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Edizioni dell’Orso Alessandria Studi in onore di Vittoria Dolcetti Corazza a cura di Carla Falluomini e Roberto Rosselli Del Turco

Anastodeins, þatei jah rodja du izwis. Gv 8,25 e la versione gotica della Bibbia

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A study in Gothic philology.

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Edizioni dell’OrsoAlessandria

Studi in onore di Vittoria Dolcetti Corazza

a cura diCarla Falluomini e Roberto Rosselli Del Turco

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1. Gv 7,10ss ci presenta Gesù che, a Gerusalemme in occasione della festa delleSūkkōt, viene ricercato dalle autorità ebraiche e, pur volendo passare inosservato,comincia tuttavia ad essere notato dalla gente, suscitandone la curiosità (7,12).Ben presto tra i Gerosolimiti si diffonde il sospetto che Gesù sia il messia (7,25-26); un sospetto che, dopo i discorsi nel tempio (7,28-29), diviene per alcunicertezza, tanto da rafforzare la decisione dei farisei di arrestarlo (7,32). Intanto trala gente circolano diverse opinioni su chi sia veramente Gesù, se un profeta oaddirittura il messia (7,40-43). L’arresto di Gesù è peraltro impedito siadall’esitazione delle guardie, evidentemente colpite dal suo modo di parlare(οὐδέποτε ἐλάλησεν οὕτως ἄνθρωπος), sia dall’intervento di Nicodemo, ormaiguadagnato alla causa del Nazareno, che invoca l’illegittimità di una condannasenza aver prima ascoltato l’imputato (7,45-52).

La sequenza degli eventi, che si snodano in un crescendo con effettidrammatici, è a questo punto bruscamente interrotta dal celebre episodiodell’adultera (7,53-8,11) che è ormai riconosciuto come una pericope erratica, siapur antica: differente per lingua e stile dal resto del Quarto Vangelo, essa mancain molti codici antichi, mentre in altri si trova variamente collocata dopo 7,36 o7,44 o 21,25; il ms. f13 la pone addirittura dopo Lc 21,38.1 La pericope mancanella versione vulfiliana, anche se, date le condizioni lacunose del testo gotico,non si può escludere a priori che si trovasse altrove, per es. dopo Gv 21,25 o dopoLc 21,38.

La ripresa di Gv 8,12 presuppone che l’intervento di Nicodemo abbia sortitol’effetto sperato e il racconto ci presenta infatti Gesù che discute con i farisei sullavalidità della propria testimonianza (8,13-20) e sulla propria identità (8,21-30). Ladiscussione viene infine troncata dal monito severo di Gesù che la mancata fedein ciò che lui è (8,24b ἐὰν γὰρ μὴ πιστεύσητε ὅτι ἐγώ εἰμι) avrebbe comeconseguenza per i suoi interlocutori il “morire nei loro peccati” (ἀποθανεῖσθε ἐνταῖς ἁμαρτίαις ὑμῶν). A questa espressione un po’ minacciosa di Gesù, che ai

Antonio Piras

ANASTODEINS, ÞATEI JAH RODJA DU IZWIS. GV 8,25 E LA VERSIONE GOTICA DELLA BIBBIA

1 Cfr. Metzger 1994, 187-189.

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farisei suona evidentemente sfrontata,2 corrisponde la pronta, irritata e irrisoriareplica degli interlocutori: Σὺ τίς εἶ; (8,25).3 A tale domanda Gesù risponde conuna curiosa e ambigua espressione: Tὴν ἀρχὴν ὅ τι καὶ λαλῶ ὑμῖν, che è di fattouna non-risposta e che costituisce appunto l’oggetto del nostro studio.

2. Di tale espressione due sono in particolare le difficoltà di ordine linguistico:l’esatto valore della locuzione avverbiale τὴν ἀρχήν e la forma ὅ τι, intesa oracome pronome relativo, ora come congiunzione (ὅτι). La difficoltà del passo sirileva anche da alcuni interventi testuali operati già in età antica e dai diversiadattamenti nelle versioni sia antiche sia moderne: ad esempio, il papiro BodmerII (P66), datato intorno al 200, reca in margine una correzione attribuibile allostesso scriba: εἶπεν αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς, Εἶπον ὑμῖν τὴν ἀρχὴν ὅ τι καὶ λαλῶ ὑμῖν,“Gesù disse loro: Vi ho detto all’inizio ciò che vi sto anche dicendo (adesso)”.4 Uncodice in maiuscola (047)5 omette significativamente τὴν ἀρχήν.6

Tra i moderni non è mancato chi ha avanzato delle congetture: Torrey proposedi leggere ἔτι in luogo di ὅτι, mentre Holwerda immaginava un οὐκ ἔχω ὅτι,7

interventi improbabili e non necessari che denotano comunque un certo imbarazzointerpretativo, messo in risalto dalla stessa oscillazione della punteggiatura.8

Tra le antiche versioni si distingue in particolare la Pešitta, seguita contutta evidenza dalla araba, che con una interpretazione piuttosto liberarende l’espressione come se si trattasse di una proposizione concessiva,agganciandola al v. 26 (πολλὰ ἔχω περὶ ὑμῶν λαλεῖν καὶ κρίνειν), ossia: Wod.alw ram"mj W8ukyla` YIj t0I^ IYgas % W8uk.o` Jejam^eD tyira}D Nep^o.“sebbene abbia cominciato a parlare con voi, ho tuttavia (ancora) molte cosecontro di voi da dire e da giudicare”.

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2 La valenza del tono è pari a quella della nostra espressione idiomatica “Lei non sa chisono io”.

3 Si noti la posizione enfatica del pronome di seconda persona a sottolineare la reazionestizzita degli interlocutori (“E tu chi sei?”, “Perché, tu chi sei?”); enfasi efficacemente espressanella versione siriaca attraverso la reduplicazione del pronome: ʾat man ʾat (lett. tu chi tu?).Si vedano anche le testimonianze della letteratura greca e latina sul carattere impudente ditale domanda addotte da Wettstein 1751, I, 896.

4 Sulla lezione del papiro Bodmer II si veda Funk 1958 e Smothers 1958, 111-122. Sullostato della tradizione del testo si veda Swanson 1995, 113-114.

5 Princeton, University Library, Med. and Ren. Mss. Garret 1, dell’VIII secolo.6 Schmid-Elliott-Parker 2007, 346.7 Cfr. Nestle-Aland in apparato a Gv 8,25.8 Le edizioni Wescott, Merk e Nestle-Aland concludono l’espressione col punto e virgola

interrogativo, Tischendorf con un punto fermo.

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La difficoltà maggiore del testo è costituita dall’accusativo avverbiale τὴνἀρχήν che, pur abbastanza frequente in greco, con e senza articolo, è qui inseritoin un contesto sintagmatico poco perspicuo e in una Wortstellung piuttostoinnaturale.9 Generalmente gli si riconosce una funzione asseverativa (‘proprio’,‘absolument’, ‘at all’, ‘überhaupt’) o temporale (‘dal principio’, ‘dès lecommencement’, ‘from the beginning’, ‘erstlich’),10 sì che, ad esempio nelleversioni italiane, tutta la frase viene tradotta come “Proprio ciò che vi dico” (CEI2008) oppure “Quello che vi sto dicendo dal principio” (ABU).11 Questa secondainterpretazione sembrerebbe più convincente e più coerente col contesto,nonostante i dubbi sollevati da chi ritiene che τὴν ἀρχήν non avrebbe mai il valoredi ἐξ ἀρχῆς.12 A questa obiezione forse troppo frettolosa si potrebbero peraltroopporre diverse considerazioni.

Nonno di Panopoli, vissuto probabilmente nel V secolo e noto per l’ampiopoema delle Dionisiache, è anche autore di una Parafrasi del Vangelo di Giovanniin esametri dattilici, che segue passo passo il testo biblico. Ecco dunque comerende i vv. 24-26:

ἀτρεκέως δέεἰ μὴ ἐμὲ γνώσεσθε, τίς ἢ τίνος εἰμὶ τοκῆος,θνήσκετε δυσσεβίης ἐγκύμονες. ὑψινόων δὲλαὸς Ἰουδαίων φιλοπευθέα ῥήξατο φωνήν‧τίς σὺ πέλεις; καὶ Χριστὸς ἀνίαχεν‧ ὅττι περ ὑμῖνἐξ ἀρχῆς ὀάριζον, ἔχων νήριθμα δικάζεινκαὶ λαλέειν (8,57-63).

