguaglino in acume olfattivo i canidi, i roditori e altri campioni dell'odorato, chiamati macrosmatici per via del loro apparato olfattivo molto svi­luppato. Se ne può discutere, ma non è questa la sede; se c'è infat­ti un uso dell'olfatto che nell'uomo ha conservato intatte tutta la sua forza e la sua efficacia, è proprio quello connesso, insieme al gusto, alla valutazione dei cibi. C'è da pensare che, al momento di costituire il sovrabbondante stock iniziale dei geni olfattivi, la natura abbia visto lungo, se, anche dopo una riduzione cosl drasti­ca, con cibi e bevande le prestazioni rimangono sorprendenti.

1 Per una presentazione dell'odorato, vedi soprattutto Holley 1999.

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CAPITOLO PRIMO

L'uomo moderno non si aspetta certo che il proprio olfatto lo conduca verso fonti di cibo. Forse era cosl per il cacciatore-racco­glitore di Cro-Magnon e, a maggior ragione, per quell'Homo abilis ancora più remoto che non disdegnava di contendere ai necrofili le carcasse maleodoranti dei grandi mammiferi. La vera novità è che il consumatore di questo millennio non dipende in maggior misura, o non dipende più, salvo eccezioni, dal proprio naso e dal­le proprie papille gustative per sapere se una sostanza è commesti­bile o meno, o per assicurarsi che non sia tossica. Sono informa­zioni preziose, vitali, che però ormai si possono ottenere in altro modo. In generale, sta scritto sulla confezione e, da qualche tem­po in qua, in maniera dettagliata. La società ha creato sistemi infor­mativi che, alleandosi con la vista, hanno sostituito gli indizi olfat­tivi e gustativi, per milioni di anni in grado di orientare gli individui verso il cibo, garantendone il valore nutritivo.

Eppure, né il gusto né l'olfatto sono usciti dai giochi. Non han­no rinunciato a far sentire la loro voce. Sono presenti. Stanno di guardia all'anticamera del tubo digerente e nei suoi dintorni. Sono operativi, continuano a segnalare tutto ciò che è delizioso, solo buono, accettabile o decisamente cattivo, continuano a sollecitare l'ingestione o a suggerire l'astensione o il rifiuto, in aperto contra­sto con le nozioni dei nutrizionisti e i principi della dietetica. Ma soprattutto, il loro non è solo un parere consultivo. Come hanno sempre fatto, continuano ad accompagnare le loro diagnosi solle­citando con insistenza il consumo, o, al contrario, ponendo all'in­gestione un veto difficile da infrangere. Di fatto, continuano a esercitare un potere assoluto sui circuiti cerebrali che presiedono alla decisione di mangiare.

Si ha quindi un'evidente fonte di conflitti. Da un lato informa­zioni affidabili e certificate sul valore nutritivo, sulla non-tossicità e la non-contaminazione microbica, razionalmente accessibili, basta prestare un po' di attenzione; dall'altra, messaggi sensoriali ricchi ma fallibili, che forniscono a colui che mangia una conoscenza solo approssimativa di ciò che gli fa bene e di ciò che gli fa male e che non di meno esercitano su di lui un potere tirannico. Non sarebbe tutto più semplice se un essere razionale ingerisse la sua dose gior­naliera di zuccheri rapidi e di zuccheri lenti, di aminoacidi essen­ziali, di omega-3 e di omega-6, di fibre, di vitamine e di oligoele-

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INTRODUZIONE: A COSA SERVE IL GUSTO? '7

menti nelle proporzioni richieste, senza l'imbarazzo di segnali sen­soriali più fastidiosi che utili? Basta con i tentativi di ingannare i sensi con dolcificanti privi di apporto calorico, basta con pseudo­grassi privi di contenuto energetico, con le molecole che bloccano i recettori dell'amaro e con altri espedienti del genere!

Ovviamente stiamo calcando la mano. Un individuo che si nutra senza piacere e quindi senza desiderio è inconcepibile. In ogni caso, anche se non riusciamo a immaginarlo, dentro di noi sappia­mo però che, se mai si trovasse il modo per raggiungere questo tra­guardo, significherebbe ormai essersi spinti troppo oltre. Il piacere che si trae dal mangiare non è solo accessorio rispetto ai mecca­nismi dell'alimentazione, è un elemento della nostra affettività. Eppure il problema rimane. Nel nostro organismo sono inscritte disposizioni adattative che sembrano sopravissute alle condizioni in cui originariamente si dimostrarono efficaci.

Abbiamo ragione a pensarla cosl? E se sì, come può svilupparsi questo scenario? Per cercare di vederci più chiaro, nei prossimi capitoli conosceremo più da vicino gli organi di senso e i loro mes­saggi, cercheremo di capire come nasce la fame e come si arriva alla sazietà, tramite quale alchimia il gusto assume un valore affettivo e in che modo svolge il suo ruolo nella decisione volta al consumo alimentare. Dedicheremo una parte della trattazione anche ai fal­limenti di queste regolazioni così delicate. Lungo il cammino i geni mostreranno la loro onnipotenza. Sicuramente alla fine le domande che ci saremo posti e i dati che avremo raccolto saranno sufficienti per poter rispondere alla domanda, a dire il vero ambigua, «A cosa serve il gusto?»

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2.

I cibi e i loro aromi

All'origine degli aromi e dei sapori che si combinano nel «gusto» stanno numerose sostanze chimiche. Identificare queste sostanze, sco­prire come dall'alimento che le racchiude si diffondano in bocca per poi raggiungere le papille gustative e le cellule olfattive è compito del­le scienze alimentari. Quando bisogna individuare e dare un nome alle sensazioni che esse generano nel consumatore o creare preparati aro­matici in grado di dare gusto a ciò che non ne ha, la chimica e la fisica degli alimenti trovano un complemento indispensabile nelle nozioni sensoriali.

Le scienze del gusto

Il consumatore è ben lontano dall'immaginare - ed è proprio cosl - la complessità dei problemi scientifici e tecnici sollevati dal nutrimento ingerito, fonte di stimoli per i recettori attivi nel tepo­re del cavo nasale e orale. Ci soffermeremo allora su quel ramo del­la scienza alimentare che si occupa di descrivere e capire come le sostanze che compongono i cibi si trasformino in stimoli olfattivi e gustativi. È un campo di ricerca molto vivace, gonfiato dall'inte­resse degli industriali, ben consapevoli del fatto che non basta crea­re prodotti con un buon valore nutrizionale e di buona qualità per assicurarne il successo commerciale. Bisogna che piacciano e che piacciano più di altri offerti dalla concorrenza. Ma accontentarsi di consultare il consumatore per sapere cos'è di suo gradimento e cosa no non basta, vista la posta economica in gioco. Bisogna saperne

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I CIBI E I LORO AROMI 19

molto di più per cominciare a capire su cosa si basano le preferen­ze e le avversioni alimentari della massa di consumatori.

Il più delle volte gli alimenti sono costituiti da una miscela di centinaia di componenti chimici in proporzioni molto varie. In questo senso i prodotti naturali sono «chimici» tanto quanto gli altri. Nelle pagine che seguono non affronteremo - o lo faremo solo in modo marginale - le proprietà dei cibi relative alla loro funzio­ne strettamente nutritiva, campo di applicazione delle scienze nutrizionali. Anche il settore di ricerca che studia le modalità nutritive degli alimenti è molto vivace. A seconda della loro natu­ra chimica e grazie agli enzimi e ad altri elementi costitutivi del­l'apparato digerente, i componenti dell'alimento vengono trasfor­mati lungo le numerose tappe della digestione e dell'assimilazione, prima di essere impiegati dal metabolismo o immagazzinati come riserve. Noi però ci concentreremo su un altro aspetto dell'intera­zione tra alimento e organismo, quello della conoscenza innata che il cervello può avere riguardo alla natura delle sostanze che l' orga­nismo si prepara a ingerire. È questo l'oggetto di studio delle scien­ze del gusto. Ma, per l'appunto, cos'è il gusto?

Il gusto, cos'è?

Se non cerchiamo subito di fare ordine, parlando del gusto, ri­schiamo di andare incontro a continui fraintendimenti lessicali. Cos'è il «gusto»? Il termine è fortemente polisemico, come tutte le parole che riguardano la sensibilità. Accantoniamo subito il rife­rimento a forme di giudizio estetico riscontrabili in espressioni come «Ha gusto», «Ha un gusto sicuro» o «Ha buon gusto», rife­rite a una persona. Scartiamo anche il senso di «inclinazione», di «debole per» che si esprime nella locuzione «il gusto per ... » Con l'espressione «al gusto di ... », riferita a una sostanza che rientra nel­la categoria degli alimenti, ci avviciniamo all'accezione sensoriale su cui ci concentreremo.

Anche limitando il campo semantico al dominio dei cibi e delle bevande, il termine gusto comporta sempre notevoli ambiguità di cui dobbiamo liberarci. Nell'accezione più comune, non tecnica, il gusto indica la sensazione provata da chi mette in bocca un alimen-

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20 CAPITOLO SECONDO

to o una bevanda. Affermare che un alimento ha un gusto buono significa che procura sensazioni piacevoli, senza che vi sia un giu­dizio sull'origine di quelle sensazioni. Di un tale alimento si dice, in gergo più tecnico, che è palatabile. Ciò nonostante un approccio analitico al gusto porta a essere ancora più precisi e a restringere il campo. Nel senso più stretto, che verrà impiegato più sovente nel­le pagine che seguono, il gusto è una forma di sensibilità elaborata da un sistema sensoriale specifico, il sistema gustativo, il cui punto di partenza è costituito da cellule specializzate situate in bocca, all'interno delle papille gustative. Il sistema gustativo sta all'origi­ne di sapori come il dolce, il salato, l'acido e l'amaro, e di altri anco­ra che non hanno nomi per essere designati. Ne parleremo più avan­ti. Il gusto è la funzione di questo sistema sensoriale.

Bisogna ritornare a questo punto alle sensazioni che contribui­scono al gusto, inteso nella sua accezione comune. Si tratta innan­zitutto delle sensazioni olfattive che riposano sul funzionamento dell'odorato. Gli alimenti hanno un odore. Quest'odore è percepi­to in generale prima che i cibi siano introdotti in bocca. Ma, una volta ingeriti, masticati, e talvolta riscaldati, gli alimenti hanno ancora un odore, persino più forte, poiché la masticazione ha spri­gionato molte molecole volatili. Queste fuoriescono posteriormen­te dalla bocca e risalgono nella cavità nasale seguendo un percorso chiamato via retronasale in quanto opposto al percorso seguito dal-1' aria inalata con la respirazione. L'odore generato quando queste molecole che si muovono controcorrente arrivano alla mucosa olfattiva è spesso chiamato aroma. Non è raro che con la stessa parola venga designata non più la sensazione, ma le sostanze all'o­rigine dell'aroma, proprio come spesso si chiamano odori le sostan­ze odoranti in sé. Il produttore di aromi che produce un aroma alla fragola per dar sapore a uno yogurt si limita ad assemblare sostan­ze diverse; quanto all'aroma, si trova nella testa del consumatore dello yogurt.

Ma allora il gusto, nell'accezione comune, è fatto di sapori e aro­mi? In un certo senso sl, ma con un distinguo fondamentale. Esi­stono in effetti sensazioni provenienti da bocca e naso che non pos­sono essere definiti propriamente né sapori né aromi: si tratta delle sensazioni generate dall'azione degli alimenti e delle bevande sul­le terminazioni del quinto nervo cranico, il nervo trigemino. Il con-

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I CIBI E I LORO AROMI 2I

tributo di questo nervo al gusto si attesta quasi sulla gamma del dolore, poiché veicola le sensazioni acute di piccante, pungente, irritante, astringente provocate dalla senape, dall'ammoniaca, dal peperoncino e da altre sostanze decisamente intollerabili o delizio­samente irritanti.

Le tre categorie percettive - sapori, aromi e sensazioni trigemi­nali - rientrano nella cosiddetta sensibilità chimica, connessa alle proprietà molecolari degli stimoli, in opposizione a sensi che inve­ce si basano su proprietà fisiche, come il tatto e la sensibilità ter­mica. Questi raggruppamenti non sono arbitrari, infatti le diverse forme di sensibilità chimica non possono essere dissociate tramite introspezione. Un assaggiatore che volesse identificare l'origine delle proprie sensazioni chimiche non sarebbe in grado di distin­guere sapori, aromi e sensazioni provenienti dal trigemino senza ricorrere alle proprie nozioni scientifiche o a stimoli artificiali come quelli usati in laboratorio.

In senso lato, il gusto è quindi assimilabile alle percezioni veico­late dai sensi chimici. Esiste tuttavia un significato ancora più ampio. Probabilmente perché contribuiscono al piacere, vengono senz'altro ascritte al gusto di un cibo anche sensazioni come il croc­cante, il friabile o il cremoso, che riguardano non i sensi chimici, ma il tatto e la valutazione della consistenza che gli è propria. E per finire, nonostante dia luogo a sensazioni sue proprie, anche la sen­sibilità termica dà il suo contributo.

Un'ultima precisazione prima di concludere questo approfondi­mento linguistico. Il termine sentore, che potrebbe tradurre la nozione diflavour, molto usata dagli autori di lingua inglese, ha un senso abbastanza prossimo al significato comune di gusto: indica le sensazioni olfattive e gustative nel loro insieme. Per evitare I' an­glismo, quindi, talvolta questo termine si insinuerà nelle prossime pagine. Spero che i lettori vorranno perdonarci.

Ancora una parola. L'esigenza di chiarezza che ha ispirato que­sta premessa semantica mostra in maniera trasparente come l'e­sperienza che comunemente facciamo degli alimenti tramite i sen­si non sia analitica. Il consumatore che riceve le sensazioni non si preoccupa delle tre diverse sensibilità che le generano, il che non indica una scarsa raffinatezza nella percezione. Rimane semplice­mente indifferente al mezzo con cui sono trasmessi gli stimoli ner-

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22 CAPITOLO SECONDO

vosi. Va anche detto che le vie seguite da questi stimoli, se in par­tenza sono distinte, una volta arrivate al cervello finiscono spesso per incrociarsi e mescolarsi.

Alla ricerca degli aromi: il connubio tra naso e cromatogra/o

Subito viene da chiedersi a quali elementi costitutivi un buon vino, un frutto maturo o un formaggio ben stagionato devono le loro qualità sensoriali. Per saperlo bisogna effettuare l'analisi chi­mica dell'alimento. Supponiamo di interessarci agli aromi. Sarà inutile analizzare il prodotto nella sua totalità, poiché gran parte di esso non ha incidenza sull'olfatto. In un boccone di pochi grammi, i composti attivi sul piano sensoriale sono spesso meno di un milli­grammo: l'unità di misura impiegata per esprimere la concentra­zione dei composti volatili odorosi è il ppm, nell'ordine cioè di un milionesimo. Dal momento che gli aromi sono, per definizione, generati da molecole volatili, basta analizzare queste molecole e ignorare le altre. Ecco la ricetta.

Collocare il prodotto in un recipiente chiuso. Lasciare che le molecole volatili lascino il prodotto e riempiano lo spazio del reci­piente seguendo le leggi fisiche della volatilità. Dopo qualche tem­po si stabilisce un equlibrio tra le molecole sprigionate dalla sostan­za e quelle che vi ritornano. Una volta raggiunto quest'equilibrio, il volume d'aria carico di queste molecole, detto «spazio di testa» o headspace, contiene i costituenti volatili ricercati.

L'analisi propriamente detta comincia con la separazione delle molecole, effettuata tramite un cromatografo (fig. 1). Quest'appa­recchio è fondamentalmente costituito da un lungo tubicino, la co­lonna, al cui ingresso si immette un campione dello spazio di testa, trasportato da una corrente gassosa. La colonna trattiene le mole­cole più o meno a lungo, a seconda delle proprietà fisiche che ne determinano I' assorbimento da parte delle pareti del tubicino, cosl, in uscita, i costituenti volatili sono separati gli uni dagli altri e fuo­riescono, nel migliore dei casi, singolarmente, oppure a piccoli gruppi. Un rivelatore segnala il loro arrivo con un picco cromato­grafico. I picchi, più o meno alti, si succedono nel tempo. Non resta quindi che indentificare le molecole cosl separate, sulla base

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del loro tempo di permanenza nella colonna, o, con maggior preci­sione, affiancando l'uscita del cromatografo a un altro apparecchio, lo spettrometro di massa.

Dato particolarmente interessante, il principio che fa funzionare la colonna del cromatografo è operativo anche nella nostra bocca e nel naso. È infatti lo stesso fenomeno di interazione fisica, l'assor-

Tempo di ritenzione

Figurar Il cromatografo (in fase gassosa). Questo strumento di analisi separa gli elementi costi­tutivi di un composto e ne rivela la presenza in forma di picchi tracciati sul cromato­gramma. Un adattamento dello strumento permette a un osservatore di annusare i pro­dotti così separati, contemporaneamente al loro rilevamento fisico.

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CAPITOLO SECONDO

bimento, a rallentare il cammino delle molecole nella colonna e, in bocca e nel naso, a trattenere gli aromi o a frenarne gli spostamen­ti entro la struttura molecolare dell'alimento e, infine, a cooperare alla percezione di queste molecole da parte dei recettori sensoriali.

Identificare tutte le sostanze che generano un aroma, per quan­to difficile, non è però sufficiente. Bisogna anche trovare la con­nessione tra natura chimica delle molecole e sensazione da esse generata: per un formaggio significa attribuire al metanetiolo l'aro­ma di cavolo bollito, a un solfuro la sua nota agliata o all' ottanone la sua nota fungina. È stata cosl messa a punto una procedura sofi­sticata che consiste nel far funzionare in parallelo, all'uscita della colonna del cromatografo, il rilevatore fisico-chimico e il naso uma­no. Una rilevazione fisica e una rilevazione sensoriale. Quando arri­va un getto di molecole, il rilevatore mostra un picco e il «naso» di servizio cerca di dare un nome a ciò che sente in quel momento.

Certo, le cose non sono cosl semplici come sembrano. Talvolta i picchi più alti, che segnalano un massiccio arrivo di molecole, risul­tano inodori, mentre picchi infinitesimali risultano molto odorosi. Ma si tratta solo in apparenza di un paradosso. A fronte di pari con­centrazione, le molecole hanno un effetto molto discontinuo sulle cellule olfattive. Sostanze che sussistono nell'alimento solo come tracce, a stento misurabili dagli strumenti di analisi chimica, posso­no essere molto evidenti all'olfatto, mentre altre, pur abbondanti, risultano poco attive. C'è poi un'altra fonte di difficoltà: identifi­care una fugace sensazione olfattiva con precisione sufficiente per poterle dare un nome richiede una grande concentrazione mentale, che difficilmente si mantiene costante durante tutto l'esame. La procedura di valutazione sensoriale di cui parleremo più avanti si trova continuamente a dover fare i conti con questo problema.

Quando mastichiamo gli alimenti, nel naso e in bocca si ripro­duce uno spazio analogo allo spazio di testa: si tratta del nose spa­ce e mouth space il cui contenuto gli studiosi hanno imparato a pre­levare e analizzare grazie agli stessi metodi impiegati per studiare lo spazio di testa. 1

1 Andrew Taylor e Rob Linforth dell'Università di Nottingham analizzano il nose space inse· rendo il tubicino in una narice, per poter campionare i prodotti volatili della masticazione sen­za disturbare troppo il soggetto che mangia (Linforth e altri 1996).

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Complessità chimica e ricchezza sensoriale

La diffusione del cromatografo e di altri strumenti di analisi chi­mica porta a una prima conclusione: gli alimenti sprigionano un gran numero di sostanze odoranti volatili. Non tutti sanno che la nota «cacao» è data da più di 650 molecole e che il caffè deve il suo aroma a circa 800 miscele di diverse classi chimiche, che, in ogni caso, rappresentano meno del due per mille del peso complessivo del chicco disseccato dopo la torrefazione. Il cioccolato ne contie­ne almeno altrettante. Nell'aroma di fragola sono state identifica­te più di 300 sostanze e nell'aroma di banana 250. La loro natura chimica è estremamente complessa, ma certe miscele hanno un'im­portanza particolare in quanto attive a una concentrazione molto bassa e molto volatili.

Le miscele che contengono uno o più atomi di zolfo sono un buon esempio di aroma intenso: si stima che esse rappresentino cir­ca il ro per cento delle molecole volatili rilevate nei cibi e nelle bevande. A seconda della composizione vengono chiamate tiazoli, tiofeni, polisolfuri ... Provocano sia gli odori gradevoli sia quelli sgradevoli. Si ritrovano in cibi molto diversi, come i formaggi, il vino, i cavoli, le cipolle, l'aglio, il pane, la carne, il caffè, le pata­te, la birra, i pomodori, il frutto della passione, il ribes, il melone e molti altri. Non bisogna stupirsi, quindi, che le stesse parole ritornino nella descrizione di cibi molto diversi. Allo stesso modo, se un naso umano si colloca all'uscita del cromatografo che analiz­za la composizione di numerosi tioli sintetizzata con i metodi del­la chimica combinatoria, colui che «annusa» le miscele mentre fuo­riescono una a una dalla colonna farà ricorso a termini come patata, ribes, sudore, latte bollito, cipolla cruda, rabarbaro, minestrone, carne, formaggio, pasta lievitata, buccia d'arancia (Vermeulen e Collin 2003).

L'abbondanza di queste molecole a base di zolfo ha una sua spie­gazione. Tutti i cibi, prima di essere convertiti in derrate alimen­tari, sono stati organismi viventi, o parti di organismi viventi, ani­mali o vegetali. Contengono quindi proteine, composte a loro volta di aminoacidi. Tra questi si trovano dei composti che, come la metionina, possiedono atomi di zolfo e vengono trasformati dalla

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CAPITOLO SECONDO

cottura o da microorganismi, lieviti e batteri, naturalmente asso­ciati ai processi di fermentazione.

Un'altra categoria di sostanze produttrici di aromi in gran quan­tità è quella dei composti azotati della famiglia delle pirazine. La maggior parte degli aromi «arrosto» o «grigliata» della carne cotta sono prodotti da queste molecole, risultato di una reazione chimica nota come reazione di Maillard in cui gli aminoacidi reagiscono con gli zuccheri. Non è solo la cottura a dar luogo alle pirazine, che pos­sono essere prodotte anche da microbi. Esiste pure una possibile forma di produzione industriale di aromi chimici naturali, « bioaro­mi», così vengono chiamati (Demyttenaere e altri 2003). Non pos­siamo però avventurarci oltre nella complessità chimica di queste molecole, alcune delle quali fanno parte dei cibi grezzi, mentre altre (certo molto più numerose) nascono dalle loro trasformazioni. Spie­gheremo solo alcuni di questi processi di trasformazione.

I frutti maturano e in questo modo perdono alcune componenti e ne acquisiscono altre; così, l'esenale e l'esanale, i più rappresen­tativi dei circa trenta carbonili della banana acerba, scompaiono per far posto all'isopentile acetato e all'isobutile acetato, gli esteri principali della banana matura. Anche quando raccolti ormai matu­ri, i pomodori vedono mutare significativamente le proporzioni di una dozzina delle loro sostanze volatili nei dieci giorni che seguo­no il raccolto (Krumbein e Peters 2003). Le pesche e le nettarine mature e profumate devono il loro aroma all'aumento della con­centrazione di lattoni e di certi esteri (Farmer e altri 2003).

All'epoca d'oro dell'alchimia si spiegava la cottura come una spe­cie di maturazione, accelerata dal calore; oggi quest'interpretazio­ne verrebbe invece rovesciata e la maturazione, fenomeno biologi­co, sarebbe spiegata ricorrendo alla cottura, processo chimico-fisico. Fatto sta che, addomesticando il fuoco, centinaia di migliaia di anni fa,2 gli esseri umani imboccarono la via della cottura del cibo, una pratica destinata ad ampliare notevolmente la gamma degli aromi sprigionati dagli alimenti e a porre le fondamenta della culinaria. Abbiamo già accennato al potere aromatico della reazione di Mail­lard, che rende delizioso il profumo delle carni arrostite. Altri aro-

2 È l'opinione di alcuni ricercatori israeliani che hanno studiato un insediamento umano di 790 ooo anni fa (Goren-Inbar e altri 2004).

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mi invece nascono dalla liberazione dei tioli contenuti nelle protei­ne, dall'ossidazione dei lipidi, dalla degradazione termica dell'ami­noacido tiamina. E non bisogna dimenticare le trasformazioni, alcu­ne cercate, altre involontarie, dei prodotti elementari a base di fermentazione, le cui componenti volatili variano a seconda del sub­strato e della tipologia dei microorganismi che li producono. L'arte culinaria sfrutta molte trasformazioni che la «gastronomia moleco­lare»' si propone di osservare e identificare.

5-prigionare gli aromi in trappola

Non basta che un alimento contenga molecole aromatiche per trasformarlo in un valido diffusore di aromi. Perché i recettori sen­soriali vengano attivati, queste molecole devono essere sprigiona­te, e ciò non accade fin quando gli altri componenti dell'alimento le tengono prigioniere. Da questo punto di vista, in un alimento gli specialisti distinguono tra l'aroma stesso e la matrice (Guichard 2002). La matrice è formata da sostanze come le proteine, i poli­saccaridi e i lipidi che interagiscono fisicamente con le sostanze volatili. Cosi le proteine hanno una forte vocazione a legarsi e trat­tenere componenti dell'aroma come gli aldeidi e i cetoni, gli iono­ni e gli esteri.

Negli alimenti che contengono grassi, gli aromi si suddividono tra il nucleo acquoso e i grassi, a seconda dell'affinità delle molecole con i due ambienti. Cosi l'aroma di confettura sprigionato da una fetta di pane, burro e marmellata non è cosi intenso quanto quello della stessa fetta di pane non imburrata. Analogamente, ridurre la quan­tità di grassi in un alimento che ne contiene molti, ad esempio per confezionare un prodotto light, comporta uno sbilanciamento nel sapore, se non si cambia la proporzione degli aromi. I polisaccaridi, ampiamente utilizzati come agenti addensanti, portano a una dimi­nuzione del sapore poiché modificano la viscosità della matrice. Chi lavora con gli aromi deve tener presente questi fenomeni per crea­re delle miscele adatte alla natura dei prodotti.

3 Disciplina di cui Hervé This si è fatto cantore entusiasca.

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Una volta stabilito che molti alimenti non sprigionano sponta­neamente tutta la loro potenziale ricchezza aromatica, occorre conoscere piuttosto precisamente in che modo la masticazione stra­volge le interazioni aromi-matrice e influenza lo sprigionarsi del-1' aroma in bocca. Riscaldati a poco più di 30° C, impregnati di sali­va ed enzimi, gli alimenti rilasciano le componenti attive sui sensi chimici più rapidamente e in quantità maggiore. Aromi appena per­cepibili prima di addentare il boccone diventano subito evidenti non appena l'apparato masticatore entra in azione e la lingua rime­scola e stira il bolo alimentare.

La concentrazione dinamica delle sostanze volatili cambia sen­sibilmente, di momento in momento, nella cavità orale e in quella nasale (mouth space e nose space), rispetto alla concentrazione rile­vata nell'equilibrio dello spazio di testa (headspace). Ora è maggio­re, perché le sostanze vengono sprigionate in modo massiccio, ora è minore, perché il boccone è inghiottito prima del raggiungimen­to dell'equilibrio.

La tempistica con cui le molecole volatili vengono sprigionate può essere messa in relazione con il mutare delle sensazioni. Per ogni boccone, per ogni sorso, le sfumature dell'aroma e soprat­tutto la sua intensità cambiano nel tempo. Ci sono note che com­paiono subito, mentre altre si manifestano solo dopo alcuni secon­di. Alcune sono rapide, altre rimangono in bocca per molto tempo. Il consumatore non rimane indifferente a queste dinamiche che hanno una ricaduta sulla complessità delle sue sensazioni e ne determinano le preferenze. Risulta quindi utile cercare metodi che consentano di coniugare l'analisi sensoriale dilazionata nel tempo e l'analisi chimico-fisica, in tempo reale, delle componenti odoro­se rilasciate nell'aria esalata dal soggetto. Non si tratta di un com­pito facile e l'obiettivo è ben lontano dall'essere stato raggiunto. Al tempo stesso, vengono costruite bocche artificiali - modelli di bocca - in cui i ricercatori possono variare a piacere le caratteri­stiche della masticazione e della salivazione per studiarne gli effet­ti sulla liberazione di aromi in alimenti standard, solidi o liquidi. Si può così osservare che le due azioni, masticazione e saliva­zione, influenzano considerevolmente, com'era prevedibile, sia la concentrazione assoluta di aromi sprigionati sia le loro proporzio­ni relative.

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Come vedremo tra poco, esiste una pratica diffusa che consiste nell'aggiungere aromi alle sostanze nutritive per conferir loro un valore edonico in realtà assente, o per rafforzare quello già pre­sente. Gli additivi interagiscono con la matrice, proprio come gli aromi naturali, e possono anche modificarsi reagendo chimica­mente con questa matrice, come le proteine, o con l'ossigeno, o ancora evaporando durante lo stoccaggio. Per limitare la perdita di aromi o il loro deterioramento, si ricorre a un metodo chiamato microincapsulamento, tramite cui gli aromi vengono inclusi in pic­cole vescicole le cui pareti sono costituite da sostanze commestibi­li derivate da proteine, dall'amido o dalla gomma d'acacia.

Non sottovalutare la confezione

Dedichiamoci ora a problemi relativamente nuovi, sorti nel momento in cui si è presentata la necessità di trasportare su larga scala e immagazzinare sulla lunga durata prodotti alimentari, mol­ti dei quali già pronti per essere consumati. Siamo nel campo del packaging, termine dal suono piuttosto irritante, impostosi ormai nell'uso e che è quindi inutile tradurre. Diciamo che si tratta di imballaggio o di confezionamento. Non si tratta più di incartare il prodotto - «pesato, incartato!» - nella carta da giornale. Oggi non si sta a riflettere per produrre imballaggi «intelligenti». L'imbal­laggio è un campo di ricerca autonomo, con ricercatori specializza­ti che si incontrano in convegni internazionali. Non stiamo par­lando della forma in sé e nemmeno delle scritte che figurano sulla confezione, che rientrano nell'ambito del marketing. Stiamo par­lando piuttosto della radice del problema.

In linea di1principio un imballaggio di buona qualità deve esse­re inerte, non deve cioè interagire in alcun modo con il prodotto imballato. Da questo punto di vista non c'è niente di meglio del vetro. Comprensibilmente, però, il suo impiego non può essere uni­versale: è pesante e fragile. Bisogna allora ricorrere ad altri mate­riali, come la plastica, il metallo leggero e prodotti derivati dal legno e dal cartone, materiali con i quali i cibi necessariamente interagiscono. Le componenti più instabili del cibo vengono assor­bite dalle pareti, le molecole di piccole dimensioni si diffondono all'interno delle pareti stesse e fuoriescono dall'alimento. Ma, cosa

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ancor più grave, il flusso funziona nei due sensi. Cosi, molecole estranee all'alimento o alla bevanda, sfruttando la permeabilità selettiva del materiale di imballaggio, si mescolano al prodotto. Anche se queste contaminazioni sono infinitesimali, possono pro­durre effetti significativi dal punto di vista sensoriale, se le mole­cole che si diffondono hanno una bassa soglia di percezione. In par­te è cosi che nascono gli off-flavours (difetti organolettici), quegli odori indesiderabili, di cartone, di muffa, tanto più temibili in quanto praticamente impossibili da rilevare con misurazioni fisi­che. Si tratta di un rompicapo per i responsabili del controllo qua­lità, che non sempre sono in grado di percepire ciò che invece è destinato ad allarmare, tra i consumatori, i nasi più sensibili.

L'interazione del prodotto con il suo imballaggio non ha però solo conseguenze negative. Pellicole assorbenti limitano la diffusione delle molecole nauseabonde prodotte da un ottimo formaggio, pur permettendo all'aroma di fuoriuscire quanto basta per segnalare la natura del contenuto. Nelle bottiglie in PVC le pareti trattengono il d-limonene e riducono il sapore amaro del succo d'arancia. Tutti sanno che il vino e i liquori invecchiati in botti di quercia diventa­no più gradevoli e limpidi in virtù delle numerose interazioni che si verificano durante l'invecchiamento. L'ossigeno contenuto nei pori del legno agisce sul colore e ne riduce le proprietà astringenti. Dal­le pareti della botte si sprigionano lattoni volatili profumati di quer­cia o di noce di cocco, insieme a composti fenolici. Nelle botti in cui invecchia il cognac, la lignina delle quercie del Limousin o dell' Al­lier si trasforma dolcemente in vanillina. Il legno influenza anche la concentrazione delle componenti del vino e di altri alcolici per assorbimento/migrazione e ne modifica l'aroma. I pregi di questo condizionamento tradizionale sono tali che si è trovato il modo di intensificarlo simulando l'invecchiamento in botte con l'aggiunta di trucioli di quercia. Il progresso non si ferma!

Dare sapore a ciò che non ne ha

L'industria alimentare impiega materie prime che, pur essendo commestibili e perfettamente soddisfacenti sul piano nutritivo, non sono comunque mangiabili se prive di aromi. Allo stesso modo,

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le fasi della preparazione e della conservazione dei cibi prodotti su scala industriale possono talvolta alterare o far scomparire gli aro­mi inizialmente contenuti nel prodotto di partenza. Sale o zucche­ro non sono sufficienti ad aumentare il sapore, e l'aggiunta di spe­zie non è sempre consigliabile. Si è quindi diffusa la pratica di aggiungere all'alimento, durante la fase di preparazione, alcuni pro­dotti il cui unico scopo è quello di arricchirne le proprietà olfatti­ve. Tocca agli specialisti, ai tecnici degli aromi o esperti dei sento­ri comporre le «formule aromatizzanti».

Il mestiere di tecnico degli aromi ha qualcosa in comune con quello del profumiere: stessa combinazione di conoscenze empiri­che acquisite tramite una lunga esperienza, di intuizione, di lavo­ro rigoroso e di intelligenza per dar vita a composizioni armoniche partendo da estratti naturali e sostanze aromatizzanti. Si potreb­be anche pensare che per aromatizzare un alimento basti aggiun­gere sostanze specifiche, individuate tramite un'apposita analisi dei prodotti naturali. In realtà può non essere così semplice, per diverse ragioni. Innanzitutto molto spesso nessuna analisi è in gra­do di rivelare tutte le numerosissime componenti di un aroma natu­rale. Inoltre, alcuni componenti naturali degli aromi sono troppo costosi per essere impiegati su scala industriale. Occorre quindi sostituirli con prodotti dal costo sostenibile. Il tecnico degli aromi darà allora vita a una versione stilizzata, semplificata dell'aroma di riferimento (Chataigner e Richard 2003).

Diversamente dal profumiere, che ha ampio margine per creare sensazioni olfattive assolutamente originali, il tecnico degli aromi non può allontanarsi più di tanto dal modello naturale. In un cer­to senso, la parola armonia, il cui significato è abbastanza oscuro in profumeria, sembra avere più senso nel settore degli aromi, per cui indica una combinazione equilibrata di molecole aromatiche capa­ce di evocare l'immagine mentale di un sentore naturale. Tuttavia, da quando usa aggiungere ai prodotti alimentari sentori di cui sono sprovvisti in natura - basti pensare agli aromi di tanti prodotti a base di latte - si assiste a uno strano fenomeno: la copia si sosti­tuisce al modello e diventa il punto di riferimento. Sono molti i consumatori, soprattutto tra i giovani, che hanno un'esperienza limitata delle vere fragole: per questi consumatori l'aroma di fra­gola è fondamentalmente quello dello yogurt alla fragola. Allo stes-

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so modo, per molti, l'odore del baccello di vaniglia si confonde con quello del 3-metossi-4-idrossi-benzaldeide, più noto con il nome di vanillina. Poco a poco si assiste alla nascita di un universo olfatti­vo alimentare parallelo al mondo dei veri aromi naturali.

Gli aromi sono composti a partire da materie prime aromatiche che possono essere sostanze naturali ottenute per estrazione oppure per biosintesi, sostanze definite come identiche a quelle naturali, par­zialmente o totalmente sintetiche, oppure sostanze artificiali. Nono­stante esse siano numerose, la lista di queste sostanze è praticamen­te chiusa, data la difficoltà (e il costo) di far approvare dalle autorità sanitarie nazionali ed europee una molecola che non compaia già nel­la lista detta «positiva» delle sostanze esplicitamente autorizzate. La scelta di questa o quella sostanza non dipende solo dall'armonia desi­derata, ma anche da numerose limitazioni tra cui il costo, e pure dal­la legislazione sugli aromi e da quella sugli alimenti, dalla considera­zione dei rischi tossicologici, che vanno dalla miscibilità con l'acqua per le bevande, alla resistenza agli sbalzi di temperatura, alla sta­bilità nell'alimento, alla viscosità, fino alle esigenze specifiche del cliente. L'abilità del tecnico degli aromi deve quindi confrontarsi con queste limitazioni. Comprensibilmente, in queste condizioni, per quanto raffinata sia la sua arte, l'assaggiatore più consapevole, se ha colto e assaporato fragole mature in un giardino inondato dal sole, ben difficilmente ne ritroverà tutto il sapore in un vasetto di yogurt.

Introspezione sensoriale a scopi industriali

Finora abbiamo finto di credere che, per quanto complicata risulti l'identificazione dei fenomeni chimico-fisici che determina­no le proprietà organolettiche dei cibi, tali qualità siano ciò non di meno perfettamente note, in quanto percepite da tutti allo stesso modo. Ma questo non è affatto vero. Provare sensazioni comples­se e paragonarle al ricordo di sensazioni precedenti per riconoscer­le nella loro globalità è facile e normale. Ci viene naturale. Ma indi­viduare le entità organolettiche, descrivere in modo unanime i sapori, identificarli dando loro un nome è un'operazione comple­tamente diversa, con molte meno probabilità di successo perché non fa parte della nostra esperienza quotidiana.

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L'analisi sensoriale degli alimenti è essenzialmente motivata da necessità industriali. Le ditte che commercializzano prodotti ali­mentari hanno bisogno di conoscere i loro prodotti, e le possibili variazioni organolettiche, con la massima precisione possibile con­sentita dagli strumenti a loro disposizione. In genere, il consuma­tore che sceglie un prodotto o lo scarta non spiega i motivi del pro­prio comportamento o, se lo fa, è indotto a motivarlo in termini esclusivamente edonici. Un altro buon motivo per affinare la pro­pria capacità di analizzare le sensazioni consiste molto semplice­mente nel piacere ricavato, in una cultura attenta alla gastronomia come la nostra, dal parlare dei cibi e della loro preparazione. C'è da scommettere che un po' di precisione terminologica in più non rovinerebbe affatto il gusto del dibattito gastronomico.

L'analisi sensoriale non è una disciplina scientifica vera e propria, anche se si presenta come oggettiva e si basa sulle conoscenze forni­te dalla psicologia della percezione e dalla psicofisica. Si tratta piut­tosto di un metodo, un modo di studiare le sensazioni evocate da alcuni prodotti, con finalità applicative (Savageot 1996). Da quan­do ne sono stati stabiliti i princlpi, circa cinquant'anni fa, 4 questo metodo è stato applicato al gusto dei prodotti alimentari, ma è stato impiegato anche per analizzare altri tipi di sensazioni, comprese quelle provocate da prodotti non alimentari. L'analisi o valutazione sensoriale riposa su princlpi metodologici precisi e segue procedure codificate che offrono un punto di partenza abbastanza universale. 5

Nel tempo sono state introdotte alcune varianti per rimediare alle carenze del metodo nella sua prima elaborazione e tener conto del­le nuove conoscenze, specie nel campo degli strumenti statistici.

L'analisi sensoriale è un lavoro di squadra. Si recluta un gruppo di persone, che formano il panel o giuria di valutazione, poste sot­to la guida più o meno direttiva di un animatore. Quest'ultimo si assicura innanzitutto che i futuri assaggiatori abbiano una sensibi­lità normale e, va precisato, una buona proprietà linguistica. Inol­tre viene loro richiesta la capacità di ripetere il giudizio iniziale

4 Negli anni cinquanta una società di consulenza americana, la Arthur D. Little, proponeva agli industriali la prima metodologia formalizzata per descrivere il gusto dei cibi.

5 L'AFNOR (Association Française de Normalisation) ha proposto una procedura chiamata <~Ricerca e selezione di descrittori per l'elaborazione di un profilo sensoriale su base multidi­mensionale» che ha dato origine alla norma francese NF ISO 11035.

'Borgfzesiana

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anche quando lo stesso prodotto viene ripresentato più volte, il che è meno facile di quanto si possa pensare. Il compito del gruppo è quello di imparare a descrivere il gusto di prodotti dello stesso tipo, entro uno stesso ambito sensoriale. Non si può chiedere a una giu­ria selezionata per l'analisi della birra di descrivere le qualità orga­nolettiche di un tipo di carne.

Una fase importante della formazione è quella che porta a com­pilare una lista di termini o qualificativi caratteristici delle sensa­zioni provate durante l'esame. Raccolti prima singolarmente, i descrittori enunciati spontaneamente da ciascun soggetto vengono successivamente raccolti e discussi dal gruppo, che ne valuta la per­tinenza, fino al raggiungimento del consenso. Questa procedura può richiedere diverse sedute. L'animatore bada che la lista non contenga termini relativi al valore edonico. I giudizi di valore sono banditi. Saranno altri panel, composti da consumatori, a pronun­ciarsi sull'accettabilità di alimenti o bevande o a indicare le proprie preferenze. Analogamente, vengono evitati i termini pletorici e quelli che indicano direttamente il prodotto. Dire di un camembert che ha uno stuzzicante odore di formaggio è un buon esempio di quello che non bisogna fare. Non è raro che venga introdotta una fase supplementare di selezione dei descrittori per eliminare i ter­mini che non aiutano a distinguere i vari campioni. Tecniche di analisi dei dati, analisi multidimensionale e analisi della varianza permettono di affinare la lista, ridotta alla fine, abbastanza arbi­trariamente, a una quindicina di termini.

Dare un nome ai componenti di un sapore complesso rappresen­ta già un buon successo. Bisogna però rispondere ad altre esigen­ze. A ogni descrittore sensoriale deve essere assegnato un equiva­lente fisico in modo da ridurne il più possibile l'ambiguità. D'altra parte bisognerebbe anche definire l'intensità delle note di sapore identificate qualitativamente. «Profili sensoriali» che contengono gli stessi descrittori possono variare anche sensibilmente in base all'intensità relativa delle sensazioni corrispondenti. La giuria si dovrà quindi esercitare ad attribuire a ogni descrittore una nota specifica su una scala di intensità.

Il metodo di analisi sensoriale fin qui descritto punta quindi a rintracciare, isolare e infine dare un nome a caratteristiche orga­nolettiche che si ritengono presenti in un'esperienza sensoriale sul-

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le prime piuttosto fluida e incerta. Uno dei presupposti fondamen­tali è che queste caratteristiche siano accessibili ai soggetti che compongono il panel: tutti devono perciò percepire la stessa cosa, ma ognuno deve avere un modo diverso di rendere le proprie sen­sazioni a parole, come testimonia la varietà delle descrizioni spon­tanee fornite individualmente. Somiglianza della percezione e diversità della formulazione. Supponiamo che la prima parte di questo postulato sia accettabile ed esaminiamone la seconda. È vero che ogni membro della giuria ha il proprio bagaglio di espe­rienze sensoriali, tale da suggerirgli, per sensazioni simili, descri­zioni metaforiche apparentemente diverse. Ciò che uno definisce «bruciato» può rimandare alla stessa sensazione che un altro descrive con «alla brace». Tuttavia, la discussione all'interno del­la giuria riesce senz'altro a livellare le discrepanze.

Il consenso diventa più problematico se non accettiamo il postu­lato della somiglianza delle percezioni individuali. Ci sono tutta­via buone ragioni per pensare che, sia per l'olfatto sia per il gusto, le realtà sensoriali varino sensibilmente da individuo a individuo (vedi cap. 4). In generale, nella vita di tutti i giorni, queste diffe­renze non sono evidenti. Se anche Pietro non sente come Paolo l'o­dore delle salsicce alla griglia, saranno comunque d'accordo nel riferire correttamente l'odore, poiché, qualsiasi sia il loro vissuto percettivo, è stato da entrambi sempre associato all'oggetto «sal­sicce alla griglia». Di contro, nella situazione dell'analisi sensoria­le, quando bisogna rintracciare somiglianze tra il gusto esaminato e altri gusti noti, è assai probabile che Pietro trascuri una certa nota, in quanto non la sente o la sente debolmente, mentre la stes­sa nota a Paolo appare preponderante.

Nonostante i motivi per dubitare che le valutazioni individuali possano alla fine convergere, un panel ben esercitato sembra comunque in grado di rintracciare abbastanza esattamente le sotti­lissime sfumature che differenziano due prodotti dello stesso tipo. A questo punto siamo in grado cercare nella composizione chimico­fisica di questi prodotti le possibili cause delle loro differenze sen­soriali, per tentare, poi, di capire le ragioni della preferenza espres­sa dai consumatori per l'uno piuttosto che per l'altro (Schlich r 995).

Non bisogna però pensare che, se ben applicato, il metodo riveli esaustivamente le componenti «primarie» della sensazione com-

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CAPITOLO SECONDO

plessa, nello stesso modo in cui l'analisi chimica rivela la composi­zione molecolare di un composto. Le sensazioni specifiche indivi­duate non sono elementi semplici della percezione, non sono anzi per forza più semplici della sensazione globale. Al contrario, esse devono essere interpretate come punti di contatto tra il sapore del prodotto e i sapori di altre sostanze note ai membri del panel.

Una volta stabilito il profilo sensoriale di un prodotto, seguen­do rigorosamente questo metodo, si può dire di averlo descritto in modo esaustivo e tale da permetterne il riconoscimento e l'identi­ficazione? «Se descrivere significa consentire il riconoscimento o l'identificazione, la risposta sarà probabilmente negativa», scrive François Sauvageot (1996). Certo, nel caso in cui due prodotti e due profili sensoriali tratteggiati da esperti vengano presentati ad altri esperti, questi ultimi accoppieranno correttamente descrizio­ne e prodotto. Ma il compito diventa impossibile se il numero e la varietà delle descrizioni e dei prodotti da associare aumentano anche di poco.

Abbiamo quindi considerato gli alimenti come fonte di sensa­zioni, confrontando la prospettiva fisica e quella sensoriale. Da una parte, una mescolanza eterogenea di sistemi sparsi in cui le mole­cole migrano o si aggregano, si assorbono o si disperdono, fornen­do ai recettori biologici incontrati sul loro cammino solo un'imma­gine molto parziale della propria natura chimica e del proprio valore nutritivo. Dall'altra, infinite sensazioni provocate da siste­mi sensoriali complessi, con una spiccata tendenza a fondere insie­me più che a individuare le proprie rispettive qualità. Eppure il cer­vello è obbligato a estrarre dai dati provenienti dai sensi chimici indizi sufficienti a controllare qualitativamente e quantitativa­mente l'alimentazione. Incominceremo a farci un'idea del modo in cui procede nei prossimi capitoli.

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La nascita degli aromi

Gli aromi rappresentano gli odori dell'alimento percepiti dal tratto che collega la bocca alla cavità nasale. Molte proprietà degli aromi, la loro qualità, la loro intensità, sono determinate già all'interno dell'or­gano dell'olfatto, grazie a centinaia di recettori diversi, il cui numero e la cui varietà consentono, a seconda delle numerose combinazioni, di rappresentare ogni odore nella sua singolarità. Si tratta dell'«immagi­ne olfattiva».

Avangusto

Il chimico che applica i suoi strumenti al più profumato tra i cibi, nelle provette non troverà certo gli aromi. Troverà molecole. Gli aromi, gli odori esistono solo in presenza di un dispositivo biologi­co che reagisca a queste molecole e di un sistema nervoso che rac­colga le reazioni ed elabori una percezione. Ed è proprio su questo dispositivo, grazie al quale le molecole si trasformano in aromi, che ci concentreremo adesso.

Senza gli aromi, gli alimenti sarebbero sicuramente privi di «gu­sto». È la triste esperienza vissuta dagli individui sprovvisti di olfat­to dopo un trauma cranico o una brutta infezione delle vie respira­torie. La loro anosmia li priva in gran parte della ricchezza sensoriale dei cibi e molti ne soffrono parecchio, fino a una pericolosa perdita dell'appetito e, talvolta, al tunnel della depressione. Sentono di aver perso, cosl dicono, il gusto della vita. E non possono nemmeno con­tare sulla solidarietà di chi sta loro vicino né sull'attenzione del per-

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CAPITOLO TERZO

senale medico, del tutto impotente. Del resto, non sono davvero gra­vi, dato che ci vedono e ci sentono! Ancora peggiore, forse, è il de­stino dei pazienti che non hanno perso completamente l'olfatto, ma si ritrovano con una sensibilità alterata, completamente difforme rispetto ai ricordi immagazzinati. Quando il caffè continua ad aver il sapore del benzene, la vita non è più come prima.

L'olfatto contribuisce quindi al gusto. Ma in che misura? In misu­ra cospicua è senz'altro la risposta più corretta, se è vero che nessu­no è in grado di enumerare le sensazioni prodotte da ciascun senso.

Molte sono le domande che si pongono a proposito degli aromi, come già abbiamo visto nell'ultimo capitolo con la nostra incursio­ne nel campo dell'analisi sensoriale dei cibi. Come sono percepiti? Quanti ce ne sono? Si possono classificare? Si mischiano tra loro? In questo capitolo cercheremo di rispondere a queste e altre doman­de. A questo scopo raccoglieremo prima alcuni dati dall'osservazio­ne della percezione olfattiva, in modo da rintracciarne le proprietà che possono avere una spiegazione fisiologica. Successivamente, cercheremo di capire qual è questa spiegazione esaminando il modo in cui gli odoranti sono captati dalle cellule recettrici della mucosa olfattiva. Ciò che ne ricaveremo ci aiuterà a comprendere la com­posizione del messaggio nervoso responsabile della qualità e del­l'intensità delle sensazioni olfattive. Infine, seguiremo questo mes­saggio fino al suo arrivo nel bulbo olfattivo, tappa obbligata prima dell'accesso al cervello.

Punti di vista sugli aromi

Ricordiamo innanzitutto che niente differenzia gli odori desi­gnati come aromi da tutti gli altri, se non il fatto che si sprigiona­no da cibi o bevande. Quanto diremo sugli odori in generale si applica quindi in tutto e per tutto anche agli aromi. Un aroma, come qualsiasi odore, può essere considerato da diversi punti di vista. Si dice che possiede varie proprietà o dimensioni: qualità, intensità e valore edonico. Si tratta di nozioni utili per catalogare le osservazioni, ma non bisogna assolutamente prenderle alla stre­gua di categorie platoniche e sottovalutare la loro tendenza a so­vrapporsi le une alle altre.

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LA NASCITA DEGLI AROMI 39

Infinite qualità

La qualità di un aroma rappresenta la sua identità sensoriale. Par­lare di un aroma alla menta significa quindi indicare la qualità di quel-1' aroma. Gli esseri umani hanno una buona abilità nel distinguere le qualità olfattive. Almeno in teoria, questa capacità è cosl sviluppata che, a parte qualche eccezione, il naso umano è in grado di distin­guere le une dalle altre tutte le molecole diverse dal punto di vista chi­mico e percepibili tramite l'olfatto. Inoltre, bisogna creare condizio­ni favorevoli, ad esempio annusando l'una dopo l'altra a intervalli regolari le due sostanze odoranti da individuare. Operando in que­sto modo, la capacità di discrimine migliora, e per alcuni abbinamenti esistono meno probabilità di confondersi rispetto ad altri. Ovvia­mente il grado di somiglianza tra odori è molto variabile.

Tra i vari metodi impiegati per studiare la capacità di distingue­re gli aromi, il più semplice consiste nel chiedere a un gruppo di soggetti di stabilire se due odori sono simili o diversi. Vengono pre­sentati vari abbinamenti, alcuni di odori simili, altri di odori diver­si. La media tra i riconoscimenti corretti e quelli sbagliati rappre­senta il grado di abilità dei soggetti nel distinguere quel tipo di odori. Un altro metodo è basato sulla ricerca dell'elemento incon­gruo in un insieme di più stimoli. Gli errori nel riconoscimento consentono di costruire delle matrici di confusione degli odori che possono essere convertite in distanze tra gli stimoli. Gli odori più spesso oggetto di confusione vengono considerati qualitativamen­te più vicini rispetto a quelli distinti con maggior frequenza.

I potenti metodi matematici di analisi dei dati risultano molto utili per indagare la struttura di questi dati di somiglianza e di dis­somiglianza. Emerge allora che l'informazione contenuta nelle mi­surazioni può essere rappresentata correttamente solo in modo multidimensionale. Questo significa che gli odori si differenziano reciprocamente secondo fattori diversi e diversi punti di vista. La dimensione principale, l'unica identificabile in una proprietà sen­soriale definita, è la dimensione edonica (Schiffman r 97 4; Y oshi­da 1975); gli stimoli vengono infatti classificati in questa dimen­sione secondo il loro carattere più o meno piacevole o spiacevole. Le persone dimostrano cosl l'importanza naturalmente attribuita al valore affettivo degli aromi.

