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INDICE Nota di Gennaro Acquaviva Prefazione di Piero Craveri Craxi, la politica, la riforma di Gennaro Acquaviva la «grande riforma» di craxi Il psi e la riforma delle istituzioni di Giuliano Amato Craxi e il presidenzialismo di Luciano Cafagna Giannini e la «grande riforma» di Maria Letizia D’Autilia La riforma elettorale di Cesare Pinelli L’abolizione del voto segreto e la riforma dei regolamenti parlamentari di Silvio Traversa La «giustizia giusta» di Pio Marconi 9 11 19 39 51 59 73 79 91 5 0030.indice_intro_Grande riforma 26/01/10 17:18 Pagina 5

Acquaviva - La Grande Riforma Di Craxi

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Craxi e la Grande Riforma

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INDICE

Notadi Gennaro Acquaviva

Prefazione di Piero Craveri

Craxi, la politica, la riforma di Gennaro Acquaviva

la «grande riforma» di craxi

Il psi e la riforma delle istituzionidi Giuliano Amato

Craxi e il presidenzialismodi Luciano Cafagna

Giannini e la «grande riforma»di Maria Letizia D’Autilia

La riforma elettoraledi Cesare Pinelli

L’abolizione del voto segreto e la riforma dei regolamenti parlamentaridi Silvio Traversa

La «giustizia giusta»di Pio Marconi

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Riforme istituzionali e duello a sinistradi Paolo Allegrezza

La fine della «grande riforma»: Craxi, la Commissione Bozzi e la Commissione De Mita-Iottidi Luigi Covatta

la documentazione

Nota introduttiva

i. incunaboli

Riforma dello Stato e alternativa della sinistradi Giuliano Amato

La grande riformadi Bettino Craxi

Reazioni all’articolo di Bettino Craxi

2. divagazioni

Un governo di capacidi Bruno Visentini

Il governo degli onesti? Non bastadi Norberto Bobbio

3. precisazioni

Tesi del psi per il xlii congresso (Palermo, 22-26 aprile 1981)

Conferenza programmatica del psi «Governare il cambiamento»(Rimini, 31 marzo-4 aprile 1982)

4. assolo

Dieci punti per le istituzionidi Giovanni Spadolini

Cambiare la Costituzione tutti insiemedi Ciriaco De Mita

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Una democrazia governantedi Bettino Craxi

5. fuor d’opera

Ragioni e temi della riforma istituzionaledi Giuliano Amato

6. svolta

Relazione al Comitato centrale del pcidi Achille Occhetto

Lettera di Norberto Bobbio a Giorgio Napolitano (dicembre 1990)

7. avviso

Messaggio del presidente della Repubblica al Parlamento

Discussione alla Camera dei deputati sul messaggio del presidente della Repubblica

8. resa

Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (De Mita-Iotti)

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La ricerca storico-critica sull’opera politica di Bettino Craxi cheabbiamo iniziato nel 2002 si arricchisce di un ulteriore contributocon la pubblicazione di questo quinto volume della collana «Glianni di Craxi» edita da Marsilio. Esso intende esaminare i temi dellariforma del quadro istituzionale che regge la Repubblica a partiredall’assetto definito nella Costituzione del 1947; ed è dedicato alla«grande riforma» in consonanza con il testo che Craxi pub blicò sulquotidiano socialista «Avanti!» il 28 settembre 1979, articolo concui appunto si avviò un’ importante iniziativa tesa alla riforma delsistema politico, che il segretario del psi e molte energie vitali pre-senti nel suo partito alimentarono e fortemente indirizzarono, purse con alterne vicende, fin quasi alla vigilia del crollo del sistema deipar titi.

Come per gli altri quattro volumi che lo hanno preceduto*, anchequesta ricerca prende le mosse da un convegno di studio che abbia-mo convocato e realizzato a Roma presso palazzo San Macuto il 30ot tobre 2008. Alle relazioni e ai contributi che in quella sede furonoallora presentati e dibattuti, abbiamo ritenuto utile aggiungere unim portante apparato di documentazione, selezionato anche in ragio-ne dei punti d’interesse che tornano proprio in questi mesi a moti-vare e a dare consistenza al tema della riforma del nostro assettocostituzionale.

gennaro acquaviva

NOTA

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* La politica estera italiana negli anni ottanta, Venezia 2007; La politica economica italianane gli anni ottanta, Venezia 2005; La grande riforma del Concordato, Venezia 2006; Moro -Craxi. Fermezza e trattativa trent’anni dopo, Venezia 2009.

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gennaro acquaviva

A trent’anni dall’espressione di quella lucida esigenza politica,possiamo oggi forse convenire pacificamente non solo sulla preveg-genza che caratterizzò allora l’azione politica del leader socialista masoprattutto sulla lezione che emerge da quanto proposto nei testirichiamati, tale da spiegare e motivare il nostro difficile presente.

Luigi Covatta e io, nel ringraziare quanti ci hanno sostenuto nellaricerca e nella pubblicazione, ricordiamo che esse sono state resepossibili per il tramite di un contributo assicurato dalla FondazioneSo cialismo.

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piero craveri

PREFAZIONE

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Luciano Cafagna evoca, in questo volume, come difficoltà stori-camente radicata, al fine di realizzare il necessario mutamento deiprofili del nostro sistema costituzionale in una democrazia gover-nante, specie negli anni in cui Bettino Craxi operò, l’immagine del«bipartitismo imperfetto». Dall’imperfezione derivava infatti l’osta-colo insormontabile per passare da un sistema politico centrista auno basato sull’alternanza di governo. dc e pci si fronteggiavano esorreggevano a vicenda sulla base di regole del giuoco che non anda-vano mutate.

Il così detto «bipartitismo imperfetto» era una variante anomaladel «centrismo», che è stata una caratteristica pressoché indelebiledella democrazia italiana, fin dal periodo preunitario col «connubio»cavouriano (anche il fascismo ebbe, quanto alla sua struttura di regi-me, composizione sostanzialmente «centrista»). Tuttavia, solo nelsecondo dopoguerra, esso assunse quei tratti che portarono assai pre-sto a definirlo come «partitocrazia», che fu in parte, come giusta-mente sottolinea Cafagna, un prodotto surrettizio dell’eredità delfascismo, per il primato che esso postulava del partito sullo Stato. Edè vero che la «Repubblica dei partiti» fece perno principalmente sudue di essi, quelli che impropriamente furono definiti «partiti dimassa»: la dc e il pci. Lo era certamente il pci (la stessa denomina-zione «partito di massa» trova la suo puntuale definizione nella con-trapposizione, interna alla prassi comunista, con il «partito di qua-dri»: a riguardo, più che consultare la letteratura socio-politologica,vale la pena rifarsi al verbale dell’incontro, nel novembre 1947, traSecchia e Stalin, pubblicato nei suoi «Archivi di Mosca» da Silvio

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Pons). Non lo era propriamente la dc per cui può parlarsi, con mag-giore aderenza alla realtà, di un modello «neocorporativo». In esso leorganizzazioni collaterali, rappresentative di interessi differenti e plu-rimi, non erano subordinate alla struttura di partito, come nel pci, laintersecavano anzi, determinando in parte il suo pluralismo interno.

Questo modello centrista, a regime parlamentare forte e a gover-no debole, come ci ricorda Giuliano Amato, servì ad attutire la frat-tura politica profonda che divideva la Repubblica, portò lentamen-te i comunisti a far proprie le procedure della democrazia, contribuìa unire il paese, piuttosto che ulteriormente dividerlo. Questo èindubbiamente vero, ma non credo che sia il punto decisivo. Togliat-ti, ad esempio, contribuì sempre a smorzare le punte più accesedello scontro, a fissare i limiti di rottura dell’azione di massa, anchedopo la fine della collaborazione di governo nel giugno 1947, e afavorire in tutte le direzioni l’apertura di dialogo sull’esterno, por-tando una particolare attenzione a non creare situazioni di «inagibi-lità democratica», fuori da qualsivoglia schema dottrinario, come fuper Berlinguer la sua anacronistica formula del «compromesso sto-rico», a cui, dinnanzi ai suo esiti negativi, sacrificò la stessa intelli-genza politica del suo partito.

La verità è che questo rapporto-scontro con i comunisti ebbe,nella democrazia italiana del dopoguerra, due registri, uno chepotremmo dire di «alternativa imperfetta» e l’altro «consociativo».Quello di «alternativa imperfetta» (qui «imperfetta» sta per man-canza di un’alternativa propriamente «democratica») ha semprepostulato il superamento dei vincoli determinati dall’inclinazioneassemblearistica della rappresentanza parlamentare, che il nostro si -stema costituzionale propone; quello «consociativo» ne ha fatto in -vece il perno istituzionale delle proprie prassi distorsive.

La prima legislatura, quella degasperiana, che Leopoldo Elia defi-nì a suo tempo come caratterizzata da una dialettica tra maggioran-za e opposizione «quasi britannica», ebbe indubbiamente la formadi un’ «alternativa imperfetta». E questa comportò subito il proble-ma di una riforma costituzionale. Bicameralismo perfetto, ruolocostituzionale del presidente del Consiglio, sono problemi ben pre-senti nel dibattito di quegli anni. Che la legge elettorale maggiorita-ria, con il suo ampio premio di maggioranza, fosse anche funzionalead affrontare questi profili di riforma costituzionale, come sottolineòdel resto polemicamente Togliatti nel suo intervento alla Camera neldibattito sull’approvazione di quella legge, non pare ci sia dubbio.

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prefazione

Del resto il modello politico-istituzionale di De Gasperi non era«partitocratico», si fondava sul primato del governo e sulla ledershipche il premier doveva esercitare sulla maggioranza parlamentare, e ilpartito era il gradino più basso di questa scala gerarchica. Sarà Fan-fani a capovolgere lo schema degasperiano, dopo la sconfitta del1953, che è il primo spartiacque negativo della storia repubblicana.

D’altra parte che cosa fece venticinque anni più tardi BettinoCraxi? Non tentò forse di spezzare il modello «consociativo» che siera istaurato? E ci riuscì in larga parte, dimostrando comunque cheera possibile. E questo obbiettivo politico, così tenacemente perse-guito, mi pare vada considerato, storicamente, come elemento pre-giudiziale rispetto alle diverse inclinazioni che poi prese il suo dise-gno di «grande riforma», nelle sue due versioni, «minima» e «mas-sima», così ben delineate da Giuliano Amato. Perché storicamente èda quella pregiudiziale che nasce inevitabilmente la necessità di unariforma costituzionale.

Da qui si snoda più di una contraddizione e i socialisti ne sono imaggiori referenti. Se si spostavano al centro, cercando un accordocon la dc, come fu col centrosinistra, indebolivano il loro ruolo asinistra senza rafforzarlo al centro, e così facendo aprivano la stradaal lento consolidarsi della convergenza consociativa tra dc e pci.Craxi volle evitare, riprendendo la collaborazione con la dc, quelliche erano stati inesorabilmente gli esiti del primo centrosinistra.Intraprese una collaborazione conflittuale che corredò con l’obbiet-tivo della «grande riforma», la cui natura, nella versione non mini-male, postulava l’introduzione del principio dell’alternanza.

Ciò implicava la risoluzione del «duello a sinistra» e un’alleanza,all’apparenza impossibile e che tale in effetti si rivelò, con il pci, cheCraxi comunque propose, con una formula che avrebbe dovutogarantire al psi un’iniziale posizione, non di cerniera, perché si man-dava la dc all’opposizione, ma di leadership socialista: presidenzadel consiglio socialista, coalizione di governo con i partiti laici su diun programma concordato col pci che ne garantiva la maggioranzadall’esterno. Era a ben vedere l’unica forma possibile di alternanza«democratica», i cui sviluppi certamente erano tutti da verificare.Configuravano una situazione transitoria, che al momento costituivainoltre l’unica proposta di schieramento, sostitutiva della formulamorotea a centralità democristiana. Respinta questa dal pci di Ber-linguer, non rimaneva a Craxi altro che aspettare, per tessere inseguito la sua tela.

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Come nota Covatta, egli puntò tutto sul ritorno alla guida delgoverno. Dovette tuttavia subire la logica della staffetta impostagli daDe Mita. Nella parabola politica di Craxi il 1987 segna indubbia-mente una svolta, quella di un rapporto troppo stretto con la dc chenon lasciò spazio neppure al dilemma del prigioniero. Acquaviva, cheha ben analizzato nella sua introduzione tra gli altri questo passaggio,si domanda se debba accogliersi il giudizio che Stefano Folli espres-se sul «Corriere della Sera», alla data della morte di Craxi, nel gen-naio del 2000, e cioè che il febbraio-marzo 1987 segna propriamen-te, prima dell’usuale 1992, il momento della caduta di Craxi e del suoruolo politico. Altre occasioni si presentarono nella legislaturaseguente. Non averle colte fu indubbiamente una caduta di vitalitàdella sua vena politica. Introdusse una marcia bassa che non permisel’accelerazione necessaria quando sarebbe stato necessario.

Va tuttavia considerato come l’accordo con il segretario della dc,Ciriaco De Mita, fosse garantito dal duplice disegno di eleggereAndreotti alla presidenza della Repubblica e dare a Craxi la guidadel governo. Tuttavia l’interregno democristiano, cioè l’intera xlegislatura, designava un tempo troppo lungo. Il patto era poi debo-le sul punto capitale di contenere il deficit e arrestare la crescita deldebito pubblico. La linea di risanamento economico perseguitasotto la sua presidenza, che aveva portato a cauterizzare la spiraleinflattiva prezzi-salari e che aveva conseguito la sanzione positiva delvoto referendario sul taglio dei punti di scala mobile, non veniva cosìportata a compimento nei tempi necessari. Gli ultimi due anni effet-tivi della legislatura, 1990 e 1991, furono quelli in cui si negoziòMaastricht, un trattato che poneva, a partire dal 1992, se si volevaentrare nella moneta unica, un vincolo esterno fortissimo, che avreb-be richiesto subito di intervenire con provvedimenti decisivi, qualil’aumento della pressione fiscale, tagli mirati di bilancio, avvio delprocesso di privatizzazione della mano pubblica, prima di procede-re a una definitiva rettifica del valore della lira sul mercato deicambi. Le cose che poi avrebbe fatto il governo Amato, ma dopo lagrave crisi valutaria del settembre 1992, invero troppo tardi, quan-do la crisi del sistema politico era divenuta irreversibile. Troppotardi anche rispetto ai vincoli che il trattato di Maastricht avevaormai posto. La grande stagnazione dell’economia italiana, dallaquale non siamo ancor oggi usciti, non a caso incomincia proprio colprimo governo Amato.

Così questa fase permanente di stallo avrebbe portato alla crisi

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prefazione

della prima Repubblica nel vuoto di ogni prospettiva politica. Ri -spetto a essa poteva farsi anche un’altra cosa, prendere atto degliesiti dell’89, capovolgendo lo schema concordato con la dc e aprirenuovamente al partito comunista. Non fu tentato ed era difficilefarlo, con un pci che restava sempre renitente. Inoltre la conversio-ne a un programma di riforme costituzionali da parte dei comunisti,almeno in termini politici, avvenne in realtà assai più tardi, dopo il1994, quando, almeno a sinistra i comunisti, divenuti postcomunisti,erano rimasti interamente padroni del campo. Covatta ha sottoli-neato con precisione questo punto e c’è da chiedersi se fosse plausi-bile lo scenario virtuale, a cui egli accenna, prefigurato da BagetBozzo, di un Craxi che nel 1991 si presentava al paese con il pro-gramma costituente prefigurato da Cossiga, cogliendo così l’unicaoccasione che si era presentata di sbloccare la situazione.