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9 Già De Dieu (1631, 447) osservava che “τὴν ἀρχήν dure satis initium sententiae occupatet per traiectionem construitur cum λαλῶ”.

10 Una rapida sintesi degli attuali orientamenti esegetici è in O’Day 1995, 634-635.11 Giuseppe Scaligero annotava: “τὴν ἀρχὴν est adverbium, id est primo, in primis,

principio. Deinde ὅτι, non ὅ τι: Principio mihi multa dicenda sunt, multa sunt praefanda devestra contumacia et incredulitate, priusquam vobis respondeam quis ego sim. Quod et meliusexponitur c. 10 vs. 25: sciscitantibus enim τίς εἶ respondit εἶπον ὑμῖν, καὶ οὐ πιστεύετε” (DeDieu 1631, 447). L’osservazione dello Scaligero sembra suggerire che il sintagma τὴν ἀρχὴνὅτι possa essere equivalente a πρὶν/πρότερον ἤ e quindi intendere l’intero periodo così: “primache io ve lo dica (scil. chi sono io), ho molte cose da dire a da giudicare sul vostro conto”.Occorre tuttavia, al di là di una generica equivalenza teorica, fondare tale lettura su più certeattestazioni di un siffatto sintagma.

12 Per es. Smothers 1958, 114. Caragounis 2007, che analizza dettagliatamente il nostrotesto, cerca un compromesso tra le due posizioni e intende tutto il passo in questo modo:“Who are you? [I am] From the beginning! Precisely what I have been sayng to you”.

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“Se non riconoscerete sinceramente chi io sia o di quale padre,morirete gonfi di empietà”. E il popolo dei Giudei orgogliosidisse con voce indagatrice: “Chi sei tu?”.Il Cristo rispose: “Ciò che vi confidavo dall’inizio,avendo innumerevoli cose da giudicare e da dire”.

Lasciando da parte le molte considerazioni che il brano suggerisce, a noiinteressa solo osservare come l’espressione τὴν ἀρχήν venga da Nonno senz’altrointesa e quindi resa come ἐξ ἀρχῆς, ‘dall’inizio’.13

Non diversamente intendono le versioni sia copte sia persiana. Le prime, nelledue varianti, convergono sostanzialmente su questa lettura, anche se sembranoignorare ὅτι: la sahidica reca jin N¥orP t¥aje nMmhtN, “da prima vi parlo”,mentre la bohairica isjen taryh (v.l. Ntaryh) aier pkesaji nemwten, “dalprincipio (v.l. al principio) ve l’ho detto”.14

La versione persiana, alla quale non è stata riservata finora quasi nessunaattenzione dagli studiosi di filologia biblica, benché si sia supposta la presenza ditracce di lezioni cesariensi, traduce il sintagma greco con l’espressione az ágház,ossia “dal principio”.15

3. A questo proposito, l’esegesi patristica greca del passo giovanneo non ci èpurtroppo di grande aiuto, dal momento che le poche occorrenze non ci fornisconoelementi davvero significativi per una più chiara comprensione del testo; anzi, iltentativo generalizzato di glissare sull’interpretazione letterale del difficile passosembra confermare l’impressione di oscurità o perlomeno di ambiguità che glistessi antichi dovevano provare dinanzi ad esso.16 A tal riguardo, di scarsa utilitàriesce il commentario origeniano a Giovanni che, pervenutoci frammentario,

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13 Affermare, come fa Smothers 1958, 114, che in questo caso “Nonnus too has takenliberties” mi pare eccessivo.

14 Le edizioni utilizzate sono quelle di Horner 1911 per la versione sahidica e Horner 1898per la bohairica.

15 Il testo persiano è in Walton 1657, V, 445.16 Mi pare troppo approssimativa l’affermazione in Bauer 1958, 222, secondo cui “τὴν

ἀρχήν J 8,25 ist, wie die griechischen Väter fast durchweg verstehen, adv. gebraucht ὅλως =überhaupt”, sì che tutta la frase dovrebbe essere tradotta come esclamativa: daß ich überhauptnoch zu euch rede!; in tal caso ὅ τι sarebbe usato, secondo Metzger 1994, 191, nel sensodell’ebraico hfm (per es. Gen 28,17; 2Sam 6,20; Ml 1,13: cfr. Davidson 1901, 163; Waltke-O’Connor 1990, 326), che peraltro nei LXX, almeno con questo valore, è tradotto con ὡς oτί o in altro modo, ma mai, a quanto pare, con ὅ τι.

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presenta una vasta lacuna proprio là dove l’autore si avvia a spiegare il v. 25:l’unico dato che sembra potersene ricavare è l’osservazione circa l’atteggiamentoelusivo di Gesù di fronte alla domanda provocatoria dei farisei.17

Perfino Giovanni Cristostomo, che da buon antiocheno è in genere moltoattento alla lettera del testo e non di rado offre interessanti considerazioni dicarattere linguistico, su questo punto ci delude col suo atteggiamento cursorio edevasivo:

“Gli dicono dunque: σὺ τίς εἶ; Che follia! Dopo tanto tempo, tanti segni e tantiinsegnamenti domandano ancora: σὺ τίς εἶ; Che cos’è dunque il Cristo? τὴν ἀρχὴν ὅτι καὶ λαλῶ ὑμῖν. Tale è il senso di ciò che dice: “Siete indegni di udire del tutto le mieparole, figurarsi di sapere chi io sia! Voi infatti parlate sempre per mettermi alla provae non prestate attenzione a niente di ciò che dico etc.”18

Come si può vedere, il Crisostomo, al pari di Origene, si limita ad osservareche Gesù di fatto si sottrae alla domanda dei farisei, persuaso della sua capziosità:ad una non-domanda si oppone pertanto una non-risposta.

D’altro canto, dal commento a Giovanni di Cirillo di Alessandria si puòdesumere quale tipo di analisi sintattica vi sia sotteso:

… ἐν τῷ μηδενὶ κατατέταγμαι λόγῳ καὶ εὐτελὴς οὕτω λελόγισμαι παρ’ ὑμῖν. Ἀλλὰκαὶ δίκαια πάσχω, φησίν, ὅτι καὶ λόγου παρ’ ὑμῖν ἐποιησάμην ἀρχήν, ὅτι καὶπροσπεφώνηκά τι τῶν εἰδότων ὠφελεῖν […]. Ἔοικε δ’ ἔτι καὶ ἕτερον ἡμῖν διὰ τούτωνὑποδηλοῦν ὁ Χριστός. Ἔδει γάρ με, φησίν, οὐχ ὑμῖν ὅλως προσλαλῆσαι κατὰ τὴνἀρχήν, ἐκείνοις δὲ μᾶλλον τοῦτο χαρίζεσθαι καὶ λίαν ἀσμένως ἐφήδεσθαι λόγοις κτλ.

