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Alessandro Ceci - Il Doppio Standard

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Una proposta di riforma del meccanismo elettorale.È come se il nucleo centrale del sistema politico italiano si fosse fermato e lampi e fuochi magnetici si fossero scatenati sulla nostra socialità e sulla nostra civiltà. I leader che si sono succeduti negli anni seguenti il crollo del 1993, non hanno mai cambiato Repubblica perché si sono impegnati, volendola vedere positivamente, ad arginare le falle e a spegnere le fiamme.

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Una proposta di riforma del meccanismo elettorale

il doppio standard

alessandro ceci

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Glocal BookGlocal University Network

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Distributed under license Creative CommonsPrima Edizione, Novembre 2011

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Editoriale

Da anni parliamo della comunicazione e di una società costruita attorno alla comunicazione.

“In pochi vivono dentro la comunicazione.”

Vivere dentro la comunicazione significa pensare per connessioni, imparare dai problemi, sviluppare e formalizzare il pensiero. Vivere nella comunicazione significa avere un progetto didascalico.

Nel corso degli ultimi anni lo sviluppo dell’informatica e della telematica ha aperto una nuova dimensione alla comunicazione visiva e alla fruizione dei testi: quella dell’interazione cibernetica mediata da oggetti grafici.

Tutto cambia: cambiano gli artifici visivi, la interazione relazionale; cambiano i tempi, gli spazi, i processi di significazione, la partecipazione, le sensazioni, le riflessioni; cambia la politica, l’economia, la progettazione, la programmazione, i linguaggi; cambiano gli stimoli percettivi, in dispositivi semiotici, gli oggetti d’uso; cambia infine la scrittura in un lessico fatto prevalentemente di interfacce grafiche, iconiche, da quando cursori e pulsanti hanno sostituito penne e calamai popolando ormai il nostro spazio operativo di nuove funzioni Touch Screen. Ormai siamo definitivamente nella comunicazione, dentro la florida e incessante dinamica della ipermedialità.

Ma non cambiamo noi. Cambiano molto più lentamente le nostre capacità cognitive e culturali. Apprendiamo con le vecchie metodologie, le scuole e le università continuano ad ignorare i processi di apprendimento nuovi della società della comunicazione. Tra la vita scolastica istituzionale, pubblica e privata, e i processi di apprendimento della società della comunicazione c’è un vuoto in cui crollano quasi tutte le professioni.

Il Glocal University Network ha la grande ambizione di coprire quel vuoto, di entrare nella comunicazione globale con una serie di strutture universitarie locali, organizzate in sintonia con la multimedialità della nuova didattica.

Liliana Montereale

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Ha diretto (dal 1983) vari Centri di Ricerca, Consulenza e Formazione sulle Tecnologie Educative, sui Modelli Economici Turistici, sulla Scienza dell’Organizzazione.

In questo ambito si è occupato di vari argomenti scientifici, tra cui principalmente lo studio dei modelli di simulazione (anche con la produzione pratica di giochi indirizzati al mondo della formazione e dell’apprendimento scolastico), sui fenomeni sociali ed economici, sui modelli politici relativi specificamente allo studio dei sistemi elettorali, delle organizzazioni e della teoria dei giochi. Nell’ambito della sua attività scientifica si è particolarmente dedicato allo studio della logica e della epistemologia, con specifiche applicazioni in metodologie di decodificazione dei fenomeni complessi.

Ha svolto attività di ricerca e docenza per vari enti pubblici e privati. Ha insegnato e insegna in varie Università Italiane (La Sapienza – Roma -, L’Aquila, Roma Tre, ecc.. ecc..) e Internazionali (Belgrado).

L’attività di elaborazione scientifica ha avuto una particolare accelerazione a partire dal 2000, quando i modelli elaborati nel corso degli anni hanno avuto una applicazione diretta e un potenziamento in Criminologia e specificamente in ambito di Intelligence e Sicurezza, e sono stati sperimentati direttamente in vari contesti (habitat) urbani. Attualmente è Responsabile Scientifico del Ce.A.S. - Centro Alti Studi per la lotta contro la violenza politica e il terrorismo e della società di ricerca C Cube s.r.l., Membro del ICTAC - International Counter Terrorism Academic Community; organizzazioni con le quali sta lavorando alla realizzazione di un polo di eccellenza all’interno del Consorzio Universitario “La Sapienza di Roma” - Campus “Selva dei Pini” del Comune di Pomezia, di cui anche è Direttore Scientifico.

www.glocaluniversitynetwork.eu/consulenza/alessandro-ceci

BIOSHORT: ALESSANDRO CECI

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INDICE

Capitolo I (pag. 10)

La riforma dei fattori morfologici

Capitolo II (pag. 20)

Il doppio standard

Capitolo III (pag. 22)

Le condizioni della democrazia

Capitolo IV (pag. 25)

I meccanismi della democrazia e il caso italiano

Capitolo V (pag. 31)

La democrazia genera se stessa

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IL DOPPIO STANDARDUna proposta di riforma del meccanismo elettorale

Alessandro Ceci

Una volta, anzi due volte, una prima nel 1993 e la seconda nel 2011, Bencivenga pensava che il nostro paese fosse “affondato in una melma che sembra non aver fondo”, per colpa di “vecchi repellenti arnesi: pateracchi trasformisti, volgarità strapaesane, ambizioni mercantili, rigurgiti fascisti”, in una condizione di fretta e rabbia, dove la politica “che percorre e definisce l’umanità”, può farci vivere “a seconda di chi ne ha la meglio, un progetto degno e sublime oppure una miserabile vergogna”1.

La mia impressione è che, in qualche modo, questa immagine è un po’ manichea: non perché non esistano questi arnesi repellenti che trasformano tutto in miserabile vergogna. Vi sono, eccome. Il fatto è che spesso il progetto degno e sublime è anche una miserabile vergogna o, viceversa, ciò che è una miserabile vergogna può essere uno degli elementi di un progetto degno e sublime. Spesso gi stessi uomini all’altezza dei tempi, come diceva Ortega y Gasset, sono pateracchi trasformisti. Nelle società complesse moderne non esiste o il bene o il male. Esiste il bene e il male. Troppo spesso poi sono due facce della stessa medaglia, sono elementi che convivono fianco a fianco in ciascuno di noi.