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CAPITOLO TERZO

La capacità di distinguere gli odori, tuttavia, si esprime al meglio solo se il compito è svolto con grande attenzione e se gli stimoli da confrontare vengono presentati a intervalli di tempo ridotti, in modo da rientrare nel raggio di funzionamento ottimale della memoria a breve termine, detta appunto memoria di lavoro. In questo modo quanti sono gli odori che siamo in grado di distin­guere? Si fanno diverse ipotesi: diecimila, centomila. Nessuno lo sa, per la semplice ragione che nessuno ha contato le molecole che portano un odore o che ne porteranno uno quando i chimici le avranno sintetizzate.

La soglia e l'intensità

Un odore è percepibile solo se le molecole che lo portano rag­giungono una concentrazione sufficiente quando si trovano in prossimità delle cellule recettrici della mucosa olfattiva. Si tratta della nozione di soglia di percezione. Gli studi in ambito psicofisi­co con le loro indagini sulle leggi che collegano le sensazioni ai para­metri fisici degli stimoli ci mostrano che, una volta superata la soglia di percezione, l'intensità dell'odore cresce all'aumentare del­la concentrazione delle molecole odorose, secondo una legge detta «legge potenza» o «legge di Stevens».1 Purtroppo, i parametri del rapporto variano a seconda della natura degli odoranti e dei sog­getti su cui si effettuano le misurazioni. Chiaramente, da questo punto di vista, ognuno di noi è diverso dall'altro. E a maggior ragione quando in gioco c'è la qualità e non l'intensità. Il motivo risiede nel fatto che, come vedremo, gli esseri umani non dispon­gono tutti quanti dei medesimi dispositivi molecolari di ricezione, i recettori.

Il valore edonico: piacere o dispiacere

Il tono affettivo è una delle tre qualità normalmente attribuite agli odori. Come abbiamo ap(>ena visto, si tratta di trovare somi­glianza o diversità tra odori. E assolutamente impossibile giudica-

1 La legge enunciata da Stevens stabilisce che l'intensità della sensazione cresce secondo la potenza dell'intensità dello stimolo, il che equivale a dire che il logaritmo dell'intensità della sen­sazione cresce come il logaritmo dell'intensità dello stimolo.

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LA NASCITA DEGLI AROMI 4I

re qualitativamente simili due aromi che sono uno gradevole e l'al­tro sgradevole. Generalmente si dà per scontato che qualsiasi odo­re si collochi a un determinato livello su un asse edonico che va dal-1' estremo «molto piacevole» a quello «molto sgradevole» e che le sensazioni affettivamente neutre siano comparativamente meno numerose. Molto probabilmente questa presentazione unidimen­sionale, bipolare, del valore affettivo delle sensazioni olfattive rap­presenta una semplificazione eccessiva. In questo modo, esperien­ze affettive molto diverse si trovano raggruppate nella categoria dello «sgradevole». Indubbiamente, nel caso degli alimenti, un odore può risultare sgradevole in molti modi. Può essere repellen­te, al punto da provocare nausea, soprattutto se intenso; cosl suc­cede per un aroma che abbia assunto una valenza negativa, in seguito a un condizionamento avversivo (vedi cap. 11). L'odore di un cibo che ci ha fatto star male ci respinge per molto tempo. Può essere giudicato sgradevole semplicemente perché evoca la rappre­sentazione mentale di un'origine «disgustosa». L'aroma dell'ostrica ad alcuni pare rivoltante per l'associazione con il corpo vischioso del mollusco. Inoltre, un odore può essere giudicato negativamen­te quando la sua presenza è incongrua o inattesa nel contesto ali­mentare e crea preoccupazione in chi mangia. Le differenze che abbiamo qui esemplificato probabilmente non si giustificano solo con una diversa intensità del sentimento provato ma, anzi, potreb­bero anche essere ricondotte a un carattere multidimensionale del dispiacere.

Quando le caratteristiche si mescolano

Nonostante sia legittimo attribuire agli odori numerose dimen­sioni, che abbiamo appunto designato come qualità, intensità e valo­re edonico, bisogna riconoscere che non si tratta di dimensioni indi­pendenti. Cosl, l'intensità spesso condiziona la qualità. Sfumature non percepibili quando l'odorante è più diluito emergono in caso di maggiore concentrazione, mentre altre scompaiono, coperte dalle note predominanti. Questo fenomeno non è così evidente per tutti gli odoranti. Può essere spiegato tramite le proprietà neurofisiologi­che. Come vedremo presto, il mutare di intensità dello stimolo si tra­duce parzialmente nella variazione della quantità di neuroni olfatti-

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42 CAPITOLO TERZO

vi eccitati, mentre la qualità dipende invece dal tipo di neuroni at­tivi. Quando i neuroni aggiungono o sottraggono i loro flussi alla risposta globale dello stimolo nervoso in base ai cambiamenti del­la concentrazione dell'odorante, anche la qualità percepita finisce per variare. Certo vi sono meccanismi neurali destinati a ridurre l'in­terdipendenza tra intensità e qualità, ad esempio nel bulbo olfattivo, ma questi agiscono con efficacia variabile a seconda degli odoranti. Anche il valore affettivo dell'odore è condizionato dall'intensità, ma questa influenza si fa sentire in modo diverso ai due estremi, piace­vole e spiacevole. Di norma, un odore sgradevole di intensità debo­le rimane tale se la concentrazione dell'odorante aumenta, e diventa ancor più sgradevole. Di contro, non è infrequente che odori consi­derati piacevoli a debole o media intensità lo siano meno a intensità elevata. Occorre allora resistere alla tentazione di sovradosare aro­mi ritenuti gradevoli per non rischiare che, più concentrati, diventino fastidiosi. In certa misura l'interdipendenza è reciproca dal momen­to che le stimolazioni più piacevoli, come quelle più sgradevoli, ten­dono ad aumentare l'impressione dell'intensità.

Complessità molecolare e complessità sensoriale

Gli odori presenti in natura e i composti prodotti per simularli sono generalmente una miscela di diversi elementi costitutivi. Se fossimo in grado di prevedere la qualità e l'intensità di tali misce­le partendo dalla qualità e intensità dei loro elementi costitutivi, il compito dei profumieri e dei tecnici degli aromi sarebbe molto più semplice. La ricerca però è ben lontana da un simile risultato. Innanzitutto bisogna tener presente che l'odorato non è in grado di distinguere la complessità molecolare di un composto. Oltre i tre elementi costitutivi, non si ottiene un'impressione di maggior com­plessità aggiungendo nuovi componenti. Analogamente, è stato dimostrato che soggetti umani molto raramente riescono a distin­guere più di tre componenti di una miscela sconosciuta (Laing e Francis 1989; Livermore e Laing 1998), e gli esperti non sono mol­to più abili dei non addetti ai lavori.

Da questo punto di vista, nell'analisi sensoriale, è importante distinguere attentamente la capacità individuale di descrivere un

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odore partendo dall'olfatto da quella di riconoscere le sostanze che la producono. I panel di analisi sensoriale che utilizzano un venta­glio di quindici descrittori per caratterizzare gli aromi di un pro­dotto non sono in condizione, né questo è il loro scopo, di rilevar­ne la composizione chimica. L'esame olfattivo di un composto permette a un esperto di indovinarne gli elementi costitutivi solo nel caso in cui losservatore disponga già di conoscenze sul pro­dotto o sulle procedure di composizione normalmente seguite dai professionisti che sintetizzano le miscele.

Anche in assenza di reazioni chimiche, le miscele odorose gene­rano interazioni tra le qualità sensoriali dei componenti. Si tratta di un campo di ricerca ostico, che richiede ancora indagini siste­matiche. I sintetizzatori di profumi o di aromi possiedono l'espe­rienza adeguata, ma le loro conoscenze pratiche non forniscono regole di applicazione generale. Al massimo è possibile osservare come un componente di forte intensità tenda a imporre alla misce­la la propria qualità individuale.

Sul piano dell'intensità, generalmente le miscele di sostanze odo­ranti sono percepite come meno intense della somma dei loro com­ponenti presi singolarmente. Questo fenomeno prende il nome di ipoadditività. Si possono incontrare anche l'additività semplice, oppure l'iperadditività - quando cioè un composto è più forte di quanto si possa prevedere in base all'intensità dei suoi componen­ti -, ma più raramente. L'intensità della miscela dipende dalla natura dei suoi componenti e dalla loro concentrazione relativa. Nel caso di miscele derivate da due componenti, le più studiate in ambito psicofisico, è stato proposto un modello matematico delle interazioni (Berglund e altri 1973), che permette di calcolare l'in­tensità finale del composto in base all'intensità rispettiva dei com­ponenti e alla loro natura. Gli odori sono rappresentati da vettori di lunghezza proporzionale alla loro intensità. L'orientamento dei vettori definisce un angolo caratteristico per ogni odorante pre­sente. Il vettore che indica l'intensità del composto è costruito come la risultante in un parallelogramma di forze. Un altro model­lo proposto da Paul Laffort (Laffort e Dravnieks 1982) tiene inve­ce conto del fatto che i due componenti non obbligatoriamente soggiacciono allo stesso rapporto intensità/concentrazione.

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44 CAPITOLO TERZO

È possibile classificare gli odori?

Davanti all'estrema varietà di odori, molti spiriti classificatori si sono chiesti da sempre se fosse possibile raggruppare le qualità olfattive in categorie numericamente limitate. Come vedremo pre­sto, la stessa domanda è stata posta per i sapori. La struttura della mente umana è tale da indurla costantemente a ridurre in catego­rie la varietà degli oggetti che cadono sotto la sua percezione. Cosi facendo, mette ordine nella realtà. Di fatto è possibile catalogare gli odori, difficile è procedere secondo criteri chiari. Cosi si distin­guono comunemente odori animali e odori vegetali, odori di fiori e odori di frutta, aromi di frutti rossi e aromi di frutti bianchi, odo­ri di cucina e odori d'ospedale ... Non è però difficile accorgersi che categorie di questo tipo si basano su criteri non necessariamente relativi alla qualità dell'odore in sé, ma inerenti piuttosto alla sua provenienza, ai luoghi in cui lo si può trovare o a qualsiasi altro principio di matrice culturale.

In genere, le classificazioni con maggiori pretese di scientificità si basano sull'idea che alcuni odori sono più fondamentali di altri: scoprirli rappresenterebbe quindi un decisivo passo avanti nella co­noscenza della struttura dell'universo olfattivo. Quest'idea anima­va già la classificazione che Hendrik Zwaardemaker2 aveva ripre­so da Linneo con alcune modifiche. Il grande naturalista aveva individuato gli odori aromatici dell'alloro, fragranti del tiglio, del giglio e del gelsomino, d'ambrosia dell'ambra o del muschio, aglia­cei dell'aglio, fetidi o caprini di alcuni acidi grassi corti, puzzolen­ti delle solanacee, nauseabondi delle piante putrescenti. Zwaarde­maker aggiunse gli odori eterei della frutta matura e gli odori empireumatici del caffè dopo la torrefazione, del pane tostato e del tabacco.

Negli anni sessanta, un ricercatore americano, John Amoore (1967, 1977), adottò un principio già noto ai suoi predecessori, sostenendo l'ipotesi che i numerosissimi odori risultassero da un numero ristretto di odori di base o «odori primari» combinati tra

2 Nel suo libro sulla fisiologia dell'olfatto pubblicato nel r895, Zwaadermaker offre notevo­li intuizioni sul funzionamento del sistema olfattivo. Le sue idee influenzarono molte correnti di ricerca, sviluppatesi poi fino al giorno d'oggi.

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loro. Questi sarebbero determinati dall'esistenza, sulle cellule ol­fattive, di particolari siti recettori definiti dalle loro proprietà ste­reochimiche. Amoore fondava la propria argomentazione sull'esi­stenza di anosmie selettive, deficit di ricezione che privano alcuni individui della sensibilità per alcuni odori della stessa famiglia (ad esempio gli odori rancidi degli acidi butirrico, valerico e iso-valeri­co) senza compromettere la percezione di tutti gli altri.

Come altri che lo avevano preceduto,3 Amoore riteneva che l'a­nosmia selettiva potesse essere un indizio utile per decifrare il codi­ce olfattivo. Nonostante questo legame tra anosmia selettiva e assenza o malfunzionamento di un recettore non sia stata ancora dimostrato con certezza, si tratta di un'ipotesi comunque plausi­bile; tuttavia il numero molto alto di recettori olfattivi individua­ti fino a oggi (vedi infra) rende illusorio, e fondamentalmente vano, il tentativo di ricavare la struttura del meccanismo di ricezione da una classificazione naturale delle qualità olfattive, tutta da fare, e di un inventario, problematico, delle anosmie selettive.

La percezione olfattiva non è costruita sulla base di tratti indi­pendenti facilmente distinguibili, interscambiabili e ri-assemblabi­li, come accade nella percezione visiva con le linee, gli angoli, i colori. Eppure, nonostante la qualità degli odori sia valutabile com­plessivamente più che analiticamente, i tecnici degli aromi e i pro­fumieri cercano di caratterizzarla elencando le note o sfumature che sembra contenere. Questo metodo non è applicato solo alle sostanze composte da più molecole, ma anche alle sostanze chimi­camente pure. I descrittori utilizzati, come ad esempio «sentore di bosco» o «sentore di gelsomino», il più delle volte si riferiscono ad altri odori, e così non è possibile interpretare queste note come componenti più semplici degli odori, ma, piuttosto, come analoghe ad altri odori. È la stessa conclusione a cui eravamo arrivati con il nostro studio dell'analisi sensoriale.

Nel caso ci sia la necessità di facilitare la comunicazione lingui­stica sugli odori, a scopi tecnici o industriali, gli esperti cercano di accordarsi su un numero limitato di descrittori. Talvolta i profu­mieri di una stessa società si dedicano a questa difficile mediazio­ne linguistica. Lo stesso fanno i membri di un pane! per l'analisi

3 Zwaadermaker aveva già avanzato quest'ipotesi. Guillot (1948) è stato tra i primi a inda­gare le anosmie selettive.

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CAPITOLO TERZO

sensoriale. I sentori accettati, ossia gli odori destinati a essere im­piegati come riferimento, sono probabilmente più familiari di altri e quindi meglio noti, sempre che non siano scelti per la loro parti­colare rilevanza sensoriale.

Per quanto sia difficile stabilirne il fondamento, le categorie di odori hanno una sfera di applicazione abbastanza vasta: vale quin­di la pena di capire come vengono create. La teoria dei prototipi sviluppata da Eleanor Rosch (1978) sulla base di studi antropolo­gici fornisce un quadro teorico molto adatto alla classificazione del­le entità olfattive, i cui sottoinsiemi non hanno mai confini rigidi. 4

Secondo Rosch, le classi sono costruite in base a un esemplare, det­to prototipo, considerato come il migliore rappresentante di una determinata classe. Gli altri esemplari risultano disposti attorno al prototipo a una distanza inversamente proporzionale alla simila­rità, e, nel loro insieme, gli elementi della stessa classe possiedono tutti un'aria di famiglia. Cosi l'aroma di mela potrebbe rappresen­tare un livello di riferimento oltre il quale troveremmo un livello sovraordinato, quello relativo all'aroma di frutta, e un livello sot­toordinato in cui incontreremmo l'odore della mela Golden.

Particolari da chiarire

Al termine di questa panoramica sulle caratteristiche principali tipiche della percezione olfattiva e dopo aver ricordato, nel capi­tolo precedente, gli interrogativi posti dall'analisi sensoriale degli alimenti, siamo ora in grado di precisare meglio quali lumi andia­mo cercando nello studio biologico del sistema olfattivo. Più nel dettaglio, tenteremo di spiegare le proprietà degli odori determi­nate dalla parte più periferica del sistema, in sostanza al livello del­le cellule recettrici degli odoranti e delle loro connessioni con l' a­vamposto cerebrale costituito dal bulbo olfattivo (fig. 2). Com'è noto, non tutte le proprietà degli odori vengono definite in questa prima tappa. Il messaggio olfattivo è memorizzato più a valle nel

4 La teoria dei prototipi si distingue dalla teoria cosiddetta classica, secondo cui il raggrup­pamento di oggetti in una stessa classe - o la loro designazione tramite un unico termine - si effettua in base alle proprietà comuni di tali oggetti: l'appartenenza a una classe è cosl determi­nata in modo logico da un insieme di condizioni necessarie e sufficienti.

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Figura z Il sistema olfattivo. Lo schema centrale mostra la mucosa olfattiva che ricopre i due percor­si seguiti dall'aria: la via respiratoria e dell'inalazione, o via «ortonasale», e la via oppo­sta, o retronasale, imboccata dagli aromi sprigionati in bocca. Le immagini nei riquadri rappresentano, dall'alto al basso, le relazioni tra epitelio olfattivo e bulbo olfattivo, la cel­lula recettrice e un esempio di recettore di odorante inserito nelia membrana di un ciglio.

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CAPITOLO TERZO

cervello, dove entra in relazione con gruppi neurali che l'associa­no ad altri messaggi, lo coinvolgono in processi di apprendimento, lo rendono partecipe dell'elaborazione degli stati affettivi, lo in­scrivono nella coscienza e gli consentono di orientare il comporta­mento. Avremo modo di seguire questo processo nei capitoli suc­cessivi. In ogni caso, sin dal principio lattività nervosa, non ancora in forma di odore, è strutturata in modo da consentire, innescare o inibire centinaia di trasformazioni da parte dei neuroni dei livel­li superiori. Sin da quando l'odore comincia a strutturarsi, alcuni dei suoi tratti salienti sono già distinguibili. E sono proprio queste specificità che intendiamo scoprire, dopo aver ricordato e spiega­to in dettaglio alcune caratteristiche particolari.

Tra queste si distingue innanzitutto la notevole sensibilità del­l'olfatto, spesso capace di rilevare composti volatili presenti nell'a­ria respirata con una concentrazione che non supera il pbb, ossia la «parte per bilione» o parte per miliardo. Questa sensibilità si mostra assai variabile a seconda della natura degli odoranti e dei soggetti. Un caso estremo sono proprio le anosmie selettive. Come abbiamo visto, le qualità olfattive sono percepite in modo globale e poco ana­lizzabile, sono estremamente numerose, possono essere distinte e anche riconosciute se percepite singolarmente, ma è difficile dar loro un nome e non siamo in grado di individuarle quando si pre­sentano in composizione.

Un numero impressionante di recettori olfattivi

Già da molti anni i ricercatori avevano il sospetto che i mecca­nismi di ricezione degli odoranti coinvolgessero delle proteine. Il ragionamento procedeva per analogia, poiché sono delle proteine a riconoscere le sostanze chimiche, i neurotrasmettitori, responsa­bili della comunicazione tra neuroni. Quest'ipotesi è stata confer­mata una quindicina di anni fa, grazie ad alcuni studi realizzati pri­ma sul genoma dei roditori da Linda Buck e Richard Axel (1991: le ricerche dei due autori sono state coronate dal Nobel in fisiolo­gia e medicina nel 2004), poi su quello dell'uomo e di numerose altre specie. I recettori olfattivi (fig. 2) fanno parte di una famiglia molto ampia di proteine dette a sette domlni transmembrana, per

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il loro modo di legarsi tramite sette segmenti nella membrana cellu­lare. Sono anche caratterizzati dall'associazione con alcune protei­ne fondamentali per il loro funzionamento, le proteine G. Nella stessa macrofamiglia di proteine si trovano parimenti i fotorecet­tori della retina, le opsine e altri recettori di neurotrasmettitori, come la dopamina e i recettori di alcuni ormoni. Questi recettori sono presenti sulle ciglia dei neuroni sensoriali localizzati nella mu­cosa olfattiva.

Nell'uomo la mucosa olfattiva (fig. 2), come spesso viene chia­mato l'organo dell'odorato, è una regione abbastanza ridotta - qual­che centimetro quadrato in ogni narice - e non molto differenziata dalla mucosa nasale, che occupa una parte del c~rnetto superiore e si estende sulla parete mediale o setto nasale. E composta da due strati sovrapposti. Il più profondo e spesso contiene i vasi sangui­gni, ghiandole secernenti il muco, tessuto connettivale, e numerosi reti nervose che riuniscono gli assoni dei neuroni recettori. Si trat­ta della sottomucosa. Lo strato più superficiale è l'epitelio olfattivo, in cui si trovano le cellule recettrici. Si tratta in realtà di neuroni dalla forma abbastanza inusuale poiché all'estremità esterna, il den­drite, possiedono un ciuffo di ciglia su cui sono state individuate le proteine recettrici. Un assone molto sottile, o fibra nervosa, si estende dal corpo del neurone e raggiunge le ramificazioni del ner­vo olfattivo.

L'epitelio racchiude due categorie di cellule: cellule dette di sostegno, sorta di cellule gliali, e cellule dette basali, che hanno la notevole proprietà di dividersi per dar vita a nuovi neuroni, ben oltre la fase di sviluppo del sistema nervoso. Molto efficace in numerosi animali, questo meccanismo di rinnovamento e ripara­zione dell'epitelio olfattivo lesionato sembra esserlo molto meno nell'uomo, se bisogna giudicare dalla proporzione abbastanza bas­sa di casi di ripristino della funzione olfattiva dopo anosmie dovu­te a infezioni o traumi.

La proprietà più caratteristica dell'epitelio olfattivo è rappre­sentata dall'alto numero e dalla grande varietà di recettori olfatti­vi. Ne sono stati identificati più di mille tipi diversi. Le proteine recettrici possiedono regioni la cui sequenza di aminoacidi è mol­to simile da un recettore all'altro. Queste sequenze, dette sequen­ze consenso, danno ragione dell'appartenenza alla macrofamiglia.

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CAPITOLO TERZO

Tuttavia, in altre regioni della proteina, dette ipervariabili, la se­quenza di aminoacidi muta da un recettore all'altro. È grazie a que­sta diversità che i recettori sono identificabili singolarmente. Ed è ancora grazie a questa diversità che sono in grado di legarsi a mol­tissime molecole odorose diverse, riuscendo cosl a rilevarle. In ef­fetti, una molecola può attivare un recettore solo se vi trova una re­gione in cui può instaurare legami a bassa energia secondo una geometria tridimensionale adeguata.

La notevole capacità discriminativa del sistema olfattivo dipen­de dalla cosiddetta selettività dei recettori delle superfici cellulari, in altre parole dal fatto che, a seconda della sequenza di aminoa­cidi, sono sensibili a un certo numero di sostanze odoranti ma non a tutte. Abbiamo cosl una spiegazione della grande estensione del mondo degli odori. Lo spettro delle molecole rilevabili come odo­ri è immenso perché il numero dei recettori olfattivi è a sua volta molto ampio, ognuno con una configurazione ben definita nella zona ipervariabile.

Quando una molecola di piccole dimensioni, come appunto le molecole degli odoranti, incontra sulla superficie della cellula olfat­tiva un recettore che possiede un legame adeguato, il recettore vie­ne attivato e ne consegue nella cellula una cascata di reazioni mole­colari enzimatiche, che, alla fine, generano un composto detto secondo messaggero. È questo messaggero intracellulare - il primo messaggero è l'odorante in sé - che, fissandosi su canali ionici, atti­va un'altra serie di eventi, questa volta elettrici, aumentando la per­meabilità della membrana cellulare ad alcuni ioni. Questa sequenza di eventi biochimici ed elettrici è chiamata trasduzione. Una volta penetrati improvvisamente nella cellula, gli ioni, particelle portatri­ci di cariche elettriche, generano una corrente elettrica. Se si atti­vano insieme un numero sufficiente di recettori e quindi di canali ionici - e questo dipende dalla concentrazione dell'odorante - la corrente generata è abbastanza forte per stimolare il propagarsi di un flusso o di una serie di flussi, o potenziali di azione, lungo l'as­sone del neurone recettore. Questi flussi rappresentano l'unico mez­zo per il neurone di segnalare al cervello la propria attivazione.

Quando una molecola dell'odorante attiva un recettore, l'ener­gia dei legami fisici, intermolecolari, messa in gioco è molto debo­le. Tuttavia, alcune tappe della cascata enzimatica cosl innescata

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LA NASCITA DEGLI AROMI

possiedono un notevole potenziale di amplificazione, in quanto ogni molecola, una volta attivata, ne attiva a sua volta molte altre. Alla fine, nonostante il basso livello energetico implicato nel lega­me molecolare iniziale, basta che un numero abbastanza limitato di recettori siano attivati nello stesso momento per liberare l'energia dell'impulso, comparativamente molto più elevata. Almeno in par­te è proprio su questi meccanismi di amplificazione dei segnali che si fonda la grande sensibilità del sistema olfattivo. Un altro fatto­re favorevole è il gran numero di cellule olfattive - centinaia di migliaia - che generano impulsi in contemporanea.

Alcune molecole odoranti attivano un determinato recettore, mentre altre no. Si tratta della nozione di selettività, che si colle­ga alla specificità dell'attivazione. I recettori hanno cosl un profi­lo di sensibilità definito dall'insieme degli odoranti in grado di ec­citarli. Non ci sono esempi di recettori olfattivi il cui profilo di specificità sia noto al cento per cento. Alcuni sembrano partico­larmente selettivi, nel senso che, tra le molecole impiegate per sti­molarli, vengono attivati solo da alcune, poco numerose. Tuttavia, per ovvie ragioni, i ricercatori sono stati in grado di utilizzare solo una piccolissima frazione di tutti gli stimoli possibili e niente vie­ta di pensare che le molecole non testate avrebbero potuto inne­scare delle risposte.

Apparentemente, la selettività piuttosto rigida riscontrata per i recettori è molto superiore alla selettività delle cellule olfattive osservata in base alla registrazione delle loro risposte elettriche. 5 Si potrebbe pensare, allora, che ogni cellula porta diversi tipi di recet­tori di odoranti, ognuno dei quali contribuisce al profilo di sensi­bilità della cellula.6 In realtà però le cose non stanno cosl: un neu­rone sensoriale sintetizza e ospita nella sua membrana un solo tipo di recettore. Questo almeno è quanto affermato dai biologi mole­colari che dispongono dei test necessari, e non c'è ragione di met-

5 In seguito ai lavori di Robert Gesteland negli Stati Uniti (Gesteland e altri 1965), tra gli anni settanta e ottanta, il gruppo di Lione condusse uno smdio sistematico sulle proprietà delle cellule recettrici della rana. André Duchamp, Marie-Françoise Revial, Gilles Sicard e chi scrive furono gli autori di quella ricerca, a cui si un) anche Patrick Mac Leod. Studi più recenti di Duchamp-Viret e colleghi (1999) hanno indicato che le cellule recettrici dei mammiferi hanno una selettività abbastanza simile a quella delle cellule dei batraci.

6 È questa l'interpretazione che per molto tempo è apparsa più plausibile ai ricercatori del gruppo di Lione.

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52 CAPITOLO TERZO

tere in dubbio questa conclusione accettata quasi all'unanimità. 7

Rimane quindi da capire come un neurone che esprime un unico tipo di recettore, per di più con una sensibilità piuttosto limitata, possa avere un ampio spettro di risposte.

La costruzione del!'« immagine olfattiva»

Il messaggio dei neuroni recettori

Dire che un recettore olfattivo riconosce un odorante non è del tutto esatto. In realtà il recettore non riconosce una molecola in quanto tale; ne riconosce spesso solo una parte, quella attraverso cui quella molecola penetra nel suo sito e si lega a lui per un breve istan­te. Di conseguenza, se molte molecole presentano una parte simile, esse verranno confuse dai recettori sensibili a quella parte comune, purché il resto della molecola non ostacoli l'accesso al sito attivo. D'altra parte, una molecola può legarsi a un recettore tramite una delle sue parti e ad altri recettori con parti diverse.

A causa di questa imperfetta discriminazione a livello molecola­re, l'attività di un neurone non rappresenta un'informazione uni­voca per il cervello. Per eliminare l'ambiguità, il cervello deve disporre di messaggi provenienti da una combinazione di neuroni con spettri di sensibilità diversi, tali però da sovrapporsi almeno in parte. Si tratta della nozione di codice di popolazione, chiama­ta anche codice across-fiberpattern, secondo un'espressione presa in prestito all'ambito delle fibre del nervo facciale per cui questa modalità di riproduzione dell'informazione è stata descritta per la prima volta (Pfaffmann 1956). Significa che l'informazione è distribuita su un insieme di neuroni invece di essere confinata su uno solo o su un numero ristretto di neuroni identici. Tenendo conto della quantità di recettori non rigidamente selettivi, le pos­sibilità combinatorie risultano estremamente ricchè e in effetti per­cepiamo proprio un gran numero di odori diversi.

Abbiamo adesso dati a sufficienza per capire come viene strut­turato il messaggio sensoriale che lascia l'epitelio olfattivo serven-

7 Recentemente, però, l'ipotesi di un tipo di recettore unico espresso da ogni singola cellula è stata rimessa in discussione (Mombaerts 2004).

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LA NASCITA DEGLI AROMI 53

dosi del nervo olfattivo che raggruppa la totalità degli assoni dei neuroni recettori, ossia, nell'uomo, una decina di milioni per ogni narice. Quando un'ondata di aromi si presenta alla mucosa olfatti­va, alla normale attività di trasmissione si aggiunge una nuova serie di impulsi, proprio come quando un segnale si aggiunge al rumore di fondo. Tutte le informazioni relative alle molecole inalate sono contenute in questo messaggio.

Complessivamente, il cervello dovrà compiere su questo mes­saggio delle operazioni analoghe al riconoscimento formale. Il ter­mine «formale» è inteso qui in senso astratto, ma per facilitarne la comprensione possiamo servirci di una metafora spaziale. Immagi­niamo che ogni neurone recettore attivo emetta un segnale lumi­noso. Chiunque fosse in grado di osservare l'epitelio sensoriale vedrebbe allora apparire il messaggio, come un'immagine o una mappa bidimensionale. Due odori diversi produrrebbero due map­pe parzialmente differenti e la similarità qualitativa tra loro sareb­be proporzionale al grado di somiglianza delle rispettive mappe.

Il bulbo olfattivo

Tocca prima al bulbo olfattivo, poi alle altre strutture situate a valle del bulbo, in particolare alla regione della corteccia olfattiva primaria, ricevere il messaggio e trasmetterlo a loro volta, non sen­za averlo parzialmente trasformato. La ricezione del messaggio tra­smesso dai milioni di assoni si svolge nei glomeruli del bulbo olfat­tivo. Si tratta di piccole strutture, più o meno sferiche, abbastanza caratteristiche per poter essere contate - ammontano a qualche migliaio -, in cui avviene l'incontro sinaptico tra le terminazioni delle fibre del nervo olfattivo e l'estremità recettrice, o dendrite, dei neuroni che fungono da trasmettitori, chiamati cellule mitrali.

Due fatti notevoli meritano in particolare di essere sottolineati. Innanzitutto, il numero delle cellule mitrali che trasmettono il mes­saggio dei recettori è circa mille volte inferiore a quello delle cellu­le recettrici. In altre parole, i glomeruli sono luoghi di forte con­vergenza degli impulsi periferici. In questo modo, l'informazione relativa all'odore che abbandona il bulbo olfattivo è suddivisa su un numero di canali di trasmissione mille volte inferiore rispetto al suo ingresso nel bulbo. L'altro fatto significativo riguarda il modo in cui

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si realizza la convergenza degli impulsi nei glomeruli. Gli assoni del nervo olfattivo non raggiungono i glomeruli in modo casuale. La proiezione è organizzata in modo complesso. Tutti gli assoni che penetrano in un determinato glomerulo hanno in comune l' appar­tenenza a cellule recettrici portatrici dello stesso tipo di recettori olfattivi (Vassar e altri 1994; Ressler e altri 1994). A causa di que­sta convergenza selettiva, è come se la raffinatissima sensibilità del-1' epitelio olfattivo fosse trasferita alla superficie del bulbo.

A parte le terminazioni del nervo olfattivo e delle cellule mitrali, il bulbo olfattivo contiene altri elementi neurali. Si tratta di picco­li neuroni locali, interneuroni inibitori, coinvolti in numerosi cir­cuiti di retroazione, che hanno essenzialmente una funzione re­golatrice sul livello di attività delle cellule mitrali. Uno dei compiti più evidenti degli interneuroni è quello di realizzare la cosiddetta inibizione laterale tra le cellule mitrali che innervano i glomeruli vicini. Quando un glomerulo è fortemente attivato da uno stimolo olfattivo, invia ai glomeruli circostanti un'inibizione che blocca le eventuali attivazioni di intensità più debole. Se il contrasto tra neu­roni fortemente attivi e quelli che lo sono di meno è molto marca­to, allora la nettezza dell'immagine olfattiva risulta accresciuta. Si tratta senza dubbio di un elemento che aiuta a distinguere odori diversi tra loro.

Un'interpretazione

In questa prospettiva è quindi possibile spiegare alcune pro­prietà degli odori di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti. Come abbiamo detto, le qualità olfattive non sembrano struttura­te a partire da elementi discreti e permutabili. In effetti avremmo molte difficoltà se dovessimo indicare elementi di questo genere, a parte i neuroni recettori in sé, che però sono troppo numerosi perché ognuno di essi possa portare un contributo riconoscibile all'immagine globale.

Abbiamo anche detto che individui esercitati riescono a ricono­scere, nell'odore di una miscela o anche in quello di una sostanza semplice, alcune note, caratterizzate tramite descrittori. Apparen­temente questo equivale a identificare una forma all'interno di

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un'altra forma. Nessuno sa con precisione in che modo gli insiemi di neuroni cerebrali portino a termine questa operazione. Possia­mo supporre, tuttavia, che la memoria svolga un ruolo determi­nante (Wilson e Stevenson 2003). Nel meccanismo del riconosci­mento degli odori, quando la forma olfattiva arriva ai nostri sensi, viene automaticamente confrontata con gli odori già stoccati nella memoria. Dal confronto emergono forme note, che hanno con l' og­getto percepito una somiglianza abbastanza accentuata per giun­gere alla coscienza. Questa reminiscenza parziale, identificabile, può essere fugace, sostituita dall'emergere di altre forme concor­renti. Da questo processo dipende la difficoltà incontrata a volte nel confermare un sentore riconosciuto solo per un breve istante.

Quanto abbiamo appena detto si applica anche al problema del­la qualità dei composti. In alcuni composti, infatti, la forma globale è percepita come eterogenea, anche se gli elementi costitutivi non sono identificabili. In altri casi, la sensazione risulta omogenea, e offre pochi appigli a un tentativo di analisi, i diversi elementi sem­brano essersi fusi insieme. Le singole forme dei componenti sono allora troppo embricate per essere scomposte. Per quanto invece riguarda l'intensità di un composto, abbiamo visto come sia diffi­cile fare previsioni in base all'intensità degli elementi costitutivi presi singolarmente. La spiegazione è almeno in parte da cercare nella selettività, molto imperfetta, dei recettori. Tra le diverse molecole che danno vita a un composto alcune competono per uno stesso recettore, capace di rispondere a ognuna di esse, ma con diversa efficacia. In queste condizioni una semplice additività degli effetti è improbabile, però non è affatto chiaro perché, aggiungen­do una certa quantità di molecole B a una concentrazione di mole­cole A, si registri un aumento di intensità minore di quanto acca­drebbe invece aggiungendo lo stesso numero di molecole A.

C'è poi un altro problema che possiamo riprendere, quello delle anosmie selettive e del loro significato. Come abbiamo visto, un'a­nosmia parziale si poteva spiegare con l'assenza o il cattivo fun­zionamento di un certo recettore. Ma questa interpretazione non è priva di inconvenienti. Innanzitutto, non è facile immaginare come un solo recettore, messo fuori gioco, possa essere decisivo nella mancata percezione di un odorante, se ammettiamo, in base alla loro scarsa selettività, che una singola sostanza possa essere

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CAPITOLO TERZO

rilevata da diversi tipi di recettori. Bisognerebbe ammettere che le anosmie selettive sono possibili solo per odoranti rilevabili da un unico recettore o da un piccolo numero di recettori (Wysocki e altri 1989). Dobbiamo pensare che l'esposizione all'odore abbia indot­to la produzione di recettori o attivato il funzionamento di recet­tori prima inattivi? Bisogna considerare l'anosmia all'androsteno­ne come un caso a parte, in quanto presente in un numero molto alto di soggetti? O forse possiamo considerare anche le altre ano­smie selettive, più rare, passibili di miglioramento con l'esposizio­ne allo stimolo prima ignorato? Anche se la domanda rimane aper­ta, possiamo comunque ricordare che un analogo recupero della sensibilità è stato ottenuto esponendo all' androstenone alcuni topi appartenenti a una specie normalmente insensibile alla sostanza (Wang e altri 1993).

In questo caso la ricomparsa della sensibilità è stata confermata dai segnali elettrici di risposta allo stimolo da parte dell'epitelio olfattivo. Il processo di recupero sembra quindi svolgersi non a livello centrale, ma proprio al livello più periferico.

Le anosmie selettive richiamano l'attenzione sui geni dei recetto­ri proprio perché sembrano metterne in discussione il funzionamen­to. Negli ultimi anni sono stati ricavati alcuni dati di genetica mole­colare sull'immenso patrimonio di questi geni, dati che aprono un capitolo nuovo nella conoscenza del sistema olfattivo, a partire dal­la sua evoluzione. Di questo parleremo nel prossimo capitolo.

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4.

L'eredità olfattiva dell'uomo

Il genoma umano e quello degli altri animali contengono quasi lo stesso numero di geni olfattivi. Tuttavia, più della metà si sono dete­riorati nel corso dell'evoluzione e sono diventati incapaci di produrre recettori olfattivi. Questo processo era già cominciato nei grandi pri­mati, nel momento in cui si andava affinando la capacità di distingue­re i colori. Meno geni e quindi meno recettori: con la specie umana non si celebra certo il trionfo dell'odorato. Non dobbiamo però trarre con­clusioni affrettate e dedurne che l'odorato non sia più fonte di piacere.

Nel capitolo precedente abbiamo descritto il sistema olfattivo, dando per scontato che si trattasse di quello umano, mentre molti dei dati che hanno contribuito alla nostra descrizione sono stati ricavati dagli animali. In effetti, almeno fino a un certo punto, è abbastanza legittimo estrapolare dati dall'animale per applicarli all'uomo, in quanto l'organizzazione del sistema olfattivo e i prin­cipi del suo funzionamento sono molto simili in tutti i mammiferi. Si tratta anche di un notevole esempio di conservazione di un appa­rato sensoriale lungo il processo evolutivo delle specie. Tuttavia, pur su questo sfondo innegabilmente fatto di somiglianze, si regi­strano differenze quantitative non trascurabili, proprio perché riguardano in primo luogo il sistema olfattivo umano. Ci concen­treremo allora su un campo di ricerca che negli ultimi anni ha por­tato le prove più evidenti di un'evoluzione dell'olfatto nella nostra specie: la genetica molecolare dei recettori.

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CAPITOLO QUARTO

I geni olfattivi nell'uomo: geni e pseudogeni

Oggi conosciamo i geni dei recettori olfattivi nell'uomo. Asso­migliano molto a quelli delle altre specie, al punto che è possibile trovare nel genoma di una specie la sequenza di DNA corrispon­dente nella nostra a un gene olfattivo. Il patrimonio genetico dei recettori olfattivi presenta però una differenza rilevante rispetto a quello del topo, del ratto e di numerosi altri mammiferi: molti dei geni olfattivi umani, circa i due terzi, sono pseudogeni, assomi­gliano cioè in tutto e per tutto a geni, ma non si esprimono in recet­tori (Rouquier e altri 2000). Sono presenti, disseminati su quasi tutti i cromosomi, ma solo 350 circa sono in grado di stimolare la sintesi di proteine recettrici. Gli altri sono stati senz'altro attivi in qualche lontano antenato della specie umana, oggi però non lo sono più. Ma allora, in questa consistente riduzione dei geni attivi, e quindi dei recettori capaci di rispondere agli odoranti, bisogna for­se vedere un nuovo segnale o addirittura una causa della declinan­te funzione dell'odorato?

Da tempo si discute sul confronto tra le capacità olfattive degli esseri umani e quelle degli altri animali. Per lo più c'è la tendenza a descrivere l'uomo come microsmatico, come animale dall'odora­to relativamente poco sviluppato. Da un punto di vista puramente anatomico, è vero che il volume cerebrale dedicato dall'Homo sapiens all'elaborazione dei messaggi olfattivi appare modesto rispetto a quello mobilitato per la vista o l'udito. Benché siamo sul-1' ordine dei milioni, il numero delle cellule recettrici è piuttosto scarso se confrontato con quello di altre specie di mammiferi. I bul­bi olfattivi hanno dimensioni ridotte; la corteccia olfattiva prima­ria, molto estesa nel cervello dei roditori, nel nostro cervello occu­pa una superficie relativamente ristretta. Il rapporto invece si rovescia in molti animali detti macrosmatici. Benché questi detta­gli anatomici non siano di per sé indizio di prestazioni ridotte, pos­sono comunque essere interpretati in questa direzione. Sul piano della funzionalità delle prestazioni, spesso l'attenzione viene atti­rata dalla straordinaria acutezza olfattiva di certe specie - il cane è tra i più citati-, la cui inconsueta sensibilità suscita sempre mera­viglia, ma gli studi comparativi e sistematici sulla soglia di ricezio-

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L'EREDITÀ OLFATTIVA DELL'UOMO 59

ne e identificazione nell'animale e nell'uomo sono piuttosto rari. E sono così rari perché si tratta di studi difficili. Ogni tanto compa­re un lavoro che finisce per ritenere infondate le dichiarazioni sul­l'inferiorità olfattiva umana. Senza alcun dubbio bisogna diffida­re delle generalizzazioni, ricordando che gli esseri umani possono essere molto abili a fiutare certi odori e assolutamente scarsi a fiu­tarne altri. Ciò nonostante, la scoperta nell'uomo di numerosi geni non operativi è destinata a riaccendere la discussione.

I risultati delle ricerche sul genoma olfattivo umano sollevano molti interrogativi. Il primo riguarda le conseguenze che derivano all'organismo dal possesso di un numero maggiore o minore di recettori olfattivi. Dal momento che i recettori servono a captare le molecole volatili nell'ambiente, il buonsenso porterebbe a pen­sare che un organismo con più recettori sia più abile nel rilevare le molecole. «Più abile» può significare che ne rileva un numero mag­giore, che è cioè globalmente più sensibile, oppure che le distingue meglio, individuandole più facilmente. Questa ultima ipotesi sem­bra più verosimile. Con un numero maggiore di recettori a dispo­sizione per esaminare le molecole, si possono individuare differen­ze più sottili. Avere meno recettori significherebbe quindi avere meno capacità di distinguere gli odori. Ma questo è vero solo nel caso in cui il sistema si sforzi di esercitare lo stesso livello di atten­zione su tutte le sostanze volatili. Le cose vanno diversamente se invece si specializza, se rinuncia alla capacità di riconoscere alcu­ne famiglie di molecole meno importanti per la specie, per esem­pio perché quella specie vive in un ambiente diverso da quello conosciuto dai suoi antenati. Anche con un numero ridotto di recettori, il sistema può conservare ottime capacità in un determi­nato settore dell'universo olfattivo, rinunciando alle proprie pre­stazioni in un altro. Cosa succede allora nel caso degli esseri umani?

Ricerche recenti (Zhang e Firestein 2002) stanno cominciando a far luce sul dibattito, grazie al confronto tra il genoma olfattivo dell'uomo e quello dei topi. I ricercatori sono partiti dall'identifi­cazione dei recettori olfattivi nei topi, servendosi di una banca dati del genoma di questa specie, ormai decifrato pressoché completa­mente. Hanno trovato quasi 1300 geni di recettori olfattivi, clas­sificati in 228 famiglie, a seconda della similarità delle sequenze. Poiché anche il genoma umano è noto, è stato possibile identifica-

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60 CAPITOLO QUARTO

re e classificare i geni intatti dei recettori olfattivi della nostra spe­cie, per tentare poi di associarli alle famiglie corrispondenti nei topi. Il confronto tra le due classificazioni ha dato risultati molto interessanti, mostrando come i geni umani ancora attivi hanno i loro omologhi nei topi sparsi sull'intero genoma olfattivo del rodi­tore. Sarebbero potuti scomparire in alcune famiglie e rimanere in altre, ma non è cosl. Un buon numero compare anche in una clas­se chiamata classe 1, che raggruppa geni simili a quelli di cui già erano dotati i pesci. Bisogna allora concludere che il sistema olfat­tivo umano è in grado di accedere allo stesso universo di odori degli altri mammiferi? Probabilmente sl. L'interpretazione però va sfu­mata, infatti non è scontato che i recettori classificati come affini in base alla loro sequenza di aminoacidi riconoscano necessaria­mente molecole chimicamente simili e, quindi, simili in qualità olfattiva.

Vedere meglio i colori ma avere meno fiuto?

Un altro interrogativo sollevato dall'abbondanza degli pseudoge­ni riguarda il significato evolutivo della loro presenza. Dal momen­to che non possono più controllare la sintesi dei recettori, perché sono rimasti nel genoma? Secondo un'ipotesi sarebbero rimasti per­ché, da un lato, non sono dannosi, e, dall'altro, la loro mutazione non ha avuto conseguenze troppo gravi sulla sopravvivenza dei por­tatori. Se il deterioramento del gene avesse messo in pericolo l'or­ganismo che ne era portatore, il gene sarebbe sicuramente scom­parso dalla popolazione insieme al portatore. Supponiamo che una mutazione avesse privato un topo o un coniglio appena nati della percezione di un determinato indice olfattivo, fondamentale per orientarli verso la mammella materna: il gene mutato non avrebbe avuto futuro, sarebbe scomparso con il cucciolo, morto ben presto di fame. Se invece la mutazione riguarda la percezione di odoranti privi di rilevanza biologica vitale per la specie in questione, il gene mutato può continuare a esistere. Se quindi una specie può perde­re molti geni di recettori olfattivi senza vedere compromesso il pro­prio futuro, questo significa che le funzioni un tempo associate a quei geni nei suoi antenati non sono più vitali. Anche nel caso di

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L'EREDITÀ OLFATTIVA DELL'UOMO 61

sostanze biologicamente importanti, i recettori olfattivi sono abba­stanza numerosi e abbastanza ridondanti perché il cedimento di uno di essi non abbia conseguenze drammatiche. Diversa portata avreb­be evidentemente la perdita di due terzi del genoma olfattivo.

L'esistenza di pseudogeni di recettori olfattivi non è del resto una singolarità della specie umana. Nonostante vi siano diversi modi di verificare la funzionalità di un gene, esaminandone la sequenza di nucleotidi, si calcola che gli pseudogeni rappresentino già il 20 per cento di tutti i geni olfattivi nel topo e nel cane, spe­cie la cui reale competenza olfattiva non è messa in discussione. La presenza di pseudogeni sarà allora da attribuire alla natura ridon­dante e alle consistenti dimensioni del genoma olfattivo.

Cosa accade però in specie più vicine all'uomo? Due équipe, in Germania e Israele, hanno studiato congiuntamente il problema, esaminando il genoma di 19 specie di primati (Gilad e altri 2004).

Queste specie includevano un umano, quattro grandi primati, sei scimmie del Vecchio Mondo, sette scimmie del Nuovo Mondo - quelle dotate di coda - e una proscimmia. I ricercatori hanno pre­so un campione a caso di 100 geni del repertorio olfattivo di ogni specie e hanno calcolato la proporzione di pseudogeni in ogni cam­pione. In un primo gruppo si trovano le scimmie del Nuovo Mon­do - come il cebo cappuccino, la scimmia scoiattolo, lo uistitl - e una proscimmia, il lemure. In queste specie il tasso di pseudogeni, di poco inferiore al 20 per cento, è molto vicino a quello dei topi. Il secondo gruppo comprende i grandi primati come lo scimpanzé, l' orangotango e il gibbone, oltre alle scimmie del Vecchio Mondo, come le rhesus e il babbuino. In questo secondo gruppo, il tasso di pseudogeni aumenta fino a raggiungere un valore vicino al 30 per cento. Curiosamente, la scimmia urlatrice non si trova nel primo gruppo, con i cugini del Nuovo Mondo, ma con i grandi primati. Infine, un salto ulteriore si compie con l'unico esemplare del grup­po umano che raggiunge la vetta del 50 per cento. Questi dati indi­cano che la riduzione dei geni olfattivi funzionali si accentua una prima volta nei grandi primati e nei primati non umani del Vecchio Mondo e una seconda volta nell'uomo.

È interessante notare come la posizione sorprendente della scim­mia urlatrice nel gruppo dei primati ad alta percentuale di pseudo­geni non sia la sola particolarità di questa specie. Una particolarità

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ulteriore riguarda infatti un altro organo di senso, la retina, e un' al­tra funzione, la vista. Questa scimmia possiede tre geni di fotore­cettori che le assicurano una vista tricromatica simile a quella dei grandi primati, mentre le altre scimmie del Nuovo Mondo hanno solo due di quei geni. Secondo Yoav Gilad e i suoi colleghi, «l'e­voluzione verso una vista pienamente tricromatica è coincisa con un aumento della quantità di pseudogeni olfattivi, a indicare un deterioramento dell'odorato».

Se la coincidenza non è casuale, dobbiamo ipotizzare che una vista a colori molto efficace abbia evitato ai primati di esperire un cambiamento disadattativo rispetto all'ambiente di vita, dovuto all'impoverimento della loro dotazione di recettori olfattivi. Sup­poniamo, ad esempio, che la ricezione e la selezione degli alimenti principali di queste specie, realizzata originariamente su base olfat­tiva, sia diventata possibile e anche più efficace in base ai colori. E questo è proprio quanto successo a quelle specie che, come} pri­mati antropoidi, si nutrono di frutta e altri prodotti vegetali. E sta­to dimostrato in laboratorio (Smith e altri 2003) che le scimmie con una vista tricromatica erano più abili di quelle in possesso solo di due fotorecettori nel distinguere i frutti dalle foglie e i frutti matu­ri da quelli acerbi. Si tratta senz'altro di un percorso di ricerca da approfondire.

Gilad e collaboratori hanno effettuato un calcolo basato sulla sti­ma del tasso di fissazione dei geni alterati. Il calcolo mostra che la scimmia urlatrice, i grandi primati e le scimmie del Vecchio Mon­do dovrebbero avere un numero molto maggiore di pseudogeni, se la perdita di geni funzionali fosse avvenuta a tasso costante a par­tire dalla comparsa della vista tricromatica, ossia circa 2 3 milioni di anni fa per le scimmie del Vecchio Mondo e più recentemente (tra i 7 e i 16 milioni di anni) per la scimmia urlatrice. Al contrario, sembra che il processo si sia rallentato, o addirittura fermato, in alcune specie. Questo induce a pensare che tutti i geni olfattivi non abbiano necessariamente la stessa funzione adattativa per una spe­cie (o un gruppo di specie) che vive in un determinato ambiente, e che la specie possa fare a meno di certi geni ma non di altri. I geni rimasti attivi potrebbero essere quelli che possiedono sempre un'importante funzione adattativa, mentre quelli divenuti inattivi non possiederebbero più quella funzione.

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L'EREDITÀ OLFATTIVA DELL'UOMO

Lo stesso ragionamento può essere applicato alla specie umana. Se, come abbiamo ammesso, la perdita di geni funzionali implica l'indebolimento cieli' olfatto, può comunque darsi che in certi ambi­ti questo senso sia efficace come al tempo degli antenati dei pri­mati, pur essendo meno performante in altri. Certo è vero che il confronto con il genoma olfattivo del topo di cui abbiamo parlato in precedenza non depone a favore di questa teoria.

Non tutti hanno lo stesso naso

Un altro problema è stabilire se la coesistenza di geni funziona­li e pseudogeni sia uguale in tutti gli esseri umani. Numerose osser­vazioni indicano che gli uomini sono molto diversi gli uni dagli altri quando si tratta di rilevare un odore o di riconoscerlo. Ci si dovreb­be allora aspettare che il patrimonio di recettori olfattivi variasse da un individuo all'altro. L'esistenza di numerosi pseudogeni spie­gherebbe questa eterogeneità funzionale, se i geni mutati fossero ripartiti in modo diverso negli esseri umani. Uno studio israeliano del gruppo di Doron Lancet (Menashe e altri 2003) ha recente­mente offerto alcuni dati in grado di spiegare la diversità genetica umana.

Uno stesso gene può esistere, com'è noto, in forme diverse, chia­mate alleli. Spesso nel genoma di un singolo individuo sono pre­senti due alleli diversi, uno proveniente dal padre, l'altro dalla madre. Per quel gene l'individuo è eterozigote. Talvolta un allele domina l'altro ed è l'unico a esprimersi. In questo caso l'individuo possiede un fenotipo determinato da quel gene dominante. Tal­volta i due geni si esprimono entrambi e il fenotipo è intermedio. Nel caso dei geni dei recettori olfattivi, un fenomeno detto di esclusione allelica fa sl che sia un unico allele a esprimersi. I ricer­catori hanno cercato di scoprire se alcuni pseudogeni, mutati più recentemente, avessero ancora alleli sani in grado di coesistere nel genoma di alcuni individui e di separarsi in quello di altri.