“Sono stato tenuto in nessun conto e considerato da voi un uomo da nulla. Ma ben mista, dice, perché ho dato io inizio al discorso con voi, perché vi ho detto qualcosa chepoteva giovarvi […]. Ma il Cristo con queste parole sembra suggerirci anche un altrosenso. Non dovevo assolutamente, dice, parlarvi dall’inizio, ma piuttosto donare questobeneficio a quelli che si sarebbero volentieri rallegrati delle mie parole etc.”19

Abbiamo innanzi tutto la conferma che anche Cirillo sentiva la domanda deifarisei (“Chi sei tu?”) come venata di disprezzo, visto che l’interlocutore si sente“tenuto in nessun conto e stimato un uomo di nessun valore”.20 Inoltre, lo stesso

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17 Comm. in Ioh. 19,24(7) (GCS 10/4 326, 1 e 6 Preuschen = PG 14, 572).18 In Ioh. hom. 53, 1 (PG 59, 293).19 In Ioh. 8, 25 (PG 73, 817). Cfr. anche Cramer 1841, 276-277.20 Poco prima Cirillo aveva così commentato, riecheggiando il Crisostomo: “(i farisei)

intervenendo con molta follia dopo tanto tempo, tanti segni e tanti insegnamenti domandano:

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patriarca di Alessandria doveva notare l’ambiguità della risposta di Gesù, se nepropone una duplice interpretazione. Entrambi i sensi proposti presuppongonouna frase interrogativa, seppur retorica, che Gesù rivolge a sé stesso con un sensoquasi di pentimento per aver parlato ai suoi interlocutori e in cui ὅ τι ha il valoredi ‘perché’:21

— Σὺ τίς εἶ;— Tὴν ἀρχὴν ὅ τι καὶ λαλῶ ὑμῖν; =1. ὅ τι λόγου παρ’ ὑμῖν ἐποιησάμην ἀρχήν;2. ὅ τι ὑμῖν προσελάλησα κατὰ τὴν ἀρχήν;

È interessante rilevare che nel primo caso τὴν ἀρχήν manterrebbe il valore diaccusativo dell’oggetto, mentre nel secondo sarebbe una locuzione avverbialeequivalente a κατὰ τὴν ἀρχήν, “dal principio”; ciò che consuona conl’interpretazione di Nonno che di Cirillo era, a quanto sembra, contemporaneo.

Nel XVI secolo, nel fervore degli studi filologici e soprattutto della critica deltesto, il passo controverso fu oggetto di rinnovate analisi e interpretazioni. MentreErasmo, discostandosi, come vedremo, dalla Vulgata, rendeva la locuzione τὴνἀρχήν con in primis,22 l’umanista Jacques Lefèvre d’Étaples (ca. 1450-1536),23

Teodoro Beza (1519-1605), il grande erudito protestante, discepolo ecollaboratore di Calvino,24 e il gesuita spagnolo Giovanni Maldonado (1533-1583)ripercorrevano la pista interpretativa tracciata da Cirillo e da Nonno. SoprattuttoMaldonado nel suo commento ai vangeli, considerato il capolavoro e il primocommentario moderno, dopo aver esaminato le possibili soluzioni del passo,spiega: “alii denique τὴν ἀρχὴν accipiunt tertio modo pro a principio, quo egomodo prorsus accipiendum esse arbitror, et quia sensum meliorem efficit et quiaobservavi hunc usum eius Graeci adverbii in Scripturis apud Septuaginta essefrequentissimum”.25

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“Tu chi sei?”. E ciò voleva chiaramente dire: “Hai la sfrontatezza di avere di te stesso unaconsiderazione più alta di quella che noi abbiamo di te?” (PG 73, 816).

21 Cfr. Metzger 1994, 191.22 Erasmo 1705, 376 traduce Gv 8,25: in primis quod et loquor vobis.23 d’Étaples 1541, 569: “[…] consuetudine Graecanica τὴν ἀρχήν capitur pro κατὰ τὴν

ἀρχήν, id est secundum principium, sive a principio: et tunc sensus est, quaerentibuspharisaeis: Tu quis es? Dicit eis Iesus: Sum id, quod a principio etiam loquor vobis […]. Etusurpat frequentissime Ioannes Hebraeorum more praesens pro praeterito, et tempus protempore et id, loquor vobis, perinde est ac locutus sum, ac si diceret: Sum id quod a principiolocutus sum vobis”.

24 Beza 1594, 400-402.25 Maldonado 1854, 687.

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4. Anche la forma ὅ τι / ὅτι è stata oggetto di varie interpretazioni che oscillanotra il pronome relativo/interrogativo e la congiunzione. Mentre Cirillo diAlessandria sembra intendere ὅ τι col valore dell’interrogativo διὰ τί,26 Nonno diPanopoli gli assegna il valore prettamente relativo di ‘ciò che’, che è poi la letturadata da Teodoro Beza (“[id] quod a principio dico vobis”)27 e seguita dallamaggioranza delle moderne versioni.

A proposito dell’ambiguità interpretativa di ὅ τι / ὅτι, potrò qui accennare soloincidentalmente ad un’altra questione. In Gv 8 il pronome/congiunzione è presenteanche al v. 24 (ἐὰν γὰρ μὴ πιστεύσητε ὅτι ἐγώ εἰμι κτλ.) e al v. 28 (τότε γνώσεσθεὅτι ἐγώ εἰμι), espressioni che, almeno nella maggior parte delle versioni moderne,compresa la italiana CEI 2008, vengono tradotte come “se non crederete che (=ὅτι) Io Sono” e “allora conoscerete che (= ὅτι) Io Sono”,28 laddove sembrerebbepiù naturale tradurre “se non crederete ciò che (= ὅ τι) io sono” e “alloraconoscerete ciò che (= ὅ τι) io sono”.29 In tal modo sono perfettamente coerentitanto la domanda dei farisei (“perché? tu chi sei?”), quanto la (non-)risposta diGesù: “Ciò che vi sto dicendo dall’inizio”; e altrettanto coerente risulterebbe ilseguito del discorso: 8,28 “quando innalzerete il figlio dell’uomo, allora sapretedavvero ciò che (= ὅ τι) io sono”.

La curiosa scelta traduttoria viene generalmente spiegata alla luce di alcunipassi veterotestamentari30 e in particolare di Es 3,14, uno dei luoghi più importantie più oscuri della Bibbia, dove Dio rivelerebbe il proprio nome:

11Mosè disse a Dio: “Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israelitidall’Egitto?”. 12Rispose: “Io sarò con te (ἔσομαι μετὰ σοῦ) […]. 13Mosè disse a Dio:“Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”.Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?”. 14Dio disse aMosè: “Io sono colui che sono! (ἐγώ εἰμι ὁ ὤν)”. E aggiunse: “Così dirai agli Israeliti:‘Io-Sono (ὁ ὤν) mi ha mandato a voi’”.

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26 Le occorrenze di questo fenomeno nel NT (per es. Mc 2,16; 9,11.28) sono discusse inBlass-Debrunner-Rehkopf 1982, 383-384; cfr. anche Bauer 1958, 1161.

27 Beza 1594, 400.28 Il maiuscolo è nel testo. Non molto diversa è la traduzione ABU 1985.29 Così infatti leggono alcune versioni moderne, come la Bible in Basic English 1964 (8,28

“then it will be clear to you who I am”, ma in 8,24 “if you have not faith that I am he”), laFrench Louis Segond 1910 e la French Nouvelle Edition de Genève 1975 (entrambe: “alorsvous connaîtrez ce que je suis”). Altre traducono come le italiane oppure adottano soluzionisenza dubbio arbitrarie, come la Bible Français Courant (“vous reconnaîtrez que ‹je suis quije suis›”), la New International Reader’s Version 1995 e la The New International Version1984 (entrambe: “Then you will know that I am the one I claim to be”) con un riferimento piùesplicito a Es 3,14.

30 Per es. Dt 32,39; Is 41,4; 43,13; 46,4; 48,12: cfr. Barrett 1962, 282-283.

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Dunque l’evangelista avrebbe intenzionalmente richiamato Es 3,14,utilizzando una tipica Offenbarungsformel per affermare la divinità di Cristo. Nonentro nel merito di una complessa questione esegetica,31 ma la presunta relazionefra Gv 8,24.28 e Es 3,14 non può non apparire alquanto speciosa e comunquecondizionata da categorie appartenenti alla filosofia ellenica dell’essere.32 Da unpunto di vista narrativo, l’unico elemento che sembra legare Es 3,14 e Gv 8,25 èil fatto che in entrambi i casi la domanda dell’interlocutore è elusa: Gesù nonrivela la propria identità, così come Dio glissa sul proprio nome,33 assicurandoperaltro la sua vigile presenza. Non sarà inutile riportare qui la traduzione delpasso veterotestamentario fatta da Martin Buber e Franz Rosenzweig:

11Mosche sprach zu Gott:Wer bin ich,daß ich zu Pharao gehe,daß ich die Söhne Jisraels aus Ägypten führe!12Er aber sprach:Wohl, ich werde dasein bei dir,und dies hier ist das Zeichen, das ich selber dich schickte:hast du das Volk aus Ägypten geführt,an diesem Berg werdet ihr Gotte dienstbar.13Mosche sprach zu Gott:Da komme ich denn zu den Söhnen Jisraels,ich spreche zu ihnen: Der Gott eurer Väter schickt mich zu euch,sie werden zu mir sprechen: Was ists um seinen Namen? –was spreche ich dann zu ihnen?14Gott sprach zu Mosche:Ich werde dasein, als der ich dasein werde.34

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31 A tal riguardo si veda in particolare Zimmermann 1960 e Thyen 1992.32 Barr 1968, 349 ritiene improbabile che alla resa greca di Es 3,14 con ἐγώ εἰμι ὁ ὤν sia

sottesa una riflessione ontologica sulla base della metafisica greca, mentre Garbini 2011, 252-253 va ancora più in là, assegnando allo stesso autore di Esodo la volontà di dare alla religionedi Israele uno spessore filosofico di tipo ellenistico e collegare il tetragramma yhwh al verboessere (hayah) con una forzatura sul piano linguistico.