Tuttavia non è tanto per questo che l’immagine di Bencivenga mi sembra manichea. 1 Bencivenga Ermanno, OLTRE LA TOLLERANZA, Bruno Mondadori, Milano 2011

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Piuttosto è per la melma. La mia impressione è che il sistema politico italiano sia più caratterizzato da sabbie mobili che da un elemento così putrido come la melma. Al di là del bene e del male, le sabbie mobili sono un pericolo per tutti: per quelli che le hanno prodotte e per quelli che le hanno subite. La caratteristica delle sabbie mobili, a differenza della melma, non è il malodore o la malaria, quanto la liquidità inconsistente; non è il male del suo liquame, è una torba in cui tanto più ti muovi tanto più affondi. E, a forza di muoversi insensatamente, si muore risucchiati dal fango.

Credo che il simbolismo delle sabbie mobili renda meglio l’immagine attuale del nostro paese che più si muove più sprofonda. Di casi ce ne sono tanti. Quello della riforma elettorale è soltanto l’ultimo di una lunga serie. Con il noto testo standard l’Italia si è mossa ed è sprofondata sempre più nei meandri della più bieca restaurazione. A voler essere magnanimi si tratta di una riforma che ha preso a modello il meccanismo elettorale del Lazio. Capito bene? Del Lazio.

E se l’Italia fosse caduta nelle sabbie mobili, in cui più si muove e più sprofonda, come nell’emblematico caso della Riforma elettorale?

1. la riforma dei fattori morfologici

La mia idea per la mia Italia non è quella di correre dietro a irrealizzabili impegni dei primi 100 o 180 giorni di governo, un impegno inconsistente ed insignificante, e non è quello di indicare un almanacco infinito di problemi da risolvere, ciascuno dei quali con almeno centomila contestazioni, spiegazioni, situazioni incrostate e incancrenite. L’Italia non è quella che è per qualche riforma sbagliata o per qualche azione politica equivoca o per la pervicacia negativa di uno. Se avanza la pervicacia negativa di qualcuno, se si evincono quotidianamente una miriade di azioni politiche equivoche, se i tentativi di riforma risultano spesso sbagliati è perché l’Italia è quella che è: cioè, un sistema politico bloccato dalla immutabilità e dalla immarcescibilità della prima Repubblica, un sistema medievale di vassallaggio statico legittimato

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dalla politica dei blocchi e dalla paura della minaccia nemica.

È come se il nucleo centrale del sistema politico italiano si fosse fermato e lampi e fuochi magnetici si fossero scatenati sulla nostra socialità e sulla nostra civiltà. I leader che si sono succeduti negli anni seguenti il crollo del 1993, non hanno mai cambiato Repubblica perché si sono impegnati, volendola vedere positivamente, ad arginare le falle e a spegnere le fiamme. Tanti pompieri provetti, nessun ingegnere. Sono mancate le riforme, non quelle generiche per gestire l’emergenza, ma quelle strutturali per riattivare il nucleo, per ridare movimento al sistema, per permettere la sperimentazione, il miglioramento autopoietico (cioè determinato da automatismi vitali) della politica italiana.

Una politica Riformista deve impegnarsi, al governo o al parlamento, su quelle Riforme strutturali in grado di riattivare il nucleo, farlo girare di nuovo e permettere agli automatismo di tendere a un complessivo equilibrio del nostro sistema sociale. Questa è la più nobile funzione della politica in qualsiasi contesto si applichi: reggere in equilibrio la crescente complessità sociale (economica, politica e culturale). Cosa possibile in una società che è in condizione di governare il cambiamento. E si può governare il cambiamento solo se i tre fattori strutturali che garantiscono il dinamismo politico sono funzionanti.

I 3 fattori strutturali che determinano in modo autopoietico la morfologia (e quindi il dinamismo) di un sistema sociale sono:

1. il meccanismo elettorale, indispensabile per la selezione del personale politico. In questo ambito la mia proposta, come vedremo, di realizzare un “doppio standard” per l’esecutivo e il legislativo, cioè che si scinda definitivamente l’elezione delle assemblee (ogni 3 anni con un proporzionale quasi puro con bassa clausola di sbarramento – 5% -) dalla elezione degli esecutivi (ogni 5 anni con un maggioritario puro per l’elezione diretta del Presidente con un limite di 2 mandati). Il meccanismo proposto permette la

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duplice dimensione del rispetto della complessa e complessiva rappresentanza sociale nelle assemblee e una sintesi politica di governo temperato. Tra l’altro la disarticolazione dei momenti elettorali garantisce una costante attenzione al dinamismo e alla innovazione del ceto politico.

2. il meccanismo fiscale, indispensabile per la selezione delle risorse. In questo ambito la mia proposta è quella di eliminare la tassazione sui redditi e di tassare i guadagni, a modello del sistema fiscale americano, che, permettendo la detrazione di ogni spesa, determina una quota costante di propensione al consumo, necessaria per evitare la stagnazione economica. Si tratta di una sorta di “trappola della liquidità” evitata, non con la spesa pubblica e quindi con le pur necessarie politiche di welfare, ma principalmente con gli automatismi insiti nel prelievo fiscale.

3. il meccanismo comunicativo, indispensabile per la selezione delle idee. Si intende la comunicazione in senso lato, comprensiva della dimensione culturale e di quella relativa alla scuola, alla ricerca e alla formazione. Siamo entrati definitivamente nella quarta mutazione sociale: l’avvento della società della comunicazione. Una politica che ignori il generale circuito della comunicazione è una politica sorda e cieca. La democrazia, dai Greci a noi, è sempre stata costruita sui processi comunicativi. È dunque necessario occuparsi della comunicazione facendo uscire il sistema scolastico dal modello aziendale dei crediti e dei debiti, e l’università dalla baronia totalmente discrezionale dei Rettori, per una didattica adeguata ai nativi digitali (wetware pedagogy); facendo uscire la cultura dalla precarietà e salvandola dalla omologazione spinta del marketing promozionale televisivo di massa, per una cultura dei luoghi identificati che sostituisca quella degli spazi organizzati; i

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mass media in una logica di liberalizzazione totale degli accessi, di eliminazione del monopolio generalista e della estensione del web tramite fibra ottica e disponibilità tecnologica.