Lo studio è stato realizzato su un totale di 189 soggetti apparte­nenti a due gruppi etnici, di afroamericani e di americani di origi­ne non africana. I risultati hanno mostrato che di fatto il gene sano e il suo allele non funzionale possono unirsi e separarsi, con la con-

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CAPITOLO QUARTO

seguenza di una grande diversità funzionale nella popolazione uma­na. Infatti, accanto a soggetti in possesso di due esemplari dell'al­lele sano che sintetizza il recettore, si trovano individui eterozigo­ti per quel determinato gene, parimenti forniti di quel recettore in virtù della dominanza dell'allele sano su quello mutato. Solo i sog­getti omozigoti per l'allele mutato non sintetizzano il recettore cor­rispondente. Ma lo studio fornisce anche un'altra informazione: le due popolazioni umane esaminate si distinguono chiaramente nel­la segregazione allelica delle forme sane e alterate. Ne consegue che la popolazione afroamericana produce in media un numero più alto di recettori olfattivi, rispetto a quella di origine non africana. Biso­gnerà far ricorso a metodi psicofisici di misurazione diretta della sensibilità olfattiva su diversi gruppi umani per cercare di capire se la predizione della genetica si realizza nella pratica. '

Cosl, considerando solo i suoi geni, la specie umana mostra segni evidenti di una diminuzione delle proprie potenzialità olfattive, se confrontate con quelle di molte altre specie di mammiferi. Tale dimi­nuzione coincide con un perfezionamento del sistema visivo, e que­sto potrebbe indicare che le funzioni adattative dell'odorato sono state soppiantate dalla vista e in particolare dalla visione dei colori. Il processo tuttavia non è uniforme. In certe popolazioni umane è più marcato che in altre ed è possibile che non coinvolga in modo uniforme tutte le famiglie di molecole odorose. Sarebbe utile sapere per quali famiglie di molecole la percezione risulta maggiormente alterata dalla trasformazione di geni attivi in pseudogeni. Ma per saperlo bisognerà aspettare che se ne sappia di più sui profili di sen­sibilità dei recettori individuali: se la conoscenza dei geni olfattivi è infatti ormai approfondita, quella dei recettori è invece ancora per lo più indiretta, dedotta dalla sequenza dei loro geni.

Una situazione abbastanza simile si incontrerà, nel prossimo capi­tolo, per l'apparato gustativo, in cui il sistema dei recettori delle mole­cole sapide ricorda molto da vicino quello dei recettori olfattivi.

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5· La percezione dei sapori

La conoscenza del gusto stricto sensu, proprio come quella dell'o­dorato, è stata di recente accresciuta dalla scoperta di nuovi recettori. È sempre più difficile limitare la ricchezza dei sapori alla classificazio­ne tradizionale che ne riconosceva solo quattro.

Ultime verifiche prima di entrare

Le varie sensibilità chimiche si completano felicemente a vicenda. Il sistema olfattivo rileva quelle componenti dell'alimento che risul­tano sufficientemente volatili per raggiungere l'epitelio sensoriale della cavità nasale. Tocca poi al sistema gustativo segnalare al cervello le proprietà chimiche dell'alimento non accessibili all'odorato, sia perché composte da sostanze troppo pesanti e poco volatili, sia per­ché si tratta di sostanze trattenute dall'acqua o dai grassi. I recettori del gusto, le cellule gustative, si trovano sulla lingua e sul palato, col­locate in zone che entrano in contatto con l'alimento masticato e impregnato di saliva. Sono le cellule gustative a eseguire l'ultimo esa­me delle sostanze prima che queste vengano introdotte nel tubo dige­rente tramite la deglutizione. Durante il pasto l'esame si traduce per lo più in una serie di percezioni familiari in cui sensazioni gustative e sensazioni olfattive retronasali risultano appaiate, e il consumatore disattento difficilmente le distinguerà dalle sensazioni tattili e ter­miche. Ma se questo esame fa emergere un segnale insolito, come un sapore amaro inatteso, la deglutizione viene immediatamente bloc­cata da una reazione automatica autoprotettiva.

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66 CAPITOLO QUINTO

Il consumatore intento ad assaporare e degustare un cibo indi­vidua, tra le varie percezioni complesse che oltrepassano la soglia della sua coscienza, alcune sensazioni che ha imparato a definire come dolce, salato, acido, amaro. Si tratta del contributo più importante che il sistema gustativo fornisce alla percezione globa­le dell'alimento. Abitualmente queste sensazioni vengono indica­te come «sapori fondamentali» o ancora «qualità gustative prima­rie», partendo dal presupposto che la gamma delle qualità gustative sia limitata a questi quattro sapori e alla loro combinazione, come ancora oggi si legge nei manuali di fisiologia. Non tutti i ricercato­ri condividono però questo modo di presentare i fatti. Qualche cenno di storia delle ricerche sul gusto ci permetterà di capire meglio alcuni dettagli di questo annoso dibattito.

La percezione delle qualità gustative degli alimenti riposa sul-1' attivazione di recettori molecolari di cui dispongono le cellule gustative. Si tratta di un ambito di ricerca che, dopo essere rima­sto fermo a lungo, ha conosciuto un notevole e improvviso pro­gresso negli ultimi anni, grazie ai potenti mezzi della biologia mole­colare e allo slancio dovuto alle scoperte sui recettori olfattivi, ottenute con gli stessi mezzi. Cercheremo quindi di fare il punto su queste nuove conoscenze, ancora non completamente assimilate, e vedremo in che modo esse rendano superata la discussione sui sapo­ri fondamentali.

Come si esprime il sapore

Al pari delle sensazioni olfattive, le sensazioni gustative sono caratterizzate dalla loro qualità, dall'intensità e dalla valenza affet­tiva. Ci concentreremo adesso sulla qualità, mentre più avanti esa­mineremo le altre caratteristiche dei sapori. Per far capire a un interlocutore cosa si deve intendere con la parola «gusto», le quat­tro categorie di dolce, salato, acido e amaro risultano piuttosto pra­tiche. Se è poi necessaria maggiore precisione, possono venire in aiuto stimoli familiari associati a queste categorie, come lo zucche­ro, il sale, l'aceto (acido) o il limone (acido). È più difficile carat­terizzare l'amaro, poiché le sostanze amare sono numerose e tra quelle più comunemente consumate - il caffè ad esempio - nessu-

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LA PERCEZIONE DEI SAPORI

nasi caratterizza esclusivamente per quest'aspetto, e del resto qua­si nessuno consuma la chinina, impiegata in laboratorio come cam­pione dello stimolo.

L'interazione degli alimenti con il gusto sta quindi alla base del­le sensazioni indicate come qualità gustative. Si pone però il pro­blema di stabilire a cosa corrispondano le quattro qualità comune­mente indicate. Si tratta delle uniche forme in cui l'apparato gustativo può esprimersi? O si tratta invece del campione di alcu­ne sensazioni, scelte tra molte altre per rappresentare il gusto, in base alla loro rilevanza, al fatto che hanno un nome e che possono essere percepite senza venir confuse con altre, la cui origine si situa analogamente in bocca e naso? In questo caso, accettare solo quat­tro qualità sarebbe molto arbitrario. O forse bisognerebbe consi­derare l'esitenza di numerosi sapori raggruppabili però in quattro insiemi, in quattro categorie in base alle loro somiglianze recipro­che e alle loro differenze?

Non tutti trovano facile farsi un'opinione basandosi solo sulle proprie esperienze gustative. L'impressione che un cibo abbia un sapore irriducibile alle quattro qualità tradizionalmente ricono­sciute può ad esempio dipendere dal fatto che quelle qualità sono percepite in manera non chiara. E se escludiamo questa possibilità, allora forse il sapore vero e proprio si trova confuso con una sen­sazione olfattiva che lo maschera e gli fa perdere la sua purezza; separare le sensazioni provenienti da naso e papille gustative è infatti impossibile senza qualche stratagemma. L'introspezione non porta ad alcun risultato decisivo.

Continuità e discontinuità nell'universo dei sapori

Una volta abbandonato il terreno deludente dell'introspezione, non rimane che rivolgerci al discorso scientifico: il meno che si pos­sa dire è che non esiste unanimità. In realtà i ricercatori per molto tempo sono stati divisi - e lo sono ancora - tra due opinioni. La prima tesi può essere definita come realista: secondo quest'impo­stazione esisterebbero in realtà ben poche qualità gustative auto­nome, che avrebbero origine nella struttura biologica del sistema sensoriale. La seconda tesi può essere invece definita relativista,

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68 CAPITOLO QUINTO

in quanto ritiene le categorie tradizionali entità più o meno arbi­trarie dipendenti dall' abitudne e dalla cultura più che dalla biolo­gia del sistema; la struttura dell'universo delle sensazioni gustati­ve ha quindi l'aspetto di un continuum.

Prima di mettere a confronto i termini di questo dibattito con le nuove acquisizioni sui recettori, facciamo qualche passo indietro, al periodo a cavallo tra Otto- e Novecento, in una fase in cui i soli dati disponibili erano quelli dell'introspezione o degli studi in ambito psi­cofisico. Nel 1916 Hans Henning propose un modello della perce­zione gustativa destinato a diventare molto popolare, il «tetraedro dei sapori». Le qualità principali di dolce, salato, acido e amaro ven­gono poste ai quattro vertici di un tetraedro. Nelle intenzioni di Henning, molti altri sapori avrebbero poi dovuto disporsi sulle fac­ce e sugli spigoli del tetraedro, ma, come fanno notare Robert Erick­son (2000) e Annick Faurion (1996), la tesi realista aggiustò l'inter­pretazione originale, mantenendo solo i vertici. L'idea dell'esistenza di quattro sapori fondamentali, attribuita abusivamente a Hen­ning, è diventata la tesi predominante in ambito scientifico e ha finito per prevalere anche nella conoscenza comune.

Venne poi l'era dei primi studi neurofisiologici. All'inizio degli anni quaranta divenne possibile osservare direttamente le fibre gustative, registrandone i segnali elettrici. Fu una tappa importan­te: per la prima volta si aveva accesso diretto ai messaggi che le cel­lule gustative inviavano al cervello.

Papille, gemme e cellule

Prima ancora di affrontare l'esposizione di quanto fu rivelato dai messaggi neurali, è venuto il momento di presentare le cellule che producono questi messaggi (fig. 3). Le cellule gustative sono cellule epiteliali bipolari, e il polo orientato verso la cavità orale presenta sottili filamenti, detti microvilli, che ospitano nella loro membrana i recettori molecolari del sapore. Le cellule recettrici sono raggrup­pate in gruppi di diverse decine all'interno di piccole strutture chia­mate gemme gustative. Queste gemme si trovano a loro volta collo­cate all'interno di tre tipi di papille, dette fungiformi, foliate e circumvallate, ripartite sulla lingua, il palato e la faringe.

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LA PERCEZIONE DEI SAPORI

Papilla gustativa

Figura 3 Il sistema gustativo. Schema sintetico delle vie gustative. I riquadri mostrano) dall'alto al basso: una sezione delle papille, una gemma e alcuni esempi di recettori che correda­no le cellule gustative.

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CAPITOLO QUINTO

Nonostante talvolta si sia scritto diversamente, le varie parti del­la lingua non sono rigidamente specializzate per quanto riguarda la sensibilità ai sapori. La discussione sulla topografia della sensibilità gustativa non è priva di rilievo in relazione al problema dell'esi­stenza o meno dei sapori fondamentali. Una suddivisione geogra­fica delle diverse sensibilità sarebbe infatti una prova della loro realtà oggettiva. Una diffusione estesa e omogenea costituirebbe invece un punto a favore della tesi contraria. I dati sperimentali sono sfumati. Certo è vero che le soglie di risposta sono più basse sulla punta della lingua per gli stimoli del dolce e del salato, in fon­do alla lingua per gli acidi, e sul palato per l'amaro (Collings 1974). Gli esseri umani, però, sono in grado di distinguere il dolce, l'a­maro, l'acido e il salato su tutta l'area di ricezione del sapore. Le differenze tuttavia sono più nette nei roditori.

Le cellule gustative hanno una vita breve, dell'ordine di una decina di giorni. Esse quindi si rinnovano continuamente, con im­portanti conseguenze funzionali. Le cellule, infatti, sono innerva­te da una serie di terminazioni nervose a cui comunicano lo stimo­lo provocato dalle sostanze sapide, per mezzo di sinapsi chimiche. Quando una cellula degenera, le sinapsi la abbandonano, mentre se ne formano altre su una nuova cellula in via di sviluppo. Ora, però, come vedremo, non tutte le cellule di una stessa gemma hanno la medesima sensibilità. Per non alterare il messaggio nervoso, pare logico che la fibra che ritira le proprie sinapsi scelga, per ricosti­tuirle, una cellula con lo stesso profilo di quella morente. Si sup­pone che molecole superficiali guidino selettivamente la fibra ver­so il suo nuovo obiettivo. Forse le stesse molecole recettrici svolgono questa funzione guida.

Le fibre nervose legate alle cellule gustative appartengono a tre nervi (vedi fig. 3). Uno di essi è la corda del timpano, ramo del set­timo paio dei nervi cranici, o nervo facciale. È proprio questa dira­mazione nervosa venir normalmente chiamata nervo gustativo. Due altri nervi, il nervo glossofaringeo, nono nervo cranico, e il nervo vago, decimo nervo cranico, fungono parimenti da messag­geri del sapore. I tre nervi raggiungono il nucleo del fascicolo soli­tario, nella parte posteriore del cervello, dove il nervo vago indi­rizza anche i messaggi trasmessi dai visceri.

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I.A PERCEZIONE DEI SAPORI 71

Tratte riservate o codici combinatori

Torniamo ora a osservare i messaggi nervosi. Collocando sottili elettrodi lungo il percorso della corda del timpano, in animali di specie diverse, gli elettrofisiologi sono stati in grado di tracciare gli stimoli trasmessi dalle fibre nervose nel momento in cui le sostan­ze sapide venivano collocate sulla lingua. Uno dei primi a portare a termine questo genere di esperimenti, Carl Pfaffmann, notò che quando riusciva a esaminare un'unica fibra nervosa per volta, que­sta fibra «singola» di rado rispondeva a uno solo degli stimoli impiegati. Davvero poche fornivano una risposta esclusivamente allo stimolo dolce, acido, amaro o salato, ma molte rispondevano, in modo più o meno marcato, a parecchi stimoli considerati rap­presentativi per diverse qualità gustative.

Studi successivi mostrarono che la non-selettività delle fibre non era dovuta solo al fatto che molte cellule davano il loro contributo al messaggio di una singola fibra, dal momento che, una volta esa­minate direttamente, le cellule analogamente si rivelarono a loro volta non selettive. Pfaffmann comprese che una singola fibra non poteva, da sola, veicolare l'identità dello stimolo e che questa iden­tità veniva colta dal sistema nervoso solo in base a informazioni trasmesse contemporaneamente da numerose fibre. «In un siste­ma cosl strutturato, la qualità sensoriale non dipende semplice­mente dall'attivazione "o tutto o niente" di alcuni gruppi particola­ri di fibre, ma anche dal pattern delle altre fibre attive» (Pfaffmann 1941). Pfaffmann riordinò le sue osservazioni e propose l'idea, all'epoca molto innovativa, che la qualità gustativa risultasse codi­ficata dalla quantità relativa di attività generata dallo stimolo. Dal momento che le fibre gustative potevano essere classificate in grup­pi a seconda della sensibilità preferenziale (ma non esclusiva) a un certo tipo di stimolo, se ne dedusse che la qualità fosse rappresen­tata dall'attività differenziale dei gruppi (cross-group coding), secon­do una nozione riformulata più tardi da Erickson (1963, 1982) come ipotesi across-/iber pattern coding, successivamente estesa an­che al sistema olfattivo.

In questo modo si prospettavano due forme alternative di confi­gurazione delle informazioni sensoriali. Una prima forma consiste-

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va nella codifica a «traccia etichettata» (labeled line). Questa confi­gurazione viene postulata quando in una via sensoriale l'attività segnala senza ambiguità la natura dello stimolo presente in entrata. La via nervosa stimolata rappresenta da sola l'identità dello stimo­lo. Se un numero telefonico corrisponde a un solo abbonato, non è difficile indovinare chi sta chiamando. Questo tipo elementare di codifica si ritrova raramente, almeno nella sua forma più pura. È cosl che si trasmettono e si configurano i messaggi prodotti dai fero­moni di certi insetti. Secondo l'altro modello, invece, l'across-fiber pattern coding, la configurazione dell'identità dello stimolo è distri­buita su una serie di neuroni attivi. Ogni neurone fornisce in un cer­to senso un punto di vista diverso sullo stimolo e sono necessari diversi punti di vista per fornire un profilo cieli' oggetto rappresen­tato. Questa modalità diffusa di configurazione dell'informazione, concepita per spiegare i dati tratti dall'osservazione del sistema gustativo, può essere illustrata altrettanto bene, e in modo più paci­fico, dalle proprietà delle cellule olfattive, come abbiamo visto nel capitolo 3.

Se i dati neurofisiologici forniti dalla corda del timpano, ramo gustativo del settimo nervo cranico, e le considerazioni di Pfaffmann, riprese da Erickson, non battevano in breccia la tesi realista dei quat­tro sapori fondamentali, non di meno la mettevano in seria discus­sione. Diventava difficile infatti rintracciare un fondamento biologi­co-sistemico per i sapori fondamentali, dal momento che i primi messaggi non sembravano rappresentarli in maniera distinta. Di cer­to gli stimoli più rappresentativi impiegati, come il glucosio, il cloru­ro di sodio, l'acido cloridrico, il chinino, non erano qualitativamente puri. Ognuno di essi suscitava in prima istanza una delle qualità fon­damentali, ma in seconda battuta ne richiamava anche una o molte altre. Cosl ben presto si fece strada l'idea di ordinare le risposte del­le fibre gustative secondo la loro sensibilità preferenziale. Le fibre nervose furono cosl suddivise secondo il loro «stimolo migliore» (Frank 1974), e le quattro classi di sensibilità postulate in origine furono rintracciate con maggiore facilità, tanto più che generalmen­te si impiegavano gli stimoli ritenuti rappresentativi di ognuna di esse.

Come fa notare Erickson (2000): «In che modo un neurone potrebbe rispondere peggio a uno dei quattro stimoli che non agli altri?» Per sostenere che i dati neurofisiologici convalidassero la

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LA PERCEZIONE DEI SAPORI 73

tesi dei sapori fondamentali, bisognava postulare che, tra le rispo­ste dei neuroni agli stimoli-prototipo, quelle relative alla costru­zione della sensazione fossero maggioritarie, e che invece le rispo­ste minoritarie venissero semplicemente ignorate dal sistema nervoso o contribuissero alla creazione di sapori marginali. Que­sta osservazione si ricollegava all'ipotesi delle linee riservate. Si poteva anche sostenere che tutte le risposte avessero uguale impor­tanza, andando allora verso la nozione di un continuum delle qua­lità e verso il modello dell'across-fiber pattern.

Poiché la registrazione dei messaggi provenienti dalla periferia non aveva permesso di smentire nessuna delle due teorie contrap­poste, il dibattito si protrasse per diversi decenni. La ricerca si arricchi delle registrazioni eseguite sui neuroni gustativi nelle regioni più centrali del cervello, senza che emergesse alcuna traccia di classi di neuroni in grado di mostrare solo una delle sensibilità fondamentali. Nei loro esperimenti, i ricercatori associarono misu­razioni psicofisiche e registrazioni neurali; vennero impiegati sti­moli più numerosi e diversificati, le risposte dei neuroni furono analizzate con metodologie sofisticate; vennero sfruttate anche le capacità di adattamento del sistema gustativo; si chiamò in causa pure la genetica, attraverso lo studio di ceppi di topi con sensibi­lità diverse rispetto a determinati stimoli.

Finalmente, si aprl una breccia nella teoria dei quattro sapori fondamentali, quando, per influenza di alcuni ricercatori giappo­nesi, la lista dei sapori si accrebbe di uno, con l'introduzione del sapore umami («squisito»), descritto all'inizio del secolo da un giapponese, Kikunae Ikeda. L'umami corrisponde al gusto del glu­tammato, caratteristico di molti piatti asiatici. Come ha scritto Thomas R. Scott (1987): «I risultati hanno mostrato chiaramente che il sistema gustativo non è uniformemente omogeneo a nessun livello. Del resto non c'è maggiore certezza sul fatto che le discon­tinuità siano abbastanza marcate per ritenere che il gusto risulti da quattro sotto-modalità, o qualcosa del genere».

Prima di addentrarci nelle nuove scoperte sui meccanismi della ricezione e della trasduzione gustativa ci pare opportuno trarre da tutto questo dibattito alcune conclusioni. La prima osservazione potrebbe essere che ancora non sappiamo con certezza se sia legit­timo descrivere le sensazioni gustative come quattro - o cinque -

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entità fondamentali o se sia più rispondente alla realtà considerare il mondo dei sapori, analogamente a quello degli odori, come un continuum di sensazioni. Se gli esperimenti concepiti per far pre­valere una delle due tesi possono essere interpretati in modo ambi­valente, questo equivale a dire, da un punto di vista epistemologico, che le tesi attuali non sono falsificabili. Karl Popper ne conclude­rebbe senz'altro che il problema dei sapori fondamentali non rien­tra nella conoscenza empirica. La radice di tutte le difficoltà potrebbe certo risiedere nell'assenza di una concezione chiara di cosa sia un sapore. Se fossimo ipoteticamente in grado di indivi­duare in maniera inequivocabile un singolo sapore, allora potrem­mo dire se un tale stimolo richiama uno o più sapori. Ma è proprio questo, riconoscere un sapore nella sua individualità, quello che non siamo in grado di fare.

Il dibattito poi suggerisce una seconda osservazione. L'istanza classificatoria alla base della discussione può essere considerata non come fine a se stessa, ma come tappa preliminare nella conoscenza del funzionamento del sistema gustativo. Abbiamo visto nel capi­tolo 3 che i tentativi scientifici di classificare gli odori erano servi­ti a questo stesso scopo. Individuare i fenomeni da spiegare, classi­ficarli, distinguere ciò che è semplice da ciò che è complesso, sono tutte parti integranti del processo scientifico. Va da sé che gli studi su come catalogare i sapori avevano anche il secondo fine di spiegare la natura dei processi in atto, a monte del sistema gustativo o più a valle, nel cervello. In modo analogo, le ricerche che puntavano diret­tamente a questi processi erano destinate a venir pilotate e influen­zate (anche solo nella scelta degli stimoli pertinenti) dal modo in cui i ricercatori concepivano la struttura delle categorie percettive. Eppure, i fenomeni mentali come le sensazioni sono particolarmen­te refrattari all'analisi e i sapori non fanno eccezione.

Negli ultimi tempi la discussione sulle qualità fondamentali pare affievolirsi sempre di più. E non perché una delle due ipotesi si sia imposta in modo incontestabile, quanto, invece, perché il dibatti­to non è più cosl attuale e il focus della ricerca si è spostato. Nel momento in cui si possiedono altre chiavi per accedere al sostrato biologico della percezione, diventa meno importante interrogarsi sul carattere più o meno fondamentale di un sapore.

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I recettori dei sapori

Si è capito abbastanza presto che i meccanismi impiegati dal sistema gustativo per generare i sapori potevano anche non costi­tuire una classe omogenea di recettori, poiché infatti gli stimoli efficaci appartenevano a entità molecolari molto diverse. Gli stu­di psicofisici avevano orientato le ricerche sui meccanismi di rile­vamento dell'acido verso strutture a membrana sensibili al pH, ossia alla concentrazione di ioni H+, secondo la definizione fisica di acidità. Le indagini sulla percezione del salato puntavano verso strutture sensibili ad altri ioni, specialmente allo ione Na+. Le cose invece stavano diversamente per la percezione di sapori come il dolce o l'amaro: essi sembravano infatti determinati da molecole relativamente grandi, che dovevano essere riconosciute da recet­tori abbastanza simili a quelli che consentono il funzionamento del­le sinapsi nel sistema nervoso centrale o il rilevamento degli odo­ranti nel sistema olfattivo.

Il salato e l'acido

Il gusto salato è prodotto da molte tipologie di ioni, e al primo posto compare lo ione sodio (Na+). Nei roditori è stato accertato (vedi le rassegne di Lindemann, 1996 e 2001) che il sapore del clo­ruro di sodio è dovuto a un canale a membrana selettivo per gli ioni Na+, chiamato ENaC, caratterizzato dalla proprietà di venir bloc­cato da una sostanza specifica, l'amiloride. Questo recettore è com­posto da diverse unità proteiche che formano una sorta di edificio, delimitando un poro attraverso il quale gli ioni Na+, abbondante­mente presenti in quell'ambiente, penetrano nella cellula. La cor­rente elettrica risultante dal movimento degli ioni, particelle cari­che elettricamente, scatena potenziali d'azione che attivano la sinapsi tra la cellula recettrice e la fibra gustativa. Negli esseri uma­ni la sensibilità del salato viene bloccata dall'amiloride in maniera meno pronunciata rispetto ad altre specie, il che fa pensare che pos­sano entrare in gioco meccanismi di tipo diverso.

Veniamo ora al gusto acido. La ricezione di questo sapore atti­va vari meccanismi. Uno di questi fa ricorso a un canale ionico ana-

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CAPITOLO QUINTO

logo al recettore ENaC del salato, ma in questo caso sono coinvol­ti gli ioni H+, ossia i protoni. Secondo un altro meccanismo, i pro­toni agiscono non più muovendosi all'interno di un canale, ma con­trollando la permeabilità di un canale impiegato da un altro tipo di ioni, specialmente gli ioni potassio (K+).

Il dolce, l'amaro e i recettori a sette domìni transmembrana

La scoperta della natura dei recettori degli odoranti ha indotto la ricerca sui recettori gustativi a concentrarsi su una famiglia di proteine che abbiamo già incontrato a proposito dell'olfatto, i re­cettori a sette domlni transmembrana (vedi fig. 2, p. 47). Per de­scrivere questi recettori si aggiunge «associati a proteine G». A questo punto quindi ci concentreremo su quest'ultima categoria di recettori, identificata negli ultimi anni e ancora oggetto di studio (Montmayeur e Matsunami 2002).

I recettori a sette domlni transmembrana hanno, come si ricor­derà, la proprietà fondamentale di provocare, quando creano un legame reversibile con i loro ligandi - nel nostro caso le molecole sapide-, una catena di reazioni enzimatiche, fino alla formazione di un messaggero chimico intracellulare. Questo «secondo» mes­saggero (il primo è il ligando) interferisce con il funzionamento dei canali ionici a membrana, e questo dà adito a un segnale elettrico trasmesso dalla cellula gustativa, per mezzo di una sinapsi, a una o più fibre gustative in contatto con essa. Diversamente dalle cellu­le olfattive, le cellule gustative non sono neuroni, ossia non propa­gano direttamente il flusso al cervello. Sono le fibre dendritiche del nervo gustativo, innervate sulle cellule a svolgere questo compito.

L'amaro La prima identificazione di un recettore gustativo risale al 1999 (Hoon e altri 1999). In quell'anno furono scoperti due recettori indicati più tardi come TrRr e TrR2. 1 Erano espres­si da alcune cellule gustative dei mammiferi. Certi indizi facevano pensare che contribuissero alla sensibilità al dolce, ma non era dimostrato.

1 T1 significa: prima classe identificata di recettori del gusto (Taste); Rr ed R2 significano rispettivamente: primo e secondo recettore identificato nella classe T1.

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L'anno dopo diversi gruppi di ricerca (Adler e altri 2000; Mat­sunami e altri 2000) identificarono nei topi e nell'uomo una nuo­va famiglia di recettori a sette domini transmembrana, associati a proteine G: la famiglia dei T2R. Per arrivare a questo risultato fecero ricorso ad alcuni studi di genetica che avevano consentito di localizzare sui cromosomi umani, in particolare sul cromosoma 5, la regione circoscritta, o locus, che ospitava i geni responsabili del­la sensibilità alle sostanze amare (Reed e altri 1999). In effetti, dif­ferenze genetiche influenzano la sensibilità a certi composti ama­ri, come il feniltiocarbamide (PTC) e il 6-n-propil-2-tiouracile (PROP), due sostanze che presentano una composizione chimica simile. Alcuni individui, chiamati «assaggiatori» (tasters) si dimo­strano sensibili in modo normale a queste sostanze, mentre altri, i «non-assaggiatori» (non tasters) Io sono nettamente meno. Diffe­renze genetiche nella sensibilità esistono anche tra ceppi di topi, per altre molecole dal gusto amaro, come l'ottoacetato di saccaro­sio (SOA) o il cicloeximide.

I ricercatori sfruttarono la sequenza del genoma umano e la conoscenza del genoma del topo per vedere se i loci cromosomici associati al deficit di percezione dell'amaro contenessero geni che potessero essere recettori dell'amaro. La ricerca diede i suoi frut­ti: negli esseri umani venne identificata una famiglia di 26 geni potenzialmente funzionali, e di 33 nei topi.

Il numero dei recettori delle molecole dette amare è quindi nel-1' ordine delle decine, e almeno alcuni di essi indicano un polimor­fismo dovuto alla sostituzione di alcuni aminoacidi con altri lungo la catena proteica. La pluralità dei recettori va senz'altro ricon­dotta alla diversità delle molecole sapide che inducono la sensazio­ne dell'amaro. Difficilmente, infatti, si potrà concepire un solo recettore per tutte quelle molecole dalle proprietà chimiche molto diverse. Viceversa, è stato riscontrato che la maggior parte delle cellule che esprimono un recettore della famiglia T2R esprimono anche un tipo particolare di proteina G, la gustducina.

Un problema importante, non ancora risolto perché suscettibile di risposte diverse, è sapere se le diverse versioni di questi recet­tori sono espresse tutte quante in una sola cellula gustativa o se una cellula sintetizza un unico recettore (conclusioni opposte sono sta­te tratte da Adler e altri 2000 e Caicedo e Rcper 2001). Sappiamo

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CAPITOLO QUINTO

che lo stesso problema esisteva anche per i recettori olfattivi, e la ricerca esita ancora a decidere a favore dell'espressione di un solo tipo di recettore per cellula. Nel caso dell'espressione di più recet­tori, ci potrebbe essere un'unica sensazione amara, dal momento che la confusione iniziale tra diversi stimoli amari non potrebbe essere eliminata ad altri livelli del sistema gustativo; nell'altro caso, quello dell'espressione di un unico recettore, rimarrebbe sempre la possibilità che sostanze diverse siano percepite con diverse grada­zioni di amaro. Studi psicofisici hanno mostrato una differenzia­zione almeno parziale tra molecole amare, differenziazione attua­ta anche dalle fibre gustative del ratto (Dahl e altri 1997) e dalle cellule della corteccia gustativa nelle scimmie (Scott e Plata-Sala­man 1999). L'ago della bilancia pende quindi, a meno di nuovi risultati, per l'espressione non collettiva dei recettori T 2R.

I recettori della famiglia T2R non sembrano uniformemente ripartiti all'interno della cavità orale. Si trovano maggiormente concentrati sulle papille circumvallate e su quelle foliate, ossia sul­la parte posteriore della lingua, mentre sono più rare sulle papille fungiformi, nella parte anteriore. Questa suddivisione corrispon­de a quella della sensibilità all'amaro.

Dove non ci si aspetterebbe i recettori dell'amaro e dove invece sono stati trovati (Wu e altri 2002) è nell'apparato gastrointestina­le. Quale sia il ruolo che i recettori T2R vi svolgano è una doman­da tutt'ora aperta. La loro presenza, ovviamente, non implica che dallo stomaco o dal tubo digerente possano venire sensazioni di amaro, in quanto la natura delle sensazioni non dipende dai recet­tori, ma dalle regioni del cervello con cui entrano in relazione. Ciò nonostante la loro scoperta è un dato in più che testimonia la com­plessità della sensibilità chimica del tubo digerente (vedi cap. 8). Essa potrebbe anche indicare che la categoria delle sensibilità este­rocettive coincide in parte con quella delle sensibilità enterocettive.

Il complesso processo che ha portato infine all'identificazione dei recettori è largamente debitore della conoscenza dei geni che codi­ficano i recettori stessi e dell'RNA messaggero, che fa da interme­diario alla loro espressione. Una volta nota la struttura dei geni, non è difficile dedurre la sequenza di aminoacidi che compongono il recettore. Rimane tuttavia da scoprire quali molecole sono effetti­vamente in grado di attivarlo. Un mezzo per arrivarci consiste nel-

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LA PERCEZIONE DEI SAPORI 79

l'applicazione dell'ingegneria genetica per inserire il gene prescelto e farlo esprimere in una categoria di cellule che non lo esprimereb­bero naturalmente. Stimolando le cellule cosi trasformate con una batteria di presunti stimoli, con un metodo adeguato, si osservano le risposte e si identificano i ligandi preferiti del recettore. Ciò nonostante, i recettori della famiglia a cui appartengono i T2R, come i recettori degli odoranti, non si prestano affatto a questa pro­cedura, al punto che la sensibilità dei recettori T2R alle molecole amare è stata dimostrata solo in un numero molto limitato di casi.

Non tutti i composti con sapore amaro sollecitano esclusiva­mente i recettori associati a proteine G. Certi peptidi amari e altre molecole come il chinino, che possono inserirsi nella membrana lipidica della cellula, stimolano direttamente le proteine G, corto­circuitando cosi il recettore. A questi fattori di complessità se ne aggiunge anche un altro, ossia la pluralità delle vie di trasduzione. Esistono in effetti numerosi percorsi, rivestiti di enzimi e messag­geri diversi, che conducono dall'arrivo delle molecole-stimolo all'attivazione della sinapsi, e non si capisce bene il perché della loro presenza.

Il dolce Già da diversi anni ormai, i ricercatori si sforzano di cogliere la configurazione molecolare del sito di legame, in cui pos­sono inserirsi le molecole dolci per attivare il suo o i suoi recetto­ri. Confrontando le proprietà molecolari di centinaia di queste cel­lule, i ricercatori tentavano di scoprire le proprietà caratteristiche del sito, un'indagine non priva di ricadute economiche. E in effet­ti, alcuni dei modelli concepiti in questo modo sono stati cosi riu­sciti da portare alla scoperta di potenti edulcoranti. Nel 2001 è sta­to compiuto un passo ulteriore, con l'identificazione, da parte di diverse équipe contemporaneamente,2 di un recettore con le pro­prietà attese per la detezione del dolce. È stato chiamato T1R3 in quanto apparteneva alla stessa famiglia, T1, dei due recettori T1R1 e T1R2, già scoperti, ma la cui funzione era ancora ignota. Que­sto nuovo recettore è simile ai recettori della famiglia T 2R, ma se ne distingue, tra l'altro, perché possiede una catena extracellulare molto lunga.

2 Nel 2oor, nel giro di qualche mese, sei équipe hanno pubblicato i loro studi sull'identifi­cazione di un gene responsabile del gusto dolce.

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Il metodo seguito per identificare questo nuovo recettore è pros­simo a quello che ha consentito la scoperta dei T2R. Esiste nel topo una differenza genetica relativa alla sensibilità alla saccarina, al sac­carosio e ad altre sostanze dolci. Questa differenza si manifesta in ceppi di topi, alcuni dei quali hanno una sensibilità normale agli sti­moli dolci, gli assaggiatori (tasters), mentre altri possiedono una sensibilità inferiore, i non-assaggiatori (non tasters). La sensibilità è controllata da geni localizzati su un cromosoma, in un locus chia­mato Sac. I ricercatori hanno cominciato con l'inventariare i geni presenti in prossimità di questo locus, non nel topo, ma nella regio­ne corrispondente del genoma umano. Sono riusciti a identificare cosl un gene, TrR3, che hanno continuato a studiare nel topo, che a sua volta lo possedeva. Hanno cosl scoperto che il gene aveva molti alleli, i quali portavano alla sintesi di recettori differenziati nella sequenza dei loro aminoacidi; uno degli alleli era espresso dal ceppo dei topi tasters, l'altro dal ceppo non tasters. Grazie a questa e ad alcune altre osservazioni, è stato cosl possibile non solo iden­tificare la funzione del gene, ma anche spiegare la diversa sensibi­lità al dolce dei due ceppi di topi.

I recettori TrR3 sono sintetizzati in tutte e tre le categorie di papille gustative. Viceversa, gli altri due membri della famiglia Tr, ossia Rr e R2, sono localizzati in modo più eterogeneo. Esami­nando la coespressione di questi recettori, in altre parole i casi in cui si osservano due esponenti della famiglia Tr in una stessa cel­lula, e basandosi su prove più dirette, alcuni ricercatori sono arri­vati alla conclusione che certi recettori fossero dimeri, costituiti cioè dalla combinazione di due unità. In questo modo T1R2 e TrR3 formano un complesso recettore, sensibile a molte molecole zuccherate.

Come abbiamo visto, il genoma olfattivo comporta un numero molto alto di pseudogeni. Anche nel genoma del sistema gustativo ne esiste per lo meno un esempio. Una scoperta recente (Li e altri 2005) ha messo in luce come, nel gatto, il gene Tasrr2 noiJ. sia in grado di esprimere la proteina recettrice corrispondente, TrR2. In questo modo, nonostante TrR3 venga sintetizzato, la formazione del complesso TrR2-TrR3 non è possibile. Per questo motivo il gatto è indifferente al dolce: non riesce a percepirne il sapore.

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LA PERCEZIONE DEI SAPORI

La trasduzione dei segnali captati dai recettori del dolce, come quella dei segnali dell'amaro, benché nota in maniera incompleta, appare decisamente complessa. Possiamo, semplificando, distin­guere almeno due percorsi che conducono alla sintesi di messaggeri intracellulari diversi tramite distinte proteine G. La scelta di uno o dell'altro sembra dipendere dalla posizione della cellula considera­ta, sulla parte posteriore o anteriore della lingua, e anche dalla natu­ra chimica degli stimoli dolci, saccarosio o edulcoranti di sintesi.

Come abbiamo visto, uno dei recettori delle sostanze zucchera­te si forma dalle unità T1R2 e T1R3 associate tra loro. Ma si è rive­lata funzionale anche un'altra combinazione, quella in cui T1R3 è associato a T1Ri. Tuttavia, nonostante la presenza di T1R3 all'in­terno del complesso, la sensibilità del dimero cosl formato non può essere definita come sensibilità al dolce, poiché quasi tutti gli L­aminoacidi3 attivano questo recettore composito. Bisogna allora ammettere che il tipo di sensibilità di una proteina recettrice non dipende solo dalle sue proprietà intrinseche; la selettività può cam­biare quando essa si associa a un'altra, formando un'aggregazione dalle caratteristiche nuove.

Il sapore umami Un'altra nozione importante risiede nel fatto che piccole differenze esistenti tra geni omonimi di due spezie pos­sono portare all'espressione di proprietà recettrici ben distinte. Cosl, il dimero T1R1-T1R3 che, nel topo, risponde a numerosi aminoacidi, nell'uomo reagisce specialmente a due aminoacidi, l'L­glutammato e l'L-aspartato. Questo spiega perché il ratto, l'uomo e il topo non hanno sensibilità del tutto sovrapponibili. Ma il glu­tammato e l'aspartato sono molecole che generano il gusto umami. Ecco quindi il recettore umano sospettato di essere all'origine di questo sapore.

In realtà non è il solo candidato alla funzione di rilevamento del sapore «squisito». Alcuni ricercatori (Chaudhari e altri 2000) han­no identificato in certe cellule gustative una variante di un recet­tore che, nel sistema nervoso centrale, funziona come il recettore dell'L-glutammato. Sappiamo che questo aminoacido non è solo un interessante ingrediente in cucina, ma è anche un neurotrasmetti-

3 Gli L-aminoacidi, in opposizione ai D-aminoacidi, sono detti levogiri, deviano cioè verso sinistra il piano di polarizzazione della luce, mentre i D, destrogiri, lo deviano verso destra.

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tore molto diffuso nel cervello e per questa sua funzione dispone di numerosi recettori, uno dei quali è chiamato recettore metabotro­pico del glutammato. La variante identificata nelle cellule gustati­ve è vicina al recettore cerebrale, l'unica differenza consiste nel suo lungo segmento esterno, che è stato amputato.

E il gusto dei grassi?

I grassi sono particolarmente apprezzati da esseri umani e ani­mali, che chiaramente riescono a percepirli. Il meccanismo del loro rilevamento tuttavia non è ancora ben chiaro. L'opinione più dif­fusa è che non sia il gusto propriamente detto a venir coinvolto; le sostanze grasse sarebbero infatti riconosciute tramite la loro con­sistenza cremosa e gli odori delle sostanze volatili in esse contenu­te. Ciò nonostante, studi recenti mostrano che non bisogna esclu­dere un rilevamento chimico dei lipidi al livello del cavo orale. Cosi, soggetti umani ai quali si somministra uno stimolo orale tra­mite un alimento lipidico (formaggio), con le precauzioni necessa­rie per evitare una stimolazione retronasale del sistema olfattivo, mostrano un innalzamento del livello del triacilglicerolo nel sangue, indice di una risposta fisiologica dell'organismo e quindi di una ricezione (Mattes 2001).

Altri esperimenti sono stati condotti con alcuni elementi costitu­tivi dei lipidi, gli acidi grassi liberi a catena lunga (Laugerette e altri 2005). Condotti su topi che avevano subito la legatura dell'esofago, questi esperimenti mostrano che l'introduzione di grassi insaturi nel­la bocca degli animali - ma non quella di grassi saturi - induce, nei minuti seguenti, un aumento della secrezione della bile e un innal­zamento del contenuto proteico del succo pancreatico. La secrezio­ne digestiva sembra anticipare cosi l'arrivo di sostanze lipidiche da digerire. Poiché gli acidi grassi a catena lunga non rappresentano sti­moli olfattivi e non hanno potuto raggiungere lo stomaco, molto verosimilmente sono stati rilevati nel cavo orale. Ora, le papille del­la lingua contengono un tipo di molecola, CD36, noto come vettore di acidi grassi nel tubo digerente. Questa molecola potrebbe svolge­re un certo ruolo nel rilevamento di alcuni lipidi nella bocca.

Se il rilevamento a livello del cavo orale di sostanze di natura lipidica sembra molto realistico, i dati non permettono però di sa-

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LA PERCEZIONE DEI SAPORI

pere con certezza se è solo all'origine di risposte viscerali o se pro­voca anche una percezione cosciente. Il fatto che i topi normali mostrino la loro preferenza per una soluzione contenente acidi grassi a catena lunga, mentre questa preferenza viene meno nei topi privi di CD36, depone chiaramente a favore di una percezio­ne esterocettiva dei lipidi. Si tratta di un soggetto per studi futu­ri, che dovranno analogamente far luce sul meccanismo molecola­re di questo rilevamento periferico. Non c'è dubbio che presto ci sarà un proliferare di ricerche, date le importanti implicazioni sul piano dell'economia e della salute.

Una prima conclusione

Possiamo quindi riassumere lo stato attuale della ricerca sui recettori del sapore: i tipi di recettori identificati fino a questo momento sono decisamente più numerosi dei sapori detti fonda­mentali, tradizionalmente presi in considerazione. Dal momento che la scoperta dei recettori a sette domini transmembrana delle cellule gustative è molto recente, non si può escludere che ne ven­gano identificati ancora altri. Supponiamo tuttavia che il quadro attuale non subisca variazioni sensibili sotto la spinta di ricerche future e soffermiamoci sulla nuova luce che viene cosi gettata sul­la complessa organizzazione dell'universo dei sapori.

A prima vista, possiamo stabilire una corrispondenza tra le cate­gorie gustative postulate tradizionalmente in ambito psicofisico e le categorie di recettori identificate finora. All'acido e al salato cor­risponderebbero allora recettori distinti, dotati di una struttura a canali ionici, mentre gli altri tre sapori condividerebbero famiglie di recettori a sette domini transmembrana. La corrispondenza non sarebbe tra un recettore e un sapore, ma tra una classe di recetto­ri e una categoria di sapori. Poiché è stata riconosciuta la sensibi­lità di molti recettori a molecole dal gusto amaro, sempre che que­sti recettori non siano coespressi da una medesima cellula, sarebbe possibile distinguere percettivamente tra vari tipi di amaro. Per quanto riguarda la categoria del dolce, sono stati descritti almeno due recettori, un monomero e un dimero. Esiste quindi la possibi­lità di distinguere tra molecole dolci, fatto del resto facilmente

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osservabile (Faurion e altri 1980). Quanto al sapore umami, po­trebbe avere a disposizione due recettori.

Possiamo dire di aver riconciliato, con la nostra esposizione, l'ot­tica realista sulle qualità gustative e quella relativista? Apparente­mente sl, basterebbe infatti ammettere che le qualità primarie sono semplicemente categorie che raggruppano numerosi sapori stretta­mente imparentati. Eppure, secondo quest'ipotesi non potremmo descrivere l'universo dei sapori come un vero e proprio continuum. La soluzione si avvicinerebbe quindi di più alla versione realista.

Se gli oppositori della teoria relativista dei sapori fondamentali non sono disposti a farsi convincere, è non di meno vero che di­spongono di un argomento non privo di forza. Abbiamo lasciato intendere che il notevole peso culturale della teoria dei sapori fon­damentali avesse influenzato le ricerche più vecchie, non foss'altro per la scelta dei protocolli sperimentali e degli stimoli impiegati. Si pone allora il problema di sapere se gli studi più recenti che han­no condotto all'identificazione dei recettori non siano stati a loro volta selettivamente orientati. Del resto non può che essere cosl, poiché la strategia seguita per identificare alcuni di essi, partendo da deficit genetici relativi a sapori ben individuati - il dolce, il sala­to, l'amaro, I'umami - focalizzava la ricerca su alcune categorie di recettori. In questo caso, non sarebbe sorprendente che recettori di sapori privi di nome aspettino ancora di essere identificati.

Con l'olfatto e il gusto, non siamo ancora arrivati alla fine della presentazione dei sistemi di rilevamento chimico che contribui­scono al sentore dei cibi. Dobbiamo incontrare anche un sistema sensoriale meno noto, dalla sensibilità multiforme: il nervo trige­mino. Tramite la propria sensibilità chimica contribuisce a creare l'aroma, assicurando anche il rilevamento di altri indizi preziosi relativi agli alimenti, in special modo la loro consistenza e la loro temperatura.

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6.

Una sensibilità meno nota

Il quinto nervo cranico, un nervo molto polivalente, arricchisce con le sue diverse sensibilità, tattile, termica, al dolore e chimica, quella già complessa del!' odorato e del gusto. E quando il peperoncino si trasfor­ma in bruciore e il mentolo in freschezza, alcune fibre di questo ner­vo, sensibili al caldo o al freddo, prestano i loro recettori a molecole che non sono né calde né fredde e che li ingannano.

Mobilitazione generale dei sensi

Nutrirsi è una funzione cosl importante per l'organismo che qua­si tutti i sensi vengono sollecitati per raccogliere il maggior nume­ro di indizi possibile sulle sostanze che si presentano in forma di cibo. I segnali nervosi generati dagli organi di senso o dalle termi­nazioni sensoriali delle mucose di bocca e naso determinano il futu­ro dell'alimento, contribuendo a risposte di riflesso come la saliva­zione, o ad azioni in parte automatiche e in parte volontarie, come la masticazione, la deglutizione o il rigetto. Questo loro ruolo è importante, ma non è l'unico. I segnali nervosi non chimici si asso­ciano agli aromi e ai sapori e vanno a formare, per apprendimen­to, la valenza affettiva dell'alimento. Ogni forma di sensibilità apporta il suo contributo e nessuna è trascurabile. Lo sanno bene i cuochi, che curano la presentazione visiva dei piatti, sorvegliano i tempi di cottura che rendono più o meno tenera la pietanza, ten­gono conto della consistenza, badano a servire le portate alla giu­sta temperatura.

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Tra i vari sensi e sensibilità di cui può avvalersi il nostro corpo, l'equilibrio è il solo a non essere invitato a pranzo. La vista ha una grande importanza nella fase di reperimento e selezione del cibo. Se ancora nutrissimo dei dubbi al riguardo, la sorprendente con­comitanza tra comparsa della piena visione tricromatica nei primati e improvviso aumento della proporzione dei geni olfattivi non fun­zionali ci metterebbe comunque sull'avviso. In questo modo ci ren­diamo conto che il colore è un indizio molto sottile, percepito a distanza, del livello di maturazione di un frutto o della freschezza di un pezzo di carne.

Anche l'udito partecipa alla festa. Messi in bocca e masticati, gli alimenti triturati generano vibrazioni acustiche che rivelano la loro consistenza e le loro proprietà meccaniche, stimolando l'o­recchio dall'interno, tramite conduzione ossea, come si usa dire. Le sostanze si sbriciolano, crocchiano, crepitano, producendo suo­ni complessi, ben individuati, che contribuiscono alla valutazione del prodotto e fanno sl che l'individuo sviluppi delle preferenze.

Il tatto non è da meno. Si occupa della valutazione della consi­stenza, distinguendo ciò che è solido e ciò che è liquido, ciò che è cremoso, ciò che è vellutato, viscoso, pastoso, fibroso, e individua, con l'aiuto della sensibilità dei denti, le particelle dure che resisto­no allo schiacciamento. La resistenza più o meno ostinata opposta dall'alimento alla masticazione è a sua volta valutata dai meccano­recettori dei potenti muscoli masticatori e dai recettori articolari. Le loro indicazioni servono ai neuroni del cervello posteriore per innescare o meno la deglutizione. Infine, il senso termico, altro aspetto della sensibilità generale della testa, rileva il caldo, il fred­do e il tiepido con grande precisione.

Il nervo a tre rami

Oltre ai sensi che hanno a disposizione organi ben individuati come l'occhio, la coclea dell'orecchio interno, l'epitelio olfattivo e le papille gustative, i cibi sollecitano anche le terminazioni nervo­se disseminate nei tessuti di bocca e naso. Queste terminazioni rap­presentano i vettori della sensibilità generale o somestesia. Ap­partengono al quinto paio di nervi cranici, o nervi trigemini (vedi

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UNA SENSIBLITÀ MENO NOTA

fig. 4), e ogni elemento della coppia innerva una metà del volto. Il nervo deve il sùo nome al fatto che, al termine del ganglio di Gas­ser con cui si collega al tronco cerebrale, è composto da tre rami principali che si ramificano a loro volta. Nonostante si tratti essen­zialmente di un nervo sensitivo, nel suo ramo mandibolare contie­ne fibre motrici che comandano i muscoli della masticazione. Com­plessivamente, il nervo trigemino innerva una larga parte del volto e, per quanto ci riguarda più da vicino, la cavità nasale e la bocca (lingua e palato).

Il nervo trigemino, contenendo diverse categorie di fibre nervo­se, assicura anche diversi tipi di sensibilità. A latere del rileva-

VRr Recettore

~o/li1)r ~d:if

Figura 4 Il nervo trigemino. Oltre alla sensibilità tattile, termica e al dolore, questo nervo possie­de anche una sensibilità chimica che si esprime nelle mucose delle fosse nasali, in quelle orali e in quelle della superficie oculare. Il riquadro mostra un esempio di recettore sen­sibile sia alla temperatura che al principio attivo del peperoncino.

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mento degli stimoli tattili, termici e dolorosi, tramite alcune delle sue fibre manifesta una sensibilità che si potrebbe definire chimica e rientra quindi, accanto all'odorato e al gusto, tra i sensi chimici. Non è affatto certo, del resto, che questa sensibilità «molecolare» usufruisca di recettori suoi propri. Potrebbe anche sfruttare, come vedremo a breve, meccanismi di ricezione polivalenti e questo spie­gherebbe forse perché le sensazioni «chimiche» dovute al quinto nervo siano simili a sensazioni tattili, termiche o dolorose. Ora ci soffermeremo brevemente proprio su questo aspetto chimico della sensibilità trigeminale.

Solletico o prurito?

A quali stimoli chimici sono sensibili le terminazioni nervose del trigemino? Una domanda semplice, a cui purtroppo non si può ri­spondere con altrettanta semplicità. Approssimativamente possiamo dire che il nervo reagisce a sostanze irritanti. La sua stimolazione, infatti, è all'origine di reazioni che sembrano opporsi all'inalazione o all'ingestione di prodotti aggressivi verso le mucose. Queste rea­zioni sono dei riflessi, come il rallentamento della respirazione o la sua interruzione momentanea, l'aumento della secrezione nasale e lacrimale e lo starnuto. Contemporaneamente, si presentano sensa­zioni molto forti, che confinano con il dolore. L'inglese impiega l' ag­gettivo pungent per descriverle complessivamente.