33 È noto che in ebraico il “nome” non si riduce ad una semplice etichetta identificativa,ma indica l’essenza stessa, dunque l’identità della persona.

34 Buber-Rosenzweig 1992, I, 157-158 (il corsivo è mio). Secondo tale lettura, alladomanda di Mosè “se mi diranno qual è il tuo nome, che cosa risponderò?”, Dio, riprendendoquanto aveva detto al v. 12 (“io sarò con te”), risponde: “Non preoccuparti, tu va’: io ci sarò,come sempre e nel modo che io vorrò”. Commenta ancora Buber 1964, 623-624: “Der Gottmacht somit keine theologische Aussage über seine Ewigkeit oder gar seine “Aseität”, sonderner spricht seiner Kreatur, seinem Menschen, seinem Volk den Zuspruch zu, dessen sie bedürfen[…]. Das erste ehje spricht einfach zu: Ich werde da sein (je und je bei meiner Schar, bei

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Appartiene del resto alla topica letteraria, soprattutto nell’Antico Testamento,il rifiuto di Dio di rivelare il proprio nome o la propria identità: emblematici aquesto riguardo i passi di Gen 32,30 e Gdc 13,18. Ed è probabile che l’evangelista,facendo ricorso a questa topica, intendesse proprio sottolineare la divinità delCristo.

5. La difficoltà del passo giovanneo, come spesso accade, ha determinato nelleVeteres Latinae (VL) e nella stessa Vulgata (Vulg) una resa pedissequa del modello,dando l’avvio a una interpretazione originale e del tutto staccata dal testo greco:

VL:35

τὴν ἀρχὴν ὅτι καὶ λαλῶ ὑμῖνprincipium quod et loquor vobis

principium] f ff2 l q e | initium a aur c d j r1 | in primis b || quod] plerique | qui e | quiab | quoniam d || et] aur c d e j f ff2 l q | om. a b | propter lacunam deest in r1 || vobis]plerique | vobiscum b r1.

Vulg:36

principium quia et loquor vobis

quia] plerique | quod MPG | qui Φ c Merk.

La procedura di una traduzione meccanica di passi biblici oscuri con larinuncia a qualsiasi tentativo di interpretazione è ben documentata: si tenga contoche nel caso delle Veteres Latinae i traduttori erano spesso sprovvisti di adeguatistrumenti traduttorii ed esegetici,37 sì che nei casi problematici si limitavano auna vera e propria traduzione interlineare, lasciando l’interpretazione delleScritture a quanti ritenevano dotati di uno speciale carisma. D’altra parte la fedeltà

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meinem Volk, bei euch) […]; und das folgende ascher ehje nach allen Parallelen nur bedeutet:als welcher immer ich dasein werde, als der ich je und je dasein werde, d.h. so wie ich je undje werde erscheinen wollen, ich selber nehme meine Erscheinungsformen nicht vorweg”. Sutale interpretazione si leggano le interessanti osservazioni di Vinci 2008, 321-324.

35 Jülicher 1963, a cui si rimanda per il conspectus siglorum dei manoscritti riportati inapparato.

36 Weber 19833, a cui parimenti si rimanda per le sigle dei manoscritti.37 Sul fatto che spesso si trattasse di traduttori improvvisati cfr. Aug. doctr. 2,11,16 ut enim

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all’originale era dovuta alla consapevolezza del traduttore di aver davanti a sé untesto sacro, di cui, per dirla con Girolamo, et uerborum ordo mysterium est38 edove singula nomina habent singula sacramenta:39 in altre parole, ogni dettagliodel testo biblico, compresa la Wortstellung, racchiudeva un mistero che nessunalibertà traduttoria avrebbe dovuto sacrificare e nessun azzardo interpretativoavrebbe rischiato di tradire.40

Non molto diversa è la logica sottesa alla Vulgata geronimiana del NuovoTestamento, dal momento che, almeno per quanto riguarda i Vangeli, loStridonense si limitò a ritoccare qua e là un testo che gli si presentava ormaicollaudato e consacrato dall’uso, sia liturgico sia esegetico, senza procedere aduna versione ex novo come aveva fatto per l’Antico Testamento. Ecco perché latradizione testuale della Vulgata si interseca e si confonde così spesso con quelladelle Veteres Latinae da apparire come tessuto delle stesse maglie di un’unicarete.

Nel caso di Gv 8,25 la tradizione del testo si presenta infatti sostanzialmentecompatta, se si escludono poche varianti, alcune abbastanza scontate (quod, quia,quoniam) e altre piuttosto indipendenti (in primis, qui) che tradiscono il tentativodi un aggiustamento, operato forse sulla scorta di una tradizione meno testuale cheesegetica.

Non sorprende che la comprensione di un passo così oscuro abbia dovuto farricorso ad un’esegesi anagogica che, una volta preso il volo, avrebbe cominciatoa vivere di una vita propria, completamente avulsa dal testo originale. È unprocedimento che si constata di frequente, soprattutto quando il testo per la suaoggettiva difficoltà sfugge a una interpretazione letterale: un intero libro dellaBibbia, il Cantico dei Cantici, reso oscuro dalle molte traversie della suatradizione, ha potuto consentire un approccio esegetico di tipo esclusivamenteallegorico.41

Sotto questa prospettiva, la versione latina del nostro passo ha offerto, rispettoal greco, una chiave interpretativa in più. Infatti il sostantivo neutro principium,impiegato per rendere τὴν ἀρχήν, poteva essere inteso tanto come accusativo,quanto come nominativo, trasformando la non-riposta di Gesù in una riposta pienae pregnante dal punto di vista teologico:

158 ANTONIO PIRAS

cuique primis fidei temporibus in manus uenit codex Graecus et aliquantum facultatis sibiutriusque linguae habere uidebatur, ausus est interpretari.

38 Hier. epist. 57,7.39 Hier. tract. in psalm. 82,42-43.40 Per questi aspetti si veda in generale Piras 2013, 315-317.41 Cfr. Garbini 1989.

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Dicebant ergo ei: Tu quis es?Dixit eis Iesus: Principium quod (qui) et loquor vobis.

Gli dicevano dunque: Tu chi sei?Gesù rispose: il Principio che vi parla.

Una simile interpretazione è evidentemente del tutto slegata dal testo greco,dove l’accusativo τὴν ἀρχήν, comunque lo si voglia intendere, non potrebbe inalcun modo essere considerato un predicativo riferito al soggetto, ossia a Gesù;al contrario, l’ambivalenza dei casi diretti del neutro latino spalancava la porta auna simile, seppur ardita, soluzione interpretativa. A tal fine non mancavano isupporti scritturistici: passi neotestamentari palesemente cristologici come Col1,18 ὅς (scil. Χριστός) ἐστιν ἀρχή e Apc 1,8 ἐγώ εἰμι τὸ ἄλφα καὶ τὸ ὦ, ἀρχὴ καὶτέλος (cfr. 31,6) oppure veterotestamentari cristologicamente interpretati comePr 8,22 κύριος ἔκτισέν με ἀρχὴν ὁδῶν αὐτοῦ εἰς τὰ ἔργα αὐτοῦ, fornivano unsolido supporto anche all’esegesi di Gv 8,25.