Credo che il senso profondo di una politica riformista, non sia ricorrere il doloroso almanacco delle infinite urgenze. Io credo che una politica riformista significhi incidere decisamente sugli elementi strutturali, i 3 fattori morfologici, i 3 addensatori di energia sociale, in grado di riattivare i processi selettivi della politica italiana negli uomini, nelle risorse e nelle idee. Solo se si riformano questi tre fattori strutturali si passa ad un’altra Repubblica. Altrimenti ci si perde nelle copiose pagine di un programma senza priorità, un catalogo senza logica, per definizione non credibile perché impossibile e senza una visione complessiva delle esigenze di sviluppo sociale. Il potere, diceva Bertrand Russell2, sta alle scienze sociali come l’energia alla fisica. Lo spirito delle mie idee politiche è lo stesso; lo stesso è il mio paradigma teorico.

Non essendo questo lo spazio opportuno, mi dispongo a discutere solo del primo dei 3 fattori morfologici: il meccanismo elettorale per la selezione degli uomini. Rimando ad altra sede la discussione sulla selezione delle risorse e delle idee.

2. il doppio standard (scritto con Nicola Rozzi)

Perché mai il povero elettore dovrebbe rispondere allo stesso modo a due domande diverse?

Noi cittadini non siamo mica stupidi.

Voi ci chiedete: “chi volete che vi governi?”

E insieme: “Chi volete che vi rappresenti?”

2 Russell Bertrand, IL POTERE, Feltrinelli, Milano 1972

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E noi, vittime di una malattia prestabilita dovremmo rispondere allo stesso modo a queste due domande notevolmente diverse. Il fatto però è che noi non siamo stupidi e questa discussione diventa perfettamente incomprensibile.

In realtà noi dovremmo rispondere coerentemente in un modo rispetto alla governabilità e in un altro modo rispetto alla rappresentanza. Ma voi non ce lo permettete, costringendoci nella condizione dello studente sfortunato; cioè di quello studente che di fronte ad una domanda ambigua del suo professore, qualunque risposta tenti comunque sbaglia.

Non sarà un caso che quando le Democrazie sono state egemoni sui processi storici e politici, hanno eletto in modo differenziato ma non difforme l’Organo legislativo dall’Organo Esecutivo. Le Democrazie che hanno dato un impulso storico alla politica internazionale sono soltanto due: Atene in cui la democrazia è nata; Washington in cui la democrazia si è sviluppata. Entrambe eleggevano l’assemblea in tempi e modi diversi dagli esecutivi.

Perché?

Che cosa si verifica?

Qual è il meccanismo di equilibrio tra due organi diversi?

Quando due organi nascono assieme muoiono inevitabilmente assieme. Si ingenera cioè una sorta di meccanismo simbiotico che inquina le funzioni vitali di entrambi: infatti, i soggetti istituzionali che vengono eletti in modo differenziato si controllano reciprocamente senza condizionarsi; invece i soggetti istituzionali che vengono eletti in modo non differenziato, si condizionano reciprocamente senza controllarsi.

Non c’entra nemmeno Berlusconi, che al limite dimostra emblematicamente il passaggio dal criterio della rappresentanza alla relazione responsiva nella democrazia della comunicazione. A rigore la commistione tra il principio della rappresentanza e il principio della governabilità vige in Italia, e in altri sistemi

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elettorali simili, almeno a partire dal 1948.

Il punto è che per potersi controllare i soggetti istituzionali devono essere portatori di una legittimazione autonoma, altrimenti chi è stato eletto dal popolo(legittimazione diretta) non riesce giustamente a capire perché dovrebbe essere controllato, sia da un soggetto istituzionale eletto da altro soggetto istituzionale( legittimazione indiretta – per es. la Corte Costituzionale italiana), sia dalla legge, specie se quella legge è prodotta – come nel paradosso italiano – da un soggetto istituzionale nominato. Le democrazie mature hanno rotto questa connivenza ed hanno attribuito a ciascun soggetto istituzionale una legittimazione autonoma. O almeno l’hanno fatto per i due organi essenziali: quello che produce le leggi( Parlamento) e quello che le applica( il Governo).

In effetti l’elezione congiunta tra soggetti istituzionali diversi scatena un meccanismo degenerativo ricorsivo: se il presidente del consiglio governa male viene messa in discussione dall’elettorato anche la sua maggioranza che, per non perdere le elezioni, è costretta a mantenere il Presidente nonostante il suo malgoverno. Se nascono assieme muoiono assieme.

La relazione simbiotica tra l’esecutivo e il legislativo è sempre stato un limite notevole per lo sviluppo della democrazia. Lo è ancora di più ora che i processi sociali sono accelerati. Se il Parlamento fosse eletto ogni cinque anni non sarebbe più in grado di rappresentare un tessuto sociale che si modernizza mediamente ogni tre anni. Se il Presidente del Consiglio fosse eletto ogni tre anni non avrebbe il tempo per governare. Quattro anni è un ibrido che non serve a nessuno di tutte e due.

Per ovviare a questi due problemi fondamentali nella selezione della classe dirigente di una democrazia, e ai molti altri problemi che possono essere discussi altrove, l’unico meccanismo elettorale semplice e quindi comprensibile, è quello di rompere la relazione simbiotica tra Parlamento e Governo, di scindere i due momenti fondamentali della vita politica di una democrazia e quindi di eleggere i due soggetti politici con meccanismi elettorali diversi.

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Il doppio standard qui proposto è dunque consiste in un meccanismo elettorale che elegga:

• Ogni 3 anni le assemblee con il meccanismo proporzionale (coerente con la domanda di rappresentanza politica) e in grado di esprimere la multiforme complessità del sociale;

• Ogni 5 anni gli esecutivi con il meccanismo maggioritario (coerente con il problema politico della governabilità) e in grado di evitare la crisi delle aspettative crescenti con un processo decisionale più efficiente e più efficace.