Le sensazioni trigeminali mostrano differenze qualitative a seconda degli stimoli. Si tratta di formicolii, di pizzicorio, di mor­si, di un'impressione di calore, di bruciore o di una sensazione di freddo. Molti degli stimoli più evidenti sono molecole solubili nei lipidi. Alcuni comportano dello zolfo, come i tiocianati del radic­chio nero, dci grani di senape, dcl pepe, della cipolla ... Spezie come il peperoncino e il pepe presentano un costituente molto attivo, la capsaicina. Se entra in contatto con le narici o con la bocca provo­ca una forte sensazione di bruciore. Sulla gamma opposta, quella della freschezza, troviamo il mentolo, largamente usato per cara­melle e prodotti cosmetici.

Accanto a queste molecole dagli effetti inequivocabili e caratte­ristici, ne esistono molte altre, identificate con minor certezza, al

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UNA SENSIBLITÀ MENO NOTA

tempo stesso stimoli del nervo trigemino e odoranti in grado di attivare i recettori olfattivi. Generalmente si ammette che l'azione trigeminale di una molecola necessiti di una concentrazione mag­giore rispetto a quella richiesta dalla sua azione più propriamente olfattiva. In media le soglie di percezione vengono raggiunte con concentrazioni cento volte superiori a quelle che innescano la per­cezione olfattiva degli stessi stimoli. Talvolta la sensibilità del tri­gemino è ancora più debole, ma altre volte si avvicina invece a quella olfattiva. Concentrazioni piuttosto forti di odoranti sono quindi in grado di sollecitare sia l'olfatto sia il trigemino; in tal modo lo sperimentatore che voglia indagare il solo sistema olfatti­vo deve scegliere entro un numero limitato di stimoli che studi pre­cedenti hanno dichiarato puramente olfattivi, la vanillina per esem­pio, o l'idrogeno solforato.

Un modo per misurare il grado di sovrapposizione di sensibilità olfattiva e trigeminale è quello di studiare la percezione e l'identi­ficazione di molecole volatili in soggetti affetti da un'anosmia dia­gnosticata come totale. Ci si rende allora conto che i pazienti affet­ti da anosmia percepiscono ancora la presenza di alcune molecole, anche se non sono in grado di attribuire a ognuna di esse una qua­lità specifica. Richard Doty e i suoi collaboratori (Doty e altri 1978) hanno studiato la frequenza con cui vari odoranti vengono percepiti in soggetti affetti da anosmia. Hanno cosl osservato che nessun malato di anosmia era in grado di percepire la vanillina, uno solamente reagiva allo stimolo provocato dall'alcool feniletilico, all'origine del profumo di rosa, e all'eugenolo, che ha l'odore dei chiodi di garofano, mentre odoranti come il limonene, l'anetolo, il salicilato di metile venivano colti da un numero di soggetti oscil­lante tra i due e i tredici. Se ne conclude quindi che la vanillina, non percepita dai soggetti privi di olfatto in senso stretto, è uno sti­molo puramente olfattivo, mentre il mentolo rappresenta un eccel­lente stimolo per il sistema trigeminale; le altre sostanze hanno vari livelli di efficacia sui due sistemi.

Un'altra strategia di ricerca consiste nell'indagare senz'altro il nervo trigemino, registrando la sua attività sotto stimolo; essa però richiede l'accesso diretto al nervo e può essere messa in pratica solo sugli animali. Già gli studi più vecchi effettuati con l'aiuto di elet­trodi che captavano il flusso del quinto nervo avevano messo in

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luce come molte molecole dette odoranti costituivano anche degli stimoli per il nervo. Più recentemente, alcuni ricercatori sono riu­sciti a dimostrare che l'attività elettrica cerebrale captata sul cuoio capelluto poteva, in certa misura, contribuire a discriminare gli sti­moli odoranti da quelli trigeminali. Quando lo stimolo olfattivo viene sottoposto al naso, onde elettriche chiamate potenziali evo­cati compaiono in certi punti, ossia sotto alcuni degli elettrodi col­locati sul cranio (Hummel e Kobal 1992). Le onde sono causate dal-1' arrivo dei flussi nervosi generati dalle fosse nasali e poi dalla reazione a quei flussi dei neuroni della corteccia cerebrale. Tutta­via, poiché il sistema olfattivo e il sistema trigemino indirizzano i loro rispettivi messaggi ad aree diverse del cervello, questi sono captati da alcuni elettrodi meglio che da altri, e cosl, in base all'e­sperienza, gli sperimentatori sono in grado di capire quale sistema ha risposto allo stimolo. In questo modo la vanillina, già indivi­duata da Doty, sarà considerata come una molecola tipicamente olfattiva, mentre il diossido di carbonio, all'origine delle bollicine dello champagne e di altre bevande frizzanti, apparirà come uno stimolo tipicamente trigeminale.

Come il mentolo si traveste da cubetto di ghiaccio e la capsaicina da tizzone ardente

Il fatto che il nervo trigemino trasmetta informazioni relative al tatto e alla temperatura e nello stesso tempo sia dotato di una sen­sibilità chimica pone il problema della natura dei suoi recettori. Dal momento che il nervo è formato da fibre anatomicamente diverse, mielinizzate o meno, si potrebbe ipotizzare che ogni tipo di sensi­bilità dipenda da un gruppo distinto di fibre dotate di recettori loro propri. Per molto tempo ci si è chiesti, in particolare, quali potes­sero essere i recettori della sensibilità chimica. Sono recettori appartenenti alla stessa categoria di quelli che corredano le cellule olfattive o si tratta di recettori di tipo diverso? Almeno per alcuni di essi, da qualche anno conosciamo la risposta. Ed è una risposta abbastanza sorprendente. In poche parole, la sensibilità chimica prende in prestito i propri recettori dalla sensibilità termica.

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lJNA SENSIBLITÀ MENO NOTA 9'

Innanzitutto bisogna ricordare che nei neuroni produttori di fi­bre nervose sensibili alla temperatura sono state individuate nu­merose proteine recettrici che rendono queste fibre reattive a diverse fasce di temperatura (McKemy e altri 2002). Si tratta di recettori diversi da quelli sensibili agli odoranti, ma che comunque possiedono a loro volta numerosi segmenti transmembrana (vedi fig. 4). Uno di essi, VRr,1 segnala il caldo: è attivato da tempera­ture superiori a 40° C. Un altro, CMRr,2 sensibile a una forbice di temperature dai 5 ai 25°C, segnala il freddo. Grazie all'ingegne­ria genetica, è stato possibile far esprimere questi recettori da cel­lule con un'origine completamente diversa. Fornite artificialmen­te di questi recettori, le cellule modificate rispondono a un abbassamento della temperatura, in caso siano dotate di CMRr, a un innalzamento, invece, quando esprimono VRr, e tanto al caldo quanto al freddo se possiedono entrambi i recettori.

Ci si chiederà a questo punto che ne è stato della sensibilità chi­mica. Occorre ricordare prima di tutto che alcune molecole, una volta inalate, inducono sensazioni descritte come di tipo termico. Pensiamo ad esempio al mentolo, che oltre al suo odore di menta, evoca anche una forte sensazione di freschezza. Pensiamo all'im­pressione di calore, se non di bruciore, data dalle spezie che con­tengono la capsaicina, o dalla senape. E non è certo un caso se que­ste sensazioni vengono ricondotte all'ambito della temperatura. Da poco è stato dimostrato che la capsaicina (Caterina e altri 1997) e il mentolo (McKemy e altri 2002) sono stimoli riconosciuti come ligandi, il primo dai recettori del caldo, il secondo dai recettori del freddo. Ci troviamo quindi davanti a una situazione eccezionale in cui alcuni recettori accettano di rispondere sia a fenomeni fisici, i mutamenti termici, sia a sostanze chimiche.

Un nervo davvero diverso dagli altri

In passato si riteneva che le terminazioni nervose del trigemino fossero terminazioni cosiddette libere, non associate cioè a strut­ture terminali, come quelle riscontrate in alcune fibre tattili dota-

1 VR sta per vanilloid receptor; questo recettore ha la struttura di un canale ionico. 2 CMR sta per cold- and mentho!-sensitive receptor.

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te di corpuscoli, quali i recettori di Meissner o di Pacini nella pel­le. Tale quadro non è più vero per alcune di queste terminazioni. Thomas Finger e i suoi collaboratori dell'Università del Colorado (Finger e altri 2003) hanno infatti identificato, nella zona detta respiratoria dell'epitelio nasale, nei ratti e nei topi, cellule epiteliali che presentano numerose somiglianze con le cellule gustative. Esprimono recettori della famiglia T zR, identificati come recetto­ri dell'amaro nell'apparato gustativo e contengono la proteina gust­ducina, caratteristica a sua volta dei recettori gustativi. Queste cel­lule sono anche a contatto con alcune fibre del nervo trigemino, con le quali danno vita a sinapsi, trovandosi cosl in una posizione analoga a quella delle cellule gustative rispetto al nervo gustativo. È inoltre emerso, tramite la registrazione dell'attività elettrica di alcune diramazioni del nervo trigemino, che la stimolazione dell'e­pitelio nasale per mezzo di sostanze tipicamente amare come il denatonio, il chinino e la cicloeximide provocava una risposta da parte di quelle diramazioni. Certo non bisogna per questo conclu­dere che le terminazioni nervose del trigemino nella cavità nasale diano luogo a sensazioni di amaro, poiché, come già abbiamo visto relativamente ai T zR rintracciati nel tubo digerente, la qualità del­le sensazioni dipende essenzialmente dalla regione del cervello che riceve il flusso nervoso. Ora, i percorsi delle fibre trigeminali sono decisamente diversi da quelli seguiti dalle fibre gustative. Proba­bilmente gli effetti sensoriali rimangono confinati alla gamma del­l'irritazione. Non sappiamo ancora se cellule di questo tipo siano presenti nell'uomo.

Il nervo trigemino ha altre proprietà straordinarie, oltre a quel­le che gli derivano dai suoi recettori. Analogamente ai rami sensi­tivi dei nervi rachidei di cui rappresenta l'equivalente nella regio­ne del cervello, il nervo trigemino è composto di fibre i cui corpi cellulari sono collocati all'interno di un ganglio, nella fattispecie, il ganglio di Gasser. I neuroni da cui vengono queste fibre sono cel­lule bipolari, danno cioè origine a due lunghi prolungamenti, l'u­no diretto ai tessuti, l'altro al tronco cerebrale. Rispetto alla dire­zione dei flussi nervosi, le fibre che innervano la mucosa nasale e orale dovrebbero essere concepite come fibre centripete o dendri­ti. Ma questi «dendriti» sono molto lunghi e alcuni sono avvolti di mielina, come gli assoni. Un'altra particolarità sorprendente per

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delle fibre in linea teorica sensoriali è la presenza alle loro estremità di neuropeptidi, quali il neuropeptide chiamato sostanza P e il CGRP (calcitonin gene related protein), che vengono sprigionati in condizioni abbastanza particolari (vedi Bouvet e altri 1987; Get­chell e altri 1989).

Immaginiamo che una fibra capti la presenza di una sostanza irritante grazie ai recettori di cui abbiamo parlato. Essa emette allora un treno di segnali verso il corpo cellulare e il messaggio vie­ne cosl trasmesso al cervello. Ma contemporaneamente si verifica­no anche altri fenomeni. Le fibre del trigemino sono ramificate. Quando il flusso incontra una diramazione, può invadere la rami­ficazione in cui si è imbattuto e, raggiungendo, in un certo senso alla rovescia, la sua estremità, provocare la liberazione dei neuro­peptidi presenti nelle terminazioni, come un potenziale di azione quando guadagna l'estremità di un assone. Alcune delle sue estre­mità sono in contatto con piccoli vasi, altri con ghiandole, altri infi­ne risalgono verso gli strati di cellule olfattive. Grazie a questo meccanismo, chiamato riflesso assonico, l'eccitazione prodotta dal­le molecole irritanti retroagisce, con un corto circuito che non coin­volge i neuroni cerebrali, su bersagli adatti a correggere localmen­te gli effetti aggressivi delle sostanze inalate: si dilatano i vasi sanguigni e il sangue affluisce, le cellule secretrici liberano a loro volta dei prodotti. Questi fenomeni vanno ricondotti alla funzio­ne di protezione assolta dal nervo trigemino.

Un'influenza reciproca: quando i denti rendono i sapori più intensi

Abbiamo appena visto che alcuni impulsi del riflesso assonico arrivano nelle vicinanze delle cellule recettrici. Il quinto nervo cra­nico ha cosl la possibilità di influenzare il funzionamento dei neu­roni recettori, sprigionando uno o più neuropeptidi. D'altra parte, alcuni ricercatori hanno mostrato che ramificazioni del nervo tri­gemino raggiungevano anche il bulbo olfattivo, altra occasione per gli impulsi trigeminali di incidere sul funzionamento dell'olfatto, questa volta a livello più periferico.

La funzione olfattiva non è la sola a interagire con il sistema tri­geminale, anche la genesi dei sapori vi si trova coinvolta. Tra le

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fibre nervose che innervano le papille fungiformi nella parte ante­riore della lingua, si trovano fibre propriamente gustative, quelle della corda del timpano, ma anche fibre del nervo trigemino, tre volte più numerose. Queste fibre, come quelle della cavità nasale, danno origine a sensazioni e riflessi. Il ramo del nervo chiamato nervo linguale reagisce alle componenti del peperoncino, del pepe e di altre spezie irritanti. Ne conseguono riflessi come la salivazio­ne, la vasodilatazione, la secrezione nasale, la lacrimazione, la sudorazione.

Gli stimoli olfattivi e gustativi somministrati in maniera pro­lungata generano fenomeni di assuefazione, le sensazioni provoca­te diventano cioè via via meno intense e talvolta, addirittura, scompaiono. Il sistema trigeminale si comporta in modo diverso. Per esempio se una soluzione di capsaicina viene somministrata ripetutamente sulla lingua, a intervalli regolari di un minuto, le risposte del nervo o le sensazioni diventano sempre più intense, fino a triplicare nel giro di 25 minuti. Si tratta di un fenomeno di sensibilizzazione. Tuttavia, se lo stimolo è somministrato a inter­valli più lunghi, si osserva una riduzione della risposta. Il fenome­no prende il nome di desensibilizzazione. Probabilmente questi effetti si producono a livello dei recettori, coinvolgendo lo ione cal­cio, ma il meccanismo esatto non è ancora chiaro.

I dati sperimentali relativi agli effetti psicofisici delle interazio­ni sono complessi e poco omogenei. E l'interpretazione si fa tanto più difficile in quanto alcune sostanze attive sulle cellule gustative, il cloruro di sodio per esempio, ad alte concentrazioni lo sono anche sulle terminazioni nervose del trigemino. Gli effetti del gusto sull'irritazione appaiono invece più chiari. Cosl la soglia di percezione della capsaicina si innalza quando la soluzione contie­ne anche del saccarosio. In cucina quest'effetto addolcente dello zucchero è ampiamente sfruttato.

Un altro esempio di interazione è dato dall'interscambio tra sen­sibilità dei denti, dovuta alle ramificazioni nervose del trigemino, e sensibilità gustativa (Annick Faurion, comunicazione personale). Durante la masticazione l'attività dentaria rafforza la risposta delle cellule gustative della lingua, mentre la risposta delle papille agli sti­moli gustativi è più debole nelle zone che hanno subito l'estrazione di uno o più denti. Questo fatto si spiega se si considera che alcuni

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rami collaterali degli assoni del quinto nervo cranico arrivano al nu­cleo del fascicolo solitario, che, come abbiamo visto (cap. 5), funge da interruttore per i messaggi gustativi e gli impulsi viscerali.

Piaceri inattesi

Quando gli alimenti contengono sostanze attive sulle termina­zioni del nervo trigemino, nelle fosse nasali e nel cavo orale si svol­gono processi complessi. Alle componenti olfattive e gustative del sentore si aggiungono, interagendovi, sensazioni particolari, che ne variano così qualità e grado. La cosa davvero sorprendente è che alcuni consumatori talvolta ricercano esplicitamente le sensazioni vivaci prodotte dagli stimoli «trigeminali», ad esempio quelle pro­vocate dalle componenti del pepe, del peperoncino o della senape, nonostante non presentino a prima vista nessuna attrattiva. I bam­bini le evitano e i casi di animali addestrati a mostrare una prefe­renza verso queste sensazioni sono del tutto eccezionali.

Sono state avanzate diverse ipotesi a questo proposito. Alcune attribuiscono all'uso di spezie irritanti una funzione adattativa, benefica, quale ad esempio la stimolazione della salivazione o l'oc­cultamento dell'aroma sgradevole della carne avariata; altre anco­ra mettono in risalto il ricco contenuto di vitamina A e C del pepe­roncino. Ogni idea però si presta a obiezioni. Altre ipotesi si basano su osservazioni etnologiche per cui le sostanze dall'alto potere irritante subirebbero la stessa sorte di altri prodotti inizial­mente respingenti come il caffè, l'alcool e il tabacco. La preferen­za matura gradualmente, incoraggiata dai genitori o dal gruppo dei pari che esercitano sui giovani consumatori una certa pressione sociale. L'uso protratto ne renderebbe il consumo meno aggressi­vo, in virtù della desensibilizzazione. Ma in questo caso si descri­ve il fenomeno già assimilato, più che spiegarne l'esistenza stessa; non si capisce infatti la ragione per cui alcuni gruppi umani abbia­no scelto questa pratica, per poi diffonderla ampiamente.

È stata avanzata anche una spiegazione psicologica: a spingere verso questo tipo di consumo sarebbe una sorta di attrazione per un'esperienza dolorosa, quindi pericolosa, priva però di gravi con­seguenze. In termini più strettamente biologici, ricordandosi che

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l'irritazione è una forma di dolore, alcuni hanno ipotizzato che sti­moli trigeminali intensi potessero provocare una liberazione com­pensativa di endorfine, oppiacei endogeni, e indurre cosl stati simi­li a quelli esperiti dai tossicodipendenti. Vedremo più avanti che le vie del piacere alimentare passano attraverso sistemi neurali dotati di recettori sensibili agli oppiacei endogeni e a molecole eso­gene similari. Paul Rozin (1988), che ha studiato attentamente e da diversi punti di vista il consumo del peperoncino, conclude che «la forte attrazione esercitata dal peperoncino, in contrasto con la sua iniziale non-palatabilità, è una sfida per la psicologia delle emozio­ni e per gli studi di storia culturale».

Se dovessimo trarre un'unica lezione da questa panoramica sul­la sensibilità trigeminale, ci soffermeremmo sulla capacità tutta umana di sfruttare un meccanismo primitivo di protezione e di allerta per ampliare la gamma degli stimoli che contribuiscono al piacere di mangiare.

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7.

Ali' origine del piacere di mangiare

In origine c'è il semplice fabbisogno alimentare e il desiderio di rispondere alle necessità del corpo nutrendosi. Le sensazioni procurate dalla sazietà, gli aromi e i sapori del cibo si trasformano allora in pia­cere. La memoria conseroa sia le sensazioni sia il piacere, e così, suc­cessivamente, le prime saranno promessa del secondo. Fabbisogno, desiderio, piacere nascono all'interno di reti neurali che per larga par­te si sovrappongono le une alle altre.

Un'esperienza consueta e misteriosa

Mangiare procura piacere. In termini accademici quest'espres­sione della nostra esperienza quotidiana si traduce cosl: le sensazio­ni generate dall'azione degli alimenti sugli organi del gusto e dell'ol­fatto sono dotate di un valore affettivo, possiedono una dimensione edenica. In effetti, gli odori e i sapori emessi da un alimento, per rimanere ai soli stimoli dei sensi chimici, non si limitano a fornire informazioni sulla natura dell'alimento, sulla sua origine, sul suo livello di maturazione o sul modo in cui è stato cotto e mille altri indizi utili per il nostro sistema cognitivo. Sono parimenti in grado di toccarci emotivamente, inducendo in noi piacere alla loro vista, o in caso negativo, provocandoci disgusto e ripulsa.

Gli stati mentali di piacere e dispiacere, che appartengono alla nostra coscienza emotiva, rappresentano esperienze tanto comuni quanto misteriose. Certamente non è difficile intravederne il signi­ficato biologico (Nicola:idis 1998). È facile intuire che l'evoluzione

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non ha corredato le percezioni olfattivo-gustative di una dimensio­ne affettiva in nome di un edonismo gratuito, e che questa dimen­sione rientra invece in un processo complesso fortemente orientato in senso adattativo per guidare le nostre scelte alimentari. Ma cosa pensare dell'esperienza in sé, del modo in cui si produce? Possiamo dire che il nostro sistema nervoso è strutturato in modo tale da con­sentire fenomeni come il piacere dei sensi? Bisogna accontentarsi di provarlo, limitarsi a celebrarlo con discorsi lirici del genere in cui eccellono i gastronomi ispirati e gli chef di talento? A nostro avvi­so, pur senza essere arrivato a formulare un quadro coerente e una­nime, l'approccio scientifico, esplicativo, alla nostra affettività di consumatori è non di meno riuscito a porre alcuni punti fermi che indicano la direzione verso cui proseguire la ricerca.

Un impulso all'azione

È opinione unanime che l'esperienza del piacere sia del tutto soggettiva. Il signor Rossi non saprà mai con esattezza cosa succe­de nella mente del signor Bianchi che ha appena sollevato il coper­chio della pentola in cui sobbolle uno squisito intingolo. Spesso i filosofi si sono interrogati su questo tema, alla ricerca di un varco per risolvere il problema della coscienza. Pur senza avere davvero accesso allo stato mentale di Bianchi, Rossi sarà comunque in gra­do di fare buon uso di alcuni indizi oggettivi per inferire che l'a­mico ha appena provato un'emozione vicina alla gioia. Le parole, i gesti e la mimica facciale esprimono molto bene gli stati emotivi, e gli esseri umani hanno una notevole competenza, probabilmente universale, per interpretare questi segnali. Basta guardare un indi­viduo intento a mangiare, senza bisogno di commenti, per sapere se trova buono o cattivo l'alimento consumato.

Per quanto riguarda il piacere dato dal cibo - senza pretendere di generalizzare a tutte le altre forme di piacere - occorre notare che può trasformarsi in un sentimento decisamente meno positivo, un sentimento di frustrazione, qualora al reperimento non segua direttamente un'azione, il consumo dell'oggetto fonte di piacere e desiderio. C'è qualcosa di artificiale e di vagamente perverso nel comportamento del degustatore, costretto a sputare sorsate di otri-

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mo vino appena assaggiato. I fisiologi e gli psicologi ne sono sem­pre più convinti: la percezione, e non solo nell'ambito del mangia­re e del bere, non è mai solo pura contemplazione; aspira a tramu­tarsi in azione. 1

Qualcuno potrebbe obiettare che non è sempre così e che non sempre siamo disposti, se ce ne viene data la possibilità, a consu­mare l'oggetto fonte di piacere, ad esempio perché, molto banal­mente, non abbiamo fame. Ma il punto sta proprio qui: gli specia­listi da tempo hanno confermato le intuizioni del buon senso, riscontrando che l'intensità del piacere dato da uno stesso alimen­to è passibile di forti variazioni, in relazione abbastanza stretta con il livello di fame, o semplicemente di appetito, del soggetto (Caba­nac 1971). E non accade spesso di vedere un buongustaio annusa­re all'infinito un dolce dopo che se ne è saziato. L'obiezione quin­di non è accettabile e possiamo mantener ferma l'idea che nel piacere dato da odori e sapori si nasconda la promessa e l'attesa di una pienezza che richiede il consumo.

Abbandonando la soggettività delle sensazioni per indagare più oggettivamente il senso del fenomeno, si rintraccia, nell'ambito specifico dell'alimentazione, uno stretto legame tra il piacere e il desiderio di consumare un alimento, ossia l'impulso a compiere un'azione che rientra tra quelle che ci consentono di vivere la nostra vita biologica. In questa constatazione c'è qualcosa di più di una correlazione logica del tipo: la vista, il profumo, il gusto di que­sto alimento mi procurano piacere, io sono alla ricerca del piacere, quindi lo mangio per goderne ancora di più. Se si tratta di logica, c'è da scommettere che sia una logica inscritta nell'organizzazione anatomica e funzionale del nostro sistema nervoso, nel cablaggio dei nostri circuiti neurali, piuttosto che nel programma dell'appa­recchio che ci induce a creare i sillogismi.

Guazzabuglio di questioni preliminari

Proviamo adesso a trasformare in soggetti di ricerca i problemi che abbiamo appena affrontato. Come abbiamo visto nel capitolo

1 Il terna dello stretto legame tra percezione e azione è fortemente presente nell'opera di Alain Berthoz (2003).

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3, gli odori hanno origine nei processi di rilevamento delle mole­cole volatili da parte dei recettori, nella creazione di messaggi ner­vosi che trasmettono le informazioni generate da tali recettori, nel­la diffusione di questi messaggi in diverse parti del cervello, fino a quando, in alcune aree cerebrali ancora non del tutto chiare, si for­ma quello stato mentale che corrisponde alla sensazione olfattiva. A questo punto, i messaggi nervosi si trasformano in aromi di zup­pa o di crema alla vaniglia. Vi sono tecnici che cercano di capire come questo avvenga e hanno un bel da fare per cogliere attraver­so quali processi si formi la qualità dell'odore, che ci consente di riconoscerlo tra molti altri, indipendentemente dal nostra condi­zione di fame o sazietà.

Sembra scontato che l'odore venga prima rappresentato in modo affettivamente neutro e che solo secondariamente, per addizione, gli venga assegnato un valore affettivo, lungo I' asse piacevole-spia­cevole. In un certo modo si tratterebbe di un processo in due tem­pi. Quest'ottica analitica ha il merito di tener conto sia della sta­bilità della qualità percepita, sia della variabilità delle sue ricadute affettive. A dire il vero, ci sarebbe anche un'altra possibilità, quel­la di una duplice rappresentazione, di due circuiti paralleli, uno dei quali potrebbe essere definito come «cognitivo», in quanto fonte di conoscenze esplicite relativamente stabili, mentre I' altro come «affettivo», perché assegna alla sensazione la sua carica emoziona­le. Come vedremo, l'ipotesi dei percorsi paralleli merita di essere esaminata molto seriamente.

La genesi dei sapori potrebbe essere descritta in maniera abba­stanza simile a quella degli odori, nonostante alcune notevoli dif­ferenze evidenti anche a una prima occhiata. A monte della sensa­zione anche in questo caso si trovano le molecole dei recettori, ma in numero molto minore rispetto al sistema olfattivo. A fronte del­la notevole diversità delle qualità olfattive che sfida i tentativi di classificazione, i sapori sono raggruppati in un numero ristretto di categorie, benché questo numero sia più ampio di quanto si pen­sasse in passato.

Vi sono poi altre due differenze da segnalare, per le loro ricadu­te dirette sul problema del piacere e dell'impulso a mangiare. La prima è che i sapori vengono percepiti solo una volta che l' alimen­to è stato introdotto in bocca. Essi non hanno quindi un'influen-

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za diretta, immediata, sulle tappe che preparano l'ingestione. La loro funzione è quella di permettere o meno la deglutizione e quin­di la prosecuzione del processo cominciato sotto la spinta delle sen­sazioni olfattive e visive. Questa constatazione induce alla ricerca dei mezzi tramite cui i messaggi gustativi controllano, insieme ai messaggi termici e tattili, gli automatismi di accettazione o rifiuto del cibo. Bisogna però riconoscere che se i sapori non si manife­stano immediatamente, il loro ricordo, strettamente legato a quel­lo degli odori, è attivo a partire dalla selezione degli alimenti.

Un'altra differenza consiste nel modo in cui si origina il valore affettivo delle sensazioni. Come abbiamo già notato, gli odori acquistano il loro carattere edonico essenzialmente tramite l'ap­prendimento sensoriale che matura con l'esperienza. Diversamen­te accade per i sapori, all'interno dei quali almeno due categorie, il dolce e l'amaro, hanno un significato anteriore a qualsiasi forma di apprendimento. Come il dolce viene universalmente accettato, cosl l'amaro è universalmente respinto. Ovviamente bisogna fare qualche distinzione, l'esperienza precedente ha sempre un suo ruo­lo e bisogna tener conto dell'intensità degli stimoli. Rimane il fat­to che i cibi amari suscitano per lo meno sospetto e vengono gene­ralmente giudicati cattivi.

Torniamo ora agli odori. Essi innescano, come abbiamo detto, processi cerebrali che elaborano stati indicati come piacere (o disgusto). Dal momento che non tutti gli odori hanno questa pro­prietà, bisogna ammettere che le attività nervose che codificano gli odori «buoni» scatenano altre attività concomitanti che, a loro vol­ta, generano la dimensione edonica associata. A buon diritto quin­di ci si può chiedere se non esistano nel cervello reti neurali acces­sibili ad alcuni messaggi sensoriali, che, una volta attivate da questi messaggi, producano il valore affettivo. Se la percezione della qua­lità e quella del tono affettivo corrispondono a due tappe successi­ve, bisogna immaginare una sorta di filtro frapposto tra il circuito propriamente sensoriale, che produce la qualità dell'odore, e le reti generatrici del piacere. Il «filtro» sarebbe allora permeabile a cer­ti messaggi sensoriali e meno ad altri. La «permeabilità» del filtro non sarebbe però stabilita una volta per tutte, dato che gli odori possono acquisire, per apprendimento, un valore edonico prima assente, e possono anche perderlo.

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Se, in un'altra ipotesi, l'elaborazione nervosa di tipo cognitivo e quella di tipo affettivo si svolgessero in parallelo, non ci sarebbe più bisogno di filtri e di altre interfacce. Ogni via trasmette i pro­pri segnali e svolge il proprio ruolo in maniera relativamente indi­pendente, con il solo vincolo di ricongiungersi all'altra all'interno della memoria di lavoro al fine di ottenere una percezione con­giunta della qualità olfattiva e del suo valore edonico.

L'incontro di piacere e bisogno

Gli scopi esplicativi della ricerca neurobiologica si scontrano con il problema di identificare i circuiti la cui attivazione genera il pia­cere e di individuare le aree cerebrali in cui questi circuiti incon­trano quelli che codificano gli odori. Anche se la strada da percor­rere è ancora lunga, la mappa del sistema olfattivo comincia a delinearsi con chiarezza. I ricercatori hanno due frecce al loro arco per ottenere questa conoscenza: da una lato hanno ben chiaro il punto da cui parte il sistema sensoriale, nella mucosa olfattiva del­le fosse nasali, anche se è meno chiaro dove finiscano le sue termi­nazioni; dall'altro, la funzione del sistema non è concettualmente difficile da cogliere. Il sistema olfattivo serve a sentire gli odori. È invece molto meno semplice per un ipotetico «sistema del piacere», privo di un'entrata e di un'uscita facilmente individuabili, e la cui stessa identità risulta problematica. Vedremo presto che questo sistema può comunque essere intercettato in alcuni dei suoi punti.

Un altro problema è quello di capire come gli stessi odori pos­sano attivare la rete del piacere in alcuni momenti e cessare di far­lo, o farlo meno intensamente, qualche istante dopo. Poiché la variabile individuata è quella nutrizionale, insieme ai relativi sta­ti di appetito e sazietà, bisogna ammettere che l'ipotetica rete del piacere è anatomicamente collegata ad altre reti portatrici del­l'informazione sullo stato energetico dell'organismo e sui suoi bisogni, capaci di attivare i neuroni che modulano lo stato affet­tivo in attesa di stimoli adeguati nel momento della fame, o di di­sattivarli quando subentra la sazietà. Cosl lo stimolo della fame, termine con cui si indica la funzione del meccanismo che porta e distribuisce l'informazione cerebrale sullo stato della nutrizione,

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potrebbe interferire con il funzionamento della rete generatrice dell'affetto.

La nozione di motivazione fa riferimento a uno stato cerebrale simile a una sveglia puntata, che rende l'organismo particolarmen­te ricettivo rispetto a certi stimoli esterni e lo induce a intrapren­dere condotte specifiche. Ma, come ha fatto notare Pierre Karli, la nozione di stimolo può esprimere diversi significati: quello «di motivazione all'azione», ossia ciò che dà all'organismo un motivo di agire, e quello di «impulso motorio», abbastanza vicino a ciò che gli inglesi chiamano drive. Noi impieghiamo l'espressione nel sen-

Ipofisi

Figura 5 L'ipotalamo. Localizzato al centro del cervello, nel diencefalo, l'ipotalamo contiene molti gruppi di neuroni, o nuclei, e una regione estesa di neuroni e di fibre passanti, l'area laterale.

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so di impulso ali' azione, sottolineando la dimensione dinamica del­lo stato cerebrale, e identifichiamo non più il motivo, ma la causa, di questo stato nella presenza di segnali interni, in particolare ormonali, come accade per la fame, la sete e l'appetito sessuale.

Per delimitare i settori in cui cercare l'anello di congiunzione tra affetto e bisogno, tra emozione e motivazione, può essere utile map­pare il sistema delle vie in cui circolano informazioni sul livello ener­getico dell'organismo. Recentemente è stato identificato un punto nodale di queste vie. Alla base del cervello, nella regione nota come ipotalamo (fig. 5), vi sono gruppi di neuroni dotati della capacità di captare la presenza, nella circolazione sanguigna, di messaggeri chi­mici, ossia di ormoni, portatori di indicazioni dirette sullo stato del­le riserve energetiche dell'organismo. Uno di questi ormoni è secre­to dalle cellule che racchiudono proprio, sotto forma di grassi, le riserve dell'organismo: le cellule del tessuto adiposo.

I neuroni dell'ipotalamo captano i segnali di adiposità che pas­sano nel sangue e formano il primo livello di un sistema che ne annovera molti. Controllano cosl il secondo livello posto in altre regioni dello stesso ipotalamo, da cui partono fibre nervose diret­te ad aree diverse del cervello. L'ipotalamo appare dunque come una regione del cervello passibile di ospitare la zona di intersezio­ne e di interazione tra il sistema affettivo-sensoriale e quello del fabbisogno. Sarà interessante allora notare che esistono vie nervo­se olfattive e gustative che portano i propri messaggi all'ipotalamo. E ancora più interessante sarà osservare che alcuni neuroni dell'i­potalamo sensibili agli aromi e ai sapori vedono le proprie risposte agli stimoli di origine alimentare variare a seconda della fame e del­la sazietà (Rolls 1999). Non appena la fame si affievolisce, suben­tra la sazietà e neuroni attivati in risposta agli stimoli prodotti dai cibi cessano di reagire a quegli stessi stimoli. Le reazioni di questi neuroni sono una prova dell'interazione tra segnali esterni relativi agli alimenti e segnali interni relativi al bisogno di nutrirsi.

Ricompensa e rinforzo

Continuando nella nostra analisi teorica dell'eventuale sostrato nervoso del piacere, dobbiamo tornare all'idea che, dalla pura otti-

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ca dell'esperienza soggettiva, il piacere comporti uno sprone a con­sumare gli alimenti. Non è difficile del resto capire come un orga­nismo possa trarre grandi vantaggi per la propria sopravvivenza da un meccanismo che lo spinga a compiere un'azione, l'ingestione di un alimento, le cui caratteristiche sensoriali, causa del piacere, ne ga­rantiscano il valore nutritivo. Ne deduciamo quindi che i mecca­nismi del piacere sono senz'altro collegati alle strutture cerebrali che strutturano l'azione e ne determinano l'esecuzione. Le reti del piacere hanno quasi certamente relazioni sinaptiche con il sistema nervoso che presiede all'azione.

Dovremo percorrere un cammino abbastanza lungo e complica­to per sbrogliare la matassa delle relazioni tra motivazione, piace­re dei sensi e assunzione alimentare. Questo percorso ci porterà innanzitutto a richiamare alcuni studi sul comportamento animale.

Da tempo ci si è resi conto che per insegnare a un animale a svol­gere alcuni compiti, bisognava ricompensarlo in caso di esecuzio­ne corretta dell'ordine. Si tratta del principio base dell'addestra­mento. Il cibo è stato spesso usato come ricompensa. È inoltre necessario che la ricompensa risponda anche a una certa attesa. Un boccone non ha molto valore come ricompensa se l'animale è satol­lo, e non maggiore efficacia avrà l'acqua se non ha sete, ossia se non ha motivo di mangiare o bere. Non si può concepire piacere senza desiderio.

Se si legge la situazione dell'apprendimento in un certo modo, allora si dirà che l'animale agisce per ottenere una ricompensa. Il termine inglese impiegato in questi casi è reward. Lo tradurremo indistintamente come «ricompensa» o «gratificazione». Tuttavia nella nozione di ricompensa c'è quasi un sentore di soggettività, mentre «agire per» sottintende un'intenzionalità da parte dell'a­nimale. Secondo altre concezioni, dette behavioriste, soggettività e intenzionalità vanno invece bandite dallo studio del comporta­mento animale. Una diversa descrizione, quindi, non parlerà più di ricompensa, ma impiegherà il termine, considerato più obiettivo, di «rinforzo». Un animale che vede il suo comportamento «rinfor­zato» tende a riprodurre l'azione sistematicamente seguita dal rinforzo. A prima vista, le due nozioni di gratificazione e rinforzo sembrano descrivere situazioni analoghe. In realtà, l'attenzione non si concentra sugli stessi elementi, e la cornice teorica in cui

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vengono impiegati i due termini è diversa. Il rinforzo a cui si fa appello nella concezione del condizionamento operante elaborata da Burrhus F. Skinner (1938) si definisce come il fattore che farà aumentare la probabilità che il comportamento si orienti in un sen­so piuttosto che in un altro, senza formulare ipotesi sugli stati psi­cologici dell'animale. Queste considerazioni possono sembrare troppo teoriche e sviarci dai nostri obiettivi. In realtà ci accorge­remo che non è cosl. Come vedremo, occorre conoscere l'origine delle varie nozioni per non farsi intrappolare dalle parole.

Ovviamente, a fortiori, la nozione di piacere, che tanto deve all'introspezione, non è ammessa da coloro che intendono attener­si ai fatti oggettivamente analizzabili. Useremo quindi molta cau­tela nel cercare nell'animale indicazioni sui fenomeni che si verifi­cano nell'uomo. Si intravede, in particolare, la possibile esistenza di un legame tra l'aspetto interiore dello stato emotivo, quale l'abbia­mo riscontrato negli esseri umani, e l'azione-stimolo della ricom­pensa, osservata negli animali. È arrivato adesso il momento di par­lare di un fenomeno affascinante scoperto durante alcuni studi sul comportamento animale.

Animali che consumano elettricità

La prima osservazione è che la stimolazione elettrica del cervel­lo in alcune regioni circoscritte induce, nell'animale stimolato, la produzione di azioni volte al consumo alimentare, se gli viene mes­so a disposizione del cibo (Olds e Milner 1954). In assenza di cibo, può impegnarsi in attività sostitutive che rientrano nella sfera ali­mentare, come rosicchiare un oggetto. Questa «risposta» alla sti­molazione elettrica cerebrale è stata interpretata come conseguen­za dell'attivazione artificiale di alcuni circuiti nervosi che, in condizioni normali di stimolazione, in presenza di un alimento, spingono l'animale a mangiare. Una delle aree cerebrali in cui la sti­molazione elettrica si rivela efficace è collocata nella regione la te­rale dell'ipotalamo (fig. 5), un'area che, se lesionata, rende l'ani­male indifferente al cibo e afagico (Powley e Keesey 1970). Bisogna alimentarlo a forza per farlo sopravvivere. Quando ne furono scoperte le proprietà, l'area laterale dell'ipotalamo è stata

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chiamata «centro della fame». Dal momento che la lesione di un'al­tra regione vicina sembrava aver conseguenze contrarie (Anand e Brobeck 1951), ossia un eccesso di alimentazione con esiti di obe­sità, si credeva di aver individuato anche il «centro della sazietà». In seguito la realtà si è rivelata più complessa e la nozione di cen­tro della fame è stata abbandonata a favore di una concezione più ampia del sostrato nervoso della motivazione.

Occorre a questo punto ricordare un'altra scoperta ancora più spettacolare. Se si fa in modo che il topo si autosomministri la sti­molazione elettrica, premendo un pedale che determina la scarica di un elettrochoc per mezzo di elettrodi cerebrali, si osserva che lo fa spesso e volentieri, tralasciando anche, se è il caso, il cibo a disposizione, per dedicarsi a quest'unica attività (Olds 1962). L'e­nergia con cui procede all'autostimolazione è notevole e può pro­seguire fino allo sfinimento. Poiché l'animale attua il suo compor­tamento senza altro stimolo se non quello autosomministrato, se ne deve logicamente concludere che la stimolazione è gratificante o ancora che rappresenta un rinforzo molto efficace.

Fenomeno ancor più sorprendente, il valore di rinforzo della sti­molazione in certe aree cerebrali si dimostra variabile in base agli stati interni. L'appetito lo accresce, la sazietà lo riduce. Questo almeno è quanto si può dedurre dalla frequenza con cui il topo pre­me il pedale che comanda la stimolazione: la frequenza cresce con la fame, diminuisce con la sazietà.

Ovviamente c'è la tentazione di accostare questa situazione a quella di un animale che, motivato dal digiuno, attua il comporta­mento della nutrizione e vede la propria azione rinforzata dalle sti­molazioni sensoriali, olfattive e gustative, provenienti dall'alimen­to. Interpretando più liberamente l'ortodossia behaviorista, si può ipotizzare che l'animale tragga piacere da questa stimolazione, pia­cere tanto più forte quanto maggiore è la sua motivazione.

Si arriva cosl a un attraente schema interpretativo. In alcune aree cerebrali, i topi e gli esseri umani possiedono reti neurali la cui attivazione genera intrins'ecamente piacere. Queste reti sono atti­vate da uno stato interno specifico, quello della fame. Quando una particolare situazione sensoriale genera piacere, significa che è riu­scita ad attivare una di queste reti. E ci riesce solo se la preceden­te esperienza sensoriale e alimentare dell'individuo, per mezzo del-

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l'apprendimento associativo, ha conferito questa determinata pro­prietà ai messaggi sensoriali. Le stimolazioni elettriche insinuatesi artificialmente nelle reti neurali riescono con un'effrazione a supe­rare i filtri incontrati in natura dai messaggi sensoriali, producen­do cosl lo stato affettivo.

E di nuovo l'impulso all'azione

Uno sguardo più preciso o più ravvicinato su questi fenomeni ci consente tuttavia di osservare che, se vogliamo essere rigorosi, non possiamo assimilare automaticamente l' autoelettrostimolazione cerebrale alla realizzazione del piacere. Possiamo oggettivamente dedurne solo il suo valore di rinforzo, in altre parole la sua capacità di indurre il topo a premere il pedale per la stimolazione. Non si tratta solo di una riserva di principio sulla legittimità dell'esten­sione all'uomo di dati ricavati dall'osservazione dei topi. Gli espe­rimenti di autostimolazione sono stati effettuati anche su pazienti umani, in genere pazienti epilettici svegli in cui si cercava di indi­viduare la zona epilettogena. Cosl è stato possibile rilevare che non sempre il piacere si presentava all'appuntamento: i pazienti talvol­ta provavano il desiderio di autostimolarsi senza però ricavarne un piacere chiaramente identificabile (Heath r963).

In questo modo si è fatta strada l'idea di dissociare, almeno in parte, le due nozioni: quella di piacere o ricompensa e quella di sol­lecitazione o rinforzo. A noi certo sembra scontato, trattandosi di esseri umani, che il piacere sia una ragione sufficiente per agire. Eppure forse i due insiemi neurali andrebbero concepiti come distinti e collegati. Un primo sistema indurrebbe uno stato menta­le e manifestazioni fisiologiche caratteristiche, nell'uomo, del pia­cere sensoriale. Un secondo sistema, più difficile da definire e da circoscrivere, risulterebbe invece più vicino al versante motorio dell'attività cerebrale e produrrebbe quip.di l'impulso ad agire.

La distinzione che proponiamo è simile a quella che alcuni auto­ri (Berridge r996) pensano di aver individuato tra «mi piace» (liking) e «lo desidero-voglio» (wanting), in seguito all'analisi di molti dati sperimentali, difficilmente comprensibili senza intro­durre questa distinzione. Nella vita di quotidiana di individui sani

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che ingeriscono cibi desiderabili, i due sistemi si articolerebbero quindi in modo armonioso, senza rivelare in alcun modo la loro effettiva dualità. Tuttavia le loro differenze si manifesterebbero in alcune situazioni sperimentali, o in certe condotte deviate o fran­camente patologiche.

Le droghe: da piacere a pericolosa abitudine

Esiste tutta una serie di fenomeni che sembrano deporre a favo­re della fondatezza della concezione dualista del piacere e dei suoi effetti. Gli esseri umani introducono nel proprio organismo tramite vie diverse sostanze note come droghe, di cui abusano: le sostanze d'abuso. Esse inducono nel consumatore uno stato di assuefazione di cui tutti conosciamo i deleteri effetti. I tossicomani sentono il bisogno irrefrenabile di ripetere regolarmente l'assunzione di stu­pefacenti, ossia la stimolazione farmacologica, un po' come i topi con la stimolazione elettrica. Facciamo notare che anche i topi pos­sono essere addestrati ad autosomministrarsi la droga. «Qualsiasi sistema in possesso di un meccanismo di sollecitazione a mediazio­ne chimica e della capacità tecnologica [di servirsene] è intrinseca­mente vulnerabile alla dipendenza», scrivono Nesse e Berridge (1997). I topi possiedono il meccanismo di sollecitazione, mancano loro le capacità tecnologiche, fornite dallo sperimentatore.

Nel cercar di capire come queste sostanze agiscano sul cervello, i ricercatori hanno dimostrato che esse interferiscono con i recet­tori di alcuni trasmettitori naturali, gli oppiacei endogeni, e che il comportamento del tossicomane coinvolge sistemi neurali almeno in parte simili a quelli identificati nelle ricerche sull' autoelettrosti­molazione cerebrale. Senza dubbio, le droghe che agiscono su tali sistemi hanno in comune con l'attività elettrica la particolarità di penetrare, a loro volta grazie a un'effrazione, nelle reti neurali nor­malmente sollecitate, solo in modo più selettivo, da stimolazioni naturali.

Quando si osserva il comportamento del tossicomane, difficil­mente lo si può considerare come una semplice ricerca di piacere. Il piacere, leuforia, hanno certo accompagnato i primi contatti con la droga, ma, a quanto pare, la ricerca sfrenata del prodotto da par-

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IIO CAPITOLO SETTIMO

te del soggetto in astinenza si fonda su un processo di tipo diver­so. Non si può dire che il soggetto prova piacere nel consumare una droga, quindi la ricerca e la consuma. Chiaramente, c'è anche qual­cosa d'altro, poiché, con o senza piacere, non può fare altrimenti. Stimolazione elettrica e assunzione di stupefacenti hanno forse distolto dalla sua normale funzione un sistema che sollecita il sog­getto a ripetere le azioni potentemente rinforzate durante le pri­me esperienze di stimolo o di consumo.

La ricerca su questo sistema di sollecitazione, sostenuta dalle gravi ricadute della tossicodipendenza, ha prodotto un numero davvero considerevole di lavori che concordano su un dato: il pia­cere, nella sua componente di sollecitazione, coinvolge un sistema di neuroni ben definito che ha origine in un'area del mesencefalo, arriva nella parte anteriore del cervello in un nucleo chiamato nucleo accumbens ed emette il neurotrasmettitore dopamina. Que­sto sistema dopaminergico, come viene chiamato, è in certo modo imparentato con un altro sistema basato sulla dopamina (e sulla noradrenalina), la cui insufficienza porta al morbo di Parkinson, malattia che interessa una regione del sistema motorio, lo striato dorsale. A questo punto della nostra indagine, abbiamo chiara­mente individuato - ed è questo che ci limiteremo a sottolineare -una componente del sistema di rinforzo, mentre ci riserviamo di analizzare più avanti i modi con cui essa si collega agli altri circui­ti della motivazione e del piacere.

Abbiamo appena abbozzato a grandi linee le direttrici della riflessione che intendiamo portare avanti nei prossimi capitoli. Torneremo innanzitutto, nel prossimo capitolo, sulla neurofisiolo­gia della fame e della sazietà su cui disponiamo ora di dati precisi e numerosi. Parleremo quindi dell'origine della motivazione, in altre parole di quel tipo particolare di desiderio che è il desiderio di mangiare.

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8.

Fame e sazietà

Mentre una certa quantità di calorie entra nell'organismo sotto for­ma di nutrimento, altre ne escono sotto forma di lavoro e di calore. Il bilancio che ne risulta è sorprendentemente equilibrato grazie all'azio­ne del cervello che regola l'assunzione alimentare inducendo fame e sazietà. E questo in virtù di numerosi messaggi umorali e nervosi che lo informano puntualmente sullo stato nutrizionale dell'organismo.

Il capitolo precedente ci ha portato a scorgere nel piacere legato al consumo alimentare un'invenzione dell'evoluzione per indurre gli organismi evoluti a ingerire in giusta quantità i cibi più adatti ad assicurarne la sopravvivenza. Prima di incamminarci verso il centro delle operazioni nervose che generano il godimento gastro­nomico, non possiamo fare a meno di riesaminare più nel dettaglio il compito per cui l'apporto del piacere è ritenuto necessario: la ricerca dell'equilibrio nutrizionale. Ci troviamo a questo punto nel campo della fisiologia, a cui ci rivolgiamo per avere chiarimenti sul­l'origine di fame e sazietà.

Il balletto delle calorie

Nonostante alcune gravi anomalie del peso corporeo, da alcuni decenni sempre più frequenti specialmente nei Paesi sviluppati, gli esseri umani mantengono normalmente il loro peso entro limiti piuttosto rigidi, per periodi di tempo molto lunghi. Cosl, nel cor­so di un decennio durante il quale un soggetto adulto consuma

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II2 CAPITOLO OTTAVO

alcune decine di milioni di chilocalorie, il suo peso aumenta in linea teorica di alcune centinaia di grammi, il che significa, nell'ipotesi che il surplus consumato sia interamente immagazzinato sotto for­ma di grassi, uno squilibrio dello 0,17 per cento in dieci anni (Friedman 2000). Una stabilità di questo tipo, un equilibrio cosl rigoroso, nonostante le differenze nel consumo da un pasto all' al­tro e le fluttuazioni dell'attività fisica, sono possibili solo perché I' organismo è dotato di mezzi di regolazione molto efficaci. Que­sto sistema di regolazione viene chiamato omeostasi energetica.

I meccanismi che presiedono alla regolazione sono numerosi e molto complessi. Si svolgono a diversi livelli dell'organismo, dalle singole molecole al corpo nel suo insieme, fino al comportamento dell'assunzione alimentare. Dati i nostri scopi, ci limiteremo ad analizzare il ruolo del sistema nervoso nei processi di regolazione.

Abbiamo visto che gli alimenti - o per meglio dire i macroali­menti - possono essere caratterizzati dal valore energetico, il qua­le a sua volta dipende dalla loro natura chimica. D'altra parte il corpo spende energia non solo per realizzare attività fisiche e intel­lettuali, ma anche per far vivere le cellule e i tessuti mentre sta a riposo. Ne utilizza anche per assorbire e assimilare il nutrimento. Dopo un pasto, si assiste a un'accelerazione del metabolismo, nota come «termogenesi postprandiale». Questa produzione di calore può avere due componenti (Acheson e altri 1984): una, detta obbli­gatoria, legata al costo energetico della digestione, dell'assor­bimento, del metabolismo e dell'immagazzinamento dei cibi; un'altra, detta facoltativa, la cui portata dipende dalle proprietà sensoriali dei cibi ingeriti e, forse, dal loro valore edonico (LeBlanc e Brondel 1985; Brondel e altri 1999). In ogni caso, la contabilità delle entrate e delle uscite d'energia ha una valuta unica, le chilo­calorie.

Per ottenere un bilancio equilibrato tra consumo alimentare e dispendio energetico, l'organismo in teoria può agire sull'assun­zione alimentare o sul consumo energetico, il che equivale ad aumentare l'attività fisica se l'individuo si è nutrito in abbondan­za di un cibo particolarmente ricco oppure ridurre l'assunzione ali­mentare se l'attività fisica è stata scarsa. Se l'ago della bilancia energetica indica un'assunzione eccessiva, ne consegue un aumen­to del peso corporeo, a causa di un accrescimento delle riserve di

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FAME E SAZIETÀ II3

grassi nel tessuto adiposo. Se il bilancio è invece negativo, vengo­no mobilitate le riserve di grassi, bruciate per compensare lo squi­librio. Gli specialisti del metabolismo sono in grado di calcolare lentità di questi scambi, una volta note la natura e la quantità dei cibi consumati e l'intensità del dispendio energetico. Il vero pro­blema sta nel capire come il corpo riesca a eseguire, normalmente in modo molto preciso, questo stesso calcolo.

