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HITLER ERA INNOCENTE

Aldo Moscatelli

© 2008, I sognatori LecceISBN 978-88-95068-06-0

Il 10% del prezzo di copertina verràdevoluto alle associazioni che sioccupano di tener viva la memoria dell’Olocausto, e impedire così che labarbarie nazista torni a manifestarsi fra noi senza che almeno un essere umano urli: “Io non ho dimenticato!”

Per contattare la casa editrice I sognatori, consultare il sito internet:www.casadeisognatori.come il blog:casadeisognatori.splinder.comPer contattare l’autore:[email protected]

hitler era innocente by aldo moscatelli is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.

Alcuni dei tragici eventi narrati in questo romanzo sono stati ispirati da episodi realmente accaduti durante il regime

totalitario nazista

Alle vittime del totalitarismo nazista:con gli occhi della fantasia ho scrutato

l’orrore che voi deportati avete conosciutoe patito concretamente nei lager.

Io, spettatore privilegiato, a voi rendo onore.

A Francesca:grazie per aver pianto assieme a me

mentre guardavamo Schindler’s list…

La dedica, da leggersi in senso contrario, va estesa atutti quegli uomini di potere che, in tempi più o meno

recenti, hanno manifestato una comoda avversità allaguerra, salvo poi (nei fatti) sostenerla, alimentarla,coccolarla, nascondendo il proprio consenso dietro

un muro di ipocrisia.Ma ogni muro ha le sue crepe, e fa presto a sgretolarsi…

Pathéin tòn érxanta(Chi infligge subisca)

Eschilo

PROLOGO

Ho ricevuto la notizia qualche ora fa.Dormivo.La voce squillante del telefono ha interrotto il mio sonno in-

quieto. Non riesco mai a dormire bene, la notte. Ho sollevato il ricevitore: era lui. Non udivo la sua voce da anni.Mi ha comunicato la morte di Rudolf Bahuoff con pacato di-

stacco; se non lo conoscessi, direi che non glien’è importato granché. Ma io ho colto un perverso piacere nelle sue parole, una gioia soffocata, celata sotto cumuli di terra ormai smossa, sulla quale campeggiava da tempo la croce dell’oblio.

Tra qualche giorno la verità verrà allo scoperto: Bahuoff è stato ucciso, e io so da chi.

Ignoro in quale modo siano andate esattamente le cose, ma è così che le ho immaginate:

un uomo in là con gli anni sta dormendo, ode un rumore e sol-leva le palpebre.

La canna di una pistola compare improvvisamente davanti al suo sguardo insonnolito.

Chi la maneggia è avvolto nella penombra, tace ma sorride.L’anziano, preso alla sprovvista, stropiccia gli occhi e balbetta

qualcosa.Silenzio.

Accanto alla pistola compare una vecchia fotografia in bianco e nero.

L’uomo solleva la schiena dal letto, e si sporge in avanti.La osserva per bene, poi comprende.Implora pietà.L’altro ha un sussulto, e pensa:nessuna pietà.Preme il grilletto, parte il colpo.Schizzi di sangue vermiglio macchiano la parete retrostante.L’assassino silenzioso va via, senza lasciare tracce.

Domattina chiamerò un vecchio amico, e gli riferirò l’accaduto. Sono certo che anche la mia voce risulterà fredda e distaccata.

Ma lui mi conosce. Ci conosciamo tutti, fra noi. Perché c’è sta-to un periodo, nelle nostre vite, in cui il dolore ci ha annullato e dato forma. Tanti corpi, ma un solo spirito.

La morte di Rudolf Bahuoff ci ricongiunge. Oggi, a distanza di decenni.

Il cerchio è ormai chiuso, domani si dissolverà.Ma il mattino è lontano, e in questo momento ho voglia di ri-

cordare…

CAPITOLO 1

Ricordo perfettamente l’istante in cui li vidi per la prima volta.Camminavano a testa alta, i volti arsi dal sole, i corpi provati da

un viaggio durissimo, disumano. Uno di loro aveva un braccio ferito; lo capii dalla striscia di stoffa grondante sangue stretta al-l’altezza del bicipite destro. La fronte dell’altro presentava un vasto ematoma, ed entrambi zoppicavano vistosamente. Non si reggevano in piedi…

Ma i loro occhi non tradivano alcuna sofferenza. Un gruppetto di soldati li insultava, pungolandoli coi loro fucili. Aprirono i

cancelli, e furono spintonati all’interno del lager con calci e spu-ti. Una scena tristemente nota a tutti noi.

Giunti a un metro da me, la fierezza dei loro sguardi ebbe un cedimento; vidi i loro occhi riempirsi di lacrime, ma non ci fu il tempo per un pianto liberatorio. Un soldato urlò qualcosa, e col calcio del fucile colpì entrambi all’altezza dello stinco. Il più alto s’accasciò, urlando e ansimando, mentre il crudele aguzzino gli sorrideva accarezzando l’arma.

Dopo che si fu allontanato, senza dare nell’occhio m’inginoc- chiai al cospetto del deportato caduto per terra, lo guardai dritto negli occhi e sussurrai:

– Benvenuti nel lager Libertà.

CAPITOLO 2

Voi non conoscete l’orrore. Quello vero, intendo.Lo avete intravisto, probabilmente, in qualche immagine di

guerra, o in qualche drammatico episodio della vostra esistenza; forse lo avete colto in voi, l’orrore, o nei mali di questa società senza memoria. Vi è passato accanto sussurrando qualcosa nel-l’orecchio, per poi dileguarsi davanti a un sorriso, a un abbraccio fraterno, a una frase pregna di speranza. E in voi non è rimasto che un ricordo sbiadito e trascurabile del vostro incontro con l’orrore.

Chi, come me, ha conosciuto invece il vero orrore, sa cogliere e distinguere la sua presenza imperscrutabile, e quella voce senza tempo. Un riverbero silenzioso, un urlo soffocato dalle moltepli-ci necessità dell’esistenza; prima fra tutte, quella di sopravvivere. Questo grido straziante confonde il passato col presente, corrode il futuro, trasforma il più insignificante dei secondi in eternità, e la più illusoria delle eternità in un unico, crudele secondo.

Perché l’orrore, cercate di capire, non è un’immagine estetica da osservare e nulla più; né si limita ad albergare fra le pagine dei libri, o in qualche fotogramma.

Il vero orrore, quello che io ho conosciuto nel lager Libertà, in-vadeva tutti i sensi umani, come un morbo pernicioso: costringe-va lo sguardo a posarsi sui corpi scheletrici degli uomini e delle donne, morti ancor prima di esalare l’ultimo respiro. S’insinuava nelle narici sottoforma di fetore, sprigionato dalle carni decom-poste dei morti, compatiti e invidiati da tutti noi. Si lasciava udi-re dalle nostre orecchie, diveniva un flebile grido che partiva dal cuore e moriva sulle labbra, reclamando libertà. E si toccava e si lasciava toccare, il vero orrore, corpo solido e raggelante come la canna di una pistola puntata dritto sulla tua nuca, pronta a espel-lere tutta la follia di un intero popolo, raccolta e compressa in un proiettile di piombo. Aveva un sapore, il vero orrore: il sapore dell’acqua putrida, e del cibo avariato che si era costretti a man-dar giù, di tanto in tanto, per ritardare il proprio incontro con la morte, mai così temuta, mai così agognata.

Questo, e molto di più, è il vero orrore.Hans e Jurgen lo conoscevano già. Separati dai luoghi del pro-

prio passato, depredati d’ogni dignità, picchiati e poi stipati in vagoni carichi di ebrei ancora in piedi ma già morti, nell’or-go-glio e nello spirito. Un treno in corsa nella storia: ultima fermata, il lager Libertà.

E adesso erano lì, davanti ai miei occhi, stremati e riversi sul fondo di una squallida baracca. Chiesero con un filo di voce un po’ d’acqua. Gli fu portata una spugna imbevuta di liquido scu-ro, meravigliosamente diafano agli occhi di ogni deportato.

Bevvero con avidità, come bestie da soma. Nel frattempo, si era raccolta attorno a loro una piccola cerchia di prigionieri, scrutati con ribrezzo da entrambi. Un atteggiamento, questo, più che naturale: il disorientamento legato al durissimo viaggio e alle botte ricevute non aiutava a distinguere i compagni dai nemici.

Rinfrancati dalla sete, riuscirono a sollevarsi, e poi a sedere su due vecchie sedie situate alle loro spalle. Ansimarono per qual-che secondo, senza mai alzare lo sguardo. In seguito, uno dei due riuscì a pronunciare le sue prime parole da prigioniero:

– Mi chiamo Hans Weizer – disse senza rivolgersi a nessuno in particolare. Avanzai verso di lui e gli offrii la mia mano.

– Deportato numero 371516. Qui veniamo identificati tramite codice – lo informai nell’ossequioso silenzio dell’intero dormito-rio. Osservò per un istante la serie di cifre tatuata sul mio avam-braccio, e rabbrividì senza stringermi la mano.

– Potete chiamarmi Felicien, ad ogni modo – aggiunsi in tono disteso.

– Dove ci troviamo? – chiese improvvisamente l’altro, senza presentarsi.

– Nel lager Libertà. Qual è il tuo nome?– Jurgen Kasparek. Il lager Libertà?– È un campo di prigionia nazista.– È tutto vero, allora – sentenziò Hans cercando lo sguardo del

compagno. Quest’ultimo tornò in piedi, e avanzò fino al centro della stanza.

– Ci hanno parlato di questo posto – balbettò tremante. La mag-gior parte di noi cominciò a fissarli con crescente curiosità: chi mai erano costoro?

Ma i nostri dubbi non avrebbero ricevuto un’immediata rispo-sta: l’imminente comparsa del comandante Bahuoff venne an-nunciata da un calpestio marcato e regolare, seguito dal più atter-rito dei silenzi. Quel silenzio imposto col terrore delle armi, che può reprimere ogni voce ma non il flusso di pensieri. Bastava guardarsi attorno per rendersene conto; al cospetto di Bahuoff, nessuno osava fiatare. Ma in quegli occhi, e in quei cuori… tutto si agitava, tutto parlava il linguaggio dell’odio che non conosce timore. La nostra voce scalpitava alla ricerca di una via d’uscita, ma le bocche restavano serrate.

Per paura, o forse per buonsenso.

CAPITOLO 3

Il lager Libertà era un piccolo campo di prigionia, composto fondamentalmente da cinque settori: quello delle baracche (chia-mate comunemente block), in cui trascorrevamo le poche ore di riposo concesse dai nazisti; quello delle camere a gas e degli in-ceneritori; quello degli uffici amministrativi, che comprendeva anche l’ambulatorio medico del dottor Kubik e la piccola fabbri-ca di armi, in cui alcuni di noi prestavano servizio e che un tem-po, nel periodo di maggiore affluenza (la popolazione del lager non superò mai le duemila unità), era stato utilizzato come block; a sud si estendeva invece un terreno agricolo di circa dieci ettari, che produceva parte del cibo destinato ai deportati e ai ge-rarchi; infine, quella che nei lager di dimensioni maggiori veniva chiamata zona-comando, era stata trasformata in deposito per le armi e le vettovaglie.

All’esterno del lager sorgevano invece le dimore delle SS, a un centinaio di metri dal campo vero e proprio. Si trattava di villette immerse nel verde, nelle quali soggiornavano anche le famiglie dei gerarchi. C’erano poi i campi di lavoro esterni, i più temuti da noi deportati, perché la semplice assegnazione equivaleva a morte certa, o a patire atroci sofferenze.

Le due zone principali erano separate da un reticolato percorso da corrente elettrica ad alto voltaggio. In cima, come consuetudi-ne, era stato distribuito del filo spinato. Al centro del reticolo, inoltre, si ergeva un imponente cancello, costantemente sorve-gliato da soldati armati. Ai quattro lati del campo svettavano al-trettante torrette di cemento, alte una decina di metri; erano pre-sidiate da sentinelle scelte, che per ovviare alla noia dettata dal-l’obbligo di restare lassù per ore, saltuariamente si divertivano a sparare raffiche di mitraglia ai nostri piedi. È facile immaginare quel che accadeva, le volte in cui la loro mira non risultava parti-colarmente precisa…

All’interno del lager Libertà, tuttavia, era possibile accertare una serie di differenze non certo irrilevanti, rispetto ad altri cam-pi di sterminio passati alla storia.

Il decano e i kapò, ad esempio, dormivano in un piccolo capan-none a parte. Si trattava di un privilegio esclusivo, attraverso il quale le SS fomentavano le rivalità interne. Inoltre, i loro giacigli erano costituiti da letti veri e propri, materassi e reti in ferro del tutto simili a quelli utilizzati dagli stessi nazisti. Noialtri, invece, dormivamo su catafalchi in legno, che nel loro complesso ricor-davano la struttura di un alveare. Ogni cella poteva accogliere a malapena un paio di deportati, ed era divisa dalle altre mediante un asse verticale, anch’esso di legno. Si poteva scegliere il com-pagno col quale dormire, non fu mai stabilita un’asse- gnazione numerica o cose del genere. La propria branda, quindi, poteva essere occupata in qualunque momento da un altro deportato, e questo fattore generò in determinate occasioni un po’ di acredi-ne, perché di teste calde lì dentro ce n’erano parecchie, tra ex ga-leotti e barboni rissosi. C’è di buono che l’assenza dei kapò con-sentì sempre di risolvere quei problemi fra noi; nell’angusto spa-zio del block il dialogo era possibile, e certamente incoraggiato da chi, come me, comprendeva bene il giochetto orchestrato dai nazisti per metterci contro a vicenda. Rumoreggiare durante il coprifuoco era espressamente vietato dal regolamento, ma con le dovute cautele non fu difficile aggirare l’ostacolo; c’è da dire inoltre che i nazisti non temevano nulla da noi, sicuri com’erano di poter reprimere ogni forma di dissenso.

Nel lager Libertà, la promiscuità sessuale veniva tollerata. Di più: incoraggiata. Si divertivano a mischiarci come animali, a esibire i nostri corpi nudi davanti ai detenuti dell’altro sesso; de-sideravano cancellare ogni traccia della nostra umanità, quel sen-so del pudore che, al di là di ogni altra implicazione, appartiene intimamente a ognuno di noi. Il loro scopo era renderci inguarda-bili gli uni agli altri, spingerci a disprezzarci fra noi. Il puzzo del-lo sporco e del sangue mestruale ammorbava l’aria dei block, e nei nuovi arrivati tutto questo provocava una reazione sdegnata,

risvegliando quel senso dello schifo che presto, in una o due set-timane, sarebbe scomparso inevitabilmente. Tanto bastava per diventare simili, se non identici, a quegli ammassi di ossa che gi-rovagavano storditi per il lager. E alla fine, come in un cerchio, nessuno poteva più disprezzare, ma soltanto essere disprezzato.

A parte la promiscuità, il maggiore elemento di distacco dalla tipologia classica di lager era un altro: l’assenza quasi totale di ebrei. Se ne contavano poche decine, e la maggior parte (tra cui il sottoscritto) non era lì per cause strettamente connesse all’ori- gine semitica. Il regime, infatti, non odiava soltanto i giudei. Odiava anche gli artisti, le prostitute, gli avanzi di galera, i neri, i religiosi, i dissidenti politici, gli apolidi, gli zingari, i malati men-tali, i barboni, gli storpi. Tutti coloro che non rientravano, fisica-mente e culturalmente, nello stereotipo ariano, erano chiusi lì dentro.

Io fui imprigionato per attività culturali contrarie ai principi del nazionalsocialismo. Cosa accadde, lo ricordo come fosse ieri…

Poco più che maggiorenne, mi ritrovai a gestire una piccola li-breria, ereditata da uno zio paterno agli inizi degli anni Trenta. Lettore della peggiore specie, quello da sbornia, avevo già divo-rato centinaia di libri. Quindi, a conti fatti, non avevo letto nulla. Così come l’aver osservato qualche stella non consente a un es-sere umano di comprendere la vastità del cielo, allo stesso modo la lettura di un numero pur significativo di libri non consente di comprendere, se non in minima parte, la vastità del sapere.

Non fu mai un’attività remunerativa, ma servì comunque a co-ronare un sogno: quello di trascorrere le mie giornate fra i libri, compagni inseparabili di un’intera vita. Con l’Europa ormai schiava di totalitarismi d’ogni colore, e la mia contrarietà alla guerra, alla violenza, alla discriminazione, nonché in seguito ai voltafaccia di chi aveva sostenuto fino al giorno prima di essermi amico, non mi erano rimasti che loro.

Mi piaceva catalogarli in ordine alfabetico, riporli nelle scansie e leggerne interi brani, scegliendo un’opera a caso senza dare

importanza all’umore del momento. Non visto, passeggiavo fra gli scaffali e lasciavo scorrere le dita sui dorsi dei libri, come fos-sero spighe di grano o steli d’erba alta. A volte li accarezzavo. Ci parlavo anche, nei momenti di maggiore solitudine. Il signor Goethe conosce a memoria ogni particolare della mia esistenza. Nei momenti bui, lanciavo occhiatacce a Hemingway. In quelli felici, discorrevo amabilmente con Epicuro.

Poi un giorno entrò un ragazzino. Chiese una copia del Mein Kampf. In tutta risposta, gli misi fra le mani una copia di Civil Disobedience. “Se non vuoi rimbambirti anche tu, leggi Thoreau e lascia perdere Hitler”, gli dissi. Lui strabuzzò gli occhi e se ne andò scuro in volto, lasciando la copia sul bancone: era il nipote di una SS, ma questo lo avrei scoperto il giorno seguente, quan-do le einsatzgruppen fecero irruzione e devastarono il locale. Mandarono in frantumi le vetrine, distrussero le opere di Kafka, Wilde, Mann, Brecht, artisti considerati “deviati” dal regime. Le bruciarono davanti ai miei occhi, mentre mi riempivano di calci e pugni. Le fiamme divoravano il sapere celato nei miei libri, mentre ripensavo all’antica legge del páthei máthos. “Chi soffre riceve conoscenza”, sostenevano gli ellenici. In quegli istanti, pensai piuttosto che “chi conosce riceve sofferenza”.

Fui accusato di nutrire simpatie verso l’ateismo, l’omosessua- lità, la filosofia libertaria. Confusero lo studio con la propaganda, e senza alcun processo, mi rinchiusero in un treno assieme ad al-tri innocenti, molti dei quali perirono durante il viaggio. Al no-stro arrivo, un terzo dei deportati non scese dal treno. Ad occu-parsi di loro furono i sonderkommandos, detenuti che trattavano i cadaveri e le camere a gas, eliminati a scadenze regolari dalle SS per impedire loro di divulgare ciò che vedevano. Il regime non lasciava nulla al caso.

Caricarono i morti su alcuni carretti di legno, e li condussero verso gli inceneritori. “La loro agonia è stata breve”, disse qual-cuno dall’altra parte del filo spinato. Ed io, che a malapena riu-scivo a reggermi in piedi, capii che le sofferenze sin lì patite sa-rebbero apparse inezie, se paragonate a quelle che mi attendeva-

no nel lager. Non solo di tipo fisico, intendo. Col trascorrere dei giorni si fece spazio in me un’atroce consapevolezza: mai più avrei letto, o anche semplicemente sfogliato, un libro. Destinato a trascorrere quel che rimaneva da vivere in compagnia dei miei persecutori, il privilegio della lettura (ritenuto erroneamente, oggi, un diritto come altri) non avrebbe mai fatto ritorno. La mia quotidiana esistenza conobbe un periodo di sospensione, tra il vi-vere e il non vivere, nel momento stesso in cui mi fu preclusa questa possibilità. Che non era un semplice piacere, o un passa-tempo da espletare di tanto in tanto. Era atto vitale, espressione della massima potenzialità umana: quella di apprendere. L’eti- mologia stessa lo suggerisce: leggere vuol dire raccogliere, en-trare in possesso di qualcosa che non si ha. Arricchirsi. La lettura di un romanzo non può mutare la realtà e tutto ciò che vi è in essa, ma può aiutarci a comprenderla. Non è illusione, ma supe-ramento delle verità precostituite, quelle che la società impone agli individui del suo tempo. Il Mein Kampf ne era zeppo. Ma la lettura non può essere ingiunta o vietata con le armi, perché in questo modo perde il suo significato originario. Smarrisce se stessa. La lettura, quella vera, incita al confronto, spinge l’appas-sionato ad andare oltre, a leggere il simile e il dissimile. Imporre o proibire la lettura è pura barbarie, omicidio delle idee, negazio-ne della libertà per eccellenza: quella di scegliere cosa racco-gliere.

Nella parte superiore del cancello del lager spiccava una scritta, il motto del campo; grandi parole forgiate nel ferro erano state inchiodate al frontone una accanto all’altra, e il loro significato non lasciava spazio a fraintendimenti:

L’uomo libero non pensa, esegueQuesto c’era scritto. Una massima perfetta, tesa ad annientare i

nostri processi mentali, il bisogno di capire, di chiedersi il perché di tutto quell’orrore. Per i nazisti non dovevamo comprendere al-cunché, ma accettare tutto senza fiatare. Odiavano e temevano la

nostra voce; il minimo bisbiglio li insospettiva, e spesso condu-ceva a un pestaggio immotivato.

Sarà per questa idiosincrasia nei confronti del dialogo, forse, che i detenuti venivano smistati all’interno dei block in maniera caotica. Tedeschi, polacchi, russi, francesi, inglesi, italiani e così via, senza alcun criterio, se non quello della diversità. Ad ogni modo, più o meno tutti masticavano il tedesco, chi per ascenden-za, chi per professione e chi per cultura personale, ed era in quel-l’idioma che avvenivano i nostri colloqui. Discutevamo fra noi la sera, perché durante il giorno ogni accenno di conversazione sul luogo di lavoro veniva punito nei modi più efferati, compreso l’omicidio. Ogni scusa era buona per far fuori uno di noi, insom-ma, e liberare così un posto nei dormitori, o nella fabbrica in cui prestavamo servizio.

Nella distorta ottica darwiniana abbracciata dai nazisti, soltanto i più forti meritavano di sopravvivere. Ed è per questo che con-cedevano ad alcuni di noi la possibilità di guadagnarsi un bricio-lo di vera vita: i prescelti non soffrivano la fame, né il freddo, non subivano maltrattamenti e non erano costretti a lavorare du-ramente. Alla storia sono passati solamente i kapò, ma in realtà i kapò occupavano il gradino intermedio della scala gerarchica edificata dalle SS. Quello più alto era appannaggio del lagerälte-ste, il decano del campo. Nel nostro lager questo ruolo era rico-perto da T.K., chiamato così per via delle sue iniziali; si trattava di un avanzo di galera, che coi nazisti aveva in comune numero-se caratteristiche. Su tutte, l’innata crudeltà.

Al di sotto di T.K. c’erano i suoi aiutanti, i kapò delle baracche, che godevano dei medesimi privilegi e potevano contare a loro volta su alcuni assistenti. Il kapò addetto al controllo del mio block era un tale di nome Fritz.

Fritz era stato in carcere a lungo, per aver commesso uno stu-pro. Temeva T.K., e lo adulava in tutti i modi. Spesso gli cedeva cibo, alcol e sigarette entrati clandestinamente all’interno del la-ger. T.K. apprezzava, ma sapeva che lo scopo ultimo di Fritz era quello di soffiargli il posto, un giorno o l’altro, per cui lo proteg-

geva ma senza eccedere. I tedeschi si aspettavano l’obbedienza più totale dai decani, e questo T.K. lo sapeva bene. Un solo erro-re, la minima indulgenza nei riguardi di Fritz e la sua vita da pri-vilegiato avrebbe avuto termine. Del resto, i nazisti non offriva-no competenze così importanti ai primi arrivati. Rivolgevano la loro attenzione esclusivamente ai criminali comuni; sapevano che un detenuto qualunque avrebbe approfittato del potere acqui-sito per alleviare le pene dei compagni, cancellando il nome di un deportato dalla lista di lavoro, falsificando un referto medico per consentirne il ricovero in infermeria, oppure favorendone il trasferimento in un block diverso per sfuggire a un pericolo in-combente. La solidarietà non poteva e non doveva trovare spazio in quel luogo, e per questo motivo occorreva affidarsi ai servigi di gente senza scrupoli.

A noi, detenuti semplici, tutto ciò appariva paradossale. Sebbe-ne questi signori godessero di privilegi a noi preclusi, il marchio dell’infamia campeggiava anche sui loro vestiti. Un triangolo di stoffa colorata cucito sulla parte sinistra della divisa e sulla gam-ba destra dei pantaloni, infatti, era il simbolo che distingueva i prigionieri: rosa era quello degli omosessuali, viola quello dei re-ligiosi dissidenti, verde quello dei criminali, rosso quello dei contestatori politici, nero quello degli asociali, mentre gli ebrei venivano segnalati col colore giallo. In base alle varie tonalità, i deportati venivano chiamati di volta in volta rosa, verdi, viola, rossi, neri o gialli.

A me, chissà perché, era stato assegnato il nero. D’altronde lo studio richiede isolamento, e l’isolamento genera pensieri di ogni tipo. Questa era la mia colpa, in fin dei conti: aver pensato. E quei pensieri, per ordine dei nazisti, dovevano rimanere ben na-scosti, e in silenzio. Il duro lavoro, le privazioni, l’annientamento della volontà, servivano esattamente a questo. Punizione ancor più dura per chi, come me, ha sempre considerato il libero scam-bio di idee l’ancora di salvezza per questa umanità alla deriva.

CAPITOLO 4

Il comandante Bahuoff entrò nel block scortato da T.K. e Fritz. Dapprima ci scrutò tutti con una smorfia di raccapriccio, come era solito fare davanti ai nostri corpi smunti. Poi si rivolse a Fritz e domandò:

– Perché questi pezzenti non sono al lavoro?– Hanno il permesso del medico – rispose il kapò prontamente. – Davvero? Beh, questo è un campo di lavoro, non un campeg-

gio per ebrei infermi. Il dottor Kubik saprà tutto di medicina, ma non capisce nulla di economia. Siamo in guerra, per dio, l’ultima cosa che serve alla Germania è un bivacco di storpi e diarroici.