Sarà compito del Legislatore, successivamente, riformare gli organi dello Stato con un sistema di “check and ballances” in grado di controllare e mantenere in equilibrio le diverse forme di gestione del potere della democrazia moderna.

La logica dell’equilibrio tra poteri è possibile proprio perché, e solo perché, essendo elette entrambe in modo differenziato, le Istituzioni politiche non sono reciprocamente condizionanti.

3. Le condizioni della democrazia

Forse in termini quantitativi ha ragione Edgar Morin, secondo cui “la democrazia è nata in modo marginale nella storia, al fianco di imperi dispotici, teocrazie, aristocrazie, sistemi di caste. Resta marginale, nonostante l’universalizzazione dell’aspirazione democratica”3. Ma in termini qualitativi no, come egli stesso riconosce, la democrazia resta “il sistema politico più civilizzato”4. In termini qualitativi ovunque la democrazia si è affermata, è stata egemonica.

La democrazia ha sempre risolto al suo interno i problemi, non deve ricorrere a nessuno. Risolve i problemi al suo interno, da sola con i propri 3 Morin Edgar, LA MIA SINISTRA, Erikson, Trento 20114 Morin E., cit., 2011

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meccanismi. Non esiste un regime post-democratico. Oltre la democrazia non può esserci un’altra democrazia. Ci sarà una diversa forma di governo, che potrà essere in mille modi ma non potrà essere democratica. La democrazia è autopoietica o non è.

Non è un caso allora che, in tutti i regimi democratici la crisi economica è stata salvata da decisione politiche; che, di fronte alla esigenza di rinnovare la democrazia, i partiti politici occidentali abbiano pensato di ricorrere alla democrazia; non è un caso che tutti, per cambiare un governo hanno deciso di rivolgersi al corpo elettorale.

Tutti, tranne l’Italia. Solo l’Italia ha pensato di risolvere i problemi della sua democrazia sospendendo la democrazia. Solo in Italia, un parlamento di nominati ha nominato al Governo un suo rappresentante, appositamente nominato senatore per essere nominato presidente del Consiglio. Solo in Italia, una crisi prevalentemente politica, viene gestita da un tecnico dell’economia. Solo in Italia, i partiti popolari lasciano il potere alla tecnostruttura scientifico-burocratica che in gran parte ha prodotto e contrastato, nell’ambiguità radicale dell’era moderna, la crisi economica che imperversa, irrefrenabile.

Eppure, uno degli elementi della degenerazione delle democrazie moderne, denunciato più volte da John Kennett Galbraith, e rimarcato ancora nel 1996 da Edgar Morin è proprio il potere degli econocrati, “capacissimi di adattare le persone al progresso tecnico, ma incapaci di addattare il progresso tecnico alle persone”5.

Nati dentro meccanismi consolidati e conservativi delle economie moderne produttive e finanziare, privi della spinta dell’azione politica, “non possono immaginare nuove soluzioni di riorganizzazione del lavoro e di ripartizione della ricchezza”6. Tutto questo produce una regressione della democraia, l’istaurarsi di “una società duale”7, nella quale “i grandi problemi della civiltà restano 5 Morin E., cit., 20116 Morin E., cit., 20117 Morin E., cit., 2011

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concepiti come problemi privati invece di manifestarsi alla coscienza politica e al dibattito pubblico”8; “una società duale”9 che determina “l’accentuazione della competizione economica fra le nazioni, soprattutto in una congiuntura di depressione economica, favorisca la riduzione della politica all’economia, e l’economia diventa il problema politico permanente”10; una regressione democratica che genera una società duale e, contemporaneamente una società duale che genera regressione democratica, in modo che, “qualora persistesse il deficit democratico, diverrà società normale”11. Morin ha dipinto, sedici anni prima, la situazione italiana di oggi. Un quadro ben descritto anche da Pasolini e dalla sua denuncia sui processi di omologazione della società capitalista che più di tutti ha svuotato di significa le strutture di significato del sistema sociale e relazionale. Uno scenario di verità, molto più modestamente, indicato anche da me come condizione moderna dell’epipower, il potere epistemologico della società della comunicazione12.

Il problema centrale resta comunque quello della regressione democratica che non permette la soluzione dei problemi che richiederebbe una progressione democratica, appunto perchè “la democrazia dipende dalle condizioni che dipendono dal suo esercizio”13; ovvero “la democrazia dipende dalla civiltà che a sua volta dipende dalla democrazia”14.

Che cosa ci insegna questa opera d’arte, questo profilo puntuale e previsionale sul destini politici dell’Occidente che, come ogni opera d’arte, racchiude e rappresenta tante elaborazioni di tanti?

Ci insegna che la democrazia attuale è la soluzione finale di tutti i sistemi politici che l’hanno preceduta. Nella filosofia politica classica le forme di governo possibili sono 3 (se si considera la natura dei governi: monocratico,

8 Morin E., cit., 20119 Morin E., cit., 201110 Morin E., cit., 201111 Morin E., cit., 201112 Ceci Alessandro, COSMOGONIE DEL POTERE, Ibiskos, Empoli 201213 Morin E., cit., 201114 Morin E., cit., 2011

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aristocratico, democratico). Sono 6 se si considerano anche le tre deviazioni possibili (tirannico, oligarchico, populista). Nella filosofia politica successiva alla teoria dell’azione di Hannah Arendt, sono due: il totalitarimo e la democrazia.

Non esiste la postdemocrazia. La democrazia può essere soltanto regressiva o progressiva.

Il termine, ideato nel 2003 da Colin Crouch15, è fuorviante perché diffonde l’idea di un regime altro, esterno ed estraneo al nostro; quando invece la crisi è dentro di noi, in qualche modo siamo noi la crisi, siamo noi che svuotiamo di significato le procedure e le istituzioni della democrazia liberale: “ [...]anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”16. E invece la sindrome di Crouch che attanaglia le democrazie moderne è tutta dentro la democrazia e non produce un sistema nuovo ed altro, non crea uno stato postdemocratico. Se i regimi rappresentativi affrontano una profonda parabola discendente o regressiva, non vuol dire che noi stiamo entrando in un nuovo regime.

E non è solo una questione di denominazione.