Secondo una prima ipotesi, l'organismo potrebbe raggiungere l'o­meostasi agendo soprattutto sul consumo alimentare. Ma non è del tutto esatto, il corpo infatti ha anche la possibilità di agire sul con­sumo energetico, per esempio liberando energia in forma di calore invece di immagazzinarla. Ma l'attività fisica, tramite cui viene con­sumata l'energia, ha in genere scopi suoi propri e obbedisce a impe­rativi diversi dalla semplice omeostasi energetica. La principale va­riabile nella regolazione energetica rimane quindi il comportamento di assunzione alimentare. Il problema così è innanzitutto quello di far corrispondere l'assunzione alimentare al fabbisogno dell'organi­smo, fermo restando che si tratta di esigenze variabili.

Ma cosa intendiamo, quando parliamo di «fabbisogno»? Per semplicità, ci limiteremo al fabbisogno di tipo quantitativo, che si esprime in termini di energia, e metteremo tra parentesi il fabbi­sogno di tipo qualitativo, in particolare quello inerente le moleco­le indispensabili che l'organismo è incapace di sintetizzare, come alcuni aminoacidi e alcuni acidi grassi, e come i micronutrimenti, quali vitamine e sali minerali. Il fabbisogno corrisponderà quindi al consumo da compensare con corrispondenti apporti energetici. Come vedremo, a questo scopo il sistema nervoso dispone di un indizio importante, fornitogli da alcuni ormoni: lo stato delle riserve di grassi.

Il fabbisogno dell'organismo, tuttavia, non può essere soddisfat­to tramite un consumo alimentare continuo, destinato a interrom­persi solo una volta che l'equilibrio si sia ristabilito. Il lasso di tem­po che intercorre tra l'assunzione alimentare e la trasformazione dei cibi in energia da utilizzare o in grassi da immagazzinare è troppo lungo per consentire una rapida retroazione. Se un certo tipo di nutrimento, come gli zuccheri rapidi, viene assimilato molto velo­cemente, l'assimilazione completa di altri tipi di alimenti può richie­dere diverse ore. Inoltre, in natura, gli animali sono costretti a nu-

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trirsi in maniera discontinua, in maniera casuale, a seconda del repe­rimento di una fonte di cibo. E anche quando il cibo non scarseg­gia, i loro pasti hanno un inizio e una fine, mentre la loro durata determina grosso modo la quantità consumata. Anche l'uomo si nutre durante i pasti. 1 Tocca quindi al sistema nervoso controllare l'assunzione alimentare complessiva durante quel determinato lasso di tempo, agendo sui parametri del pasto. Il cervello deve così rice­vere in tempo reale informazioni sulla quantità di alimenti assor­biti e, dal momento che non tutti i cibi sono equivalenti quanto a contenuto calorico, deve anche essere informato sulla natura di quegli alimenti. Di questo compito si occupano i sistemi sensoriali di bocca e naso, che controllano l'ingresso del tubo digerente e i recettori meccanici e chimici di stomaco e intestino che comunica­no le informazioni al cervello per via nervosa e ormonale.

Il compito del sistema nervoso ovviamente non è solo quello di valutare il fabbisogno del corpo e di inventariare gli apporti ener­getici. Al contrario, agisce, interviene direttamente, e la difficoltà principale consiste proprio nel ricostruire le modalità di quest'in­tervento che passa tramite meccanismi completamente automatici come quelli coinvolti nel sistema neurovegetativo, detto anche autonomo, e attraverso vie che sollecitano esplicitamente l'azione, ma che risultano anche più misteriose, come quelle che coinvolgo­no il piacere di mangiare e tutte le sue sfumature.

La voce di fame e sazietà

Le sensazioni che traducono appetito e fame, le azioni tramite cui l'organismo cerca, sceglie e ingerisce gli alimenti, i fenomeni che interrompono provvisoriamente l'ingestione e fanno soprag­giungere la sensazione di sazietà, coinvolgono il funzionamento del sistema nervoso (fig. 6). Per indurre queste sensazioni e provocare il consumo alimentare, il cervello può disporre di molti tipi di se­gnale, che la ricerca man mano sta scoprendo. Alcuni, come ab­biamo visto, sono evidenti. Sono emessi dai cibi stessi prima del­l'assunzione e dell'ingestione. Si tratta di segnali esterni. La loro

1 La parcellizzazione, la frammentazione dei pasti registrata sempre più spesso in alcuni Paesi è uno dei tanti motivi chiamati in causa per spiegare l'aumento dei disordini ponderali.

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FAME E SAZIETÀ 115

funzione principale è quella di fornire l'informazione che determi­na la decisione e il comportamento di consumo alimentare. Hanno anche il compito di anticipare le reazioni fisiologiche dell'ingestio­ne. Cosl, la presenza in bocca di zuccheri innesca un innalzamen­to della quantità di insulina nel sangue che anticipa l'arrivo degli

Nucleo paraventricolare

Tessuto adiposo

®?

Figura 6 Vie nervose e umorali del controllo di fame e sazietà (CCK: colecistochinina).

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II6 CAPITOLO OTTAVO

alimenti nel tubo digerente (Louis-Sylvestre e Le Magnen 198ob; Bellisle e altri 1985). Si ha così la fase cefalica di liberazione del­l'insulina. Altri segnali sono meno evidenti e sfuggono completa­mente all'introspezione. Si tratta di segnali interni all'organismo. Ed è proprio di questi segnali e del modo in cui svolgono la loro funzione che parleremo adesso.

Per praticità, i segnali interni sono stati suddivisi in due catego­rie. Le informazioni di cui deve disporre il sistema nervoso per rego­lare il peso corporeo e il suo contenuto energetico sul lungo termine non sono infatti le stesse di cui ha bisogno per controllare I' assun­zione alimentare a breve termine, corrispondente a ogni singolo pasto. I primi sono stati chiamati segnali di adiposità, in quanto legati abbastanza strettamente alla quantità di energia immagazzi­nata dal corpo in forma di grassi; i secondi sono detti invece segna­li di sazietà, in quanto danno informazioni sullo stato del tubo dige­rente e sulle conseguenze immediate dell'ingestione, e servono a interrompere il pasto. Come si può facilmente immaginare, i due sistemi di segnali non possono essere completamente indipendenti, poiché l'equilibrio energetico a lungo termine dipende in ultima analisi dalla regolazione delle azioni alimentari a breve termine.

Molecole che indicano l'adiposità

Un periodo prolungato di digiuno, sia nell'animale sia nell'uo­mo, comporta una perdita di peso seguita da un recupero graduale del peso normale quando la privazione ha termine. Il ristabilimen­to del peso corporeo si realizza tramite un aumento dell'assunzione alimentare (iperfagia), che torna poi a un livello normale. Il pro­cesso contrario si osserva quando un animale è costretto a ingras­sare tramite ingozzamento. Quanto la coercizione viene meno, l'as­sunzione alimentare spontanea viene in un primo tempo ridotta, poi riprende il normale andamento, una volta riconquistato il peso iniziale. In entrambi i casi ci troviamo davanti a un chiarissimo processo di regolazione.

Per molto tempo gli scienziati sono stati impegnati nella ricerca delle fonti di informazione a disposizione del cervello per valutare il fabbisogno nutritivo del corpo. Si pensava che il segnale dovesse

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FAME E SAZIETÀ 117

consistere in una qualche sostanza la cui concentrazione fosse in grado di riflettere con buona approssimazione lo stato nutrizionale e potesse essere captata da recettori collegati al cervello. C'era an­che una sostanza che sembrava rispondere a questi requisiti, il glu­cosio. Questa piccola molecola è un prodotto della digestione, veico­lato dalla circolazione sanguigna, assorbito dai tessuti e soprattutto dai neuroni, per i quali rappresenta una delle principali fonti di energia. La concentrazione sanguigna del glucosio, la glicemia, è sottoposta a una regolazione mediata dall'insulina rilasciata dal pan­creas, mentre la liberazione di insulina dipende a sua volta princi­palmente dal glucosio. Quando il livello della glicemia aumenta, l'insulina interviene per favorire la trasformazione del glucosio in grasso, mentre un altro ormone, rilasciato anch'esso dal pancreas, dà luogo alla trasformazione contraria quando la glicemia si abbassa.

Le ricerche sul cervello hanno mostrato che alcuni neuroni dell'i­potalamo sono molto sensibili alla presenza di glucosio e che variano la frequenza dei loro impulsi a seconda del contenuto di glucosio del loro ambiente (Oomura 1976). Da tempo la teoria glucostatica, in cui il contenuto di glucosio veniva considerato il parametro fonda­mentale della regolazione energetica, aveva preso in considerazione il ruolo del glucosio come segnale di bisogno e fattore di innesco del-1' assunzione alimentare. In una versione aggiornata di questa teoria (Mayer 1955) venne avanzata l'ipotesi che l'assorbimento del gluco­sio da parte dei tessuti corporei implicasse una differenza glicemi­ca tra sangue arterioso e sangue venoso. Finché questa differenza fosse stata sufficiente, il glucosio poteva essere assorbito e si ave­va la sazietà. Quando invece la differenza tra il glucosio arterioso e quello venoso diminuiva, quando cioè il glucosio non poteva più essere assorbito - il che richiede la presenza di insulina -, allora tornava la fame.

L'ipotesi sembrò trovare conferma in alcuni esperimenti realiz­zati con i topi, in cui un modesto abbassamento della glicemia era riscontrabile qualche minuto prima dell'inizio di ogni pasto spon­taneo (Louis-Sylvestre e Le Magnen l98oa). Ma l'idea che la glice­mia, da sola, potesse regolare l'assunzione alimentare non soprav­visse a una valanga di obiezioni. Altri prodotti della digestione, gli aminoacidi, furono allora presi in considerazione per un certo periodo come possibili segnali di controllo dell'assunzione alimen-

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tare, nel quadro di una teoria aminostatica, senza però riuscire a convincere la comunità scientifica. In realtà, il glucosio e gli ami­noacidi potevano avere un ruolo nell'assunzione alimentare a bre­ve termine, ma ben presto emerse che non erano in grado di riflet­tere i fabbisogni dell'organismo sul lungo termine.

Molto prima di scoprire quale fosse il segnale della regolazione sul lungo termine, i fisiologi elaborarono l'ipotesi che dovesse avere a che fare in un modo o in un altro con il peso corporeo. Si misero quindi alla ricerca di un ponderostato. Cosi, a partire dal 1953, venne for­mulata l'ipotesi (Kennedy 1953) che segnali inibitori fossero prodot­ti sulla base delle riserve di grasso corporeo e agissero a livello cere­brale, specie nell'ipotalamo, per ridurre l'assunzione alimentare. In questo modo, quando la perdita di peso indotta dalla riduzione calo­rica faceva diminuire il livello di questi segnali inibitori, l' assun­zione alimentare aumentava fino a correggere il deficit energetico.

La concentrazione sanguigna degli ormoni corticoidi rilasciati dalle ghiandole cortico-surrenali sembrò ad altri (Cabanac e Ri­chard 1996 riattualizzarono un'ipotesi proposta tempo prima da Hervey) un buon candidato per un ipotetico ponderostato. Questi ormoni sono solubili nei grassi, la loro concentrazione nel sangue dipende in parte dal volume dei lipidi immagazzinati: se le riserve di grasso diminuiscono, la concentrazione sanguigna risulta alta; se la massa adiposa è abbondante, la concentrazione dell'ormone è bassa. È però solo a partire dal 1994 che venne formulata l'ipote­si più convincente sulla natura di un fondamentale segnale di adi­posità. Le scoperte legate a quest'ipotesi, in larga parte frutto del­la genetica molecolare, segnano una svolta nella conoscenza della regolazione dell'assunzione alimentare.

La storia comincia nel 1994 con l'identificazione, in un ceppo di topi obesi e iperfagici, di un gene mutante (ob) che si rivelò come il gene che presiedeva la sintesi di un ormone, la leptina, secreto dalle cellule adipose, o adipociti (Zhang e altri 1994). Più tardi si scopri che la leptina è secreta anche in molti altri siti, tra cui la placenta e la parete dello stomaco. L'obesità dei topi geneti­camente mutati poteva essere attribuita all'alterazione dei due esemplari del gene e alla conseguente assenza di leptina. Quando il normale livello di leptina viene ristabilito artificialmente, i topi riducono l'assunzione alimentare e perdono peso.

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FAME E SAZIETÀ rr9

Studi successivi portarono nuove conferme, in particolare quel­la della presenza del gene negli esseri umani. Venne provato che la leptina circola nell'organismo con una concentrazione più alta nel­la donna rispetto all'uomo, che è secreta in proporzione al conte­nuto di grassi corporei e che raggiunge il cervello, in particolare una regione, quella dell'ipotalamo, il cui ruolo determinate nel controllo dell'assunzione alimentare è da tempo oggetto di spe­culazioni. Il partner indispensabile della leptina, ossia il suo re­cettore, fu scoperto e studiato (Tartaglia e altri 1995) in un'altra mutazione, che rende obesi i topi di un ceppo chiamato Zucker. In questi topi, non è il segnale leptina a mancare, ma i recettori per rilevarlo. Quando non sono assenti, i recettori sono collocati esattamente Il dove ci si aspetterebbe di trovarli, ossia sui neuro­ni dell'ipotalamo.

Facciamo notare per inciso che la scoperta della leptina e della sua mutazione non ha, sul trattamento dell'obesità umana, quelle conseguenze positive che sembrerebbero scontate. E il motivo è che il gene della leptina è responsabile dei disordini ponderali di uomini e donne solo molto raramente. Conosciamo un numero molto ridotto di casi di mutazione del gene dell'ormone o di quel­lo del suo recettore negli esseri umani (Clément e altri 1998). Tali mutazioni sono cosl gravi che i geni mutati non possono diffon­dersi nella popolazione.

Non tutti i casi di sovrappeso evidentemente dipendono dalla genetica, e quando succede c'è l'intermediazione di geni di suscet­tibilità o di predisposizione. Si chiamano cosl geni che manifesta­no la loro presenza solo in certi ambienti particolari. Mettiamo, ad esempio, di avere due ceppi di topi. Nutriti con una dieta di labo­ratorio standard, hanno lo stesso peso. A entrambi viene sommi­nistrata una dieta ricca di lipidi, ed ecco che un ceppo diventa obe­so, mentre laltro mantiene il peso normale: si evidenzia cosl in uno dei due ceppi un gene di suscettibilità all'obesità. Tali geni sem­brano relativamente numerosi e hanno sulla regolazione dell'as­sunzione alimentare un'azione meno diretta rispetto a quella dei geni della leptina e del suo recettore. In alcuni soggetti umani oggetto di studio, l'obesità dovuta alla mutazione si accompagna a gravi disordini nella regolazione degli ormoni sessuali. Raramente un sistema di segnali biologici ha una sola funzione.

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La leptina è notevole in questo senso, poiché la sua modalità di azione rientra in uno schema interpretativo abbastanza chiaro, no­nostante il meccanismo in sé non sia ancora conosciuto nel detta­glio. Più complessa risulta invece l'interpretazione del ruolo svol­to da un altro ormone, l'insulina, come segnale di sazietà. Già da tempo è nota l'importanza di quest'ormone in ambito nutriziona­le. Prima della leptina, è il primo segnale a esser stato collegato con il controllo dell'assunzione alimentare. Risponde agli stessi requi­siti della leptina per candidarsi al ruolo di segnale di adiposità: la concentrazione nel sangue è proporzionale al contenuto di grasso corporeo; penetra nel cervello dove ha i suoi recettori; la sua som­ministrazione sperimentale nei ventricoli cerebrali fa diminuire l'assunzione alimentare; l'abbassamento della sua concentrazione produce l'effetto opposto.

Per spiegare la variazione della concentrazione dell'insulina nel sangue in base al contenuto di grasso corporeo, si ricorre a un mec­canismo di diminuzione della sensibilità delle cellule all'ormone, che costringe le cellule del pancreas a secernerne in misura mag­giore. L'aumento della secrezione di insulina con il progredire del­l'obesità dovrebbe quindi far aumentare anche il livello dell'insu­lina nel cervello, il che consente di liinitare una nuova crescita di peso. La complessità del meccanismo è accresciuta dal fatto che l'insulina non solo dipende dal glucosio per regolare la propria secrezione, ma è anche il bersaglio di ormoni secreti, in seguito all'ingestione di cibo, da alcune cellule dell'intestino, gli ormoni insulinotropici o incretine. Infine, bisogna aggiungere che leptina e insulina non agiscono indipendentemente l'una dall'altra.

I segnali della sazietà

Gli alimenti che penetrano nel tubo digerente nel corso di un pasto si accumulano prima nello stomaco, dove rimangono finché non si apre lo sfintere del piloro, prima mantenuto chiuso da un meccanismo inibitore. La loro presenza può essere rilevata e valu­tata quantitativamente da alcune componenti del sistema nervoso, meccanorecettori sensibili all'allentamento delle pareti dello sto­maco. In questi elementi sono state riconosciute le terminazioni

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sensoriali di una parte del sistema nervoso parasimpatico, il nervo vago, chiamato anche nervo pneumogastrico o decimo nervo cra­nico. È stato dimostrato che questo nervo trasmette segnali al cer­vello posteriore ed è stato provato che questi segnali sono parte importante dell'appagamento a breve termine.

Molti segnali chimici sono rilasciati da cellule secretrici nell'in­sieme del tratto digerente, quando gli alimenti abbandonano lo sto­maco per penetrare poi nelle diverse parti dell'intestino. Questi segnali hanno vari modi di esprimersi e spesso ne attuano molti contemporaneamente. Alcuni passano nella circolazione sanguigna e raggiungono i loro bersagli nel sistema nervoso centrale; altri esercitano la loro azione tramite l'intermediazione di elementi ner­vosi, specialmente il nervo vago, di cui attivano le terminazioni nella parete intestinale. Altri ancora agiscono direttamente su alcu­ne cellule intestinali che emettono allora un segnale di contatto. Questo complesso sistema di segnalazione è caratterizzato da una certa selettività chimica che gli consente di trasmettere informa­zioni sulle proprietà chimiche degli alimenti.

Una delle molecole più studiate è un peptide chiamato coleci­stochinina (CCK; vedi fig. 6), considerato l'ormone della sazietà, specialmente rispetto ai grassi. È prodotto da alcune cellule dello stomaco, sotto l'influenza indiretta degli alimenti, grazie ad altre molecole proteiche, chiamate fattori di liberazione. Il segnale CCK agisce molto probabilmente tramite due vie: raggiungendo attraver­so la circolazione sanguigna alcuni neuroni dell'ippocampo che pos­siedono recettori specializzati nel rilevarlo (CCK-A); agendo local­mente sulle terminazioni del nervo vago che presentano anch'esse dei recettori CCK-A. Oltre a essere coinvolta nel fenomeno della sazietà, la molecola interviene, con la mediazione del nervo vago, anche in fenomeni vegetativi come l'inibizione dello svuotamento gastrico.

Molti altri peptidi sintetizzati dalle cellule del tubo digerente in presenza di alimenti agiscono sulla sazietà. Possiamo ricordare l' en­terostatina, prodotta nel duodeno, che, oltre ad attivare un enzima della digestione dei lipidi, frena il consumo alimentare in diete ric­che di grassi; la sua azione potrebbe far intervenire il nervo vago, proprio come nel caso della colecistochinina; il peptide YY, secre­to da cellule endocrine della parte terminale (distale) del tubo dige-

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122 CAPITOLO OTIAVO

rente, ha parecchi effetti sul processo digestivo e sulla sazietà. Al­cuni recettori (Y 2R) di questo peptide sono stati rinvenuti in un nucleo dell'ipotalamo, il nucleo arcuato, la cui influenza sulla rego­lazione dell'assunzione alimentare è piuttosto fondamentale. La lista aumenta regolarmente grazie all'apporto di nuovi fattori umo­rali della sazietà. 2

Dopo esser stati digeriti dagli enzimi prodotti dalla mucosa inte­stinale e dal pancreas, alcuni tipi di nutrimento come il glucosio e gli aminocidi vengono assorbiti da cellule intestinali, poi rilasciati nello spazio extracellulare, da cui raggiungono i capillari sanguigni che li riversano nella vena porta, che irriga il fegato. Si tratta di un luogo adatto al rilevamento dei primi prodotti della digestione. Di fatto, diversi studi hanno mostrato che il ramo epatico del nervo vago risponde alla presenza del glucosio e degli aminoacidi.

L'ipotalamo

Già diverse volte abbiamo citato l'ipotalamo come probabile destinazione di molti dei segnali regolatori emessi dagli organi e dai tessuti connessi con il rilevamento degli alimenti, la loro trasfor­mazione e il loro stoccaggio. Questa regione del cervello riunisce, in un volume relativamente modesto rispetto all'intera massa cere­brale, moltissimi neuroni raggruppati in nuclei dalle funzioni tan­to diverse quanto strettamente interconnesse (vedi fig. 5, p. rn3). Tutti i comportamenti considerati fondamentali, quelli che assicu­rano la sopravvivenza degli individui e la continuità della specie, coinvolgono l'ipotalamo. Al suo ruolo nell'elaborare le motivazio­ni di base, e con scopi analoghi, si aggiungono le funzioni endocri­ne, in quanto dall'ipotalamo provengono ormoni destinati a orga­ni bersaglio o fattori di liberazione che controllano la vicina ipofisi e le altre ghiandole endocrine.

2 Un'altra sostanza, la galanina, sempre di natura peptidica, si lega a molti recettori nell'ipo- li

inhibitory polypeptide) e il GLP-r (glukagon-tike peptide-I), molecole che stimolano la secrezione talamo. Abbiamo già incontrato le incretine, i cui rappresentanti principali sono i GIP (gastric- li

di insulina in presenza cli glucosio. Recentemente è stata scoperta l'obestatina (Zhang e altri 2005), un ormone che toglie l'appetito nel topo. Cutiosamente la sintesi dell'obestatina è controlla-ta da un gene che produce il precursore cli un altro ormone, la grelina, dalle proprietà opposte e chia-mato ormone della fame.

1

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I neuroni dell'ipotalamo hanno proprietà e funzioni che, ancor più che in altre regioni del cervello, si discostano da quelle classi­camente attribuite al neurone. Sia cellula secretrice che supporto di impulsi elettrici, il neurone ipotalamico utilizza tutta la gamma delle possibili comunicazioni cellulari. Questo tipo di neurone sin­tetizza e libera peptidi in abbondanza, molti dei quali imparenta­ti del resto con i messaggi emessi dal tubo digerente, che funzio­nano sia come neurotrasmettitori nella comunicazione sinaptica sia come ormoni dall'azione differita. Gli scambi tra neuroni non implicano soltanto recettori membranacei capaci di tradurre velo­cemente in termini di variazioni di potenziale elettrico l'arrivo delle molecole di neurotrasmettitori nella fessura sinaptica. I mes­saggeri molecolari hanno effetti più di lungo termine su alcuni recettori intracellulari e, per questo tramite, sulla sintesi di tra­smettitori o ormoni da parte dei loro bersagli. Raramente succe­de che, quando questi neuroni sono attivati, liberino un solo tipo di messaggio chimico.

Pur non essendo l'unico nel cervello - anzi-, l'ipotalamo non si preoccupa affatto di organizzarsi secondo le suddivisioni tanto amate dagli studiosi che cercano di capirne il funzionamento. È completamente inutile cercare il centro della fame o l'agente del sesso. Per ogni motivazione riconoscibile, ogni funzione ragione­volmente individuata dal fisiologo, l'ipotalamo offre diversi grup­pi cellulari e un numero abbondante di neuropeptidi. Certo non si tratta di una regione disorganizzata. Ma le varie strutture e le loro connessioni seguono prindpi di organizzazione che ci sfuggono perché rispondenti a esigenze che non siamo ancora in grado di individuare e perché siamo ben lontani dal padroneggiare la dimen­sione evolutiva che ha modellato quest'antichissima regione del cervello. Dato che i molteplici rapporti di inibizione e attivazione si svolgono tanto in serie quanto in parallelo, la pluralità di fattori e la varietà della scala temporale su cui si manifestano i loro effet­ti rappresentano un vero ostacolo alla formulazione di teorie rigo­rose. La conoscenza progredisce, seppur spezzettata, soprattutto grazie all'identificazione sempre più sicura del ruolo delle varie sostanze nei diversi processi.

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Un po' di storia

Già da molti anni l'ipotalamo è stato associato alla fisiologia del-1' assunzione alimentare. In alcuni studi degli anni cinquanta era già stato notato che lesioni di alcune parti dell'ipotalamo avevano con­seguenze spettacolari sull'assunzione alimentare. Cosl Anand e Brobeck (1951) dimostrarono che, nel topo, la lesione di una regio­ne che includeva il nucleo ventromediale innescava un forte incre­mento dell'assunzione alimentare, fino all'obesità. Più esattamente, gli animali lesionati sembravano aumentare il consumo alimentare finché il loro peso non raggiungeva una nuova soglia, nettamente superiore a quella rispettata fino al momento della lesione. Ma sin dalle prime indagini su questo «modello» di iperfagia, emerse che la lesione del nucleo ventromediale aveva anche altre conseguenze oltre al semplice aumento del consumo alimentare. I topi iperfagi­ci erano anche più schizzinosi, più sensibili al valore appetitivo del-1' alimento e rinunciavano a mangiare se dovevano compiere un qualche sforzo per raggiungere il cibo.

Le lesioni cerebrali praticate sui topi rivelarono anche l'impor­tanza di un'altra regione dell'ipotalamo: l'area laterale. Si tratta di una regione abbastanza estesa, che contiene i corpi cellulari dei neuroni ed è attraversata da numerose fibre nervose che collega­no, in entrambe le direzioni, le regioni anteriore e posteriore del cervello. Lesioni praticate nell'area laterale si dimostrarono molto efficaci nel disturbare l'assunzione alimentare (Powley e Keesey 1970; Bernardis e Bellinger 1993). Gli animali lesionati si rifiuta­vano con ostinazione di mangiare e di bere, fino a morire di inedia. La tentazione di dedurne che era stato distrutto il «centro» del­l'assunzione alimentare, il centro della fame, era forte, proprio come prima era stato distrutto il centro della sazietà, tramite una lesione nel nucleo ventromediale. Si immaginò allora che i due cen­tri funzionassero in modo antagonista grazie a sistemi di inibizio­ne reciproca che si cercò di individuare.

Con la scoperta dei segnali ormonali e dei neuropeptidi ipotala­mici, le ricerche tralasciarono la questione della localizzazione ana­tomica, per focalizzarsi maggiormente su problemi di interazione tra segnali molecolari. Allo stesso tempo, si smise di credere all'e-

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sistenza di «centri» rigidamente localizzati per approdare a un'im­magine del funzionamento cerebrale diffuso su un'area più ampia. Si cominciò allora a parlare piuttosto di sistemi e reti, come acca­deva per il funzionamento cerebrale nel suo complesso. Ai centri distinti e anatomicamente separati si sostituirono reti trasversali, identificate grazie alla natura chimica dei loro neurotrasmettitori principali.

La spiegazione molecolare

Tra le numerose molecole presenti nell'ipotalamo, l'attenzione si è concentrata soprattutto su due peptidi tipici di due gruppi di neu­roni che si trovano nel nucleo ipotalamico detto nucleo arcuato. Questi neuroni sono i bersagli privilegiati dei segnali di adiposità leptina e insulina. Uno dei peptidi ipotalamici è il neuropeptide Y (NPY). Stimola l'assunzione alimentare, inibisce la termogenesi, fa aumentare la concentrazione di insulina e di corticosterone nel pla­sma. In generale, non lo si incontra solo nei neuroni, ma è colo­calizzato, come si dice, e rilasciato con un altro peptide, l' AGRP (agouti gene related protein). Un altro neurotrasmettitore, presente nell'altro gruppo di neuroni, è la proopiomelanocortina (POMC), colocalizzata con il peptide CART (cocaine - and amphetamine - regu­lated transcript).

I due gruppi di neuroni del nucleo arcuato caratterizzati dai loro peptidi possiedono recettori di leptina, ma non reagiscono allo stes­so modo ai segnali di adiposità. I neuroni NPY vedono la propria attività spontanea inibita dalla leptina, e sono quindi attivi quan­do il livello di leptina è basso, mentre l'attività dei neuroni POMC, nelle stesse condizioni, si trova a essere stimolata. Gli effetti dei segnali di adiposità su questi neuroni sono trasmessi ad altri neu­roni di un secondo livello, collocati in altre due importanti regioni dell'ipotalamo, il nucleo paraventricolare e l'area laterale dell'ipo­talamo. Utilizzando elettrostimolazioni locali, è stato possibile no­tare come queste due aree siano all'origine di due tipi di processi rispettivamente definibili come via anabolica e via catabolica. La via anabolica (area laterale) è la via tramite cui l'ipotalamo influen­za i processi che stimolano globalmente la creazione di riserve ener-

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CAPITOLO OTTAVO

getiche per l'organismo, che facilitano cioè l'assunzione alimenta­re e riducono il dispendio energetico. La via catabolica (nucleo paraventricolare) influenza i processi che, al contrario, inibiscono l'assunzione alimentare e incrementano il dispendio energetico. Il predominio di una via rispetto all'altra dipende quindi dal livello dei segnali di adiposità.

Nell'ipotalamo sono stati identificati molti altri peptidi, con i loro recettori. Agiscono sull'assunzione alimentare e l'omeostasi energetica in modo talvolta molto complesso e ancora non ben chiaro. I neuroni dell'ipotalamo sono anche contattati da termina­zioni nervose che rilasciano mediatori chimici della famiglia delle amine, come la noradrenalina, la dopamina e la serotonina. La noradrenalina, per esempio, una volta iniettata nel nucleo para­ventricolare, fa aumentare decisamente l'assunzione alimentare. La serotonina è il bersaglio di molti farmaci sviluppati per com­battere l'obesità. Questi prodotti aumentano il segnale dei recet­tori della serotonina e, cosl facendo, inibiscono l'assunzione ali­mentare.

Regolazioni a !ungo e a breve termine

Per ottenere I' omeostasi energetica, il cervello deve controllare la quantità di cibo ingerito. Questa quantità dipende dalla fre­quenza dei pasti e dalla quantità consumata nel corso di ciascuno di essi. Il momento in cui un pasto ha inizio dipende da numerosi fattori, da fattori emozionali, dall'ora del giorno, dal valore edo­nico degli alimenti, dalle abitudini sociali, che per molti sfuggono al controllo omeostatico dell'energia, mentre il momento in cui ha termine sembra più biologicamente determinato. È infatti defini­to dai segnali nervosi e ormonali detti di sazietà. Agendo quindi sulla sensazione di appagamento, anticipandola o ritardandola, il sistema nervoso riesce a determinare l'entità del pasto e, di conse­guenza, la quantità di energia ingerita. Ad esempio, è stato notato come l'iperfagia indotta tramite iniezione centrale del neuropepti­de Y si manifestasse soprattutto nel consumo di pasti più abbon­danti, mentre gli animali a cui era stata somministrata la leptina consumavano pasti più ridotti rispetto agli animali controllo.

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FAME E SAZIETÀ 127

L'ipotalamo, di cui abbiamo riconosciuto il ruolo essenziale nel recepire e utilizzare i segnali di adiposità, non ha un ruolo altret­tanto importante in rapporto ai segnali di sazietà. Questi segnali, emessi nel corso di un pasto, sono inviati soprattutto al cervello posteriore, dalle fibre afferenti del nervo vago e da altre afferenze che passano dal midollo. Queste convergono nel nucleo del fascico­lo solitario che riunisce cosi le informazioni provenienti dalla cavità orale. Nell'animale è stato possibile dimostrare che l'interruzione di un pasto per effetto dei segnali di sazietà si verificava anche una vol­ta tagliate tutte le connessioni tra il cervello posteriore e quello ante­riore, ipotalamo compreso. Il fatto è che il nucleo del fascicolo soli­tario esercita il proprio controllo sull'interruzione del pasto agendo sui nuclei motori che gli si trovano vicini nel cervello posteriore.

Se la variabile principale che determina la quantità di energia immagazzinata è la dimensione del pasto e se questa variabile è controllata dal cervello posteriore, come possono l'ipotalamo e i segnali di adiposità esercitare la loro funzione regolatrice a lungo termine? L'ipotesi attualmente in auge (Schwartz e altri 2000) è che vie nervose discendenti provenienti dall'ipotalamo trasmetta­no al nucleo del fascicolo solitario flussi nervosi che modulano la reattività dei neuroni di questo nucleo ai messaggi viscerali segna­latori di sazietà. Se i segnali di adiposità indicano un eccesso di grassi immagazzinati, l'ipotalamo sollecita il nucleo del fascicolo solitario a una maggiore sensibilità verso i segnali di sazietà e a interrompere prima il pasto, riducendo cosi il consumo alimenta­re. Se le riserve energetiche sono basse, prevale invece il meccani­smo contrario. In questo modo la regolazione dell'assunzione ali­mentare sul lungo termine è garantita modulando il controllo sul breve termine.

I fenomeni che abbiamo appena descritto forniscono un quadro dei fondamenti fisiologici della motivazione a nutrirci o a smette­re momentaneamente di farlo. Nonostante siano molto complessi quando li si analizza nel dettaglio, essi possono essere sintetizzati entro uno schema cheJacques Le Magnen aveva l'abitudine di rias­sumere cosi: segnali interni generano nel cervello uno stato di veglia specifico della fame che conferisce a segnali sensoriali ester-

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ni, proprio in virtù di quello stato interno, la caratteristica di inne­scare e mantenere il comportamento alimentare. Questo schema non è affatto tipico della specie umana. Ma su di esso si stratifica­no, senza sostituirlo, gli artifici introdotti dagli esseri umani nel-1' esprimere questo primitivo tipo di desiderio.

La motivazione a mangiare, la percezione degli aromi e l'espe­rienza del piacere sono altrettante conseguenze del funzionamen­to cerebrale. Questo funzionamento è stato per molto tempo infe­rito in base a dati statistici sull'anatomia del cervello umano e soprattutto in base a sperimentazioni sugli animali. Siamo oramai in grado di cogliere e rendere visibili indizi più diretti e più dina­mici dell'attività del cervello umano, quando sente un odore, assa­pora un gusto e sviluppa sensazioni di piacere o di dolore. E pro­prio di queste immagini cerebrali parleremo adesso.

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9.

Le mappe cerebrali degli odori, dei sapori e del piacere che si trae dal mangiare

Quando annusiamo, non sentiamo solo un odore, quando assaggiamo, non sentiamo solo un gusto. Abbiamo ricordi. Soffriamo. Gioiamo. Spe­riamo. Odiamo. Dialoghiamo con il corpo nella sua totalità, preten­diamo, osserviamo. Non solo i romanzi, ma le immagini del nostro cer­vello lo dimostrano, perché è il cervello, non la nostra riflessione cosciente, a coordinare tutti questi processi.

Vedere nel cervello

Le riviste scientifiche offrono splendide immagini del cervello, su cui si stagliano motivi a macchie colorate, che mostrano l'atti­vità mentale di un soggetto umano, sano o malato, prodotta negli istanti in cui è stato sottoposto a un'apparecchiatura di neuroima­ging. Il cervello che vede, che sente, che immagina o comanda il semplice movimento di un dito rivela la propria attività nascosta at­traverso segnali localizzati, tradotti dall'apparecchiatura e dai tec­nici in macchie di colori arbitrari su sezioni fittizie di quello stes­so cervello. Le vie e i centri degli odori e dei sapori non sono state le prime scoperte di questi strumenti per vedere l'invisibile, ma, da una decina d'anni a questa parte, è diventato possibile costruire la mappa delle attivazioni cerebrali di soggetti che annusano, assag­giano o si preparano al piacere di mangiare.

Il neuroimaging funzionale, come viene chiamato questo mezzo di indagine, si rivela una preziosa fonte di informazioni sull'identità del­le regioni cerebrali coinvolte nell'esecuzione di un compito affidato al

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cervello di soggetti sperimentali. Come spesso accade con i nuovi metodi di ricerca, il neuroimaging cerebrale ha innanzitutto consen­tito di confermare i risultati ottenuti con le tecniche già prima dispo­nibili. Ha poi indicato elementi nuovi che hanno un significato di portata ben più ampia della semplice localizzazione anatomica.

Due sono le tecniche utilizzate con più frequenza, prima l'ima­ging chiamato tomografia a emissione di positroni (PET) poi, sem­pre più spesso, l'imaging a risonanza magnetica nucleare, detto fun­zionale (fMRI). Il primo si basa sull'utilizzo di isotopi radioattivi a breve vita, iniettati nella circolazione sanguigna, il secondo sulle pro­prietà paramagnetiche naturali dell'emoglobina del sangue. En­trambi sono impiegati per misurare i cambiamenti del flusso san­guigno che si producono localmente in una o più regioni cerebrali, se sollecitate da un evento che provoca un sovrappiù di attività nel cervello. Questi due metodi riposano sull'ipotesi che in una regio­ne cerebrale in cui i neuroni vedono aumentare il ritmo di emissione dei loro segnali di comunicazione, la circolazione del sangue aumen­ta a sua volta per far fronte all'accelerazione del metabolismo do­vuta al sovrappiù di attività. Rilevando le variazioni locali del flusso sanguigno entro un intervallo di tempo determinato, lo sperimen­tatore arriva a conoscere le strutture cerebrali che più si attivano nel corso di un evento dato e formula l'ipotesi che esse siano verosi­milmente coinvolte nella risposta del cervello. Gli eventi più facili da studiare sono quelli indotti dagli stimoli sensoriali perché si conosce con esattezza il momento in cui sono prodotti, ma siamo in grado di registrare anche stati dagli inizi più incerti.

Senza entrare nel dettaglio dei metodi di imaging e dei loro rispet­tivi vantaggi e inconvenienti, si può notare che essi sono impiegati soprattutto per cogliere delle differenze nell'attività cerebrale, dif­ferenze tra due momenti in una stessa area, tra due aree in uno stes­so momento, tra due compiti diversi per una stessa area. Di fatto il cervello non è mai inattivo, anche quando al soggetto sperimentale non viene assegnato alcun compito. Gli sperimentatori impiegano quindi massicciamente il metodo di sottrazione. Alle mappe cerebrali raccolte durante un certo compito sono sottratte quelle ottenute per un altro. In questo modo le attivazioni comuni ai due compiti si annullano e rimangono solo le attivazioni specifiche. Cosl, è per sot­trazione che si osserva come uno stesso odore attivi la corteccia orbi-

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LE MAPPE CEREBRALI DEGLI ODORI, DEI SAPORI E DEL PIACERE 131

to-frontale destra se il soggetto deve rispondere alla domanda: «Que­st'odore le è familiare?», e la corteccia sinistra se la domanda è: «L'o­dore è piacevole?» (Royet e altri 2001). Il cervello quindi, nei due casi, lavora in modo diverso, nonostante l'identità degli stimoli. Da quest'esempio risulta subito chiaro che il neuroimaging funzionale fornisce dati più accurati della semplice localizzazione anatomica.

Il cervello che percepisce gli odori

Nelle prossime pagine adotteremo un'ipotesi ricavata da alcuni dati già acquisiti, ossia l'esistenza di almeno due circuiti olfattivi che in certa misura funzionano in parallelo, dopo una partenza comune. Un circuito, che chiamiamo cognitivo, porta ed elabora l'informazione relativa alla qualità degli odori. Si tratta sicura­mente del circuito più semplice. Consente di riconoscere la natura dell'odore, cosa che siamo in grado di fare a prescindere dal piace­re provato nel percepirlo e dal tipo di azioni che esso ci spinge a compiere. Un altro circuito, senza dubbio più complesso, è quello che chiamiamo affettivo, in quanto aggiunge un carattere emozio­nale agli effetti del primo. La nostra idea è che, per un tratto del loro percorso, questi circuiti siano distinti. Quest'ipotesi equivale a sostenere che nella nostra esperienza degli odori coesistano in­trinsecamente due categorie di stati mentali: la percezione di una certa qualità olfattiva e, per un altro verso, uno stato affettivo posi­tivo o negativo strettamente associato a un impulso ad agire in rap­porto all'oggetto della percezione.

Cosa si vede sulle mappe cerebrali di un soggetto che fiuta un odore? Innanzitutto c'è da dire che data la loro misura relativamen­te ridotta nell'uomo - più o meno le dimensioni di un pisello-, i bul­bi olfattivi che ricevono il messaggio delle cellule recettrici non for­niscono un'immagine interpretabile. Risalendo il circuito olfattivo, la prima regione a manifestare un'attivazione rilevabile durante l'e­sposizione del soggetto a un odore è quella della corteccia olfatti­va primaria1 (fig. 7), la cui componente principale è la corteccia

1 La corteccia primaria è la prima regione della corteccia cerebrale a ricevere proiezioni pro· venienti dall'organo di senso.

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piriforme. A questo livello il circuito cognitivo e il circuito affetti­vo coincidono. Quest'area occupa, sui due lati del cervello, nella sua parte ventrale, una superficie modesta, al congiungimento tra

Figura 7 Le principali regioni cerebrali coinvolte dal funzionamento del sistema olfattivo. In alto, visione laterale dell'emisfero cerebrale destro; in basso visione della faccia ventrale de] cervello (DM: nucleo dorsomediano del talamo).

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LE MAPPE CEREBRALI DEGLI ODORI, DEI SAPORI E DEL PIACERE 133

la corteccia del lobo frontale e quella del lobo temporale. La sti­molazione olfattiva aumenta quindi il flusso sanguigno in questa corteccia. Tuttavia, nonostante la corteccia primaria sia una via di passaggio obbligata dei segnali olfattivi, la sua attivazione non è sistematica, o comunque non sistematicamente osservabile. Alcu­ni sperimentatori la rilevano, altri no, senza che si riesca a stabili­re con certezza la ragione di questa variabilità.

La spiegazione sta forse nella dinamica del funzionamento della corteccia primaria (Poellinger e altri 2001). Indubbiamente essa si attiva troppo brevemente per produrre segnali registrabili quando l'odore è nuovo. Tuttavia, si ha un'attivazione maggiore e più pro­lungata quando l'odore è noto, ossia, si potrebbe pensare, quando ha già lasciato una traccia nelle reti neurali all'interno della cor­teccia (Dade e altri 2002). Quest'interpretazione sembra confer­mare l'idea secondo cui la corteccia primaria non sarebbe solo una tappa della percezione degli odori, ma anche un luogo di inscrizio­ne della loro memoria.

Durante la stimolazione olfattiva si attiva anche un'altra area cor­ticale pertinente al circuito cognitivo. Essa è situata davanti alla cor­teccia olfattiva primaria, nella parte ventrale del lobo situata al di sopra dell'orbita oculare, detta corteccia orbitofrontale o corteccia olfattiva secondaria. Grazie a studi anatomici condotti sulle scimmie si sapeva che l'area della corteccia orbitofrontale riceveva messaggi olfattivi provenienti dalla corteccia primaria, trasmessi tramite un relé in un nucleo del talamo. Nonostante l'attivazione della cortec­cia orbitofrontale sia più sistematica rispetto a quella della corteccia primaria, presenta comunque alcune particolarità notevoli. Infatti, la reazione corticale più intensa alla stimolazione è collocata ora nel-1' emisfero destro, ora nell'emisfero sinistro, a seconda degli odori impiegati e, senza dubbio, a seconda dei compiti assegnati al sog­getto. Inoltre si nota anche che, entro lo stesso emisfero, il centro dell'attivazione è privo di una localizzazione costante.

Si possono trarre numerosi insegnamenti da queste osservazioni. Il primo è che esiste una suddivisione dei compiti tra i due lobi fron­tali, che si definisce come lateralizzazione dell'elaborazione del­l'informazione olfattiva. È ancora troppo presto per dire con preci­sione su quale base avviene la suddivisione del lavoro, ma si può già notare che, stimolando un soggetto con un odore, si innescano più

'Borgftesiana

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operazioni contemporaneamente, realizzate evidentemente da cir­cuiti neurali collegati ma distinti. Gli odori si differenziano ovvia­mente per le loro diverse qualità, ma anche per la loro intensità, il loro potenziale emotivo, per quanto risultano familiari al soggetto, per il loro significato rispetto alle sue motivazioni. Del resto, la natura del compito mentale richiesto al soggetto mentre percepisce l'odore (percepirlo passivamente, giudicarne il livello di familiarità, valutarne il carattere piacevole o spiacevole, ricordarsi di un odore simile ecc.) orienta il lavoro del cervello verso elaborazioni diffe­renziate dello stesso messaggio olfattivo. È sicuro, infine, che lun­go la corteccia orbitofrontale coesistono aree con diverse funzio­ni. Cosl, in questa corteccia, si registra un'attivazione anche in corrispondenza di una stimolazione tattile piacevole.

Una delle cause più evidenti delle variazioni nella localizzazio­ne delle attivazioni è la qualità edonica degli odori che, per defini­zione, coinvolge il circuito affettivo. Quando il soggetto deve dare una risposta sulla tonalità emotiva della propria sensazione, o an­che quando deve dire se la fonte dell'odore è commestibile o meno, l'attivazione è predominante nella corteccia sinistra, mentre un giudizio relativo alla familiarità dell'odore sollecita più spesso la corteccia destra (Royet e altri 2001). Del resto, gli odori piacevoli provocano più sovente un'attivazione a destra, mentre gli odori ripugnanti un'attivazione a sinistra. Utilizzando due odoranti scel­ti per le loro valenze affettive antitetiche, il citrale, gradevole, e l'acido valerico, sgradevole, alcuni ricercatori (Anderson e altri 2003) hanno di recente osservato una netta differenziazione delle aree di attivazione: gli stimoli positivi attivavano la parte anterio­re della corteccia orbitofrontale destra, mentre gli stimoli negativi attivavano una regione più arretrata, sul lato sinistro.

La lateralizzazione dell'elaborazione affettiva non è tipica solo delle aree olfattive. È generalmente riconosciuto che in un'altra regione frontale del cervello, la corteccia prefrontale, le emozioni positive e negative attivano emisferi opposti. Però, è a destra che si manifestano le emozioni negative e a sinistra quelle positive (Davidson e altri 2004).

Le due regioni di cui abbiamo appena parlato, corteccia olfatti­va primaria e corteccia orbitofrontale, sono in linea di principio regioni olfattive, sono cioè regioni a cui arrivano piuttosto diret-

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tamente messaggi provenienti dai bulbi olfattivi, sebbene numero­se parti della corteccia orbitale abbiano evidentemente anche altre funzioni oltre a quelle strettamente sensoriali, come vedremo tra poco. Allo stesso modo, molte altre parti del cervello reagiscono agli odori, e del resto lo stimolo olfattivo coinvolge numerosi pro­cessi privi di specificità sensoriale ma legati a funzioni più genera­li, attentive, mnemoniche, affettive. Ancor più che nelle aree spe­cializzate dell'olfatto, I' attivazione di questi processi generali dipende dalle operazioni mentali compiute dal soggetto a partire dallo stimolo scatenante, a loro volta determinate dalle istruzioni fornite al soggetto, dalla sua memoria e dal significato che quello stimolo rappresenta per lui.

Non ci sarà quindi da stupirsi, se, per esempio, si rileva un'at­tivazione del nucleo dell'amigdala in risposta a una stimolazione data dall'odore di bruciato, che innesca nel soggetto una forte rea­zione emotiva, perché quell'odore richiama un'esperienza perso­nale intensa, come la paura davanti a un incendio. C'è anche da aspettarsi di trovare una risposta nella regione dell'ippocampo, se l'odore è nuovo e stimola il sistema di formazione della memoria. Il problema semmai è quello di stabilire se, indipendentemente dalle esperienze individuali, l'amigdala e l'ippocampo entrano in gioco con tutti gli odori, in quanto tutti vengono sistematicamen­te analizzati da queste strutture.

In effetti, il circuito cognitivo comporta un elemento, l'ippo­campo, posto in qualche modo in derivazione sul circuito stesso. Sappiamo che alcune cellule mitrali del bulbo olfattivo e numero­se cellule piramidali della corteccia piriforme inviano i loro assoni verso la corteccia entorinale, che rappresenta un accesso impor­tante all'ippocampo. L'attivazione di questa struttura in seguito a stimolazione olfattiva è stata di fatto già notata. Tuttavia, sono sta­te registrate solo deboli variazioni del flusso sanguigno. Forse le attivazioni moderate dipendono semplicemente dalla loro dinami­ca, dato che sono transitorie, come si è potuto dimostrare impie­gando l'fMRI (Poellinger e altri 2001). Dobbiamo rilevare che l'ip­pocampo, sempre attraverso la corteccia entorinale, riceve anche altre afferenze cortcali, oltre a quelle della corteccia olfattiva pri­maria. A questo livello i messaggi olfattivi si trovano senz'altro mescolati ad altri messaggi provenienti da altre vie sensoriali e vi

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rimangono cosl associati nei ricordi gestiti dall'ippocampo. Ognu­no di noi sa che la memoria olfattiva di episodi della nostra vita è spesso incrementata dall'evocazione di altri dati sensoriali che accompagnavano la percezione originaria. È la lezione che si deve trarre dal famoso episodio della madeleine di Proust.

Del resto, numerosi studi hanno messo in evidenza un aumento della pressione sanguigna locale nell'amigdala in seguito a stimola­zione olfattiva. I nuclei dell'amigdala, o almeno alcuni di essi, fan­no parte del circuito affettivo che ha origine, come quello cognitivo, nel bulbo olfattivo e nella corteccia piriforme. Gli accessi all'a­migdala sono numerosi e le vie d'uscita molteplici. Una di esse, in particolare, è rivolta verso un nucleo del talamo, che abbiamo già indicato come snodo delle informazioni olfattive verso la corteccia orbitofrontale. Si tratta in tal caso della parte mediana di questo nucleo. L'amigdala è cosl collegata alla parte laterale inferiore del­la corteccia orbitofrontale, vicino al sito in cui termina il circuito cognitivo. Un'altra via d'uscita dell'amigdala è diretta verso l'ip­pocampo. Il circuito affettivo quindi, proprio come il circuito co­gnitivo, è collegato alla struttura che gestisce la memoria.

Rimane comunque ancora un dubbio. L'amigdala si attiva solo in presenza di stimolazioni particolarmente spiacevoli come pen­sano alcuni oppure, quando più, quando meno, in presenza di qual­siasi odore? Un'ipotesi seducente (Anderson e altri 2003) fa dipen­dere la sua attivazione dall'intensità emotiva dello stimolo, a prescindere dal carattere positivo o negativo dell'emozione.

Ci si aspetterebbe anche di trovare nell'ipotalamo un'attivazio­ne di origine olfattiva, visto il suo ruolo nel controllo dei compor­tamenti determinati dagli odori e particolarmente nella regolazio­ne alimentare. In effetti esistono delle connessioni tra alcuni nuclei dell'amigdala e certe regioni dell'ipotalamo come l'area laterale e il nucleo paraventricolare, di cui abbiamo già menzionato l'impor­tanza nella regolazione dell'assunzione alimentare. Di fatto, l'ipo­talamo si attiva in presenza di alcuni stimoli olfattivi. Soprattutto quando si richiede al soggetto di valutare la dimensione edonica dello stimolo. In presenza di odori a forte connotazione sessuale, ad esempio, è possibile distinguere le reazioni maschili da quelle femminili (Savie e altri 2001). Un odore imparentato agli ormoni estrogeni attiva negli uomini alcuni nuclei dell'ipotalamo, mentre

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un odore imparentato all'ormone maschile si mostra attivo nelle donne su un'altra regione dell'ipotalamo.

Infine, nella parte interna del cervello, sotto al ponte di sostan­za bianca, il corpo calloso, che collega i due emisferi cerebrali, si trova un'ampia regione corticale, la corteccia cingolata. La parte anteriore di questa corteccia viene collegata alla genesi di emozio­ni come la gioia o la tristezza. Quest'area si attiva anche, a quanto pare prevalentemente dal lato destro, in risposta ad alcuni odori.

Il cervello che assaggia

Finora solo un numero limitato di studi si è occupato del neu­roimaging funzionale applicato ai sapori. Quando un soggetto vie­ne stimolato da prodotti applicati sulla lingua, si rileva un'attiva­zione cerebrale in diversi punti di un'area corticale che circonda la scissura di Silvio, tra il lobo frontale e il lobo temporale, ossia nel­la regione chiamata insula (Cerf e altri 1996: vedi fig. 8). Alcune ricerche svolte sulle scimmie prima dell'avvento dei metodi di neu­roimaging avevano indicato che questa regione contiene neuroni eccitati dalla stimolazione gustativa della lingua (Scotte altri 1986; Baylis e Rolls 1991): si tratta della corteccia gustativa primaria. Essa riceve le proprie afferenze gustative dal talamo, che convoglia a sua volta i messaggi provenienti dal nucleo del fascicolo solita­rio. Il circuito formato dal nucleo del fascicolo solitario, dal tala­mo, e dalla corteccia dell'insula può essere considerato come il cir­cuito gustativo cognitivo.

Si può distinguere anche un altro circuito, che possiamo defini­re affettivo o edonico. Partendo anch'esso dal nucleo del fascicolo solitario, raggiunge le aree cerebrali dell'ipotalamo e dell'amigda­la. Anche nei centri sensoriali in cui i due circuiti, affettivo e cogni­tivo, coesistono, come il nucleo del fascicolo solitario o il talamo, è stato possibile distinguerli anatomicamente (Sewards 2004): sono vicini ma separati.