Quello che da ciò sembra sicuramente evincersi è che, di fatto, sierano creati i presupposti di una trappola che si rivelò mortale.Craxi «imprigionato nell’organigramma» non ebbe altra via alterna-tiva di uscita. Ma questa volta nella trappola doveva cadere dentroanche la dc; un partito che con la morte di Moro aveva perso lacapacità di concepire la sua centralità in termini di governo dell’in-tero sistema politico. Da questo punto di vista l’impostazione politi-ca alla quale, dopo Moro, la dc si sarebbe ispirata era quella dellamera sopravvivenza, legata alla sua tradizionale rendita di posizionenel sistema politico, a cui diede voce Ciriaco De Mita, con un’im-maginazione che presumeva d’essere macchiavellica ed era in realtàespressione di un modesto provincialismo, pretendendo anche diaffrontare il tema della riforma istituzionale e politica con l’ispirarsinon ad altro che all’idea luminosa del primato democristiano. For-lani e Andreotti, che gli succedettero alla guida della dc e per tem-peramento non lavorarono di fantasia, si limitarono a eseguire lostesso disegno con crudo realismo. Una visione troppo misera dellalotta politica che si rivelò fatale anche per il psi.

Dunque, a guardare bene lo snodarsi degli eventi, lungo tutti glianni ottanta non ci fu mai un solo momento in cui la «grande rifor-ma» avrebbe potuto essere messa all’ordine del giorno. Allora di checosa parliamo? Parliamo delle premesse di un cambiamento cheallora, per la prima volta fu proposto e messo a fuoco nelle sue varia-bili possibili e su alcuni punti sensibili anche attuato, come diconogli interventi di riforma dei regolamenti parlamentari.

L’idea della «governabilità», come premessa necessaria dell’azio-

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ne politica, fece allora strada, e non fu solo resa popolare dallo stiledi Craxi, ma divenne parzialmente, ancora troppo parzialmente,prassi istituzionale, raccogliendo consensi sempre più vasti nellostesso ceto politico. Si aperse una strada, che ancora oggi è da per-correre nei suoi snodi necessari e decisivi, come ci dice GiulianoAmato. Quelle premesse furono poste, non in termini meramentepropositivi (idee di riforma costituzionale erano già state messeall’ordine del giorno già nel decennio precedente), ma in terminipolitici, che risultarono poi non reversibili, perché Craxi in realtàfece saltare in aria, nel corso degli anni ottanta, il sistema «partito-cratico» che si era andato ossificando sui propositi di riforma disat-tesi, su cui si era inizialmente avviata l’operazione di centro-sinistra,prima che si affermasse il regime doroteo, con le vicende del giugno1964. Craxi non riuscì poi nella ricomposizione del sistema. Ventianni dopo possiamo dire che ancora non ci si è riusciti e che i pro-tagonisti di oggi si trovano più o meno allo stesso bivio in cui luivenne a trovarsi dopo il 1987. Lo stesso bivio e lo stesso dilemma.

Intendo per dilemma la scelta della strada da percorrere: per viaplebiscitaria o per linee interne al sistema politico (un’alternativache Covatta pone nei suoi precisi termini storici). Craxi scelse laseconda e non uscì dal labirinto che essa rappresentava. Anzi quellaplebiscitaria prese allora forma referendaria contro Craxi e il siste-ma politico, mettendo a nudo ancor più i limiti e i ritardi con cuierano affrontati questi problemi, cioè proprio i temi della «granderiforma», e mostrava il loro carattere impellente e improcrastinabi-le. Oggi tutte e due queste strade sono all’ordine del giorno, ma nonsi può prevedere quale sarà quella da percorrere. Poiché tertium nondatur, la fase di stallo, che la sconfitta di Craxi ha determinato, puòprotrarsi ancora, con gravissimo danno per il paese, aggiungendosia quello assai grave, arrecato nel ventennio trascorso.

Un’ultima annotazione. Non mi trova d’accordo il modo in cuiCafagna propone il primato della «questione morale». Forse è troppoforte in me l’ascendente di quella tradizione, italiana e non solo, cheda Nicolò Machiavelli arriva a Benedetto Croce, in cui giudizio mora-le e azione politica rimangono categorie distinte, in un rapporto stori-camente dialettico e neppure empiricamente di identità. Mi trattienedal polemizzare su questo punto una pagina, davvero antologica, chesi trova nel volume Cavour dello stesso Cafagna, dove egli distingue estoricizza questa tradizione per me imprescindibile. Dice giustamenteche in un regime di democrazia politica, quale quello che si viene con-

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figurando tra il xix secolo e il seguente, un problema di moralità pub-blica si pone come canone intrinseco al principio di rappresentanza,definisce la sovranità popolare, che se non è più sacrale deve necessa-riamente essere «morale». Non è un problema delle persone che svol-gono attività politica e che sempre nella storia sono state giudicate,quando lo sono state, dagli organi a ciò preposti, ma problema intrin-seco alla politica stessa nell’arena democratica.

Anche qui bisogna intendersi. C’è dunque un problema di dare aquesto fine regole, scritte o non scritte, alla democrazia, che è il solomodo d’essere della «moralità» in un sistema liberal-democratico. InItalia è innanzitutto un problema di leggi, che riguardano l’autono-mia della stampa, il finanziamento della politica, non solo pubblico,ma anche privato, il conflitto di interessi. Regole che in Italia tutto-ra mancano e che costituiscono una cornice indispensabile a qualsi-voglia «grande riforma». Craxi percepì la pregnanza di questi pro-blemi quando era troppo tardi e ne era investito, non come persona,ma come leader politico. E ne prese atto nell’unico discorso, degnodi questo nome, che nella sede parlamentare si sia pronunciato suquesto tema, anch’esso meritevole di essere antologizzato.

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gennaro acquaviva

CRAXI, LA POLITICA, LA RIFORMA

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Il tema, prettamente craxiano, della «grande riforma» è un buonpunto d’osservazione per ripercorrere le tappe evolutive della para-bola politica dei socialisti e del loro leader tra il 1979 e il 1992: cioèdal loro emergere ed essere interpretati come innovatori e protago-nisti di una politica riformatrice, passando per la conquista di unaposizione di centralità del sistema, fino al riconoscimento della loroincapacità o impossibilità di chiudere il gioco grosso della politica,con ciò favorendo decisamente, se non addirittura causando, il lorofallimento.

Seguendo queste medesime tracce temporali ritroviamo un para-digma che può essere utilizzato come punto d’osservazione ancheper leggere l’evolversi parallelo, dalla decadenza al crollo, del nostrostesso sistema politico, quel sistema cioè costruito dai partiti antifa-scisti nell’immediato dopoguerra e poi stabilizzatosi nel 1948. Riper-correndo l’intreccio tra i due percorsi, facile da leggere seguendo lacronologia degli atti politici che ne scandiscono la vicenda lungogran parte dei suoi tredici anni (una modalità, va detto, che abbia-mo scelto di utilizzare come itinerario nella costruzione di questolibro e che si ritrova compiutamente nell’allegato documentativo), èagevole trovare, a mio parere, la conferma di una tesi già emersa neiquattro volumi apparsi fin’ora in questa medesima collana. La tesicioè che la forte volontà riformatrice impettata a Craxi da un opi-nione pubblica uscita impaurita e frastornata dal terribile decenniodegli anni settanta, cioè da un popolo e da un paese che era allaricerca di un ancoraggio affidabile rispetto alla crisi, ove non avessetrovato uno sbocco positivo attraverso il successo dell’azione forte e

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determinata dell’ «uomo nuovo» della politica italiana, era inevita-bilmente destinata, prima o poi, a invertire il corso, con la conse-guenza di travolgere con lui anche la sua politica e il suo partito.

Per questa ragione la ricostruzione storico-critica che riportiamonella documentazione inizia con il 28 settembre del 1979, cioè con ilgiorno in cui apparve sul quotidiano socialista l’«Avanti!» un artico-lo con cui Craxi lanciò la sua proposta di una «grande riforma»; e siconclude sostanzialmente il 25 luglio 1991, altra data altamente sim-bolica giacché fu in quel giorno che, alla Camera dei Deputati, i capidei partiti fondatori della Repubblica dettero le loro risposte, tuttereticenti, al messaggio «riformatore» del presidente della RepubblicaCossiga: con ciò trasmettendo il preannuncio netto che la crisi siste-mica stava ormai avviandosi celermente verso il punto di rottura.

In quel settembre del 1979 Craxi era capo dei socialisti da pocopiù di tre anni, a seguito di una sua elezione imprevista, e quindi noncerto fondata su basi solide, alla leadership del psi, avvenuta alComitato Centrale del Midas nel luglio 1976. Un anno e mezzoprima di quel settembre, e cioè nella primavera del 1978, egli avevavinto a Torino il suo primo congresso da segretario, sull’onda di unaproposta di rinnovamento di metodi e di programma che si iscrive-va in un patto di alleanza con la sinistra lombardiana e che era fon-dato su di un documento ideale e programmatico di buon respiro,che fu denominato «Progetto socialista». In quell’assise Craxi erariuscito a sostituire con l’immagine del garofano i vecchi simbolileninisti imposti al Partito dal lontano 1919, simboli che rinnegandol’antica tradizione socialista libertaria e umanistica avevano alloraabbracciato quelli della Rivoluzione sovietica; ma contemporanea-mente si era dovuto acconciare a una linea filo alternativista che glistava un po’ stretta, giacché inevitabilmente girava verso la sinistra edi fatto ne condizionava i movimenti. Anche per queste ragioni,accentuate dall’esito delle elezioni politiche del giugno 1979, Craxisi trovava a essere in quel momento un segretario potenzialmenteaggredibile, giacché non poteva contare su di una maggioranza sicu-ra e il partito che continuava a guidare era attraversato da umoricontrastanti, accentuati da un comportamento tradizionale che ten-deva verso l’instabilità e anche la rissa.

Conviene ricordare ancora che nei mesi precedenti, dopo unlungo torcibudella, era venuto meno l’appoggio comunista alla mag-gioranza emergenziale che aveva sostenuto i governi Andreotti dellavii Legislatura. Questo aveva reso inevitabile lo scioglimento del

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craxi, la politica, la riforma

Parlamento, ad appena tre anni dal suo insediamento. Si era dunqueandati a elezioni generali in un clima di «tutti contro tutti», con isocialisti obbligati a difendersi dalle accuse e dagli attacchi concen-trici che gli indirizzavano i due partiti maggiori, ma con particolaredurezza proprio i comunisti. Il risultato elettorale, dal punto di vistapolitico, era stato uno zero a zero, accompagnato però dalla specifi-cazione di una sconfitta netta del pci e di un nulla di fatto dei socia-listi che, particolare di non poco conto, rimanevano infatti attaccatial modesto risultato raggiunto nella elezione precedente, quella del1976, a seguito della quale, sull’onda di una sconfitta allora procla-mata come storica, proprio Craxi era stato evocato come il «salvato-re» del psi.

Il risultato più significativo rimaneva comunque quello dell’arre-tramento comunista, dopo tre anni di appoggio al governo con la dc;il partito aveva perso di brutto, lasciando sul campo più di un milio-ne di voti, il 4% elettorale, e regredendo addirittura ai livelli rag-giunti nel 1958.

La conseguenza era stata che ci si era trovati di fronte all’impos-sibilità di formare una qualsiasi maggioranza organica: fosse essaimperniata sulla dc (con i laici minori) o all’opposto sul pci (con isocialisti). Era stato dunque obbligatorio acconciarsi, ad agosto inol-trato e dopo un infruttuoso tentativo di governo Craxi, a un gover-no minoritario e di transizione presieduto da Cossiga, destinato avivere alla giornata giacché dipendeva dalla benevolenza degli altri,in particolare dei socialisti.

Non finivano qui i guai che circondavano quel confusissimoavvio della viii Legislatura. Il Parlamento appena eletto, e in parti-colare i due mastodontici partiti che lo dominavano con una dote dioltre il 70% dei seggi, erano profondamente in crisi sia di strategiache di gruppo dirigente; il Paese, a sua volta, era frastornato e im -paurito in sommo grado soprattutto perché aveva dovuto attraver-sare un de cennio terribile, che si guardava bene dal dare segni divoler finire; di fronte a esso la politica sembrava continuare a espri-mere il peggio di sé, obbligando il popolo sovrano a convivere conun sistema politico che sembrava garantire solo crescente ingover-nabilità a tutti i livelli: sociali ed economici, ma soprattutto istitu-zionali e politici.

A complicare ulteriormente le cose, proprio in quell’autunno del1979 era esploso uno scandalo politico-finanziario che è passato allastoria con la denominazione di eni-Petromin, giacché si fondava sul-

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l’utilizzo di una maxi-tangente ricavata da un contratto di fornituradi greggio che l’eni aveva appena concluso con l’Arabia Saudita.Molti presumevano, e altri davano per certo, che la mastodonticatan gente che ne sarebbe derivata dovesse essere utilizzata da am -bienti filo-andreottiani o comunque anti-socialisti, soprattutto alloscopo di intervenire pesantemente sul controllo di parte della stam-pa italiana. Di fatto, a far da megafono a «gole profonde» di origineeni, erano proprio socialisti di affiliazione craxiana.

Questo sinteticamente il quadro che Craxi e il psi avevano dinan-zi in quell’inizio della viii Legislatura: un passato difficile e colmo dirischi non risolti; un Paese profondamente insicuro, che non vedevala fine del tunnel dentro il quale era stato obbligato a camminare perdieci anni; un Parlamento senza maggioranza visibile, che sembra-va irrimediabilmente spaccato a metà e che di fatto non aveva sapu-to fare di meglio che esprimere un governo fragilissimo, senza basisolide e cioè senza maggioranza organica; partiti insicuri nella stra-tegia e su se stessi, per di più attraversati da una lotta di potere duris-sima sul cui esito pesavano cospicuamente, come ho appena ricor-dato, anche variabili extra-politiche.

Sono passati ormai trent’anni da quel tempo e dovrebbe ormaiessere possibile cercare di individuare correttamente, legando cioèl’analisi a una ricerca storico-politica equilibrata ed esaustiva, comeci stiamo sforzando di fare, la cornice di quello che fu senza dubbioil momento fondativo del protagonismo craxiano. È vero che pocopiù di un anno prima, nella primavera del 1978, c’erano stati i 55giorni della tragedia Moro; ma quel momento di metà 1979 sembròsu bito capace di fornire un’espressione politica più stabilizzata dellaemergente personalità di Craxi, soprattutto perché, fin dall’inizio, ecioè dentro il fuoco della campagna elettorale, fu letta come unaforza vicina agli umori profondi di tanta gente e alle sue difficili con-dizioni.

Per comprendere l’intima natura di questo fatto conviene mette-re in rilievo innanzitutto ciò che la caratterizzò fin dal principio,quasi dandogli un timbro identitario: la rottura durissima con il pre-sidente del Consiglio Andreotti all’atto dello scioglimento del Parla-mento, che di fatto ispirò tutta l’azione mossa dai socialisti nei duemesi di campagna elettorale. Apparentemente essa nacque da unmotivo futile, che addirittura sembrò un impuntatura di en trambi isoggetti: la negazione, presentata ambiguamente dal presidente dalConsiglio, rispetto alla richiesta avanzata dal psi di una contempora-

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neità tra elezioni politiche ed elezioni europee. Ma dalla denunciacraxiana di questo «inganno» si innestò immediatamente una pole-mica aspra, che durò a lungo e che si estese all’insieme della dc,andando ben oltre l’ironia della battuta con cui Craxi volle subitosegnalarla, mettendo comunque ben in vista un modo tipico dell’a-gire politico della scuola andreottiana: «tutte le volpi alla fine fini-scono in pellicceria», continuò a declamare il segretario socialistarivolto ad Andreotti; e lo ripeté per tutti i giorni della campagna, daqualsiasi pulpito parlasse, a ogni angolo di strada.