È una questione concettuale. La crisi finanziaria contemporanea non permette la raffigurazione marxista di Crouch in cui la sovrastruttura politica è condizionata e condotta dall’azienda globale “istituzione chiave del mondo postdemocratico”17.

15 Crouch Colin, Postdemocrazia, Laterza, Bari 2003,

16 Crouch C., cit., 200317 Crouch C., cit., 2003

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Cambiano i contenuti, ma la logica è sempre la stessa.

L’azienda non è più pesante ma leggera, il processo non è più internazionale ma globale, l’organizzazione non è più tayloristica ma decostruita18, non è più rigida ma flessibile, non più invasiva ma “fantasma”19.

La logica, però, è sempre la stessa, è sempre il sistema economico a conformare il sistema politico. Il modello istituzionale prevalente non è politico, come per la democrazia liberale di Crouch, ma aziendale, anche per il settore pubblico, come per la democrazia liberale di Marx. Quelle che erano classi dominanti tornano ad essere lobby al potere, sempre più sottoposte al rapporto mortale e asfissiante del potere economico sugli organi pubblici20. La tecnostruttura al potere, funzionale agli interessi assordanti degli apparati economici finanziari, diffonde la sua verità con una retorica globale e ossessionante, con l’obiettivo di ristrutturare gli enti pubblici e renderli più attraenti ai finanziatori privati.

Non è che questa visione sia totalmente sbagliata. È soltanto parziale. Vede solo alcuni effetti della quarta cosmogonia, dell’avvento dell’epipower, il potere epistemologico della verità sulla realtà.

La nuova condizione politica non ha bisogno di cambiare regime. Non ha bisogno di passare da uno stato di democrazia ad uno stato di post-democrazia. Può semplicemente modificare la morfologia del sistema in cui vive sia esso democratico, totalitario, tirannico, oligarchico o, con terminologia indefinita, postdemocratico. In qualsiasi sistema politico ciò che si afferma e che cambia, ciò che cambia e fa cambiare le cose è la connotazione del potere, nelle sue

18 La “capacità di decostruzione è la forma più estrema assunta dal predominio dell’azienda nella società contemporanea” , Crouch C., cit., 2003.19 Crouch C., cit., 200320 “Oggi [...] a causa della crescente dipendenza dei governi dalle competenze e dai pareri di dirigenti delle multinazionali e grandi imprenditori e della dipendenza dei partiti dai loro finanziamenti, andiamo verso la formazione di una nuova classe dominante, politica ed economica, i cui componenti hanno non solo potere e ricchezza in aumento per loro conto via via che le società diventano sempre più diseguali, ma hanno anche acquisito il ruolo politico privilegiato che ha sempre contraddistinto l’autentica classe dominante. Questo è il fattore centrale di crisi della democrazia all’alba del XXI secolo”, Crouch C., cit., 2003.

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prevalenti espressioni economiche, politiche e/o sociali. In ogni sistema la connotazione del potere si definisce in base a 3 addensatori di energia: il meccanismo fiscale (potere economico), il meccanismo elettorale (potere politico), il meccanismo della comunicazione (potere sociale). La democrazia è progressiva o regressiva in funzione della struttura di questi 3 addensatori di energia: se sono semplici, comprensibili ed controllabili, allora possono essere riformati, e la democrazia diventa progressiva; viceversa, quando sono incomprensibili, complicati e incontrollabili, si determinano dei vuoti politici, degli autentici buchi neri che assorbono l’intera energia sociale e determinano una regressione involontaria della democrazia.

In Italia abbiamo sempre avuto un tutti e tre gli addensatori di energia sempre incontrollabili, incomprensibili e complicati. In che cosa potevamo sperare? Si sono prodotti dei buchi neri in cui sono crollati tutti i tentativi di riforma. Se non riusciremo a rendere semplici, controllabili e comprensibili il meccanismo fiscale, quello elettorale e quello comunicativo, dalla crisi non usciremo. Ma guarda caso gli intenti riformatori del ceto politico nostrano non sono mai stati indirizzati verso questi tre connotati, in grado di rafforzare il consenso e la partecipazione di tutti i cittadini che devono essere sempre messi nella condizione di comprendere e controllare il meccanismo della tassazione, quello della elezione e quello della comunicazione. Ogni riforma tentata ha complicato, reso sempre meno comprensibile e certamente incontrollabile i meccanismi di reclutamento delle risorse, delle persone e delle idee. Come funzionano davvero nessuno lo sa, tranne un piccolo apparato di tecnici a cui dobbiamo credere per fede. Tutta la regressione democratica che in Italia (e fors’anche in Europa) stiamo vivendo, che ha per emblema un governo nominato da nominati, è tutta in questi buchi neri che assorbono la nostra energia, sorti a causa della complicazione (che produce burocrazia), della incomprensione (che produce delegittimazione) e della incontrollabilità (che produce corruzione) dei nostri tre addensatori di energia. Tutta la progressione democratica che l’America sta vivendo, nonostante la dirompenza della crisi, è tutta il prodotto

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del semplice, controllabile e comprensibile funzionamento del meccanismo fiscale, di quello elettorale e di quello della comunicazione. Il resto sono orpelli, faticose rincorse, decisioni inutili, stress quotidiano e privilegio individuale; comprese le insignificanti categorie postdemocratiche della filosofia politica.

Ma il parlamento italiano è andato spesso in ferie senza fare né proporre una riforma del meccanismo fiscale, o di quello politico o della comunicazione. Svendiamo i gioielli di famiglia e tiriamo a campare carichi di retorica pubblica sui mercati finanziari e sullo spread. Il fatto è che i tecnici mettono le mani sulle riforme che aiutano la retorica pubblica per aumentare la loro (e forse anche la nostra) credibilità internazionale. Sarà pure una operazione encomiabile, ma senza riforme vere resta soltanto una attività estetica per rendere più elegante la nostra dizione pubblica.

4. i meccanismi della democrazia e il caso italiano

Vorrei la tenacia dei comunisti italiani, ma non la loro testardaggine che fa negare, come diceva Bobbio, “i duri numeri della storia”.

Vorrei la verve polemica dei grillini, ma non il loro verso da guitto, senza riflessione, sferzante della fatica e della responsabilità politica del concetto.