La vicinanza dell'area gustativa primaria all'insula risulta parti­colarmente interessante. Un po' più arretrata si trova invece una regione la cui attivazione è stata spesso ricondotta, negli esperi­menti di neuroimaging, alla sfera delle emozioni. Questa zona è

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un'area di messaggi viscerali, riceve cioè informazioni provenienti dall'interno del corpo, inerenti lo stato dei tessuti e degli organi, a partire dalle vie d'accesso al sistema simpatico e parasimpatico. Come ci si ricorderà, il nucleo del fascicolo solitario, centro dei messaggi gustativi, comprende una zona a cui arrivano i messaggi viscerali trasmessi dal nervo vago, appartenente al sistema para­simpatico. Dal nucleo provengono almeno in parte, dopo essere passati attraverso il talamo, i messaggi che alimentano la regione insulare enterocettiva, da cui poi vengono rimandati ad altre regio­ni, come l'amigdala o l'ipotalamo, che regolano le risposte neuro­vegetative collegate alle emozioni.

Antonio Damasio, quando ricerca nelle regioni sensibili agli sti­moli provenienti dal corpo stesso il sostrato dei sentimenti origi­nati dalle emozioni, scrive: «La stessa regione che viene messa in relazione ai sentimenti sia dalle ipotesi teoriche, sia dagli studi di visualizzazione funzionale, risulta essere la destinataria dei segna­li che con ogni probabilità rappresentano il contenuto dei senti-

Figura 8 Le principali regioni cerebrali coinvolte dal funzionamento del sistema gustativo. Lo schema rappresenta una visione laterale di un cervello il cui quarto posteriore è stato sezionato e asportato (T: talamo; CC: corpo calloso; A: amigdala).

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menti: segnali che hanno a che fare con gli stati dolorosi; la tem­peratura corporea; le vampe di rossore; il prurito; il solletico; i bri­vidi; le sensazioni viscerali e genitali; l' osmolalità; la presenta di agenti infiammatori; ecc.» (Damasio 2003, pp. 132-33 trad. it.).

Sarà interessante notare la vicinanza tra una zona fondamenta­le per la rappresentazione corticale delle informazioni viscerali e la zona di rappresentazione dei sapori. Questa vicinanza spaziale non potrebbe quindi indicare, in un'ottica funzionale, un ruolo di mediazione del gusto tra I' esterocezione connessa ai messaggi pro­venienti dall'ambiente e l'enterocezione connessa ai messaggi in­terni, nella fattispecie ai messaggi del tubo digerente?

Alcuni studi realizzati sulle scimmie (Rolls 1999) hanno eviden­ziato un'altra regione di attivazione in risposta a stimoli gustativi, collocata poco più avanti rispetto all'area gustativa primaria, nella parte più arretrata della corteccia orbitale, dove già avevamo indi­cato la presenza di un'attivazione in risposta a stimoli olfattivi. Si tratta di un'area dotata di proprietà molto particolari, che la distin­guono dalla corteccia primaria. Neuroni che rispondono ai sapori si trovano vicino a neuroni attivati dagli odori. Una quantità note­vole di neuroni risponde a molte delle tipologie sensoriali stimola­te dai cibi. In questi casi si parla di convergenza sensoriale. Ci sono neuroni che si attivano in presenza di un sapore e di un odore, altri associano sensibilità gustativa a risposte visive. Altri ancora sono eccitati dalla presenza di grassi nel cavo orale. Fino a poco tempo fa si sarebbe attribuito il fenomeno a una particolare sensibilità verso la consistenza dei grassi. Tuttavia a questo punto occorre for­se prendere in considerazione il coinvolgimento di un segnale più specifico (vedi cap. 5). Come fa notare Rolls (1999), un'area con proprietà di questo tipo può senz'altro essere considerata come un'area pertinente al sentore, in quanto nelle sue risposte si trova­no fusi elementi usualmente compresenti nei cibi.

Inoltre, e si tratta di una caratteristica molto importante di que­sta zona della corteccia orbitofrontale, assente nella corteccia gusta­tiva primaria, le risposte alle proprietà sensoriali degli alimenti dipendono da fame e sazietà. Quando una scimmia si nutre di un alimento fino a saziarsi, i neuroni che rispondevano ai segnali emes­si da quell'alimento quando l'animale era digiuno riducevano l'in­tensità delle loro risposte, talvolta fino ali' annullamento. Si regi-

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stra un parallelismo impressionante tra lattività dei neuroni e il comportamento dell'animale. Quando il consumo è intenso, per effetto della fame, le risposte neurali sono forti; quando il consu­mo rallenta, per effetto della sazietà, i neuroni rispondono più debolmente o non rispondono affatto. Bisogna aggiungere anche che la modulazione delle risposte neurali è selettiva, nel senso che riguarda solo le risposte al cibo con cui la scimmia è stata nutrita e non - o in misura minima - quelle ad altri alimenti che non sono stati consumati. Questi dati concordano con la nozione di sazietà specifica evidenziata dagli studi sul comportamento. Quando si è sazi di un cibo, spesso rimane comunque appetito a sufficienza per consumarne un altro. Ci sono tutti i motivi per ritenere che ciò che vale per le scimmie sia valido anche per gli esseri umani.

Sinergia tra gusto e olfatto

Le immagini che mostrano l'attivazione cerebrale risultano inte­ressanti, come abbiamo detto, non solo perché consentono di indi­viduare anatomicamente le aree cerebrali coinvolte in specifiche attività neurali. Danno anche risposte a domande che trascendono la localizzazione cerebrale, come si vedrà nel prossimo esempio.

Come si ricorderà, per gli odoranti esistono due vie di accesso al­l'organo dell'olfatto (vedi fig. 2, p. 47): una via «ortonasale», segui­ta dalle molecole che si inalano respirando e annusando, e una via «retronasale» seguita dalle sostanze volatili che gli alimenti sprigio­nano in bocca. Ci si è chiesti se le due vie di stimolazione fossero equivalenti per quanto riguarda le sensazioni prodotte. In linea teo­rica, infatti, in entrambi i casi vengono stimolate le stesse cellule, e, se si esclude una possibile differenza di intensità, non ci sono moti­vi per pensare a una differenziazione degli odori dovuta al percorso seguito dagli odoranti. E in effetti, uno studio tramite neuroimaging (Cerf-Ducastel e Murphy 2001) ha mostrato che una stimolazione prodotta in bocca con sostanze allo stato liquido attivava proprio le stesse aree cerebrali degli stimoli passati dalla via ortonasale.

Tuttavia un altro esperimento (Small e altri 2004), più recente, fornisce alcuni dati in ulteriori, molto interessanti. In questo stu­dio, effettuato tramite fMNR, alcuni stimoli erano costituiti da

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aromi, ossia da soluzioni che contenevano sia un odore che un sa­pore. La componente olfattiva seguiva quindi esclusivamente la via retronasale. Venivano impiegati due tipi di stimoli composti: uno in cui la componente olfattiva e quella gustativa erano «congruen­ti», formavano cioè un'associazione abituale (odore di vaniglia e gusto dolce) e uno in cui le due componenti erano incongrue, non abituali (odore di vaniglia e gusto salato). Altri stimoli invece era­no semplici. Si trattava di due sapori, dolce o salato, somministra­ti separatamente, e di un odore (vaniglia), somministrato singolar­mente in soluzione. Dall'esperimento è emerso che le stimolazioni bimodali portavano all'attivazione di diverse aree cerebrali, come la corteccia cingolata anteriore e altre regioni del lobo frontale e del lobo parietale. Di contro, la somma degli effetti degli stimoli olfat­tivi e gustativi semplici somministrati separatamente non mostra­va le stesse attivazioni. Gli aromi congruenti risultavano quindi più efficaci della somma dei loro componenti. Lo stesso confronto effettuato tra gli aromi non congruenti e i loro componenti a por­tato a risultati diversi: non c'era sinergia.

Questi dati possono essere confrontati con quelli di un esperi­mento precedente (Small e altri 1997), in cui era emerso che la sti­molazione tramite una coppia sapore-odore congruente non indu­ceva un'attivazione, ma, al contrario, una disattivazione, quando l'odore era somministrato per via retronasale. Bisogna quindi am­mettere che gli stimoli olfattivi producono effetti diversi a seconda della via percorsa dagli odoranti. Inoltre l'importanza della con­gruenza tra sapori e odori mostra gli effetti dell'esperienza pregres­sa sull'elaborazione degli aromi da parte del cervello, dal momento che proprio l'esperienza alimentare rende l'odore di vaniglia con­gruente con il dolce e incongruente con il salato, almeno per i con­sumatori della nostra stessa area culturale (Chrea 2005).

Le mappe di fame e sazietà

Abbiamo appena passato in rassegna le manifestazioni corticali innescate da alcuni stimoli sensoriali. È possibile, con lo stesso metodo, osservare gli effetti sul cervello di quei segnali interni che inducono lo stimolo della fame o, al contrario, la sazietà?

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Misurando in maniera localizzata la pressione sanguigna cere­brale in soggetti di peso normale e in buona salute, dopo un digiu­no di 36 ore, e ripetendo l'osservazione una volta raggiunta la sazietà, alcuni ricercatori (Tataranni e altri 1999) hanno rimarca­to per differenza l'effetto dello stato interno su numerose regioni cerebrali. Quando il soggetto aveva fame, si attivava l'ipotalamo, conformemente a quanto già sappiamo sul ruolo di alcuni suoi nuclei nell'elaborazione dello stimolo della fame; si attivava anche l'area dell'insula, forse perché l'organismo inviava ai siti entero­cettivi di questa regione messaggi viscerali che informavano il cer­vello sullo stato di privazione. Altre regioni corticali, già incontra­te in caso di stimoli sensoriali, come la corteccia orbitofrontale, la corteccia cingolata anteriore, il talamo e il complesso dell'ippo­campo, conoscono a loro volta un aumento della stimolazione san­guigna, come se la condizione di carenza nutrizionale inducesse una sorta di stato di allerta nelle aree cerebrali passibili di riceve­re segnali sensoriali che preannuncino il cibo atteso.

La sazietà, invece, induceva un aumento della pressione sangui­gna locale in aree diverse, nel settore centrale mediale e in quello dorsolaterale della corteccia prefrontale. Altri studi sono riusciti a dimostrare il coinvolgimento di queste due regioni, ognuna a suo modo, nella rappresentazione degli stati emotivi elementari.

Se si mangia della cioccolata

Uno studio di Dana Small e collaboratori (Small e altri 2001) ha invece ricreato una situazione molto più complessa di quelle ricor­date finora. In quest'esperimento i soggetti sono stati invitati a consumere cioccolata a sazietà, mentre, a intervalli regolari, la fotocamera a positroni fotografava il loro cervello. Non si sarebbe potuto individuare alimento più appetibile. Il cioccolato è amato da molti e le frenesie di cui è oggetto sono ben note. Il suo ruolo particolare tra i cibi è stato spiritosamente celebrato da Roach (1989, citato in Rozin e altri 1991): «Il caviale è squisito, ma nes­suno dichiara il proprio amore con una scatola di caviale da dieci libbre a forma di cuore. I fichi francesi sono divini, ma nessuno li troverà mai sotto il cuscino in albergo. Non esistono intere riviste

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specializzate dedicate all'aragosta o agli asparagi. Nessuno si recherà mai alle tre del mattino al 7-eleven per cercare del cara­mello al burro salato. Il cioccolato invece ... il cioccolato ispira una passione riservata di solito a cose ben più importanti di un ali­mento». Rozin e collaboratori (1991) ci informano del fatto che le donne ne divorano ancor più degli uomini, specie nei giorni a ridos­so delle mestruazioni. Il fascino esercitato dal cioccolato è tale da aver risvegliato il sospetto di un'azione paragonabile a quella delle droghe esercitata sui recettori oppiacei endogeni. L'ipotesi non sembra tuttavia verosimile; sarebbero invece proprio le sue qualità sensoriali a rendere il cioccolato così apprezzato.

Dal momento che il cioccolato ha un odore, un sapore, una con­sistenza, e assaporarlo implica una motricità orale, mentre lo stato interno dell'organismo passa dalla fame alla sazietà, sarebbe stato sorprendente non rilevare un'attivazione cerebrale piuttosto este­sa. Le condizioni dello studio tramite neuroimaging non erano in teoria favorevoli a una dettagliata analisi causale dei risultati. Tut­tavia, alcune di queste condizioni risultavano costanti, ad esempio la natura degli stimoli e la loro intensità, gli atti motori relativi all'ingestione dell'alimento, mentre altri, come lo stato nutrizio­nale, il valore di gratificazione del cioccolato e il desiderio di man­giarne di più cambiavano con il procedere del consumo. Confron­tando in modo progressivo le mappe di attivazione cerebrale, era possibile far emergere le loro modificazioni successive e mettere quindi in evidenza gli effetti del consumo di cioccolato di per se stesso.

Dopo ogni barretta di cioccolato, i soggetti rispondevano a un doppio questionario, con lo scopo di individuare, da una parte, l'in­tensità del piacere provato, e, dall'altra, il loro desiderio di man­giarne ancora o meno. Va subito detto che le due serie di osserva­zioni non avevano un'evoluzione parallela, nella misura in cui i soggetti potevano anche non avere più voglia di consumare altro cioccolato, nonostante un apprezzamento edonico elevato. Avremo occasione di tornare su questa relativa dissociazione tra piacere procurato da un cibo e desiderio di nutrirsene.

Quando i soggetti mangiavano di buon grado e mostravano un deciso apprezzamento per il prodotto, venivano attivate selettiva­mente molte aree e strutture cerebrali. Si trattava innanzitutto del-

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la corteccia orbitofrontale posteriore, nella sua parte mediana e della regione dell'insula, aree che già diverse volte abbiamo visto attivarsi sia durante la stimolazione olfattiva e gustativa, sia in con­dizione di fame. Erano poi visibili altri siti di attivazione in tre strutture separate: una regione corticale anteriore situata sotto il corpo calloso, nota per essere coinvolta nella motivazione, una zona del cervello posteriore o mesencefalo, che potrebbe corri­spondere alla zona d'origine dei neuroni della dopamina, e lo stria­to, che fa parte del sistema di controllo della motricità.

Con lo striato e i neuroni della dopamina del mesencefalo ci tro­viamo davanti a strutture che potrebbero collegare il circuito affet­tivo alle aree responsabili, più o meno direttamente, dell'utilizzo delle informazioni implicite negli atti motori. Noi non parleremo dello striato, apparentemente privo di relazioni specifiche con le vie olfattive o gustative. L'altra zona che si attiva al livello del me­sencefalo sembra essere l'area tegmentale ventrale (ATV). Spesso essa viene studiata insieme al nucleo accumbens, abbondantemen­te innervato dai neuroni della dopamina della ATV. Entrambe le strutture, insieme alla dopamina, sono state oggetto di parecchi studi che indicano un loro coinvolgimento nella gratificazione attribuita agli stimoli. Le loro funzioni saranno esaminate nel pros­simo capitolo, quando cercheremo di capire i rapporti tra la capa­cità di gratificazione dei messaggi sensoriali e la decisione, relati­va al comportamento adottato, di consumare o meno gli alimenti da cui quei messaggi provengono.

Ma torniamo alle immagini dell'attivazione cerebrale. Quando i soggetti venivano invitati a continuare il consumo di cioccolato, nonostante si dichiarassero sazi, si registrava uno spostamento del­le zone attivate. La pressione sanguigna aumentava in prossimità dell'ippocampo, nelle aree della corteccia prefrontale, e, ancora una volta, nella corteccia orbitofrontale. Tuttavia, in quest'ultima regio­ne, con la sazietà veniva attivata una zona laterale, mentre in con­dizione di fame l'attivazione riguardava una zona più mediana. La regione laterale diventava via via il centro dell'attivazione, man mano che l'attivazione mediana si andava spegnendo. Sembra quin­di di poter concludere che esista una separazione tra la rappresen­tazione cerebrale del valore affettivo positivo e quella del valore affettivo negativo, legati al consumo di un alimento, dipendente

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dalla motivazione. Questo farebbe quindi pensare che esistano anche due sistemi neurali distinti, uno associato al comportamento di avvicinamento, l'altro al comportamento di evitamento.

Gusto e disgusto

Abbiamo descritto fin qui il modo in cui l'attività del cervello si distribuisce in risposta a stimoli provenienti dalla sfera alimentare. Esiste però un'altra situazione che porta all'attivazione di una regione riservata all'elaborazione dei segnali alimentari, quando cioè osserviamo un viso che esprime disgusto. Basta osservare que­st'espressione sul volto di qualcun altro perché la pressione san­guigna aumenti localmente nella regione dell'insula del soggetto sottoposto all'immagine.

Per capire fino in fondo il significato di quest'osservazione, occorre collocarla nel contesto degli studi sempre più numerosi condotti, con l'ausilio del neuroimaging, sulle emozioni e sui sen­timenti a esse collegati. Gli esseri umani comunicano le proprie emozioni fondamentali, gioia, tristezza, paura, rabbia, disgusto, adottando una mimica caratteristica. Si tratta di una forma di comunicazione sociale. Un modo di studiarla consiste nel cercare di capire il sistema con cui gli stati emotivi vengono individuati e interpretati. A questo scopo, vengono presentate ad alcuni sogget­ti delle fotografie di volti che esprimono certi stati emotivi e si osserva quali zone del cervello si attivano durante la somministra­zione delle immagini.

Un esempio di attivazione indotta dall'osservazione di un'emo­zione è quella, specifica, dell'amigdala, provocata dalla visione di un volto che esprime paura.2 Tale risultato va accostato alla constata­zione che lesioni bilaterali in questo gruppo di nuclei cerebrali impe­discono ai pazienti di riconoscere l'espressione della paura sui volti altrui. È parimenti noto che, nell'animale, l'amigdala costituisce un elemento fondamentale del circuito neurale grazie al quale la per­cezione dei segnali di pericolo genera l'emozione della paura. Ci si

2 Molti autori hanno rilevato il ruolo dell'amigdala nella percezione e nell'esperienza della paura. Vedi LeDoux 1996.

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potrebbe chiedere se la vista di volti che esprimono un tipo di emo­zione diverso, come il disgusto, attivi a sua volta l'amigdala. Non è così. L'attivazione prevalente non si colloca più nell'amigdala, ma nella regione anteriore dell'insula (Phillips e altri 1997), in cui si tro­va la corteccia gustativa primaria.

Nonostante il disgusto non sia provocato esclusivamente dai cibi, è presumibile che, originariamente, quest'emozione avesse come cau­sa e finalità il rifiuto di consumare un alimento ritenuto pericoloso, e questo spiegherebbe anche l'attivazione della regione corticale che analizza il cibo prima della sua ingestione. Ben più sorprendente è il fatto che questa regione sia chiamata in causa per interpretare ciò che osserviamo sui volti altrui. Nel caso della paura, come in quello del disgusto, l'interpretazione delle emozioni altrui sembra far interve­nire una specie di simpatia, attraverso cui mimiamo interiormente quanto si esprime sui volti osservati. Questo fenomeno ricorda senz'altro le osservazioni di Rizzolatti su alcuni neuroni, allo stesso tempo visivi e motori, situati nell'area premotoria del lobo frontale, battezzati neuroni specchio (Rizzolatti e altri 1996; Rizzolatti e Crai­ghero 2004; Gallese e altri 2004). Essi sono attivati quando l'anima­le dell'esperimento, una scimmia, afferra o manipola un oggetto, ma anche quando l'animale osserva un conspecifico o uno sperimenta­tore mentre svolgono lo stesso compito manuale.

Indagando se altre lesioni cerebrali compromettessero la capacità di interpretare la mimica facciale del disgusto, alcuni ricercatori hanno scoperto che pazienti affetti da una grave malattia neuro­degenerativa, il morbo di Huntington, presentavano, tra gli altri sintomi, una grave incapacità di riconoscere proprio la mimica del disgusto (Sprengelmeyer e altri 1998). Perché mai questa malattia, nota per compromettere il funzionamento dei nuclei motori, ha anche questa conseguenza? A dire il vero, non lo sappiamo. (Non) si capiscono molto meglio le difficoltà nel leggere le espressioni di disgusto mostrate da pazienti di un altro tipo, quelli affetti da disturbi ossessivo-compulsivi, a meno di registrare una possibile relazione tra il disgusto e il timore di contaminazione, che fa par­te di alcune pratiche ossessive.

Particolarmente interessante risulta l'accostamento tra le osser­vazioni di Phillips sulla percezione del disgusto altrui e quelle di

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Rizzolatti sui neuroni specchio nell'ambito di un'altra scoperta, riguardante invece il dolore. È noto come l'insula anteriore e la cor­teccia cingolata anteriore - regioni le cui funzioni sono davvero molto complesse - siano coinvolte nella percezione del dolore e nel­le connesse reazioni viscerali e motorie. Nel corso di un esperi­mento condotto per mezzo di imaging a risonanza magnetica nucleare, Singer, Seymour e collaboratori (2004) hanno scoperto che le stesse aree coinvolte nelle esperienze di disgusto e dolore vengono attivate anche dalla reazione empatica al dolore altrui. Assistere al dolore provato da qualcun altro equivale in qualche modo, neurologicamente parlando, a provarlo sulla propria pelle, proprio come percepire un'espressione di disgusto equivale a esse­re personalmente disgustati.

Queste osservazioni, introdotte dall'analisi del disgusto, hanno ricadute notevoli. Ci fanno intravedere il fondamento della nostra comprensione dei gesti e delle sensazioni altrui. Per arrivare a que­sta comprensione che sta alla base della cognizione sociale non ci limitiamo ad analizzare il contenuto di ciò che vediamo, sentiamo o fiutiamo per inferirne logicamente il tipo di emozione o senti­menti provati dall'altro, ma ricorriamo alla nostra esperienza per­sonale, attivando le strutture cerebrali che ci servono a provare sensazioni ed emozioni. Con le parole di Gallese, Keysers e Rizzo­latti (2004): «Tramite quest'attivazione, si crea un ponte tra noi e gli altri».

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IO.

Gradire, desiderare, scegliere

Si capisce finalmente che i circuiti neurali e i meccanismi del piace­re suscitato da odori e sapori sono strettamente connessi, ma non con­fusi, con quelli che presiedono alla decisione di mangiare. E se il piace­re sensoriale, che corrisponde a una dimensione affettiva, cosciente, della nostra percezione, fosse semplicemente il modo in cui lo stato dei sistemi neurali che controllano la decisione di agire diventa accessibi­le alla coscienza?

Nel corso dei capitoli precedenti, abbiamo raccolto dati prove­nienti essenzialmente da quattro fonti. Le indagini sullo stimolo della fame hanno spiegato l'origine dei segnali interni e i presup­posti fisiologici del fabbisogno e del suo soddisfacimento, cioè del­la sazietà. Un fenomeno sorprendente, l'autoelettrostimolazione cerebrale, ha gettato nuova luce, anche se in modo ambiguo, sui rapporti tra motivazione e piacere. Abbiamo tracciato un parallelo tra la gratificazione presente nell'assunzione di cibo e quella che motiva il consumo di droga nei tossicodipendenti. Infine, l'esame delle mappe cerebrali ottenute con il neuroimaging funzionale ha permesso di inserire i fenomeni associati alla percezione degli ali­menti, con le connesse ricadute affettive, nell'ambito della geo­grafia delle aree cerebrali. In quell'occasione abbiamo chiamato in causa molte delle funzioni del sistema nervoso: la percezione sen­soriale, la memoria e l'apprendimento, l'affetto e l'emozione, la presa di decisione, necessaria all'esecuzione motoria (fig. 9). Dob­biamo ora riprendere questi diversi tipi di osservazioni per capire più a fondo i legami tra i vari fenomeni che esse mettono in luce.

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GRADIRE, DESIDERARE, SCEGLIERE 149

In questo capitolo ci sarà una buona dose di elaborazione teorica, per non dire di speculazione.

Il ruolo fondamentale delle memorie

Abbiamo individuato, nei processi di trasmissione e trasforma­zione dei messaggi nervosi che inducono un certo comportamen­to e lo stato emotivo associato, due classi di fenomeni collegati ma distinti. Abbiamo innanzitutto una catena di trasmissione dell'in­formazione designata come «circuito cognitivo». Esso porta a riconoscere la presenza dell'odore o del sapore, a percepirne la qualità, sicuramente l'intensità e, eventualmente, a riconoscerlo, il che implica l'impiego delle memorie delle esperienze olfattive o gustative passate. L'altra categoria di processi, che abbiamo chia­mato «circuito affettivo», induce invece uno stato mentale, pro­vocato dallo stimolo, nella sfera affettiva collegata alla sensazione. Questo stato mentale presuppone a sua volta l'attivazione della

Segnali interni

Motivazione (ipotalamo)

Attivazione del comportamento

Selezione del comportamento

Sistemi di esecuzione

Corteccia motore

A TV -DA Striato pallido ventrale

Memorie (amigdala, ippocampo)

Segnali esterni

Figura 9

Comportamento

Organizzazione dei fattori che presiedono alla decisione del consumo alimentare.

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memoria. La nostra ipotesi è che questo stato complesso sia costi­tuito da due dimensioni distinte, seppur strettamente intercon­nesse. Una prima dimensione è quella dell'affetto propriamente detto, la sensazione più o meno gradevole in base alla quale dicia­mo che un cibo è buono o cattivo. L'altra dimensione, intima­mente correlata alla prima, è quella dell'azione, ossia l'impulso a consumare quell'alimento qui e ora, oppure ad astenersene.

Su questo punto occorre precisare meglio la nostra ipotesi. Sembra ovvio che un alimento segnalato da stimoli percepiti come positivi venga consumato e che, invece, uno segnalato da stimoli percepiti come negativi, venga rifiutato. Tutto ciò è vero e lo si può apparentemente toccare con mano. Eppure sarebbe un grave errore interpretare la decisione di consumare un alimento come il risultato di un processo cognitivo, consapevole, in cui vengono soppesati razionalmente i pro e i contro. Difficilmente gli animali agiscono cosi e se è vero che l'uomo ne è capace, pos­siamo esser certi che solo raramente ricorre a questo modo di pro­cedere. La nostra idea è che accettare o rifiutare un alimento sia in realtà parte integrante dei processi che portano complessiva­mente all'elaborazione affettiva.

Ma vogliamo essere ancora più precisi. Sottolineando il legame nascosto tra affetti e sfera dell'azione, intendiamo evidenziare una forte continuità funzionale tra processi attraverso cui viene elabo­rata la tonalità delle sensazioni provate e processi che si svolgono sul versante motorio del funzionamento cerebrale, senza però coin­volgere solo i centri motori propriamente detti. Prima di compiere un qualsiasi atto motorio, che si tratti del movimento di prensione del braccio e della mano per afferrare un alimento, di aprire la boc­ca o contrarre i muscoli della deglutizione, esso deve essere deciso e programmato, anche se in modo non cosciente. Ora, se la fun­zione motoria è chiaramente definita in J:ermini neurologici per quanto riguarda i fattori dell'esecuzione, essa appare molto meno chiara per quanto riguarda l'insieme dei processi che preparano l' a­zione. Le discussioni relative alla funzione del sistema dopaminer­gico e la difficoltà nel distinguere tra le sue funzioni motorie e quel­le motivazionali sono un buon esempio di queste difficoltà.

Un organismo in stato di veglia è continuamente in movimento: cambi di postura, gesti appena accennati, sequenze di gesti strut-

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turati o atti finalizzati a uno scopo. L'organismo sveglio è posto continuamente davanti alla scelta tra diversi modi di investire la propria tendenza all'azione, dagli atti privi di conseguenze fino ai comportamenti complessi influenzati da motivazioni precise. Anche le azioni più semplici e anodine presuppongono un proces­so decisionale volto all'esecuzione di una determinata attività motoria. Ovviamente i processi di cui stiamo parlando sono per lo più inconsci. La funzione decisionale è sl importantissima, ma non è ancora stata spiegata in modo soddisfacente, in quanto si situa in un ambito entro cui si sovrappongono le funzioni motorie pro­priamente dette, che devono essere attivate, la motivazione, da alcuni chiamata ancora pulsione e da altri drive, che fornisce lo sti­molo all'azione, e l'affetto, che stiamo cercando di definire più nel dettaglio.

Non possiamo nemmeno ignorare l'influenza che gli stimoli o segnali del mondo esterno hanno sugli atti motori. Sono appunto questi stimoli che, quando pertinenti, inducono gli stati affettivi. Il piacere proviene dall'odore o dal sapore. Bisogna notare, tutta­via, che gli stimoli o segnali, sono, in linea di massima, inefficaci di per se stessi, privi di conseguenze dirette. Un odore ipoteticamen­te incontrato per la prima volta, privo di somiglianze con altri già noti, difficilmente è in grado di innescare il consumo alimentare. A parte alcuni sapori come il dolce e l'amaro, il cui significato affet­tivo sembra inscritto nel sistema nervoso una volta per tutte, i mes­saggi sensoriali agiscono sui processi decisionali solo nella misura in cui attivano tracce già depositate in un settore della memoria. Una testimonianza del fenomeno si ha nella neofobia, ossia nell'atteg­giamento di rifiuto davanti a fonti ignote di stimoli.

Nel titolo di questo paragrafo abbiamo fatto cenno alle memo­rie e non alla memoria. Il plurale indica che il cervello ha diversi modi di immagazzinare e di utilizzare le tracce delle esperienze passate. La memoria di cui parliamo in questo caso non è solo quella dei ricordi consapevoli. È anche quella dell'apprendimen­to, delle associazioni che non offrono immagini mentali, ma rive­lano la propria esistenza influenzando l'umore e le azioni che ne derivano.

Qual è il contenuto di queste memorie? Contengono tracce dei segnali percepiti in passato - memoria sensoriale; contengono la

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registrazione degli atti motori elaborati e compiuti in funzione di quei segnali - memoria dell'azione; contengono infine l'engramma delle conseguenze positive o negative che quegli atti motori hanno avuto sull'organismo, ossia del benessere o del malessere che ne è seguito - memoria del successo o del fallimento. Queste tracce di diversa origine sono reciprocamente associate, come lo erano gli eventi originari che esse rappresentano. L'affetto collegato a uno stimolo può quindi essere considerato come uno stato cerebra­le/mentale, risultato della tendenza di quello stimolo ad attivare l'insieme dei dati immagazzinati. Questo significa chiaramente che un sapore, un aroma, una consistenza non sono affatto all'origine di una catena lineare di eventi che va da una stimolazione senso­riale a una risposta motoria. Danno l'abbrivio iniziale, mentre l' ap­parato neurale, estremamente complesso e preciso, va alla ricerca della miglior decisione motoria possibile, tenendo conto di un numero considerevole di fattori, come l'azione già in corso, le varie motivazioni che possono a loro volta confliggere, il forte stimolo proveniente dalle tracce attivate e il beneficio adattativo derivan­te dal consumo alimentare.

Cacciare l'omuncolo

Ma ecco un ostacolo sul cammino verso una piena comprensio­ne biologica del piacere. Non si tratta di una difficoltà tecnica eli­minabile tramite l'acquisizione di qualche dato supplementare. Si tratta invece di una difficoltà di tipo concettuale, nel genere di quelle che si presentano sempre quando vogliamo indagare la base neurologica di uno stato mentale. Come abbiamo detto, un mes­saggio sensoriale proveniente da un alimento viene percepito come buono se ha lasciato ricordi positivi, o, per esprimerci in maniera più rigorosa, se è stato coinvolto in un processo di apprendimento in condizioni che si sono dimostrate positive. Per l'organismo nel suo complesso, «conseguenze positive» significa essenzialmente benessere: dopo il consumo di un alimento con determinate carat­teristiche sensoriali, la digestione è stata buona e l'individuo si è sentito bene. Antonio Damasio (r994, 2003) direbbe senz'altro che il benessere corrisponde, in questo caso, all'esito del processo

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tramite cui il contenuto delle «mappe cerebrali» che rappresenta­no il corpo diventa accessibile alla coscienza. Ricordiamoci che l'a­rea dell'insula, attivata dagli stimoli legati all'assunzione alimen­tare, contiene effettivamente mappe di collegamento tra messaggi provenienti dai sensi chimici e sensibilità viscerale (vedi cap. 9).

La difficoltà consiste ovviamente nel definire precisamente cosa significhino per delle strutture neurali espressioni come «conse­guenze positive» o «sentirsi bene». In che modo queste strutture sono in grado di stabilire che un'esperienza sensoriale seguita da una decisione comportamentale è stata giusta per lorganismo e che in futuro gli converrà ripetere quel determinato comportamento? Come viene rappresentato questo «essere giusto»? Non possiamo ricorrere ai sentimenti, in quanto pur fornendo i «motivi» delle azioni di un organismo, non possono spiegare in modo causale il funzionamento di un insieme di neuroni. In passato, la percezione visiva è stata interpretata facendo ricorso all'idea di un ometto collo­cato all'interno della corteccia occipitale e intento a osservare l'im­magine retinica trasmessa al cervello. Dobbiamo stare ben attenti a non sistemare abusivamente alla fine del «circuito affettivo» un omuncolo dotato di sentimenti, simile all'omuncolo dotato di sen­sibilità un tempo collocato nel cuore delle strutture sensoriali.

Senza pretendere di offrire una spiegazione della coscienza, noi partiamo dal presupposto che le reti neurali coinvolte nel «circui­to affettivo» in senso lato e il sistema della presa di decisione sia­no costruiti e collegati in modo tale da evolvere verso certi schemi di attività. La loro capacità di agire efficacemente sui processi deci­sionali che orientano il comportamento è ottimale quando la loro attività si configura in un certo modo. E allora, quali saranno que­ste configurazioni privilegiate? Coinvolgono tutte le reti interessa­te o solo alcune di esse? La configurazione ideale prevede un mas­simo di attività oppure una sincronizzazione ottimale delle scariche dei neuroni coinvolti, o qualcosa di ancora diverso? Molto proba­bilmente esiste una gerarchia di stati. I livelli più alti vengono di sicuro raggiunti solo eccezionalmente. Le decisioni indirizzate all'azione che hanno mostrato di produrre gli stati di livello più alto sono state memorizzate come tali e i sistemi tendono a riprodurle ogni volta che si verificano le condizioni opportune quanto a moti­vazione e stimolo sensoriale.

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Il piacere sensoriale, dimensione affettiva, cosciente, della per· cezione, potrebbe dipendere dall'accesso alla coscienza dello stato dei sistemi neurali che regolano l'azione; la sua intensità riflette­rebbe quindi il livello di vicinanza a una configurazione ottimale raggiunto dallo schema secondo cui si è strutturata I' attività. Paral­lelamente, la funzione di stimolo assunta dall'affetto equivarreb­be alla tendenza a rinnovare quel tipo di azione generatrice dello stato memorizzato. La gerarchia delle preferenze alimentari, sia dal punto di vista del piacere sia dal punto di vista decisionale, ripro­durrebbe la gerarchia delle configurazioni dell'attività neurale pro­vocata dagli stimoli provenienti dagli alimenti.

All'estremo opposto rispetto al piacere si trova il dispiacere, all'estremo opposto della scelta, il rifiuto. Potremmo essere tenta­ti di vedere nei sentimenti di tipo negativo e nelle decisioni di rifiu­to indotti da alcuni stimoli gli effetti del funzionamento delle stes­se reti neurali, quando gli stimoli non riescono a configurare l'attività in modo positivo. Tuttavia non è affatto sicuro che pia­cere e dispiacere, accettazione e rifiuto siano collocati agli estremi opposti di un medesimo sistema di valutazione. Il fatto che alcune aree si attivino mentre altre si disattivano, quando il piacere legato al consumo alimentare lascia il posto al rifiuto, come mostrato da alcune immagini della corteccia orbitofrontale, fa pensare invece che siano due i sistemi coinvolti.

Dobbiamo anche far notare come i due circuiti che abbiamo distinto, il circuito cognitivo e il circuito emotivo, debbano di necessità convergere per consentire una percezione unitaria e sin­cronica della qualità sensoriale e del sentimento. Nel caso dell'e­mozione della paura, è stato dimostrato che anche i messaggi udi­tivi che scatenano la paura seguono due vie in parte distinte, una via «cognitiva», verso la corteccia uditiva, e una via più rapida, percorsa dall'emozione, che raggiunge direttamente l'amigdala. Azzardiamo quindi un'ipotesi simile a quella formulata da Joseph LeDoux (1996) proprio per queste due vie uditive: esse devono incontrarsi per forza. LeDoux pensava che il punto di incontro potesse collocarsi nella memoria di lavoro, memoria a breve termi­ne al servizio dell'azione immediata e mediatrice necessaria della coscienza. Se fosse davvero cosl, bisognerebbe cercarne la sede anatomica nella parte laterale della corteccia prefrontale, dove

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appunto viene situata tale memoria di lavoro. Ma la corteccia cin­golata anteriore, che si attiva in risposta agli odori dell'alimento, potrebbe essere un candidato altrettanto valido, in quanto viene a sua volta attivata in compiti che implicano la memoria di lavoro. Infine la corteccia orbitale del lobo frontale, legata alla sorgente dei messaggi olfattivi e gustativi, nonché all'amigdala e alla cor­teccia cingolata anteriore, è in buona posizione per essere collega­ta, tramite la memoria di lavoro, alle informazioni sensoriali e alla loro interpretazione affettiva.

Cosa ci dicono le stimolazioni artificiali

Abbiamo a questo punto una cornice interpretativa; non ci resta che vedere se i dati di varia origine raccolti finora vi si inseriscono adeguatamente. Cominciamo esaminando l'elettrostimolazione del cervello che, se applicata ad alcune strutture, spinge l'animale ver­so comportamenti che sfociano nel consumo alimentare. L'elettro­stimolazione sostituisce gli stimoli naturali che hanno il potere, determinato dall'apprendimento, di sollecitare l'azione. Essa rie­sce anche a cortocircuitare i messagg_i delle memorie che potrebbe­ro essere attivate da quelli stimoli. E esattamente come se il mes­saggio artificiale fosse dotato di un significato comportamentale per il solo fatto di attivare certi circuiti neurali. Di contro, l'elet­trostimolazione si dimostra sensibile allo stimolo della fame: que­sto significa che essa si situa in qualche modo a valle dei segnali di motivazione e che somma i suoi effetti agli effetti di quei segnali nel sistema che matura la decisione di agire.

Per quanto riguarda l'elettrostimolazione autosomministrata, è piuttosto significativo che essa non necessiti, per manifestarsi ripe­tutamente e con decisione, di altri incentivi oltre ai suoi stessi effet­ti. Ritroviamo qui il problema della duplice dimensione del!' emo­zione. Di primo acchito verrebbe da dire che se l'animale si getta in un'attività di autostimolazione, questo significa che ne trae un beneficio assimilabile senza difficoltà al piacere. Ma non bisogna dimenticare che il «circuito affettivo» ha due dimensioni. Come stanno le cose in realtà? I dati sperimentali dicono che gli animali si dedicano alle stimolazioni elettriche del cervello. Seguendo un cer-

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to tipo di interpretazione, si potrebbe dire che lo stimolo elettrico rappresenta una gratificazione e che l'animale manipola l'interrut­tore elettrico per ottenere quella gratificazione. Si potrebbe anche cercare di quantificarne il valore misurando la frequenza con cui l'interruttore viene premuto o registrando l'entità degli sforzi che l'a­nimale è disposto a compiere per ottenere ciascun treno di impulsi elettrici. In ogni caso, è abbastanza facile scivolare verso un'inter­pretazione discutibile del comportamento se ci si limita ad assimi­lare gratificazione e piacere. Secondo un'altra interpretazione, tratta invece da Skinner (r938), si potrebbe sostenere, guardandosi bene dal menzionare un ipotetico piacere, che l'animale è rinforzato nel­la sua azione, che riceve un rinforzo.

A nostro avviso invece, e questo è il nostro modo di descrivere la stessa situazione, l' elettrostimolazione ha organizzato le strut­ture neurali dell'emozione/sollecitazione secondo una delle confi­gurazioni ottimali di attività a cui tendono queste strutture, come se il segnale preannunciasse l'arrivo di una risorsa preziosa dal pun­to di vista adattativo. Memorizzato insieme alle sue conseguenze positive, il comportamento di autostimolazione tende quindi a essere riprodotto, in genere in modo prioritario rispetto a qualsia­si altra azione. È solo quando le risorse da mobilitare per attuare quel comportamento diventano davvero eccessivamente dispen­diose che il meccanismo di selezione delle azioni modifica le sue scelte. Questo può accadere anche in situazioni sperimentali in cui l'animale è sottoposto all'azione di sostanze che interferiscono con le trasmissioni sinaptiche. Dire allora che il valore gratificante del­lo stimolo è diminuito non è forse il modo migliore di descrivere la realtà. Ritorneremo oltre su questo problema, a proposito dei neuroni che producono la dopamina.

Un'altra fonte di dati è l'autosomministrazione di droghe. Rispetto all' elettrostimolazione, relativamente localizzata ma poco selettiva nella sua azione sui neuroni che riesce a raggiungere, le droghe, iniettate nel sistema circolatorio, hanno un raggio d'azio­ne molto più ampio, agiscono più diffusamente ma anche in manie­ra molto più selettiva, poiché interferiscono con il funzionamento di alcune sinapsi che formano le strutture neurali coinvolte e non hanno invece nessuna influenza sulle altre. Poiché esistono diver­si tipi di recettori che possono risultarne condizionati, il punto che

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le droghe vanno a colpire non è immediatamente riconoscibile. Sappiamo comunque che tra essi figurano i recettori degli oppiacei. L'esistenza di una forma di dipendenza dall'azione di queste sostanze e dalla fame sembra indicare che il sistema sensibile si situi, proprio come quello sollecitato dall'elettrostimolazione, a valle del circuito della motivazione. Si registra anche una certa for­ma di sazietà, che corrisponde alla cinetica di assorbimento, cioè alla durata d'azione della droga. Ma per i nostri scopi il dato più importante è senz'altro la tendenza del soggetto sottoposto al pro­dotto a ripetere l'esperienza, proprio come accade all'animale che si autostimola elettricamente senza mai arrivare a sazietà.

L'intrigante ruolo della dopamina

Un neurotrasmettitore, la dopamina, e un circuito neurale, il sistema mesolimbico, il cui punto di partenza è costituito dall'area tegmentale ventrale (fig. ro), sono sistematicamente chiamati in causa quando si tratta di individuare le basi neurologiche del pia­cere, della gratificazione, del rinforzo e della decisione indirizzata all'azione. Nel 1995, Eugene Kiyatkin scriveva: «Come certe ope-

Figura 10

I neuroni dopaminergici (DA} dell'area tegmentale ventrale (ATV) innervano lo striato pallido ventrale.

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re d'arte, esistono prodotti della conoscenza scientifica destinati ad avere un ruolo chiave nell'evoluzione delle idee. Nella neurobiolo­gia moderna, un gruppo relativamente ristretto di cellule contenen­ti dopamina, dai corpi densamente localizzati nell'area tegmentale ventrale del mesencefalo (AVT), con lunghi assoni che proiettano su numerose strutture limbiche, appartiene senz'altro a questa categoria» (Kiyatkin 1995). La difficoltà di capire come la dopa­mina e i neuroni che ne inducono la produzione svolgano il loro ruolo al crocevia tra motivazione, affetto e comportamento, e la definizione stessa, ipotetica, di questo loro ruolo, sono stati e ri­mangono oggetto di discussioni appassionate. Queste discussioni indicano in modo molto efficace le difficoltà incontrate dalle neu­roscienze nell'identificare, delimitare e districare le funzioni di cui dovrebbero poter descrivere i meccanisini di attuazione.

Cercheremo di partire dai dati certi, ricordando i termini della discussione scientifica e cercando di proporre la nostra interpreta­zione. Di sicuro sappiamo che i neuroni di cui parla Kiyatkin ven­gono attivati, aumentando di conseguenza la produzione di dopa­mina, in una serie di situazioni date, come l'assunzione di cibi pala tabili, l' elettrostimolazione di certe aree cerebrali, definita gra­tificante, e il consumo di droghe. Nonostante i neuroni produtto­ri di dopainina innervino numerose aree cerebrali, le loro termina­zioni risultano particolarmente abbondanti in un piccolo nucleo dello striato ventrale, il nucleo accumbens, in cui la liberazione di dopamina appare particolarmente evidente. Se accettiamo l'idea che le condizioni naturali e artificiali che inducono la liberazione di dopainina abbiano in comune la caratteristica di produrre una gratificazione (reward) per l'organismo, allora ne possiamo conclu­dere che la dopamina, l' A VT e il nucleo accumbens sono stretta­mente associati alla genesi della gratificazione. Con un po' più di audacia, potremmo spingerci a parlare di un «sistema della gratifi­cazione», di un «sistema del piacere». La semplicità concettuale era in effetti molto attraente e quest'idea prese piede per alcuni decenni, durante i quali emersero tuttavia varie obiezioni.

Somministrando agli animali in sede sperimentale una sostanza dagli effetti antagonisti a quelli della dopamina, alcuni ricercatori (Wise 1982) che, come molti altri negli anni settanta, studiavano l'autostimolazione cerebrale, osservarono un effetto simile a quel-

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lo che si ha quando una stimolazione inizialmente gratificante non è più seguita dal suo rinforzo: il comportamento cessa, si verifica un'estinzione. La dopamina era quindi responsabile del rinforzo e l'effetto dell'antagonista della dopamina, che sopprimeva il rinfor­zo, venne assimilato ali' anedonia. 1 Si riteneva che i neurolettici, antagonisti della dopamina per i suoi recettori, di cui erano stati messi a profitto gli effetti antipsicotici, «annullassero il piacere del­la stimolazione cerebrale, gratificante in condizioni normali, annul­lassero l'euforia data dalle anfetamine, gratificante in condizioni normali, e annullassero il carattere "buono" di un cibo, gratifican­te in condizioni normali». Gli antagonisti della dopamina riduce­vano ad esempio il consumo di dolci. Non veniva provato in que­sto modo, a contrario, che la dopamina sollecitava il consumo di zucchero, dal sapore gratificante?

Rispetto all'ipotesi del «sistema della gratificazione» si poteva obiettare che il fascio dopaminergico innerva anche regioni, come lo striato dorsale,2 evidentemente coinvolte nel controllo del movi­mento. Gli antagonisti della dopamina non potevano allora eserci­tare i loro effetti interferendo con le capacità motorie degli ani­mali? Non si perse altro tempo con quest'obiezione e si ammise -provvisoriamente - che le funzioni motorie e di gratificazione fos­sero due realtà distinte.

Nonostante la sua forza, ben presto emersero alcuni dati che non si accordavano con l'ipotesi del «sistema di gratificazione». Per esempio è diventato difficile affermare che la dopamina del nucleo accumbens sia selettivamente implicata nella gratificazione, dal momento che gli stimoli avversivi (quando all'animale viene pin­zata la coda o gli viene somministrata una scarica elettrica sulla zampa), non diversamente dagli stimoli appetitivi, sono accompa­gnati da un'aumentata liberazione di dopamina. Altra obiezione: è vero che si è spesso osservato un aumento della liberazione di dopamina quando l'animale spingeva sulla leva in presenza di rin­forzi alimentari, ma la liberazione corrisponde all'elemento rinfor­zante in sé o a qualche altro parametro della situazione comporta-

1 L'anedonia corrisponde a una riduzione della componente affettiva delle sensazioni. 2 Lo striato dorsale, dotato di importanti funzioni motorie, innervato da neuroni doparni­

nergici collocati nell'ATV e soprattutto in una regione vicina chiamata locus niger o sostanza nera. La degenerazione di questi neuroni è responsabile del morbo di Parkinson.

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mentale? E se ammettiamo che la dopamina medi l'azione di rinfor­zo della cocaina, possiamo desumerne che sia lo stesso per la natu­rale azione di rinforzo del cibo?

Nozioni molto meno chiare di quanto si pretenda

Un altro modo per riflettere su questo tema è prendere in esa­me il possibile impatto dei diversi metodi di indagine sui fenome­ni osservati. Un metodo impiegato molto spesso consiste nel collo­care l'animale d'esperimento davanti a una leva che è stato abituato a manipolare per ottenere una certa gratificazione. Già di per sé la formula «premere per ottenere una gratificazione» è ambi­gua e forse, nel quadro del condizionamento operante, sarebbe più opportuno dire: «L'animale preme la leva e riceve un rinforzo». Per confrontare due tipi di rinforzo o per studiare l'effetto di un inter­vento farmacologico sul sistema dopaminergico, bisogna avere a disposizione delle unità di misura: una potrebbe essere ad esempio la frequenza con cui l'animale preme sulla leva nei due casi. L' « agen­te di rinforzo» più efficace è, in via ipotetica, quello che giustifica una frequenza di spinta più alta. Questa conclusione risulta ovvia­mente inaccettabile, se l'intervento farmacologico sul sistema dopaminergico ha inciso sull'attività motoria in quanto tale. Biso­gna stare attenti a non prendere la paralisi del braccio che regge la forchetta per mancanza di appetito. Di nuovo emerge il sospetto di una contaminazione, a causa di alcune conseguenze motorie, tra conclusioni relative alla gratificazione e conclusioni legate al valore del rinforzo.

Complessivamente, l'indiscussa dicotomia degli effetti della do­pamina in ambito motorio e affettivo appare un po' forzata. Deri­va, in ultima analisi, da una difficoltà nel concepire, per il sistema dopaminergico, una funzione completamente diversa dal rinforzo, dal piacere, o dalle funzioni motorie. A proposito del sistema stria­to dorsale, le cui funzioni sono difficili da identificare quanto quel­le del sistema striato ventrale, al quale appartiene il nucleo accum­bens, Teuber e Proctor (1964) hanno scritto: «La distinzione usuale tra sintomi puramente sensoriali e sintomi puramente moto­ri non risulta utile quando si affronta l'analisi sperimentale delle

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funzioni e disfunzioni dei gangli basali. È quasi come se avessimo bisogno di due categorie per descrivere certi sintomi, che non sono né sensoriali né motori, ma che riflettono le particolarità dell'inte­razione sensomotoria».

Un'interpretazione più precisa viene proposta da John D. Sala­mene e collaboratori (1997), che collocano la funzione del sistema dopaminergico sul versante della presa di decisione. Secondo la loro teoria, gli organismi devono compiere delle scelte tra vari agenti di rinforzo, selezionano cioè delle attività in base al loro valore di rinforzo rispetto ad altri stimoli disponibili. Devono anche tener conto, nelle loro risposte, del «costo» di tali risposte e dei vincoli che esse impongono. La dopamina potrebbe quindi non essere direttamente implicata nella valutazione del rinforzo, ma, invece, nell'analisi costi/benefici e nell'orientare le risposte verso un certo tipo di rinforzo. Come vedremo tra poco, le indagi­ni relative a compiti con diversi rapporti costi/benefici hanno in effetti mostrato che la dopamina del nucleo accumbens regola alcu­ni processi di alto livello implicati nella distribuzione delle rispo­ste a stimoli di origine diversificata.

C'è un esperimento che illustra bene quest'orientamento della ricerca (Salamene e altri 1994). È stato realizzato all'interno di un labirinto strutturato a T. Un ramo della Tè formato da un sentie­ro che conduce a due polpettine di cibo, mentre l'altro presenta una barriera che l'animale d'esperimento deve scavalcare per ave­re accesso a quattro polpettine. Topi digiuni e addestrati scelgono questo secondo ramo e scavalcano la barriera per mangiare le quat­tro polpette. L'iniezione di una dose ridotta di aloperidolo, anta­gonista della dopamina, ha come effetto quello di far cambiare la scelta degli animali, che si dirigono ora verso il ramo con due pol­pette, cioè verso il rinforzo più debole. A questo punto sono pos­sibili due interpretazioni: o il valore di rinforzo del cibo è dimi­nuito, il cibo è meno apprezzato, oppure superare la barriera è diventato più difficile per l'azione della sostanza sul sistema moto­rio. Ora, però, se la barriera veniva eliminata, i topi non cambia­vano percorso; il cibo non aveva quindi perso il suo carattere di gratificazione: quattro polpette valevano sempre più di due. In un altro esperimento, il ramo del labirinto che non presentava barrie­re non conteneva nemmeno più le polpette. In queste condizioni i

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topi preferivano fare lo sforzo di valicare la barriera, lungo l'altro ramo, il che mostrava come l'esaurimento della dopamina nel nucleo accumbens non comportasse l'impossibilità motoria di supe­rare l'ostacolo.