– Io ho solamente eseguito gli ordini del dottor Kubik – cercò di giustificarsi Fritz. Bahuoff sorrise ironicamente:

– Ben fatto, Fritz. Dove sono i nuovi arrivati? – domandò allora con vivo interesse. Il kapò indicò con un cenno della testa l’an-golo in cui stazionavano Hans e Jurgen. L’ufficiale li osservò compiaciuto, poi mosse nella loro direzione, e ordinò a entrambi di mostrargli un documento di riconoscimento. Hans e Jurgen ti-rarono fuori due portafogli di pelle all’apparenza molto costosi, che consegnarono con evidente rammarico. Bahuoff esaminò le due carte d’identità, poi sorrise di nuovo.

– Preparate due triangoli di stoffa gialla per questi ebrei – sen-tenziò dunque senza voltarsi, ma persistendo a fissare i volti im-pauriti dei novelli deportati.

– In ginocchio – ordinò in seguito con una risolutezza che con lasciava adito ad alcun tipo di tentennamento.

– Mani dietro la nuca – ingiunse ancora.I nuovi arrivati eseguirono anche questo ordine, ma senza com-

prendere il fine ultimo di quelle richieste. Io, che invece ci ero già passato, sapevo perfettamente cosa stava accadendo: era il saluto sassone, una sorta di attestato di sottomissione al capo del lager. Solitamente veniva attuato al di fuori delle baracche, sotto

il sole, e in quella posizione si poteva restare per ore, fino a sve-nire. E chi perdeva conoscenza veniva ucciso, perché reputato incapace di sostenere la dura mole di lavoro richiesta dai nazisti. Il saluto sassone all’interno del block era un’anomalia: e questo, in chi osservava la scena, destò subito una certa preoccupazione. Non temevamo per le loro vite, perché Hans e Jurgen erano gio-vani e robusti, e freschi sul piano delle forze. No: temevamo per il loro orgoglio. Perché ci sono cose peggiori di un proiettile in corpo, e credo che questa sia una delle realtà incontrovertibili emerse dall’esperienza del totalitarismo nazista.

Ad ogni modo, tutti i nostri timori ricevettero conferma nell’i-stante in cui Bahuoff ordinò ai due di tenere la testa ben alzata, e gli occhi spalancati. Perché un momento dopo il comandante, con estrema lentezza, diede fuoco a una sigaretta, abbassò la cer-niera dei pantaloni e cominciò a pisciare sui volti dei poveri mal-capitati. Poi attaccò a ridere rumorosamente, e a tremare in preda a quell’eccesso di scherno. Tremando, finì per sporcare anche i vestiti di Hans e Jurgen, che subirono quella umiliazione senza battere ciglio, quasi fossero già pronti, fisicamente e psicologica-mente, a sopportare qualunque tipo di sopraffazione. Del resto lo avevano detto loro: del lager Libertà avevano già sentito parlare, e la conoscenza, si sa, aiuta a non avere paura. O ad averne meno, se il coraggio non manca.

Dopo averli inzuppati per bene, Bahuoff risistemò la camicia nei pantaloni e si abbandonò ad una lunga tirata della sigaretta; successivamente s’inarcò in avanti, guardando Hans e Jurgen dritto negli occhi. Espirò il fumo sui loro volti, e sorridendo os-servò:

– Io sono un tedesco, voi siete feccia. Posso starmene qui e pi-sciarvi in faccia per tutto il tempo che mi pare. Allora, siamo o no una razza superiore?

Una grassa risata echeggiò per tutto il block. Tornò ritto, quin-di si rivolse a Fritz dicendo:

– Assicurati che i detenuti rimangano nell’attuale posizione fino a nuovo ordine. T.K., tu vieni con me.

Infine si avviò verso l’uscita, ma il volto di un vecchio musul-mano attirò la sua attenzione. Si bloccò a un metro dalla porta, tornò indietro e gli chiese:

– Tu: perché non sei a lavoro? L’uomo tremò, e noi anche. – Dicke füsse – biascicò in un tedesco stentato. Piedi gonfi. – Però adesso sei in piedi, qui, davanti a me – replicò Bahuoff.

Era una trappola. Qualunque cosa avesse detto o fatto, il vecchio sarebbe passato dalla parte del torto. Difatti, era assolutamente vietato restare seduti o sdraiati in presenza di una SS. Tutto quel che poté fare, dunque, fu cercare un foglietto di carta compilato dal dottor Kubik, che lo esentava dal prestare servizio in fabbri-ca. Frugò nelle tasche, e quando l’ebbe trovato lo aprì e lo mo-strò al comandante, esibendo un sorriso disperato. Bahuoff lesse velocemente il referto medico, poi lo strinse fra le mani, accar-tocciandolo.

– Un uomo che non sta in piedi è un uomo già morto. Qui non c’è più bisogno di te – disse, ed estraendo velocemente la sua pi-stola, gli sparò in pieno volto da pochissimi centimetri, centran-dolo proprio in mezzo agli occhi. Il corpo del vecchio cadde al-l’indietro, in un tonfo già udito mille volte, e ogni volta nuovo, ogni volta agghiacciante. Bahuoff gettò per terra il foglietto di carta, lanciandoselo alle spalle senza alcun interesse.

Poi andò via, nel silenzio e nell’immobilità generali.

CAPITOLO 5

Fritz stazionava nei pressi dei nuovi arrivati, rimasti nella posi-zione del saluto sassone per oltre due ore. Ogni tanto rideva, e li incoraggiava in tono sarcastico, oppure chiedeva loro se fossero già stanchi. Di tanto in tanto cavava dalla tasche qualche pistac-chio, lo sbucciava e lo mandava giù; l’involucro legnoso, invece, lo tirava addosso a Jurgen e Hans, cercando di centrarli in testa.

– Vedete – diceva – quel che ancora non vi è chiaro è che la si-tuazione attuale non è passeggera. Hitler conquisterà la Russia, poi si spingerà ancora più in là, verso oriente. Quei musi gialli non opporranno resistenza, vedrete. Il mondo intero sarà nazista, poi bisognerà decidere chi deve restare in vita e chi no. Io adesso sono un prigioniero, ma durerà poco. La mia idea è che presto l’esercito nazista avrà bisogno di gente con una certa esperienza. Tipi come me, insomma, abituati per natura al comando. Gli ebrei come voi, invece, verranno schiacciati come mosche.

– Noi non siamo ebrei – sussurrò Hans a testa bassa. Seguirono alcuni secondi di silenzio. Fritz, incredulo, gettò per terra il pi-stacchio che stava per ingurgitare e avanzando verso di lui chie-se:

– Che hai detto?– Che non siamo ebrei – gli fece eco Jurgen. – Ma tu guarda, abbiamo due duri! – sbottò Fritz, che un istante

dopo si avventava su entrambi, tirando i capelli ora all’uno ora all’altro, obbligandoli a guardarlo negli occhi.

– Forse non vi è chiaro chi comanda, qui – disse il kapò per-dendo saliva da un lato della bocca. Gli capitava sempre, negli eccessi di ira. – Se io vi dico di stare zitti voi non dovete fiatare. Ci siamo intesi?

Hans e Jurgen, i volti contratti in una smorfia di rabbia cieca, non risposero. Fritz mollò i capelli di Jurgen e si allontanò di un passo, estraendo dal fianco destro della divisa un bastone di le-gno.

– Posso facilitarvi l’esistenza o rendervi la vita un inferno – disse con calma, poi sferrò un colpo che centrò Hans in pieno volto. Sangue denso e scuro cominciò a defluirgli copiosamente dal naso. Nonostante questo, non proferì lamento. Barcollò per qualche istante, in un equilibrio sempre più difficoltoso.

– Se cadi ti uccido – minacciò Fritz. Parlava sul serio. Hans strinse i denti, e riuscì a tener duro. Il provvidenziale arrivo, per una volta, del decano T.K., lo sottrasse a un pestaggio certo.

– Fritz, Bahuoff ha chiesto di te – disse affacciandosi sul ciglio della porta. Notò la maschera di sangue in cui era stato ridotto il viso del nuovo deportato, e sorrise.

– Vacci piano amico – commentò – quel porco musulmano è crepato e noi abbiamo bisogno di manodopera, o Bahuoff spedi-sce noi due a lavorare.

Fritz inspirò rabbiosamente e serrò la mascella, ma non obiettò nulla. Rimise a posto il suo bastone, poi s’avviò verso l’uscio. T.K. era già sparito. Nell’uscire di scena, tuttavia, qualcuno gli domandò:

– Ti diverti un mondo, non è vero?Il kapò volse lo sguardo verso destra. A parlargli era stato

Oskar, un delinquente comune arrivato nel lager assieme a Fritz.– Che problema hai, amico? Hai avuto la tua occasione, e te la

sei lasciata sfuggire come un idiota. Faccio quello che avresti do-vuto fare tu – ribatté Fritz.

Ogni volta in cui si rivangava quell’episodio, Oskar diventava un blocco di marmo. Il kapò aveva ragione: inizialmente aveva-no affidato a Oskar il compito di dirigere il nostro block, il nu-mero due. Ma lui, per un motivo che sfuggiva a chiunque, aveva risposto “no grazie”, ottenendo come ricompensa una scarica di pugni e calci in tutto il corpo. Eppure, Oskar non era affatto un santo. Nei suoi trascorsi di delinquente aveva rubato, picchiato e anche ucciso. Non era migliore di Fritz, da questo punto di vista. Eppure, l’impatto col lager doveva aver smosso qualcosa nell’a-nimo di quel bestione, qualcosa che non aveva minimamente sfiorato né Fritz né T.K., malfattori come lui. Quel qualcosa, lo avrei conosciuto nel tempo.

C’è da dire che i rapporti fra me e Oskar non furono mai idillia-ci; io ero il pacifista amante delle lettere e delle arti, lui un ga-leotto condannato a trent’anni di carcere per aver commesso un omicidio. Il suo modo di fare violento e scontroso non mi piace-va, ed io, ai suoi occhi, probabilmente apparivo il classico uomo di cultura che può permettersi di sprecare il proprio tempo tenen-do la testa sui libri. Pur tuttavia, dal giorno in cui si sottrasse al-

l’opportunità di diventare il nuovo kapò, una sottile forma di am-mirazione nei suoi confronti si destò, silenziosa, in me. Avrebbe potuto mangiare e dormire a sazietà, ma quel qualcosa di cui par-lavo, invisibile ai nostri occhi, lo costrinse a dire di no. Fu un ge-sto eroico, anche se lui non lo considerò mai tale.

Ad ogni modo, quando Fritz si vide nuovamente stuzzicato da un detenuto del suo block, avvampò in volto, scosso dalla stessa rabbia di prima, quella che nasce dall’insubordinazione di un sottoposto. Però Oskar non era un prigioniero qualsiasi per lui. Avevano condiviso per mesi la stessa cella, e vissuto insieme la terribile esperienza della deportazione; inoltre, se non fosse stato per la coraggiosa rinuncia di Oskar, anche Fritz avrebbe sofferto la fame e gli stenti. Il suo ruolo, nondimeno, gli imponeva di sopprimere le voci fuori dal coro; una frase lasciata impunita po-teva destare in noi un moto di ribellione, e mettere nei guai il kapò. I tedeschi non aspettavano altro. Fritz, consapevole di po-ter essere rimpiazzato in qualunque momento, e senza alcuna giustificazione, teneva alta la guardia. Per questo motivo avanzò nella direzione di Oskar, e rispolverò il manganello sporco del sangue di Hans.

– Non siamo più in prigione: qui comando io, adesso – proferì battendo ritmicamente il bastone sul fianco destro.

– Non siamo più in prigione? Cristo santo, ma ti sei guardato attorno? – chiese l’altro.

– Va a farti fottere, Oskar! Sono io che gestisco questa baracca, tu non puoi mettere becco nelle mie decisioni. Vuoi dare gli or-dini? Troppo tardi, povero stronzo, dovevi pensarci prima. Pote-vi mangiare a sbafo, bere acqua pulita, dormire su un letto vero. E invece no, dovevi fare l’eroe. Sei entrato qui dentro che pesavi novanta chili, potevi ribaltare da solo una camionetta delle SS. Guardati, adesso. Quanti chili hai perso da allora? Quindici? Venti? Può darsi che tutto questo ti renda orgoglioso, ma qui con l’orgoglio non si va lontano, ci si ferma alla fossa.

T.K. si affacciò per la seconda volta nel block, richiamando l’attenzione del compagno con un sospiro spazientito. Allora Fri-

tz s’incamminò velocemente verso di lui, mettendo a posto il suo manganello. Sapeva che non era il caso di far alterare oltremodo il decano. Ma la sua rabbia non svanì nell’immediato.

– In cella mi hai salvato il culo in più di un’occasione, ma stai passando la linea – aggiunse Fritz tornando indietro e afferrando Oskar per un braccio – quindi questa è l’ultima volta che usi quel tono con me. Non ti faccio niente, e pago il debito. La prossima volta non la passerai liscia: tienilo bene a mente.

Questo disse. Seguì un duro scambio di sguardi, poi si allonta-nò di buona lena.

Hans e Jurgen caddero per terra un istante dopo che Fritz fu uscito, e in questo modo ebbero salva la vita.

CAPITOLO 6

Nelle ore successive, Hans e Jurgen affrontarono l’iter burocra-tico del lager, già sperimentato da tutti noi.

Dopo che fu cessata la tortura del saluto sassone, entrambi fu-rono accompagnati nell’ufficio della sezione politica, il luogo in cui si veniva sottoposti all’interrogatorio di routine, tra botte, mi-nacce e sberleffi. Dati penali e personali venivano registrati su una scheda, corredata da una bella fotografia del detenuto. Da quel momento in poi, non si era nulla più che un numero tatuato sull’avambraccio. Nel primo pomeriggio T.K. tenne loro una breve lezione su ciò che li attendeva nel lager. Pronunciò la paro-la “morte” in continuazione, perché il manuale del bravo decano imponeva di fugare ogni dubbio circa il fine ultimo della depor-tazione. Seguì il taglio dei capelli, quindi fu il turno della doccia. Erano i nostri carcerieri a stabilire la temperatura dell’acqua: da perfetti sadici, si divertivano a farla scendere bollente in estate, e ghiacciata in inverno. Sempre meglio del gas, ad ogni buon conto.

Nudi come vermi, Hans e Jurgen furono condotti dall’altra par-te del campo per il rito della vestizione. Anche a loro furono as-segnati dei pantaloni, una divisa a righe, delle mutande, una ca-

micia, una giacca, un berretto, un paio di calze e uno di scarpe, tutto rigorosamente logoro e sporco. La tappa successiva fu alla camera dei valori, ove consegnarono il denaro e gli oggetti di una qualche rilevanza economica che avevano portato con sé. Gran parte degli averi sarebbe stata razziata, nei giorni successi-vi, da ufficiali e sottoufficiali, e in misura minore dai kapò; non era cosa rara osservare al polso di qualche SS l’orologio che, fino al giorno prima, tutti avevano visto pendere dalla catenina di un deportato appena giunto nel campo.

L’odissea di Jurgen e Hans ebbe fine con la visita medica, al termine della quale risultarono di robusta corporazione, e quindi idonei a svolgere il lavoro pesante.

Vennero assegnati al secondo block: il mio.Al crepuscolo, come d’abitudine, ci riversammo tutti insieme

nel grande spiazzo, per l’appello serale. Quella era la parte della giornata più dura e dolorosa da portare a termine. I lavoratori non vedevano l’ora di andare a riposare, gli infermi non riusciva-no quasi mai a reggersi in piedi, e in un modo o nell’altro dove-vano sperare nell’aiuto di qualcuno giunto lì da poco, quindi più forte sul piano fisico. L’appello durava solitamente un’ora, ma poteva protrarsi per l’intera notte, nel caso in cui un detenuto si fosse reso irreperibile. Tempo addietro, durante la seconda adu-nanza, una donna di origini marocchine non aveva risposto alla chiamata. L’intero corpo dei detenuti fu bloccato per cinque ore nella piazza, sotto la pioggia battente. La temperatura esterna non arrivava allo zero, e numerosi soldati iniziarono a setacciare ogni angolo del lager, alla ricerca della donna scomparsa. Il suo corpo senza vita fu rinvenuto in fabbrica, steso sul pavimento. Aveva tentato di trascinarsi al di fuori della struttura, strisciando coi gomiti, ma la morte se l’era portata via a metà del percorso. Con le ultime forze, però, era riuscita a strappare il triangolo rosa che la identificava come omosessuale. Bahuoff ordinò che le ve-nisse ricucito, al momento di gettare il cadavere nella fossa.

In quella occasione, nelle cinque ore d’attesa altri sette detenuti morirono a causa del gelo. I nostri corpi, già provati dalla fame e

dal duro lavoro, non potevano sopportare esposizioni prolungate al freddo. Da quel giorno, ognuno di noi comprese profonda-mente di non essere responsabile soltanto della propria vita. Un tentativo di fuga, un banale ritardo o un suicidio potevano con-durre altri individui alla morte. Quell’episodio colpì tutti, indi-stintamente, e da allora nulla di simile si verificò nel lager.

A volte, quando Bahuoff era ubriaco, ci chiedeva di cantare l’inno del campo, una canzoncina scritta da una detenuta polac-ca, Tamara Zmuda. Tamara era laureata al conservatorio, e suo-nava il pianoforte divinamente. Un giorno Bahuoff le chiese di andare a casa sua per suonare qualcosa; eseguì, su richiesta degli ufficiali, alcuni brani di Chopin, Mozart e Liszt. Il comandante ne restò talmente impressionato da chiederle di comporre un car-me per il lager. O meglio, glielo impose. Tamara fu scaltra. Ne inventò uno dal carattere trionfalistico, perfettamente in linea con la grandeur ricercata dai nazisti, ma breve. Sapeva infatti che una strofa in meno avrebbe potuto salvare la vita a più di un prigioniero malato. E così, a seconda dei capricci del nostro peg-giore aguzzino, almeno due volte la settimana ci ritrovavamo a cantare con voce goffa e roca questi versi:

Ave Germania,madre di tutti noi.

A te io rendo onoredall’alba al tramonto,

per avermi accolto nella tua terra immacolata.Giusta o ingiusta tu sei la mia patria,

e col lavoro mi rendi libero.Un altro giorno muore,ma per sempre io sarò

tuo fedele servitore.Grazie Germania, grazie mio Führer

Bahuoff e i suoi sottoposti ridevano come matti durante l’ese- cuzione. Sapevano che nessuno di noi si rispecchiava in quelle

parole, e che la nostra riconoscenza era pura facciata, esibita per volere delle armi. Ma ne godevano ugualmente, e a volte canta-vano con noi, scoppiando in un applauso fragoroso al termine di quella puerile esibizione.

Terminato l’appello serale, Hans e Jurgen conobbero per la pri-ma volta la mensa del lager, una baracca desolata in cui una don-na dall’aspetto mascolino riempiva di cibo la nostre scodelle, chiamate in gergo militare gamelle o gavette, quasi sempre di latta e di colore rosso. La parola cibo era chiaramente un eufemi-smo: le pietanze che ci somministravano non possedevano alcun valore nutritivo, ma servivano unicamente a placare per qualche ora la fame, e a tenere caldi. Per questo le mandavamo giù. Tut-tavia, una delle principali cause di infezione era proprio il doppio pasto quotidiano, giacché le gamelle venivano lavate frettolosa-mente, con una sciacquata veloce sotto l’acqua fredda; passava-no così di bocca in bocca, ogni giorno, e non avendo in dotazio-ne forchette o cucchiai, né tanto meno coltelli, identificati come potenziali armi d’offesa, al mattino e alla sera nuove labbra si adagiavano sul bordo della scodella, depositando germi e batteri che una semplice sciacquata non poteva certo portar via.

Inoltre, molto spesso le gamelle non venivano utilizzate per lo scopo cui erano destinate. C’è da dire che il problema dell’ap- provvigionamento s’incrociava, nella vita del campo, con nume-rosi altri problemi. Uno dei più gravi, restando in tema di condi-zioni igieniche, era quello legato all’espletamento dei bisogni fi-siologici. Per urinare e defecare avevamo a disposizione, ognuno all’interno del proprio block, una semplice buca, collocata lonta-no dalle brande. Naturalmente, essendo alcuni di noi gravemente malati, non tutti potevano concedersi il lusso di alzarsi in piena notte per trascinarsi fino al fosso. Per questo motivo, le gamelle lasciate accanto ai letti durante le poche ore di riposo divenivano prede degli infermi, che dopo averle usate come contenitori per feci o urina, le abbandonavano accanto alle brande, o sui cumuli dell’immondizia. Il mattino dopo una squadra raccoglieva le ga-

vette ancora sporche e le passava sotto l’acqua, come al solito: da quel momento in poi, la loro libera circolazione aveva inizio.

Nessuno sapeva, né intendeva scoprirlo, cosa mai avesse accol-to fino alla sera prima la gamella utilizzata per cibarsi. Già di per sé la sbobba che i nazisti ci passavano non aveva alcuna parven-za di cibo: a mezzogiorno e a sera si disponeva di un primo, la “minestra”, e di un secondo, chiamato “porzione”. La minestra consisteva in un litro scarso di acqua calda, in cui galleggiavano pezzetti di patate marce dal lunedì al giovedì, rape il venerdì e il sabato, orzo stracotto la domenica. La porzione, invece, veniva identificata solitamente con un pezzo di pane fasullo, pieno di segatura più che di crusca; cinque volte alla settimana ci si pote-va spalmare sopra qualche ricciolo di burro, le volte restanti il pane serviva a mandare giù una salciccia bruciacchiata, e due cucchiai di marmellata in pessimo stato di conservazione. Nei periodi abbondanti, uno strato di formaggio spalmabile, insapore e inodore, ornava la superficie scura delle fette di pane.

Al loro primo incontro con le vettovaglie del campo, Hans e Jurgen preferirono rinunciare quasi del tutto alla propria razione di cibo, che donarono disgustati ad alcuni ucraini stipati in un an-golo. Durante il pasto, ci osservarono a lungo con aria incredula, probabilmente chiedendosi con che coraggio riuscissimo ad in-goiare quello schifo. Ma erano lì soltanto da poche ore, e anda-vano capiti. Dal giorno seguente, anche loro avrebbero ceduto al-l’istinto di sopravvivenza, che ti imponeva di mangiare, di respi-rare, di non mollare la presa da quel filo sottile che stringevi per restare aggrappato alla vita.

Ci trattavano come bestie, e in un certo senso, come tali ci comportavamo. Per necessità. Ma spente le luci, e adagiati i no-stri corpi doloranti sulle brande, qualcosa tornava dal passato per ricordarci la nostra umanità.

Era il dialogo, il confronto.

CAPITOLO 7

Prima del mio arrivo, i detenuti del secondo block andavano a dormire senza aprire bocca, rifugiandosi nei propri pensieri e nei propri ricordi. Una pratica assai pericolosa, perché spesso qual-cuno di noi finiva col porsi delle domande cui un singolo uomo non può offrire risposta. Ne derivava un crescente senso di insof-ferenza, sfociante in profondi sospiri o in un sonno agitato.

Io offrii a tutti un’alternativa: il dialogo come scappatoia, come via di fuga dal disagio della riflessione solitaria. Tutti noi, in fon-do, tentavamo di capire, ma se ci fossimo affidati unicamente ai nostri singoli e limitati punti di vista, nessuna spiegazione valida, o anche lontanamente verosimile, sarebbe mai stata avanzata. Occorreva un confronto. Ed io, che nella mia vita non ho mai ne-gato a chicchessia il diritto di replica, parlando con tutti e ap-prendendo da tutti, mi prestavo perfettamente al ruolo di interlo-cutore prediletto.

La prima discussione, all’interno del nostro block, nacque at-torno al tema della musica. Tamara, la pianista, era appena torna-ta dalla villetta del rapportführer Braun, l’ispettore capo che sot-tostava unicamente agli ordini di Bahuoff, e che ci detestava a tal punto da non mettere quasi mai piede all’interno del campo. Le chiesi il motivo per il quale ai nazisti piaceva così tanto la musi-ca classica. Mi rispose che le SS udivano le note, ma non le com-prendevano affatto. Il loro cuore non poteva cogliere la purezza della musica, i sentimenti ch’essa esprime. Simulavano un fitti-zio senso di beatitudine, applaudivano ogni esibizione con lo stesso sorriso inebetito con cui, al circo, tutti noi osserviamo equilibristi e funamboli sospesi per aria, consci di non poter emulare le loro acrobazie. Questo pensava Tamara. Il mito del nazista mecenate le provocava repentini scatti di rabbia; la cultu-ra, ripeteva sovente, non uccide le opinioni, ma le sposta un po’ più in là, per accoglierne altre. Chi uccide le opinioni degli altri non può amare la cultura, ma usarla esclusivamente a fini perso-nali.

Nel corso della loro prima notte da deportati, invece, Hans e Jurgen ebbero modo di ascoltare una discussione fra tre perso-naggi piuttosto noti del block numero due: don Andrea (Andrea Biazzi era il nome completo), un parroco italiano arrestato per aver fornito riparo ad alcuni ebrei in una chiesa al confine tra Francia e Germania, nonché uomo di cultura (parlava tre lingue) e guida spirituale dei deportati cattolici presenti nel block; Franz Kozminski, un ebreo polacco che insegnava religione in un isti-tuto privato di Varsavia; e poi Abdul-Hakam Kathir, un vecchio minatore di Lodz, reo soltanto di non aver rinunciato alla fede islamica.

Pioveva, quella notte. Hans e Jurgen non avevano aperto bocca per tutto il giorno, e nonostante molti di noi desiderassero appro-fondire la loro conoscenza, un certo timore ci impediva di ap-procciarci ad essi. D’altro canto, era quasi impossibile vederli se-parati per più di un minuto; se ne stavano rintanati in un angolo, col volto chino e lo sguardo accigliato, ora in un greve silenzio, ora impegnati in un dialogo dai toni febbrili. Non sembravano per nulla rassegnati allo status di deportati; soffrivano la prigio-nia ben più dei detenuti comuni, che magari vegetavano lì dentro da oltre due mesi. Comprensibile, e tuttavia preoccupante il loro atteggiamento. C’era stato il caso di uno slavo, qualche settima-na prima, incapace di accettare l’idea di dover restare lontano dalla famiglia fino all’ultimo dei suoi giorni, e che proprio per questo si era tolto la vita a distanza di trentasei ore dall’ingresso nel lager, lanciandosi contro la rete elettrificata.