A motivare questa durezza c’era nel pensiero di Craxi assai più diuna risposta allo sgarbo procedurale di cui era accusato il presiden-te del Consiglio. Nei suoi atteggiamenti polemici si sommarono allo-ra il forte disagio che si era venuto accumunando, nelle menti e nelcuore dei socialisti, nei tre anni di emarginazione del loro partito edelle loro idee durante i governi della solidarietà nazionale, con ilricordo, difficile da allontanare, della gestione umana e politica dellavicenda Moro, di appena un anno prima, guidata direttamente econ mano ferrea proprio dalla «sfinge» Andreotti.

Fu per questo che i risultati a cui giunse la campagna elettoraledel 1979 non furono penalizzanti solo per i comunisti; anche Craxi,pur se tecnicamente non sconfitto, era rimasto al palo nonostante sifosse speso senza risparmio in una battaglia politica aperta e irta didifficoltà: la realtà era che alla fine aveva portato a casa solo qualchemisero decimale in più. Da queste difficoltà lo salvò un imprevisto:nel mezzo di quella difficile congiuntura un «santo» venne inopina-tamente in suo soccorso, contribuendo a evitargli il rischio, chepoteva essere dietro l’angolo, di un ribaltone interno o almeno dal-l’avvio di una polemica strisciante diretta proprio contro di lui; fu lachiamata improvvisa e inimmaginabile del presidente Pertini a Craxiperché facesse un governo purchessia.

Il «compagno» presidente della Repubblica non aveva un grandeaffetto per il segretario di quello che comunque rimaneva il suo par-tito; non che gli fosse antipatico, ma lo considerava appesantito con-temporaneamente da almeno tre difettucci: era troppo giovane, eratroppo nenniano e soprattutto era troppo autonomista (naturalmen-te rispetto ai comunisti); eppure, di fronte alle tradizionali liturgieattendiste messe spudoratamente in campo dai democristiani e cheegli vedeva dispiegarsi per la prima volta di fronte al suo tavolo dipresidente, la sua tempra di «attivista generico» e il suo indomito«combattere comunque» si saldarono con la tradizionale furbizia del

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minoritario, quale era sempre stato: e senza sentire nessuno convo-cò Craxi al Quirinale nel bel mezzo di una domenica di luglio, in unaRoma bollente e assonnata, gratificandolo per di più con un «man-dato pieno» e cioè assegnandogli l’incarico di fare un governo senzavincoli di maggioranze precostituite.

Fu allora, nelle due settimane che seguirono, che la figura politi-ca di Craxi poté proporsi con nettezza di fronte a un’opinione pub-blica che era, ripeto, forse senza saperlo, alla ricerca di un «uomonuovo» della politica, acquisendo o almeno confermando allora, conpiù forza, non solo una visibilità significativa ma anche quella speci-ficità e completezza di leadership che non lo abbandoneranno piùper almeno un decennio.

La stessa esperienza raccolta nei giorni successivi al conferimen-to dell’incarico, che furono di instancabile e febbrile attività nellagestione ma anche nella visibilità del presidente in pectore, ebberoun effetto immediato anche sullo stesso modo di agire di Craxi. Enon solo perché, per la prima volta, egli si trovò seduto dall’altraparte del tavolo, svolgendo il ruolo, altre volte solo contemplato, dicolui che distribuiva le carte provando anche a governare, o almenoa indirizzare, il gioco degli altri.

Per ricordare un fatto che a me parve subito significativo, fu inquella circostanza, cioè nello scrivere la base programmatica per ilsuo governo, che egli volle confermare una sua convinzione di anti-ca data, resa esplicita due anni prima allorché ne aveva parlato con-vintamente a seguito del seminario organizzato da Covatta a Treviper predisporre il «Progetto socialista». L’argomento era quello delrapporto che doveva intercorrere tra Stato e mercato, visto nellalogica delle socialdemocrazie europee e rispetto ai punti decisividella politica di welfare. Craxi, a questo proposito, era convinto checi si do vesse ormai orientare assai più sulla preservazione dei livellidi distribuzione esistenti e sulla loro corretta gestione che sulla con-quista di ulteriori momenti di crescita, capaci cioè di modificareulteriormente i livelli di diseguaglianza. Fu quindi nel momento incui dovette inpegnarsi, per la prima volta, non solo in una «esercita-zione» programmatica ma nella costruzione di un reale programmadi governo, capace di stare in piedi e di tenere unita una maggio-ranza parlamentare effettiva, che egli seppe immediatamente dimo-strare di essere un riformista del suo tempo, realistico e pragmaticocome fu sempre in seguito.

Si sintetizzava così, su questo rapporto con i contenuti della poli-

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tica e fin dal suo primo momento «di verità» programmatica, tuttala forza del suo protagonismo, anche se egli dimostrò subito che eracapace di mantenerlo assai ben inserito nella linea del riformismosocialista; un protagonismo che intese indirizzare fortemente al ser-vizio del «si stema Paese», giacché solo in connessione con esso eglisi riteneva abilitato ad avanzare ipotesi o anche propositi concretidiretti alla riforma del quadro politico.

Naturalmente, accanto a questa impostazione, che potremmodire finalistica, c’era anche la sua netta percezione, fin da allora, delmutare della congiuntura internazionale e quindi del ruolo decisivoe risolutore che i socialisti, ma soprattutto lui stesso e in prima per-sona, quasi per predestinazione stavano per essere chiamati a reci-tare. Ma di questo dirò qualcosa più avanti. Quello che mi premeora mettere in rilievo sono le conseguenze politico-istituzionali diquesto ragionamento, che furono subito chiarissime a Craxi e al pic-colo gruppo che proprio allora gli si strinse attorno, in quei pochimesi decisivi che iniziarono a luglio del 1979 e si conclusero colmarzo del 1980. Egli aveva infatti piena coscienza che l’idea dellacentralità parlamentare e della convergenza univoca dei partitidemocratici nella maggioranza di governo, e cioè l’idea e l’assettoche avevano costituito il punto decisivo della recentissima esperien-za dei governi di unità nazionale, andava pregiudizialmente rimos-sa, prima di proporsi ad affrontare qualsiasi altra azione politica. Aquesta impostazione andava contrapposta quella del ritorno alla viamaestra dei sistemi democratici e cioè l’affermazione del principiodi maggioranza come unica forma istituzionale capace di scioglierei nodi della governabilità e quindi di dare soluzioni ai conflitti chepermanevano nella società. In conseguenza di questa idea centraledella sua posizione politica egli fu in grado, da quel momento, nonsolo di apparire come il garante, prima potenziale ma poi piena-mente reale, di una funzione di governo efficiente e stabile, ma an -che di esprimere credibilmente la sua idea circa i caratteri di un’al-ternativa politica che fosse soprattutto strumento per riformare ilsistema.

Craxi infatti intendeva proporre al Paese una soluzione di quadropolitico non astratta o velleitaria ma realmente fondata nella prati-cabilità della lotta politica, di fronte alle difficoltà e all’impasse chesi trascinavano di fatto dal 1968, e cioè dalla crisi del primo centro-sinistra. Per sostenerne questo percorso, egli volle allora indicare lanecessità preliminare che si tornasse a individuare una diagnosi non

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ideologica ma eminentemente politica della crisi italiana, collocandoentro di essa anche il tema dei problemi specificamente istituziona-li, come appare evidente nell’impostazione che dette all’articolo del28 settembre del 1979.

Al di là delle teorie e dei disegni inevitabilmente tendenti all’a-strazione, quello che caratterizzò questo approccio craxiano puòessere rintracciato proprio nei fatti politici che seguirono, in logicacoerenza, dopo quei giorni del suo incarico di presidente designato:e cioè fino alla nascita, a marzo del 1980, di un nuovo governo Cos-siga in cui sedevano ben nove ministri socialisti, visibili e concretirappresentanti di quel nuovo che il psi intendeva portare dentro allapolitica di rinnovamento. Questi fatti sono simbolizzati dall’abban-dono definitivo, dichiarato allora una volta per tutte, della politicadetta degli «equilibri più avanzati» di demartiniana memoria. Conquella mossa Craxi liberò allora, definitivamente, il sistema politicoda un incubo (ma anche da una minaccia) che era diventato addirit-tura un tormentone, permanendo immobile in tutta la sua impoten-za sul tavolo della politica da quasi dieci anni, e cioè fin dai giornidella crisi che seguì il fallimento dell’unificazione socialista del 1969.Essa rappresentò anche la risposta che Craxi, che tutto era fuorchéun dottrinario, poté finalmente dare alla domanda che nasceva dal-l’acquisizione di una posizione di centralità nel sistema politico, unadomanda che egli si poté proporre realisticamente solo allora perchénasceva dal riconoscimento di tutte le specificità riformatrici e inno-vative della sua proposta politica: con quali alleanze, con quale pro-spettiva lunga, con quale assetto politico esse potevano trovare com-piuta realizzazione?

Craxi non fu mai contrario pregiudizialmente a una politica dialternativa; e infatti il confronto solidale con i ragazzi emergentidella sinistra lombardiana, che caratterizzò l’alleanza costruita perandare a vincere insieme il Congresso di Torino del 1978, fu anchesu questo tema sostantivamente positivo e comunque sempre apertoe molto leale. Egli ovviamente intendeva andare verso l’alternativaalla Democrazia cristiana partendo da una posizione che non lovedesse, per forza e in eterno, minoritario nei confronti del pci; equesta condizione la riteneva indispensabile non solo per salvare lasua bella faccia o gratificare il suo ego ma soprattutto perché inten-deva far valere quello che sentiva di poter rappresentare: la sua sto-ria e la sua tradizione politica arricchite dai buoni argomenti che sta-vano dalla sua parte; storia e argomenti antichi certamente, ma che

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lui aveva contribuito fortemente a mettere in ordine e ad aggiornarein quegli anni in cui tutti noi avevamo lavorato in cantina, ma cheora finalmente, proprio lui, era in grado di mostrare e far apprezza-re giacché essi erano buoni ed erano molti. Su questo punto avevaidee chiarissime, governate da una sensibilità estrema, che potevaessere sintetizzata nell’affermazione che per lui divenne quasi un«mantra» dopo il Midas: «per quello che sono e che porto, io nonsarò mai “uni tario” per forza».

Ma era percorribile la via dell’alternativa? Soprattutto era possi-bile costruire una politica di alternativa che non fosse dominata daun pci ancora tutto comunista, quindi inevitabilmente mortifera peril socialismo democratico espresso dal psi e soprattutto per le ragio-ni moderne (e vincenti nelle società occidentali) della politica cheesso esprimeva ormai così limpidamente?

Questa domanda Craxi e i suoi soci se la posero concretamente inquella fase di preparazione che precedette la svolta dell’autunno-inverno 1979-1980; e non furono certamente né soli né male accom-pagnati quando l’affrontarono, potendo disporre di un bagaglio conmolta cultura e tanta modernità costruita appassionatamente findagli anni settanta. Conviene ri cordare ad esempio che la preceden-te critica ragionata dei fondamenti del marxismo-leninismo e delsocialismo reale, nei tre anni vissuti nel cono d’ombra dell’unitànazionale fu aggiornata e rimase costantemente presente nella ela-borazione socialista, e non solo nel famoso testo a firma Craxi pub-blicato sull’Espresso ad agosto 1978 e dedicato alla barba di Marx.

Forse qualcuno un po’ in là negli anni può oggi tornare a ricor-dare che anche nei lunghi mesi dei governi dc-pci, qualche mentelungimirante (ma soprattutto ottimistica) prevedeva o almeno seria-mente auspicava che la lunga fase di assaggio della democraziagovernante a cui i comunisti si stavano allora diligentemente dedi-cando, potesse fruttificare in senso socialdemocratico o almeno for-temente riformatore; e che quindi questa polemica socialista, porta-ta avanti pacatamente e con buoni argomenti prima e durante igoverni di «solidarietà nazionale», fosse in grado di svolgere il ruolopositivo che evidentemente essa aveva nei propositi di chi la propo-neva e, come ho detto, senza secondi fini ma con lo scopo premi-nente di costruire una via d’uscita dal blocco del sistema politico.Insomma: anche in quel periodo confuso ci fu chi riteneva che pro-prio dal buio obbligato dal clima emergenziale che incombeva,potesse scaturire, anche attraverso l’utilizzo del fuoco irripetibile in

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cui era immersa quella esperienza comunista, una risoluzione nonautoritaria né prevaricatrice ma anzi democratica e progressiva dellabattaglia a sinistra, tale da essere all’altezza dell’impegno rifondativonecessitato dalla complessità del sistema politico.

La risposta non ci fu, l’evoluzione si disperse e poi si incrinò finoal fallimento, emblematicamente rappresentato dalla modalità digestione della tragica vicenda di Moro e a cui seguì, con la suamorte, anche la scomparsa di un attore che forse avrebbe potutodire una parola importante nel completamento di questo disegno.L’arroccamento comunista (ma anche di un Andreotti al culminedella sua vis opportunistica) fu allora massiccio, traducendosi in unacostante polemica antisocialista, questa si pretestuosa perché nonseppe argomentare altro fuorché ripulse sdegnose e durissime. Equesta fu in fondo la semplice ragione che rese così cupo l’atteggia-mento dei comunisti nel corso della campagna elettorale del 1979,programmata appunto su di un percorso prevalentemente antisocia-lista.

Possiamo dunque facilmente immaginare quanto spocchiose esupponenti fossero le repliche di parte comunista allorché, nel lugliodel 1979, essi si trovarono di fronte a un Craxi risolutore, comoda-mente assiso al suo posto di presidente incaricato, al centro dell’au-stera sala destinata alle riunioni di governo alla Camera dei Deputa-ti, che li invitava a sostenerlo nella costruzione del programma «ri -formista» per il suo governo. Quel giorno Berlinguer, Perna e Nat -ta, così minuti, visibilmente sovrastati dalla stazza del loro interlo-cutore, sembravano incapaci di andare oltre la ripetizione di cortesifrasi di circostanza; ma chi li poté osservare da vicino non ebbe dif-ficoltà a leggere quello che pensavano realmente e che comunqueavevano ben scritto in faccia: «Caro Craxi, torna immediatamentenel tuo misero 9,8%, vattene a casa e facci tornare a lavorare in pace(con Andreotti o con qualsiasi altro democristiano praticabile)».