Vorrei la speranza per un modello di sviluppo nuovo, di Sinistra Ecologia e Libertà, ma non la loro noiosa pretigna retorica buonista.

Vorrei l’attenzione alla legalità di Italia dei Valori, ma non il legalismo di facciata, atteso e preteso per la propria personale ascesa.

Vorrei lo spirito comunitario tollerante e solidale degli ex cattolici e degli ex comunisti assemblati nel Partito Democratico, ma non il comunitarismo omologante indispensabile per affermare la volontà di uno.

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Vorrei la moderazione critica della meteora centrista italiana, ma non il loro moderatismo conservatore retrivo e ipocrita.

Vorrei la spinta alla libertà della destra italiana, ma non il loro liberalismo confusionario e anarchico, funzionale agli interessi del capo di turno.

Vorrei la capacità popolare e territoriale dei leghisti, ma non il loro populismo, il localismo becero e infine il razzismo nemmeno mascherato.

Vorrei la lealtà della destra radicale, ma non il loro cameratismo e nemmeno il loro teppismo.

Mi manca lo spirito del riformismo, la capacità progettuale critica e ideale del socialismo italiano, ma non il loro egocentrismo interessato, il frazionismo acerrimo e pervicace, il riso stolto che ha abbondato sul volto di tantissimi cloni, blazer blu, pantaloni grigi e scarpe di pelle.

Viviamo in una ambiguità radicale permanente. Quando scegliamo uno, scegliamo contemporaneamente il suo positivo e il suo negativo. Paradossalmente sono la stessa cosa. Ciò che è positivo è anche ciò che è negativo. Questa è l’ambiguità radicale permanente della nostra epoca. In ogni attimo della nostra vita, in ogni nostro tempo, convivono gli elementi della generazione e della degenerazione; anzi, gli elementi generativi sono anche gli elementi degenerativi.

Se nella democrazia, come nella politica italiana, sopravanzano i caratteri della degenerazione, per cui coloro che vengono dopo sono peggio di quelli che ci sono stati prima e quindi bisogna temere più di tutti il nuovo, allora vuol dire che i meccanismi della democrazia non funzionano. Non si può essere tolleranti o acquiescenti sulla legge di monopolio televisivo nella società della comunicazione e poi lamentarsi perché il proprio ceto politico non è qualificato. Non si possono dimenticare le liberalizzazione e poi chiedere una imprenditoria in grado di governare i flussi economici e finanziari. Non si può nominare secondo una spartizione politicamente controllata e regolamentata

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del Consiglio Superiore della Magistratura e della Corte Costituzionale e poi lamentarsi dei magistrati politicizzati. Non si può accettare, ammettere e mantenere una barbarie di civiltà come l’arresto preventivo, che tiene in galera i cittadini per un periodo indefinito e indefinibile, senza processo, senza prove e spesso nemmeno senza indizi (sulla base di una ragionevole possibilità), e poi pretendere una giustizia giusta. Infine, e più di tutto, non si può approvare una legge elettorale definita dal suo autore una porcata e appositamente denominata porcellum ed evitare che elegga dei porci.

Quando i meccanismi non funzionano, come nel caso italiano, la democrazia non può riformare se stessa e allora si ha bisogno di un demiurgo, di un qualsiasi demiurgo, imprenditore o tecnico, intellettuale o sacerdote, che in qualche modo gabella le regole e i regolamenti per il bene nazionale che, guarda caso, quasi sempre coincide con il proprio bene personale, sia esso di fame o di fama.

Se non funzionano i suoi meccanismi la democrazia diventa una forma retorica vuota. Potremmo dire con una interlocuzione più specialistica che si blocca il suo meccanismo autopoietico. La democrazia non sa più ad auto-generarsi. La cosa che non riesce più a fare è proprio quella che meglio sa fare: riformare se stessa.

5. la democrazia genera se stessa

Una di quelle sere strane, incerte, arrivate per caso, senza la forza di volere la forza, a casa mia, appena iniziata la primavera, dopo una certa ora e a quell’ora, poiché la sera spesso rinfresca, è ancora utile accendere il camino.

I miei cuccioli, bastardi di maremmano, bianchi, Bianca e Bernie, si scaldavano al fuoco che faceva capolino tra ciocchi. Anche io ero li, in una sera primaverile un po’ strana. L’aria era intrisa di rabbia e delusione, qualche tristezza si scioglieva davanti a lampi di fiamma che non riuscivano ad uscire e si intrufolavano nelle fessure del legno. Essere il fuoco che trasforma in

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cenere il meraviglioso, il faticoso costrutto della natura, o essere la natura che faticosamente costruisce una meraviglia che in ogni attimo può essere distrutta dalla volgare violenza di un fuoco?

Per il nostro privilegio e la nostra comodità, per il nostro interesse noi accendiamo un fuoco e gli diamo in pasto il lavoro paziente di un insignificante seme che, negli anni, con dedizione e passione, con competenza e intelligenza, si è trasformato in un albero.

Che cosa vorremmo essere nella nostra vita, a quale significato vorremmo legarci: a quello del fuoco distruttore, servo del nostro confort, o a quello dell’albero ignaro della brutalità di chi non sa vedere la sua bellezza accecato dal proprio interesse? E certo vorremmo essere fuoco contro il fuoco e albero tra gli alberi. Ma né l’uno né l’altro ci è dato in questi tempi bui in cui la bellezza di un costrutto ideale cede alla interessata contabilità dell’ignoranza.