Quella notte piovosa, però, Hans e Jurgen ascoltarono attenta-mente i discorsi dei tre uomini di fede.

Il primo a prendere la parola fu don Andrea, sdraiato su un fianco a qualche branda di distanza dalla mia. D’acchito, doman-dò ai suoi interlocutori se fossero interessati a chiacchierare un po’ con lui, dal momento che non riusciva a prendere sonno. Ko-zminski annuì prontamente, Abdul sorrise.

La voce di don Andrea, limpida e ferma, echeggiò allora nel si-lenzio generale, ponendo a tutti i presenti in ascolto una doman-da angosciosa:

“Vi siete mai chiesti il perché di tutto questo?”Molti annuirono, poi scrollarono le spalle, quasi a voler evitare

il confronto su quel tema. Non era semplice soppesare le cause della nostra prigionia, specie dopo una durissima giornata di la-voro, segnata come sempre da urla, botte e crimini consumati nell’omertà comune. Tuttavia, Abdul ammise:

– Mi pongo la stessa domanda ogni giorno, padre Biazzi. Lo fa-rei ogni minuto, ogni secondo forse, se potessi. Ma qui si tratta di salvare la pelle, e se rifletto non dormo, se dormo non riposo, se non riposo lavoro male, e se lavoro male i nazisti mi fanno secco. Per quel che posso, quindi, evito di pensarci. Ma certe volte… la mattina, appena sveglio… non posso farne a meno.

– E a quale conclusione sei arrivato? – chiese don Andrea. – Nessuna, purtroppo. Questa situazione è assurda. Siamo in

tempo di guerra, è chiaro, ma una grande guerra c’è stata pure trent’anni fa, e certe cose non sono accadute.

Padre Biazzi assentì e aggiunse:– Le persecuzioni nei confronti delle persone come noi durano

ormai da anni. Qui il nemico non è più l’esercito avversario, ma civili scelti con cura all’interno della massa. Perché?

– Perché non siamo graditi al regime – sospirò Kozminski.– Naturalmente. Ma per quale motivo?– Perché siamo ostili.– Ostili? Il sottoscritto, forse. Io che ho volutamente nascosto

qualche ebreo nella mia chiesa. Ma gli altri? Abdul, per esempio, che ha fatto di male per finire qui dentro?

– Sono un musulmano, ho la pelle scura: non è già abbastanza? – replicò lo stesso Abdul sforzandosi ancora una volta di sorridere.

– Significa che non è quel che facciamo a trasformarci in nemi-ci – spiegò don Andrea – ma quel che siamo.

Kozminski annuì e precisò:

– I tedeschi credono nell’esistenza di una razza ariana, della quale si proclamano gli eredi. Chi non è ariano oggi non lo di-venterà certamente domani, va dunque isolato ed eliminato. Tut-to qui. I nazisti non odiano soltanto gli ebrei come me, e questo lager lo conferma. Vogliono eliminare tutto quel che c’è stato prima del loro arrivo. Fingono di allearsi con italiani e giappone-si, ma li disprezzano profondamente. Su questo Fritz ha ragione.

– Io credo che Hitler sia l’Anticristo – intervenne all’improv- viso Abdul, che come molti musulmani ragionava in termini strettamente coranici. Nonostante lo scetticismo presente sui vol-ti degli altri deportati, me compreso, egli proseguì:

– Non ha alcun Dio, e si è votato allo sterminio dei credenti. Chi ci perseguita disprezza la nostra fede, perché non ne ha.

– Parli dei nazisti? – domandò il professore.– E di chi altrimenti?– Allora sbagli: ce l’hanno eccome una fede, ma la ripongono

in Hitler.– Hitler è un uomo, come me e te – replicò Abdul – e chi di noi

può competere con l’Altissimo? L’arroganza dei tedeschi verrà presto condannata. Li attende una punizione maggiore, credete-mi.

– È questo che dobbiamo fare? Attendere? – domandò una zin-gara ungherese nel buio del capannone.

– Nel Corano è scritto: sopporta con pazienza, come sopporta-rono i messaggeri risoluti. Non cercare di affrettare alcunché.

– Attendete, bravi: proprio come Pio XII e quell’altro prima di lui – polemizzò Dimitri, un compagno del block.

Padre Biazzi sospirò, poi disse:– La mia fede mi impone di accettare tutto questo, caro Dimitri.

La tua posizione è differente, per te è tutto più semplice. Quanto al Papa, dai un’occhiata all’enciclica Mit brennender sorge, poi ne riparliamo.

Dimitri, che al di là di uno spiccato ateismo stimava profonda-mente don Andrea, sembrò sul punto di ribattere, ma infine la-sciò perdere. Riguardo alle palesi differenze fra un detenuto e

l’altro, fu proprio padre Biazzi a mettere in chiaro alcune cose; e cioè che l’insofferenza per la promiscuità sessuale era esatta-mente ciò che i nazisti si auguravano di provocare in noi; che gli omosessuali, le donne e gli atei non andavano discriminati, per-ché a quello pensava già il regime (“e le sacre scritture di qua-lunque religione”, aggiungeva Dimitri provocatoriamente). Che la discordia non poteva albergare in un luogo come il lager Li-bertà, dove chiunque, ognuno a suo modo, era considerato diver-so dall’altro, e per questo indegno di vivere.

Il parroco italiano, libero di proseguire, aggiunse allora:– Gesù Cristo esorta ad amare i nostri nemici, a fare del bene a

coloro che ci odiano, a benedire coloro che ci maledicono, a pre-gare per coloro che ci maltrattano. Tuttavia, continuo a doman-darmi il perché di tutta questa sofferenza, di tutto questo orrore.

– Probabilmente non è in nostro potere dare un senso a ciò che accade – ipotizzò il professor Kozminski – possiamo tentare, è ovvio, ma rischiamo di sbatterci la testa. E l’ultima cosa che de-sidero, dopo una giornata di lavoro, è arrovellarmi inutilmente il cervello.

– Non ti interessa capire? – domandò stupito don Andrea.– Siamo nelle mani di Dio, padre Biazzi, e soltanto la sua mise-

ricordia può tirarci fuori di qui. Dio non rigetta l’uomo integro, e non sostiene la mano dei malfattori. A me basta questo: la cer-tezza che prima o poi tutto passerà.

– E nell’attesa che facciamo?– Siamo uomini di fede, no? Allora preghiamo. Per noi e per gli

altri.– Concordo – disse Abdul con voce ferma. Don Andrea sospirò

ancora, mostrando a tutti un paio di occhi lividi e tristi:– Voi parlate bene, amici miei. Parlate come dovrebbe parlare

un vero credente. Ma ci sono compagni, in questo lager, che non seguono affatto la parola di Dio, non pregano e non osservano i comandamenti; nonostante questo, noi soffriamo le loro stesse pene. Se volessi peccare anch’io di presunzione, chiederei: per quale motivo? A cosa serve dunque la nostra fede? Ma voi tire-

reste in ballo i martiri, ovviamente, quindi vi rivolgo un’altra do-manda: come faremo a convincere chi non crede che la cosa giu-sta da fare, nella situazione in cui ci troviamo, è attendere?

Il professor Kozminski si guardò attorno, annuendo mestamen-te:

– Non possiamo obbligarli ad agire in un modo piuttosto che in un altro – chiarì – ma è nostro dovere parlare, consigliare, mo-strare la via. Io ho la Torâh, tu i Vangeli, Abdul il Corano. C’è chi non ha nulla, e per questo va aiutato. Non parliamo per noi stessi, ma in vece dell’Altissimo. Che si creda nel Dio biblico, in Gesù Cristo o in Allah, è nostro compito invitare alla prudenza e alla moderazione, allontanando i deportati dalla tentazione di una ribellione sanguinosa e per di più sterile, ai fini della nostra libe-razione.

Abdul approvò il discorso del professore, ma il viso di padre Biazzi non mutò espressione, restando freddo e compassato.

– Non concordi? – gli domandò Kozminski. Don Andrea si sdraiò sulla branda, e tirò verso l’alto la coperta

lercia con la quale doveva far fronte al freddo notturno. Così re-stò, nel silenzio generale, per qualche secondo. Chiuse gli occhi, deglutì. Infine parlò:

– Non so più cosa dire, né cosa pensare. Prego ogni giorno, come voi, e come voi attendo un segno dal cielo. Soffro in silen-zio, lavoro la terra, mangio quel che mi vien chiesto di mangiare. Da settimane. Non ho più una Bibbia da poter leggere, e così mi vedo costretto a recitare mentalmente i passaggi che ricordo me-glio. Negli ultimi mesi, però, fatico non poco. Le parole si con-fondono, fuggono via. Soltanto un passo, che lo voglia o meno, si ostina a tornarmi in mente.

Attendemmo per un po’ che padre Biazzi ci svelasse il brano cui alludeva, ma il perdurare di un malinconico silenzio scorag-giò i suoi interlocutori, che preferirono non trascinare oltre quel-la conversazione. Soltanto Tamara, sorridendo dolcemente, riu-scì a chiedergli:

– Quale passo, padre?

E don Andrea, fissando un punto imprecisato nel vuoto, scandì con voce incerta questi pochi versi:

voi, che pur siete saggi, tollerate facilmente gli stolti.In realtà sopportate chi vi riduce in schiavitù,chi vi divora, chi vi sfrutta, chi è arrogante,

chi vi colpisce in faccia.Lo dico con vergogna: come siamo stati deboli!

CAPITOLO 8

Il mattino seguente, dopo aver mandato giù quel liquido insa-pore ma caldo che i crucchi chiamavano caffé, ebbe inizio il pri-mo appello della giornata.

Molti di noi giungevano nello spiazzo ancora frastornati dal sonno; gli squilli dei fischietti ci svegliavano tra le quattro e le cinque del mattino, dunque alle prime luci dell’alba. Nei succes-sivi trenta minuti occorreva rifare il letto, vestirsi, lavarsi, bere il caffé e correre come disperati nel luogo preposto.

Due cose rimangono scolpite nella mia memoria, per quel che riguarda le grandi adunate. La prima è certamente la fatica cui dovevamo far fronte per restare dritti e immobili durante le ope-razioni; bastava infatti un piccolo movimento, un colpetto di tos-se o uno starnuto per destare l’ira dei nazisti, ed essere puniti con un minimo di cinque vergate. La seconda è lo spettacolo pietoso dei moribondi, che si trascinavano all’esterno del block per ri-spondere alla loro ultima chiamata; fra l’altro, i tedeschi non ac-cettavano che i detenuti utilizzassero un tono di voce basso e fle-bile durante l’appello, per quanto gran parte della popolazione del lager fosse gravemente malata, e curata col solo ausilio di un’aspirina. Un rimedio inutile, così come inutile era la tintura di iodio, l’altro medicinale tollerato all’interno del campo. Nono-stante le gravissime infezioni di cui eravamo portatori, insomma, le SS pretendevano da noi una risposta ferma e decisa, scandita a voce alta, sotto il sole cocente o sotto la pioggia scrosciante. Chi

non era in grado di eseguire un compito così semplice poteva tranquillamente farsi da parte.

Quel giorno, in contrasto con la procedura abituale, Bahuoff si occupò in prima persona dell’appello. Fu spontaneo interrogarsi sul perché di quella levataccia, dal momento che il comandante poteva dormire tranquillamente fino alla otto, e lasciare che fos-sero T.K. o i sottufficiali ad occuparsi della cosa. Non appena cominciò a urlare i nomi presenti sulla lista che stringeva fra le mani, però, capimmo che era ubriaco. Probabilmente l’appello rappresentava l’atto conclusivo di una nottata trascorsa tra fiumi di alcol. Iniziò dunque a storpiare i nostri nomi, pronunciandoli in maniera errata per puro diletto. Tra una pausa e l’altra rideva, o bestemmiava. Credeva di metterci in difficoltà, ma fortunata-mente ognuno di noi riuscì a cavarsela. Tutti, tranne un deporta-to: il piccolo Tomas.

Tomas era un ragazzino di dodici o tredici anni, ed era muto. Non saprei dire se dalla nascita o meno. In realtà non sapevamo nulla di lui: come era finito lì dentro, quando era arrivato, chi erano i suoi genitori… niente di niente. Teorie ne circolavano parecchie. C’era addirittura chi sosteneva che Tomas fosse il fi-glio di un qualche gerarca, nato da una relazione extraconiugale con un’ebrea, e che l’uomo lo avesse rinchiuso nel lager per co-prire lo scandalo. Quanta dose di realtà ci fosse in quella leggen-da non è dato sapere. Fatto sta che Tomas era lì con noi sin dal-l’inizio, e che il suo fisico, nonostante le molteplici privazioni e la fatica del lavoro, reggeva bene. Anche troppo. Alcuni crede-vano che il ragazzo avesse trovato il modo di intrufolarsi nelle cucine del lager, e rubare di nascosto il cibo. Altri, quelli che lo ritenevano il figlio ripudiato di un gerarca, suggerivano l’idea che fosse il padre, sospinto dai sensi di colpa, ad allungargli di tanto in tanto qualche pasto sostanzioso. Si ragionava di queste cose a debita distanza da lui, ovviamente, perché in fin dei conti non era nostra intenzione ferirlo; le sue origini e la sua resistenza fisica erano diventati argomenti di discussione quotidiana, ma senza alcuna malizia. Se ne parlava così, con la stessa leggerezza

con la quale si discute del caldo o del tempo che passa. Eravamo affezionati a Tomas; molti di noi cercavano di proteggerlo, assu-mendo a volte atteggiamenti un po’ paternalistici, ma tutto ciò non infastidiva il ragazzo, che quasi sempre si limitava ad annui-re e a mostrare un mezzo sorriso. Tuttavia, quel che davvero col-piva in lui, al di là della robustezza e dei misteri che si trascinava dietro, erano gli occhi. Grandi e neri, perennemente vigili, peren-nemente tristi. Quegli occhi raccontavano una storia silenziosa, costellata di violenze, soprusi e lutti. Osservando la realtà, To-mas dialogava con essa. E i suoi occhi, a volte, divenivano lo specchio fedele dei nostri stessi pensieri, e della nostra sofferenza.

Durante i due appelli giornalieri, Tomas sapeva di dover alzare prontamente il braccio destro per segnalare la propria presenza. Per questo motivo, T.K. e Fritz lo avevano collocato in prima fila, posizione dalla quale era più semplice vederlo. Nell’arco di mesi il rito dell’alzata di mano non aveva creato problemi: il kapò o il sottufficiale di turno urlava il suo nome (non il cogno-me, praticamente ignoto a tutti), lui sollevava il braccio nel tipico saluto romano, e il gioco era fatto.

Ma non quel giorno…Quando Bahuoff, già ubriaco e furibondo di suo (probabilmen-

te per non aver indotto all’errore un solo deportato con quello scherzetto dei nomi storpiati) arrivò a metà dell’elenco, urlò con voce impastata il nome del piccolo Tomas. Questi rispose all’ap-pello nel modo in cui era abituato, cioè puntando il braccio in avanti, verso l’alto. Bahuoff montò su tutte le furie. Scaraventò per terra la cartellina con l’elenco, e avanzò a grandi falcate in direzione del ragazzino, rimasto saggiamente nella stessa e iden-tica posizione.

– Quando il tuo schifoso nome ha il privilegio di uscire fuori dalla mia bocca devi urlare presente! – strepitò allora gesticolan-do come un forsennato. Era sbronzo da far schifo, nessuno lo avrebbe mai riportato alla calma. Tomas lo sapeva, e non azzar-dò alcuna mossa, sebbene l’autocontrollo mandasse in bestia i te-deschi. Invidiavano la calma e la temperanza, qualità per loro ir-

raggiungibili; e come spesso accade a chi non può possedere qualcosa, finivano per disprezzare il talento e il suo custode. Al-l’improvviso Bahuoff, come d’abitudine, sembrò ritrovare la pa-dronanza di sé, ma era un giochino sin troppo noto a tutti i dete-nuti. In realtà, quell’apparente quiete fungeva da preambolo per uno scatto d’ira ancor più violento.

– So quel che si dice in giro… che sei muto – esordì il coman-dante girando attorno al corpo inerte di Tomas – ma io credo che questa sia tutta una sceneggiata, un bel modo per spifferare qual-cosa in giro, e poi passare per insospettabile.

Davanti al silenzio reiterato del ragazzo, Bahuoff perse nuova-mente le staffe:

– E abbassa quel braccio, idiota! Hai visto passare il Führer per caso? – domandò allora tirandogli giù il braccio, e quasi cadendo per via di quel gesto inconsulto. Poi tirò fuori la sua pistola, e la puntò alla tempia del ragazzo.

– Di’ presente – intimò. Il gelo cadde sull’intero campo. Non ci era consentito voltare lo sguardo, ma io sapevo che gli occhi di tutti i deportati, in quel momento, erano puntati su Bahuoff. Fritz e T.K. stazionavano a un paio di metri dal comandante. Potevo vederli: T.K., come al solito, ghignava di gusto, masticando lupi-ni o qualcosa di simile; Fritz seguiva con attenzione la scena, credendo forse di essere a teatro. Alla mia sinistra c’era il profes-sor Kozminski, alla mia destra Tamara. Non ne sono certo, ma in quegli istanti mi parve di udire una bestemmia, che sibilò attra-verso le labbra socchiuse della pianista. “Bastardo”, disse. Una sola parola, mozzata quasi a metà, pronunciata con tono stridulo, per soffocare un urlo che quasi certamente l’avrebbe condotta alla fossa. Se Bahuoff l’avesse udita, non ci avrebbe pensato due volte a piantarle un proiettile in testa, e Chopin o Liszt non l’a-vrebbero di certo aiutata, stavolta. Fortunatamente il comandante era troppo ubriaco per poter cogliere sussurri o sguardi sdegnati. Tutti gli altri, paralizzati dal terrore, tacevano.

– Avanti, figlio di una troia ebrea: rispondi all’appello! – urlò Bahuoff ancora più forte. Il gran capo era giunto ai limiti delle

sue capacità di sopportazione. Lo capii da quella imprecazione gratuita. Perché Bahuoff, nonostante manifestasse gli stessi istin-ti omicidi di ogni brava SS, volgare non lo era di certo. Ai sottuf-ficiali troppo sboccati intimava spesso di darsi una calmata, e di ampliare il vocabolario. La cosa non deve sorprendere. Una be-stemmia dà voce a un animo inquieto, alterato; e a molti nazisti, come già detto, piaceva ostentare una serenità fittizia, poiché la calma è indice di sicurezza interiore, e la sicurezza era tutto ciò che occorreva alle SS per sterminarci a loro piacimento.

La sicurezza di poterci soggiogare. La sicurezza di averci rin-chiuso in un luogo dal quale non era possibile fuggire. La sicu-rezza di poter fare di noi ciò che volevano.

– Ho ucciso sei storpi come te, stanotte – aggiunse Bahuoff af-ferrando i capelli di Tomas e ficcandogli la canna della pistola in bocca – ma nel tamburo è rimasto un colpo: è tuo, se lo vuoi.

Il ragazzo ebbe paura sul serio. Udii i suoi denti tremolare at-torno alla superficie cromata della pistola. Quel suono, forse, lo percepirono tutti. E tutti trattennero il fiato. A distanza di pochi secondi un altro rumore, ancor più minaccioso, echeggiò nel- l’a-ria: quello del grilletto accarezzato da Bahuoff, il tamburo che iniziava a girare, il colpo in canna pronto a partire. E la voce ine-sistente di Tomas, che con un lamento disperato tentò di scandire il proprio nome. Ne uscì, invece, un gorgoglio afono, più simile a una richiesta di soccorso che ad altro.

Tomas era muto sul serio, qualunque imbecille lo avrebbe capi-to in quella circostanza. Ma Bahuoff cercava soltanto una scusa per far fuori un altro di noi. Se il ragazzo fosse riuscito a urlare miracolosamente il proprio nome, di certo Bahuoff avrebbe ar-ringato la folla gridando: “Avete visto? Sa parlare! È una male-dettissima spia!”, e lo avrebbe ucciso comunque. Poteva ammaz-zarci tutti per un banale capriccio, ma a Bahuoff piaceva legitti-mare i propri crimini con valide argomentazioni.

Le prime lacrime di Tomas, accompagnate da lancinanti sin-ghiozzi, giunsero a straziarci il cuore. Fu allora che qualcuno de-cise di rispondere a quell’invocazione d’aiuto. Forse istintiva-

mente, forse consapevolmente. Un uomo dall’animo già scon-volto, ma dal temperamento calmo come l’acqua immota: don Andrea Biazzi.

CAPITOLO 9

La storiografia, fortunatamente, ha messo in luce le gesta di quegli eroi (Perlasca, Wallenberg, Schindler, Sugihara e molti altri) che, durante l’Olocausto, mossi da uno straordinario altrui-smo, misero a repentaglio la propria esistenza per salvare quelle di decine, a volte centinaia, di esseri umani. Grandi imprese, che il tempo ha giustamente nobilitato. Ci furono individui, però, che di vite ne salvarono ben poche; a volte una soltanto. Per questo motivo, forse, nessuno li ricorda.

Andrea Biazzi appartiene a quest’ultima categoria. Solitamente nella memoria collettiva rimangono impressi i salvataggi di mas-sa, quelli in grado di trasformare il semplice uomo in un grande uomo. Il rischio compiuto da colui che compie l’atto, in partico-lare, amplifica l’aura di sacralità che ne avvolge la figura.

Andrea Biazzi non fu quel tipo di eroe, né probabilmente im-maginò mai di poterlo diventare. Non fece alcunché di grandioso per passare alla storia. Si limitò a esclamare: “Signore, quel ra-gazzo è muto per davvero”, proprio nel momento in cui la pistola di Bahuoff stava per esplodere il colpo. Non fu un gesto eclatan-te, me ne rendo conto, specie se paragonato alle peripezie che dovette affrontare chi, per anni, si prodigò per la sopravvivenza in clandestinità di un numero spropositato di ebrei. E non credo che don Andrea conoscesse in anticipo la reazione che Bahuoff avrebbe avuto. Contava di dissuaderlo, questo è certo, ma sup-pongo che mai avrebbe immaginato di vedere il comandante estrarre la pistola dalla bocca di Tomas, puntarla nella sua dire-zione e fare fuoco così, a bruciapelo.

Eppure, così andarono le cose. Il proiettile gli si conficcò in piena fronte; il parroco italiano franò per terra, e una vasta chiaz-

za di sangue denso iniziò ad allargarsi attorno al suo corpo esani-me. Bahuoff non lo degnò di una sguardo, ma tornò immediata-mente a puntare l’arma contro la tempia sinistra di Tomas. In quelle condizioni avrebbe sparato anche a Hitler, se solo il Füh-rer si fosse permesso di sfiorargli una spalla.

Noialtri restammo impietriti. Tutta quella crudeltà, quella vio-lenza senza senso… non riuscivamo a comprenderla, né a com-batterla. Tentare di far ragionare Bahuoff non sarebbe servito a nulla, e la salma di don Andrea era lì a ricordarcelo. Una voce, da dentro, oggi mi rimprovera e urla: avreste potuto! Ed io do-mando alla mia coscienza: fare cosa? Aggredire Bahuoff? Le sentinelle appostate sulle torrette di guardia, al minimo accenno di rivolta, avrebbero compiuto una mattanza. Deboli e disarmati quali eravamo, cosa mai avremmo potuto ottenere uccidendo il comandante del campo? Qualcun altro avrebbe preso il suo po-sto, Braun o chi per lui, e per noi nulla sarebbe mutato. La fossa comune avrebbe ospitato un numero imprecisato di nuovi cada-veri, e l’inceneritore avrebbe lavorato un po’ più a lungo. Tutto qua.

Questo pensavo, mentre un ragazzino inerme rischiava di esse-re ucciso senza motivo. Chissà quanti detenuti, al pari di Andrea Biazzi, avrebbero voluto riportare Bahuoff alla ragione, ma il sa-crificio del parroco ci aveva indicato la via: il dialogo non servi-va a nulla contro quel mostro. Qualcuno potrebbe pensare che si-mili ragionamenti servissero a mascherare una generale carenza di coraggio, ma il termine “codardia”, all’interno del lager Liber-tà, non aveva senso d’esistere. Il fatto stesso di voler continuare a vivere, nonostante le angherie, gli omicidi, le percosse e le mi-nacce, sia fisiche che psicologiche, certificava il nostro coraggio. Perché in un lager nazista era più semplice lasciarsi morire, ab-bandonando il corpo ai continui richiami della morte, piuttosto che sforzarsi di vegetare. Altri potrebbero sostenere che non di coraggio si trattava, bensì di mero istinto di sopravvivenza. Sba-gliato: l’istinto di sopravvivenza, lì dentro, moriva dopo pochi giorni. In seguito subentrava un istinto differente, quello che ci

chiedeva non più di vivere o morire, ma di evitare il dolore. E nel contesto del lager, ciò equivaleva ad annullare ogni percezio-ne. Non provare alcunché, insomma, per eludere ulteriori tor-menti.

Sì… scaraventarsi contro la recinzione elettrificata avrebbe reso felice più di un deportato. Un po’ tutti, credo, meditammo di farlo sul serio, prima o poi.

Eppure. Eppure resistevamo. Ognuno a modo suo, ognuno per i propri motivi, ma resistevamo. E a volte la violenza subita era più semplice da accettare, rispetto alla violenza patita dagli altri. Quel che stava accadendo al piccolo Tomas, e la morte di don Biazzi, ci sconvolgevano nel profondo. Nessuno di noi, però, aveva la forza o il modo di reagire. Nessuno, eccetto chi, dalla vita, ormai non attendeva più nulla. Qualcuno come Oskar, l’ex compagno di cella di Fritz. Fu lui, coraggiosamente, a rompere gli indugi, e a parlare a Bahuoff con tono sprezzante. La morte non lo spaventava, e in seguito avremmo capito il perché.

– Quel ragazzino non intonerà il Parsifal soltanto perché è lei a ordinarglielo, comandante – dichiarò Oskar laconicamente. Gli occhi di Bahuoff, già gonfi e iniettati di sangue per via dell’alcol, strabuzzarono increduli.

– Tu… – disse avanzando velocemente nella sua direzione, e facendosi spazio tra i detenuti spingendoli a terra con violenza.