Eppure quello che contribuì allora più di ogni altra ragione a spin-gere Craxi all’azione, anche spericolata, non fu questa spocchiacomunista che egli doveva aver messo nel conto, bensì il suo inorri-dire di fronte ai rischi del vuoto politico, che egli vedeva amplificatodal permanere di una condizione costante di ingovernabilità. Fusoprattutto per questo che scelse allora di collocarsi su di una lineapolitica ancora praticabile, anche se non solidissima per se e per il suopartito, ma che constatava essere l’unica in grado di costruire ungoverno capace di stare con i piedi per terra e di agire responsabil-

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mente. Questa fu la scelta che fece allora, subito dopo le elezioni del1979, cercando di metterla in mostra con gradualità ma constatandosubito, anche a seguito della parte da lui recitata nella stessa gestionedella crisi, che essa era senza alternative. Di fatto era una scelta cherispondeva bene alla logica della sua politica e che egli poté consta-tare che si saldava utilmente anche con il suo desiderio di protagoni-smo, servendo insieme gli interessi del Paese e la crescita della sualeadership. Certamente si trattava di un quadro politico diverso,anche se non contrapposto, a quello che avrebbe potuto emergere daun atteggiamento comunista di altro segno, sia nei confronti del pro-tagonismo di Craxi che della politica di rinnovamento espressa dalpsi. Ma era comunque un quadro agibile e paritario: agibile per leambizioni e il protagonismo della nuova classe politica emergente trai socialisti, che era comunque fatta di stoffa buona come poté esseredimostrato in seguito; ed era anche decisamente paritario, quindi peri socialisti ancora più attrattivo rispetto alla tradizionale idea di coali-zione che sovraintendeva alla politica di alleanza della dc.

Questo era potuto accadere soprattutto perché, dal marzo 1980,i socialisti poterono appoggiarsi sulla nuova linea politica del«preambolo» emersa vincente al congresso della Democrazia Cri-stiana che si svolse allora a Roma: una linea nuova, non a caso co -struita dal partito dei cattolici sull’onda della chiamata strategicalegata alla scelta per gli euromissili, una scelta che proprio tre mesiprima aveva visto la figura di Craxi assumere un ruolo risolutivoaddirittura nel concerto europeo.

Questa della politica estera fu indubbiamente il tema e l’occasio-ne che fece di Craxi il protagonista centrale del sistema politicoemerso dopo i governi emergenziali dc-pci e che gli consentì di gui-dare quella che sarebbe stata l’ultima transizione della prima Repub-blica. Della sua importanza e del carattere decisivo che fece assume-re alla sua leadership egli ne fu immediatamente cosciente, fin dalprimo momento in cui i suoi compagni della spd e poi lo stesso Can-celliere Schmidt gli presentarono riservatamente la questione, senzatacergli i risvolti delicatissimi che ne derivavano sia rispetto alla poli-tica europea che allo stesso futuro equilibrio democratico nella Ger-mania Federale. Fu allora, nella tarda primavera del 1979, che Craxicomprese che quello poteva essere il passaggio decisivo proprio perl’affermazione sua e della sua politica, sia rispetto al sistema italianoche nei confronti dell’indispensabile accreditamento americano.

Per raggiungere questo obiettivo, che naturalmente condivideva,

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mosse allora le sue poche carte con prudenza estrema, sapendoassai bene che sul tema rischiava di essere messo in minoranza addi-rittura nel suo partito. Preparò quindi innanzitutto la posizionesocialista, utilizzando un suo fidato compagno, Lelio Lagorio, maanche appoggiandosi per la prima volta a Stefano Silvestri; ne sca-turì una posizione equilibrata capace di transitare senza troppirischi negli organi dirigenti, allora ancora pervasi da un richiamopacifista e terzomondista non sopito; e contemporaneamente si at -trezzò per fiancheggiare silenziosamente l’azione del presidente delConsiglio Cossiga. Ma, come ho detto, fu soprattutto nel rapportoche allora egli si costruì con gli Stati Uniti che quella vicenda diven-ne per lui decisiva. Io mi trovai allora, un po’ casualmente, a essereportatore di uno dei diversi messaggi riservati con cui l’Ammini-strazione americana - come era loro uso e costume, non penso soloin quel tempo- lo sollecitavano all’azione positiva, ne chiedevano ilsostegno, gli confermavano il loro giudizio circa la sua indispensa-bilità. Agli inizi di quel fatidico settembre del 1979, mi trovavo invisita negli usa su invito del governo usa e mi capitò di essere rice-vuto, senza preannuncio e con solennità per me inattesa, al Dipar-timento di Stato dove mi fu spiegato nel dettaglio l’importanza diquella decisione. Al termine dell’incontro il Sottosegretario perma-nente per l’Europa, un illustre ambasciatore che si chiamava Geor-ges Vest, mi prese da parte e mi spiegò senza perifrasi qual’era lapreoccupazione che li dominava. Parlando lentamente, credosoprattutto perché non ci fossero equivoci rispetto al mio inglesescolastico, mi sillabò: «stia bene attento, per noi dipende tutto daCraxi».

Era assolutamente così e il leader socialista seppe dare allora, sulpunto, una risposta all’altezza della sua importanza e fino alla vitto-ria piena e realizzativa, andando cioè oltre il voto positivo in Parla-mento nel dicembre del 1979; sia garantendo, da presidente delConsiglio, l’ installazione a Comiso dei missili di pertinenza italiana;sia avendo la soddisfazione, nel 1986, ancora da presidente del Con-siglio, di ascoltare da un Gorbaciov appena giunto al potere, duran-te il loro primo incontro moscovita, la conferma sovietica sul signi-ficato decisivo di quella scelta.

Ma veniamo agli argomenti contenuti nell’articolo da cui siamopartiti e che, come ho già sottolineato, può essere considerato cor-rettamente a parer mio come l’atto fondativo di questa politica: ecioè il testo apparso su l’«Avanti!» del 28 settembre del 1979. La

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riforma che Craxi intese allora proporre viene indicata da lui stessocome «grande» non perché essa si concentri nell’avanzare profondee radicali modifiche alle regole del gioco dettate dalla Costituzionedel 1948, ma perché sono «grandi» e «gravi» i rischi gravi cui laRepubblica sarebbe potuta andare incontro ove fosse proseguitol’andazzo di disperdere la forza della politica in un gioco a sommazero, cioè senza affrontare seriamente la sua riforma. Per questoquella che allora venne proposta dal segretario socialista fu, nellasostanza, una dichiarazione di alterità, preliminare rispetto a qualsi-voglia indicazione di merito rispetto ai contenuti di una riforma.

Per comprendere questo punto di partenza è sufficiente richia-mare alcuni brevi passi che egli mette in cima al suo ragionamento:«I bizantinismi e i tatticismi in cui si rotolano esponenti politici, par-titi e frazioni di partiti appartengono alla categoria del politicismo,mostrano un aspetto di decadenza del sistema»; e subito dopo:«quan do tutto si riduce all’alchimia delle formule, alla manovra at -torno alle combinazione, alla lotta per un potere in gran parte cor-roso, paralizzato o male utilizzato, siamo a un passo dall’attivismopar lamentare e a due passi dalla crisi delle istituzioni»; quindi, insostanza, «l’Italia non attraversa una crisi congiunturale di emergen-za», essa è di fronte «a un bivio storico».

Craxi intese dunque rendere ben chiaro che c’erano problemi chevenivano prima della riscrittura delle regole, della modifica dei mec-canismi legislativi o amministrativi, e anche dell’ammodernamentodi parti sostanziali dello stesso sistema politico o politico-istituzio-nale definiti nella Costituzione del 1947. Questi problemi intendesintetizzarli nel richiamo insistito alla governabilità democratica cheegli ritiene ormai giunta a un punto di crisi altissimo: in ciò certa-mente incrociando il sentimento di preoccupazione, allora moltodiffuso, che toccava tanta parte del Paese e che tendeva ormai a tra-vasarsi nella politica. Non era, sia chiaro, solo una preoccupazionedi tipo garantista, che sottolineava cioè unicamente i rischi connessicon la crisi democratica; l’accento egli lo posava soprattutto sullagovernabilità, ritenuto ormai un simulacro in balìa dell’impotenzaparlamentare e di governo, mossa e quasi indotta dalla crisi dei duepartiti dominanti.

Quello che avvenne dopo quel settembre 1979, i fatti politici cheaccompagnarono i mesi successivi fino al Congresso democristianodi inizio anni ottanta, anche con il concorso di altre vicende minori,gli sarebbero stati decisamente favorevoli. Da quella fase infatti la

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linea della governabilità avrebbe continuato a essere considerata l’u-nica praticabile, per lungo tempo e per le medesime ragioni che egliaveva visto chiarissime nel luglio del 1979 negli occhi dei suoi inter-locutori comunisti (ma anche democristiani) seduti in successione difronte al suo tavolo di presidente incaricato. È pur vero che con l’av-vicinarsi della fine di quella viii Legislatura, dopo averne inventatedi tutti i colori (basti ricordare il balletto del «governo degli onesti»,recitato a lungo nel 1981-1982 in accoppiata con Visentini e conl’appoggio di uno Scalfari ormai decisamente antisocialista e impe-gnato alla costruzione del «mostro» che avrebbe trasformato Repub-blica in un «partito irresponsabile») il pci e lo stesso Berlinguer av -viarono una fase di ripensamento che ebbe anche qualche ricadutanel rapporto a sinistra, con alcuni fatti che sembrarono riaprire unospiraglio al desiderio, mai sopito in Craxi, di vedere riaprirsi uncanale di disponibilità nel dialogo con il pci.

Di fronte a quel mare di chiacchiere e al ricordo di tanti altri inu-tili balletti che le accompagnarono, è utile invece richiamare un testocraxiano limpidissimo, non a caso contemporaneo con la granderiflessione che il psi fece alla Conferenza di Rimini del 1982, e cioèil momento in cui si ebbe una riproposizione e un aggiornamentocompiuto dei temi della «grande riforma». È l’intervento che ilsegretario del psi pronunciò il 31 agosto 1982 alla Camera dei Depu-tati, nel dibattito per la fiducia al «governo fotocopia», e cioè del iigoverno Spadolini. In quel discorso possiamo infatti ritrovare l’inte-laiatura aggiornata del cantiere proposto il 28 settembre del 1979; dipiù, ci fu allora, come ho richiamato, anche un appello esplicito alpci per concorrere a ricercare una definizione innovativa di «quadropolitico», riguardata dal lato della riaffermata necessità di giungerecosì a un rinnovamento compiuto del sistema politico. Craxi allorarilevò, «tentando di gettare uno sguardo verso il futuro», che nonriusciva a intravedere nell’evolversi del sistema politico «vie diverseda quelle di un vero e nuovo centro-sinistra o di una vera alternati-va». Per la prima soluzione, dichiarò, non si doveva pensare di ritro-varsi nelle esperienze del passato, giacché avevamo ormai di fronteuna realtà profondamente innovativa, per cui il nuovo centro-sini-stra doveva fondarsi non solo sui numeri bensì «sulla qualità dellaricerca di una nuova linea d’incontro tra le istanze del centro politi-co e le istanze della sinistra» politicamente considerate; per quantoriguardava l’altro corno del dilemma, dichiarò con semplicità: «unanuova alternativa non potrebbe in nessun modo riflettere una riedi-

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zione frontista, ma semmai potrebbe essere immaginata come unavasta articolazione di forze democratiche su presupposti non equi-voci, in alternativa al partito di maggioranza relativa cardine perdecenni, nel bene o nel male, di tutte le maggioranze politiche che sisono succedute nella vita della Repubblica».

Oggi siamo in grado di constatare che, cronologicamente, questafu l’ultima chiamata pubblica del leader socialista rispetto alla solu-zione del rapporto che intercorreva tra la riforma del sistema politi-co e le forze necessaria per realizzarlo. Da parte di Craxi dopo quel-l’appuntamento di metà 1982 ci fu infatti solo la dimostrazione, perquattro anni, di cosa si potesse fare governando bene con la dc; aessa seguì il momento della presa d’atto del punto oltre il quale nonsi potesse praticamente più andare per costruire la riforma, giacchéil blocco del sistema politico aveva raggiunto una tale pervasività edurezza che per evitare la crisi sistemica accorreva scegliere di anda-re oltre l’impotenza dei due partiti maggiori e appellarsi direttamen-te al popolo. Come fu chiaro nel febbraio-marzo del 1987.

Quando Craxi morì in esilio, nel gennaio del 2000, non tutti inecrologi scritti dai maggiori opinionisti furono polemici e in queigiorni non riecheggiò automaticamente la violenza demagogica egeneralizzata che lo aveva accompagnato puntualmente per tutti glianni del crollo. Al contrario, alcuni di quei commenti furono addi-rittura equilibrati, improntati a un distacco costruttivo nel valutarela sua opera politica, in specie da parte di coloro che si vollero ricol-legare alla vicenda di cui ci stiamo occupando, cioè alle conseguen-ze sistemiche della crisi politica e al risvolto importate rappresenta-to dalla linea craxiana denominata della «grande riforma».

Tra questi ultimi mi colpì il ricordo che scrisse Stefano Folli, sulCorriere della Sera del 20 gennaio 2000. Egli sottolineò allora comesarebbe stato molto più corretto retrodatare il momento della scon-fitta di Craxi a quella fase, appunto al febbraio-marzo del 1987, chenon al 1989 o all’usuale 1992; che occorresse cioè tornare indietro almomento in cui il leader socialista, uscito vincitore dall’esperienza digoverno, si consegnò alla volontà cocciuta del segretario democri-stiano De Mita, ma anche di tutta la dc, concedendo le dimissionidel suo governo e rifiutandosi di andare invece all’appello al popo-lo, per il cui sbocco era legittimato dalla splendida stagione di gover-nante che aveva alle spalle. Il giudizio che Folli espresse allora è cer-tamente interessante, specie se lo iscriviamo nel ragionamento cheabbiamo fatto fin qui. Egli aggiunse che Craxi in quel tornante deci-

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sivo «non seppe o non volle capire che la sua figura aveva già spez-zato i vincoli e le gabbie di un sistema partitico (o francamente par-titocratico) ormai logoro»; e che quindi «non fu abbastanza corag-gioso o semplicemente innovatore». Allora, concludeva Folli, per«prudenza istituzionale», Craxi si «arroccava nella gabbia partito-cratica», fino a diventare paradossalmente il difensore di un sistemache in realtà si reggeva ormai sulla negazione del ruolo suo e del suopartito.

C’è molto di vero in queste parole dell’ex-direttore del Corrieredella Sera. Oggi possiamo riconoscere che con la fine del governoCraxi era venuta a esaurirsi la funzione straordinaria di supplenza cheesso aveva saputo garantire, durante i quattro anni della sua gestione,nei confronti di un sistema politico-istituzionale che ormai era defi-nitivamente scomposto. Una leadership forte, che aveva dimostratodi non essere condizionabile da mandarinati e doroteismi; l’aperturaai ceti e agli interessi emergenti; il corto circuito che conseguente-mente si era innestato in consociazioni e corporazioni; l’impraticabi-lità di nuovi equilibri e la precarietà di quelli esistenti; e infine ancheun forte aumento della corruzione, in qualche maniera fisiologico percome il sistema si era trasformato e fortemente sviluppato.

La «prudenza istituzionale» che, secondo questo commentatore,Craxi espresse nell’1987 credo possa dimostrare ancora oggi le con-vinzioni profonde che lo pervadevano e che si saldavano alla suaforte tempra di democratico; anche se tutto ciò non può diminuirel’errore e la responsabilità che egli assunse con quel grave errorepolitico, pur se compiuto perché mosso da grande «prudenza istitu-zionale».

Noi oggi possiamo aggiungere qualcosa di più di Folli, avendoloconosciuto e capito nel profondo. Craxi era un socialista figlio delpartito, che amava il suo partito e che per cultura e vita vissuta nonconcepiva la politica fuori dai partiti. Per questo non poteva tra-sformarsi d’un colpo in un populista, dimentico della sua storia ecapace di tagliare all’improvviso le radici da cui era nato; per questonon poteva essere lui a buttare all’aria un tavolo che riteneva di averfortemente contribuito a preservare e che probabilmente considera-va ancora utilizzabile per la politica.