Benché numerosi articoli continuino a sostenere l'idea che la dopamina dell' A VT e il nucleo accumbens medino l'impatto edo­nico degli stimoli gratificanti, vi sono anche formulazioni meno drastiche che attestano la perplessità degli specialisti. Alcuni par­lano di «attivazione comportamentale», di «richiamo motivazio­nale», di «stimolazione psicomotoria». Altri vi scorgono un' «inter­faccia tra il sistema limbico e il sistema motorio tramite la quale l'informazione significativa sul piano motivazionale orienta l'azio­ne» (Mogenson e altri 1980), o ancora un «sintomo implicato nel­l'impiego degli indizi appresi, predittivi di conseguenze biologiche significative» (Setlow e altri 2003). Alla domanda: qual è il ruolo della dopamina nella gratificazione (reward)?, Berridge e Robinson (1998) rispondono: «Il sistema dopaminergico può servire da inter­mediario rispetto alla capacità di sollecitare all'azione (incentive) propria delle gratificazioni, e modulare il loro valore motivaziona­le in maniera distinta rispetto all'ambito edonico e a quello della gratificazione». Salamone e altri (1997) formulano a loro volta una spiegazione macchinosa: «La dopamina dell'accumbens è implica­ta nei processi motori e sensomotori di livello superiore, importanti dal punto di vista dell'attivazione e della motivazione, della distri­buzione delle risposte e della tendenza a rispondere agli stimoli condizionati». E, senz'altro consapevoli dell'effetto della loro af­fermazione su un lettore frettoloso, aggiungono, con un senso del­l'umorismo difficile da tradurre: «This may not roll off the tongue quite fluently as the word "reward" ».

Per parte nostra, ricordiamo innanzitutto che i concetti di pia­cere, ricompensa, rinforzo, motricità, decisione, attivazione com­portamentale sono nozioni di varia origine, senz'altro utili per clas­sificare fenomeni complessi entro categorie più o meno definite, ma ricordiamo anche che sarebbe un'ingenuità credere di poter tro­vare per ognuno di essi il corrispettivo neurobiologico esatto, il suo sostrato nervoso, come si usa dire. Quando questo succede, si trat­ta di un caso fortunato. Nella maggior parte dei casi invece, ogni specifica funzione mentale o comportamentale risulta da un insie-

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GRADIRE, DESIDERARE, SCEGLIERE

me di sistemi neurali e da un gran numero di neurotrasmettitori diversi, mentre, parallelamente, un singolo sistema neurale inter­viene in diverse categorie funzionali. Per tornare al nostro tema, ricorderemo anche che non è necessario e senza dubbio nemmeno legittimo separare gli effetti del sistema dopaminergico pertinenti alla sfera motoria da quelli relativi alla sfera della gratificazione: il problema va infatti posto in altri termini. Esistono invece un buon numero di prove sperimentali per affermare che apprezzare un odore, un sapore, una droga o un cibo non significa affatto deside­rarli o «volerne un po'».

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I I.

Preferenze e avversioni alimentari

Selezionare il cibo una volta cessata l'alimentazione al seno materno non è cosa da poco per gli onnivori. È un processo che inizia molto pre­sto e mobilita le risorse dei sensi, dei segnali interni e della memoria: ne risultano apprendimenti alimentari, per larga parte inconsci, che vanno a comporre il complesso sistema individuale delle preferenze e delle avversioni alimentari.

Premessa: la scelta

Il capitolo precedente ci ha persuaso del ruolo svolto da alcuni meccanismi cerebrali, molto sofisticati, nell'orientare l'azione, me­diando l'antagonismo tra sollecitazioni e promesse di piacere. Quan­do si sceglie un cibo tra molti, una volta presa la decisione di man­giare e non di fare qualcos'altro, si attiva nuovamente il sistema dopaminergico, insieme a diversi altri circuiti. Se la ricerca di cibo è la prima tappa del comportamento alimentare, almeno in una situa­zione normale, valida tanto per l'uomo quanto per il topo, la secon­da tappa è rappresentata dalla selezione dell'alimento destinato al consumo, o destinato a essere consumato per primo. In questa tap­pa si manifestano e si esprimono preferenze o avversioni alimentari.

In questa fase decisionale non è solo il consumatore a sentirsi coin­volto. Coloro che gli forniscono gli elementi di scelta, cioè le azien­de alimentari, attribuiscono molta importanza ai fattori che deter­minano la scelta, forchetta alla mano, di un prodotto piuttosto che di un altro. Quando si formano le preferenze alimentari del con-

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PREFERENZE E AVVERSIONI ALIMENTARI

sumatore? Che ruolo ha l'alimentazione della prima infanzia? Si tratta di preferenze immutabili o che cambiano a seconda delle esperienze? C'è un modo per orientarle? Nella maggior parte dei casi si tratta di domande che non hanno ricevuto risposte definitive, in quanto le scelte dei consumatori sono determinate da un numero altissimo di fattori, per di più nascosti e inconsci. Nelle prossime pa­gine descriveremo alcune tra le più avanzate metodologie di ricerca.

La difficoltà di essere onnivori

Non tutti gli organismi si trovano davanti alle stesse incertezze. Alcuni sono geneticamente programmati per nutrirsi di cibi rigida­mente circoscritti. Del resto si tratta di una specializzazione cosi ben definita da determinare alcune categorie tassonomiche. Esistono cosi mammiferi erbivori, carnivori, insettivori. È cosa ben nota che le mucche si nutrano d'erba, i leoni di antilopi e il formichiere di for­miche, tuttavia è il caso di osservare questi fenomeni con più atten­zione. Brucando l'erba delle praterie, le mucche non hanno aspetta­to che venissero loro servite farine animali per inserire nel loro regime alimentare proteine che non hanno niente di vegetale: quel­le dei numerosi insetti che brulicano nell'erba. Altri animali, come gli esseri umani, sono detti onnivori, perché in grado di nutrirsi di sostanze molto più diversificate, animali e vegetali, mentre il loro regime alimentare dipende dalle circostanze ambientali, dall'abitu­dine o dalla cultura, più che dalle leggi del determinismo genetico.

Rimanere all'interno di un regime alimentare specializzato offre vantaggi e inconvenienti. Se l'evoluzione guida rigidamente la spe­cie verso un determinato alimento, i rischi di intossicazione o di squilibrio nutrizionale sono praticamente inesistenti, poiché la scel­ta è sancita da milioni di anni. Il carnivoro predatore si nutre di un alimento molto simile alla materia di cui è fatto. La carne del-1' antilope non è molto diversa da quella del leone. Il nutrimento specifico può però venir a mancare, con conseguente minaccia per la sopravvivenza. Le specie onnivore, dal canto loro, hanno più opportunità di trovare il loro pranzo, ma questo evidente vantag­gio ha il suo rovescio: il rischio di ingerire una pianta produttrice di sostanze tossiche, finalizzate proprio a scoraggiare i predatori.

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Quando il consumatore riempie il carrello al supermercato, sce­gliendo i prodotti dai vari reparti, non si trova a dover prendere una decisione gravida di conseguenze. Se anche ha qualche dub­bio sulla composizione o la freschezza dell'alimento, gli basta un colpo d'occhio all'etichetta, in genere affidabile, per avere le informazioni che gli servono. Nelle nostre società tutelate sul pia­no alimentare, come su tanti altri - almeno in certe isole di pace e di abbondanza -, gli individui non hanno sviluppato la consa­pevolezza della difficoltà di essere onnivori. Eppure si tratta di una difficoltà reale, con cui la nostra specie ha dovuto fare i con­ti, sviluppando, come altre, mezzi efficaci per sopravvivere in un ambiente alimentare aperto ma pericoloso. Le preferenze alimen­tari espresse dai consumatori moderni, che appaiono raffinatezze edeniche prive di conseguenze, affondano le radici in processi adattativi molto importanti. Se ne trovano tracce rilevanti, a livel­lo individuale, nella forte caratterizzazione emotiva delle reazio­ni espresse davanti a un cibo e ai suoi caratteristici stimoli senso­riali: «mi piace» o «non mi piace» sono dichiarazioni spesso molto nette. L'opinione pubblica entra subito in allarme non appena sor­ge qualche dubbio sulla sicurezza di un alimento, e nell'immagina­rio collettivo l'alimentazione e i suoi rischi hanno un posto impor­tante. Far entrare una sostanza nell'organismo non è un'azione insignificante.

Nelle prossime pagine cercheremo di capire i fondamenti delle preferenze alimentari. Vedremo come esse dipendano dai segnali sensoriali prodotti dai cibi e come siano condizionate dalla fisiolo­gia dell'organismo. Ne indagheremo la possibile origine nelle pri­missime esperienze dell'individuo, prima ancora della nascita, e ne riscontreremo tanto la stabilità quanto la plasticità. Dovremo infi­ne porci qualche domanda sul loro ruolo nell'orientare il compor­tamento alimentare e sugli eventuali fallimenti di questo ruolo nei disordini dell'omeostasi energetica.

La squisita sinergia tra zuccheri e grassi

Fermo restando che le preferenze alimentari dipendono in larga parte dalle esperienze individuali, come si vedrà nel dettaglio più

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avanti, possiamo chiederci se esista comunque negli esseri umani, o almeno tra i nostri contemporanei, una tendenza a preferire alcu­ni tipi di cibo. Un cibo che sia grasso e dolce viene il più delle vol­te apprezzato, mentre i cibi amari vengono molto spesso rifiutati (Drewnowski 1997). Queste reazioni, almeno per quanto riguarda il dolce e l'amaro, sono considerate innate e universali. Il neonato manifesta rispettivamente reazioni di accettazione e rifiuto verso i due sapori. I bambini più piccoli, fra tre e cinque anni, classifi­cano i cibi in base alla familiarità o alla dolcezza, o in base a entrambi i parametri. Diversamente da quanto accade con gli adul­ti, nei bambini la curva di accettazione del saccarosio non conosce un livello ottimale; vengono sistematicamente scelte le concentra­zioni di zucchero più alte, mentre la preferenza degli adulti tende a diminuire in presenza di forti concentrazioni. Per quanto riguar­da le risposte ai grassi, esse rispondono a una sinergia sensoriale grasso-zuccherato. Cosl il valore edonico raggiunge l'apice quando crema e zucchero sono mescolati con una proporzione del 20 per cento di crema, contro 1'8 per cento di saccarosio.

Questa valutazione edonica delle sostanze grasse e zuccherate, come abbiamo visto, può avere un significato adattativo, in quan­to induce gli individui al consumo di alimenti ricchi in contenuto energetico. Il rifiuto opposto all'amaro avrebbe a sua volta un cer­to vantaggio evolutivo, dal momento che il gusto acre è spesso pre­dittivo di tossicità. Gli alcaloidi, i glicosidi e altre tossine derivate hanno un gusto amaro. Tuttavia si è anche capito che non si trat­ta di una proprietà statistica; molte sostanze amare non sono tos­siche. Checché sembrino pensarne i bambini, il loro frequente rifiuto verso le verdure crude della famiglia delle Crucifere, come il broccolo, il cavolo e il cavolo di Bruxelles non è giustificato. Ci sono anche sostanze tossiche non amare, come sostanze dolci pri­ve di valore nutritivo. Del resto negli edulcoranti sintetici cerchia­mo proprio il piacere senza le calorie.

La sensibilità all'amaro è un tratto ereditario e, come abbiamo visto nel capitolo 5, gli esseri umani possono essere classificati in diversi gruppi, testers, non-testers, e anche supertesters a seconda del­la sensibilità a stimoli amari campione, PROP e PTC (Bartoshuk 2000). Anche verso altre sostanze si registrano forti differenze di sensibilità. Cosl si ritiene che i testers del PROP non amino il caffè

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nero, il succo di pompelmo, il succo di limone e alcuni tipi di rava­nello (Drewnowski 1997). Ci si è chiesti se il tipo di sensibilità mostrato da un individuo rispetto a certe sostanze amare possa ave­re delle conseguenze sulla sua salute, in quanto elimina dalla sua dieta diversi alimenti di origine vegetale. Ora, l'interesse per gli ali­menti detti funzionali ha fatto sì che l'attenzione si spostasse sui componenti di frutta e verdura capaci di prevenire alcune malattie e in particolare il cancro. Molti di questi elementi risultano amari: fitoestrogeni nelle bacche amare, l'indolo e i tiocianati nei cavoli e nel radicchio, flavonoidi bioattivi nelle cipolle e in certi cavoli. Ci potrebbe quindi essere un legame tra sensibilità gustativa, prefe­renze alimentari e rischio di contrarre alcune malattie dipendenti dal tipo di dieta.

Tendenze generali e scelte individuali

Abbiamo appena visto che le preferenze alimentari dipendono in parte dalle proprietà gustative dei cibi e che le risposte di accetta­zione o rifiuto sono in certa misura predeterminate. Tuttavia non si può fare a meno di osservare che le scelte alimentari individuali reali si discostano spesso dalle tendenze generali. Molti consuma­no cibi o bevande dal gusto amaro, nonostante ne percepiscano chiaramente il sapore; alcuni trascurano pietanze dolci benché lo zucchero gli piaccia; ampie fette della popolazione umana fanno largo uso di sostanze molto irritanti, come il peperoncino, che sti­molano il trigemino.

Molti sono i modi di spiegare la grande varietà delle scelte ali­mentari. Innanzitutto, i sapori non sono gli unici fattori in gioco; bisogna tener conto del ruolo fondamentale svolto dagli altri sti­moli chimici, olfattivi e trigemini, come dalle altre modulazioni della sensibilità del cavo orale. Inoltre, nel corso dell'esistenza, le preferenze mutano per molte ragioni, che vanno dall'influenza del­la cultura e del gruppo dei pari a quella, incisiva, delle esperienze alimentari positive e negative che tutti noi facciamo, per non par­lare dell'impregnazione ormonale.

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PREFERENZE E AVVERSIONI ALIMENTARI

Tra l'innato e l'acquisito: il coniglietto e il feromone mammario

Ci rivolgeremo ai primi anni di vita per cercare di capire se il neonato abbia altre preferenze a parte quella verso il dolce e se esperienze alimentari precoci incidano sulle sue scelte alimentari successive. Ma prima di affrontare il caso di un neonato umano, faremo una breve incursione agli inizi della vita alimentare di un altro mammifero, il coniglio.

Il piccolo di coniglio nasce cieco e sordo, ma già provvisto di un buon odorato. Il peculiare comportamento della madre, quasi sem­pre via dal nido, impone ai neonati di questa specie un regime ali­mentare molto rigido. La poppata è possibile solo una volta sulle ventiquattro ore, quando la madre torna nel nido, e dura solo pochi minuti. In questo breve tempo, ogni coniglio della nidiata deve impadronirsi di una mammella e poppare la quantità di latte che gli consentirà di sopravvivere e svilupparsi. E non può farlo senza l'aiuto di un meccanismo programmato geneticamente che lo indu­ce a rispondere con un movimento stereotipato della testa a un segnale chimico emesso dalla madre (Hudson e Distel 1983). Il movimento di esplorazione innescato selettivamente dal segnale ha generalmente il risultato di far trovare alla bocca la mammella, cosl la suzione ha inizio attivamente.

Di recente è stato identificato un feromone (Schaal e altri 2000).

La molecola è una sostanza sintetizzata dalla coniglia e liberata nel latte poco prima della montata. Questa molecola non sembra pre­sente nel sangue materno, né nel liquido amniotico in cui è im­merso il feto, il coniglio non ha quindi modo di apprenderne il significato o entravi in contatto prima della nascita: la reazione è geneticamente determinata. Si tratta di una situazione ecceziona­le in cui la preferenza per lo stimolo e per l'alimento è assoluta. Non è stata trovata nessuna sostanza che possa competere con il feromone nelle prime ore di vita.

Quest'esempio risulta interessante anche per un altro motivo. Il meccanismo geneticamente determinato comporta infatti una note­vole apertura su processi assimilati tramite l'apprendimento. Men­tre gli odori del nido, dei conspecifici e dell'ambiente non riesco­no a innescare la reazione caratteristica, basta associare anche solo

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una volta un qualunque odore con il feromone perché quell'odore acquisti la proprietà di innescare una risposta di ricerca. Si tratta in questo caso di apprendimento, ma di un apprendimento molto particolare, in quanto si realizza sin dalla prima associazione. Gli odori provvisti, tramite tale associazione, di proprietà simili a quel­la del feromone diventano oggetto di preferenza. Nella facilitazio­ne dell'apprendimento in questa fase di vita è possibile scorgere un meccanismo attraverso cui si formano le preferenze, un meccani­smo che amplia la serie dei segnali con significato alimentare, via via destinati a prendere il posto del feromone. 1

Bisogna risalire a prima della nascita ...

Il feromone mammario della coniglia va senz'altro considerato come un adattamento alle particolari caratteristiche del compor­tamento materno in questa specie, tuttavia, anche quando l'allatta­mento non è cosi vincolato, gli odori della madre hanno un ruolo determinante nel guidare il piccolo verso l'origine del latte. Gli stu­di sui neonati umani non hanno - o non hanno ancora - scoperto segnali di potenza paragonabile a quello cui obbedisce il conigliet­to. D'altra parte la presenza di segnali olfattivi attivi emessi dalla madre, che guidano il neonato verso il seno, è ben accertata. Il lat­te materno possiede un potere di attrazione molto forte, che lo ren­de preferibile al latte artificiale, anche per quei neonati che non sono mai stati allattati al seno (Marlieer e Schaal 2005).

Le preferenze alimentari potrebbero essere orientate da esperien­ze ancora più precoci. Infatti, nei giorni immediatamente successivi alla nascita, il neonato mostra risposte positive all'odore di prodotti aromatici - l'anice per esempio - consumati dalla madre durante le settimane prima del parto (Schaal e altri 2000). Da alcuni test in cui al piccolo è data la possibilità di esprimere la propria preferenza, orientando la testa verso una delle due sorgenti degli odori, emerge chiaramente la preferenza verso prodotti precedentemente ingeriti dalla madre. Questa reazione non si è invece riscontrata in neona­ti la cui madre non aveva consumato quel tipo di prodotto.

1 Gérard Coureaud, del Centre européen des sciences du goUt, lo ha da poco dimostrato.

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Il fenomeno ha una sua spiegazione soddisfacente. Alcuni com­ponenti del cibo ingerito dalla madre arrivano fino al liquido am­niotico, in cui sono rintracciabili tramite analisi chimica. Nelle ulti­me settimane di gestazione, il feto che ingerisce il proprio liquido amniotico dispone di un sistema olfattivo abbastanza maturo per consentirgli di fiutare, allo stato liquido, molecole odoranti che raggiungono le sue fosse nasali. Le sue narici, prima chiuse, si apro­no. Molto probabilmente la semplice esposizione della mucosa olfattiva agli odoranti sciolti nel liquido amniotico gli permette di acquisire una familiarità sufficiente a produrre una scelta prefe­renziale, senza azioni di rinforzo. È un meccanismo semplice, atti­vo anche nello sviluppo delle preferenze alimentari dei bambini più grandi e degli adulti. Questo ovviamente presuppone che l'espe­rienza sensoriale sia stata memorizzata dal feto in utero e che si sia conservata al momento di venire alla luce.

Ci sono solo indicazioni molto scarse sulla decorso dell'appren­dimento assimilato in utero, ma sembra che, dopo sette mesi e addi­rittura dopo ventuno, la preferenza olfattiva sia ancora riscontra­bile (Delaunay e altri 2004). Comunque sia, a noi interessa il fatto che il cervello del bambino sia già molto presto aperto ai condizio­namenti sensoriali: ne deriva che le condizioni dell'alimentazione nei primissimi anni di vita, essenziali per la sopravvivenza, sono anche momenti fondamentali per creare degli apprendimenti, per associare cioè le caratteristiche olfattive e gustative agli effetti benefici della sazietà.

Uno studio di Haller, Rummel e collaboratori (1999), per quan­to basato non sull'esperienza intrauterina ma sul periodo che segue la nascita, mostra che i precoci apprendimenti legati ali' appetito pos­sono lasciare tracce molto durature. Durante una festa svoltasi a Francoforte, gli autori dello studio hanno invitato soggetti di ambo i sessi, dai dodici ai cinquantanove anni, a riempire un questiona­rio sulle loro abitudini e preferenze alimentari. Dopo di che i par­tecipanti hanno dovuto assaggiare due tipi di ketchup e indicare il loro preferito. I due prodotti erano identici, a parte una singola caratteristica: uno dei due era aromatizzato alla vaniglia con una concentrazione appena percepibile. Più della metà dei partecipan­ti hanno preferito il ketchup normale al quello aromatizzato (62 per cento contro 38 per cento).

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Ma non è questo il dato importante. Nel precedente questionario era stata inserita, con discrezione, la domanda: da bambino è stato allattato al seno o con il biberon? In Germania, per molti anni, i pro­dotti alternativi al latte materno sono stati aromatizzati alla vani­glia, poi quest'abitudine è cessata. Considerando le preferenze per i ketchup in relazione al modo con cui i partecipanti erano stati ali­mentati nella loro prima infanzia, è emerso che tra coloro che ave­vano preferito la versione aromatizzata, i soggetti allattati con il biberon, e quindi entrati precocemente in contatto con l'aroma alla vaniglia, erano due volte più numerosi di quelli allattati al seno, pri­vi di quell'esperienza nei primissimi mesi di vita. Cosl la precoce esposizione alla vaniglia può essere ritenuta la causa della maggiore attrazione esercitata dal ketchup aromatizzato sui soggetti allattati con il biberon molti anni prima.

Uno studio più recente, realizzato negli Stati Uniti (Mennella e Beauchamp 2002), porta dati simili. Gli autori hanno sfruttato le marcate differenze aromatiche nei tre tipi di alimentazione per neonati presenti in commercio - latte artificiale, latte di soia e idrolizzato di proteine - per individuare gli effetti a lungo ter­mine delle primissime esperienze alimentari. Rispetto a diverse bevande nutrienti, bambini di quattro-cinque anni mostrano, di fatto, preferenze riconducibili al tipo di alimentazione con cui sono stati nutriti parecchi anni prima. Cosl, i bambini nutriti con l'idrolizzato di proteine tendono a tollerare meglio i succhi di frutta acidi, mentre quelli alimentati con il latte di soia hanno una predilezione per il succo di mela dal gusto amaro. Le madri riferiscono che i bambini allevati a idrolizzato o soia hanno più probabilità di apprezzare successivamente i broccoli rispetto a quelli allattati.

Finché il bambino si nutre del latte materno, gli indizi sensoria­li percepiti hanno come principale funzione quella di orientarlo correttamente verso la fonte di quel latte. Il rischio di consumare un cibo pericoloso non è ancora presente. La situazione cambia dopo lo svezzamento, quando l'alimentazione si diversifica. Gli indizi sensoriali non hanno più solo la funzione di orientare l'or­ganismo verso il cibo, ma anche quella di consentire la distinzione tra alimenti sani e nutrienti e alimenti provvisti di scarso apporto nutritivo o addirittura pericolosi. A questa necessaria distinzione

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si aggiunge una scelta preferenziale che implica una predilezione per alcuni cibi.

Come si configura la sensibilità del bambino e come cambiano le sue preferenze alimentari

Le preferenze alimentari potrebbero quindi avere le loro radici in esperienze precocissime, conservandosi per molto tempo. È arri­vato il momento di saperne di più su quello che percepiscono i bambini, sulle loro preferenze e il modo in cui cambiano.

Innanzitutto: i bambini hanno le stesse percezioni degli adulti? A dire il vero, è difficile rispondere con certezza, poiché, per ragio­ni metodologiche, la sensibilità dei bambini più piccoli è molto spesso inferita dalla loro tendenza a mostrare una determinata pre­ferenza. Infatti, per sapere se percepiscono uno stimolo o i suoi cambiamenti, non è consigliabile rivolger loro una domanda diretta. Conviene invece metterli in grado di fornire indirettamente la risposta, per esempio con una scelta comportamentale, ma certo la procedura rischia di trasformarsi in un circolo vizioso.

Sappiamo quindi che i bambini tra uno e nove mesi sono capaci di rilevare il dolce, il salato e l'acido, ma in concentrazioni dalle due alle tre volte superiori rispetto alla soglia di percezione degli adulti (Osepian 1958). Questa condizione perdura fino agli otto anni circa, quando la differenza adulto-bambino si fa meno sensi­bile nel caso delle femmine, mentre perdura per i maschi, specie per quanto riguarda il gusto della caffeina. Come quella degli adul­ti, la sensibilità dei bambini (Mennella e altri 2005) al sapore ama­ro del propiltiuracile (PROP) è soggetta a variazioni che riguarda­no il gene del recettore gustativo TAS2R38, scoperto da poco. La sensibilità differenziale dei bambini, ossia la loro sensibilità al cam­biamento di intensità dei sapori, ha uno sviluppo abbastanza simi­le. Mentre alcuni adulti distinguono una concentrazione di 100 g di saccarosio a litro rispetto a una di 110 g, bisogna salire fino a 130 g perché un bambino prima dei dieci anni percepisca la diffe­renza. La minor sensibilità gustativa dei bambini potrebbe essere legata a una certa immaturità del loro apparato sensoriale, come ad esempio l'organizzazione ancora incompleta della lingua. Tuttavia

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è difficile scartare completamente l'influenza di fattori di tipo co­gnitivo, poiché, per quante precauzioni si prendano allo scopo di diminuirne l'impatto, è praticamente impossibile eliminarli del tut­to. Va anche rilevato che, quando i test riguardano stimoli com­plessi come quelli provenienti dalle bevande, l'attenzione dei più giovani risulta attratta dal colore, spesso utilizzato per identifica­re le bevande, più che dagli aromi e dai sapori.

Quanto alla sensibilità olfattiva, essa appare, a seconda degli stu­di, simile o inferiore a quella degli adulti, ma questo dipende mol­to probabilmente dalla natura degli odoranti e senza dubbio dal metodo di misurazione (Laing 2003), dal momento che autori diversi riscontrano nei bambini tra gli otto e i quattordici anni una capacità di percepire il butanolo pari a quella degli adulti (Cain e altri 1995), mentre altri (Koelega 1994) trovano che a nove anni la loro soglia di percezione sia più alta.

Ma vediamo adesso direttamente le tipologie di preferenze ali­mentari. Cosa mangiano più volentieri i bambini? I dati più nume­rosi sono stati raccolti negli Stati Uniti. Gli alunni dei licei ameri­cani - in 50 ooo sono stati interrogati negli anni sessanta -preferiscono i piatti ricchi di proteine e i cibi dolci. Anche le pata­tine fritte <french fried potatoes) sono in buona posizione. Invece, gli ortaggi, e specialmente quelli verdi, hanno quotazioni molto basse. Il rifiuto più netto riguarda, cosa che non ci stupisce affat­to, le rape, le melanzane, i cavoli e le barbabietole.

I giovani francesi, bambini e adolescenti dei dintorni di Parigi (Fischler e Chiva 1986), mettono al primo posto tra i loro cibi pre­feriti, con un risultato attorno all'8o per cento, le ciliege, le frago­le e i lamponi, poi il cioccolato, le patatine fritte, il gelato, il pollo, lo yogurt, la pasta ... La carne rossa, tra il riso e le patate, è amata ancora da circa il 70 per cento dei bambini, mentre i piselli e il cetriolo stanno vicino al latte freddo, verso il 50 per cento. La «panna del latte» ottiene il risultato peggiore, poi le cervella, le oli­ve nere, il pepe, l'aglio e la cipolla. La verdura non gode di fama migliore rispetto ai giovani nordamericani: il sedano, i pomodori cotti, gli spinaci, il cavolfiore e il cavolo sono rifiutati dal 15 al 20 per cento dei bambini. Il grasso della carne e del prosciutto viene rifiutato cosi spesso che gli autori dell'inchiesta si chiedono se non debba essere classificato tra i non-alimenti.

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Insieme al genere, l'età rappresenta una variabile importante per le diverse scelte. Alcuni cibi vengono accettati meglio man mano che i bambini crescono. Così succede per esempio con i prodotti per il condimento (aceto, senape, aglio, cipolla, pepe), per i quali le risposte dei più giovani sono nettamente diverse da quelle dei più grandi, anche se si possono trovare bambini golosi di cetriolini sottaceto. Da un punto di vista generale, le scelte più radicali sono quelle dei bambini tra i quattro e i sette anni.

È ancora molto difficile separare i vari fattori che determinano le preferenze dei bambini. Alcune di esse possono essere molto pre­coci, come già abbiamo visto. Altre sono determinate dal gruppo dei pari, dagli altri bambini. Le abitudini alimentari degli adulti offrono a loro volta dei modelli ai quali i bambini «più grandi» non sono insensibili. Così, l'accettazione dei condimenti nei ragazzi può essere determinata dal tentativo di apparire adulti; le ragazze potrebbero essere meno sensibili a questo fattore o seguire altri modelli.

Una caratteristica delle preferenze alimentari dei bambini, che non necessariamente emerge dalle inchieste, è la loro relativa pla­sticità. Esperimenti assodati (Birch e altri 1990) consentono di mettere in luce il fenomeno e di controllarne i meccanismi. Ad alcuni bambini sono state offerte per merenda, durante varie set­timane, due bevande con diverso sentore: una era al gusto di cioc­colato all'arancio, l'altra al gusto chewing-gum. Le due bevande, dal sapore insolito, sono state entrambe ben accettate. Esse tutta­via avevano un contenuto di glucidi, e quindi un valore energetico, molto diverso: una conteneva 3 kcal a bicchiere, l'altra 155· I bam­bini sono stati suddivisi in due gruppi. Per un gruppo, la bevanda al gusto di cioccolato all'arancia aveva un contenuto calorico più basso, mentre quella al gusto di chewing-gum un contenuto calori­co più alto. Per l'altro gruppo sentore e contenuto calorico erano invertiti. Dopo alcune settimane durante le quali ai bambini furo­no date separatamente le due bevande, ci si rese conto che essi ave­vano sviluppato una preferenza per quella dal contenuto calorico più alto, qualsiasi fosse il suo sentore.

In un esperimento simile (Johnson e altri 1991) bambini da due a cinque anni hanno ricevuto degli yogurt variamente arricchiti in lipidi: lo yogurt più ricco ha rapidamente conquistato il primo

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posto nelle preferenze dei piccoli consumatori. In quest'esperi­mento, come nel precedente, i bambini hanno realizzato un ap­prendimento associativo, che ha collegato il gusto dell'alimento al suo valore nutritivo.

Preferenze spontanee basate sulle proprietà sensoriali possono essere modificate da un'altra forma di apprendimento, costituita dall'abituazione tramite semplice esposizione. Cosl bambini che scelgono spontaneamente la versione dolce di un nuovo alimento (tofu), offerto loro in forma dolce, salata o neutra, possono arriva­re a preferirne la forma salata, se messi in condizione di abituarsi in modo appropriato con quella tipologia. In questo caso la sola abi­tuazione ha generato la preferenza alimentare.

La formazione delle preferenze alimentari è stata studiata su modelli animali, molto spesso sui topi. Questi studi di laboratorio presentano alcune somiglianze con esperimenti comportamentali realizzati sugli esseri umani. Hanno il vantaggio di permettere un accesso più diretto alle spiegazioni causali in termini biologici, quando questo tipo di analisi risulta pertinente. Esamineremo innanzitutto tipologie «estreme» di preferenza, fisiologicamente determinate, prodotte da deficit evidenti.

Quando i deficit orientano le preferenze alimentari

Ci sono due modi di concepire l'instaurarsi di una preferenza ali­mentare: in modo positivo e in modo negativo. In positivo, se pre­ferenza significa attrazione per un cibo il cui consumo si è rivelato benefico nel corso di esperienze alimentari precedenti. In negativo, se preferenza significa scegliere un cibo perché non provoca la stes­sa ripugnanza di un altro la cui ingestione precedente ha avuto con­seguenze nefaste. Tuttavia, selezione e rifiuto non sono simmetrici. Rifiutare occasionalmente un cibo sano e nutriente è meno perico­loso di dire di sl una volta sola a un cibo velenoso. Potremmo quin­di concludere che i cibi siano selezionati in qualche modo per difet­to, nel senso che risulterebbero accettabili e quindi preferiti quei cibi che l'individuo non ha mai appreso a rifiutare. In realtà è stato dimo­strato che i due processi coesistono, anche se gli apprendimenti appe­titivi sono stati meno studiati rispetto a quelli avversivi.

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Il primo esempio noto di preferenza alimentare generata da un deficit è stato oggetto di numerosi studi a partire dalla sua scoper­ta ad opera del fisiologo Curt Richter negli anni trenta. Si tratta della preferenza selettiva innata per il sale, o natriofilia, mostrata dagli animali privati di cloruro di sodio (Richter 1936). La natrio­filia ha come agenti due ormoni, l'aldosterone e l'angiotensina II. Richter aveva osservato che i topi sottoposti ad ablazione delle ghiandole surrenali (produttrici di aldosterone) erano vittime di una perdita consistente di sodio, espulso con le urine, e morivano nel giro di qualche giorno. Sopravvivevano solo se veniva dato loro accesso a fonti di sale di cui si mostravano allora molto golosi.

Mentre la preferenza per il cloruro di sodio si presenta come risposta innata alla privazione di sale, in quanto non presuppone nessun apprendimento, un altro tipo di preferenza, noto da molto tempo (Harris e altri 1933), chiama invece in causa un apprendi­mento: si tratta del desiderio specifico per una vitamina del grup­po B, la tiamina. In topi in cui il deficit viene indotto tramite una dieta ipovitaminica, la preferenza alimentare emerge quando viene loro offerta la scelta tra due bevande, una contenente la vitamina e l'altra no. I topi scelgono la bevanda ricca di tiamina sulla base degli effetti benefici del suo consumo sull'organismo. Si tratta pro­prio di un apprendimento, dal momento che gli animali non sono in grado di rilevare la vitamina in sé; la individuano attraverso il gusto della bevanda che la contiene e il gusto viene progressiva­mente associato agli effetti positivi dell'assimilazione della vitami­na. Tuttavia, è sempre possibile che i topi scelgano la bevanda vita­minica per difetto, a causa di un'avversione per il cibo che ne è privo. In realtà sembra proprio che i due meccanismi - evitamen­to dei cibi deficitari e preferenza effettiva per il cibo vitaminico -agiscano insieme. Lo stesso succede per i deficit di certi aminoaci­di essenziali, quelli che I' organismo non sintetizza e che devono essere procurati attraverso il cibo. L'instaurarsi di preferenze posi­tive per gli alimenti arricchiti di aminoacidi è ben attestata.

Apprendimenti appetitivi

Nel corso degli anni sessanta, le ricerche sull'apprendimento ali­mentare erano rivolte principalmente allo studio delle avversioni

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condizionate, stimolato dalle scoperte di Garcia e collaboratori, di cui parleremo nel prossimo paragrafo. L'idea che ci fossero anche preferenze alimentari condizionate si basava sull'esame dei deficit alimentari, che abbiamo appena ricordato. Si aggiungevano poi del­le osservazioni sul formarsi di preferenze per il sapore di alimenti consumati durante il periodo di convalescenza successivo a un'in­tossicazione. Il regime alimentare viene allora associato alla sensa­zione di benessere che accompagna la guarigione e viene quindi preferito. Bisogna però aspettare gli anni settanta per accertare l'e­sistenza di apprendimenti positivi basati sul valore nutritivo degli alimenti.

Lo studio psicologico delle preferenze alimentari acquisite2 si fonda sull'osservazione di topi addestrati a consumare cibi dai diversi contenuti energetici, più o meno nutrienti. Questi cibi sono caratterizzati da fragranze particolari. Durante l'addestramento, i due tipi di cibo sono somministrati in fasi separate, in modo tale che le conseguenze dell'ingestione possano essere inequivocabil­mente associate al gusto dell'alimento. Al momento di verificare l'apprendimento, vengono offerti due cibi a scelta. Uno è caratte­rizzato dal sentore associato a un contenuto energetico ricco, l'al­tro da quello associato a un contenuto più povero. La differenza autentica però è solo quella sensoriale, perché per il test, infatti, vengono preparati cibi dall'identico apporto nutritivo: entrambi sono formati dallo stesso miscuglio di alimenti più o meno energe­tici. Il risultato principale è che, durante il test, i topi consumano preferibilmente il cibo il cui sentore era stato associato, durante l'addestramento, all'alimento più ricco. I topi hanno quindi svilup­pato una preferenza proprio per quel sentore.

Il protocollo sperimentale comporta numerose varianti, di cui una è particolarmente efficace: consiste nel dissociare quanto inge­rito per via orale da quanto effettivamente arriva al tubo digeren­te. L'animale viene dotato di una cannula esofagea attraverso cui i cibi fuoriescono man mano che vengono ingeriti. Il meccanismo consente di confrontare gli effetti dell'alimentazione autentica con quelli dell'alimentazione simulata. Previa apposita operazione e

2 Un contributo importante allo studio delle preferenze acquisite è stato fornito dall'équipe di Anthony Sclafani negli Stati Uniti (Sclafani i995).

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l'innesto di tubi adeguati, i topi ingeriscono un cibo, ma in realtà all'intestino o allo stomaco ne arriva un altro. Il condizionamento cosl acquisito è forte e duraturo. La preferenza per il sentore si mantiene per diverse settimane, anche se il nutrimento ricco non penetra più nello stomaco.

Questo sistema permette anche di operare una dissociazione tem­porale. Se l'arrivo del cibo nello stomaco viene ritardato rispetto all'inizio dell'assunzione orale, il condizionamento rimane comun­que possibile. Di fatto, nel corso della normale alimentazione, tra la percezione sensoriale cieli' alimento nel cavo orale e le conse­guenze interne della sua ingestione passa un lasso di tempo più o meno lungo. Invece, in caso lordine venga rovesciato, prima lo sto­maco, poi la bocca, la successione risulta efficace solo se il lasso di tempo è inferiore ad alcuni minuti. Il fatto che l'apprendimento richieda questo scarto temporale dipende dal percorso naturale seguito dagli alimenti.

Per associare il sapore del cibo e le conseguenze della sua inge­stione, il cervello deve ricevere non solo le informazioni sensoria­li, ma anche altre informazioni sul contenuto ingerito e le sue pri­me trasformazioni. Quali segnali interni derivati dall'apporto nutritivo nel tubo digerente condizionano le scelte preferenziali? Di certo vengono chiamati in causa i recettori di cui abbiamo par­lato nel capitolo 8, poiché la sezione del ramo del nervo vago che innerva il tubo digerente e trasmette al cervello le informazioni sul proprio stato sopprime il condizionamento, quando i cibi vengono introdotti direttamente nello stomaco. Tuttavia, il condiziona­mento si verifica anche quando il nutrimento viene instradato direttamente oltre lo stomaco, nel duodeno. Non tutti i recettori si trovano quindi nello stomaco. Anche il fegato è stato preso in con­siderazione, dal momento che introdurre il cibo attraverso la vena porta epatica risulta più efficace che introdurlo attraverso altre vene.

Altra domanda: su quali caratteristiche dei cibi si basa il condi­zionamento? Le sostanze forniscono forse «segnali energetici», comuni a numerosi alimenti di diversa natura chimica, o la loro intensità viene rilevata singolarmente? La prima ipotesi - e questo è già un argomento contro - non spiega come gli animali siano in grado di distinguere tra diversi tipi di nutrimento, dando origine a preferenze selettive. Però lo fanno. I topi possono imparare ad

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associare un sentore determinato all'immissione di glucidi nello stomaco e un altro all'immissione di proteina. Se vengono loro date proteine a inizio pasto, scelgono poi il sentore collegato ai glucidi per concludere quel pasto; al contrario, concludono con un cibo caratterizzato dal sentore «proteico» se la portata iniziale era glu­cidica. Poiché il tubo digerente è provvisto di recettori in abbon­danza, si può pensare che l'apprendimento delle preferenze ali­mentari implichi diversi tipi di segnali interni, alcuni caratteristici dei vari alimenti, altri semplicemente sensibili al loro contenuto energetico.

Esperimenti recenti (Tracy e altri 2004) tendono a provare che i segnali raccolti dal tubo digerente possono essere impiegati per determinare il tipo di cibo ingerito. Gli autori di questi esperimenti hanno combinato due metodi: quello di Anthony Sclafani per stu­diare le preferenze alimentari condizionate e quello di J ohn Gar­cia, di cui parleremo presto, per studiare le avversioni condiziona­te. Sono riusciti a dimostrare che topi, a cui era stata immessa direttamente nello stomaco una soluzione di glucidi (maltodestri­ne) o di lipidi (olio di mais), e che erano poi stati fatti ammalare tra­mite iniezione di cloruro di litio, mostravano un'avversione evi­dente per il cibo associato ai malesseri, quando questo veniva su~cessivamente presentato loro per la prima volta tramite la con­sueta via orale. Mai percepito prima per via olfattiva o gustativa, l'alimento veniva comunque «riconosciuto». L'articolo in cui ven­gono descritti questi esperimenti si intitola Il tratto gastrointestina­le «assaggia» i cibi.

Negli esperimenti che abbiamo passato in rassegna, le preferen­ze alimentari avevano la loro origine in processi fisiologici. Esisto­no però anche altri meccanismi, grazie ai quali si instaurano prefe­renze di natura sociale. Per gli esseri umani sono molto importanti, ma possono essere evidenziati anche negli animali. I topi possono sviluppare preferenze alimentari durante le interazioni con i con­simili (Galef e Wigmore 1983). Cosl gli esemplari più giovani pre­feriscono il cibo di cui si nutre la madre. Questa preferenza si fon­da in parte sugli aromi trasmessi dal latte materno, come hanno mostrato Le Magnen e Tallon (1968), somministrando alle madri iniezioni quotidiane di citrale. Gli esemplari più giovani consuma­no di più se un adulto si trova vicino al recipiente da cui mangiano,

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anche se l'adulto è anestetizzato. Le interazioni sociali possono influenzare le successive preferenze alimentari dei topi. Quando si permette loro di scegliere tra due nuove possibilità di nutrimento, dal diverso odore, i topi non addestrati preferiscono quello appe­na consumato da un congenere con cui si sono trovati a interagire in precedenza, in assenza di cibo (Galef e Wigmore 1983). La pre­ferenza alimentare socialmente indotta non è di breve durata; può persistere per diverse settimane.

Come evitare l'avvelenamento

Passiamo adesso ai meccanismi dell'avversione e del rifiuto ali­mentari. La nostra analisi si rifà agli studi condotti da J ohn Garcia e dai suoi collaboratori negli anni sessanta (Garcia e altri 1966 e 1974). L'apprendimento avversivo, chiaramente un modo per difendersi dai rischi di avvelenamento, deriva essenzialmente dal­l'associazione tra le caratteristiche sensoriali di un alimento consu­mato e le conseguenze negative della sua ingestione. Quest'appren­dimento o condizionamento ha caratteristiche molto particolari, che lo differenziano da un altro tipo di condizionamento, quello pavlo­viano. Basta infatti un solo tentativo perché il condizionamento sia efficace, in altre parole basta un'unica associazione tra lo stimolo detto condizionale, le proprietà sensoriali dell'alimento, e lo stimo­lo detto incondizionale, i dolori di stomaco e le nausee sintomo di un principio di intossicazione. Inoltre, questo condizionamento ammette un ampio intervallo di tempo tra lo stimolo condizionale e quello incondizionale. Infine dura molto a lungo.

Negli esperimenti realizzati con i topi veniva loro offerta una soluzione di saccarina invece del!' acqua pura che bevevano nor­malmente. Nel topo, il primo contatto con un cibo o una bevanda sconosciuti scatena una reazione neofobica. L'animale si mostra prudente, anche se la sostanza si rivela di fatto palatabile. Qual­che minuto o decina di minuti dopo che avevano consumato un po' della bevanda, ai topi di Garcia veniva iniettata una sostanza (ad esempio l'apomorfina) che li faceva ammalare. Gli animali non ricollegavano il loro malessere alla causa autentica, l'iniezione, né ad altre eventuali proprietà dell'acqua, come il colore, né alle carat-

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teristiche dell'ambiente. Li attribuivano al sapore della mistura di acqua e saccarina e non accettavano assolutamente di ripetere la sfortunata esperienza. Avevano sviluppato un'avversione alimen­tare condizionata verso l'acqua mista a saccarina.

La peculiarità di questo tipo di apprendimento sta proprio nel lungo intervallo di tempo, a volte persino di alcune ore, che può separare la percezione dei segnali sensoriali provenienti dalla sostanza consumata e l'inizio dei dolori gastrointestinali. Per spie­garlo, bisogna presupporre che il cervello, ogni qual volta l'organi­smo mangia o beve, memorizzi i segnali sensoriali ricevuti durante il pasto, al fine di poterli eventualmente confrontare con potenziali disturbi della sfera digestiva. Come ovvio, i circuiti neurali respon­sabili di queste operazioni agiscono a livello assolutamente incon­scio. Il capitolo ro, del resto, ci ha già abituati all'idea che I' azio­ne dei segnali sensoriali si traduca essenzialmente in attivazione delle memorie.

L'indagine relativa all'area cerebrale in cui l'informazione sareb­be provvisoriamente immagazzinata in attesa delle conseguenze del pasto si concentra soprattutto sulla regione laterale dell'ipotalamo (Touzani e Sclafani 2002). Dopo una lesione di quest'area, infatti, l'apprendimento avversivo fallisce se l'intervallo di tempo che separa la percezione dell'alimento dalle conseguenze dell'ingestio­ne è troppo lungo; al contrario l'avversione viene assimilata se l'in­tervallo è breve (inferiore ai trenta minuti). La stessa regione del­l'ipotalamo sembra svolgere un ruolo analogo nel mantenere il ricordo dei sapori in caso di condizionamento positivo, appetitivo, con un intervallo più lungo.

Non tutti gli stimoli provenienti dai cibi risultano egualmente efficaci nel determinare un apprendimento di tipo avversivo. Si tratta innanzitutto di una proprietà tipica del gusto. Tuttavia, anche segnali di altro genere, in particolare gli odori, possono rien­trare nel processo di condizionamento se associati agli stimoli gustativi. Se nell'esperimento che abbiamo descritto sopra la solu­zione di saccarina fosse stata aromatizzata, anche il suo odore avrebbe generato repulsione, provocando una forma di rigetto ver­so quel profumo, anche in assenza del sapore di saccarina. Si trat­ta del cosiddetto condizionamento agli odori. D'altronde, però, non tutti i dolori successivi a un'assunzione alimentare inducono

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di necessità un condizionamento avversivo. Un dolore fisico di ori­gine cutanea o muscolare non risulterà condizionante. La soffe­renza deve essere di origine enterocettiva, di tipo viscerale.

I segnali corrispondenti ai dolori viscerali sono rilevati e tra­smessi dalle fibre nervose, come quelle del nervo vago che inner­vano i visceri e raggiungono alcuni centri del tronco cerebrale, spe­cialmente il nucleo del fascicolo solitario. C'è anche da notare come sostanze tossiche che passano nella circolazione sanguigna possano essere rilevate dai neuroni di una certa regione di quello stesso tronco cerebrale, l'area postrema. La distruzione di quest'a­rea fa sl che i topi che presentano la lesione si comportino come gli animali di controllo a cui viene somministrata un'iniezione inof­fensiva di soluzione fisiologica: non mostrano l'apprendimento avversivo.

L'evoluzione ha quindi elaborato un metodo particolarmente efficace per dissuadere l'organismo dall'ingerire sostanze pericolo­se. Negli esseri umani questo sistema si manifesta durevolmente nel disgusto e nella nausea provocati dai cibi consumati prima di un'in­digestione o di un principio di intossicazione alimentare. Non è però sicuro che un apprendimento di questo tipo possa sempre spie­gare la ripugnanza ispirata da certi cibi: non tutti gli alimenti che non ci piacciono ci disgustano. È anche possibile che siano attivi apprendimenti meno violenti di quello descritto, senza che I' orga­nismo all'interno del quale si svolge il processo ne sia consapevole, come succede appunto con gli apprendimenti positivi, di cui abbia­mo parlato sopra, che determinano una preferenza alimentare.

Paul Rozin e i suoi collaboratori hanno dimostrato che il rifiuto per certi tipi di alimenti si basa, a seconda dei vari casi, su quattro categorie psicologiche diverse. Il «gusto cattivo» è basato sulle pro­prietà sensoriali, prima di tutte il sapore. La categoria del «perico­lo» si basa invece sulla percezione di un rischio per la salute. Il «disgusto» rappresenta una forma di avversione emotivamente più carica rispetto alle precedenti. Infine vi è un'ultima categoria, rap­presentata dal rifiuto di ingerire sostanze prive delle qualità speci­fiche degli alimenti e inadatte quindi a essere consumate.

Il disgusto ha proprietà peculiari (Rozin e altri 1993): non è ispi­rato solo da sostanze direttamente percepite tramite i sensi, ma

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anche dal loro semplice ricordo. Inoltre le sostanze che provocano disgusto possiedono l'ulteriore caratteristica di essere contaminan­ti, inducono cioè a rifiutare un cibo in cui ve ne sia anche solo qual­che traccia o che sia entrato in contatto con esse. Non è necessa­rio che l'individuo abbia sviluppato un condizionamento avversivo dovuto a una qualche esperienza alimentare sfortunata per prova­re disgusto verso gli escrementi e, nella nostra società, verso gli insetti e i vermi. Il solo pensiero di consumare un cibo inquinato da questi «agenti contaminanti» è sufficiente per scatenare una violenta emozione. E il disgusto appartiene a quell'insieme di emo­zioni ritenute fondamentali. Per alcune forme di disgusto esiste un'evidente influenza culturale, ma alcune forme sono condivise più largamente di altre; la ripulsa verso gli escrementi sembra esse­re generalizzata.

Com'è stato osservato, nei bambini tra i tre e i dodici anni non tutte le categorie del rifiuto sono presenti sin da subito (Fallon e altri 1984, citato in Rozin 1998). Appaiono invece progressiva­mente. Il rifiuto dei cibi con un «gusto cattivo» si manifesta per primo. Viene poi il rifiuto motivato dal pericolo. I più giovani sem­brano inoltre pensare che una sostanza con un gusto spiacevole non possa far loro bene. Nonostante il rifiuto delle sostanze che ispira­no disgusto negli adulti e nei bambini più grandi sia effettivamen­te presente anche presso i bambini più piccoli, il timore della con­taminazione tramite tracce o contatto è invece assente. Basta eliminare la contaminazione: se questa non è più visibile, il cibo ridiventa accettabile.

A partire da una predisposizione genetica di fondo, su cui si svi­luppa l'esperienza alimentare e la conoscenza delle proprietà sen­soriali dei cibi, spesso strettamente connesse alla fisiologia della digestione e legate, nel bene e nel male, a una serie di condiziona­menti sociali, gli esseri umani si costruiscono un sistema di prefe­renze e di avversioni alimentari. Un sano equilibrio nutrizionale dipende in parte da questo sistema di scelte preferenziali e di rifiu­ti. Nel prossimo capitolo affronteremo il problema del fallimento di quest'equilibrio e delle sue cause.

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12.

Cos'è che non funziona?

Il fatto è che la fisiologia, da sola, non riesce a regolare le riserve di grasso di una popolazione che mangia troppo e non consuma abba­stanza. Indubbiamente perché la condizione alimentare, una condizio­ne di sovrabbondanza, è radicalmente nuova per la nostra specie, il cui bagaglio genetico è più adatto a combattere la penuria che a fronteg­giare l'abbondanza. E la ricerca fa fatica a identificare con certezza, tra i vari cibi, il vero colpevole.

Dove sta il problema?

Lungo il cammino che ci ha condotto dai sensi chimici alla carat­terizzazione affettiva dell'assunzione alimentare, passando dalla fisiologia del fabbisogno e della motivazione, abbiamo visto all'o­pera processi biologici e fisiologici finalizzati ad assicurare un buon equilibrio qualitativo e quantitativo tra il consumo di alimenti e il loro impiego da parte dell'organismo. Da buoni fisiologi, abbiamo avuto la tendenza naturale a esaltare la precisione e lefficacia dei numerosissimi meccanismi considerati fondanti per questo equili­brio. Dobbiamo però riconoscere di aver descritto un Homo sapiens ideale e di aver ignorato un'infinità di individui nel mondo che, all'inizio di questo terzo millennio, rappresentano altrettanti con­troesempi dell'efficacia della regolazione ponderale. Quasi un miliardo di esseri umani soffre ormai di sovrappeso, mentre tre­cento milioni sono addirittura obesi, se ci si basa sui criteri stan-

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darci. 1 Benché ripartita in modo diseguale sui vari continenti, e par­ticolarmente inquietante negli Stati Uniti, l'anomalia ponderale investe via via Paesi culturalmente molto diversi e impari quanto a reddito pro capite.

Il fisiologo sa bene che anche nei sistemi meglio regolati l'equi­librio può venir meno; si ha allora la malattia, e in questo caso è il medico a prendere in mano la situazione. Ma quando la regola ces­sa di essere rispettata da una fetta di popolazione che va da un ter­zo alla metà, come accade negli Stati Uniti e come sta per accade­re in Europa, la deviazione dalla norma perde il suo status di eccezione individuale e pone interrogativi di portata più vasta.