– Tu… stronzetto da due soldi… come ti permetti di rivolgermi la parola? – urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Alzò la pi-stola, e cominciò a premere il grilletto come un indemoniato, di-menticando di aver finito i proiettili. Cercò ulteriori munizioni all’interno delle tasche, ma senza risultato. A quel punto Oskar si fece coraggio, e avanzò di un passo. Bahuoff ebbe paura. Arretrò repentinamente, quasi cadendo per via di quell’imprevisto die-trofront. I nazisti non erano abituati a indietreggiare al cospetto di un detenuto. E Oskar, sebbene avesse già perso un quarto o poco meno del proprio peso, e dell’antica prestanza fisica, era ancora in grado di suscitare timore in chi lo affrontava. Bahuoff tentò allora di sguainare il manganello che gli pendeva sul fianco

destro, ma sbronzo com’era, non riuscì a estrarlo. Avendo già of-ferto uno spettacolo indecoroso, capì che proseguire lo avrebbe reso ancor più patetico agli occhi dei detenuti, e dei sottoposti che adesso, stipati alle sue spalle, osservavano preoccupati la scena. Recuperò dunque un minimo di autocontrollo, e sisteman-do con cura il colletto della camicia attirò l’attenzione di T.K. e Fritz. Poi ordinò:

– Portatelo nel bunker. Fategli male, ma non uccidetelo: a quel-lo penserò io.

Si guardò attorno, e il capannello di sottufficiali fu apostrofato con una certa stizza:

– Voi! Non avete nient’altro da fare? Siamo in guerra, per la miseria!

Le SS sfollarono rapidamente e kapò e decano, deliziati, prese-ro in consegna Oskar, per nulla intimorito dalle minacce di Ba-huoff. Andò via, piuttosto, con un sorrisetto di sfida stampato sul volto, un ghigno sarcastico che non aveva nulla a che vedere con la nota spacconeria del carcerato medio. Non mostravano odio i suoi occhi, né sete di vendetta. Il suo atteggiamento poteva esse-re riassunto in un’unica parola: indifferenza. Qualcuno la scam-biò per la solita sbruffonata, altri per un’inestimabile dimostra-zione di coraggio. Ma si trattò, lo so per certo, di semplice indif-ferenza.

Ben più turbato da tutto quel trambusto ne uscì invece Bahuoff. Attendevamo una punizione esemplare per l’intero block, come spesso era accaduto in passato, ma non ci furono rappresaglie di alcun tipo. Accigliato e palesemente scosso, chiese a un’altra SS, l’ufficiale Dirkschneider, di completare l’appello al posto suo, ammettendo di aver bevuto troppo, e di necessitare di un lungo riposo. Non degnò di uno sguardo alcun detenuto al momento di allontanarsi, eccetto Abdul il musulmano.

– Tu, getta quel cadavere nella fossa – ordinò con ritrovata pos-sanza in riferimento alla salma di Andrea Biazzi, per poi scom-parire barcollante nell’opposta direzione.

I sonderkommandos restarono al proprio posto.

Tutto tornò velocemente nella norma, e l’appello proseguì sen-za intoppi. Soltanto don Andrea mancò la chiamata. In quei fran-genti, il suo corpo veniva trascinato mestamente da Abdul il qua-le, né visto né udito dalle SS, aveva chiuso gli occhi del povero parroco, e passo dopo passo, scandiva a bassa voce i versi di una preghiera musulmana in suffragio dei martiri, udita troppe volte nel chiuso nel secondo block.

CAPITOLO 10

Nel lager si lavorava dall’alba al tramonto, per un totale di otto o dodici ore, a seconda della stagione. Le mansioni da svolgere erano ampiamente differenziate, e potevano avere luogo all’in- terno o all’esterno del campo. Quelle interne erano meno debili-tanti per la nostra salute, ma altrettanto massacranti. C’era chi la-vorava i campi, come me, chi veniva impiegato nella falegname-ria, o nell’industria collocata all’interno del block sei. Nei campi si coltivavano frutta e ortaggi per i nazisti, ma anche orzo, patate e crusca per noi deportati. In falegnameria si poteva essere desti-nati a un’infinità di lavori, tutti inerenti le strutture chiuse del la-ger: block, torrette di controllo, ville degli ufficiali, e così via. Nella piccola fabbrica della sesta baracca, che io non ho mai vi-sto se non dall’esterno, si costruivano invece pezzi di ricambio per l’artiglieria pesante dell’esercito nazista; fu attraverso quegli opifici che il Ministro dell’industria del Reich trovò la manodo-pera occorrente per far funzionare l’apparato industriale del paese.

I deportati più fortunati, o benvisti dai kapò, venivano collocati all’interno dell’infermeria e della mensa, luoghi in cui il massi-mo dello sforzo fisico consisteva nello spostare una pentola col-ma d’acqua o il corpo di un deportato. A volte vivo, più spesso morto.

I campi esterni, invece, erano tutta un’altra storia. Lì non si la-vorava: si moriva. E non fu certo una caso se ebrei e dissidenti politici vi furono impiegati in massa. Opere di scavo, di terrazza-

mento, costruzione di edifici, persino il traino dei carri… questi e altri incarichi distruggevano il fisico e lo spirito più resistenti nell’arco di pochissime settimane. Per non parlare di quel che ac-cadeva nelle cave di pietra. Ai nazisti, infatti, il regolare svolgi-mento dell’attività interessava relativamente. Era la possibilità di farci fuori, coi sistemi più fantasiosi e crudeli, il loro autentico obiettivo. Spesso si divertivano a disporsi in due file parallele, attendendo il passaggio di un deportato carico di pietre; una volta nel tunnel, il malcapitato veniva frustato a sangue, e la sua unica salvezza consisteva nel tirarsene fuori il prima possibile. In mol-ti, tuttavia, persero la vita per non aver corso abbastanza veloce-mente, o per aver fatto cadere un masso durante la traversata.

Al tramonto, di ritorno dai campi di lavoro esterni, parecchi de-portati portavano sulle spalle i cadaveri dei compagni periti. E ogni giorno, al tramonto, il sottoscritto sollevava lo sguardo dalla vanga per accertarsi che gli amici del block due tornassero, anco-ra una volta, sani e salvi. Questa pratica mi costò in più di un’oc-casione una vergata sulle terga, ma non vi rinunciai mai, escogi-tando nuovi metodi per beffare la sorveglianza. Era il mio perso-nale modo di combattere l’ideologia nazista, che intendeva sof-focare la nostra umanità, il nostro radicamento alle semplici abi-tudini, agli atteggiamenti emotivi. Io sollevavo lo sguardo perché ero in ansia per qualcuno: pensare a un individuo che non fosse me, infondeva nel cuore un senso di pace e autostima che nessu-na vergata avrebbe mai potuto piegare. Non sarei diventato quel che volevano loro; non avrei concentrato tutta l’attenzione unica-mente sul mio corpo stremato dalla fatica. Non avrei ceduto allo spirito di competizione, né alla legge del più forte. Non mi sarei ridotto come Fritz e T.K., che ormai ci consideravano dei nemici da combattere, per continuare a godere dei privilegi riservati al-l’elite. Questo mi imponeva la mia cultura, la personalissima concezione della libertà maturata in anni e anni di letture ed esperienze di vita. Ed è questo che ai nazisti non piaceva. Il lavo-ro stesso cui fui destinato rispondeva a questo ordine di cose. Ri-cordo ancora le parole che Bahuoff spese in merito: “I parassiti

come te devono spegnere il cervello e imparare ad usare la zap-pa”. Argomento chiuso. Mi fu tassativamente vietato di entrare in contatto con materiale cartaceo d’ogni genere, poiché un de-portato che brandiva una vanga, paradossalmente, veniva consi-derato meno pericoloso di un deportato con un libro fra le mani. Ma pensandoci bene, non gli si poteva dare torto; i segni lasciati sul terreno sono ben visibili a tutti, e basta una pioggerellina per cancellarli. Ciò che una penna scrive, invece, può restare celato a occhi indiscreti, ed eternarsi nel cuore di chi legge. Il problema comunque non si pose mai; un accattone polacco, arrivato da poco, mi disse che nel lager di Buchenwald aveva visto coi suoi occhi una biblioteca con migliaia di titoli. Peccato si trattasse di libri graditi al regime, o di quotidiani nazionalisti. Nel lager Li-bertà, invece, giornali, romanzi o pamphlet non ne circolarono mai, neanche per vie traverse (quelle del mercato nero).

Era la diffusione delle idee a preoccuparli, insomma. Io ero un avido lettore, e nell’ottica dei nazionalsocialisti tendevo a mo-strare eccessivo interesse nei riguardi delle opinioni altrui. Ri-flessioni che germogliavano e prosperavano senza svelarsi: tutto questo non era gradito. Di più: li terrorizzava. Il duro lavoro avrebbe dovuto zittire le mie idee, ucciderle sul nascere, e impe-dirmi di crearne delle nuove. Questo si aspettavano da me, ed era esattamente quel che non ero disposto a concedere.

Tra i deportati del secondo block, soltanto in otto lavoravano al di fuori del lager: il piccolo Tomas, impegnato assieme a un’altra ventina di ragazzi nella costruzione di un sentiero secondario; Hans e Jurgen, subito spediti nelle terribili cave di pietra, e poi Jacques e Hermann, che prestavano servizio come muratori.

Jacques era un testimone di Geova belga, piccolo e mansueto, gran lavoratore, stranamente dotato di una notevole forza fisica, nonostante la corporatura minuta. Di poche parole, non aveva mai creato alcun problema, né a noi né ai nazisti. Tuttavia, il non aver rinunciato alla propria fede lo aveva condannato ai lavori esterni. Il giorno in cui Fritz gli chiese di consegnargli la bibbia che nascondeva nella tasca interna della giacca, Jacques perse

ogni possibilità di svolgere un’attività meno faticosa. Rifiutò, in-fatti, di consegnare il libro sacro a quell’avanzo di galera. Pro-nunciò un “no” gentile ma risoluto, di quelli che si accompagna-no a un sorriso di circostanza. Fritz non la prese tanto bene. Lo aggredì col suo manganello, cercando di strappargli la bibbia dalle mani; e sebbene Jacques gli arrivasse a malapena alle spal-le, non riuscì ad averla vinta. Fritz allora chiamò rinforzi, e do-vettero pestarlo in quattro per poterlo piegare.

Da allora Jacques perse il suo preziosissimo libro, ma non la speranza di poterne rientrare in possesso. Dichiarò a più riprese di attendere fiducioso la vendetta del suo dio. Una vendetta glo-bale, però, di stampo apocalittico, contro tutti i mali del mondo. Citava a piene mani Taze Russell e Rutherford, parlava della “fine del sistema di cose”. Oggi discorsi di tal fatta riescono ap-pena a strappare un sorriso, ma in quegli anni, con Hitler padro-ne di metà pianeta, la fine razionale della specie umana raggiunta per mezzo della guerra era un argomento che impensieriva pa-recchia gente.

Hermann, al contrario di Jacques, dalla vita non attendeva pu-nizioni divine o catastrofi di vario genere. “L’apocalisse? È già arrivata!” sosteneva sorridente. Sorrideva spesso, Hermann. Più di tutti noi messi assieme. “Deformazione professionale” diceva ancora. Parlava del suo lavoro passato, ovviamente: clown in un circo ambulante. Aveva girato l’intera Germania col suo carroz-zone, toccando persino alcune nazioni limitrofe. “Poi un giorno la gente si è stancata di ridere per le buffonate di un clown, e ha preferito rivolgere lo sguardo su Hitler”. Sapeva essere pungen-te, il vecchio Hermann, e anche terribilmente serio. I sorrisi della gente erano per lui cose preziose, da donare e ricevere al mo-mento giusto. Non viveva fuori dalla realtà, soffriva come noi. Ridere non rappresentava una fuga, bensì una necessità dello spi-rito. “C’è stato un tempo in cui i tedeschi rabbrividivano nel ve-dere un domatore circondato da belve feroci, sotto il telo di un circo; oggi, invece, assistono con distacco al massacro di un inte-

ro popolo, nelle strade delle loro città, e anche oltre, nei ghetti e in decine di lager”.

Un uomo saggio, il mio amico Hermann.Quella notte, di ritorno dall’appello serale, molti deportati asse-

diarono la sua branda per ricevere informazioni sul povero Oskar. Tra i due, infatti, era nata una bizzarra amicizia. Oskar non era un uomo di molte parole, se ne stava in disparte e non entrava nelle conversazioni, anche a costo di spingercelo dentro. Hermann, al contrario, dialogava con tutti, sollevava il morale con una battuta delle sue, cercava di offrire speranza parlando del dopo, della libertà che ci attendeva al di fuori del lager. Il suo era un ottimismo ingenuo, e non poteva avere presa su un galeot-to già deluso dalla vita come Oskar. Nonostante questo, Oskar gradiva la compagnia di Hermann come nessun’altra. Per una questione di equilibrio, forse. Perché nelle loro discussioni, Her-mann parlava un po’ meno e ascoltava un po’ di più, mentre Oskar parlava un po’ di più e ascoltava un po’ meno. Il concetto di complementarietà, insomma, ben si sposava con la loro amici-zia.

Fui il primo a chiedere informazioni su Oskar. Passai accanto a Tamara e le chiesi di seguirmi. Senza far rumore, come sempre, ci avvicinammo a Hermann e domandai:

– Che si dice di Oskar?Lui mi guardò scuro in volto, ma si sforzò di sorridere:– È ancora nel bunker. E dio solo sa per quanto tempo lo ter-

ranno chiuso lì dentro.Tamara rabbrividì, e anch’io. Nessuno dei due, per fortuna,

aveva mai avuto a che fare col bunker, ma ci erano stati riferiti episodi agghiaccianti al riguardo. Il bunker, per inciso, era la pri-gione del lager. O meglio, una prigione nella prigione. Oggi, col termine “cella” intendiamo una stanzetta di quattro metri per due, con letto, cuscino, armadietto e magari un bel televisore. Il bunker del lager, invece, era una specie di cassa da morto verti-cale, talmente stretto da consentire l’ingresso a un solo uomo, che non poteva nemmeno sdraiarsi al suo interno; all’altezza del

viso si apriva una grata attraverso cui veniva gettato il cibo in faccia al detenuto, che per ottenerlo doveva abbaiare come un cane per decine di minuti. Spesso i carcerieri si divertivano ad aprire la finestrella e a sputare, certi che il prigioniero non avreb-be potuto allargare le braccia per ripararsi con le mani. Nei casi peggiori, veniva gettato all’interno del bunker il contenuto not-turno delle gamelle, e l’angusto spazio si riempiva immediata-mente della puzza insopportabile delle feci miste a urina, che co-lavano sul corpo del malcapitato fino a rapprendersi. Tutto que-sto per giorni, a volte settimane.

– L’ha combinata grossa, lo uccideranno di sicuro – balbettò Tamara, attirando in zona altri detenuti, compresi Hans e Jurgen.

– Tieni bassa la voce – le rimproverò Hermann – e niente pia-gnistei. Oskar è ancora vivo, e non ha paura. Seguite il suo esem-pio: fatevi coraggio.

– Io volevo soltanto dire che mi spiace per lui – precisò Tamara docilmente. Hermann rise e ribatté:

– Oskar non avrebbe pietà di te, se fossi tu a marcire in quella cella.

– Perché ha salvato la vita a quel ragazzino, allora? – domandò Jurgen all’improvviso, entrando (per la prima volta dal suo in-gresso nel lager) all’interno di una conversazione collettiva.

– Il motivo lo conosce soltanto lui – mentì Hermann – ma non credo che gliene importi granché del piccolo Tomas. Se fosse qui adesso, probabilmente ci direbbe che è stato padre Biazzi a sal-vare la vita del ragazzo, e non lui. Oskar è intervenuto perché gli andava di farlo. Tutto qua.

Parecchi di noi scossero il capo, per nulla propensi ad accettare quell’interpretazione dei fatti.

– Ad ogni modo, è andata come è andata. Non possiamo fare nulla per lui – concluse Hermann infischiandosene dello scettici-smo raccolto in giro.

– Qualcosa sì – dissi. Hermann voltò le spalle. – E cosa? – domandò ancora girato. – Se Bahuoff lo uccide… io voglio saperlo – risposi.

– E questo lo chiami “fare qualcosa”? A quel punto tutto sareb-be inutile, cosa ci guadagneresti?

– Nulla di concreto. È proprio per questo che voglio saperlo.

CAPITOLO 11

Non saprei dire con esattezza quale ruolo giocai io, Felicien Delacroix, all’interno del block numero due, durante il mio pe-riodo di detenzione.

Mi parve di notare, tuttavia, una certa tendenza a ricercare il parere del sottoscritto. Avevo superato da poco i trent’anni, ma il tempo trascorso nel lager mi aveva trasformato velocemente in un anziano, con una certa esperienza alle spalle. Era un circolo vizioso, perché uno dei motivi che mi tenne in vita fu proprio la maggiore resistenza fisica dovuta all’età. Indipendentemente da tale fattore, ai compagni di block piaceva interrogarmi su que-stioni di taglio generale, ascoltare le mie interpretazioni. Quel che dichiaravo rappresentava per loro un’alternativa al già detto. Le opinioni di altri prigionieri, intrise di precetti religiosi o poli-tici, erano note a tutti; la mia voce, invece, offriva la possibilità di udire qualcosa di meno dogmatico, per quanto opinabile e in-certo. Anche per argomenti di minore rilevanza fu più volte ri-chiesta la mia consulenza. Il nostro quotidiano si basava sull’in-venzione di stratagemmi sempre nuovi coi quali garantirsi la so-pravvivenza, e davanti ai tanti problemi scaturiti dalla conviven-za coi nazisti, il consiglio di un detenuto dal lungo corso come me poteva spesso risultare prezioso.

Quella notte, fu proprio Jacques a farmi visita.Io e il testimone di Geova eravamo in disaccordo praticamente

su tutto, ma col tempo s’instaurò fra noi un rapporto d’amicizia cordiale, fondato sul rispetto reciproco. In quell’ottica, lo spunto per un nuovo confronto ci fu fornito dal dialogo appena conclu-sosi tra me e Hermann.

– Hai ragione Felicien, sapere che un compagno non c’è più, per rammaricarsi e ricordarlo, è pur sempre qualcosa – esordì re-stando in piedi accanto a me.

– Io, però, non lo faccio con spirito cristiano – puntualizzai guardandolo negli occhi. Jacques sorrise:

– Lo so. E di questo dovrai rispondere a qualcuno lassù, non certo a me.

Tacque per alcuni secondi, poi scosse il capo, sconsolato.– Il fatto è che – ricominciò – l’altro giorno è morto Basel, oggi

padre Biazzi, domani forse toccherà a Oskar. E io mi chiedo quando arriverà il mio turno…

Continuai a fissarlo. Il suo sguardo piangeva lacrime amare, nonostante le gote perfettamente asciutte. Per questo motivo, preferii lasciarlo parlare:

– C’è quel sottufficiale, nei campi di lavoro esterni, che ci dà il tormento. Sai, quel ragazzino arrivato dalla capitale. Non fa che lamentarsi del nostro lavoro, dice che prima o poi ci ammazzerà tutti. È giovane, e vuole fare carriera. Bestemmia in continuazio-ne, perché a giorni diventerà padre. “Invece di stare accanto a mia moglie”, urla, “sono costretto a stare qui, a fare da balia a un gruppetto di porci”. Se soltanto avesse la pazienza di scambiare quattro chiacchiere con me, forse riuscirei a riportarlo sulla retta via.

– Don Andrea ci ha provato a ragionare col nemico, e hai visto che fine ha fatto – affermai risoluto. L’ultima cosa di cui aveva-mo bisogno era che qualcun altro si prodigasse nel tentativo di instaurare un dialogo coi tedeschi. Il mio interlocutore concordò mestamente:

– È vero, Felicien. Sono macchine di morte, la nostra sofferen-za non ha alcuna importanza per loro. Ma se col dialogo non possiamo fermarli, in che modo allora? Non possiamo sopraffarli fisicamente; io stesso mi rifiuterei di andare contro i comanda-menti divini, se mi si presentasse l’occasione di uccidere uno di loro. Siamo in molti, ma stanchi e debilitati. Alcuni di noi non vedranno l’alba, a causa degli stenti. Per non parlare dei vecchi e

dei bambini, che verrebbero spazzati via come fuscelli, in caso di rivolta.

– Una lotta di questo tipo andava organizzata prima che ci rin-chiudessero qui, non ora – confermai abbattuto. Jacques distolse lo sguardo e tacque di nuovo, e così io. Poi si voltò ancora nella mia direzione; in una gran quiete domandò:

– Come possiamo uscirne, Felicien?Sospirai profondamente. Dopo qualche attimo di riflessione re-

plicai:– Sai bene che non posso rispondere a questa domanda. Non so

cosa sia più saggio fare, se attendere o reagire, se chinare il capo o sollevarlo per l’ultima volta. Guardati attorno, Jacques: cosa è rimasto di quel che un tempo eravamo, di quel che un tempo avevamo? Il nostro corpo è cambiato, la nostra vita anche; non abbiamo più un lavoro, né un’identità. Le nostre famiglie sono state sterminate, le nostre case bruciate. Il passato non esiste più, e il futuro sembra così lontano! Però, se non ho alcuna garanzia di tornare un uomo libero, posso almeno augurarmi di essere an-cora vivo, domani, e continuare a sperare. Sperare cosa, esatta-mente, non saprei. Ma comincio a credere che l’unico modo per non impazzire del tutto sia proprio questo: vivere alla giornata, e nella peggiore delle ipotesi andare via lasciando qualcosa a chi resta. Un’utopia, magari. O un’illusione.

Jacques sorrise, e mi guardò per un po’ senza proferire parola. Infine, dopo aver stretto debolmente la mia mano, mi augurò un buon riposo, e scomparve nel buio del capannone.

Discorsi di quel tipo non agevolavano l’arrivo di Morfeo, nelle poche ore che separavano la notte dall’alba. Se qualcosa andava evitata, in quel lasso di tempo, era proprio la possibilità di perde-re i preziosi minuti di riposo concessi dai nazisti. Usufruirne ade-guatamente aumentava le probabilità di sopravvivenza, poiché un corpo temprato dal riposo rendeva decisamente di più sul la-voro, e un lavoro ben svolto evitava almeno in parte lo scontro coi nazisti.

Tuttavia, nei minuti successivi sprecai gran parte di quel tempo voltandomi da una parte e dall’altra, in preda a riflessioni e ricor-di ormai datati. Agitarsi non era d’aiuto, poiché riportava alla mente tutto ciò che ci si era sforzati di reprimere e dimenticare. Proprio come il mare, che nelle grandi burrasche porta a galla i suoi cadaveri, e attende fremente la bonaccia, per respingere sul fondo ciò che agli uomini deve restare celato.

Fu così che, riaprendo gli occhi per l’ennesima volta, intravidi le sagome di Hans e Jurgen, intenti a discutere come sempre fra loro, e questa volta più animatamente del solito. Ebbi l’impres- sione, poi confermata, che entrambi mi osservassero di soppiatto, per poi tornare a dialogare. A un certo punto, però, Jurgen sem-brò stancarsi di quel colloquio, e senza fare rumore abbandonò la sua branda per muovere nella mia direzione, cercando al contem-po di mostrare un timido sorriso. Sollevai la schiena facendo leva sui gomiti, quindi domandai:

– Non riesci a dormire?Il volto di Jurgen si contrasse in una smorfia piuttosto eloquen-

te. Sollevò le spalle, e rispose:– Sono distrutto, ma fatico ad addormentarmi. In tutta onestà,

non riesco ancora a capacitarmi di essere finito in questo posto.– Questo vale anche per Hans? – chiesi ancora. – Soprattutto per Hans – replicò prontamente – ed è proprio lui

che mi preoccupa. Non riposa seriamente da giorni. Perde peso. Non fa che parlare di fuga, e di reclami.

– Dov’è la novità? – domandai impassibile. Tutti noi, infatti, dormivamo poco e male, dimagrivamo a vista d’occhio, e più o meno esplicitamente pensavamo alla fuga o al suicidio. Jurgen comprese, e ammutolì all’istante. In fin dei conti le sue rimo-stranze apparivano fuori luogo, soprattutto perchè manifestate in presenza di un “vegliardo” del lager.

– Mi rendo conto – disse soltanto. Il silenzio tornò fra noi, per poi essere scacciato dai nuovi lamenti del mio interlocutore:

– Noi… io e Jurgen, intendo… non dovremmo essere qui.

– Nessun deportato dovrebbe trovarsi qui – replicai sullo stesso tono.

– Tu non puoi capire.– Spiegati meglio, allora.Il suo sguardo si accese. – Noi non siamo ebrei, Felicien. Hans è nato a Sachsenhausen,

io a Chelmno. Siamo tedeschi a tutti gli effetti. Il nostro unico reato è quello di aver avuto dei progenitori giudei.

– Non siete i soli, che mi risulti. Io sono ebreo da parte di ma-dre, per quanto agnostica. I campi di concentramento pullulano di cittadini tedeschi rinchiusi a causa della discendenza ebraica. Le leggi naziste sono molto chiare al riguardo.

Jurgen inspirò profondamente, incrociando le braccia all’altez- za del petto.

– Avanti Felicien, guardami bene! Ho gli occhi verdi, la carna-gione chiara, i capelli biondi. La mia fede è cristiana, sono stato battezzato col rito cattolico. Cos’ho in comune con un ebreo?

– Le origini, a quanto pare – dichiarai senza scompormi – e in quanto alla tua fede, non urlerei ai quattro venti di essere un cri-stiano, dopo quel che è capitato al povero don Andrea.

Jurgen scosse il capo, visibilmente infastidito dalle mie obie-zioni.

– Continui a non capire – aggiunse. – Ho capito benissimo, invece. Tu e Hans vi ritenete le uniche

vittime del sistema, e non vi rendete conto che qui dentro lo sia-mo tutti. Nessuno merita di fare questa fine: né voi né tutti gli al-tri deportati, ebrei e non ebrei.

– Sarà come dici tu, Felicien, ma io sono un tedesco, e ho sem-pre dimostrato di amare questa terra. Come potrei rappresentare una minaccia per la mia stessa nazione?