La concezione di Cristo come ἀρχή, forse di matrice giudeocristiana,42 maalimentata senza dubbio da categorie platoniche che suggerivano di vedere nelLogos il modello universale delle cose create, è già presente nell’apologetica grecadel II secolo, in particolare in Giustino,43 Taziano44 e Teofilo di Antiochia.45

Qualche decennio più tardi ad Alessandria Clemente cerca di argomentare sullabase di Os 2,1-2 che “il Figlio è ἀρχή”46 e Origene nella sua prima Omelia sullaGenesi mette in relazione Gen 1,1 con Gv 1,1, che lo riecheggia, e spiega:

In principio fecit Deus caelum et terram (Gen 1,1). Quod est omnium principium nisidominus noster et saluator omnium, Iesus Christus, primogenitus omnis creaturae (Col1,15)? In hoc ergo principio, hoc est in Verbo suo, Deus caelum et terram fecit, sicutet euangelista Iohannes in initio euangelii sui ait dicens: In principio erat Verbum, etVerbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum.Omnia per ipsum facta sunt et sine ipso factum est nihil (Gv 1,1-3). Non ergo hictemporale aliquod principium dicit, sed in principio, id est in saluatore factum essedicit caelum et terram et omnia quae facta sunt.47

ANASTODEINS, ÞATEI JAH RODJA DU IZWIS 159

42 Daniélou 1974, 277-280.43 Dial. 61,1 e 62,4.44 Ad Graecos 5: “l’ἀρχή è la potenza del Logos”.45 Autol. 2,10: “Dio ebbe il suo Verbo come esecutore di tutte le sue opere e per mezzo di

lui ha fatto tutto. Si chiama ἀρχή, perché è il principio e il Signore di tutto ciò che è statocreato per mezzo suo”.

46 Ecl. proph. 4,1; cfr. strom. 6,7,58.47 Hom. in Gen. 1,1 (SC 7bis p. 24 Doutreleau); cfr. anche comm. in Ioh. 1,19 (GCS 10/4

p. 23 Preuschen): “Egli (scil. Cristo) è chiamato ἀρχή in quanto Sapienza”. Sull’esegesiorigeniana del primo versetto di Genesi cfr. Nautin 1973, 89-90.

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In principio Dio creò il cielo e la terra. Qual è il principio di tutto se non il nostroSignore e Salvatore di tutti, Gesù Cristo, il primogenito di tutta la creazione? Dunquein questo principio, cioè nel suo Verbo, Dio creò il cielo e la terra, come dice anchel’evangelista Giovanni all’inizio del suo vangelo: In principio era il Verbo, e il Verboera presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio. Tutto è statofatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto. Qui dunque non parla di unqualche principio cronologico, ma dice che nel principio, cioè nel Salvatore è statofatto il cielo e la terra e tutto ciò che esiste.

Più tardi, sulla scorta di queste riflessioni, Girolamo, riferendosi ad Aristonedi Pella, poté scrivere che in ebraico il primo versetto di Genesi suona: in filioDeus fecit caelum et terram.48

Riflessioni non molto diverse in riferimento al Messia si riscontrano nellaletteratura rabbinica dei primi secoli, soprattutto nei midrashim, ciò che sembraconfermare l’origine giudeocristiana di questo tipo di esegesi. Ad esempio nelmidrash all’Esodo, detto Shemot Rabbah, si dice che “anche il Messia è chiamato

(Primo o Principio)”.49

Col conforto di tali riflessioni cristologiche, le versioni latine di Gv 8,25 hannodato l’avvio ad una vera e propria corrente esegetica, che si manifesta come ormaicompiuta in Ambrogio di Milano e che si snoda fino a Tommaso d’Aquino eoltre.50 Si tratta di una corrente esegetica tipicamente occidentale, giacché solo laresa latina del versetto giovanneo poteva fornirle, attraverso l’ambiguità sintatticadel neutro principium, una giustificazione anche linguistica.

Ambrogio di Milano sembra essere il primo che abbia insistito su tale letturadi Gv 8,25, conferendole così autorità e fortuna. Nell’Esamerone, commentandola prima giornata della creazione, parla in riferimento a Cristo di un “principiomistico” e, sulla scorta di Origene, aggancia a Gv 8,25 i tre passi biblici crucialidi Apc 1,8, Gen 1,1 e Gv 1,3:

Est etiam initium mysticum, ut illud est, Ego sum primus et nouissimus, initium et finis(Apc 1,8). Et illud in Euangelio praecipue, quod, interrogatus Dominus quis esset,respondit: Initium, quod et loquor uobis. Qui uere et secundum diuinitatem est initiumomnium, quia nemo ante ipsum; et finis, quia nemo ultra ipsum […]. In hoc ergoprincipio, id est in Christo, fecit Deus caelum et terram (Gen 1,1), quia per ipsumomnia facta sunt, et sine ipso factum est nihil quod factum est (Gv 1,3).51

160 ANTONIO PIRAS

48 Quaest. in Gen. 1,1 (PL 23,937).49 Shemot Rabbah 15,1; cfr. Wünsche 1882, 395; Black 1967, 236-237.50 L’edizione del 2003 della Biblia castilian di Serafín de Ausejo traduce ancora

sorprendentemente: “Preguntábanle, pues: “¿Y quién eres tú?”. Jesús les contestó: “Elprincipio, el que ahora os está hablando”.

51 Hex. 1,4,15 (CSEL 32/1 p. 13 Schenkl).

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Ma c’è anche un principio mistico, ad esempio quello di cui si dice: Io sono il Primoe l’Ultimo, il Principio e la Fine, e, soprattutto, quello dell’episodio evangelico, quandoil Signore, interrogato chi mai egli fosse, rispose: Sono il Principio che vi parlo. Edegli, secondo la divinità, è veramente il principio di tutte le cose, poiché nessuno esisteprima di lui; ed è la fine, perché nessuno è dopo di lui […]. In questo principio, cioèin Cristo, Dio creò il cielo e la terra, perché Tutto fu fatto per mezzo di lui e senza dilui nulla fu fatto di ciò che è stato fatto.

Un’analoga considerazione era stata già fatta poche pagine prima a commentodi Gen 1,1 in Hex. 1,2,5.

Su Gv 8,25 Ambrogio ritorna ancora nel De fide, terminato intorno al 380,dove in prospettiva antiariana affronta il problema delle due nature del Cristo:dopo averne fatto cenno in 3,7,49, definendo il Cristo omnium principium conriferimento a Col 1,18, vi insiste ancora più chiaramente in 5,10,121:

Quid est ergo: Non credit in me? (Gv 12,44) Non in id quod corporaliter cernitis, nonin hominem tantummodo, quem uidetis: non enim in hominem tantummodocredendum asseruit, sed ut credas quia Iesus Christus ipse est Dei filius et homo.Propter quod et utrumque ait: A meipso non ueni (Gv 7,28), et alibi: Ego sumprincipium quod et loquor uobis. Quasi homo, a se non uenit; quasi Dei filius non exhomine principium habet, sed Sum, inquit ipse, principium quod et loquor uobis.

Che cosa significa dunque: Non crede in me? Non in ciò che percepite fisicamente,non nell’uomo soltanto che vedete: non disse infatti che bisogna credere solamentenell’uomo, ma di credere che Gesù Cristo è egli stesso figlio di Dio e uomo. Per questodisse: Non sono venuto da me stesso, e altrove: Io sono il principio che vi parlo. Inquanto uomo, non è venuto da sé stesso; in quanto figlio di Dio non ha principio da unuomo, ma Io sono, disse, il principio che vi parlo.

Si noti come Ambrogio per rendere più esplicita la sua esegesi ampli lacitazione completando l’ellissi della frase: Ego sum principium quod et loquoruobis.52

Tra IV e V secolo l’esegesi cristologica del passo giovanneo conosce una certafortuna: la ritroviamo in Apponio, di ambiente romano e autore di una Expositioin Canticum Canticorum, databile fra il 405 e il 415. Al pari di Ambrogio e sottol’evidente influsso di Origene, egli in un contesto trinitario aggancia Gv 8,25 aGen 1,1 e Gv 1,1:

ANASTODEINS, ÞATEI JAH RODJA DU IZWIS 161

52 La citazione giovannea occorre anche in in Luc. 10,112 nella forma principium, qui etloquor uobis che si affianca a quelle dell’Esamerone (initium, quod et loquor uobis) e del Defide (principium, quod et loquor uobis), segno di una situazione ancora fluttuante delle versionilatine.