Egli rimase fermo in questa convinzione per tutti gli anni a veni-re, almeno fino al ritiro nel suo esilio tunisino. È evidente la sua sot-tovalutazione (ma che non fu solo sua) della gravità della crisi e dellacomprensione del livello di decomposizione a cui era giunto il siste-

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ma politico. Questo errore di fondo gli fece attraversare i cinqueanni dell’apparentamento con Andreotti e Forlani, e che si conclu-sero con le elezioni del 1992, come se corresse in una nebbia, senzapiù punti di riferimento, guidato apparentemente solo da un ideacentrale, fissa e costante: quella della attesa della Legislatura chesarebbe venuta, una Legislatura in cui, venuto finalmente il suoturno nella anacronistica «staffetta» con la dc, avrebbe avuto inmano gli strumenti necessari per governare il processo di rinnova-mento e quindi anche per attuare la «grande riforma».

Questa mancanza di visione lo portò agli errori del 1991 e allescelte cruciali del giugno e luglio del 1992. Certamente, nel perse-guire il suo obiettivo non fu aiutato dalla sua tradizionale abilità, fintroppo esaltata, di prevedere e anzi di anticipare lo sviluppo deglieventi; ma nel favorirlo in questi errori un ruolo non secondariosvolse la tenacia ingannatrice dei nuovi comunisti guidati da Occhet-to, ormai legati da un patto generazionale che non aveva più nulladella dignità politica dei vecchi comunisti antisocialisti.

Pur posto di fronte alla vastità della crisi politica esplosa nel 1992egli continuò comunque a dar prova di una forte responsabilità isti-tuzionale e anche di una lucida preveggenza, per esempio rispetto airischi democratici a cui si andava allegramente incontro nel varare inuovi meccanismi elettorali, considerati come una comoda via d’u-scita, anzi una scorciatoia aperta dai «nuovisti» per guadagnarcianche nel passaggio alla seconda Repubblica, senza preoccuparsi dirinnovare le fondamenta della casa anzi contribuendo a minarle ulte-riormente.

Nella documentazione del volume è riportato un suo interventodel 12 novembre 1992 svolto nella sede della commissione bicame-rale per le riforme istituzionali e dedicato alla scelta del sistema elet-torale. Rinviando al testo, che riporta le parole allora pronunciate daCraxi, vorrei ricordare che in quella sede gli replicò Mario Segni,che riconobbe a Craxi «di aver detto alcune cose chiare e cioè chesiamo di fronte a una scelta, che su quella scelta non sono pensabilisoluzioni di compromesso, e che quella scelta va compiuta».Entrambi pensavano infatti che il nodo della scelta tra proporziona-le e maggioritario «non è un salame che si taglia a metà», ed entram-bi diffidavano della confusione con cui s’intendeva allora copriremediazioni molto pasticciate. Come che sia, quella riforma elettora-le non la fecero allora né Segni né Craxi; la fece Mattarella dopo untacito accordo fra De Mita e Occhetto, introducendo un sistema

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misto che è per parte sua all’origine del sistema maggioritario e oli-garchico che ci delizia al presente.

In qualsiasi modo si intenda valutare quella fase così travagliata,penso che possiamo concludere il ragionamento che abbiamo pro-posto constatando semplicemente che quel che ne è venuto di con-seguenza, nei quindici anni che seguirono, si collochi su tutt’altropiano rispetto alla «grande riforma» di Craxi. Oggi forse, le sue lineeportanti potrebbero essere considerate un po’ datate; ma la diagno-si che l’ispirava e ne sosteneva l’architettura certamente no.

Per parte sua, Bettino Craxi avrebbe concluso la sua esperienzapolitica proprio in quella fase e tornando a riproporre, con il suocelebre discorso alla Camera dei Deputati del 3 luglio del 1992, tuttele ragioni della sua posizione politica, attraverso una esposizione insé compiuta e con una modalità tale che ancora adesso ci fanno rico-noscere in lui la grandezza di statista e la figura di socialista coeren-te e vero.

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LA «GRANDE RIFORMA» DI CRAXI

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IL PSI E LA RIFORMA DELLE ISTITUZIONI

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I tardi anni settanta sono quelli che cambiano proprio l’angolatu-ra del rapporto con le istituzioni e del modo in cui esse sono viste, eimpostano un binario sul quale si è lavorato per tutti gli anni suc-cessivi, non suturando mai, però, quella frattura tra visioni diverse dicui ora parlerò, e che emerge fin dall’inizio del discorso sulla rifor-ma istituzionale. Dico questo per sottolineare che per una volta èvero ciò che non sempre è vero, e cioè che c’è una grande attualitàdi questo passato, perché è un passato sul quale si è impostata unadistorsione che è ancora presente nel nostro sistema.

La premessa è da tutti conosciuta: per moltissimi anni all’assettocostituzionale si chiede soltanto di assorbire pian piano le differen-ze drastiche che vi sono all’interno del sistema politico, evitando dicreare squilibri che possano pregiudicare la sutura della frattura chec’è tra le identità politiche su cui nasce la Repubblica, che sono fradi loro fortemente contrapposte. Qualcuno aveva notato che nellaCostituzione, e soprattutto nell’attuazione che la Costituzione avevaavuto, c’erano più checks and balances che poteri di governo, e chequesto non era casuale, perché la Costituzione della Repubblica(nata dall’unità delle forze antifasciste, come dice una formula chesi ripete in migliaia di testi) in realtà ha sotto di sé identità ideologi-camente contrapposte su un crinale molto profondo. C’è la Demo-crazia cristiana, legata all’Occidente e a forme democratico-liberalidi organizzazione della società e delle istituzioni; e c’è un Partitocomunista, al quale inizialmente il Partito socialista è legato, chevede la Co stituzione come il veicolo che possa portare alla fuoriu-scita dal ca pitalismo; in più esplode la guerra fredda, che ancora la

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Democra zia cristiana all’Occidente e il Partito comunista all’Unio-ne Sovietica.

Perciò quando le sinistre escono dal governo durante l’Assembleacostituente si manifesta un atteggiamento delle diverse parti volto acostruire un sistema il più equilibrato possibile, il meno idoneo a darforza a chi governa perché nessuna delle due parti sa chi vincerà: l’u-nico punto di intesa tra le due è garantire il perdente. Di qui la scel-ta netta non solo per il sistema parlamentare, ma anche per un siste-ma parlamentare non corretto dai dispositivi utili a evitare le dege-nerazioni del parlamentarismo, nonostante questi dispositivi fosseroprevisti dal famoso ordine del giorno Perassi, che rappresentò ilpunto di incontro tra chi voleva una forma di governo forte e chivoleva una forma di governo più cauta.

Questi dispositivi c’erano in altre Costituzioni del dopoguerra. Lanostra Costituzione, dal punto di vista puramente cronologico, ècoeva a una Costituzione francese, quella del 1946, che, per la veri-tà, è ancora più blanda della nostra, però la Francia aveva già nelcassetto una Costituzione pronta che adotterà non molto tempodopo, nel 1958, e che rafforzerà di molto il potere di governo. Men-tre l’altra coeva, la Grungesetz tedesca, nata certo in condizionidiverse dalla nostra, è una Costituzione che si preoccupa molto digarantire chi governa: mozione di sfiducia costruttiva; cancelliereche è l’unico che ha la fiducia e che sceglie i ministri e definisce ledirettive di governo; addirittura partiti di estrema, incostituzionali;sistema elettorale che, per quanto proporzionale, ha una clausola disbarramento al 5% e tende a favorire, attraverso i collegi uninomi-nali, una bipolarizzazione che, in qualche modo, prenderà corpo inGermania.

Quindi la nostra è una Costituzione volutamente debole, e nessu-no se ne lamenta perché deve servire ad assestare il sistema politico.E questo è, se volete, il suo miracolo: la sua debolezza, il suo natu-rale andare a parare sulla centralità di un Parlamento che è più fortein realtà del governo, sono caratteristiche che vengono utilizzate persuturare la frattura.

Io ho sempre molto apprezzato il fatto che buona parte delmondo gravitante attorno al Partito comunista, attraverso la pro-gressiva frequentazione delle regole procedurali della democraziaparlamentare, ha finito per acquisire anche le regole sostanziali checi stanno sotto, e per allontanare sempre di più quell’ipotesi di fuo-riuscita che era un’ipotesi molto presente nella fase iniziale. Accade

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però che, col passare degli anni, con i tanti fenomeni che accompa-gnano la crescita della società (la pluralizzazione delle organizzazio-ni rappresentative, la nascita delle Regioni, il rafforzamento delle au -tonomie locali), il sistema diventa palesemente un sistema che favo-risce, al di sopra di ogni altra cosa, la raccolta dei consensi attraver-so le procedure decisionali, ma non il raggiungimento della decisio-ne: sembra cioè essere oggettivamente molto più importante che cisi trovi d’accordo attraverso una procedura dai tempi indefiniti chenon che si arrivi al risultato.

È molto interessante, proprio in termini di cambiamento di cul-tura collettiva, che nei tardi anni settanta, dire queste cose incon-trasse un consenso quasi generale, come se la paura del tiranno,come la chiamai io in quegli anni, fosse molto diminuita e si sentis-se il bisogno di una democrazia che, oltre a manifestare capacità diconvergenza di consensi, manifestasse anche capacità di decidere.

Per anni questo bisogno non era stato sentito perché evidente-mente la preoccupazione di dar forza a un possibile tiranno prevale-va. Se si arriva a veder prevalere il bisogno di governo, e quindi didemocrazia decidente, rispetto al bisogno di democrazia rappresen-tativa, vuol dire che è svanita la paura del tiranno.

Questo comincia ad accadere nei tardi anni settanta, e su questoè fondato in effetti il consenso che ha Craxi nel lanciare la «granderiforma». «Grande» è un aggettivo che come tale in fondo non diceassolutamente nulla: evoca una cosa grande assai, ma il vero sostan-tivo che sta dietro questo «grande» è «decisione». Il paese sta cam-biando, c’è bisogno di governarlo, c’è bisogno che sia governato,dobbiamo attrezzare il sistema, oltre che a raccogliere consensi, aconseguire decisioni. Siccome la personalità di chi esprime questomessaggio è proprio una personalità caratterizzata soprattutto inquegli anni da una palese, trasparente, propensione alla decisione ealla capacità di decidere, il consenso che si raccoglie attorno al mes-saggio e attorno al personaggio è l’espressione di questo cam -biamen to che è intervenuto in Italia: non se ne ha paura, lo si ritie-ne anzi utile.

Ovviamente c’è una sfasatura. Da parte della sinistra inizialmen-te c’è una reazione che tende a mantenere in piedi la paura: per par-lar chiaro il pci arriverà con circa dieci anni di ritardo sulla stessalunghezza d’onda; ci arriverà, ma ci arriverà quasi alla fine degli anniottanta. Io su questo ho fatto un lavoro, insieme a dei collaboratori:seguendo in parallelo le proposte di riforma istituzionale del psi e

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quelle del pci, si vede proprio che il pci arriva in parte agli stessipunti, ma ci arriva sfalsato di alcuni anni. In effetti la digestione delfenomeno è molto lunga, e lo porterà ad accettare questo impiantoquando arriverà ad accettare la democrazia dell’alternanza, che evi-dentemente porta con sé un diverso assetto del potere di governo.Ma ci vorrà del tempo perché a questo si arrivi, e il veicolo sarà lariforma elettorale.

Chiarito questo, i binari sui quali si viene impostando il meritodella «grande riforma» socialista sono due, ed è bene averlo presen-te: sono entrambi compresenti nel psi ma questo non ha mai dichia-rato qual era il suo binario principale, se li è tenuti tutti e due e poiha finito per far prevalere quello che io considero più morbido. Ibinari sono dunque due: uno è quello che fu esplicitato in sede isti-tuzionale, per la prima volta in modo trasparente e formale, nelcosiddetto «decalogo Spadolini», attorno al quale si realizzò uncerto consenso. Il «decalogo Spadolini» prevedeva la riduzione delvoto segreto in Parlamento, la possibilità del presidente del Consi-glio di scegliere autonomamente i ministri, la riduzione del ricorsoai decreti legge, la corsia preferenziale per i disegni di legge gover-nativi: tutte cose che oggi ci en trano in un orecchio e ci escono dal-l’altro, perché la testa già le conosce benissimo; ma l’idea era quelladi ridurre quella sorta di pa lude nella quale sistematicamente cadein Parlamento l’attività di governo, rafforzando i congegni che per-mettono al presidente del Consiglio di mantenere più forte un indi-rizzo nel governo e al governo nel suo insieme di avere in Parlamen-to uno spazio per tradurre effettivamente questo indirizzo in legge.

Questa verrà chiamata la formula «neoparlamentare»: la forma digoverno resta parlamentare, ma all’interno di questa forma di gover-no si adottano dei congegni che rafforzano il governo stesso, che èpiù forte rispetto ai primi trent’anni di vita repubblicana perché pro-prio quei trent’anni erano stati segnati dalla volontà di mantenere ilgoverno debole in nome della paura del tiranno.

L’altra ipotesi, che è quella presidenziale, ha un’altra angolatura.Se ci riflettete, il «decalogo Spadolini» non si pone il problema diquali sono i rapporti reciproci tra i partiti: è ancora un sistema poli-tico centripeto, o è un sistema politico che muove attraverso l’alter-nanza tra due coalizioni contrapposte? A questo quesito non rispon-de il «decalogo Spadolini», che è un fatto tutto endoistituzionale cheprescinde in qualche modo dai rapporti tra i partiti e lavora con lacassetta degli strumenti.

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L’ipotesi presidenziale è un’ipotesi più ambiziosa: vede una levaistituzionale, l’elezione diretta del presidente della Repubblica, eritiene che con essa si possa cambiare il sistema dei partiti e spinge-re a coalizioni alternative, creando allo stesso tempo una figura chenonostante le coalizioni alternative goda tuttavia di una legittima-zione nazionale. Questa ipotesi quindi ha due ambizioni: la prima èquella di realizzare, con un bypass, un risultato di alternanza chespetterebbe alla legge elettorale costruire, ma che in quegli annisembrava assolutamente impossibile poter ottenere passando attra-verso sue modifiche. L’elezione di un presidente genera necessaria-mente due coalizioni perché alla fine ci saranno due candidati. Pre-scindo dalle technicalities su cui l’ipotesi poteva essere costruita –poteva essere a turno unico, poteva essere a due turni (probabil-mente a due turni come negli altri paesi) – fatto sta che alla fine cisarebbero stati due candidati, difficilmente ce ne sarebbero stati tre:allora avremmo avuto una coalizione che sostiene uno, e una coali-zione che sostiene l’altro. Ma, lo ricordo bene, noi pensavamo chequesto non dovesse spaccare il paese, bensì realizzare la possibilitàdi cui l’Italia aveva bisogno: che un qualcuno eletto da una maggio-ranza rappresentasse tutta la nazione, perché questo risolveva il pro-blema storico dell’Italia, cioè quello di una identità nazionale maicompiuta, perché in realtà sostituita o prevaricata da identità diparte, che è un antichissimo problema italiano, rinverdito nel dopo-guerra dalla prevalenza su una identità comune di formazioni parti-tiche forti e ideologicamente contrapposte.