– È questa l’ingiustizia?– Sì, Felicien. Io credo di sì.Lo fissai a lungo, e qualcosa mi parve di cogliere, nei suoi occhi. – Non credi? – domandò Jurgen sulla difensiva, cercando di

sbucar fuori da quello stato d’imbarazzante torpore.

– Io credo – iniziai con calma – che tu non stia dicendo la verità.– Non ti seguo – ribatté lui mostrando un sorriso stentato.– Mio caro Jurgen, questo lager è diverso da tutti gli altri, or-

mai lo avrai capito anche tu, no? Di ebrei e basta, qui dentro, se ne contano pochi. I prigionieri del lager Libertà hanno qualcosa in più, qualcosa che li rende vittime di un’ostilità maggiore. Io, ad esempio, non sono mai stato considerato un semplice ebreo, ma “soggetto pericoloso in grado di diffondere idee, teorie e no-zioni contrarie ai principi del nazionalsocialismo”. Per essere rinchiusi nel lager Libertà, insomma, non basta aver pregato sul-la Torâh, o possedere un albero genealogico compromettente. Occorre aver commesso un crimine più grande.

Jurgen s’irrigidì, e arretrò di un passo. – Non so di che stai parlando – concluse a denti stretti, per poi

mostrarmi le spalle quasi con disprezzo. Io lo lasciai andare, ma quando fu a qualche metro di distanza da me lo ammonii dicendo:

– Se hai voglia di riparlarne, sai a chi rivolgerti. Ma vedi di sbrigarti: potrei essere morto, domani.

CAPITOLO 12

Passarono i giorni. Nell’arco di una settimana, altri due carichi di deportati giunse-

ro a ingrossare le fila del lager Libertà. Fu quindi necessaria l’e-liminazione mirata di vecchi e malati, che perirono nella camere a gas. Il sottoscritto riuscì a cavarsela ancora una volta, per dei motivi che tuttora fatico a comprendere. Qualcuno tirerà in ballo la provvidenza, o l’imperscrutabilità del volere divino.

Idiozie. Nudo e inconsapevole di quel che ti attendeva, stretto fra le quattro, fetide mura di una camera a gas, alzavi lo sguardo e lo vedevi lì davanti a te, l’unico e onnipotente dio, colui che avrebbe deciso nell’arco di pochi secondi se lasciarti sopravvive-re o meno. Era la superficie bucherellata di quel pezzo di ferro arrugginito, posto cinquanta centimetri più in alto della tua testa,

a lasciar cadere la spada. E a te non restava che attendere, spe-rando nella sua clemenza.

Sapeste quanta gente, scandendo ad alta voce una preghiera, è poi morta per via dell’acido cianidrico, il gas utilizzato dai nazi-sti. Con voce forte ma inquieta, iniziavano a recitare il pater no-ster, o a declamare interi passi del corano, e a volte persino i la-menti del biblico Giobbe giungevano fino alle mie orecchie. Ine-vitabilmente, una dopo l’altra quelle voci si spegnevano, come fiammelle battute dal vento. E in cuor tuo ringraziavi che non ci fosse spazio per alcun dio tra le mura del lager. L’unico giudice della tua vita era il Caso, e non un’entità metafisica pronta a sal-vare soltanto i suoi adepti. Questa certezza era quasi consolato-ria, lì dentro. Perchè lì dentro, la morte conservava una matrice anarchica.

Ad ogni modo, l’autunno era giunto in punta di piedi fra noi. Le escursioni termiche avvertite tra le ultime ore del mattino e quelle centrali della notte risultarono ben presto insostenibili. Il freddo, in particolare, divenne il primo nemico contro il quale combattere, almeno sul piano della resistenza fisica. Gli stenti e la fame, nella loro rigorosa continuità, non ci sorprendevano più. Ma dopo tre mesi di caldo e tempo mite, i tre-quattro gradi delle ore notturne incisero profondamente sulla salute di numerosi de-portati, compresa la mia; la stagione malinconica per eccellenza mi regalò un bel raffreddore, e una febbre che ben presto salì vertiginosamente. Tamara, che si era presa cura di me in quei giorni, dormendo al mio fianco e scaldandomi col suo abbraccio (un’abitudine consolidata fra di noi, ormai indifferenti a qualun-que implicazione di carattere morale), chiese a Fritz di portarmi dal dottor Kubik. Fritz sapeva bene che Tamara godeva di una certa simpatia presso il comandante. E sebbene Tamara avesse più volte rifiutato, nel tempo, i tanti privilegi che Bahuoff diceva di volerle accordare, restava la pianista personale del rapportfüh-rer, la beniamina delle feste, nonché autrice ufficiale dell’inno del campo. In quelle feste era solita accettare unicamente il cibo, che a rischio di essere scoperta e di rimetterci la pelle nasconde-

va ovunque, per dividerlo coi compagni di block una volta torna-ta a casa, fra di noi. Vettovaglie deliziose, roba di classe, giunte chissà da dove per onorare la visita di qualche gran signore, soli-tamente ufficiali e colonnelli di altri lager.

Alla luce di quanto detto, Fritz si vide bene dal negare a Tama-ra una richiesta del genere. Fu lui stesso ad accompagnarmi dal dottor Kubik, che al mio arrivo aggrottò un po’ la fronte e tirò su gli occhiali con l’indice della mano destra, soppesandomi con occhio clinico.

– Può sedersi lì – disse indicando una sedia di legno, dopodichè pregò Fritz di lasciarci soli. Mi palpò la gola, auscultò veloce-mente la schiena, s’informò sui sintomi e poi mi consegnò un bicchiere d’acqua e la solita aspirina, che mandai giù senza fiatare.

– È un miracolo che lei sia ancora vivo – disse voltandomi le spalle. Kubik evitava di guardarmi negli occhi. Da un pezzo, or-mai.

– Lei è un dottore, crede che per vivere sia sufficiente che cuo-re e polmoni si diano da fare – replicai, ma lui non disse nulla. Poi, mentre Kubik riempiva un formulario medico, chiesi:

– Posso domandarle se ha notizie di Oskar?Sapevo perfettamente che con Kubik, a differenza del medico

precedente, era possibile parlare. Il dottore cominciò a gironzola-re distrattamente per lo studio, fingendosi indaffarato.

– Non è in mio potere rivelare alcunché – disse – però mi pare che fosse ancora vivo, stamattina. Consideri che i prigionieri del bunker solitamente vengono portati qui già morti, o in fin di vita.

– Spera di non doverlo visitare, allora.Si voltò nella mia direzione e rispose:– L’ha combinata grossa, stavolta.– Bahuoff ha…– No, non mi interessa cosa ha detto o fatto Bahuoff. Non sono

il suo tutore. Al contrario: è lui a dare gli ordini, io devo soltanto eseguirli. È questo che impone il regolamento militare. Bahuoff avrà avuto le sue buone ragioni per agire in quel modo.

Kubik odiava Bahuoff: lo pensavo da sempre. L’accorata difesa operata dal medico, contrariamente alle sue intenzioni, rendeva ancor più manifesto tutto ciò. Avrei voluto dirglielo in quei mo-menti, sbattergli in faccia una verità che non poteva negare, ma…

Ma tacqui. Lasciai che fossero i miei occhi a parlare. Kubik in-cassò lo sguardo e annuì lentamente. Quindi tolse gli occhiali, stropicciando gli occhi con l’indice e il pollice della mano destra.

– Sono stanco – disse – questa lunga guerra ci sta uccidendo. Tutti… chi nel corpo, chi nell’anima.

Non replicai nulla, continuai semplicemente a fissarlo. Kubik non aggiunse altro; si avvicinò alla scrivania in radica, compilò velocemente un permesso e me lo consegnò.

– Riposo totale per ventiquattro ore. Tornerà a lavoro domani pomeriggio, se le sue condizioni di salute glielo consentiranno.

Si avviò verso la porta, che aprì in tutta fretta, invitandomi a uscire.

– Può riaccompagnare il detenuto nel suo block, non c’è biso-gno di ricoverarlo in infermeria – disse infine a Fritz, che in tutto quel tempo aveva atteso nel corridoio dell’ambulatorio.

– Sissignore – fu il laconico commento di Fritz. Ci allontanam-mo così dallo studio medico, ma quando gettai un’occhiata al di sopra delle mie spalle mi avvidi che il dottor Kubik continuava a seguirmi con lo sguardo.

Passai l’intera giornata, e buona parte del mattino seguente, a riposare. Se da un lato tutto questo aumentava le mie possibilità di sopravvivenza, attraverso il recupero delle forze fisiche, dal-l’altro quello stop forzato obbligava la mente a fare i conti col passato, coi ricordi di una vita.

Mi viene chiesto spesso, da reduce di guerra quale io sono, cosa mi fornì la forza di tirare avanti in quei lunghi, interminabili mesi. I ricordi, suggerisce sempre qualcuno. E io scuoto la testa, sforzandomi di sorridere. No, i ricordi non aiutavano. Al contra-rio: erano una prigione dalla quale, a un certo punto, non si vole-

va più uscire. Un luogo caldo e accogliente, all’apparenza; in realtà, un’arma a doppio taglio. Rivangare volti ed episodi risul-tava piacevole, ma anche terribilmente debilitante per lo spirito, che si vedeva costretto a rimpiangere persone quasi sempre già morte, rimaste vive soltanto nel limbo della rimembranza. Si fi-niva per guardare al passato con intensa nostalgia, e a cogliere nel presente una realtà insostenibile. Nulla di cui sorprendersi, quindi, se poi l’insofferenza sfociava in gesti estremi.

I nostri ricordi potevano essere paragonati alla semplice neve. Apparentemente raffreddavano gli animi, intorpidivano i sensi, donando piacevoli sensazioni. Dopo un po’, però, cominciavano a bruciare, a fare male. Quello era il punto di non ritorno. Tirar-sene fuori equivaleva ad aver salva la vita, altrimenti ci si scotta-va mortalmente.

La neve, già. Quella notte cadde copiosa, imbiancando l’intero lager. Osservai la sua discesa attraverso l’unica finestra del block. Il nitore della neve cozzava decisamente coi toni scuri della struttura carceraria; in sé, l’accostamento non era affatto sgradevole, da un punto di vista estetico. Pareva di trovarsi in un film in bianco e nero, dalle atmosfere sognanti e dilatate.

In questa cornice, quella stessa notte, si tenne l’ennesima di-scussione attorno ai temi del nazismo, della prigionia e delle mo-dalità attraverso cui uscirne. Protagonisti ne furono tre deportati dalle idee differenti, accomunati dal bisogno di capire.

Io li lasciai parlare, ascoltando attentamente.Ero disposto a tutto, dopo ore di continue riflessioni, pur di non

restare intrappolato nei miei stessi ricordi.

CAPITOLO 13

Cominciavo a stare meglio, fisicamente, quando la discussione ebbe inizio. A vederli, quei tre, davano l’impressione di essere imparentati. Vestiti nella stessa maniera, con una bella stella di colore rosso a spiccare sulla divisa a strisce del campo. Dissiden-

ti politici: questo diceva l’astro infuocato. Eppure, le loro idee non collimavano affatto, trattandosi di individui dall’estrazione culturale alquanto differente. Quella di Filippo, ad esempio, era spiccatamente monarchica. Di origini sabaude, egli non perdeva occasione per rimpiangere i tempi dei vecchi re italiani, e per ri-vendicare l’importanza dello Statuto albertino, che in pratica co-nosceva a memoria.

Dimitri, invece, era il classico comunista cresciuto a pane e Le-nin.

Michail, infine, aveva militato nel movimento anarchico ceco-slovacco, piccolo ma decisamente agguerrito, almeno a giudicare dagli aneddoti che lo stesso Michail ci raccontava con accenti trionfalistici.

Nel russare sommesso dei detenuti già precipitati in un sonno profondo, Dimitri, sdraiato sulla sua branda, lo sguardo rivolto al soffitto e le mani giunte dietro la nuca, esclamò con un rantolo rabbioso:

– Non ne posso più.Un po’ tutti coloro che, svegli e pensierosi, stazionavano in

quei paraggi, si voltarono a guardarlo. – Cosa c’è Dimitri? – domandò Filippo. Il vecchio bolscevico

attese qualche secondo prima di formulare la risposta. Alcuni compagni, già abituati agli sfoghi amari ma effimeri del solito deportato stanco e psicologicamente provato, sfollarono rapida-mente. Io restai con l’orecchio teso, pochi altri rimasero in zona.

– Non ne posso più di starmene qui, fermo, ad aspettare che un altro schifoso giorno di violenze arrivi, e così il giorno dopo, e l’altro ancora.

– Cosa vorresti fare? La rivoluzione proletaria? – domandò Mi-chail in tono sarcastico, inserendosi in questo modo all’in- terno della conversazione.

– Ci vorrebbe davvero, la rivoluzione proletaria! – esclamò Di-mitri.

– Probabilmente, se all’interno del lager esistesse un proletaria-to – obiettò invece Filippo.

– Tu non capisci: proletario non è soltanto il morto di fame. Ogni persona sfruttata, ogni individuo schiacciato dall’apparato burocratico è fondamentalmente un proletario. E qui che si fa? Si lavora diciotto ore al giorno in quello schifo di industria, o nelle cave di pietra, senza salario, senza diritti, senza libertà.

– Il tuo amico Marx sosteneva che col lavoro l’uomo afferma se stesso – rincarò Filippo.

– Sì, ma l’uomo di cui parla Marx è tutta un’altra cosa. È un la-voratore che…

– Santo cielo, ancora con questa solfa! – sbottò Michail. – Oh, il nostro compagno anarchico! Perché, tu cosa suggerisci

di fare?Michail si guardò attorno, avvertendo su di sé più di uno sguardo. – Io propongo la cosa più naturale di questo mondo: l’insurre-

zione spontanea, dal basso, senza guide né fini secondari.– E in che modo speri di riuscirci? – domandò Hermann, steso

sulla sua branda. Michail rise. – Un’arma per ciascuno di noi e il gioco è fatto.– Stai parlando di violenza, vero? – chiese con tono allarmato

Jacques, soggetto notoriamente contrario a qualunque ipotesi di rivolta sanguinaria.

– La rivoluzione, da che mondo è mondo, è sempre stata vio-lenta. Alternative non ce ne sono.

– E dove speri di rimediare le armi?Michail tacque, prendendo posto accanto a Filippo.– Non so, forse dovremmo cercare di portare qualcuno dalla

nostra parte. Corromperlo in qualche modo.– Mercanteggiare col nemico? – proruppe Dimitri.– Pensa al fine, amico mio, e il mezzo parrà lecito anche a te.– Non se ne parla neanche. Non venderò mai l’anima a quei

porci nazisti.– Stalin però lo ha fatto – sibilò Hermann. – Vero. Ma col tempo ha cambiato idea.– Gliel’ha fatta cambiare Hitler, l’idea – aggiunse Filippo cor-

reggendo il tiro.

– Spiacente, non prendo lezioni da un filomonarchico. Ricorda che se i re d’Italia e Germania avessero mostrato un po’ di polso, oggi non ci troveremmo in questa situazione.

– Sarà, ma nei lager ci siamo finiti tutti, anche noi monarchici.– Una specie di legge del contrappasso – commentò Michail

con amarezza. – Che non ha risparmiato neanche voi – gli fece eco Dimitri –

dal momento che molti compagni anarchici si sono bevuti il cer-vello, a quanto pare. In Italia avete salutato Mussolini come l’uo-mo nuovo, quello in grado di concretizzare i vostri deliri populi-sti. È ridicolo: rifiutate i rivoluzionari di professione di cui parla Lenin, però poi accogliete a braccia aperte il primo dittatore che bussa alla vostra porta.

Michail chinò il capo, pensieroso. – Non tutti in Cecoslovacchia si sono lasciati fregare – cercò di

giustificarsi – e abbiamo lottato a lungo prima che la nostra terra venisse trasformata in uno squallido protettorato.

– Lo so. Ma non era l’unità d’intenti la vostra arma segreta? Non siete voi a reclamare mille corpi ma un solo uomo, e una sola volontà? È inutile girarci attorno, Michail: in un certo senso qui tutti abbiamo delle colpe.

– Io non ho mai prestato interesse a queste cose – affermò una voce femminile anonima.

– È una colpa anche questa. La politica si è interessata di te, mentre tu dormivi beata – le rispose Filippo.

Trascorse un buon minuto, o giù di lì, senza che nessuno fia-tasse. A quel punto fu il sottoscritto a prendere la parola, anche se per rivolgere una semplicissima domanda:

– Assodato che qui siamo tutti colpevoli, come sperate di tirarci fuori da questa situazione?

– Ho già detto la mia: occorre entrare in possesso di armi, ela-borare un piano e aspettare il momento propizio. La sete di liber-tà farà il resto – propose Michail.

– Attendiamo che gli inglesi ci vengano a salvare, dopo aver avuto la meglio sui nazifascisti – replicò Filippo.

– Speri ancora in Churchill? E noi che facciamo nell’attesa che i sudditi di sua maestà si precipitino a salvarci? – domandò pro-vocatoriamente Michail.

– Quello che facciamo da settimane: cerchiamo di mantenerci in vita.

– Io credo che attendere il soccorso di un popolo amico, di un liberatore – asserì Dimitri – sia in qualche modo necessario. Per-sonalmente confido in Stalin però, non in Churchill.

– Stessa domanda: che facciamo nel frattempo?– Organizziamo la resistenza, utilizzando le uniche armi a no-

stra disposizione, quelle passive.– Ma di che stai parlando?

Dimitri esitò qualche istante prima di formulare la sua risposta. – Uno sciopero – disse infine. Alcuni di noi si abbandonarono a una fugace risata. – Lo so, può sembrare assurdo, ma rifletteteci un istante: se noi incrociamo le braccia, chi manderà avanti la fabbrica di armi? Chi costruirà le loro strade? Chi lavorerà la terra?

– Qualcun altro – sentenziò Tamara a bassa voce – dal momen-to che la manodopera non manca di certo, ai nazisti. Qui, e in al-tri campi di concentramento, affluiscono centinaia di deportati ogni settimana. Nessuno di noi è fondamentale per la sopravvi-venza del lager. Siamo pedine, rimpiazzabili a piacimento di chi ci sfrutta. Se così non fosse, perché ci massacrerebbero di botte? Perché ci ucciderebbero nei modi più brutali? Siamo una fonte inesauribile di manodopera, questa è la verità.

– E quando non ci sarà più alcun ebreo, alcun oppositore politi-co o religioso… che faranno? – domandò Dimitri.

– Inventeranno nuovi nemici, nuovi reati. Gli ebrei lasceranno il posto ai giapponesi, o agli svizzeri, e basterà un foruncolo per essere identificati come nemici del Reich. Voi pensate di poter porre un freno alla follia nazista. In questo, amici miei, risiede il vostro errore più grande, la vostra colossale illusione.

CAPITOLO 14

L’indomani, durante le prime ore della giornata, ebbi modo di sfruttare il periodo di riposo concesso da Kubik. Fu senz’altro un bene, dal momento che la febbre era diminuita ma senza scom-parire del tutto; la neve, inoltre, non voleva saperne di arrestare la propria discesa, e adesso ricopriva per intero il lager. Se fossi uscito, nelle condizioni di salute in cui versavo, avrei fatto certa-mente la fine di quei dodici detenuti che, in pieno orario di lavo-ro, perirono miseramente nell’indifferenza generale. Un paio di questi riuscii a scorgerli coi miei stessi occhi, mentre in piedi da-vanti alla finestra, osservavo i miei compagni lavorare la terra.

Si accasciarono al suolo lentamente, tentando dapprima di reg-gersi a una vanga, poi al terreno innevato. A nulla valse la spe-ranza di vederli rialzare, o che le ultime briciole di forza accor-ressero in loro aiuto. Annientati dall’affanno, e sotto lo sguardo vigile di una SS armata di fucile, il loro ultimo respiro fuggì via.

Si ripetevano le scene di sempre: il corpo, quell’involucro sche-letrico senza parvenza d’umanità, crollava su un fianco, per non muoversi mai più. Qualche nazista gli si accostava, lo colpiva debolmente con la canna del fucile; una volta constatato il deces-so, schioccava le dita e giungevano i sonderkommandos, che ar-mati di tenaglie afferravano il cadavere per il cranio e lo trasci-navano verso la fossa comune, a volte servendosi di piccoli car-retti.

Questo vidi, quel mattino, attraverso i vetri opachi della nostra finestra. Ma il resto della giornata avrebbe riservato a tutti noi immagini ben peggiori.

La tredicesima vittima fu portata in spalla dal povero Hermann, che dovette procedere lentamente dall’esterno del lager sino al-l’inceneritore. Fu proprio lui a darmi la notizia, una volta recupe-rate le forze.

– Jacques è morto – disse soltanto. Osservai gli altri detenuti, che alla spicciolata riprendevano posto all’interno del block.

Nessuno parlò, eppure sembrava che tutti ripetessero quelle stes-se parole: Jacques, il testimone di Geova, è morto.

– Com’è successo? – chiesi.– Il gioco del confine – rispose Hermann.Il gioco del confine… un terribile tranello teso a scadenze rego-

lari da qualche SS in vena di divertimento.– Chi? – domandai ancora.– Il sottufficiale della capitale… nessuno ricorda mai il suo

nome.Il piccolo Tomas mi fissò per qualche istante, poi distolse lo

sguardo facendo finta di nulla.Era tutto chiaro, del resto. Jacques aveva già accennato al sot-

tufficiale giunto da poco nel lager. Stava per diventare padre per la prima volta, voleva restare accanto alla moglie, vedere nascere il primogenito.

E allora realizzai: il figlio era nato, necessitava quindi di una li-cenza per allontanarsi un paio di giorni. Qualche collega doveva avergli suggerito il giochetto del confine. Bastava avvicinarsi a un detenuto, e ordinargli di oltrepassare la linea che delimitava la zona riservata ai prigionieri, ovviamente sotto la minaccia delle armi. Ogni detenuto sapeva bene che un solo piede posto al di là del confine avrebbe inevitabilmente attirato l’attenzione dei cec-chini appostati nei paraggi. Tuttavia, negare l’ordine poteva comportare conseguenze peggiori. E a noi, sempre in bilico tra vita e morte, tra volontà di non arrendersi e desiderio di veder cessare le proprie pene, non restavano che pochi secondi per sce-gliere.

Jacques era stato ucciso dal sottufficiale in persona, non da una sentinella. Tuttavia, scartai subito l’ipotesi che il testimone di Geova avesse oltrepassato di sua volontà la linea di confine. Non lo avrebbe mai fatto, per coraggio e per una spiccata contrarietà al suicidio. Il suo aguzzino doveva averlo spinto, simulando l’e-vasione; di questo potevo star certo, perché i soldati che impedi-vano un tentativo d’evasione venivano premiati con somme in denaro o una licenza premio. E quel sottufficiale desiderava fol-

lemente andar via per quarantott’ore, da trascorrere con moglie e figlio.

Tutto tornava.Rientrando dal campo, Tamara mi guardò e senza dire nulla

corse ad abbracciarmi. Qualcuno, probabilmente, le aveva comu-nicato la morte di Jacques. Il collo mi si inumidì velocemente di calde lacrime, e qualche flebile singhiozzo risuonò nel chiuso del block.

La consapevolezza della tragicità della nostra situazione giun-geva così, senza preavviso, e lì restava per ore, lasciandoci am-mutoliti. Tutto appariva vano, indefinito, superfluo.

Occorreva che qualcuno tornasse a restituire un senso alla no-stra sopravvivenza. Quel qualcuno, di lì a poche ore, avrebbe as-sunto le sembianze del povero Oskar.

Fummo svegliati nel cuore della notte da un Bahuoff in eviden-te stato di alterazione; barcollava tremendamente, urlando i suoi sproloqui in faccia a noi detenuti. Pareva al culmine della gioia, e di tanto in tanto accennava qualche passo di danza, rischiando regolarmente di finire per terra.

Non appena fu dato l’ordine di schierarsi, ci ritrovammo tutti assieme nello spiazzo del lager, sotto la neve. Poi apparvero in lontananza tre uomini, stretti l’un l’altro. Ai lati c’erano Fritz e T.K., al centro Oskar, o quel che ne restava. Il volto del nostro compagno di block era stato ridotto in uno stato pietoso. Gli ematomi violacei spiccavano crudelmente sulla pelle avvizzita e cerulea; i capelli sembravano strappati alla radice, come erbacce di poco conto, e il cranio, gli occhi e le labbra presentavano ine-quivocabili rigonfiamenti. Non si reggeva in piedi, e sbandava di continuo, per quanto Fritz e T.K. tentassero in ogni modo di te-nerlo in posizione verticale; ma più che sostenerlo, i due sembra-vano schiacciarlo tra i loro corpi pieni d’energia. Ridacchiavano come al solito, da perfetti sadici quali essi erano.

Una volta terminato il veloce quanto inaspettato appello, al quale persino Oskar fu costretto a rispondere, Bahuoff cominciò

a passeggiare avanti e indietro nei pressi della prima fila di dete-nuti.

– Dove sono quei nuovi deportati del block due? – domandò con crescente impazienza.

– Ne sono arrivati parecchi in questi giorni – sibilò Fritz guar-dandosi attorno.

– Lo strizzacervelli e il filosofo – specificò allora Bahuoff.T.K. comprese al volo, e declamò ad alta voce i nomi di Kroger

e Sammet, i nuovi arrivati.Kroger proveniva da un paesino affacciato sul Reno, e aveva

svolto per anni la professione di psicologo presso un’università austriaca. Sammet, invece, era un professore di filosofia. Di più, sul loro conto, non avrei saputo dire in quella prima fase della nostra reciproca conoscenza.

Comunque, i due avanzarono dalle retrovie col petto in fuori, rispondendo celermente alla chiamata. Bahuoff li guardò sorri-dente e disse:

– Siete qui da pochi giorni, dovete imparare cosa può succedere a chi sminuisce la mia autorità.

Sembrava piuttosto lucido, il comandante; evidentemente il freddo notturno aveva già disperso i fumi dell’alcol. Indicò poi due vanghe posate per terra.

– Prendete quegli arnesi e cominciate a scavare una buca, non troppo larga, ma abbastanza profonda da poterci calare un uomo fino al collo.

Bahuoff guardò Oskar, e sorrise ancora. Quel che stava per ac-cadere fu immediatamente chiaro a tutti. Le dita delle mia mani cominciarono a convergere verso il centro, quasi automatica-mente, fino a stringersi in due pugni carichi di odio e tormento. Avrei voluto usarli, quei pugni, per impedire a Bahuoff quel- l’i-nutile, inumana esecuzione.