Davanti al fuoco del camino di casa mia, avvolto dal silenzio riflessivo della stanchezza, frequentavo l’ozio di queste investigazioni. Ero stanco e indispettito dai soldi che non riuscivano ad arrivare, dal tempo che si stringe attimo dopo attimo; e, più di tutto, innervosito dalla esigenza di dovermi trasformare in un fuoco distruttore per un senso di giustizia contro le distruzioni che avevo subìto. Eppure dovevo farlo, io che lo avevo sfuggito per anni quel maledetto fuoco, quella indifferenza della violenza che ti rende protagonista della cronaca e ignoto, ombra della storia. Io avrei voluto essere sempre e per sempre albero tra gli alberi, con semplicità, perché “ciò è raggiungere il più alto”, come dice Borghes, “quello che forse di darà il Cielo: non ammirazione, né vittorie ma semplicemente essere ammessi come parte di una realtà innegabile, come le pietre e gli alberi”21. E invece noi siamo sempre costretti alla denigrazione e/o 21 Si apre il cancello del giardino / con la docilità della pagina / che una frequente devozione interroga / e all’interno gli sguardi / non devono fissarsi negli oggetti / che già stanno interamente nella memoria. / Conosco le abitudini e le anime / e quel dialetto di allusioni / che ogni gruppo umano va ordendo. / Non ho bisogno di parlare / né di mentire privilegi; / Bene mi conoscono quelli che mi attorniano, / bene sanno le mie ansie e le mie debolezze. / Ciò è raggiungere il più alto, / quello che forse ci darà il Cielo: / non ammirazioni, né vittorie / ma semplicemente essere ammessi / come parte di una realtà innegabile, / come le pietre e gli alberi.

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alla ammirazione, alle sconfitte e/o alle vittorie.

Io stavo lì, a sentire nell’aria questi pensieri che non si componevano in alcuna morfologia, mentre i miei cuccioli bastardi di maremmano si scaldavano al calore irruento del fuoco, a sentire nell’aria una serata strana, di una primavera appena accennata. Finché il suono del telefono non squarciò il mio torpore, quello di Bianca e Bernie, abituati a dormire accovacciati l’uno sull’altra, come fanno i cuccioli, a reciproca protezione. Risposi a chi, per amore, si preoccupava a distanza del mio silenzio e della mia solitudine. Poi, tra una confidenza e una considerazione, mi chiese che cosa stesse succedendo in Libia. Già. La Libia. Oggetto di tanta attenzione e studio durante la guerra al Rais. Mi sembrava lontana nel tempo. Eppure aveva da poco finito di ardere al fuoco della rivoluzione. Molti piccoli incendi ancora resistevano. Non si vedevano alberi.

Sapevo benissimo cosa stava succedendo il Libia. È lo stesso processo che si verifica in tutti i paesi della primavera araba. In parte si sta verificando anche da noi, in Italia. Sono processi di democratizzazione endogena. Un mutamento nella politica estera americana con l’avvento al potere della Presidenza Obama. Prima i Bush, Senior e Junior, avevano chiamato tutto il mondo occidentale ad inaugurare processi di democratizzazione esogena nei paesi di cui si aveva interesse a gestire il petrolio e la propensione al consumo. La famosa democrazia da esportazione, impossibile da attuarsi, ma necessaria per giustificare la presenza degli eserciti e i morti di entrambe le parti. Obama ha in parte ritirato gli eserciti, tanto da meritare un premio Nobel anticipato, e favorito processi di democratizzazione endogena, nati dall’interno degli Stati per cambiare la classe dirigente di quei paesi per ottenere con un consenso pilotato ciò che altri avrebbero voluto ottenere con la forza. Sennonché la democrazia si afferma lentamente. È una forma di governo e al tempo stesso una situazione sociale, un sistema relazionale, una procedura formale, condizione sostanziale, una cultura. La democrazia è una complessità. Necessita di essere

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radicata nel cuore e nel corpo della gente per essere affermata. È un processo che richiede la partecipazione condivisa di ciascuno per essere trasferita nel sistema di rappresentanza politica. Paradossalmente, per esserci, la democrazia non deve esserci mai. È, come si diceva una volta, uno statu nascendi perpetuo; come la società di Bauman, che è giusta solo se pensa di non esserlo mai. È fatta di processi che devono radicarsi e dalla lenta sperimentazione delle procedure. I meccanismi della democrazia non sono mai efficaci per definizione. Devono essere esercitati per essere falsificati. Il ceto politico, impropriamente definito classe dirigente22, deve essere selezionato negli anni. Per questo è indispensabile porre un limite alla presenza al governo dello Stato. Per evitare la personalizzazione e favorire la selezione, anche se non sempre la qualificazione, del potere. Il potere va, in qualche modo, spurgato. La democrazia ci riesce con il limite di mandato al governo del Paese23. In questo modo la democrazia obbliga ai meccanismi di falsificazione, direbbe Popper, di essere operanti. In questo modo sarebbe possibile anche per uno Stato sperimentare senza rischio eccessivo, aprirsi alla innovazione senza traumi, e quindi selezionare istituti, istituzioni e personale politico. La democrazia deve sempre evitare al potere di incancrenirsi fino alla putrefazione. Pena, l’assenza della democrazia.

In Libia, dopo i circa 50.000 tra morti e dispersi, restano naturalmente le milizie attive. Tra un poco si voterà. E questa elezione naturalmente non sarà risolutiva dello status dello Stato. Ci saranno brogli e confusione. Ma intanto si vota. Poi si rivoterà e i meccanismi miglioreranno. Pian piano, tanto più i meccanismi di falsificazione funzioneranno tanto più sarà accelerato il processo di democratizzazione e altrettanta democrazia si diffonderà nel sistema politico, economico, sociale e culturale. Alla fine, tra un certo numero di anni, se il sistema politico tutelerà i meccanismi della democrazia, noi avremo un’altra Libia, in 22 A rigore quella dirigente non mai una classe. I rappresentati politici che arrivano ai vertici decisionali provengo da diverse condizioni sociali ed economiche, quindi da diverse classi. Quello dirigente è un ceto sociale che include i nuovi arrivati a riti e ritualità convenzionali. 23 Naturalmente mi riferisco agli esecutivi e non alle assemblee. Dal mio punto di vista i due istituti, in una democrazia davvero funzionante, dovrebbero essere totalmente scissi; anche eletti in tempi e modi differenti: con il maggioritario puro gli esecutivi (ogni 5 anni) e con il proporzionale puro le assemblee (ogni 3 anni). Ma questo è un altro testo.