Quindi c’era un disegno piuttosto ambizioso che in effetti in talu-ne formulazioni non sempre emergeva, perché noi non fummo maiestremamente netti e decisi nel definire i poteri del presidente elet-to dal popolo. Raramente proponevamo il sistema presidenziale,cioè con il presidente capo del governo come è negli Stati Uniti, maoscillavamo tra un sistema semipresidenziale alla francese, o un siste-ma che lasciasse inalterati i poteri attuali, che andava benissimo, per-ché chi ha una forte legittimazione è un forte presidente di garanzia.Questa, per esempio, fu l’ipotesi che Salvo Andò portò nella Com-missione Bozzi, dove in rappresentanza del psi sostenne l’elezionediretta di un presidente di garanzia.

Ci possono essere svariate ragioni non particolarmente gratifican-ti per questa che si può considerare una incertezza nella definizionedell’oggetto. Però c’era anche (a distanza di anni si può essere ancheun po’ generosi, oltre che ingenerosi, col proprio passato) la convin-

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zione che ciò che contava erano le due cose di cui prima parlavo: laprima era l’organizzazione di due coalizioni che poi si sarebbero ri -baltate anche sulle istituzioni più immediatamente politiche (questoera il processo che era intervenuto in Francia, dove addirittura leele zioni presidenziali erano state occasione di nascita di partiti poipresenti in Parlamento, come accadde con Giscard d’Estaing, cheviene eletto senza un partito e lo farà nascere dal sostegno ricevutonell’elezione presidenziale); la seconda era l’idea che un presidentedi garanzia sarebbe stato ancora meglio per realizzare la secondafinalità, la democrazia dell’alternanza, perché noi avevamo moltochiaro nella testa che l’elezione diretta, proprio perché divideva indue coalizioni, presupponeva un tessuto comune. Infatti solo chiaves se una radicata e consapevole identità nazionale poteva permet-tersi le due coalizioni contrapposte, che altrimenti diventavano unfat tore centrifugo in un paese in cui il trend centripeto era stato es -senziale per la sua stessa sopravvivenza. Bisognava essere centripetiin un altro modo, perché un paese maturo è un paese che riesce aessere sufficientemente centripeto pur organizzando il suo assettopo litico su coalizioni contrapposte.

Sta di fatto (per farla breve su questo passaggio, peraltro moltoimportante) che noi camminammo su entrambi i binari. Dicevoprima che nella Commissione Bozzi (che nasce nell’ottobre del 1983,quindi tre mesi dopo il governo Craxi, in sostanza nasce con la legi -slatura) Salvo Andò, a nome del psi, porta l’ipotesi presidenziale digaranzia, con quelle implicazioni strutturali (usiamo questo termine)di cui prima parlavo; mentre il governo Craxi si era presentato inParlamento con un programma nel quale veniva ripreso e ribadito il«de calogo Spadolini».

Naturalmente le due diverse prospettive si potevano comporre,dicendo che in ogni caso andava rafforzato il potere di governo. Noisocialisti, fin dalla nascita, viviamo tra programmi minimi e pro-grammi massimi, quindi non abbiamo alcuna difficoltà a farli convi-vere, in effetti, e sappiamo dare un senso al possederli entrambi (lodico perché stamane, qui, siamo in famiglia e si può scherzare sullenostre virtù come se fossero vizi): nel caso, si poteva tenere ferma laprospettiva dell’elezione diretta, ma comunque sostenere che il po -tere di governo andava rafforzato, la corsia preferenziale ci voleva, ilvoto segreto andava se non eliminato ridotto, eccetera.

Questo doppio binario rimarrà lungo tutta l’esperienza degli anniottanta. La prima Rimini, quella giustamente più famosa, quella del

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1982, è una Rimini che non parla di ipotesi presidenziale. Io nonc’ero, perché in quei mesi ero negli Stati Uniti, e forse questo hapesato; ma è un dato di fatto che la materia istituzionale, affidataprincipalmente a Enzo Cheli e a Federico Mancini, viaggiò sul bina-rio del «decalogo Spadolini». Poi io, di ritorno dall’America, rilan-cio l’ipotesi presidenziale, anche se poi, da sottosegretario alla presi-denza, mi guardo bene dall’insistere, perché farlo è del tutto incoe-rente con i compiti del sottosegretario alla presidenza. Ma quell’i-potesi la rilancerà più di una volta lo stesso Craxi, per poi in effettirimetterla nel cassetto.

Ho raccontato in una precedente occasione del modo non parti-colarmente carino con cui mi fu notificato che nella campagna elet-torale del 1987 non se ne doveva parlare: avevamo, alcuni di noi, ilcompito di preparare gli spot in materia istituzionale; quella voltaeravamo due Giuliani insieme, io e Giuliano Vassalli, che arrivammoagli studi della Dear tv, quella che stava sulla Nomentana, per regi-strare gli spot. Io avevo preparato il mio intervento sul presidenzia-lismo, ma un giovanotto che stava lì mi disse che quello sul presi-denzialismo «nun se doveva fa»; così appresi che la campagna elet-torale sarebbe stata impostata diversamente.

Questo dimostra che, appunto, c’è stata una oscillazione. Quelloche conta, però, è che il «decalogo Spadolini» nelle mani di Craxi edel suo governo non restò un programma senza conseguenza. Alcontrario, ci si lavorò concretamente, e se i libri di storia attribuisco -no alla legislatura successiva, giustamente, la riduzione del voto se -greto in Parlamento (perché arriva nel 1988, insieme con la legge sulprocedimento amministrativo, la 241, e la legge sulla presidenza delConsiglio, la 400), io posso testimoniare che tutto questo nel 1988non sarebbe accaduto se non ci avessimo lavorato quotidianamentecon il governo Craxi, per cui questi li considero frutti del la voro diquel nostro governo. D’altra parte, conoscendo la non fulmineitàcon la quale riforme di questo tipo riescono ad andare in porto, sequeste riforme approdano nel 1988 vuol dire che sono state nel ven-tre materno non per i mesi, ma per gli anni necessari a questo tipodi gravidanza.

In effetti, del resto, a Palazzo Chigi noi costituimmo delle Com-missioni di studio. Era la Commissione presieduta da Franco Pigaquella che preparò lo schema per la riforma della presidenza delConsiglio, era una Commissione presieduta da Mario Nigro quellache preparò la riforma del procedimento amministrativo; e Craxi si

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spese con durezza contro il voto segreto, in un clima in cui non eraancora intervenuto l’allineamento del pci (perché la sfasatura tem-porale di cui ho parlato coincide con gli anni del governo Craxi).

La battaglia fu vinta quando la riprese De Mita. È singolare osser-vare come questi due uomini non si siano mai voluti bene, perchéavevano ipotesi politiche diverse, ma convergessero nelle soluzioniistituzionali, perché avevano entrambi il senso della funzione digoverno. Infatti bisogna dire che De Mita spese tutto se stesso perottenere il cambiamento del regolamento parlamentare e anche lalegge sulla presidenza del Consiglio.

Certo è che, esaurita questa ricognizione di quello che noi abbia-mo fatto, è interessante raffrontare il seguito con ciò che era inclusonel nostro, mai interamente confezionato, pacchetto presidenziale: lìdentro c’era l’idea dell’alternanza, l’idea dell’identità nazionaleforte, l’idea di una forza che non è prestata dai partiti alle istituzio-ni, ma che entra nelle istituzioni e le consolida. Questa strada non èstata seguita, noi abbiamo continuato a navigare con le riforme cheio chiamai «dei rami bassi» (appunto i regolamenti parlamentari e lapresidenza del Consiglio), ma non abbiamo mai riformato l’assettocostituzionale, salvo fare a un certo punto, perché era esploso ilsistema dei partiti, quello che era parso impossibile nei tardi annisettanta, e cioè modificare la legge elettorale.

Che cosa è successo dopo? È successo che in un certo momento,sulla base di una botta di dinamite referendaria, si è fatto saltare ilvecchio sistema elettorale e lo si è sostituito con uno nuovo al qualesono state attribuite grandi virtù taumaturgiche: un sistema cherestituiva ai cittadini le scelte prima delegate ai partiti, che facevascegliere loro coloro che eleggevano in Parlamento e i governi chene sarebbero derivati, eccetera.

È un po’ un paradosso che, lungo questa scia, siamo arrivati a unsistema elettorale nel quale quattro persone scelgono coloro cherisulteranno eletti, si fa per dire, in Parlamento. Questo è uno deisottoprodotti peggiori di quella vicenda. Ma in realtà anche il pro-dotto principale risulta diverso da quello che era stato promesso.Abbiamo caricato il partito che vince le elezioni (e il suo leader) diun plus potere politico che deriva dalla scelta diretta dei cittadini,ma che non è mai stato costituzionalmente riconosciuto. Abbiamocioè creato un sistema nel quale il futuro presidente del Consiglio ègià acquisito, una volta ottenuto il risultato elettorale, e il fatto chedebba essere scelto dal capo delle Stato dopo aver fatto le consulta-

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zioni lo viviamo come una finzione necessaria, dal momento che ilsistema costituzionale non lo abbiamo toccato neanche in una vir-gola.

Vado alle conseguenze di questo che è accaduto. È accaduto quel-lo che l’ipotesi presidenziale (non nel modo in cui l’avevamo elabo-rata, perché non l’abbiamo mai elaborata in modo univoco, ma inciò che ci aspettavamo di realizzare attraverso di essa) avrebbe fattoaccadere in modo completamente diverso. Oggi abbiamo un nuovosistema politico che prevede che a Palazzo Chigi sieda un capo delgoverno, non un presidente del Consiglio primus inter pares. Abbia-mo quindi un vero e proprio capo del governo che però in base allaCostituzione è solo un presidente del Consiglio primus inter pares, ilquale dispone di un plus potere rispetto a quello che la Costituzio-ne prevede, un plus potere che ovviamente la Costituzione non rico-nosce, ma che c’è.

Il fatto che sia stato modificato il sistema elettorale, quindi l’am-bito nel quale si muove la politica, ma non siano stati modificati gliequilibri istituzionali, fa sì innanzitutto che vi siano equilibri politiciche sono squilibri rispetto agli equilibri costituzionali. In secondoluogo il governo, forte di questa legittimazione esclusivamente poli-tica, ma non avendo trovato formule costituzionali capaci di raffor-zarsi rispetto al Parlamento, oggi si è rafforzato da solo, deforman-do la Costituzione in modo assolutamente abnorme.

Ricordo che Craxi era tentato dal «voto bloccato» previsto dal-l’articolo 49 della Costituzione francese. Gli piaceva l’idea di poterdire «questo è il disegno di legge, io arrivo in Parlamento e dicoprendere o lasciare, non si fanno emendamenti, perché pongo tuttala mia responsabilità politica su questo testo». Io lo convinsi che nonera il caso, che passare da un estremo all’altro mi sembrava eccessi-vo, che il Parlamento non lo si può trattare così. Lui si convinse per-ché era intelligente, e lo dimostrava anche quando aveva a che farecon le questioni istituzionali. È del resto una cosa che mi colpì sem-pre di lui. Craxi diventò presidente del Consiglio non avendo pre-cedenti esperienze con gli apparati di governo. All’inizio, quindi,benché allora vigessero ancora le regole costituzionali e quindi il sot-tosegretario alla presidenza dovesse stare zitto in Consiglio dei mini-stri, limitandosi a verbalizzare, io ebbi più occasioni di parlare, per-ché conoscevo la macchina meglio del presidente.

Alla terza riunione del Consiglio dei ministri, però, io rimasi zitto,non perché qualcuno mi avesse intimidito, ma perché non c’era al -

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giuliano amato

cun bisogno che aprissi bocca dal momento che il presidente delCon siglio aveva già fatto il rodaggio. E proprio avendo imparato aconoscere la macchina si convinse di quello che in Italia è l’argo-mento principe (e secondo me tanto più lo è rimasto) per evitare ilvoto bloccato alla francese: che questi testi sono fatti da burocrazierispetto alle quali, spesse volte, è molto meglio la burocrazia parla-mentare, perché se si priva il testo di quell’apporto dialettico che glipuò venire in Parlamento, poi, quando è troppo tardi, ci si trova alleprese con cose sbagliate che non funzionano.

Craxi ha rinunciato al voto bloccato, ma dopo di lui la Repubbli-ca italiana ha fatto strame della Costituzione, trasformando intereleggi finanziarie in un unico maxiemendamento e schiaffandoci lafiducia sopra. Questa è proprio una devianza gigantesca rispetto atutte le regole che sono in gioco, fiducia, approvazione dei singoliarticoli, eccetera. La Costituzione è piegata al plus potere che deri-va dal sistema elettorale.

Io sono un vecchio giurista e sono rimasto affezionato per i decre-ti legge alla tesi di Carlo Esposito, grande maestro di tutti i costitu-zionalisti della mia e delle generazioni successive. Esposito descrive-va il profilo del decreto legge dicendo che esso è un atto adottato daun organo incompetente a legiferare, che è il governo. Giustamentela Costituzione affida questa facoltà al governo in casi di assolutaurgenza, perché se c’è una situazione d’urgenza il governo, più delParlamento, è in condizioni di agire ad horas, mentre il Parlamento,per come è fatto, non può. Ma proprio perché il decreto legge è adot-tato da un organo incompetente sotto la spinta della necessità, èessenziale che poi ci sia la condivisione parlamentare, perché puòentrare stabilmente nell’ordinamento solo perché il Parlamento lo havoluto, dal momento che competente a legiferare è il Parlamento.

Alla luce di questa tesi vi pare possibile che i decreti legge uno lifaccia, ci aggiunga i maxiemendamenti, e poi ci metta pure la fidu-cia? Questo è proprio il mondo alla rovescia, è l’incompetente checostringe il competente a fare quello che l’incompetente ha deciso.Non voglio parlare, sia chiaro, a favore del governo debole, e quin-di negare tutto quello che è accaduto in questi trent’anni; ma sotto-lineare che il rafforzamento del governo avvenuto al di fuori di unariforma costituzionale compiuta ed esclusivamente come conse-guenza di un mutamento dei rapporti politici scaturito dalla leggeelettorale ha creato un sistema che si può, con termine tecnicamen-te appropriato, definire mostruoso.

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Perciò noi oggi da questo sistema dovremmo uscire. Non dicoriprendendo l’ipotesi presidenziale, non lo ritengo necessario, ma al -meno trasferendo in Costituzione l’ipotesi neoparlamentare, perdare al potere della coalizione vincente una dimensione costituzio-nale, perché altrimenti quel potere è tendenzialmente illimitato. Equesto, nel perdurare di un’identità nazionale debole, è fonte di ten-sioni che sono continue e reiterate, per cui, poi, tutto diventa batta-glia frontale, perfino quella del «maestro prevalente» diventa unaquestione gigantesca.

Non so se è «grande» la riforma di cui c’è bisogno, ma c’è biso-gno oggi di una riforma costituzionale, perché noi abbiamo messo incircolazione dei «poteri anguilla». Il potere politico è sempre un po’an guilla ed è giusto che lo sia, perché non si può incatenare ecommi surare a standard assolutamente rigidi. Però questi sono degli«anguilloni» che sguazzano nel sistema costituzionale e a codate nefanno fuori dei pezzi modificandone radicalmente il significato.

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luciano cafagna

CRAXI E IL PRESIDENZIALISMO

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Dopo la bella relazione di Giuliano Amato, mi sento un po’ imba-razzato. Vorrei comunque premettere che questo mio interventonon è una relazione vera e propria. La mia sarà un’ottica che oscillatra il presente e il passato.