Oskar era già morto, potevo vederlo coi miei occhi. I suoi, di occhi, probabilmente non vedevano niente. E se anche avessero colto nitidamente l’immagine dei detenuti intenti a scavargli la fossa, il suo cervello non avrebbe realizzato ciò che accadeva.

Era già morto, vi dico, e quei miei pugni, in fin dei conti, non sa-rebbero serviti a nulla, se non ad allargare un po’ la buca, per spingerci dentro anche il mio corpo. Avrei tenuto compagnia ad Oskar, senza per questo salvargli la vita. Tamara, che accanto a me batteva i denti per il freddo e per la rabbia, aveva perfetta-mente ragione: non potevamo porre alcun freno alla follia dei nostri persecutori.

Quando Kroger e Sammet ebbero terminato il proprio compito, Bahuoff ordinò al decano e al kapò di calare Oskar nella buca, in posizione eretta. Poi chiamò altri due detenuti e chiese loro, con posticcia gentilezza, di ricoprire la fossa. A distanza di cinque minuti, soltanto la testa del nostro compagno sbucava dal terreno cosparso di neve. E l’unico segno di vita consisteva nel fumo che, a intervalli regolari, si propagava in maniera informe dalla sua bocca, per via del freddo.

In quel frangente, forse attirato dalle risa sguaiate del coman-dante, fece la sua comparsa il dottor Kubik. Osservò accigliato il volto tumefatto di Oskar, e avanzò lentamente nella sua direzio-ne. Si piegò sulle ginocchia, poi tastò con pollice e indice il collo del nostro compagno di block.

– Cosa c’è dottore? Ritiene i miei metodi poco ortodossi? – gli domando Bahuoff con fare sardonico, prorompendo poi nell’en-nesima risata. Kubik non batté ciglio, ma negò col capo.

– Tutt’altro, signore. Ritengo che la punizione inflitta al dete-nuto non sia equivalente all’offesa arrecata.

– Che cosa suggerisce? – domandò allora Bahuoff, visibilmente compiaciuto.

– Un’umiliazione peggiore, che serva da lezione a tutti. Avvicinò la bocca all’orecchio destro del comandante, e bisbi-

gliò qualcosa che obbligò Bahuoff, ancora una volta, a sghignaz-zare in maniera inconsulta.

– Mi piace, mi piace – assentì allora entusiasticamente, forse sorpreso dalla proposta del medico.

– Ci sto, dottore. Anzi, sarò il primo della lista.Poi volse lo sguardo nella direzione di T.K. e Fritz.

– Voi due… che ne dite di pisciare su quell’alberello che spun-ta dalla neve? – domandò indicando Oskar. T.K. rise.

– Ci consideri già arruolati – disse quindi a nome di entrambi.– Ne servono altri, però. Vediamo un po’…Bahuoff iniziò a scorrere con l’indice della mano destra la lista

dei detenuti. La sua perfidia lo avrebbe indotto quasi certamente a scegliere fra i compagni di block del condannato.

– I quattro che hanno scavato e ricoperto la fossa sono già qui. Io direi di tenerceli, ma non bastano – sibilò chiedendo consiglio a un interlocutore invisibile.

Occorrevano altre persone. Improvvisamente, in barba alle ri-gorose leggi del campo, avvertii la mano di Tamara stringere im-pietosamente la mia. Senza muovere di un solo millimetro la te-sta, spostai lo sguardo verso destra e intravidi Tamara che, con gli occhi serrati sino alle lacrime, muoveva impercettibilmente le labbra, senza emettere il minimo rumore.

Stava pregando… – Si facciano avanti Hermann Thode e quel piccolo bastardo

che finge di essere muto… come si chiama?– Tomas – suggerì Fritz.Tamara mollò la presa, e riaprì gli occhi.– Tomas, sì. Però ne voglio un altro.– Se non le spiace vorrei essere l’ultimo della lista – intervenne

Kubik avanzando di un passo.– Mi pare giusto. In fondo l’idea è stata sua – commentò Ba-

huoff.Poi chiamò a raccolta i detenuti incaricati del medesimo compi-

to, li contò uno ad uno, e con la sigaretta stretta fra le labbra, come d’abitudine, si avvicinò all’inerme Oskar slacciando la cin-ghia che gli reggeva i pantaloni.

CAPITOLO 15

Non ci girerò attorno troppo a lungo. Alcuni ricordi possiedono il dono naturale di riemergere con facilità dagli abissi della me-moria, ma altri, simili ad aghi conficcati fra le pieghe del nostro cervello, vanno afferrati per l’estremità sporgente e tirati su con calma e cautela.

Il ricordo dell’umiliazione di Oskar appartiene a quest’ultima categoria, per cui tutto quello che posso rammentare è che Ba-huoff fu il primo a inzuppare per bene il volto del nostro compa-gno. Toccò poi a T.K., quindi a Fritz. Si alternarono in dolorosa successione i sei detenuti; fra questi, l’ultimo della lista fu pro-prio Hermann, l’unica persona che poteva considerarsi a ragion veduta un amico del prigioniero sepolto sotto la neve. Quando gli fu davanti, braccia stese sui fianchi e fronte aggrottata, guar-dò Oskar e serrò la mascella. Quest’ultimo, nel frattempo, aveva ripreso i sensi, e fissava il dottor Kubik con un’espres- sione che, lì per lì, non riuscii a decifrare. A distanza di pochissimi secondi, Bahuoff iniziò a dare in escandescenza.

– Piscia in faccia al tuo amico o seppellisco anche te, ma a testa in giù – gli intimò mettendo mano alla pistola.

Hermann non mosse un muscolo. Allora Oskar balbettò qual-cosa, qualcosa che noi, distanti diversi metri, non riuscimmo a comprendere. A quel punto Hermann si voltò e annuì col capo. Alcuni di noi credettero che il cenno d’assenso fosse stato rivolto al comandante Bahuoff, ma così non fu. Poche ore più in là ne avrei avuto conferma.

Seppur visibilmente rammaricato, il nostro compagno di block fu costretto a eseguire l’ordine. Eppure, quando tornò a schierar-si fra noi, non vidi pentimento sul suo volto, né rabbia alcuna.

Giunse quindi il turno del dottor Kubik, che lentamente si parò al cospetto di Oskar. Fece scivolare verso il basso la cerniera dei pantaloni, senza che il suo volto tradisse alcuna emozione. Pro-prio come Hermann.

– Apri la bocca – disse quindi all’improvviso.

Più di qualcuno, fra i detenuti, trattenne a stento un grido di ri-pugnanza e disapprovazione. Io, convinto di cominciare a capire, continuai a osservare la scena in silenzio.

Sulle prime Oskar negò debolmente col capo. Era ferito, spos-sato e forse ammalato, e quel gesto dovette costargli non poca fatica. Bahuoff tornò ad accarezzare la pistola, e il medico se ne accorse.

– Dai retta a me – ripeté Kubik – faresti meglio a tenere aperta la bocca.

Si scambiarono un altro sguardo. Silenzioso. Lunghissimo. Con un ulteriore, enorme sforzo, Oskar socchiuse la bocca, mostran-do a tutti noi due fila di denti assai rade. Per via dei pestaggi su-biti nei giorni precedenti, suppongo.

Kubik sorrise, poi fece quel che doveva. Dopo aver richiuso la lampo dei pantaloni, ritornò a stazionare

nei pressi di Bahuoff, ponendosi sull’attenti. Quando l’ebbe ac-canto, il comandante scoppiò a ridere:

– Diavolo di un medico! Pisciargli in bocca… e poi sarei io il cattivo. È lei il vero mostro! – esclamò tra le risate sue e dei kapò. Kubik scrutò il cielo e chiese al comandante:

– Lo sapeva che “Frankenstein” non è il nome del mostro, ma quello dello scienziato?

Bahuoff restò serio per un istante, poi lo colpì sulla spalla con una gran pacca e tornò a ridere sguaiatamente, e con lui tutti gli altri.

Kubik sorrideva.

CAPITOLO 16

Il giorno seguente, ognuno di noi fu costretto a muoversi nel campo senza poter prestare alcun soccorso al povero Oskar, che restava, assiderato e agonizzante, nel personale block riservatogli da Bahuoff. Fritz ci vietò espressamente di parlare col detenuto;

T.K. rincarò la dose, vietando persino il semplice sguardo, anche durante gli appelli.

Oskar era già morto per Bahuoff; e noi, noi che non avevamo alcun diritto di pensare, dovevamo forzatamente condividere l’i-dea del comandante. Non esisteva più, quell’uomo, era un ricor-do, un fantasma del passato, il simbolo di quel che rischiava ogni oppositore del regime nazista. Se ci avessero chiesto: “qualcuno di voi riesce a notare una qualche presenza umana lì, nei pressi dello spiazzo?”, noi avremmo dovuto rispondere di no.

No, signore, io non vedo alcuna presenza umana.Io non vedo occhi gonfi, non vedo labbra sanguinanti, né soffe-

renza né dignità, dietro quelle palpebre serrate.Io non vedo un essere umano, perché qualunque cosa ci sia,

piantata nella neve, non può più essere definita un essere umano.Certo, quel qualcosa tenterà d’ingannarmi, mostrando ossa,

muscoli e lacrime, ma non è che un’imitazione. Tutti noi siamo imitazioni di vita.

Non lasciamoci ingannare, per la miseria! Ognuno vede quel che desidera vedere.

C’è qualcuno lì?No, signore, nemmeno un respiro.

Si fece un gran parlare del dottor Kubik in quelle ore. C’è chi si mostrò sorpreso dall’atteggiamento del medico, chi disgustato, chi amareggiato. Più o meno tutti, insomma, nutrivamo la spe-ranza che almeno nel cuore di Kubik fosse rimasto un minimo di pietà umana. E invece…

Soltanto Hermann preferì tacere, mentre io, per quanto dubbio-so, mi limitai a manifestare i medesimi sentimenti dei nostri compagni.

Durante la notte, a distanza di ventiquattro ore dall’umiliazione pubblica di Oskar, non tutti trovarono la forza di addormentarsi nell’immediato. Del resto, bastava affacciarsi alla finestra per ve-dere ciò che i nazisti non volevano che vedessimo. A memoria d’uomo, non ci fu agonia più lunga e straziante di quella patita

da Oskar. Per quanto crudeli, le consuete punizioni corporali du-ravano tutt’al più qualche ora, poi il corpo cedeva, o i nazisti si stancavano di giocare e dispensavano proiettili. Ma quel che subì Oskar, ancora vivo nonostante il digiuno, e le percosse, e gli ol-traggi… no, nessuno lo patì mai.

Il signor Kroger, ribattezzato da Bahuoff “lo strizzacervelli”, venne a trovare me e Tamara quella notte. Anche lui, come tutti, aveva bisogno di parlare; e a maggior ragione, dal momento che era lì con noi soltanto da pochi giorni.

Non so perché scelse proprio noi due, fra tutti gli interlocutori possibili, ma lo scoramento che mostravano i suoi occhi la dice-va lunga sul suo stato mentale.

Aveva bisogno di sfogarsi, ed essere ascoltato.– Dovrò abituarmi a mostruosità di questo tipo, suppongo –

disse con tono flebile, cercando al contempo di abbozzare un ti-mido sorriso. Annuii mestamente, gettando un’occhiata al di là della finestra.

– Non possiamo fare niente per quel disgraziato? – domandò sedendosi sul pavimento, a gambe incrociate.

– Pregare perché tiri le cuoia il prima possibile – replicai fred-damente.

– Io, a dire il vero, confidavo in qualcosa di meno negativo.– Allora può sperare inutilmente che qualcuno o qualcosa gli

salvi la vita.Kroger incassò anche quella risposta senza scomporsi. – Bizzarro, mi avevano parlato in altri termini del deportato Fe-

licien Delacroix – disse soltanto. Risi, poi domandai:– Davvero? E cosa si dice in giro?– “Una persona compassionevole”: così ti hanno definito.Tamara mi lanciò un’occhiata, io ribattei:– So esserlo al momento giusto, signor Kroger. Questo posto ti

insegna a essere realista, però, che tu lo voglia o meno. Ne ho vi-ste tante in queste settimane, e so che qui il tempo si è fermato. Risveglio adunata lavoro cibo lavoro appello cibo riposo. Tutti i giorni la stessa storia, come in un cerchio. Una sola incognita: la

sopravvivenza. Sappiamo quel che ci attende domani, ma non sappiamo se questo “domani” potremo vederlo e viverlo. Certa-mente lo subiremo. Solo la morte, e nient’altro, può spezzare il cerchio.

Il mio interlocutore sollevò un lato della bocca, e passò una mano sul volto corrugato.

– Sensi di colpa, Kroger? – domandò Tamara.Lui annuì senza nasconderlo.– Gliel’ho scavata io, quella fossa.– E ora vorresti tirarlo fuori – proseguì lei.– Sì, e anche Sammet non riesce a darsi pace.– Non ne avete motivo, né tu né lui – dissi io.– Balle. Quelle pale non si sono messe a scavare da sole.– Qual era l’alternativa? Disobbedire all’ordine? Un buco in te-

sta: questo avresti ottenuto. Le vanghe sarebbero finite comun-que in altre mani. E quella fossa, amico mio, c’era già, da giorni. Nessuno poteva vederla, eccetto Oskar. Perché è stato lui, met-tendosi contro Bahuoff, a scavarla con le sue stesse mani.

– Sì, mi hanno raccontato qualcosa. Dicono che abbia salvato la vita a un ragazzino muto.

– Salvato la vita… chi può dirlo? Magari ha spostato le lancette un po’ più in là, e Tomas resta secco domani. Oskar sapeva be-nissimo a cosa andava incontro, ma se n’è fregato altamente, per motivi che solo lui conosce.

– Forse voleva dirci qualcosa – suggerì Tamara.Sollevai le spalle, non avendo alcuna risposta certa da offrire.

La quiete della notte ci zittì per qualche secondo, e Kroger tornò in piedi, pronto ad andare via.

– Quel tale… il medico del campo – accennò prima di allonta-narsi definitivamente.

– Il dottor Kubik?– Proprio lui. Per alcuni ha dei modo garbati, e forse un cuore,

almeno rispetto agli altri nazisti, ma da quel che ho potuto vedere non è che una canaglia della peggiore specie.

Tamara assentì, io replicai:

– Qui nessuno conosce l’altro. Il deportato che oggi ti offre un pezzetto del suo pane, domani potrebbe essere nominato kapò e pestarti a sangue per uno starnuto. Il medico del campo non sfugge alla regola. In un altro contesto, forse, Kubik avrebbe il volto del tranquillo vicino di casa, il bravo dottore che accorre in aiuto quando a tua figlia sale l’influenza. Ma qui, nel lager, tutto s’abbruttisce, diventa volgare. Perché prima o poi i lupi ti im-pongono una scelta, unirti al loro branco o a quello degli agnelli. Sacrificare o sacrificarsi, cacciare o essere cacciato.

– Stai cercando di giustificarlo? – domandò Tamara interdetta.– Non lasciatevi ingannare, questo è ciò che dico. Voi guardate

la neve adagiarsi sul terreno e pensate che tutta la neve sia bian-ca. E se lo stivale di un nazista vi colpisce in pieno volto, osser-vate la suola di chi vi calpesta e pensate che tutte le suole siano nere. Fate attenzione, vi dico, perché la neve può sporcarsi di gri-gio in seguito al nostro passaggio. E un po’ di neve, certe volte, può accumularsi ancora limpida fra le pieghe nascoste di una scarpa.

CAPITOLO 17

La porta del block si aprì violentemente nel bel mezzo della notte. Fecero dunque il loro ingresso Fritz, T.K., Kubik e, nello stupore generale, anche Oskar. Il fantasma di Oskar, a giudicare dal colorito del suo volto.

– Non la seguo, dottor Kubik. È sicuro che tutto questo sia re-golare? – domandò T.K. lasciando che il corpo di Oskar franasse al suolo, una volta negatogli il sostegno.

– Gliel’ho già detto mille volte – replicò d’acchito il medico, osservando la massa informe di detenuti che, alla spicciolata, tor-nava confusamente in piedi, ancora in preda al sonno.

– Bahuoff però… – accennò Fritz, subito interrotto dal medico con un gesto della mano.

– Ho chiesto giorni fa al comandante di autorizzare alcuni espe-rimenti di alto profilo scientifico, da svolgere su cavie umane vive. Bahuoff non ha obiettato nulla, e ha firmato tutti i docu-menti. In questo momento, però, si trova in Polonia, in visita presso un altro lager. Ho assunto io il comando, per quel che ri-guarda la vita dei degenti. Posso disporne a mio piacimento, an-che perché il rapportführer sta dormendo, e non credo che verrà sin qui per valutare la situazione. Se poi tu e T.K. temete per la vostra incolumità, potete stare tranquilli: avete dissotterrato il corpo di quest’uomo dietro mio ordine. Tuttavia, non immagina-vo affatto che lo stato di salute del deportato fosse compromesso a un livello così alto. È più di là che di qua, e ai fini del mio esperimento non serve assolutamente a nulla.

– Ma respira ancora!Kubik deglutì nervosamente, senza mai togliere gli occhi di

dosso a Fritz:– Mi pare che qui sia il sottoscritto a indossare un camice, no?

Ho studiato attentamente le risposte neuro-motorie del detenuto, nonché lo stato delle funzioni vitali. È ridotto uno schifo, e non passerà la notte.

– Ributtiamolo nella fossa – propose T.K.Il medico chinò il capo e guardò Oskar per qualche secondo:– Non se ne parla. Sono le due di notte, l’ultima cosa che desi-

dero è sprecare altro tempo. Neanche in punto di morte ha com-binato qualcosa di buono, questo schifoso.

Ordinò ai due di rompere le righe e andare a dormire, compli-mentandosi pubblicamente per l’ottimo lavoro svolto quella not-te. Tronfi e impettiti, Fritz e T.K. scomparvero velocemente dal-la scena. Kubik li seguì a ruota, negando palesemente gli sguardi di chi, come me, lo contemplava nel tentativo di capire il perché delle sue azioni. Quell’uomo sembrava burlarsi di tutti, e proiet-tare diverse personalità in molteplici punti, come in un gioco di specchi.

Quando la porta del block venne nuovamente chiusa, ci preci-pitammo in massa a soccorrere Oskar.

Per prima cosa adagiammo il corpo sulla sua vecchia branda, e lo coprimmo con cinque o sei coperte. Poi qualcuno fece giunge-re dalle retrovie il secchio e la spugna; nel secchio c’era dell’ac-qua, in realtà neve disciolta ormai da diverse ore.

Come già detto, l’arte della sopravvivenza sollecitava ognuno di noi a ideare nuovi stratagemmi coi quali adattarsi alle diverse contingenze. Fu Abdul il musulmano a suggerire l’idea della neve: bastava riempirsi le tasche poco prima del rientro serale, e il gioco era fatto. Nel giro di qualche minuto la neve cominciava a sciogliersi e a gocciolare, occorrevano quindi rapidità e pru-denza. Le SS vigilavano attentamente, non era facile fargliela sotto il naso. Neanche la neve potevamo considerare nostra, ai loro occhi. Ma il gioco funzionò, e bene. Certo, con quel freddo non era piacevole avvertire il gelo che trapelava attraverso i ve-stiti giù fino alla nuda pelle, ma questo espediente consentì a tutti noi di poter contare su una riserva non indifferente di acqua. Al mattino, c’era sempre qualcuno che provvedeva a gettare l’e-ventuale residuo nella fossa degli escrementi. Quella notte, però, non ne andò sprecata neanche una goccia.

Ormai a temperatura ambiente, inumidimmo palpebre, labbra e polsi del moribondo, nella speranza di fargli riprendere i sensi. In effetti Oskar aprì quasi subito gli occhi, ma cominciò a blaterare frasi sconnesse. Era disidratato, e spaventosamente contratto nei movimenti. Nonostante il gran freddo, la sua fronte scottava, e qualcuno ebbe la buona idea di adagiarvi la spugna imbevuta d’acqua, preventivamente strizzata. Si calmò un po’ a distanza di venti minuti; i nostri sguardi vigili registravano ogni mutamento nel tono della voce o nell’espressione del volto.

Dopo circa un’ora, alcuni di noi cedettero al sonno, e presero posto nelle rispettive brande, assicurandosi però che qualcuno re-stasse di guardia. Il folto nugolo di persone stipato alle nostre spalle, così, sfollò lentamente, detenuto dopo detenuto.

Quando Oskar riaprì gli occhi e cominciò a parlare con voce calma e sommessa, eravamo rimasti forse in dieci ad ascoltarlo:

io, Tamara, Hans, Jurgen, Hermann, Abdul, il piccolo Tomas, il professor Kozminski e anche Kroger e Sammet, se ricordo bene.

Le sue parole avrebbero segnato per sempre alcuni di noi, edifi-cando le fondamenta della nostra futura libertà.

CAPITOLO 18

– Sta zitto, e cerca di riposare – disse Hermann a Oskar girando dal lato fresco la spugna che gli inumidiva la fronte.

– Sono ridotto male, eh? – domandò Oskar per la seconda vol-ta. Hermann, da sempre l’unica persona degna di considerazione per lui, non resse lo sguardo e finse di sistemare con maggior cura le coperte.

– Te la caverai – rispose guardando nel vuoto.Oskar non abboccò, e squadrò tutti noi in cerca di conferme.

Un po’ tutti provammo a sorridergli, a mostrarci sereni. Ma Ta-mara tremava, io simulavo a stento e gli occhi del piccolo To-mas… gli occhi del piccolo Tomas non erano mai stati così gran-di e scuri come in quella occasione.

Oskar capì, e deglutì.– Almeno crepo come un essere umano – commentò allora nel

riverente silenzio, la voce arrochita dalle pene sofferte.– Piantala – insistette Hermann.– State alla larga dal bunker, non potete immaginare che vi fan-

no lì dentro – bisbigliò Oskar tentando di mostrare a tutti le brac-cia cariche di tagli e lividi. Non riuscendoci, continuò a parlare:

– Quei crucchi del cazzo speravano di vedermi schiattare coi loro occhi… ma io li ho fregati, per dio!

In quel mentre tossì, ma Hermann non gli rimproverò nulla. Voleva parlare, il vecchio Oskar, dirci quel che c’era da dire pri-ma dell’inevitabile. Era evidente, ormai, che non ce l’avrebbe fatta, e da quel momento in poi nessuno osò zittire la sua voce. Si sarebbe spenta da sola, col trascorrere dei minuti.

– Nel bunker del lager non puoi fare altro che pensare, di tem-po ne hai a sufficienza. E allora ho ricordato un mucchio di cose, errori compresi. Nessun pentimento, per carità, non sono il tipo d’uomo che si pente, io. Ma dieci anni fa ho ucciso un tizio, lo sapete tutti. Ci avevo provato con sua moglie, ma quella lì non lo teneva mica l’anello al dito! Apriva le gambe a tutti i clienti del bar, la troia, senza mai ammettere di essere sposata. Fesso non lo sono mai stato, quindi m’accodai come tutti gli altri. Bell’affare! Indovinate un po’ chi fu l’unico a essere pizzicato dal marito?

Rise a stento.– Quel pazzo si presentò sotto casa mia, una notte. Poche paro-

le e un solo azzardo: una bella coltellata. Centrò una spalla, e a momenti ci restavo secco. Io tirai fuori il mio, di coltello, e con-trattaccai, ma con più precisione. Gli bucai un polmone, e il resto è storia. Mi spedirono in gattabuia, della legittima difesa non gliene fregò un cazzo a nessuno. Lo scoprii più tardi: avevo ucci-so un avvocato, per la miseria, con una sfilza di amicizie e ag-ganci da far paura. La moglie finse di non conoscermi durante il processo, e tanti saluti alla libertà.

Riprese fiato.– E proprio ieri, sapete, in quella buca ho ricordato gli anni pas-

sati in galera. Anni piacevoli, al confronto. Mi è tornato alla mente un secondino, un certo Breuer. Menava botte da orbi, ed era rispettato da tutti. Non per le botte, intendiamoci: quelle dopo un po’ impari a evitarle o a incassarle con dignità. Breuer si pre-occupava per noi, questa è la verità; ci teneva in scacco, ma of-friva cibo, sigarette, alcolici, e anche consigli. Era saggio, a modo suo. Diceva: “pestare e basta non serve a niente, perché così il carcerato ti prende sulle palle, dimentica che significa vi-vere e una volta fuori si sente a disagio, e allora la prigione a che serve, dico io?”.

Rise di nuovo.– Una volta ci fu un’invasione di topi; si facevano spazio negli

interstizi, sbucavano da sopra, da sotto, dai cessi… ovunque! Breuer fu l’unico a prendere in considerazione le nostre lamente-

le. Eravamo carcerati, non bestie. Non so esattamente come ci riuscì, ma risolse il problema nel giro di una settimana. Ne cattu-rò uno, e lo fece impazzire. Non chiedetemi come, sta di fatto che i topi iniziarono ad aggredirsi l’un l’altro, a massacrarsi a vi-cenda. Non ne restò vivo nemmeno uno.

Sospirò.– Qui, invece, sono tutti dei piccoli Hitler. Se ne fottono di noi.

Bene o male, vogliono tutti un po’ di potere in più. Una stella sulla divisa, una casa, cibo migliore o che so io. Breuer pensava al dopo, al nostro rientro nella società. I nazisti no, e sapete per-ché? Perché noi non conosceremo mai alcun ritorno. Siamo de-stinati a tirare le cuoia qui. La loro perfetta società ariana non ha bisogno di noi.

Riprese fiato, questa volta più a lungo.– Adolf Hitler è innocente, amici miei. Ve lo dico io. Ci ho

messo un po’ a capirlo, ma alla fine mi è parso chiaro. Hitler è arrivato, un bel giorno, e ha cominciato a raccontare stronzate. Il popolo gli ha creduto, e lo ha eletto. Non ha spianato i fucili per ottenere la fiducia dei tedeschi. Li ha convinti con le promesse, con le belle parole. Che gran fregatura! Pensate un po’: lui pro-getta lo sterminio di interi popoli e la gente lo acclama, io uccido un tizio per legittima difesa e vengo sbattuto in galera. È tutto alla rovescia, c’è qualcosa che non va nella testa delle persone. Ho commesso un omicidio, è vero, per colpa mia una persona adesso non c’è più; posso dire però di aver agito d’istinto, di non aver avuto il tempo e il modo di ponderare bene. Ma a un soste-nitore di Hitler, che attenuante vuoi concedergli? Non c’è scusa che tenga. Così, oggi abbiamo Hitler, la guerra, i lager, le perse-cuzioni e tutto il resto.