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Dixit Deus per Moysen in primo libro Geneseos: In principio fecit Deus caelum etterram (Gen 1,1). […] Harum autem trium personarum unitas omnifariam in nouotestamento per beatum Iohannem euangelistam, per Verbi uocabulum luce clariusmanifestatur, dicendo: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deuserat Verbum (Gv 1,1). Patrem autem in Filio omnia fecisse, ipse Filius approbauit qui,interrogatus a Iudaeis: Tu quis es? respondit se esse Principium, in quo beatus Moysescaelum et terram facta testatur, dicendo: Principium, quod et loquor uobis.53

Dio disse per mezzo di Mosè nel primo libro della Genesi: In principio Dio creò ilcielo e la terra. […] L’unità di queste tre persone emerge con tutta evidenza dovunquenel Nuovo Testamento attraverso le parole dell’evangelista Giovanni, attraverso laParola stessa: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.Che il Padre avesse creato tutto nel Figlio, lo dichiarò il Figlio stesso, quando alladomanda dei Giudei: Tu chi sei? rispose di essere il Principio nel quale Mosè attestache fu creato il cielo e la terra, dicendo: Il Principio che vi parlo.

Ma è stato soprattutto Agostino a offrire un’esegesi del passo giovanneo ampiae dettagliata e a lasciarla in eredità alle età successive. L’omelia 38 del Commentoa Giovanni è interamente dedicata al nostro versetto e l’Ipponate vi dà prova dellasua profondità speculativa e della sua fine abilità di analisi del testo, corredata diosservazioni psicologiche e linguistiche. Nell’interpretazione del passo introduceuna novità, costituita dal riferimento a Es 3,14, mentre lascia da parte il consuetorichiamo a Gen 1,1 e a Gv 1,1:

Tamen hoc attende quod ait Dominus Christus: Si non credideritis quia ego sum,moriemini in peccatis uestris. Quid est: Si non credideritis quia ego sum? Ego sum,quid? Nihil addidit; et quia nihil addidit, multum est quod commendauit. Exspectabaturenim ut diceret quid esset, nec tamen dixit. Quid exspectabatur ut diceret? Forte: Nisicredideritis quia ego sum Christus; nisi credideritis quia ego sum Dei Filius. […]Multum est quod ait ipsum: Ego sum: quia sic dixerat et Deus Moysi: Ego sum quisum. Quis digne eloquatur quid sit, sum?54

Bada tuttavia a ciò che dice Cristo Signore: Se voi non credete che io sono, morrete neivostri peccati. Che significa se non credete che io sono? Io sono che cosa? Non haaggiunto nulla; e siccome non ha aggiunto nulla, è molto ciò che ha voluto richiamare.Ci si aspettava che dicesse che cosa egli era e non l’ha detto. Che cosa ci si aspettavache dicesse? Forse: Se non credete che io sono il Cristo; oppure se non credete che iosono il Figlio di Dio? […] Io sono è un’affermazione molto significativa; così infattiDio aveva detto a Mosè: Io sono colui che sono. Chi potrà adeguatamente spiegareche cosa significa sono?

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53 In Ct. 6,28-29 (CCL 19 pp. 149-150 de Vregille-Neyrand).54 Comm. in Ioh. 38,8. Il testo latino e la traduzione italiana che abbiamo utilizzato sono

quelli della Nuova Biblioteca Agostiniana (vol. XXIV, Città Nuova, Roma 1968).

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Poco oltre nello spiegare che Cristo è il Principio e che tale è il senso dellarisposta data ai farisei ci fornisce qualche informazione di carattere linguistico.Agostino, attento interprete della Scrittura conosceva il greco, che da ragazzoaveva dovuto imparare suo malgrado a suon di busse,55 e non poteva certamentenon notare l’oscurità del testo greco di Gv 8,25 e l’ambiguità della versione latina.Dopo aver dunque sottolineato la differenza di genere tra il greco ἀρχή e il latinoprincipium, nell’intento di superare l’incoerenza dei due testi ricorre a unescamotage sintattico che, a suo dire, darebbe maggior profondità alla risposta diGesù, ma che alla fine non convince per la sua stessa macchinosità.

Egli insomma ritiene che l’accusativo τὴν ἀρχήν sia da considerare comecomplemento oggetto di un (sottinteso) imperativo πιστεύετε desumibile dalversetto precedente (8,24b ἐὰν γὰρ μὴ πιστεύσητε ὅτι ἐγώ εἰμι). Il dialogo dunquedovrebbe essere inteso in questo modo:

— Ἐὰν γὰρ μὴ πιστεύσητε ὅτι ἐγώ εἰμι, ἀποθανεῖσθε ἐν ταῖς ἁμαρτίαις ὑμῶν.— Σὺ τίς εἶ;— Πιστεύετέ με τὴν ἀρχήν, ὅτι καὶ λαλῶ ὑμῖν.

Della effettiva bontà di tale artificio non è possibile non pensare che perfinoAgostino, mente straordinariamente lucida e acuta, fosse talvolta indotto adubitare:

Et illi semper terrena sapientes et semper secundum carnem audientes et respondentes,quid ei dixerunt? Tu quis es? Non enim cum dixisti: Nisi credideritis quia ego sum,addidisti quid esses. Quis es, ut credamus? Et ille: Principium. Ecce quod est esse.[…] Principium, ait, quia et loquor uobis. Principium me credite, ne moriamini inpeccatis uestris. Tamquam enim in eo quod dixerunt: Tu quis es? nihil aliud dixerintquam: Quid te esse credimus? respondit: Principium; id est: Principium me credite. InGraeco namque eloquio discernitur, quod non potest in Latino. Apud Graecos enimfeminini generis est principium, sicut apud nos lex generis feminini est, quae apudillos est masculini: sicut sapientia et apud nos et apud illos generis feminini est.Consuetudo locutionis ideo per diuersas linguas uariat genera uocabulorum, quia inipsis rebus non inuenis sexum. […] Cum ergo dicerent Iudaei: Tu quis es? ille quisciebat esse ibi quosdam credituros, et ideo dixisse: Tu quis es? ut scirent quid illum

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55 Cfr. conf. 1,14. La conoscenza del greco da parte di Agostino è discussa; mi pare peraltroeccessiva l’opinione di Pincherle 1930, 12, secondo cui “il greco imparato da Agostino sirestrinse a ben poco, forse a poco più che i primi elementi della grammatica”. Più equilibratala posizione di Chadwick 1989, 9, il quale ritiene che l’Ipponate “fu presto in grado di leggerei libri greci che gli servivano; nella maturità tradusse con competenza, per suo uso e consumo,testi filosofici molto tecnici. Però non si sognò mai di acquisire una concoscenza approfonditadi Omero e della letteratura greca, come molti aristocratici romani del suo tempo”.

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credere deberent, respondit: Principium: non tamquam diceret: Principium sum; sedtamquam diceret: Principium me credite. […] Et addidit, quia et loquor uobis: id est,quia humilis propter uos factus, ad ista uerba descendi.56

E quelli che sempre si fermavano alle cose della terra e sempre ascoltavano erispondevano secondo la carne, cosa gli dissero? Tu chi sei? Dicendo infatti Se noncredete che io sono, non hai aggiunto chi sei. Devi dirci chi sei, se vuoi che crediamo.Egli rispose: Il Principio. Ecco cos’è l’essere. […] Io sono – dice – il Principio cheanche parlo a voi. Credete che io sono il Principio, se non volete morire nei vostripeccati. Come se con quella domanda Tu chi sei?, gli avessero chiesto: chi dobbiamocredere che sei? Egli rispose: Il Principio; cioè credetemi il Principio. Il testo greco èpiù chiaro di quello latino. Presso i greci infatti “principio” è di genere femminile,come presso di noi è di genere femminile la legge, che invece presso di loro è di generemaschile; sapienza invece è di genere femminile tanto presso di noi che presso di loro.Il modo di esprimersi cambia in ciascuna lingua, perché le cose non hanno sesso. […]Quando dunque i Giudei gli chiesero Tu chi sei?, egli che sapeva che tra quelli c’eranoalcuni che avrebbero creduto e che gli avevano chiesto Tu chi sei? appunto per sapereche cosa dovevano credere di lui, egli rispose: il Principio; non nel senso: Io sono ilPrincipio, bensì: Credetemi il Principio. […] E aggiunse: che anche parlo a voi; cioè,che umiliandomi per voi, mi sono abbassato fino ad usare il vostro linguaggio.