Quando lo scorso anno mi accadde di dover partecipare alla com-memorazione di Giorgio Amendola alla Camera dei deputati, volliricordare una battuta di Benedetto Croce, il quale una volta avevadetto che di quello che ci tocca troppo dappresso non si può farestoria. È vero, è un accorgimento di cui va tenuto conto e la relazio-ne di Giuliano ce lo conferma: lui ha toccato il passato, ma poi allafine ha parlato del presente. Ora è vero anche che Benedetto Crocediceva che tutta la storia è storia contemporanea e le due formule ineffetti, possono apparire contraddittorie. In realtà, quando abbiamoa che fare con un periodo a noi molto vicino, ci troviamo a volte difronte a un impellente bisogno di fare storia e un pochino di storiain effetti la facciamo. Se tutta la storia è storia contemporanea, quel-la recente è una storia un po’ più contemporanea delle altre. E nelrecente noi troviamo i motivi di oggi. Questi, spesso ci aiutano aguardare meglio i problemi del passato.

Ora, che cos’è che mi colpisce molto nel caso di Craxi? Io, insostanza, come dire, ho forse una mentalità da storico, almeno sperodi avercela, però è indubbio che di fronte a un tema come questo misento molto legato ai miei ricordi e a come io vissi l’esperienza cra-xiana. E poiché credo di averla vissuta per gran parte in modo ana-logo a come l’hanno vissuta anche altri, penso di darne una testimo-nianza che può non essere solo individuale.

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luciano cafagna

Ciò che vorrei dire, mettendomi da questo punto di vista, è fon-damentalmente questo: il tema di cui stiamo parlando, cioè Craxi ela «grande riforma» – e Giuliano ci ha appena spiegato cosa ci stavadietro – era qualcosa che riguardava da un lato Craxi e dall’altro leaspettative e le attese che gli si muovevano intorno a varia distanza.Craxi, infatti, è un personaggio politico che, nella nostra storia re -cente, conta anche per le attese che creò intorno a se stesso. Se vo -gliamo tentare di ricostruire il tema del presidenzialismo e del pote-re decisionale, come venne vissuto in tutti quegli anni, dobbiamofarlo riflettendo non solo su chi stava dalla parte, appunto, di doverdecidere in quel momento, ma anche su tutte le attese che c’eranointorno e sulla situazione che determinava quest’ultime. Ora, se con-sideriamo questi due piani, quello cioè delle scelte concrete di Craxie quello delle attese dell’ambiente culturale e politico, allora ciaccorgiamo che in effetti forse la divergenza c’è stata. Perché? Ecco,forse il punto è domandarci il perché di questa divergenza. Ebbeneil perché sta in questo: quelle attese, di cui dovrò meglio precisare icontorni, tendevano a valorizzare il motivo della decisione nellapolitica italiana. Craxi invece, in qualche misura, manifestò riluttan-za a rispondere a quelle attese che lo circondavano. E forse tutto ilsuo percorso politico successivo, come si evince dall’esposizione diAmato, è un allontanarsi da quelle che erano le attese originali. Ilpresidenzialismo ce lo siamo venuti scordando strada facendo.

Ora io credo che la vicenda sia molto legata a un fattore dellanostra Costituzione materiale, cui forse Giuliano non ha fatto suffi-cientemente conto, ed è quello della funzione dei partiti in questocontesto. La Costituzione materiale italiana è infatti rappresentatada un sistema in cui i partiti hanno – vorrei dire antropologicamen-te – un’importanza enorme. E anche quel bellissimo «guardarsi fac-cia a faccia» che ha condizionato la nostra Costituzione nel 1948 equindi quel timore reciproco che ha poi dato i connotati fondamen-tali a questa Costituzione facendola diventare una costituzione estre-mamente garantista, è connesso a questo dirimpettaismo di duegrandi partiti: la Democrazia cristiana da un lato e il Partito comu-nista dall’altro.

Si tratta di quel sistema reale che è stato poi ben definito in uncelebre libro di Giorgio Galli, come il «bipartitismo imperfetto»: ilnostro cioè non è un paese che non abbia avuto il bipartitismo – so -stanzialmente lo ha avuto – solo che era imperfetto, poiché uno deidue partiti non poteva, per ragioni fisiologiche, governare. E questo,

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da un lato attribuiva alla Democrazia cristiana un mandato elettora-le ben al di sopra di quello che normalmente un mandato elettoraleè, e dall’altro attribuiva al Partito comunista una funzione identita-ria che era comunque e in ogni caso, sempre privata della possibili-tà di sfociare in un’alternanza di governo. E questo è un elementoessenziale di tutta la vicenda politica e istituzionale italiana fino allacaduta del muro di Berlino e alla svolta che poi questa ha rappre-sentato.

Se non teniamo conto di questo, forse tutto il ragionamento sulproblema del rapporto tra Craxi e il presidenzialismo, ne risultamonco perché c’è da spiegare, insomma, questa riluttanza di Craxiad abbracciare la tesi presidenzialista in maniera aperta.

Allora, lui compare sulla scena come un personaggio che ben rap-presenta quel motivo decisionale. E lo rappresenta un po’ per la suapersonalità, un po’ per come la situazione italiana formulava le suedomande alla politica e un po’ perché questo era il prodotto di alcu-ne caratteristiche della congiuntura mondiale. Forse a questo puntova sottolineato qualche tratto importante della congiuntura mondia-le in quegli anni che vedono l’avvio della parabola craxiana, cioè laseconda metà degli anni settanta.

Nel mondo siamo, con gli anni settanta, a una svolta che si apreappunto con la decisione nixoniana di far fuori il sistema dei cambifissi; si apre cioè un periodo d’incertezza sempre crescente che nellasituazione mondiale dura un decennio e forse anche di più. Ma è co -munque importante perché è un periodo in cui alla decisionenixonia na e all’abbandono degli accordi di Bretton Woods, si ac -com pagna la crisi petrolifera. Il petrolio diventa da allora, e ancoraoggi lo è, uno dei grandi protagonisti della storia mondiale.

Si apre così un periodo di forte inflazione e d’incertezze sociali epolitiche.

E questo decennio d’incertezze e turbolenze, che si diffondononel mondo, porta nei grandi paesi a degli sbocchi politici che sonoconnessi con il discorso che qui stiamo facendo.

In America abbiamo la presidenza Reagan, in Inghilterra abbia-mo il premierato Thatcher. In Francia accade qualcosa di analogo eal tempo stesso di diverso: Mitterrand è sì un presidente di sinistra,ma è caratterizzato da uno spiccato accrescimento di autorità. Pro-prio come i due leader conservatori di America e Regno Unito.

Ora non è difficile, secondo me, vedere il fenomeno Craxi comequalcosa che corrisponde in Italia – in maniera però completamen-

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te diversa negli esiti – a quello stesso ordine di fenomeni che si veri-ficano negli altri paesi. E lo è per più ragioni: innanzitutto per quel-lo che ho accennato prima relativamente alla Costituzione materialeitaliana, quella appunto caratterizzata dal bipartitismo imperfetto epoi per il fatto che in Italia si veniva svolgendo una crisi economicae sociale molto più grave che altrove. L’Italia, non dimentichiamoloquesto, è un paese che conosce, in quegli anni, il fenomeno dell’in-flazione a due cifre.

L’inflazione a due cifre è un fatto che va al di là delle caratteristi-che puramente economiche di un fenomeno d’inflazione; è un fattoche investe gli equilibri sociali. Tant’è che il nostro è un paese chepiù degli altri, anche più della stessa Germania, conosce il fenome-no del terrorismo: per tutto questo decennio infatti l’Italia è attra-versata dal terrorismo.

Craxi compare sulla scena politica, praticamente, come perso-naggio di livello nazionale, nel 1976, quando viene nominato segre-tario del partito e c’è un elemento di causalità nel suo emergere nel1976. Al Midas, l’albergo dove si riunì il Comitato centrale del psi,Craxi disponeva personalmente di pochi seguaci, ma la sua candi-datura fu sostenuta comunque dalla maggioranza degli «insurrezio-nalisti» della nuova generazione, che lo consideravano un personag-gio di transizione. Craxi invece, come sappiamo, si affermò poi comepersonaggio politico forte dotato di una propria capacità. E proprioquesto suo tratto di personaggio dotato di risolutezza, finisce colrispondere allo spirito del tempo così come andava maturando nellesituazioni dei maggiori paesi, cui ho fatto cenno prima. Ma, a diffe-renza di quanto si registrava negli altri paesi, dove si formavanoampie maggioranze intorno ai leader politici forti, in Italia questonon accadde: il fenomeno Craxi coinvolge solo una ristretta cerchiadi sostenitori e non riesce a conquistare in una forma qualsiasi unasua maggioranza.

Ora la ragione per la quale l’ascesa di Craxi incontrò un limite èdovuta proprio alle caratteristiche intrinseche del bipartitismo im -perfetto che connotava il sistema politico italiano. Egli avrebbe do -vuto o conquistare in proprio una maggioranza elettorale (ovvia -men te socialista), o assicurarsi l’appoggio sostanziale dei comunisti.Non accadde né l’una, né l’altra cosa.

E Craxi piano piano andò a modificare e smussare la sua posizio-ne sulla «grande riforma», già formulata in partenza in termini evi-dentemente cauti e sfumati. E questo perché lui, che, come confer-

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mano coloro che gli sono stati vicini, era un personaggio estrema-mente realista e dotato, a mio avviso, anche di una vena di pessimi-smo, prese progressivamente coscienza della dura rigidità struttura-le del sistema italiano.

C’è anche un motivo antropologico in questa rigidità di compor-tamento politico che riguarda sia élite che masse elettorali. Antro-pologicamente parlando, la democrazia italiana eredita dal regimefa scista l’importanza del partito come radicata abitudine socialedella vita quotidiana. Di qui le resistenze e le rigidità che si manife-stano nel nostro paese anche dopo l’epocale caduta del muro di Ber-lino e la gravissima crisi nazionale seguita a tangentopoli.

Una volta Giuliano Amato, concludendo la sua prima esperienzadi governo parlando alla Camera collegò l’idea con cui gli italiani vi -vevano il concetto di partito nel pluralismo democratico, all’età fa -scista, al retaggio cioè derivato dall’esperienza di partito fatta duran-te il fascismo. Giuliano Amato aveva perfettamente ragione nel farequesta affermazione che però fu accolta con grandi proteste. Per-ché? Perché allora si ragionava solo in termini semplici e brutali difascismo e di antifascismo come unica significativa antinomia legitti-ma. Il partito aveva avuto durante il fascismo una funzione nella vitasociale di tutti i giorni e continuava ad averla anche nel pluralismodemocratico. Ed era una funzione superiore e più intensa di quellache aveva in altri paesi di democrazia più matura.

Questo fenomeno era in qualche modo legato a un fatto di espe-rienza sociale propria di una partecipazione di massa primitiva deri-vante da una società industriale in ritardo.

Quando Craxi si affacciò con la sua personalità in un contesto cherichiedeva appunto una figura decisionista, alla quale lui sembravacorrispondere con tutte le sue caratteristiche, l’elettorato non era cul-turalmente preparato e non era disposto a spostare i voti concretiverso il Partito socialista. È sconfortante infatti guardare alle misereoscillazioni che questo è riuscito ad avere persino nei mo men ti dimaggiore popolarità e successo di Craxi: noi ci siamo spostati supochissimi punti percentuali, rispetto a quel 10% che caratterizzavail voto socialista. Ma soprattutto, quello che appare come l’elementoessenziale, è l’atteggiamento del Partito comunista. La gran parte diquesto partito – tanto l’élite quanto la base – rimase rigida e diffi-dente con la sola eccezione della cosidetta «ala migliorista».

Tutta la vicenda evolutiva del Partito comunista italiano restavalegata alla possibilità di uno sbocco socialdemocratico, non esisten-

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do altre alternative fra quella comunista e quella socialdemocratica.Ciò sin da quando, dopo Praga 1968, questo partito cominciò a ra -gionare intorno alla possibilità di cambiare la sua posizione di ap -pendice di un blocco politico internazionale guidato dall’Unione So -vietica. Ecco, il Partito comunista riuscì a vivere per almeno altrivent’anni in questo limbo che non era né l’una, né l’altra cosa.

Craxi tentò di sbloccare questa situazione offrendo al Partito co -munista una possibilità di uscita mediante quest’idea presidenziali-sta alla Mitterrand che girava nell’aria. Io credo che da questo puntodi vista, il momento culminante sia stato l’episodio del 1983 cosid-detto delle Frattocchie dove Craxi e Berlinguer s’incontrarono.Quell’incontro viene descritto dai testimoni che vi parteciparono –anche comunisti – come disastroso: non vi fu alcuna capacità daparte di Berlinguer di accettare, sia pure come premessa sulla qualecominciare a discutere, l’idea di appoggiare Craxi e di costituire unacoalizione di sinistra che in qualche modo avviasse questa novità diun presidenzialismo basato su un principio bipolare.

Noi adesso sappiamo, da alcuni testimoni del tempo come Tatò,che cosa si pensasse di Craxi nella leadership comunista. Tatò usaun’espressione che evidentemente circolava negli ambienti comuni-sti e che era quella di «avventuriero». Non c’era quindi nessuna pos-sibilità che il presidenzialismo craxiano si affermasse, escludendosicioè, sia la possibilità di un successo diretto e maggioritario del Par-tito socialista, sia quella di un sostegno di coalizione che avesse labase della sua forza elettorale nel Partito comunista.

Stando così le cose Craxi, raggiunto il premierato all’interno diuna maggioranza centrista, tentò allora con mezzi propri di con -segui re una popolarità di tipo presidenzialista. Nella sua attività dicapo del governo, i due grandi eventi che appunto hanno in qualchemodo affermato il Craxi decisionista all’opera si manifestarono nellavicenda dell’atteggiamento sulla scala mobile e nell’episodio di Sigo-nella.

Alla presa di posizione sulla scala mobile (che doveva spezzarel’inflazione), Craxi aderì del resto con molta incertezza come testi-moniano coloro che più gli furono vicini in quella circostanza e ciòconferma i tratti pessimistici del suo realismo.

Come si sa, si lasciò poi convincere da coloro che lo consigliava-no. Le sue esitazioni nulla tolgono al suo coraggio politico.

La vicenda della scala mobile contribuì tuttavia a rompere ulte-riormente il suo possibile rapporto con il Partito comunista.

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D’altro canto, l’episodio di Sigonella (manifestazione d’indipen-denza internazionale che ai comunisti non poteva non piacere), fu sìimpressionante, ma rimase come qualcosa a sé stante e senza conse-guenze.

Poco dopo seguì la campagna che De Mita intraprese controCraxi e che vide, a mio avviso, De Mita come vincitore: questi infat-ti costrinse Craxi a cedere progressivamente posizioni. I problemidella riforma politica – la «grande riforma» di cui Craxi aveva par-lato – si vennero rimpicciolendo spostandosi su quelli che GiulianoAmato ha definito i «rami bassi» della questione. Ci si attorcigliòprogressivamente solo verso problematiche di riforma elettorale.

Si aprì così la fase declinante della parabola di Craxi che ebbe poiquell’epilogo drammatico che conosciamo tutti e che seguì alla ca -duta del muro di Berlino. Craxi era già debole, l’occasione inveceera enorme. Caspita! Cadeva il mondo comunista, ma Craxi non eraevidentemente più il Craxi del passato.

A tutto questo bisogna aggiungere che nella dirigenza comunistaavveniva una successione generazionale. Dopo la morte di Berlin-guer, infatti, l’atteggiamento comunista nei confronti di Craxi siaggravò.