Tossì di nuovo, e di nuovo ancora. Qualcuno rigirò la spugna.– Hitler, Bahuoff, Braun e tutti gli altri, sono stati creati dal si-

stema. La base li ha presi e piazzati al vertice. Qualcuno, come me, chiudeva gli occhi e tirava avanti per la sua strada. Che m’importa, dicevo, se il nuovo cancelliere sarà nazista, socialista o a pallini? Per me non cambierà nulla. Un idiota, ecco cos’ero.

E un ignorante. Non li conoscevo mica i piani di Hitler. Mentre lui parlava di razze inferiori e di dominio, io mi sbronzavo in qualche bettola di periferia. Beh, almeno una scusa ce l’ho: l’i-gnoranza, appunto. E qualche tedesco di buon cuore è rimasto là fuori, ne sono certo. Non tutti si sono lasciati infinocchiare dal regime. Il problema sta nel numero.

Un’altra pausa, per prendere fiato e ordinare i pensieri. Oskar non era mai stato così loquace, e così lucido.

– Hitler è innocente, nel contesto. È un pazzo che ha bussato a tante porte, ha chiesto permesso ed è stato accolto ovunque a braccia aperte. Hitler è la conseguenza, non la causa. Mi pare di essere l’unico ad averlo capito, qui dentro. Il Führer è comparso perché qualcuno desiderava il suo arrivo. Quando ha parlato, sa-peva bene che gli avrebbero dato retta. Poi ha iniziato a dire “fate questo e fate quello”, perché a quel punto nessuno avrebbe negato i suoi ordini. Sono solo un ignorante, per carità, ma que-sto mi pare di aver capito in tutta questa sporca faccenda…

Oskar chiuse gli occhi, e sospirò pesantemente. Era stremato.Hermann gli consigliò di riposare, e molti di noi annuirono

meccanicamente. Lui, senza riaprire gli occhi, si dichiarò con-corde. Per qualche altro minuto restammo lì a tenergli compa-gnia, poi lo stesso Hermann ci pregò di lasciarli soli. Era notte fonda, e occorreva riposare. Un ultimo sguardo al povero Oskar, poi a dormire.

“Coraggio”, fu l’incitamento col quale la maggior parte di noi si accomiatò dal nostro compagno di block. Tamara, in lacrime, riuscì soltanto a stringergli debolmente la mano. Il piccolo To-mas restò impietrito al suo cospetto. Fu Kozminski a prenderlo per un braccio e a portarlo via. Io mi attardai un pochino, per chiedere a Hermann se fosse certo di non desiderare un po’ di compagnia. Lui sorrise e rispose:

– Soltanto io so come trattare questo bestione. Non sa resistere alle mie battute. In fin dei conti lavoravo in un circo, no?

Ricambiai il sorriso, e restai qualche secondo a guardarli. Her-mann sapeva benissimo che Oskar non ce l’avrebbe fatta, ma de-siderava dirgli addio a modo suo.

– Dovevi vederti ieri, calato in quella fossa, mentre uno ad uno ti pisciavamo sulla testa – gli confidò mentre mi allontanavo in punta di piedi – avevi la faccia rigata di giallo, e il fumo saliva al cielo per via del freddo. Sembravi un ghiacciolo al limone, porca miseria!

Hermann era sulla strada giusta. Una volta disteso sulla branda, una risata giunse alle mie orecchie.

Era quella di Oskar.

CAPITOLO 19

Oskar morì come gli eroi dell’epos greco: alle prime luci del-l’alba.

La cosa non stupì nessuno, ma addolorò tutti. Davanti al suo corpo inerte, Hermann decise di rivelare ad alcuni compagni di block una verità che, per settimane, soltanto lui aveva conosciu-to, e serbato gelosamente. Oskar sarebbe morto comunque, a di-stanza di pochi mesi. Ancor prima di essere condotto nel lager Libertà, infatti, gli era stata diagnosticata una malattia terminale, di quelle che non si curano affatto. Kubik non si era accorto di nulla, e nemmeno noi. Si trattava di un male invisibile.

Ancora oggi mi chiedo perché Hermann abbia avvertito la ne-cessità di confidarci quel segreto. Probabilmente desiderava che Oskar non venisse ricordato come un eroe, né come un volgare delinquente, ma come un semplice uomo, con la sua storia, i suoi sbagli, le sue fortune e le sue sfortune. Quei due avevano un punto in comune, a dirla tutta: detestavano la superficialità, e si tenevano distanti da celebrazioni e svilimenti. Cercavano il giu-sto mezzo, insomma. Tuttavia, questo non cambiava nulla. Poco importava se Oskar fosse morto da eroe o da vigliacco. Poco im-portava se ci fosse stata una precisa volontà, nel cercare di salva-

re la vita al piccolo Tomas. O se avesse rifiutato il ruolo di kapò per compiere, nelle ultime settimane di vita, un atto nobile. Nella memoria collettiva, sarebbero rimaste le sue parole, il suo volto sofferente, la sua dignità. Tutto il resto… gli errori, i vizi, le spacconerie, le risse, le sbronze, gli anni di carcere…

Tutto il resto, dicevo, apparteneva a lui, e con lui moriva.Ci fu un viavai di persone. Qualcuno pianse, altri no.Abdul e Kozminski pregarono insieme per la sua anima.Alla salma pensarono invece i sonderkommandos, chiamati sul

posto da T.K. e Fritz. Speravano di vederlo morire coi loro oc-chi, quei due. E la delusione fu tanta, quando constatarono il pre-maturo decesso.

A distanza di un’ora, il corpo esanime di Oskar troneggiava sulla pila di cadaveri stipati nella fossa comune.

CAPITOLO 20

Non fu semplice ricominciare la solita vita, all’interno del lager.Sembrava di vederlo ancora lì, il povero Oskar. La notte non

trascorreva senza che qualcuno lo nominasse, rivangando frasi o gesti. Hermann, in particolare, non perdeva occasione per ricor-darcelo, con una citazione o un aneddoto. Gli mancava sul serio, ma sorrideva e andava avanti. Come tutti, del resto. Anche i de-tenuti degli altri block, per qualche giorno, s’informarono di na-scosto sullo stato di salute di Oskar. E quando rivelavamo la ter-ribile verità, un sincero dolore compariva nei loro sguardi; segui-vano frasi di rammarico e di vivo cordoglio, quasi Oskar fosse diventato, nel tempo, uno stretto parente dei detenuti del block due. Ci stringevano la mano, poi andavano via scuotendo il capo. Che lo desiderasse o meno, quel vecchio galeotto aveva lasciato qualcosa dietro di sé. Si tornò a parlare di rivolta, di lotta attiva e passiva, di strategie. Dimitri avanzò addirittura l’idea di metter su un sindacato. Eppure, nonostante la mole di teorie e proponi-

menti, nulla mutò davvero. Anzi, col trascorrere del tempo le cose andarono peggiorando.

Decine, forse centinaia di nuovi deportati giunsero ogni giorno nel lager, per un’intera settimana. Si trattava esclusivamente di ebrei, e da questo particolare capimmo che qualcosa, là fuori, stava cambiando. Ai nuovi arrivati, infatti, veniva ordinato sol-tanto di spogliarsi e fare una doccia. Su dieci ebrei, nove moriva-no per via del cyclon b, il gas utilizzato per sterminarci. Cadaveri bluastri, bagnati di sudore e urina, venivano trasportati ogni gior-no verso l’inceneritore; donne soprattutto, ma anche bambini e a volte neonati. I pochi sopravvissuti servivano a rimpiazzare i de-tenuti più vecchi.

Fu proprio in quei giorni che, forse per scaramanzia, cominciai a credere di essere giunto al capolinea. La mia longevità era fon-te di disonore per il regime, di questo ero cosciente. Ciò nono-stante, per motivi che in quelle circostanze mi sfuggirono, le SS parevano ben più interessate a far fuori i discepoli di Abramo ap-pena giunti, piuttosto che i vegliardi del campo. Riuscii a scam-parla anche in quella occasione, insomma, mentre l’ince- nerito-re lavorava giorno e notte senza sosta.

Anche in questo caso si diede il via a tutta una serie di conget-ture, ma la soluzione finale del problema ebraico rimase per noi un fattore ignoto.

Tra tutti i detenuti, quello che mostrò il maggiore nervosismo fu Hans Weizer. Dalla notte in cui Oskar morì, Hans sembrò per-dere l’uso della parola. Se ne stava appartato nel suo cantuccio, mangiava a debita distanza dagli altri detenuti; se gli si rivolgeva il saluto, ricambiava a denti stretti e fingeva di non avere tempo per scambiare quattro chiacchiere. Il suo atteggiamento, inequi-vocabilmente, recava i segni di un duro contraccolpo psicologi-co. Fu proprio Jurgen, suo compagno di branda, a farmelo pre-sente.

– Temo per il suo equilibrio mentale – confidò a me e a Tamara in una notte rigida ma senza neve.

– Hai provato a parlargli? – domandò lei.

– Un mucchio di volte. Ma lui dice di non preoccuparmi, che sta bene e via di seguito. Mente a se stesso più che agli altri.

– Pensi che la morte di Oskar abbia a che fare con questa sto-ria?

– Sì. Lo fissavo dritto negli occhi, mentre lui ascoltava le paro-le di quel poveraccio, e qualcosa ho visto. Quei discorsi su Hitler lo hanno scosso nel profondo, ne sono sicuro.

Sospirai e dissi:– Hanno scosso le coscienze di tutti, a quanto pare. Io non fac-

cio che pensarci.– Anch’io – confessò Tamara.– Non posso dire che a me siano scivolate addosso – intervenne

Jurgen.– Ma?– Ma ho continuato a comportarmi nella maniera di sempre.

Hans, invece, non impreca più, non si lamenta del cibo schifoso o delle ore di lavoro. Ho paura che abbia accettato tutto. Se ne sta zitto, in un angolo; loquace non lo è mai stato, ma con me si confidava, si confrontava. Ne abbiamo passate tante insieme, e questa sua indifferenza adesso mi preoccupa, e non poco.

– Forse è solo un periodo. Gli passerà – proseguì Tamara. Jur-gen sbuffò, reclinando leggermente la testa:

– Sarà. Ma ho paura dei suoi sbalzi di umore, di quello che po-trebbe fare in preda allo sconforto.

L’aria s’appesantì all’improvviso.– Stai parlando di suicidio? – domandai.– Anche. Ve l’ho già detto, noi non dovremmo essere qui. Per

quanto possa suonare come una bestemmia alle vostre orecchie, io e Hans non possiamo essere paragonati ai semplici ebrei. Il nostro passato ci pone su piani differenti. Non ci consideriamo migliori di voi… non più, almeno. Ma diversi sì. E quando penso alla vita che ci attendeva, prima che giungesse il confino, non so se reputarmi il più infelice o il più fortunato degli uomini. Pen-sieri di questo tipo girano anche nella testa di Hans, il suo silen-zio è un campanello d’allarme, e va tenuto in seria considerazione.

Tamara mi guardò perplessa, io schiarii la voce e poggiai una mano sulla spalla di Jurgen.

– Farò come dici, Jurgen: ne terrò conto. Eppure, tu continui a rivendicare una diversità che, in tutta franchezza, mi sembra de-cisamente fuori luogo. Io invece mi ostino a pensare che tu e Hans nascondete qualcosa. L’ultima volta ti sei alzato e allonta-nato. Lo farai anche questa volta?

Jurgen chinò il capo, poi lo sollevò e rispose:– No, ma… non è ancora il momento, Felicien. Cerca di capire.Lo fissai negli occhi.– Farò anche questo, Jurgen: mi sforzerò di capire.Lui sorrise e chiese educatamente:– Posso andare?Gli lanciai una lunga occhiata, e nel silenzio imposto dalla not-

te salutò sia me che Tamara, avviandosi poi nella direzione op-posta.

Il suo taciturno compagno di branda, che scrutai da lontano, lo attendeva con le mani sotto la nuca e lo sguardo rivolto verso il soffitto.

Aveva altro a cui pensare, lui.

CAPITOLO 21

Altri vagoni carichi di ebrei giunsero nei due giorni successivi. L’inceneritore lavorò instancabilmente, bruciando i corpi di uo-mini, donne e bambini, senza più alcun criterio. I vecchi detenuti sembravano improvvisamente scomparsi agli occhi dei nazisti. I nostri occhi, invece, osservavano impotenti la morte di quelle persone; non conoscevamo i loro nomi, quei volti apparivano e scomparivano con la medesima velocità. Forse era questa la nuo-va trovata del regime: raccogliere e falcidiare, impedendo l’in-staurazione di qualunque forma di solidarietà. Noi “anziani”, in fondo, provati da settimane e settimane di stenti, non potevamo rappresentare un problema. Ma i nuovi gruppi di ebrei, ancora in

salute e temprati da quello spirito solidale che è tipico delle po-polazioni semitiche, potevano riuscire laddove noi avremmo mi-seramente fallito, nonostante tutta la buona volontà. I vecchi de-tenuti, dunque, facevano comodo: ormai addomesticati e perfet-tamente in grado di svolgere le mansioni assegnate tempo addie-tro, come automi. Nel caso di un malfunzionamento dovuto al logorio delle giunture, l’automa veniva gettato nella fossa comu-ne e prontamente rimpiazzato. Ma solo in caso di necessità.

Sorse in noi il dubbio che le sorti della guerra stessero penden-do in favore della Germania nazista. Il ragionamento era piutto-sto semplice: se qui continuano ad arrivare nuovi ebrei, si discu-teva fra noi, allora significa che i tedeschi hanno ampliato i loro confini; invadendo nuovi territori, avranno catturato nuovi ebrei, che adesso smistano nei vari lager; di conseguenza, i nazifascisti stanno avendo la meglio su inglesi, russi e americani.

Un’ipotesi del genere non poteva che turbarci profondamente, dal momento che annullava qualunque possibilità di uscir vivi da lì. Avremmo voluto scambiare quattro chiacchiere con qualche detenuto giunto da poco, ma i pochi ebrei dirottati nel nostro block provenivano a loro volta da altri lager. Ignoravano com-pletamente l’andamento del conflitto, esattamente come noi. Non c’era alcun modo, quindi, di giungere alla verità. Nel nostro microcosmo non restava che attendere pazientemente, e rasse-gnarsi a dover vivere nell’incertezza, sperando che qualcosa d’impor- tante, un segno, giungesse prima o poi dall’esterno.

In quegli stessi giorni, però, anche la vita del lager registrò al-cune novità di una certa rilevanza. Una di queste mi fu rivelata da Tamara durante la consumazione del rancio. Attirò la mia at-tenzione con uno sguardo eloquente, poi ci spostammo separata-mente nell’angolo più lontano, per non dare nell’occhio. Col capo chino sulla gamella, colma di brodaglia e pezzi di patate marce, bisbigliò quasi impercettibilmente:

– Sono stata da Kubik, oggi, per pulirgli lo studio.Io annuii, fingendo di guardare altrove.– Mi ha detto che rischia il licenziamento – continuò.

– Per la storia di Oskar?– Sì. Bahuoff è andato su tutte le furie. Voleva che Oskar mo-

risse nella fossa, solo come un cane.Passò un sottufficiale, e per qualche secondo ce ne restammo in

silenzio. Una volta lontano, riprendemmo il discorso:– Sapeva tutto – svelò Tamara.– Di che parli?– Della malattia di Oskar. Ma ha tenuto chiusa la bocca per evi-

tare che i nazisti lo uccidessero subito.Quella rivelazione mi lasciò interdetto. Per un attimo, mi chiesi

se fosse stata una buona idea lasciare che il povero Oskar tra-scorresse in quel modo le sue ultime settimane di vita. Ma sup-posi, a ragione, che lo stesso Oskar avesse apprezzato l’omertà del medico, e optato in definitiva per una morte lenta ma dignito-sa, piuttosto che andare al creatore con una pallottola in mezzo agli occhi.

– Che ne sarà di Kubik? – domandai accantonando momenta-neamente quelle riflessioni.

– Non lo sa nemmeno lui. Per il momento resta dov’è: tra qual-che giorno un collega di Bahuoff verrà a visitare il nostro campo, e il comandante vuole che tutto sia perfetto.

– Dunque?– Ognuno dovrà restare al proprio posto, Kubik compreso. Le

tensioni interne non sono ben viste dal regime, lo sai.Annuii di nuovo, poi ci allontanammo in opposte direzioni,

come due perfetti estranei.Con la conclusione della giornata, le informazioni carpite da

Tamara vennero rese note a tutti. Molti deportati furono costretti a rivedere la propria opinione su Kubik, altri restarono scettici, la maggior parte non si pronunciò. Libera di poter parlare senza il terrore di essere punita, ulteriori particolari sul medico del cam-po furono rivelati dalla stessa Tamara. Tutto partì da un’affer- mazione sibillina di Michail, il nostro compagno anarchico:

– Kubik andrebbe manovrato – suggerì in tono oggettivo.– Che intendi dire? – domandò Abdul.

– Quello che ho detto. Se nel cuore del medico è rimasto un briciolo di pietà umana, significa che gli ideali del nazismo non hanno attecchito del tutto. Forse potremmo servirci di lui per…

– Piantala con questa storia – lo interruppe Dimitri con sguardo torvo.

– Perché no? Potrebbe tornarci utile.– Io non collaborerò mai con un nazista. Cosa credi, che a Ku-

bik la divisa l’abbiano regalata? Avrà fatto qualcosa per meritar-sela, no?

– Ci sono persone che hanno aderito al nazismo per paura – ri-batté Michail.

– Lo so bene, ma le persone di cui parli tu non fanno domanda per lavorare in un lager, né le spediscono qui per simpatia. Si iscrivono al partito e gettano la tessera in un cassetto, poi aiutano gli ebrei a nascondersi da qualche parte.

– Ma Kubik non è il tizio che ha proposto a Bahuoff di pisciare a turno sulla testa di Oskar? – domandò uno degli ebrei da poco giunti nel lager, un tale Herschell.

– Già, bella roba – commentò Dimitri serrando la mascella.– In realtà credo che le cose siano andate diversamente – inter-

venne Tamara.– Che vuoi dire? Eravamo lì, abbiamo visto coi nostri occhi

come si sono svolti i fatti – berciò Dimitri.– Io invece credo che Kubik – replicò Tamara – deve aver pen-

sato che le ferite sul volto di Oskar, quelle aperte e sanguinanti, andassero in qualche modo curate. L’unico modo era… sì, in-somma… disinfettarle con l’urina. Non poteva mica usare della tintura di iodio davanti a Bahuoff.

– Certo! E perché gli avrebbe ordinato di aprire la bocca, quan-do è giunto il suo turno? Te lo dico io perché: per umiliarlo, per lasciargli sul volto uno di quei segni che non si vedono, a occhio nudo.

Tamara sospirò, poi chiese:– E se invece lo avesse fatto per aiutare Oskar? Era disidratato,

a Kubik bastava un’occhiata per capirlo. Malgrado tutto stiamo

parlando di un medico. È lo stesso discorso di prima, non poten-do allungargli una caraffa piena d’acqua è ricorso al rimedio più estremo.

– Quando è arrivato il mio turno, Oskar ha bisbigliato: “fai quello che dice Kubik” – rivelò Hermann dalla sua branda.

– Forse aveva capito che il dottore cercava di salvargli la vita – ipotizzò Filippo.

Dimitri si guardò attorno, incredulo.– Ma bravi – disse ruotando su se stesso – preferite credere al-

l’innocenza di un maledetto nazista piuttosto che alle parole di un vostro compagno.

– La gente cambia, Dimitri, è possibile che Kubik sia rinsavito per motivi che noi ignoriamo – rincarò Michail.

– Rinsavito, già. Ma lui è ancora lì, a cena coi gerarchi, con una bella svastica cucita sulla divisa.

– Non credi che la gente possa cambiare? – lo interrogò Mi-chail.

– La gente sì. I nazisti no.– Beh, abbiamo uno psicologo fra noi. Lei che ne pensa, dottor

Kroger?Nella confortante quiete del block, si levò la voce tranquilla ma

risoluta dell’interpellato.

CAPITOLO 22

– Qualunque persona può mutare il proprio modo di vedere le cose – esordì Kroger – l’importante è che si insinui il dubbio. I dubbi ribaltano le prospettive, e le nuove prospettive generano altri dubbi. È un circolo vizioso, insomma.

– E le sembra poco? Io non ho visto nazisti tormentati dai dub-bi, qui dentro – osservò Dimitri.

– Non sia precipitoso nei giudizi, qui si parla di psiche umana. Dall’esterno può sembrare che nelle nostre teste non accada nul-la, invece c’è un manicomio lì dentro: impulsi elettrici, reazioni

chimiche e quant’altro. Non una sola cosa rimane zitta e immo-bile. La nostra mente, che a noi pare così vicina, è simile invece a una stella lontana. Il problema è che non possediamo gli stru-menti adatti per osservarla. Possiamo interpretarne i fenomeni, questo sì, ed esprimere teorie più o meno plausibili. Ma in questo campo ci si sbaglia spesso. Una teoria è valida oggi, domani non si sa.

– Kubik, comunque, i suoi dubbi ce li aveva sin dall’inizio – in-tervenne il signor Sammet, ormai noto a tutti come “il filosofo”.

– Non la seguo – disse Kroger.– Beh, a quanto pare il medico non ha rivelato ad anima viva la

malattia di Oskar, nemmeno al comandante Bahuoff. Vuol dire che ha tenuto il gioco al nostro compagno fin dal primo momen-to, no?

– Suppongo di sì.– Dunque Kubik si è mostrato accondiscendente, rischiando il

posto di lavoro e forse la vita. Sappiamo anche che Oskar non ispirava immediata simpatia, per via dei suoi atteggiamenti un po’ altezzosi. Intendiamoci, questo è ciò che mi è stato riferito, non parlo a titolo personale. Sta di fatto che Kubik lo ha aiutato lo stesso. Possiamo dedurre che il medico del campo ne abbia agevolato la sopravvivenza, non solo senza guadagnarci nulla, ma forse controvoglia. Non credo di offendere la memoria di Oskar se sostengo che, agli occhi di un estraneo, per di più nazi-sta, egli restava un assassino, un galeotto da strapazzo.

– Quindi? – domandò Kroger.– Quindi facciamo due calcoli: quanti detenuti sono giunti in

questo lager nel passare dei mesi? Migliaia, lo sappiamo tutti. E ora chiediamoci se, per caso, Kubik non abbia agito sin dall’ini- zio nell’ombra, intercedendo in favore di altri detenuti. Forse an-ch’io ero destinato a morire, ma è bastata una sua firma su un re-ferto medico, o una piccola bugia, per salvarmi la vita.

– Questa è buona: stai a vedere che adesso Kubik è un benefat-tore, un amico del popolo – borbottò Dimitri.

Stavolta fu Kroger a intervenire:

– Anch’io la pensavo diversamente sul conto del dottore. Poi Felicien – e qui mi lanciò un’occhiata – ha detto alcune cose. Cose da far riflettere. Ora, Dimitri, lei ha più volte sostenuto che Oskar fosse vittima del sistema. Le chiedo allora: non è possibile che anche il dottor Kubik lo sia?

Quell’interrogativo si spense nel silenzio generale. Soltanto Sammet, massaggiando con impegno un braccio dolorante, con-cordò dicendo:

– Io sono qui da poco, ma non ho mai visto Kubik alzare un solo dito contro i detenuti, perdere la calma o altro. Di tanto in tanto urla e ci insulta, ma potrebbe trattarsi di una recita. Un modo come un altro per ingannare Bahuoff e farla franca. Non vi pare?

Kozminski rispose:– Forse. Però Dimitri non ha tutti i torti. Kubik indossa una di-

visa nazista, la sfila prima di andare a dormire e la rimette il giorno seguente. Come può, un uomo di cuore, compiere per anni lo stesso gesto, ogni santo giorno?

– Questo non vuol dire niente – replicò Jurgen unendosi al gruppetto dei dialoganti – quella divisa potrebbe essere una ma-schera, da togliere o indossare a seconda del caso. Quel pezzo di stoffa non indica nulla. Potrebbe aver avuto un senso, tempo ad-dietro, e averlo perso col passare dei mesi. Non prendiamoci in giro, questo posto cambia la mente delle persone. Guardate T.K. e Fritz: erano due come noi, una volta. Adesso ci bastonano, e scambiano battute e sorrisi con le SS. Prendete Oskar, invece: è entrato qui da assassino, e se n’è andato da eroe.

– Questi discorsi mi danno il voltastomaco, non fanno altro che generare confusione – ribatté Dimitri.

– Ma i dubbi… – sibilò Kroger, subito zittito dallo stesso Dimi-tri:

– Piantiamola con queste stronzate, una volta per tutte. Giustifi-care un solo nazista significa guardare in faccia quei mostri e chiedersi: “quanti di loro hanno una buona ragione per umiliare, torturare, derubare e uccidere?”. Se discolpiamo Kubik, dovremo

concedere attenuanti ad altri. Me ne frego delle giustificazioni, io. A noi deportati, quale scusante è mai stata concessa? Nessu-na! Siamo ebrei, neri, comunisti, anarchici, omosessuali, musul-mani, zingari, avanzi di galera… tutto, fuorché uomini. Se apro bocca, non ho ragioni. Se tiro il fiato dopo otto ore di lavoro, non ho ragioni. Se protesto, se penso, se respiro… non ho ragioni, per dio! Qui nessuno si sforza di capire noi, perché noi dovrem-mo sforzarci di capire loro?

Dimitri ci guardò furioso, uno per uno. Non ottenendo risposta, si congedò coi pugni stretti in tasca e lo sguardo accigliato. Si parò davanti alla finestra, in totale solitudine, e lì restò per il re-sto della discussione, senza più intervenire. Il suo sfogo era com-prensibile, e in parte ragionevole. Per quanto ci sforzassimo di venire a capo di qualcosa, restavamo sempre lì, al punto di par-tenza.