Agostino riprende in altre opere il passo giovanneo in maniera cursoria con unriferimento più tradizionale ora a Gv 1,1-3,57 ora a Gen 1,1.58

Dal V secolo in poi, soprattutto grazie all’autorità di Ambrogio e di Agostino,i riferimenti a Gv 8,25 e alla sua esegesi ormai codificata si fanno vieppiùfrequenti: ne ritroviamo le tracce dal Contra Varimadum dello Pseudo-Vigilio diTapso59 alle Solutiones diuersarum quaestionum dello Pseudo-Agostino,60

entrambi di area africana, da Fulgenzio di Ruspe61 a Verecondo di Iunca,62 daFausto di Riez63 fino a Beda.64 Si arriva quindi, attraverso la letteratura

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56 Comm. in Ioh. 38,11.57 Per es. epist. 149,25, della fine del 415, dova la forma del passo è principium, qui et

loquor uobis, e c. Maximin. 2,174 (CCL 87A p. 608 Hombert).58 Per es. Gen. ad litt. 3 (CSEL 28,1 p. 461).59 1,12,1 (CCL 90 p. 25 Schwank).60 10,10 e 60,17 (= Ambr. fid. 5,10,120-122) (CCL 90 pp. 158-159 e 198 Schwank).61 Ad Tras. 2,5,2-3 e c. Fab. frg. 24,4, entrambi con riferimento ad Apc 1,8 (CCL 91 pp.

124-125 e 91A pp. 800-801 Fraipont).62 In cant. Habacuc 13,23 (CCL 93 p. 138 Demeulenaere): ego sum principium, quod et

loquor uobis; il versetto, attraverso Apc 1,8 (e 31,6), è utilizzato in funzione del tema delmysterium lunae, su cui cfr. Rahner 1995, 145-287.

63 Spir. 1,4 ego sum principium, quod et loquor uobis (CSEL 21 p. 106 Engelbrecht); epist.3 (CSEL 21 p. 170, 20-21 Engelbrecht), entrambi con allusione ad Apc 1,8 (e 31,6).

64 In Gen. 1,1,1 (CCL 118A p. 3 Jones), naturalmente in riferimento a Gen 1,1; temp. rat.40,15 (CCL 123B p. 405 Jones).

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mediolatina, a Tommaso d’Aquino, che, col modo di argomentare e laterminologia tipici della scolastica, riprende, includendovi anche le considerazionilinguistiche, l’omelia 38 del Commento a Giovanni dell’Ipponate.65

6. Come si è visto, abbiamo a che fare con una tradizione esegetica abbastanzadocumentata, ma circoscritta in area esclusivamente occidentale, che ha potutoprender l’avvio e alimentarsi grazie alla traduzione latina del difficile passogiovanneo.

Un’unica, isolata coincidenza con la traduzione latina si riscontra nellaversione etiopica che, omettendo ὅτι, legge qÇR±: ¯’a©−P, “(io sono) ilPrimo e ho parlato a voi”.66 Trattandosi di un testo misto che, sulla base di unoriginale greco o siriaco, mostra tracce di contaminazioni successive dalle versionicopte e araba,67 si può in questo caso pensare ad un’elaborazione indipendente.

Ciò che invece ci pare di straordinario interesse è la perfetta consonanza dellaversione gotica con la tradizione latina:

þaruh qeþun du imma: þu ƕas is?jah qaþ du im Iesus: Anastodeins, þatei jah rodja du izwis.68

In questa sede non si potrà che fare un rapido accenno alla complessa questionedella Vorlage della Bibbia gotica, per la quale rimandiamo soprattutto agli studispecifici di Carla Falluomini.69 La versione gotica dipende chiaramente dal grecoe i più recenti studi sono orientati a riconoscervi il testimone indiretto piùsignificativo del testo bizantino che noi troviamo in forma compiuta solo a partiredall’VIII-IX secolo nei manoscritti in minuscola.

Una questione nella questione è costituita dalle lezioni ‘occidentali’ che il testogotico ha in comune con le Veteres lLatinae e con i Padri latini. La presenza di talilezioni è stata spiegata in vario modo.

L’opinione oggi più accreditata è che le lezioni “occidentali”, che divergonodal tipo-base bizantino, vadano considerate lezioni antiche che circolavano in

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65 Super Ioh. 8,1,3.66 L’edizione utilizzata è quella di Wechsler 2005; cfr. anche Metzger 1994, 191. Si noti

che lo stesso termine quădāmāwī, “primo, principio” è impiegato in 1Gv 2,13 per tradurre ὁἀπ’ ἀρχῆς: cfr. Dillmann 1865, 464. Il Wechsler riporta tuttavia in apparato la variante ʾsămăʾănă năbārkūkĕmū quĕdĕmă, “ciò che io vi ho detto prima”, che è senz’altro più vicina algreco.

67 Cfr. Metzger 1996, 88-89.68 L’edizione di riferimento è Streitberg 20007; un’edizione sinottica del solo vangelo di

Giovanni basata sul codex Argenteus è in Francini 2009.69 Si veda soprattutto Falluomini 2008, Falluomini 2010 e Falluomini 2015.

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ambiente costantinopolitano prima di essere sostituite dalle lezioni bizantine.Dunque, le caratteristiche ‘occidentali’ della bibbia gotica si spiegherebberodirettamente attraverso il modello greco utilizzato,70 vale a dire un tipo‘occidentale’ primitivo, rintracciabile in certe versioni orientali, in alcuni Padrigreci e in qualche manoscritto greco.

A tal riguardo, già Jülicher71 sostenne che tutte le varianti ‘occidentali’ delgotico si riscontrerebbero di fatto nei testimoni greci del tipo ‘occidentale’ e nellerelative versioni; e anche von Soden72 credeva che le varianti comuni al gotico eal latino fossero presenti nel Codex Bezae, considerato il principale rappresentantedi quel tipo testuale. Ipotesi verisimili, se non fosse che proprio Gv 8,25 sembrasmentirle o perlomeno ridurne la portata, dal momento che la lezione del codexBezae (τὴν ἀρχὴν ὅτι καὶ λαλῶ ὑμῖν ) non è in grado di spiegare direttamente iltesto gotico.73

Ma non mancano altre opinioni, non meno ragionevoli. Si è pensato, da unlato, che Vulfila abbia utilizzato per la sua traduzione, accanto al modello greco,anche uno o più manoscritti latini.74 La consuetudine di collazionare diversitestimoni nell’attività di traduzione e trasmissione dei testi è del resto bendocumentata e le fonti ci informano che Vulfila, operante in un’area geografica acavallo tra le due partes imperii, conoscesse, oltre al gotico e al greco, anche illatino.75 Dal lavoro dell’équipe per la nuova edizione critica della Bibbia goticaemerge con sempre maggior evidenza la consonanza tra il testo gotico e le versionilatine pregeronimiane, rappresentate in particolare dai codici Brixianus (f),Monacensis (q) e Corbeiensis (ff2).