Dobbiamo quindi ripensare la normalità, riconoscerne un'evo­luzione storica, allargare i margini di variabilità? Dopotutto, gli esseri umani sono anche diventati più alti, l'altezza media non ha fatto che aumentare negli ultimi secoli, e non siamo in grado di sta­bilire con certezza da cosa dipende il fenomeno - dal cibo senza dubbio-, ma nessuno si sognerebbe mai di pensare a un'epidemia davanti a cui reagire. Potremmo mantenere lo stesso atteggiamen­to anche per il sovrappeso, se avesse un carattere isolato e conse­guenze esclusivamente estetiche. La società dovrebbe forse rive­dere i propri ideali di magrezza, privi di quell'universalità a cui fingiamo di credere, e smettere di colpevolizzare le persone gras­se. Questo vorrebbe dire però trascurare le patologie caratteristi­che associate ali' obesità: le malattie cardiovascolari, l'ipertensione, il diabete, alcuni tipi di cancro, con tutto il loro corredo di soffe­renza. Secondo alcune stime, l'obesità è responsabile di un nume­ro di morti che oscilla tra i 280 ooo e i 325 ooo all'anno nei soli Sta­ti Uniti. Per quanto siamo poco inclini a tracciare frontiere rigide tra il normale e il patologico, dobbiamo arrenderci all'evidenza: ci troviamo davanti a disregolazioni, a disfunzioni. Ci troviamo davanti a un cattivo funzionamento della regolazione che pensa­vamo di aver individuato nella nostra modellizzazione standard del consumatore e di un fallimento massiccio dell'adattamento umano alle condizioni di vita.

1 Il sistema di valutazione dell'obesità è basato sul valore dell'indice cli massa corporea (!MC; in inglese BMI, che sta per Body Mass Index), a sua volta calcolato come rapporto tra il peso in chili e il quadrato dell'altezza in metri. IMC tra r8 e 20: sottopeso; tra 20 e 24,9: normale; tra 25 e 29,9: sovrappeso; tra 30 e 40: obesità; più di 40: grande obesità.

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COS'È CHE NON FUNZIONA?

Cos'è quindi che non funziona o non funziona più? Non spen­diamo abbastanza energia? I nostri alimenti sono inadeguati? Non consumiamo abbastanza per ottenere i cibi o per resistere al freddo? Perché i meccanismi di sazietà non riescono più a segnalare a chi mangia di aver raggiunto un consumo alimentare adeguato al fab­bisogno? Perché alcuni rimangono magri, mentre molti altri ingras­sano? Il nostro intento non è quello di tracciare un resoconto com­pleto di tutte le possibili cause dell'epidemia di sovrappeso che preoccupa gli osservatori sanitari. Dal momento che siamo interes­sati al gusto, ci dedicheremo soprattutto a individuare la responsa­bilità dei messaggi sensoriali e dei piaceri che ne conseguono.

Come abbiamo già fatto intuire all'inizio di questo libro, pren­deremo in esame l'ipotesi che il cambiamento non riguardi la bio­logia umana. L'uomo non è diventato più goloso, né in poche deci­ne d'anni si è diffusa su tutto il pianeta una pericolosa mutazione genetica. A essere cambiate sono un insieme di condizioni che, direttamente o indirettamente, influenzano il rapporto delle per­sone con il cibo. Il dato più importante è rappresentato dalle nuo­ve condizioni di vita che hanno investito gran parte del pianeta, in modo così improvviso e radicale da andare oltre le risorse di rego­lazione e adattamento, spinte troppo spesso fino ai loro limiti. E queste risorse falliscono perché sono state elaborate per ottimizza­re la sopravvivenza in un ambiente caratterizzato da penuria, mol­to diverso da quello a noi familiare da qualche anno a questa par­te. Ma, prima di descrivere le nuove condizioni di vita che sfidano gli adattamenti nutrizionali, dobbiamo cercare di capire quali fos­sero quelle prevalenti in epoche remote, agli albori del processo di ominizzazione.

Come si nutrono i nostri cugini?

Se riteniamo che gli esseri umani siano attualmente vittime di un malfunzionamento del loro adattamento all'ambiente di vita, for­se ha senso ricostruire le condizioni in cui questo tipo di adatta­mento si è sviluppato. I suoi inizi non si collocano qualche centi­naio o migliaio di anni fa: bisogna risalire molto più indietro, addirittura prima della comparsa dell'antenato comune a esseri

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umani e ad alcune delle grandi scimmie. Pascal Picq e Laurent Lemire (2002) scrivono cosl: «Questi processi evolutivi ormai con­solidati da più di trenta milioni di anni ci riguardano direttamente ( ... ) Le nostre mani che manipolano i cibi, la nostra preferenza per alcuni di essi, che passa tanto dalla vista quanto dall'olfatto, la nostra postura seduta e il corredo di trentadue denti, insomma, le no­stre abitudini quando ci sediamo a tavola, sono vecchie trenta milioni di anni e oltre». Così, dato che non siamo in grado di cono­scere l'ambiente in cui dovettero vivere i nostri antenati diretti, sfruttiamo la possibilità di esaminare le abitudini alimentari delle specie che condividono parte dell'eredità umana, i primati di oggi.

Gli studi condotti sull'evoluzione del comportamento alimenta­re nei primati mostrano una grande varietà di comportamenti, diversificati quasi quanto l'insieme di quelli dei vari mammiferi (Hladik 2002; Hladik e Pasquet 1999, 2002). Gli alimenti vegeta­li predominano nella dieta di numerose specie. L'abbondanza di foglie e di germogli e il costo energetico abbastanza ridotto richie­sto dalla raccolta compensano lo scarso tenore calorico e, grazie a un tubo digerente voluminoso, i foglivori sfruttano efficacemente questo tipo di nutrimento poco concentrato. All'estremo opposto, i primati del gruppo dei faunivori si nutrono soprattutto di prede animali di piccole dimensioni. Un terzo gruppo, quello dei frugi­vori, è costituito dalle specie che si nutrono principalmente della polpa della frutta e di semi, alimenti energeticamente più ricchi ma che richiedono spostamenti maggiori, e la cui raccolta risulta di conseguenza più dispendiosa dal punto di vista energetico. Ma anche le prede animali fanno parte della loro dieta, e questo grup­po ha quindi caratteristiche simili a quelle degli onnivori. Un moti­vo della variabilità degli alimenti scelti risiede nella loro disponi­bilità. La stagione della frutta dura poco. La scimmia Presbytis dello Sri Lanka, studiata da Marcel Hladik, per lo più frugivora da mag­gio a luglio, si nutre soprattutto di foglie tra dicembre e gennaio.

Dobbiamo prendere attentamente in considerazione un fattore al centro di tutti gli approcci ecologici all'adattamento alimentare, e non solo a quello dei primati. La ricerca di cibo, la sua cattura o la sua raccolta, così come la trasformazione da parte dell'organi­smo, hanno un costo che non è affatto trascurabile rispetto al gua­dagno rappresentato dal consumo alimentare. Quando le prede

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COS'È CHE NON FUNZIONA?

sono rare o la frutta sparpagliata, il cacciatore e il raccoglitore tal­volta consumano nello spostamento una quantità di energia supe­riore rispetto a quella assimilata nella digestione del loro scarso bot­tino. Ci si aspetterebbe quindi che i cibi la cui acquisizione richiede un intenso consumo energetico, per esempio lunghi spo­stamenti, abbiano a loro volta un alto contenuto energetico, a me­no che non si tratti di nutrimenti qualitativamente molto impor­tanti. In effetti la nutrizione richiede qualcosa più delle calorie. Tempo ed energia vanno dedicati anche al soddisfacimento dei fab­bisogni qualitativi. Il comportamento dello scimpanzé, animale di dimensioni piuttosto grosse, che trascorre molto tempo alla ricer­ca di prede di piccole dimensioni come formiche e termiti, è stato interpretato proprio nella prospettiva della ricerca di aminoacidi non sintetizzati dall'organismo.

L'ecologia dei primati ci insegna che esistono anche adattamenti di origine sensoriale. Abbiamo visto a più riprese che gli esseri uma­ni mostrano una preferenza spontanea per gli zuccheri solubili come il fruttosio, il glucosio e il saccarosio, preferenza assente per ragio­ni genetiche2 nei gatti e negli altri felini. L'appetenza per gli zuc­cheri è condivisa da tutti i gruppi di primati. Presso questi ultimi, tuttavia, la soglia di sensibilità al dolce varia da una specie all'altra, il che fa pensare a un valore adattativo di questo tratto. In effetti è stata individuata una relazione tra la soglia di percezione di sacca­rosio e fruttosio e la massa corporea delle specie (Simmen e Hladik 1998). Le specie di grandi dimensioni percepiscono meglio le basse concentrazioni rispetto alle specie di piccole dimensioni. L'ipotesi allora è che l'abbassamento della soglia di percezione consenta di ampliare la gamma dei tipi di frutta utili, includendo anche quelli con scarso contenuto di zuccheri, uno stratagemma più propizio alle specie di grandi dimensioni e meno a quelle di dimensioni inferio­ri, che soddisfano più facilmente il proprio fabbisogno. L'uomo, pri­mate di dimensioni ragguardevoli, possiede infatti una buona sen­sibilità allo zucchero. Gli esseri umani sono quindi adeguatamente equipaggiati per consumare in quantitativi relativamente grandi cibi poco zuccherati. Le mele, ad esempio. Non è però così che si

2 Perdita del carattere funzionale di un gene del gusto dolce (Li e altri 2005). Vedi anche capitolo 5.

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comportano quando si procurano le barrette di cioccolato e altre porcherie dal distributore automatico più vicino.

Per situare dal punto di vista dell'alimentazione la specie umana rispetto agli altri primati, bisogna considerare la grande diversità di diete che gli esseri umani sono in grado di adottare, da quella qua­si esclusivamente carnivora degli Inuit a quella quasi esclusivamen­te vegetariana degli Indù. La nostra specie va ricollegata al gruppo dei frugivori-onnivori, che di fatto attua un'ampia gamma di regi­mi alimentari. Ne troviamo la conferma in una caratteristica anato­mica, la morfologia del tubo digerente. La misura della superficie delle mucose assorbenti di quest'organo, che varia in funzione del­la dimensione corporea, colloca gli esseri umani sulla stessa retta di regressione tipica dei primati e di altri mammiferi frugivori. È pro­prio questa morfologia dell'apparato digerente di tipo frugivoro a permettere alla specie umana di manifestare una grande flessibilità adattativa rispetto al tipo di nutrimento disponibile.

Alcuni studiosi hanno insistito in particolare sui vincoli energe­tici imposti dall' ominizzazione e dallo sviluppo del cervello. Que­st'organo, in attività perenne, consuma moltissima energia, poiché il suo funzionamento, rapportato al peso, ha un fabbisogno calori­co fino a nove volte superiore rispetto a quello di altre parti del cor­po. 3 Alcuni hanno anche ipotizzato che l'espansione del cervello avesse reso necessaria una riduzione delle dimensioni del tubo dige­rente, altro grande consumatore di calorie, di modo tale che gli organismi sarebbero stati costretti a orientare la propria dieta ver­so il consumo di cibi molto energetici, come i grassi e le proteine. Hladik e Pasquet sono comunque dubbiosi sul fatto che la morfo­logia dell'intestino umano si sia evoluta nella direzione di un regi­me alimentare carnivoro, dato che nelle loro misurazioni non rie­scono a trovare nessuna prova.

Il fatto di possedere un cervello voluminoso rispetto al corpo e la gran quantità di sostanze lipidiche richiesta dalla mielinizzazione del­le fibre nervose potrebbero stare alla base di una caratteristica pecu­liare dei neonati dell'essere umano, quella di possedere un sovrappiù di grassi assente invece negli altri mammiferi. È stato dimostrato che I' eccesso di grassi alla nascita favorisce la crescita del cervello nel cor-

3 I fabbisogni nutrzionali specifici del cervello umano sono esposti in dettaglio nell'opera di Jean-Marie Bmme (1990).

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COS'È CHE NON FUNZIONA?

so dei primi due anni, apportando la materia prima necessaria al pro­cesso di mielinizzazione. La mielina che forma una guaina attorno agli assoni di molti nervi è, di fatto, di natura lipidica.

E si parla di nuovo di geni

A prima vista, abbondanza e varietà di prodotti nutritivi dispo­nibili possono sembrare le condizioni più favorevoli per una specie. Ma il vantaggio esiste solo se quella specie adotta il comportamen­to di consumo alimentare adatto alla situazione. Può anche succe­dere, invece, che il vantaggio si trasformi in handicap, se il com­portamento rimane quello che risultava appropriato nelle situazioni di carenza. Quando l'energia spesa per nutrirsi diminuisce in modo consistente, è necessario che parallelamente si riduca anche la ten­denza al consumo alimentare, altrimenti il bilancio energetico diventa positivo e cominciano ad accumularsi riserve lipidiche. Un accumulo sul breve termine può essere ancora vantaggioso quando le condizioni ecologiche variano, in quantità e qualità energetica, a seconda delle fasi di approvvigionamento. Le riserve permette­ranno di compensare l'assenza di consumo alimentare nei periodi di vacche magre. Ma le cose vanno molto diversamente se vige una condizione di abbondanza prolungata.

Fabbisogno energetico ridotto e cibo in abbondanza sono con­dizioni nuove, abbastanza lontane da quelle per cui l'evoluzione ha preparato la nostra specie. E sia. Resta però da capire dove si loca­lizza il mancato funzionamento delle funzioni di regolazione pon­derale negli individui che soffrono di questa situazione. Per affron­tare quest'indagine dovremo informarci sui contributi offerti dalla genetica. Tutti sanno che alcuni rimangono magri, senza badare troppo alle proprie abitudini alimentari, mentre altri ingrassano nonostante un impegno costante per mantenere la linea. Non tut­te le buone forchette sono obese, mentre non tutti gli inappetenti sono magri. Chiaramente davanti al rischio di sovrappeso non sia­mo tutti uguali e la nostra eredità individuale ci predispone a rien­trare in una categoria piuttosto che nell'altra.

Che tutto ciò dipenda dall'eredità genetica è fuor di dubbio. Qual è l'entità della sua influenza rispetto a quella delle condizio-

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CAPITOLO DODICESIMO

nidi vita? Pierre Roubertoux (2004) ci farebbe senz'altro notare che si tratta di una domanda impropria, nella misura in cui ambiente e geni non contribuiscono in modo additivo al compor­tamento e alle sue conseguenze, ma interagiscono reciprocamente. Per stabilire l'ereditarietà dell'obesità, ossia la percentuale di variazione dell'indice di massa corporea (IMC) che può essere spiegata attraverso la trasmissione genetica, sono stati condotti alcuni studi. L'IMC di gemelli autentici è stato paragonato con quello di falsi gemelli, o ancora con l'indice di gemelli cresciuti separatamente. Questi studi hanno offerto il livello di ereditarietà più alto: i valori si collocano attorno al 70 per cento; studi nel­l'ambito di figli adottati hanno invece fornito valori nettamente più bassi, circa il 30 per cento. Lo scarto, come si vede, è consi­derevole. La stima più accreditata oscilla tra il 25 e il 40 per cen­to (Bouchard 1996), con un valore che lascia molto spazio agli effetti dell'ambiente.

Una volta stabilita la mappa genetica dell'obesità nell'uomo, è emerso che più di quaranta geni sono probabilmente collegati all' o­besità (Barsh e altri 2000). Più semplici degli studi sugli esseri uma­ni, gli esperimenti sui topi, anch'essi dotati di parecchi geni asso­ciati al sovrappeso, hanno consentito di scoprire che ognuno di questi geni comandava diversi caratteri e che la tendenza all' obe­sità era solo un tratto fenotipico tra altri. I dati di cui siamo a cono­scenza (vedi cap. 8) ci hanno abituato all'idea che il controllo del­l'assunzione alimentare, per non parlare degli stessi processi metabolici, si fonda su un numero vastissimo di molecole e di strut­ture coinvolte in molte altre funzioni oltre alla regolazione nutri­zionale. Non c'è quindi da stupirsi se la modifica di un gene non ostacola solo la sintesi di un neurotrasmettitore o di un tipo di recettore, o ancora di un enzima del metabolismo, ma immediata­mente si riflette anche su diversi processi, alcuni dei quali senza alcun rapporto con la nutrizione.

Gli studi genetici sui topi sono stati la base per l'individuazione di geni suscettibili di mutazioni in soggetti umani obesi. Così sono stati scoperti rari casi di mutazione del gene della leptina, e del gene del recettore di questo segnale di adiposità (vedi cap. 8). Pro­prio per la loro gravità, queste mutazioni sono molto poco diffuse e non spiegano affatto i casi di obesità, neanche quelli più gravi.

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Un'altra mutazione scoperta di recente è quella che riguarda la pro­duzione di un neuropeptide dell'ipotalamo, la pro-opiomelanocor­tina (POMC), sprigionata da uno dei gruppi di neuroni che gesti­scono l'effetto inibitore della leptina sull'assunzione alimentare. Analogamente alla mutazione del gene della leptina e del suo recet­tore, quella del gene della POMC è molto poco diffusa. Diversa­mente stanno invece le cose per le mutazioni di un recettore di neu­ropeptide, chiamato MC4R, riscontrabile in quasi il 5 per cento dei grandi obesi (IMC superiore a 40). MC4R è un recettore di mem­brana che riceve i segnali dei neuroni che sprigionano la POMC. Esistono tuttavia delle mutazioni dello stesso recettore che non determinano l'obesità di chi ne è portatore.

La lezione che si può ragionevolmente trarre da questo genere di studi è che la tipologia ponderale degli esseri umani dipende da numerosi geni, le cui competenze in certa misura si sovrappongo­no. In questo modo è possibile compensare l'eventuale mancato funzionamento di alcuni di essi. In una situazione di questo tipo, l'influenza dei fattori non genetici interviene a minimizzare o amplificare la traduzione del genoma in fenotipo, ossia la tipolo­gia ponderale dell'individuo. Allo stesso modo piccole differenze di adiposità tra due ceppi consanguinei di topi risultano amplifica­te da una dieta ricca di grassi.

Come affermano Greg Barsch e collaboratori (2000): «La suscet­tibilità all'obesità è ampiamente determinata dai fattori genetici, ma anche l'ambiente determina l'espressione del fenotipo». Oggi, di conseguenza, non si esclude che alcuni tratti fisiologici o com­portamentali apparentemente sfavorevoli alla sopravvivenza di un individuo in un certo ambiente si possano rivelare meno sfavore­voli, o forse anche vantaggiosi, in un altro. Perché allora non immaginare che, nel passato della nostra specie, la pressione della selezione naturale abbia tollerato la presenza di geni la cui presen­za portava l'organismo a immagazzinare riserve nutritive utili a superare periodi di carestia?

Dobbiamo allora considerare da questo punto di vista anche il fenomeno che prende il nome di resistenza alla leptina, per cui in molti obesi la leptina, segnale di adiposità, cessa di svolgere la sua funzione nell'inibire l'assunzione alimentare, pur essendo presen­te nell'organismo, anche in quantità consistenti? Esiste una con-

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dizione fisiologica in cui si osserva questa resistenza alla leptina, ed è la gestazione, proprio quando il corpo materno ha bisogno di accumulare riserve. I sistemi che normalmente reagiscono a que­sto segnale sembrano non essere più sensibili all'ormone, ma non sappiamo in che modo questo possa avvenire. Lo stesso vale per l'insulina, altro tipo di segnale, nei confronti della quale si regi­strano fenomeni di resistenza, come quelli riscontrati nel diabete di tipo 2, connotato da una forte concentrazione sanguigna di insulina.

La transizione nutrizionale

Nella storia dell'alimentazione umana sono state riconosciute diverse fasi (Popkin 2002; Scalbert 2003). Dopo il lunghissimo periodo di caccia e raccolta, si ebbe l'avvento dell'agricoltura, e con la crescita demografica arrivò anche il tempo delle carestie. Quest'era finl, per l'Europa, con la grande carestia che vessò l'Ir­landa poco più di centocinquant'anni anni fa. Con la rivoluzione industriale e l'aumento della produttività agricola nelle società industrializzate si ebbe poi un'epoca di minor penuria. Adesso invece ci troviamo immersi nell'età «delle malattie da civiltà» e della consapevolezza delle conseguenze che l'alimentazione ha sul­la nostra salute, l'età chiamata della transizione nutrizionale.

Si ritiene che due siano i fattori fondamentali nello sviluppo massiccio del!' obesità: l'accresciuta disponibilità di cibi ricchi in contenuto energetico e la riduzione dello sforzo fisico che gli indi­vidui devono compiere per ottenerli. Il primo fattore comprende l'aumento dell'apporto energetico nell'alimentazione, un cambia­mento notevole della suddivisione di quest'apporto tra lipidi, glu­cidi e proteine e la diversificazione dei cibi disponibili. Questa situazione deriva in larga parte dallo sviluppo dell'agricoltura e del trasporto delle derrate, nonché dall'espansione delle industrie agroalimentari che, non appena il livello di vita si alza, consento­no a un numero sempre maggiore di individui di avere a disposi­zione cibo ricco in contenuto energetico a un prezzo accessibile. Il secondo fattore ingloba i cambiamenti dei modelli di vita che com­portano una diminuzione del dispendio energetico: riduzione del

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lavoro fisico con la meccanizzazione, riduzione degli spostamenti a piedi, riduzione del tempo dedicato a preparare il cibo ...

Troppi zuccheri o troppi grassi nel nostro menu?

Dal momento che il consumo alimentare è basato su tre classi di macroalimenti - glucidi, proteine e lipidi - ci sarà utile sapere se una di queste classi ha particolari responsabilità nel sovrappeso. Cosa succede con i glucidi? Gli studi epidemiologici mostrano che il consumo preferenziale di glucidi è collegato alla magrezza più che all'obesità. Altri lavori, basati sulla misura dell'appetenza per solu­zioni dolci, non hanno trovato nessuna relazione sistematica tra la preferenza per il dolce e il peso corporeo, e questo sembrerebbe indicare che non si diventa obesi semplicemente perché si amano i dolci o si ha una sensibilità superiore al dolce. Al saccarosio, zuc­chero dalle proprietà edoniche particolarmente forti, è stato attri­buito un posto a parte tra i glucidi, in quanto il piacere che procura va al di là dei meccanismi di regolazione dell'assunzione alimentare normalmente innescati dagli altri glucidi. Mancano però prove spe­rimentali per attribuirgli con certezza questo particolare status (Anderson r995).

È però possibile che soggetti obesi e soggetti normoponderali siano diversi da un altro punto di vista, quello cioè della sensibi­lità ai segnali di un tipo particolare di sazietà detta sensibilità sen­soriale specifica (Rolls e altri 198r). Questo tipo di sazietà non comporta il rifiuto assoluto del consumo alimentare, ma si manife­sta più specificamente verso le caratteristiche sensoriali dei cibi appena consumati. La riduzione del valore edonico degli alimenti dopo il loro consumo, fenomeno chiamato alliestesia (Cabanac r971), ha cosl una componente specifica. Gli obesi sarebbero meno sen­sibili dei soggetti magri alla sazietà sensoriale specifica. Mentre in un soggetto normale il desiderio di mangiare un determinato cibo cessa dopo averne ingerita una certa quantità, un obeso prosegue l'ingestione di quell'alimento per un tempo più prolungato. Il volu­me medio di un pasto dei soggetti obesi potrebbe essere quindi maggiore di quello dei soggetti normoponderali, in quanto nei pri­mi il desiderio di mangiare viene meno più lentamente. C'è però un

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CAPITOLO DODICESIMO

punto su cui gli specialisti sono in disaccordo: se cioè la diminu­zione del desiderio di magiare si confonda o meno con la diminuzio­ne del piacere sensoriale (Mela e Rogers 1998).

Per quanto riguarda le proteine, esse non sembrano dare contri­buti consistenti al sovrappeso. È pur vero che la loro associazione con i grassi è particolarmente apprezzata dagli obesi maschi, men­tre nelle donne obese l'associzione preferita è quella di grassi e zuc­cheri. C'è poi da notare che la somministrazione di una dieta mol­to proteica a bambini piccoli può aumetare il rischio di obesità (Rolland-Cachera e altri 1995).

Se il pasto contiene molti lipidi, il consumatore è esposto a un rischio maggiore, rispetto a un pasto in cui i glucidi siano preva­lenti? Se il problema fosse solo il contenuto calorico, la risposta sarebbe chiara: dal momento che i lipidi hanno un contenuto ener­getico due volte maggiore dei glucidi, a parità di peso ingerito, il consumo di grassi porta più facilmente a un sovraccarico calorico rispetto a quello dei glucidi. Tuttavia, com'è facile intuire, non si tratta di un problema di semplice aritmetica. I meccanismi di con­trollo dell'assunzione alimentare possono attivarsi su una categoria di cibi più rigorosamente che su un'altra, con l'intermediazione dei processi di sazietà.

In molti Paesi lapporto di energia sotto forma di grassi è consi­derato eccessivo. Ad esempio, nel 1995, l'apporto medio per i ma­schi inglesi era di 102 gal giorno, ossia il 40,3 per cento dell'ener­gia totale. Ed era di 73,8 gal giorno per le donne, ossia il 40,4 per cento (Blundell e altri 1995). Ricordiamo qui che la percentuale consigliata è del 30 per cento. Alcune inchieste arrivano alla con­clusione di una maggiore frequenza dell'obesità tra i consumatori di cibi ricchi in lipidi piuttosto che fra i consumatori di cibi poveri, ma le possibilità di errore sono cosl numerose che è meglio non accet­tare conclusioni affrettate. Si può ad esempio far notare che negli Stati Uniti l'obesità è aumentata in modo massiccio nel corso degli ultimi trent'anni, mentre la percentuale dell'energia assorbita in forma di grassi non fa che diminuire dagli anni settanta.

Si discute anche molto se le diete ricche di lipidi portino a un ele­vato apporto di energia a causa di una particolare appetenza del con­sumatore per i lipidi - fenomeno detto di sovraconsumo attivo - o invece perché i lipidi sono energeticamente ricchi e ogni loro sin-

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gola caloria induce più difficilmente la sazietà nel corso del pasto, rispetto ai glucidi e, soprattutto, rispetto alle proteine - so­vraconsumo passivo. Questa iperfagia per alimenti ricchi in grassi ha conseguenze ponderali tanto più gravi in quanto le risposte fisiologiche all'ingestione di lipidi sembrano deboli rispetto alle caratteristiche sensoriali dei grassi stessi, che inducono molto effi­cacemente - anche se in modo non ben chiaro - al consumo ali­mentare. In effetti il tasso di ossidazione dei grassi non è molto le­gato alla quantità ingerita, quasi che l'organismo non vedesse come prioritaria l'esigenza di equilibrare utilizzo e consumo di questi macronutrimenti. La selezione del carburante metabolico è orien­tata soprattutto dalla necessità di mantenere l'equilibrio glucidico, data la limitata possibilità, quasi cento volte inferiore a quella regi­strata con i lipidi, di creare delle riserve.

Il controllo dell'appetito nei forti consumatori di grassi funzio­na in modo abbastanza diverso rispetto a quello dei consumatori più deboli, tanto da spingere alcuni (Cooling e Blundell 1998) a considerarli come due tipi diversi di consumatori. I consumatori forti assumono un quantitativo di cibo di peso costante, come se fossero sensibili solo alla distensione del proprio stomaco, e quin­di sovraconsumano passivamente; questo effetto è più lieve nei consumatori deboli, che assorbono invece una quantità di energia costante. I primi non sarebbero quindi in grado di distinguere tra alimenti ricchi di lipidi e alimenti più poveri, a causa di una sensi­bilità chimica carente verso i grassi, sensibilità invece presente nei consumatori deboli. Tuttavia, anche in presenza di una dieta ricca di lipidi, l'obesità non è un esito inevitabile.

Analogamente, non è scontato che le diete molto grasse siano la causa primaria della netta prevalenza di casi di sovrappeso tra i nostri contemporanei. Ad esempio, alcuni studi in cui soggetti sovrappeso sono stati irreggimentati in una dieta a bassa percentua­le di grassi hanno effettivamente evidenziato un calo di peso, come ci si poteva aspettare, ma di entità molto modesta. Nel corso di espe­rimenti di durata maggiore, dell'ordine di un anno, il contenuto di grasso corporeo diventa per larga parte indipendente dalla percen­tuale di grassi contenuta nella dieta, che può andare dal r8 al 40 per cento (Willet 1998). Riassumendo, quindi, sembra che il sovrappe­so e l'obesità dipendano soprattutto da un eccessivo apporto ener-

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getico rispetto al consumo; e non c'è quindi ragione per stigmatiz­zare i lipidi in quanto tali, almeno in relazione all'entità del peso.

Dal punto di vista delle malattie cardiovascolari, i lipidi godono di pessima fama, ma la pinguedine dei francesi può però beneficia­re del French paradox, di cui si è fatto un gran parlare nei giornali: i francesi hanno un tasso di mortalità per cause cardiovascolari net­tamente inferiore a quello degli americani, anche se consumano cibi globalmente più grassi e specificamente più ricchi in grassi saturi, e hanno una media di colesterolo più alta. Bisogna certo riconoscere che anche la media francese dell'IMC è leggermente più bassa di quella degli americani. Per spiegare questa felice anomalia sono sta­ti chiamati in causa almeno cinque fattori, tra cui il maggior consu­mo di vino in Francia. Un recente studio franco-americano (Rozin e altri 2003), molto semplice nel suo principio ispiratore, propone una nuova spiegazione. L'indagine ecologica di Paul Rozin e dei suoi colleghi arriva alla conclusione che le porzioni individuali di cibo offerte nei ristoranti, nei fast food e nei supermercati, fino ad arrivare alle dosi previste nei ricettari, negli Stati Uniti sono signi­ficativamente più consistenti rispetto a quelle francesi. Cosi è pos­sibile che, in virtù delle proprie abitudini culturali, gli statunitensi mangino semplicemente più dei francesi e soffrano maggiormente di sovrappeso. Se vogliamo davvero ammettere che il rischio di disordini cardiovascolari specificamente legato al consumo di gras­si sia stato in qualche modo sopravvalutato (Taubes 2001), il Fren­ch paradox troverebbe allora una spiegazione.

L'obesità dei poveri o le difficoltà economiche di nutrirsi correttamente

Finora abbiamo adottato un'ottica quasi esclusivamente biolo­gica per studiare il consumo alimentare, senza insistere sui suoi aspetti sociali e culturali invece molto importanti, come dimostra­to dallo studio di Rozin e dei suoi collaboratori. Non è possibile ignorare altri fattori, non biologici, che appaiono coinvolti in maniera pesante nella diffusione dell'obesità. Si tratta dello status socioeconomico. La sua influenza sulla condizione ponderale degli individui è oggi accertata. Nei Paesi in via di sviluppo, esiste un

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nesso molto forte tra condizione socioeconomica e obesità. Il rap­porto è direttamente proporzionale: più alta è la condizione socio­economica, maggiore è l'obesità. Le cose vanno invece diversa­mente nelle società complessivamente più ricche. Nei Paesi sviluppati il livello socioeconomico è legato al sovrappeso in modo inversamente proporzionale: più basso è il livello sociale, più fre­quente è l'obesità, specie tra le donne. Negli Stati Uniti sono le donne e i «non bianchi» a esserne particolarmente toccati (Solo­mon e Manson 1997).

Non è difficile accorgersi che, rispetto alle classi economica­mente e socialmente più forti, le classi svantaggiate dei Paesi indu­strializzati hanno un'alimentazione più misera, dal punto di vista della qualità nutritiva, con il predominio di cereali raffinati e di prodotti grassi, o grassi e dolci insieme. Il consumo di frutta, pesce e verdura è notoriamente carente, se paragonato a quanto consi­gliato dal Programma nazionale di nutrizione e sanità. 4 Prima di attribuire questa situazione a un'educazione alimentare insuffi­ciente o inesistente - anche se l'educazione ha in effetti le sue responsabilità - non sarà inutile prendere in esame gli aspetti più propriamente economici.

Alcuni ricercatori (Darmon e Briend 2003) si sono chiesti se esi­stesse un rapporto di causa-effetto tra l'ammontare del budget ali­mentare individuale e la gamma della nutrizione. È possibile, sempre con lo stesso budget, e tenendo conto dei principi di un'a­limentazione sana, sostituire un regime alimentare molto energeti­co, ma poco equilibrato, con una dieta più diversificata e più accet­tabile sul piano nutrizionale? Sl, è possibile, ma anche l'educazione ha i suoi limiti. Può portare a scelte alimentari soddisfacenti solo se i vincoli imposti dal budget non sono estremi. Il fatto è che, in termini di rapporto costi/energia, esiste una certa gerarchia tra i diversi elementi della nostra alimentazione: carne fresca, frutta e verdura sono le fonti di energia più care; i prodotti molto dolci e i grassi rappresentano le fonti di energia più economiche. Le simu­lazioni informatiche mostrano che al di sotto di un budget che cor­risponde a circa metà del costo della razione media giornaliera cal-

4 Un opuscolo intitolato« La sa]ute vien mangiando - Guida alimencare per tutti» è stato ela­borato e ampiamente distribuito sotto il patrocinio del Programma nazionale di nutrizione e sanità.

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colata nella popolazione, risultano accessibili solo cibi di scarsa qualità nutrizionale, con un consistente contenuto energetico e ric­chi di zuccheri e grassi. «C'è [quindi] una logica di tipo economi­co alla base delle scelte di chi, a fronte di un budget ristretti, pre­ferisce questi cibi a frutta e verdura».

Cos'è che non funziona? ci chiedevamo all'inizio di questo capi­tolo. Forse, se fossimo stati in grado di indicare un colpevole, saremmo stati più soddisfatti. «Alla fine di mezzo secolo di ricer­ca e dopo aver speso centinaia di migliaia di dollari per demoniz­zare i grassi nell'alimentazione, la scienza della nutrizione non è riuscita a provare che una dieta con pochi grassi può aiutare a vive­re più a lungo». Ecco la frase-chiave di un lungo articolo che la rivi­sta «Science» ha dedicato al tema nel 2001 (Taubes 2001). Certo, non dobbiamo leggervi un invito a scatenare le nostre tendenze lipofaghe; è piuttosto una presa d'atto: non si può avere la pretesa scientifica di ridurre a un solo motivo, per quanto importante, un insieme di fatti cosl complessi come quelli che caratterizzano la transizione nutrizionale. Non ci è più consentito affidare l'indagi­ne a un solo ramo del sapere.

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Glossario

ACIDI GRASSI Rappresentano gli elementi costitutivi della maggior parte dei lipidi. Vengono distinti in base alla lunghezza della catena di atomi di car­bonio (corta, media o lunga) e in base al loro essere saturi o meno (saturi, monoinsaturi, poliinsaturi). Alcuni acidi grassi poliinsaturi sono detti essen­ziali in quanto non sintetizzati dall'organismo e apportati dall'alimentazione (ad esempio l'acido linoleico).

ADATTAMENTO SENSORIALE Processo attraverso cui gli effetti eccitatori di uno stimolo vengono attenuati o completamente cancellati quando l'organo di senso è esposto allo stimolo in modo prolungato o ripetuto. Il termine di adattamento ha ormai sostituito quello più antico di fatica sensoriale. L'a­dattamento si verifica sopratutto a livello dei recettori. Tuttavia, nel siste­ma olfattivo, si riscontra anche un fattore centrale di adattamento.

ADDITIVITÀ Le sensazioni provocate dai componenti di una miscela odo­rante mostrano additività quando la miscela è percepita come più intensa di quando i singoli componenti vengono annusati singolarmente.

AFAGIA Assenza completa di assunzione alimentare; forma più radicale del­!' anoressia. Aggettivo: afagico.

AMIGDALA Insieme di nuclei cerebrali situati in profondità nel lobo tempo­rale del telencefalo. L'amigdala è tradizionalmente connessa, insieme con il setto e l'ippocampo, al sistema limbico.

AMINOACIDI Costituenti delle proteine e dei peptidi, in numero di venti. Alcuni non sono sintetizzati dall'organismo e devono quindi essere acquisiti tramite l'alimentazione. In questo caso vengono detti essenziali.

ANABOLISMO Processo del metabolismo che tende a preservare o restaurare le riserve energetiche dell'organismo, per esempio, tramite la riduzione del dispendio energetico e laumento cieli' assunzione alimentare. Al contrario, il CATABOLISMO corrisponde a un accrescimento del dispendio e a una diminu­zione dell'assunzione di energia. Aggettivo: anabolico.

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202 GLOSSARIO

ANOSMIA Assenza di odorato. L'anosmia può essere totale o parziale. È det­ta selettiva quando riguarda solo alcune categorie di odoranti, mentre la sen­sibilità rimane normale per tutte le altre. AROMATOLOGIA Arte della preparazione di sostanze aromatiche. Da distin­guere dal!' aromacologia, disciplina che riunisce le ricerche sulle proprietà psi­cologiche e psicofisiologiche degli odori e specialmente delle fragranze, con lo scopo di ingenerare benessere, e dal!' aromaterapia, che indica l'arte di sfruttare le proprietà degli odoranti, il più delle volte estratti di piante, in un'ottica curativa.

ASSONE Parte del neurone, talvolta designata come fibra nervosa, che tra­smette ad altri neuroni o a cellule effettrici (muscolari, ghiandolari) flussi ner­vosi o potenziali d'azione.

ASTRINGENZA Proprietà sensoriale di alcuni composti, come i polifenoli pre­senti nel fogliame e nella buccia della frutta e nella scorza degli alberi. Per esempio, l'acido tannico. ATTIVAZIONE Impiegato nell'ambito del neuroimaging funzionale, il terrni­ne indica lo stato di attività di un'area cerebrale, sede di un aumento di près­sione sanguigna locale; i neuroni della zona attivata sono ritenuti più attivi di quelli delle zone che non mostrano attivazione.

BULBO OLFATTIVO Primo snodo della via olfattiva. Gli assoni dei neuroni recettori vi formano sinapsi con i neuroni del secondo livello, le cellule mitra­li. Gli assoni delle cellule mitrali formano il tratto olfattivo laterale, che rag­giunge la corteccia olfattiva.

CALORIA Unità di misura dell'energia. Nell'ambito del metabolismo, il ter­mine «caloria» è spesso impiegato al posto di «kilocaloria», la parola esatta dal punto di vista fisico. Un pasto di mille calorie è in realtà un pasto di mil­le kilocalorie.

CANALE IONICO Via di passaggio degli ioni attraverso le membrane cellula­ri. Un canale ionico è formato da una o più proteine. I canali sono spesso selettivi rispetto alla tipologia di ioni. Le cellule gustative comportano alcu­ni canali ionici sensibili agli ioni idrogeno (gusto acido), e altri sensibili agli ioni sodio (gusto salato). CATABOLISMO Vedi ANABOLISMO. Aggettivo: catabolico.

CIGLIA OLFATTIVE Sottili estensioni della cellula olfattiva. Le ciglia olfatti­ve, del diametro di un decimo di micron e della lunghezza di diverse decine di micron, nascono all'estremità rigonfiata del dendrite del neurone recetto­re e formano un ciuffo. Contengono i recettori molecolari degli odoranti.

CONDIZIONAMENTO Forma di apprendimento. Il condizionamento «classi­co» (pavloviano) è realizzato tramite l'associazione di uno stimolo, detto con­dizionale, a uno stimolo incondizionale. Prima del condizionamento, solo lo stimolo incondizionale è in grado di indurre una risposta (incondizionale) del­[' organismo. Lo stimolo condizionale diventa efficace a condizione di essere associato, secondo modalità adeguate, allo stimolo incondizionale. In un' al­tra concezione del condizionamento, quello operante, l'accento è posto inve-

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GLOSSARIO 203

ce sul «rinforzo», associato alla produzione di un'azione comportamentale. Il rinforzo aumenta la probabilità che latto rinforzato si realizzi.

CORTECCIA CEREBRALE Tessuto nervoso che forma l'involucro degli emisfe­ri cerebrali. Si distinguono diversi tipi di corteccia. La neocorteccia, filoge­neticamente più recente, è la più estesa nei mammiferi superiori, e anche la meglio strutturata in livelli distinti di neuroni. La paleocorteccia è di origine più remota e comprende un numero minore di livelli. La corteccia piriforme, parte della corteccia olfattiva primaria, è una paleocorteccia. Viceversa, la corteccia olfattiva secondaria, nella regione frontale del cervello, appartiene alla neocorteccia.

CROMATOGRAFO Strumento di analisi che consente ai chimici di separare i costituenti di una miscela chimica in base alle loro diverse proprietà fisiche di assorbimento da parte di alcuni supporti.

DENDRITE Estensione della cellula nervosa di cui è il polo recettore. I den­driti sono normalmente contattati dagli assoni degli altri neuroni, a livello delle sinapsi. Il neurone recettore olfattivo porta un solo dendrite; molti altri neuroni ne portano molti.

DESCRITTORE Termine che permette di indicare un aspetto della qualità sen­soriale (in particolare olfattiva o gustativa) di un prodotto. La ricerca di descrit­tori validi è un obiettivo centrale degli specialisti dell'analisi sensoriale e di tutti quelli che cercano di fornire una descrizione di profumi, aromi e sapori.

DIABETE Disordine del metabolismo del glucosio, che ha come conseguenza una iperglicemia (livello di norma alto di glucosio nel sangue) e la presenza di glucosio nelle urine. Si consocono due tipi di diabete: r) il diabete di tipo I, risultato di una produzione insufficiente di insulina, corretto con l'iniezione di insulina e 2) il diabete di tipo Il, caratterizzato dalla «resistenza» dei tes­suti all'azione dell'insulina. Quest'ultima forma è spesso associata all'obesità.

DOMINANZA EMISFERICA Ruolo preponderante di uno dei due emisferi cere­brali in una funzione mentale o comportamentale. Per esempio, l'emisfero sini­stro è dominante per quanto riguarda il linguaggio nella maggior parte dei sog­getti. La funzione per la quale un emisfero è dominante viene detta la teralizza ta.

EDULCORANTE Prodotto poco calorico che conferisce agli alimenti un sapo­re dolce, senza essere uno zucchero in senso chimico.

ENTEROCETTIVO Relativo alla sensibilità di origine interna, viscerale, in opposizione all' esterocezione, relativa al mondo esterno (vista, udito, tatto) e alla propriocezione, relativa ai muscoli e agli organi di equilibrio.

ENZIMA Molecola (proteina) che, interagendo con un sostrato, orienta e facilita (catalizza) una reazione organica. La sintesi di enzimi è una funzione importante dei geni.

FEROMONE Segnale chimico di comunicazione animale. I feromoni emessi da un organismo influenzano il comportamento di un altro organismo e/o la sua fisiologia.

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204 GLOSSARIO

FIBRE ALIMENTARI Componenti di certi frutti, verdure e cereali completi, di scarso valore energetico, non digeriti dall'intestino tenue, che favoriscono il transito intestinale. FRAGRANZA Odore gradevole di origine naturale o sintetica. Il termine ha un significato più generale rispetto a «profumo». GENOMA Insieme dei geni di un organismo. GLOMERULI (OLFATTIVI) Strutture sferiche, ben individuabili dal punto di vista istologico, che riuniscono le sinapsi tra le terminazioni degli assoni recettori e le estremità dei dentriti dei neuroni di relé. Questa forma origi­nale di organizzazione dei contatti sinaptici è tipica del sistema olfattivo dei vertebrati e degli insetti. IMMAGINE MENTALE Indica gli stati mentali durante i quali rappresentazio­ni per lo più fondate su ricordi emergono alla coscienza in una forma che pre­senta analogie con le rappresentazioni della percezione. Le immagini menta­li di tipo visivo sono di gran lunga le più comuni, ma non tutte sono limitate a quest'ambito. Esiste un imaging mentale olfattivo, più o meno sviluppato a seconda dei soggetti. INTERNEURONE Neurone, spesso di piccole dimensioni, che serve da inter­mediario tra i neuroni principali di una struttura nervosa. Le ramificazioni di un interneurone rimangono confinate alla struttura che contiene il suo cor­po cellulare. IPERFAGIA Consumo alimentare superiore alla norma. IPOTALAMO Regione del diencefalo che comprende molti nuclei (come il nucleo ventromediale) e una parte laterale attraversata dal fascio mediale del telence­falo. L'ipotalamo, ampiamente collegato alle componenti del sistema limbico e al sistema olfattivo, interviene nella vita vegetativa e in molti comportamenti (assunzione alimentare, attività sessuale). Allo stesso modo, insieme alla vici­na ipofisi, ha un ruolo essenziale nel controllo dell'attività ormonale. LIGANDO Molecola che ha la proprietà di legarsi a un recettore e di attivar­lo. La nicotina è uno dei ligandi del recettore dell'acetilcolina. MACRONUTRIMENTI-MICRONUTRIMENTI I nutrimenti sono suddivisi in macronutrimenti e micronutrimenti. I primi formano la maggior parte della massa di sostanze alimentari ingerite (glucidi, lipidi, proteine) mentre i secon­di (vitamine, minerali, oligoelementi) costituiscono, in peso, solo una parte minima, priva di valore energetico, ma sono comunque vitali per lorganismo. MACROSMATE-MICROSMATE I due termini corrispondono a una classifica­zione sommaria degli animali basata sul loro acume olfattivo. I macrosmati hanno un apparato olfattivo ben sviluppato e una grande sensibilità olfatti­va; i microsmati hanno un apparato olfattivo più limitato e prestazioni olfat­tive ridotte. MEMORIA DI LAVORO Forma di memoria a breve termine che raggruppa i ricordi necessari ali' azione cosciente immediata. METABOLISMO Insieme delle trasformazioni chimiche e fisiche che si com­piono in un essere vivente.

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GLOSSARIO 205

MICROVILLI Sottili espansioni, più corte di quelle delle ciglia olfattive, che corredano alcune cellule epiteliali e soprattutto le cellule gustative e le gem­me gustative. NERVI TRIGEMINI Quinto paio dei nervi cranici che innervano il viso. Il ner­vo trigemino ha molteplici funzioni sensoriali (tatto, dolore, sensibilità ter­mica) tra cui una sensibilità chimica alle molecole definite come initanti che raggiungono i recettori situati nelle sue ramificazioni all'interno di naso, boc­ca e sulla superficie oculare. NEUROll\llAGING Insieme di metodi che consentono di accedere, in modo non invasivo, all'anatomia del cervello umano (imaging anatomico) o alla rappresen­tazione spaziale della sua attività (imaging funzionale). Gli apparecchi di riso­nanza magnetica nucleare (NMR) forniscono ottime immagini di sezioni virtuali del cervello. Tra i metodi più usati che offrono dati sull'attività funzionale si distinguono: la tomografia a emissione di positoni (PET), il neuroimaging fun­zionale a risonanza magnetica nucleare (fMRl) e la magnetoencefalografia (EGM). I segnali elettrici dell'elettroencefalogramma possono ugualmente essere trattati per fornire mappe dell'attività della corteccia cerebrale. NEUROPEPTIDE Peptide (catena di aminoacidi) prodotto dal tessuto nervo­so. I peptidi svolgono la funzione di favorire la comunicazione cellulare (neu­rotrasmettitori, ormoni). NUCLEO Il termine è impiegato con due significati diversi: 1) nel primo significato è un organismo cellulare che contiene principalmente il materiale genetico. La cellula possiede un nucleo; 2) nel secondo significato indica un raggruppamento anatomico, ben identificabile, di neuroni. Spesso si con­trappongono corteccia, tessuto nervoso ben organizzato in strati cellulari, e nuclei, la cui organizzazione è in genere meno individuabile. OPPIACEI ENDOGENI Il cervello sintetizza ed emette molecole imparentate alle sostanze oppiaceee. Questi oppiacei endogeni, di origine interna, sono mole­cole di comunicazione che agiscono sui recettori neurali. Gli oppiacei esogeni esercitano i loro effetti servendosi di recettori degli oppiacei endogeni. PALATABILE Si dice di una sostanza il cui consumo è desiderabile da parte del soggetto stimolato da quell'alimento. La palatabilità di un alimento si fon­da sulle sue qualità sensoriali e il loro valore edonico positivo. La palatabi­lità è modulata dallo stato interno di fame o sazietà. POLll\llORFISMO In genetica indica il fatto che una regione rigidamente defi­nita di un cromosoma, o anche un solo gene, determina diversi tratti fenoti­pici, molte manifestazioni comportamentali o fisiologiche all'interno di una data popolazione di individui. POTENZIALE D'AZIONE (PA) Breve fenomeno elettrico (nell'ordine di un milli­secondo), che corrisponde alla depolarizzazione, rapidamente reversibile, del­la membrana di una cellula eccitabile elettricamente. I potenziali d'azione si propagano, senza diminuire di portata, lungo gli assoni dei neuroni e formano il supporto dell'informazione nervosa che passa attraverso quei neuroni. La fre­quenza con cui sono emessi traduce il livello di eccitazione dei neuroni. In un

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206 GLOSSARIO

neurone sensoriale come la cellula olfattiva, l'intensità dello stimolo (concen­trazione dell'odorante) è codificata dalla frequenza dei potenziali d'azione.

POTENZIALE EVOCATO (PE) Variazione transitoria e locale del campo di potenziale cerebrale, susseguente a una stimolazione sensoriale o all'elettro­stimolazione di una via nervosa. I potenziali evocati hanno diverse compo­nenti, positive e negative; la loro durata temporale dipende dal sistema sen­soriale stimolato e dall'area cerebrale in cui sono registrati. Poiché i potenziali evocati hanno un basso voltaggio, è spesso necessario ripetere le stimolazioni molte volte e sommare le risposte raccolte per differenziarle dal­le onde lente spontanee.

PSEUDOGENE Sequenza di DNA in cui si può riconoscere un gene di natura definita (per esempio un gene di recettore olfattivo), ma non funzionale: una mutazione ha reso il gene incapace di sintetizzare una data proteina.

PSICOFISICA Disciplina che si occupa di stabilire relazioni quantificate tra le proprietà fisiche degli stimoli e le caratteristiche (soglia, intensità ... ) delle sensazioni corrispondenti.

SAPIDO Qualità di una sostanza che stimola il sistema gustativo.

SECONDO MESSAGGERO O messaggero intracellulare. Molecola che intervie­ne nelle fasi della trasduzione, sostituendosi allo stimolo iniziale o primo mes­saggero. L' AMP ciclico è un secondo messaggero nella trasduzione olfattiva.

SENTORE Termine sinonimo di «gusto» nel senso corrente. Corrisponde quindi alle sensazioni provocate dai sensi chimici, l'olfatto, il gusto e la sen­sibilità del trigemino.

SOGLIA Livello di intensità fisica di uno stimolo (per esempio la concentra­zione di un odorante) a partire da cui quello stimolo può essere percepito da un soggetto. AI di sotto della soglia, la stimolazione è detta subliminale; al di sopra, sovraliminale. Nell'ambito dell'olfatto, si usa distinguere la soglia di detezione, allorché la presenza dello stimolo può appena essere registrata, dal­la soglia di riconoscimento, allorché lo stimolo può essere riconosciuto. Le soglie variano a seconda dei soggetti e del tipo di stimolo.

SPAZIO DI TESTA Il termine indica il volume di gas situato in un recipiente chiuso, al di sopra di un liquido o di un solido che sprigiona le sue molecole volatili in quello spazio. Il contenuto dello spazio di testa è analizzato prele­vandone un campione e iniettandolo nel cromatografo. In inglese: headspa­ce. Per analogia, il nose space e il mouth space corrispondono rispettivamente al cavo nasale e orale da cui si preleva il contenuto gassoso per un'analisi cro­matografica.

STIMOLO CONDIZIONALE, INCONDIZIONALE Vedi CONDIZIONAMENTO.

TRASDUZIONE Insieme dei processi attraverso cui le cellule sensoriali con­vertono i segnali fisici o chimici da cui sono raggiunte in variazioni del poten­ziale elettrico. La trasduzione segue la ricezione dello stimolo e precede la tra­smissione del messaggio sensoriale.

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GLOSSARIO 207

VIA RETRONASALE Percorso delle molecole sprigionate dagli alimenti nel cavo orale, che risalgono nella cavità nasale seguendo un tragitto opposto rispetto all'aria inalata quando il soggetto annusa o inspira.

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Ringraziamenti

Il progetto di questo libro è nato presso il Centre Européen des Sciences du Gout (CESG) di Digione. Si è nutrito delle riflessioni che ho dovuto portare avanti, insieme ai miei colleghi, per aggior­nare il programma di ricerca del centro. Mi basavo allora sui ricordi dell'insegnamento diJacques Le Magnen, di cui avevo avuto la fortuna di beneficiare all'inizio della mia carriera. Avevo anche una lunga esperienza di studio sull'odorato, acquisita nel corso degli anni prece­denti con gli amici e collaboratori di Lione. Ringrazio tutti quelli che mi hanno aiutato a capire un po' come funzionano i sensi chi­mici e a venire a capo dei loro rapporti con la fisiologia dello sti­molo della fame, del piacere, e del comportamento di assunzione alimentare. Ovviamente non sono responsabili di quanto non sono riuscito a capire.

I miei ringraziamenti si rivolgono soprattutto a Benoist Schaal, direttore del CESG, per la sua lettura del manoscritto, i suoi con­sigli, il suo incoraggiamento e per una complicità amichevole e, ormai, di vecchia data.

Max de Ceccaty, che non si esprime mai con mezzi termini, ha saputo trovare epressioni calorose per incoraggiarmi nell'impresa e mi ha dato suggerimenti molto utili. Grazie.

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