Il silenzio e le teste basse palesavano lo stato di profonda, ama-ra riflessione nel quale eravamo caduti. Soltanto Hermann, ab-bracciando la sua coperta per ripararsi dal freddo, rivelò ai pre-senti:

– A volte mi chiedo che diavolo sta succedendo al mondo inte-ro. Dittature ovunque… Germania, Italia, Russia, Spagna, Jugo-slavia… in ogni paese c’è qualche pazzo furioso che ha preso in mano il potere e non intende mollarlo. Come fa la gente a segui-re un idiota in certe follie?

– La tirannia è vecchia come il mondo – gli rispose Kroger.– Ma qui non si parla di un Dionigi qualsiasi, queste dittature

presentano caratteristiche nuove – replicò Sammet.– Formalmente sì, ma un tiranno resta sempre un tiranno. Am-

bisce al potere, alla gloria personale. Il successo lo inebria, come una droga. E il popolo, a sua volta, si lascia sedurre dalla pro-spettiva della ricchezza.

– In Russia la fucilerebbero per una teoria del genere, dottor Sammet. Le dirò: in Spagna c’è un mio collega, José Ortega, pessimista quanto e più di lei. Se il popolo chiede e ottiene tutto dallo Stato, dice Ortega, finisce allora per diventare schiavo del-

lo Stato. Una specie di cagnolino fedele, insomma, del tutto acri-tico. Io invece sostengo che le idee di un dittatore non sempre riescano a trovare terreno fertile. Inghilterra e Stati Uniti lo di-mostrano.

Kroger scosse il capo, sorridendo ironicamente:– Questione di fortuna, forse di tempo. In quei paesi non è an-

cora nato un Hitler, un Mussolini o uno Stalin. Poco importano le tradizioni democratiche, il retroterra culturale, le condizioni economiche e tutto il resto. Il dittatore è figlio della propria terra e della propria pazzia, non chiede permessi, sa adattare il passo al terreno più duro. Il successo ottenuto è direttamente propor-zionale alla grandezza delle sue bugie. Raccontare frottole ma ri-sultare credibile: è questa la scommessa.

– Non è scritto da nessuna parte che il popolo debba necessa-riamente credere a certe cavolate – obiettò Filippo.

– Questo in teoria. La realtà che ci circonda dice altro. Nazi-smo, comunismo, fascismo… qui non si tratta di un manipolo di esagitati, ma di interi popoli. Lei può anche non capire come e perché certe cose accadano, ma non può chiudere gli occhi e fin-gere pure che non avvengano.

– Mi dica allora perché avvengono – lo sfidò Filippo.– Se avessi le risposte in tasca non mi troverei qui, amico mio.– Santo cielo, lei è uno psicologo, ha studiato una vita. Deve

pur esserci qualche risposta nei suoi libri!– A dire il vero potrei citarle una sfilza di psicologi, ma a cosa

servirebbe? Prendiamo… non so, Gustave Le Bon. Il singolo individuo è mite e onesto, ma nella massa perde la ragione e tanti saluti al buonsenso: questa è il suo pensiero. Io l’ho decla-mato, da bravo psicologo. È cambiato qualcosa forse?

– Sta dicendo che si tratta di teorie inutili?– Non esageriamo: più che altro non offrono risposte certe. I

primi a dividersi su questi argomenti sono gli studiosi, non a caso. Puoi spendere un’intera vita a elaborare una dottrina, un’idea nuova, ma nel bene e nel male qualcuno dopo di te cer-cherà di confutarla. Funziona così, gliel’assicuro. Lei pretende

di trovare risposte nei libri, invece al massimo può scovare in-terpretazioni, che non sono propriamente la stessa cosa. Pren-diamo due menti brillanti, Tarde e Durkheim. Per Gabriel Tar-de i cambiamenti sociali si diffondono con l’imitazione, comin-cia uno e il gioco è fatto, a quel punto la cosa diventa inarresta-bile. È una buona spiegazione, mi pare. Ma un minuto dopo Durkheim lo smentisce sostenendo una tesi opposta, e cioè che è la società a formare i cittadini. Chi ha ragione? Tutti o nessu-no? E ha davvero importanza, nel contesto in cui ci troviamo? Non ne ho idea. Per me le insurrezioni, le resistenze armate, le opposizioni politiche, non sono altro che effetti. La dittatura ge-nera facili entusiasmi e grandi diffidenze, adesioni smodate e lot-te a oltranza. Il dittatore è l’albero, tutto ciò che ne viene non è che il frutto.

– Idiozie. È esattamente il contrario.Una voce si levò, solitaria, dal fondo del block. Un po’ tutti ri-

volgemmo lo sguardo nella direzione di Dimitri, ma accanto a lui un’ombra avanzò fino a rendersi presenza. Si trattava di Hans. Non apriva bocca da giorni, e ad alcuni di noi fu impossibile ma-scherare un certo stupore nel vederlo procedere a testa alta sino al centro del capannone, lì dove la discussione era in corso. Jur-gen, compagno di sventura e interlocutore prediletto, lo fissava in silenzio.

– Non è d’accordo con me? – chiese Kroger in tono conciliante. Jurgen rispose con prontezza:

– La sua teoria non sta in piedi. Facile, prendersela col primo venuto. Hitler… non è neanche tedesco! Prendiamocela con noi stessi, invece: quando si finisce in ospedale per aver mangiato una bistecca avariata, non bisogna denunciare il cuoco straniero, ma l’allevatore del luogo.

– Si tratta di punti di vista, in fin dei conti – ribatté Kroger.– Infatti: voi credete che i problemi siano quadri appesi alle pa-

reti, e invece no. I problemi sono statue, bisogna girarci attorno.Si esprimeva in maniera bizzarra, il detenuto Hans Weizer.

Quell’introduzione risultò ostica ai più, ma nessuno osò inter-

romperlo, o chiedere spiegazioni. La sua loquacità, al contrario, ci rendeva felici; e il nostro silenzio, a sua volta, lo incoraggiò a proseguire:

– Su una cosa soltanto lei ha ragione: il nazismo è un enorme albero, con grandi rami e migliaia di frutti già marci. Il tronco che sorregge la struttura ha un nome e un cognome: Adolf Hitler. Il fogliame, i piccoli e grandi rami, e tutto il resto, invece, hanno altrettanti nomi, e volti, e voci. C’è chiunque là dentro: da Himmler a Röhm, da Bahuoff a Kubik, dai grandi gerarchi al più inutile dei sonderkommandos. Ci siamo anche noi, nessuno escluso. E il popolo dov’è? C’è, ma non si vede. Si nasconde. Per questo è importante individuarne la posizione: non in cima, ma nel sottosuolo. Osservate bene le radici. Senza di esse l’albe-ro non avrebbe conosciuto alcuno sviluppo. Hanno fornito nutri-mento alla pianta, poi al tronco, infine ai rami, alle foglie, ai frut-ti. Diceva bene Oskar: Hitler è la conseguenza, non la causa.

– Anche noi deportati siamo “popolo”, e a maggior ragione – osservò Michail.

Hans rise:– No, vecchio mio, noi non siamo più niente. Il popolo è quello

che ha eletto Hitler. Il popolo è quello che se ne sta tappato in casa, osserva e non fa nulla. Sammet parlava di insurrezioni e re-sistenza armata, ma in Germania non c’è stato alcun reale movi-mento d’opposizione, che mi risulti. Il popolo ha partorito Hitler, non può rinnegarlo. Non più, ormai. E se quell’albero, oggi, vi colpisce coi suoi rami, non sperate di buttare giù il tronco e risol-vere così il problema. Ogni dittatore rispecchia le aspettative po-polari; il povero si affiderà sempre a qualcuno che sappia riscat-tarlo, il ricco si affiderà sempre a qualcuno che sappia conserva-re o accrescere la sua ricchezza. È la storia dell’uomo. Per cui, quando Hitler verrà sconfitto, o rovesciato politicamente, o cre-perà di suo, non gioite troppo a lungo. Il pericolo di una nuova dittatura resterà comunque, se il terreno rimarrà fertile.

– Hitler resta secco e qui non cambia nulla? Gran bella prospet-tiva. E come diavolo si fa a sconfiggere il nazismo? – domandò Michail.

– È il potere il vero nemico. L’ho capito ascoltando le ultime parole di Oskar. Nemmeno lui, forse, se ne rendeva conto. Ci ho riflettuto a lungo, in questi giorni, e sono giunto alla conclusione che tutto nasca da lì. Non parlo del potere spicciolo, intendiamo-ci; il contadino che lotta per un salario decente non desidera il potere, ma la sopravvivenza, e un minimo di equilibrio tra chi ha tutto e chi non ha niente. Il potere di cui parlo io, invece, è l’esat-to contrario: la rottura di un equilibrio. Perché se un singolo po-tere cresce, la cosa va a scapito di tutto il resto. Pensate alle fore-ste: se una pianta, un animale o che so io prende il sopravvento, ti parte l’intera foresta. Il popolo non se ne rende conto. I tede-schi sono stati degli imbecilli, e così gli italiani, e i russi. Hanno creduto che i loro dittatori, con la guerra, le conquiste coloniali, il massacro delle minoranze, operassero per il bene comune. Stronzate. Tanto nel piccolo quanto nel grande, la rottura di un equilibrio agevola pochi e svantaggia moltissimi. Così, mentre Hitler divora tacchini, Bahuoff si accontenta dei polli, T.K. della pelle bruciacchiata, i sonderkommandos delle ossa, e il popolo tedesco fa la fame, ingurgitando pane nero. L’illusione che tutto ciò sia transitorio tiene buona la gente. La vittoria è vicina, urla il Führer, e tutti annuiscono soddisfatti. Passerà, dicono, tra un po’ mangeremo tacchino anche noi.

Hans riprese fiato, poi concluse il suo discorso:– Non è vero. I deboli s’indeboliranno e i forti si rafforzeranno.

Nel frattempo, il potere li consumerà. L’equilibrio è ormai logo-ro, bisogna ricostruirlo. I nazisti, gente scaltra, l’hanno rimpiaz-zato con uno di loro invenzione, assolutamente fasullo. È un in-granaggio, un meccanismo perfettamente calibrato, almeno al-l’apparenza. In realtà, è un giocattolino di carta. Basta poco per manometterlo. Ma in che modo, per la miseria! Sono giorni che non penso ad altro. Perché qui si tratta di agire, le chiacchiere or-mai stanno a zero. Bisogna fare una scelta: accettare tutto questo,

o trovare il modo di combatterlo. Ed io, in tutta onestà, sono stanco di combattere…

Hans si guardò attorno, gli occhi gonfi e spossati. Non aggiunse altro. Fissò per un attimo Jurgen, poi si avviò lentamente, percor-rendo a ritroso il tragitto che lo aveva condotto sin lì.

Noi, muti e inerti, lasciammo che le tenebre lo accogliessero nuovamente.

CAPITOLO 23

L’aria stagnante non ha mai abbandonato il lager, durante la nostra permanenza. Nonostante il continuo andirivieni dei dete-nuti, il marciare dei gruppi esterni, le camionette guidate spesso da qualche sottufficiale ubriaco, le grandi adunate, lo scivolare lento e ordinato dei prigionieri in coda al rancio, e il rientro sera-le… nonostante tutto questo, a volte si nutriva l’impressione che nulla fosse accaduto davvero. Che ogni singolo gesto fosse sva-nito sul nascere, dissolvendosi nella nebbia di un incubo perpe-tuo.

Questa sensazione s’acuì, in quei giorni. Le esecuzioni a getto continuo di nuovi ebrei generavano strani pensieri. Ognuno di noi, pur non ammettendolo apertamente, pensava (e forse spera-va) di dover morire casualmente, da un giorno all’altro. Si tratta-va di un pensiero inespresso ma presente, il primo ad affacciarsi una volta svegli, l’ultimo a tenere compagnia prima del riposo. Eravamo nella terra di confine; nessuno augurava a se stesso la morte, ma al contempo nessuno di noi recalcitrava, ormai, da-vanti alla possibilità di dover morire improvvisamente. A questo punto eravamo giunti, dopo mesi di tribolazioni.

L’attenzione morbosa con la quale i nazisti sterminavano gli ul-timi arrivati ci pose inevitabilmente in secondo piano. Lo am-metto con grande imbarazzo: nutrivamo la sensazione che non più la sola vita ci venisse negata, ma anche la morte. Ai detenuti del secondo block, d’altronde, le parole di Hans avevano tolto

ogni speranza: eravamo lì per restare, persino la caduta di Hitler non avrebbe cambiato nulla. Eravamo convinti che i nazisti fos-sero in procinto di vincere la guerra; una volta piegato il mondo ai suoi voleri, il Führer avrebbe spadroneggiato per decenni. Alla sua morte, qualcun altro ne avrebbe raccolto l’eredità. Per noi, invece, non c’era alcun futuro. Soltanto un presente reiterato al-l’infinito. Nessuna progenie, nessuna vera vita. La fine sarebbe giunta, ma chissà quando, e con ogni probabilità, non per nostra scelta. Invecchiare fino a divenire completamente inutili per il regime. Poi morire. Questo, il pensiero che terrorizzava tutti noi. Questa, la motivazione che ci spingeva a scorgere nella morte un male minore. In fondo eravamo destinati tutti a perire. Perché non essere i primi della lista, dunque?

Gli interrogativi fluivano inarrestabili: perché attendere che le ginocchia vadano in malora, che gli occhi ci confondano, che le mani inizino a tremare e la mente venga ottenebrata da folli pro-positi? Ci viene chiesto di sparire dalla faccia della terra, no? Moriamo, allora. Cosa importa se quel deportato è un ebreo ap-pena giunto nel lager e io no? Nessuno dei due è ariano, che dif-ferenza c’è per voi?

Musulmani: così i nazisti chiamavano i prigionieri senza più al-cuna parvenza di vitalità. Ne circolavano parecchi per il lager. Li osservavamo con un misto di pietà e disgusto; ci dispiaceva terri-bilmente per loro, ma la sola idea di poter sprofondare nel mede-simo stato di alienazione mentale, ci terrorizzava ancor di più. In qualche modo, essi rappresentavano lo stadio finale della nostra involuzione; decine di menti brillanti, entrate nel lager a testa alta, si erano ritrovate nel giro di un mese a girovagare senza meta per il campo, gli occhi socchiusi e la fronte aggrottata; ri-muginavano in continuazione le stesse parole, che uscivano a stento sottoforma di brusio. A volte erano le sole labbra a muo-versi in maniera concitata, senza emettere però alcun suono. Tentare di riportarli alla ragione non serviva a nulla. Non ricono-scevano più il tuo volto, ignoravano voci amiche e comandi su-periori. I nazisti si divertivano a torturarli nei modi più fantasio-

si, per studiarne le reazioni. Urla, spintoni e manganellate. A vol-te giochi crudeli, come quello di legare loro i piedi con una corda assicurata alla camionetta e trascinarli ad alta velocità in giro per il campo, riducendo quei disgraziati a fagotti insanguinati. Ancor più triste era dover constatare come essi continuassero a blatera-re i soliti, sconnessi ragionamenti di sempre, anche in quelle condizioni.

Le peggiori angherie, però, in quei giorni furono inflitte agli ebrei di recente acquisizione.

Un mattino, in particolare, vidi rientrare i detenuti dei campi di lavoro esterni. Due di loro, imprigionati da pochi giorni, veniva-no insultati e bastonati da un festoso manipolo di SS. Si trattava di Herschell e Norma, marito e moglie. A ogni passo faceva se-guito un colpo ben assestato all’altezza del polpaccio. Ne scaturi-va un lamento, e il tentativo di reggersi in piedi, nonostante tutto. Cadere per terra poteva risultare fatale, in determinate occasioni. Nonostante questo riuscirono a raggiungere l’interno del lager e a mettersi in salvo. Giunta l’ora del riposo, li raggiunsi per accer-tarmi del loro stato di salute.

– Le gambe fanno un po’ male, ma stiamo bene – affermò Her-schell massaggiando un ginocchio.

– Perché tutte quelle botte? – domandai.Herschell temporeggiò:– Siamo ebrei, Felicien, le botte ci spettano di diritto. Se poi ti

scoprono a mormorare qualcosa, il diritto diventa dovere.Norma, nel frattempo, teneva la testa bassa.– Ci siamo abituati, ormai – proseguì lui – certe cose non ci

sorprendono più. È dall’epoca delle leggi razziali che va avanti questa storia. Mi ricordo, sai? Abitavo a Berlino, e un bel giorno aprii la porta della drogheria nella quale mi servivo abitualmente. La gestiva un signore in età avanzata, gentile e gran lavoratore. Me ne sto lì, e comincio a sfogliare mentalmente la lista della spesa, e lui sai che fa? Afferra un posacenere d’ottone e me lo tira addosso. Poi mi dice di andare via, ché gli ebrei non li vole-va più nel suo negozio, e non voleva passare per fiancheggiatore.

Non riuscì a colpirmi con quell’affare, in fondo si trattava di un povero vecchio; ma il negozio era suo, non potevo pretendere di essere gradito e per di più servito. Per anni non aveva avuto nulla da ridire sul mio conto, “buongiorno” e “buonasera”, qualche frase buttata lì per fare conversazione e tanti sorrisi. E all’im- provviso non ero più benaccetto nel suo negozio. Feci dietrofront e richiusi la porta alle mie spalle. Mi voltai un’ultima volta, per osservarlo attraverso la vetrata, e i suoi occhi mi sembrarono così tristi e impauriti! Chissà che fine ha fatto…

Norma scosse il capo, scoraggiata. Aggiunse alle parole del marito queste poche frasi:

– Siamo brava gente, noi. Non abbiamo mai creato problemi ad anima viva, in Germania. Mio padre ha combattuto durante la grande guerra. Il sindaco gli conferì persino un’onorificenza. Poi è arrivato Hitler e tutto è cambiato. Mio padre non era più un eroe di guerra, soltanto un ebreo. Lo hanno deportato a Dachau, due anni fa. Da allora non ho più avuto notizie di lui.

Herschell accarezzò i capelli della moglie, poi riprese la parola:– Io sono arrivato in Germania parecchi anni fa, dopo aver vis-

suto nella Russia sud-orientale, proprio al confine con l’Europa. Lì la situazione si era fatta pesante. Le deportazioni nei campi di prigionia gestiti dal Gulag erano all’ordine del giorno. Le perso-ne morivano di fame, e in giro si vedevano e raccontavano cose terribili, da mettere i brividi: gente arrestata e picchiata senza uno straccio di prova, contadini costretti a mangiare cani e gatti, chiese bruciate, cannibalismo. Di tutto. A me piaceva l’idea dei lavoratori al potere, l’uguaglianza e tutto il resto. Ma anche le chiese, i romanzi di Melville e le poesie di Whitman. Americani, certo, ma che importa? Non accettavo, insomma, l’idea che qual-cuno venisse a dirmi cosa doveva piacermi e cosa no. Nazismo e comunismo non sono poi così diversi, da questo punto di vista: in entrambi i casi devi obbedire e basta, non sei libero di espri-mere un dissenso, anche di poco conto. Le dittature sono tutte uguali. Non puoi avere un’opinione tua, perché questo ti fa pas-sare immediatamente dalla parte del nemico. Conoscevo un tizio,

un ucraino, che un giorno è stato arrestato senza motivo. La sua colpa era questa: aver avuto per due anni, come vicino di casa, un presunto cospiratore. Si salutavano a malapena, ma per il re-gime la semplice conoscenza era più che sufficiente come capo d’accusa. Sono ossessionati dalla diversità d’opinione, sia loro che i nazisti. Vedono nemici ovunque. Rossi o neri, vie di mezzo non ce ne sono. Se sei un po’ meno rosso, come me, finisci in Si-beria. Se sei un po’ meno nero finisci in un lager. Un commento, una battuta di spirito, e sei fottuto. Non sopportavo la politica di Stalin, e sono fuggito. Non avendo parenti o legami di alcun tipo, ho attraversato il confine clandestinamente, insieme a quat-tro amici. Se i russi mi riacchiappano, finisco in Siberia anch’io. Qui sono un ebreo, e merito di morire. Lì, non si capisce perché, sono un nemico del popolo, e merito di morire ugualmente. Ho attraversato mezza Europa per passare dalla padella alla brace. I primi mesi passati in Germania sono stati terribili, dovevo na-scondermi di continuo. C’era già la storia dei ghetti, ma in qual-che modo sono riuscito a tirare avanti. Ho conosciuto Norma e l’ho sposata di nascosto. Poi la repressione è andata aumentando, siamo stati catturati, ed è cominciato il giro turistico: prima Ra-vensbrück, poi Buchenwald, adesso qui. Mio padre sosteneva che questo è il destino del popolo ebraico, e nulla potrà cambiar-lo. Siamo i perenni emigranti, ovunque sgraditi. Alziamo le ten-de in un paese, e il governo ci caccia. Il popolo, nel frattempo, tace e acconsente. Perché la gente, nell’esistenza di un profugo, vede soltanto la parte finale: l’arrivo. Se ne frega di quel che c’è stato prima. Ignora la disperazione che spinge un uomo ad ab-bandonare la terra in cui è nato, e gli interminabili spostamenti, e la fame, la sete, il dolore. La gente pensa che tra noi ci si diverta ad essere sporchi e vestiti di cenci. Pensa che sia piacevole dover bussare a mille porte per cercare uno straccio di lavoro. Se le persone ci guardassero negli occhi, e ascoltassero le nostre sto-rie, le cose cambierebbero. Invece ci accusano di reati che non abbiamo nemmeno commesso, e che probabilmente nessuno di noi commetterà mai. Ci accusano di rubare lavoro, ma siamo di-

soccupati e senza un soldo. Ci accusano di non volerci integrare, ma siamo lì da due giorni.

– Ovunque è la stessa storia – proseguì per lui sua moglie – in Europa come nel resto del mondo. Avevo un cugino, in America, che lavorava un pezzetto di terra in Oklahoma, come mezzadro. Un giorno la banca gliel’ha sequestrato. Si è visto costretto ad emigrare verso la California. Una volta lì, lo hanno trattato come un pezzente, un miserabile. Lui chiedeva soltanto un lavoro, per sfamare moglie e figli. Li hanno mandati via, a suon di botte e insulti, lui e tutti gli altri. Okies, li chiamano. E così un giorno si è tolto la vita, perché non riusciva più a sostenere quella situazio-ne, le responsabilità che gli erano piovute addosso all’improv- viso, e le continue umiliazioni.

– Gran brutta storia – commentai.– Mi spiace soprattutto per i figli di quel povero cristo – ag-

giunse Herschell – mi chiedo come riusciranno a cavarsela.– Voi ne avete? – domandai senza preoccuparmi di apparire in-

discreto. Fu Norma a rispondermi:– Ci abbiamo pensato, in questi anni, ma non ci è parso il caso.

Non è un buon momento per mettere al mondo un figlio. Quando le acque si saranno calmate, e qualcuno ci avrà liberato, allora sì che ci metteremo d’impegno. Ne avremo tanti. Quattro, forse cinque. Non è vero? – e nel porre quell’interrogativo guardò Herschell e gli sorrise.

– Sicuro – confermò l’uomo – siamo giovani e forti. Per questo i nazisti non ci hanno ancora eliminato. Lo sapevi, Felicien? Al nostro arrivo ci hanno preso uno per uno e piazzati su una bilan-cia. I dieci più grossi avrebbero avuto salva la vita. Vecchi e bambini, purtroppo, non facevano parte della contesa. Ormai li eliminano sul luogo, gracili e malnutriti come sono. Sotto i qua-rant’anni, le possibilità di sopravvivenza aumentano. Sotto i quindici e sopra i cinquanta, crollano a picco. Nonostante la fame e la miseria, io e Norma raggiungiamo ancora il quintale e mezzo, pesati insieme. Per questo siamo salvi. È uno schifo, eh

Felicien? Essere vivi o morti per via del peso, neanche fossimo bestie invece che esseri umani.

Scosse il capo:– No che non lo facciamo, un figlio. In mezzo a questi maiali

non avrebbe futuro. Quando qualcuno ci avrà tirato fuori di qui cercheremo di recuperare il tempo perduto. Un figlio all’anno. Che ne pensi, amico mio?

Sorrisi, dissimulando il pessimismo che da giorni gravava sulle mie spalle, un tempo così forti. Osservai per l’ennesima volta il vasto ematoma che chiazzava di viola il polpaccio destro di Her-schell e chiesi:

– Chi te l’ha procurato quello?– Il nuovo ufficiale, un ragazzino della capitale. Avrà sì e no

vent’anni.Ricordai il povero Jacques, e realizzai subito chi fosse la SS in

questione.– L’ultima volta in cui ne ho sentito parlare era ancora un sot-

tufficiale – spiegai ostentando indifferenza.– Si vocifera che la promozione l’abbia ottenuta impedendo un

tentativo d’evasione.Digrignai nervosamente i denti, stavolta. Ecco a cosa era servi-

ta la morte di Jacques: a rendere ancor più potente un aguzzino esaltato.

– Scommetto che anche tu non ricordi il suo nome – ipotizzai tentando di rivolgere altrove i miei pensieri.

– Invece sì: Schwartz. Se l’è fatto ricamare sulla divisa, per non essere più sfottuto dai colleghi. Quando Bahuoff l’ha visto, è scoppiato a ridere. Quel ragazzino è una testa matta. Dovevi ve-derlo, mentre Bahuoff gli rideva in faccia. Si capiva benissimo che lo avrebbe accoppato con le sue mani, se solo avesse avuto a che fare con un sottoposto o un parigrado. Quando il comandan-te è andato via se l’è presa coi detenuti. Una minima distrazione ed erano bastonate sulla schiena.

Tornai ad osservare il suo livido, e dissi:

– Per ridurti la gamba in quello stato devi averla combinata grossa.

Coprì il ginocchio e drizzò la schiena, puntando con lo sguardo il secchio dell’acqua.

– Non sarà questo a uccidermi – affermò tracotante, per poi al-lontanarsi con la medesima disinvoltura. Non più alla portata delle sue orecchie, la voce di Norma si levò timidamente per am-mettere, nonostante il rossore apparso sulle sue guance:

– Vuoi sapere perché lo hanno bastonato? Perché ha detto di amarmi. E lo ha detto a voce alta.