D’altro lato, non si esclude che la contaminazione con la versione latina siaavvenuta in una fase successiva, allorché la bibbia gotica arrivò in Occidente nelV secolo al seguito dei Goti, favorita magari dalla circolazione di manoscrittibilingui, che alla versione gotica della bibbia affiancavano quella latina.76

Comunque stiano le cose, nel nostro caso è innegabile che per la resa di Gv8,25 il traduttore goto abbia avuto presente il testo latino. Conformemente aicriteri di estrema fedeltà al modello e di sostanziale uniformità adottati per la

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70 Cfr. Gryson 1990, 27-31.71 Jülicher 1910, 379.72 Von Soden I, 2 470.73 Scrivener 1864, 120.74 Lietzmann 1919, 276-277; Falluomini 2006, 5.75 Cfr. Scholia in concilium Aquileiense 33 f. 305v (CCL 87 p. 163 Gryson).76 Questa fu già l’opinione di Kauffmann 1919 e Kauffmann 1922; sui problemi connessi

ai bilingui veda Dolcetti Corazza 2004, 36-39.

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versione, Vulfila traduce il passo in modo quasi meccanico.77 Imbarazzatoprobabilmente dalla scarsa intelligibilità del testo greco, deve essersi affidato aqualche manoscritto latino che aveva sott’occhio e alla relativa tradizioneesegetica che in area occidentale abbiamo visto essere ampiamente diffusa,almeno a partire da Ambrogio di Milano che del vescovo goto era praticamentecontemporaneo. Le tradizioni esegetiche hanno del resto sempre fornito unagevole supporto ai traduttori nel caso di passi problematici, come l’esperienzageronimiana ci insegna.

Se infatti il traduttore si fosse basato esclusivamente sul modello greco, nonavrebbe potuto fare a meno di tradurre alla lettera *þo anastodein, þatei jah rodjadu izwis, una soluzione di scarsa intelligibilità. Avrebbe forse anche potutotradurre, un po’ più liberamente, *fram anastodeinai þatei jah rodja du izwis; mase scrittori del calibro di Giovanni Crisostomo o di Cirillo di Alessandria nonriuscirono a dissimulare il proprio disagio dinanzi al difficile passo giovanneo, èlecito dubitare che Vulfila, che certamente non poté neppure disporre dei lorocommenti per ragioni cronologiche, arrivasse ad elaborare, vincolato com’era almodello greco, una soluzione traduttoria così nitida.

Invece l’impiego del nominativo anastodeins in corrispondenzadell’accusativo greco si rivela la prova più certa del ricorso ad un testo latino e allatradizione esegetica che vi era sottesa. Non si tratta dunque di un “Mißverständnisdes Übersetzers”, come annotava Streitberg,78 ma di una ben precisa sceltatraduttoria.

Si potrebbe pensare, come è stato spesso ipotizzato, che il testo gotico sia statoadeguato successivamente, intorno al V secolo, alla bibbia latina, quando la Bibbiadi Vulfila fu portata in Occidente dai Goti e dalle altre popolazioni germaniche chene facevano uso. Bisogna tuttavia considerare che la Bibbia gotica non ebbesoltanto una funzione catechetica o liturgica: si deve infatti “presumerel‘intenzione da parte delle istituzioni – ecclesiastiche e politiche – gotiche dipreservare la traduzione di Vulfila da revisioni che ne alterassero la formaoriginaria, in considerazione della valenza simbolica della Bibbia gotica, un testoconsacrato dalla tradizione, che contribuiva ad enfatizzare l’identità religiosa edetnica dell’elite al potere e a legittimare la stessa Chiesa dei Goti”.79

Ma all’ipotesi di una revisione operata in età successiva, almeno relativamenteal nostro passo, si oppone non soltanto un motivo ideologico; ve n’è infatti ancheuno teologico di non minore peso. Infatti, un ritocco del testo di Gv 8,25 che

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77 Cfr. Dolcetti Corazza 2004, 44-45.78 Streitberg 20007, 42.79 Falluomini 2010; si veda anche Dolcetti Corazza 2004, 41.

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finisca per presentare Cristo come anastodeins, come ἀρχή nel senso indicato daOrigene e da altri, presupporrebbe l’adesione alla dottrina della consostanzialitàdel Figlio col Padre, che è del tutto incompatibile con la cristologia ariana,soprattutto con quella del V secolo che, ancora a salvaguardia di un’identitàpolitica e religiosa, riproponeva gli aspetti più radicali dell’arianesimo.80

Dinanzi a Gv 8,25 Vulfila si trovò a un bivio: o tradurre meccanicamente dalgreco col risultato di avere un gotico incomprensibile, oppure seguire il testo delleVeteres Latinae col rischio di avere una traduzione che avrebbe potuto fornire undictum probans contro la dottrina ariana da lui stesso professata.81 Scelse laseconda via, tecnicamente meno malagevole e tutto sommato più conforme alcriterio di fedeltà al testo originale da lui seguito. In realtà, a parte il fatto che ilvescovo goto seppe sempre sfuggire alla tentazione di manipolare la propriaversione a fini settari, come dimostra chiaramente il caso di Gv 10,30, dove l’usoricercato del duale sa più di niceno che di omeano,82 agli ariani della prima ora nonfaceva difficoltà indicare il Figlio come principium: non però nel sensodell’esegesi platonizzante di Gen 1,1 che egli fosse il modello eterno e universaledelle cose create, ma nel senso che fosse la prima e più sublime creatura del Padre,fatta per operare la creazione del mondo e principio stesso della storia, secondol’esegesi tipicamente ariana di Pr 8,22 κύριος ἔκτισέν με ἀρχὴν ὁδῶν αὐτοῦ εἰςἔργα αὐτοῦ. Ma che per gli ariani l’ἀρχή, il principium ontologico e cronologicodel Figlio sia il Padre è e resta il fondamento di quel subordinazionismo che ècaratteristico della loro dottrina.83

Ecco perché ha senso che sia stato Vulfila in persona a tradurre in quel modoil passo giovanneo, laddove ne avrebbe molto meno, anzi sarebbe assurdo se aritoccarlo fossero stati i tardivi e radicali seguaci dell’arianesimo. E questi, se nonosarono alterare la traduzione di un passo che, quantunque stridesse col loro credo,era ormai consacrato dall’auctoritas dell’apostolo delle genti gote, dovetteroperlomeno orientarne l’esegesi in senso ariano ogni qual volta venisse citato. Èquel che accade nelle poche occorrenze di Gv 8,25 presenti nella superstiteletteratura ariana latina, che tra l’altro sembrano confermare ancora una volta laconsonanza del testo gotico con quello latino.

Negli Scholia Arriana in concilium Aquileiense, conservati in un manoscrittoparigino,84 che contengono osservazioni marginali di parte ariana sul Concilio diAquileia del 381 e in particolare sul dibattito tra l’ariano Massimino e Ambrogio,

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80 Si veda quanto scrive Simonetti in Quasten III, 97-104; cfr. inoltre Vian 1995.81 Sull’arianesimo di Vulfila si veda Simonetti 1976.82 Cfr. Piras 2007, 44.83 Cfr. Simonetti in Quasten III, 100.

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la citazione di Gv 8,25 principium quod et loquor uobis viene agganciata a Gv 1,1in principio erat uerbum con la precisazione che Cristo è sì principium, ma nelsenso che egli rappresenta l’inizio stesso della creazione.85 In un modo analogo,ma più chiaro, la stessa citazione si ritrova in uno dei frammenti dell’Expositio inLucam, conservato in un manoscritto ambrosiano.86 Nel commentare Lc 1,33 essa,che si presenta nella forma disambiguata ego principium, quod et loquor uobis, èinserita in un collage di altre citazioni (Gv 1,1; Sal 109,3, Pr 8,22, Apc 1,9) ed èspiegata nel senso che il Figlio, in quanto creato dal Padre, habet principium erappresenta l’initium in genitura, ossia il πρωτότοκος πάσης κτίσεως (Col 1,15).87

Queste pur tardive testimonianze, risalenti alla fine del IV secolo o ai primidecenni del V e dunque contemporanee a Cirillo di Alessandria e a Nonno diPanopoli, attestano che la lettura “occidentale” del passo giovanneo era accettatasenza riserve anche dai Goti di area latina, fornendo così una riprova del fatto cheessa era in perfetta consonanza con la scelta traduttoria di Vulfila.

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84 Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 8907.85 Scholia in concilium Aquileiense 13 f. 301r (CCL 87 p. 154 Gryson).86 Milano, Biblioteca Ambrosiana, C 73 inf.87 Expositio in Lucam 1,33 f. 29r-29v (CCL 87 p. 206 Gryson).

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