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una condizione di legalità irreversibile, perché permanentemente proiettata in avanti, a migliorare se stessa, senza tornare indietro, con dirigenti politici sempre più all’altezza dei tempi e dei popoli. La democrazia è auto poietica: se c’è, genera continuamente se stessa. Se si ferma, s’inverte. Ma se continua, il processo di democratizzazione toglie spazio, lentamente, con calma, ad ogni suo nemico, ad ogni residuo di tirannide e perfino di totalitarismo24 che nella democrazia stessa spesso si annidano. Succede in tutti i paesi della primavera area, come nei paesi ex sovietici europei e dell’area balcanica, Russia compresa. Succede anche in Italia.

In Italia, in estrema sintesi, abbiamo avuto un sistema politico di democrazia parziale, di semidemocrazia, per circa 50 anni. Un ceto politico sostanzialmente bloccato. 5 mafie. 40 anni di terrorismo interno rosso e nero. Apparati deviati. Lo Stato che produceva tensione sociale come strategia politica. Corruzione ed evasione a tutto spiano. Eversione sociale. Ogni degenerazione del potere tollerata, addirittura giustificata dalla minaccia comunista. Inoltre, un sistema politico totalmente mediato dai partiti: appunto un totalitarismo partitocratico. Lo Stato stesso, nella storia italiana, fu generato dai partiti e costruito passando dentro i partiti. Infatti, in Italia, quando lo Stato non c’era ancora i partiti già c’erano. Quando non c’erano segretari comunali, istituzioni provinciali e regionali, organi e organismi di controllo e dei polizia, i partiti già c’erano. Il che poteva essere anche una cosa positiva, visto che senza dei partiti restano i tiranni. Il dramma nazionale è stato l’avvento dei partiti totalizzanti25: il dramma è stato che tutto il resto è stato costruito passando dentro la mediazione, direi il taglieggiamento e l’affiliazione a partiti politici che decidevano senza essere controllati da nessuno, indipendentemente da ogni regola e da ogni regolamento, in un limbo di controllo, in un potere puro, anzi, di pura forza, vissuto nel vuoto di ogni norma. Un sistema così bloccato, senza alcun ricambio in tanti 24 Nella particolare forma che assume il totalitarismo nella società della comunicazione, che riesce ad esistere anche senza essere totale, nonostante ci siano cioè aree autonome (ma non libere, sempre condizionate) e che definirei meglio a “supremazia totalizzante” o, meglio ancora, “monocrazia”. Ma questo pure è un altro testo.25 O, come l’ho chiamato prima, totalitarismo partitocratico.

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anni e sempre con lo stesso ceto politico, o comunque con sostituzioni che venivano accettate solo se omologate, accolte solo se coinvolte, presenti solo se acquiescenti, ci si stupisce che sia esploso solo dopo 50 anni. E non prima.

Dal crollo del 1993, nonostante che gran parte delle cose siano ancora sempre le stesse, tuttavia il processo di democratizzazione italiano è andato con pigrizia interessata avanti. Potremmo dire che siamo passati dal totalitarismo dei partiti politici, alla monocrazia televisiva della comunicazione politica. Ma i governi sono stati votati, sono cambiati, i leader sono stati allontanati e recuperati sempre dopo una consultazione elettorale incisiva sulla attribuzione di potere. Prima invece il posto al Governo era una rendita garantita. La inutilità del voto, nella politica precedente, era assoluta. Che vincesse o perdesse il pentapartito comunque governava. Oggi almeno, se uno vince governa, se perde si oppone o se ne va. Il processo di democratizzazione, con fatica, va comunque lentamente avanti. Prima il blocco politico del potere lo aveva invertito. Il processo è molto lento (prevalentemente a causa di una riforma elettorale sbagliata e di un sistema fiscale che non si riesce a riformare)26 e noi ci portiamo addosso ancora gran parte le nostre annose insufficienze. Tuttavia andiamo avanti e, se ci impegnassimo di più, forse potremmo riuscire ad accelerarlo questo benedetto processo di democratizzazione. Molto in ogni caso dipenderà dalla prossima riforma elettorale27.

La democrazia insomma è così per tutti: se non procede s’inverte. Quando si è invertita (come accaduto anche a noi) farla procedere è davvero difficile e lento. Il rischio che un fuoco violento riduca di nuovo in cenere gli alberi, cioè che ardano le meravigliose istituzioni della civiltà politica, come ad esempio il parlamento, è forte, fortissimo. Vedo un fuoco alimentato, da una parte dalla incapacità di riformarsi e dall’altra dalla crescente demagogia populistica e 26 Che sono gli addensatori di energia di ogni processo di democratizzazione.27 In una democrazia ci sono due “addensatori di energia” fortemente incisivi, direi determinanti, della morfologia del sistema politico: il meccanismo elettorale – cioè la selezione del ceto politico e dei suoi progetti di innovazione – e il meccanismo fiscale – cioè il criterio di allocazione e di distribuzione delle risorse. Entrambi, per essere credibili e legittimati, devono essere visibili e comprensibili: devono essere semplici.

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spesso qualunquistica, che ha incenerito prima i partiti ed ora sta bruciando il parlamento: prima gli istituti e poi le istituzioni. In ogni camino ardono prima i rami più piccoli e più secchi, poi i ciocchi più grandi e più verdi.

Chiudo il telefono con la promessa di scrivere un articolo; questo articolo. I miei cuccioli bastardi di maremmano hanno ripreso a dormire. Il fuoco si è spento. La legna consumata. È rimasta brace soltanto. Porto i cani alla loro cuccia. Chiudo tutto e vado a dormire. Il fuoco intorno a noi è tanto. Talvolta anche dentro di noi, quando siamo di fronte a soprusi incommensurabili ed incomprensibili. In ogni attimo della nostra vita ci si pone il dilemma se accettare la sfida di un processo di democratizzazione da spingere in avanti o se fermarsi a consumare il godimento del proprio potere e, dunque, spingere o invertire ogni processo di democratizzazione. E mentre salgo le scale verso la mia camera, non so ancora che cosa sarà domani; cosa sarò, se fuoco con il fuoco o albero tra alberi. E non so cosa dovrà essere per la democrazia che verrà. Forse ricorrere all’etica può servire a non mischiare le cose ed evitare di morire arsi dall’aridità. Non so. Forse.

Alla fine però una buona dormita è sempre una ottima soluzione.

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