Era quella della nuova generazione, una logica assolutamente pre-suntuosa: quello da fare, era un salto ideologicamente gigantesco peril quale non bastava un semplice avvicendamento generazionaleprivo di discontinuità profonda nelle idee e di forte autorità persua-siva. I giovani berlingueriani erano berlingueriani e tali rimanevano.Ogni prospettiva di offerta socialdemocratica di soluzione per lacrisi comunista venne respinta per l’ultima e definitiva volta. E cosìsi conclude l’esperienza craxiana.

Un’evoluzione di tipo socialdemocratico, capace di diventare ege-monica nell’area della sinistra italiana, venne completamente distrut-ta dall’emergere come questione politica, della questione morale.

Vorrei concludere su questo che purtroppo è un altro puntooscuro della vicenda craxiana. Craxi, non si può fare a meno di rico-noscerlo, rimase vittima della questione morale. In questo, lui cheera così superiore a Berlinguer nel valutare la prospettiva storica,non ebbe però la capacità – come aveva invece Berlinguer – di vede-re la questione morale come questione politica.

Non è che Craxi non si rendesse conto di come stavano le cose alriguardo. Alle persone che gli sono state vicine e che gli prospetta-vano qualche volta gli aspetti negativi del diffondersi della corruzio-

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ne e della immoralità all’interno del Partito socialista, Craxi davauna risposta politica. Sosteneva di non avere altri sistemi per tenereinsieme la sua struttura organizzativa che non godeva, come quellacomunista, del mito e del denaro dell’Unione Sovietica.

Era un’obiezione politica, ma purtroppo la questione morale è inse stessa, facendosi movimento di opinione, una questione politica.

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maria letizia d’autilia

GIANNINI E LA «GRANDE RIFORMA»

1 M.S. Giannini, Corso di diritto amministrativo, Milano 1963, p. 69.2 Ibidem, p. 123.

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Nel febbraio del 1984 Massimo Severo Giannini scriveva all’allo-ra ministro per la Funzione pubblica, Remo Gaspari: «Come benpuoi comprendere, ciò che mi angoscia è il processo di sfascio delleistituzioni, che prosegue con costanza... quasi consapevole, direbbeun interprete marxista!»1. Un giudizio sconsolato da parte di chi,con grande anticipo rispetto alla politica, aveva riconosciuto nello«Stato pluriclasse», uno Stato cioè in cui «tutte le classi sociali con-corrono al governo politico, e cercano di introdurre istituzioni a tu -tela dei propri interessi» – così scriveva Giannini –, «una domandadi amministrazione» direttamente proporzionale all’espansione de -gli interessi dei gruppi costituiti nell’ambito della sfera pubblica2.

La riflessione sulle trasformazioni dello Stato, si può dire checoincida con l’intero percorso biografico di Giannini che nel 1991arrivava a considerare ormai «totalmente scomparse le amministra-zioni pubbliche tipiche dello Stato borghese, così imperative e auto-ritarie», caratteristiche, a suo dire, del vecchio Stato liberale otto-centesco.

La modernità, infatti, si presentava, ora, sotto forma di una pro-nunciata eterogeneità sia dei compiti che delle funzioni che le ammi-nistrazioni erano chiamate a svolgere. Lo Stato tradizionale, sotto-posto alla pressione del cambiamento, sembrava, infatti, aver persoconsistenza, ma non la sua «densità organizzativa» assumendo, se -

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3 Ministero del bilancio e della programmazione economica, Progetto 80. Rapporto preli-minare al programma economico nazionale 1971-1975, Roma, aprile 1969, p. 80.

4 Relazione generale sulla situazione economica del Paese, 1989, vol. i, Roma 1989, p. 183.

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maria letizia d’autilia

condo Giannini, nuove forme, meno note e ancor meno governabi-li. Gli strumenti sperimentati dalle amministrazioni, negli anni della«programmazione economica» – l’applicazione del bilancio preven-tivo; la costituzione di strutture di coordinamento; la predisposizio-ne di sistemi di controllo degli enti vigilati da parte dei ministeri; lacreazione di organi collegiali e tecnici incaricati di emanare direttivee di svolgere attività di concertazione – non sembravano rappresen-tare una risposta sufficiente – a suo parere – a risolvere le grandiquestioni strutturali.

Già nell’aprile del 1969 il Ministero del bilancio e della program-mazione economica, nel redigere il Progetto 80 rilevava forti segnalidi cambiamento nelle amministrazioni pubbliche:

L’attività e l’organizzazione amministrativa sono ancora oggi regolate, inItalia, da alcune norme che hanno subito, sotto la pressione dei bisogni edegli interessi, una serie numerosa di deroghe e di eccezioni. L’azione delloStato si è così progressivamente frammentata in una serie di centri e diorganizzazioni atipiche, operanti entro un’area sempre più vasta e sempremeno organica. È ormai indilazionabile l’esigenza di una riorganizzazione,intesa a dare un assetto logico e coerente ai pubblici poteri. Ma non sem-bra necessario, e neppure desiderabile, che essa si ispiri a un criterio rigidodi uniformità amministrativa. La società industriale moderna pone, infattiallo Stato compiti ampi e diversi, e richiede l’adozione di modelli di strut-ture pubbliche differenziati secondo le funzioni da svolgere. Il successo diuna politica di piano, che ha uno dei suoi momenti decisivi nella realizza-zione di grandi progetti di intervento nel settore degli impieghi sociali, èlegato alla creazione di unità amministrative, che siano dotate della neces-saria autonomia e responsabilità per svolgere con rapidità ed efficienza icompiti loro affidati3.

Questo scenario, alla fine degli anni settanta, si presentava allapolitica, con tutto il suo fardello di questioni non risolte, tra cui ilcrescente indebitamento netto della pubblica amministrazione chenel 1980 ammontava a 33 mila miliardi di lire, mentre in termini diprodotto interno lordo ai prezzi di mercato, si presentava addirittu-ra pari all’8,6%4.

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5 Relazione generale sulla situazione economica del Paese, anni vari, cit. tratta da G. Alva-ro, Contabilità nazionale e statistica economica, Bari 1992, p. 275.

6 M.S. Giannini, Lo Stato democratico repubblicano, in «Bollettino dell’Istituto di studisocialisti», 1946, p. 121, cit. tratta da G. D’Auria, Giannini e la riforma amministrativa, in«Rivista trimestrale di diritto pubblico», l, 2000, p. 1212.

7 Ibidem, p. 1213.

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giannini e la «grande riforma»

A riprova della sostanziale impossibilità da parte dell’operatorepolitico di incidere sul processo di risanamento economico e orga-nizzativo della pubblica amministrazione parlano le cifre del debitopubblico che rispetto al prodotto interno lordo mostravano una ten-denza preoccupante pari al 59% già nel 1980, per giungere al98,3%5 nel 1989.

Giannini il legislatore, Giannini il riformista, Giannini lo scien-ziato sociale, ma soprattutto Giannini il raffinato giurista attraversòle vicende storiche dell’Italia repubblicana, partecipando anche conuna passione politica che lo collocava – seppure con grandi tensionipolemiche – nell’ambito della cultura riformista socialista. Nel 1946scriveva sul «Bollettino dell’Istituto di studi socialisti» che tutte leriforme auspicate per la nuova Italia repubblicana si sarebbero fon-date, da quel momento in poi, su «un principio di chiarezza sia nel-l’ordinamento sia nei rapporti tra lo Stato e il cittadino», tracciandocosì le linee di un percorso di lavoro che non si sarebbe più svoltosoltanto all’interno di una specificità tecnico-giuridica6, ma avrebbefatto i conti con la politica.

In un paese uscito dalla vicenda fascista bisognava riconsegnareai cittadini la fiducia nelle istituzioni pubbliche anche attraverso –scriveva Giannini – la «massima permeazione possibile tra le strut-ture statali e le forze popolari, così che i cittadini possano, in ognimomento, far sentire la propria voce»7. E questo sarebbe stato primadi tutto compito della politica. Gli anni settanta furono anni in cuiGiannini fu impegnato a collaborare con giornali e riviste (in parti-colare con il quotidiano «Il Giorno»). Gli argomenti trattati conmaggiore frequenza riguardavano la pubblica amministrazione, leistituzioni e soprattutto l’attività legislativa del governo, ma anche lascuola, i servizi pubblici, la rai. Giannini cominciava a comprende-re e a intervenire sul problema della crisi di rappresentatività deipartiti che a suo parere si riverberava sul cattivo funzionamento del-l’intero sistema costituzionale.

Nell’agosto 1979, nominato ministro della Funzione pubblica nel

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8 Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi acs), Archivio Pietro Nenni, b. 27, cit. trattada G. Melis, Giannini e la politica, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», l, 2000, p. 1271.

9 Ministro per la Funzione pubblica, Rapporto sui principali problemi dell’amministrazionedello Stato, trasmesso alle Camere il 16 novembre 1979, in «Rivista trimestrale di diritto pub-blico», 1982, pp. 715-771. Su Giannini e la riforma cfr., tra gli altri, D’Auria, Giannini e lariforma amministrativa, cit., pp. 1209-1247.

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governo Cossiga, Giannini affrontava il nuovo incarico con spiritodeterminato ma consapevole del difficile clima politico in cui si sa -rebbe trovato a lavorare. Scriveva, infatti, a Pietro Nenni, l’amico eil compagno degli anni giovanili: «Tante volte ho pensato, ora che mihanno tirato a questo incarico, a quando mi avevi chiamato tu. Soloche allora c’erano entusiasmi corali e oggi di corale non c’è che ladelusione risentita»8.

Nel novembre del 1979, nonostante lo scetticismo iniziale, Gian-nini prendeva di petto i nodi storici del sistema amministrativo e tra-smetteva alle Camere il Rapporto sui principali problemi dell’ammi-nistrazione dello Stato9.

Il documento si presentava come una novità per i contenuti cheesprimeva fondati, in sostanza, sulla constatazione che le ammini-strazioni statali si erano trasformate, da soggetti detentori di funzio-ni di ordine e di regolazione, in strumenti di gestione e di erogazio-ne di servizi.

Le nuove funzioni assunte dalle amministrazioni, inoltre, richie-devano – e qui il Rapporto introduceva l’importante questione delprofilo professionale e della formazione dei dipendenti pubblici –una diversa e più moderna concezione del lavoro pubblico. Questo,infatti, non doveva più rappresentare una black box ma – sostenevaGiannini – doveva essere misurabile e standardizzabile, anche attra-verso l’introduzione delle nuove tecnologie. Doveva essere possibileintrodurre forme di valutazione per i dirigenti e sistemi di incentiva-zione per i dipendenti più produttivi. Quanto alla nuova fisionomiadelle amministrazioni pubbliche è da sottolineare come un impor-tante passaggio concettuale, l’introduzione da parte di Giannini,giurista sensibile alle nomenclature economiche, della chiave di let-tura delle «amministrazioni come produttori di servizi». Si percepi-va qui l’influenza dell’introduzione in Italia del Sistema europeo deiconti economici (all’epoca era il sec79, oggi sec95) con il quale siassumeva convenzionalmente che tutti i servizi prodotti dalla pub-blica amministrazione sono volti a soddisfare le esigenze e i soli biso-

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10 Eurostat, Sistema europeo di conti economici integrati (SEC), Bruxelles 19812, pp. 182 ss.

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gni delle famiglie (intese come operatore economico)10. Secondo ilsec, infatti le spese della pubblica amministrazione dovevano esseresuddivise in nove grandi categorie di servizi che in qualche modoricalcavano l’organizzazione tematica degli studi inseriti nel Rappor-to e che si articolavano in servizi di tipo generale (relativi prevalen-temente alle funzioni di regolazione svolte dagli organi dell’esecuti-vo e dal legislativo), per la difesa nazionale, per l’ordine e la sicurez-za, per l’istruzione, per la salute, per la previdenza e assistenza, perl’abitazione e l’assetto territoriale, per la cultura, ricreativi e di culto,economici e vari. All’inizio degli anni ottanta, insomma, la rappresen-tazione statistica delle spesa per servizi della pubblica amministrazio-ne rappresentava la cornice di riferimento, anche per i giuristi, entrocui sviluppare analisi e comparazioni secondo criteri classificatorimeno incerti di quanto fosse accaduto per il passato, influenzando cosìgli scienziati sociali, gli amministratori e gli operatori politici impegna-ti nella difficile congiuntura economica del periodo.

Suddiviso in quattro grandi capitoli dedicati a: le tecniche di am -mi nistrazione; la tecnologia; il personale; il riordinamento dell’am -mi nistrazione dello Stato, il Rapporto di Giannini sviluppava (soloper citarne alcune) le questioni dell’arretratezza delle tecniche diam ministrazione legate all’organizzazione e ai metodi di lavoro: l’as-senza di criteri di misurazione della produttività; l’evoluzione delletecnologie informatiche; l’edilizia statale; la crescita esponenziale eincontrollata degli enti pubblici (a tutti i livelli di governo); la giu-stizia amministrativa; la trasparenza e l’accesso agli atti amministra-tivi; la delegificazione. Ma l’aspetto che più di altri, Giannini, met-teva in evidenza, era la perdita di omogeneità delle unità che com-ponevano il settore delle amministrazioni pubbliche. Ciò segnava asuo parere un passaggio storico nella vicenda istituzionale italianapoiché rendeva l’intero sistema particolarmente fragile ed esposto acrisi ricorrenti e gravi – riconducibili a una incertezza e sovrapposi-zione dei compiti e delle funzioni che si riverberavano sull’interofunzionamento della macchina amministrativa e dei suoi principaliattori. Nell’ambito della regolazione del personale, inoltre, le ammi-nistrazioni si trovavano a combattere con sistemi retributivi fram-mentati e farraginosi incardinati in meccanismi di classificazionedelle professioni altrettanto incerti e ambigui.

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11 Giannini, Rapporto, cit., p. 720. Secondo Stefano Sepe, «la ragione prima del sostanzia-le fallimento degli uffici O.M. è da rintracciare nel mancato raccordo con i consigli di ammi-nistrazione dei ministeri», in S. Sepe, E. Corbe, Società e burocrazie in Italia, Venezia 2008, p.232.

12 C. Moser et al., Presentazione, in Aspetti delle statistiche ufficiali italiane: esame e propo-ste, Roma 1983 («Annali di statistica»).

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Fiducioso delle possibilità di analisi offerte dal metodo scientifi-co, Giannini proponeva, dunque, di introdurre nelle amministrazio-ni speciali uffici di organizzazione allo scopo di svolgere correttefunzioni «conoscitivo-diagnostiche», attraverso l’impiego di stru-menti di analisi statistica ed economica. Riferendosi a un provvedi-mento adottato dal Consiglio dei ministri, spiegava:

La direttiva disponeva la costituzione, o la ricostituzione, degli «ufficiorganizzazione» presso ogni amministrazione, ai quali si affidava il compi-to di elaborare gli indicatori specifici di ciascuna amministrazione, di appli-carli, di procedere alle rettifiche dell’organizzazione del lavoro di ufficioche fossero messe in luce dall’applicazione degli indicatori. Tali uffici ri -chiedevano quindi personale professionalmente preparato (analisti di or -ganizzazione, analisti di produttività), che invece in parecchie amministra-zioni difettava11.

Del resto in quegli anni stava crescendo, anche in Italia, una cul-tura tecnico-sperimentale che tuttavia rimarrà sempre – nonostantegli sforzi profusi dalle burocrazie tecniche e dai ricercatori delle uni-versità e degli istituti di ricerca – un sapere separato e difficilmenteintegrabile con quello giuridico-amministrativo delle amministrazio-ni. A conferma di ciò può essere significativo l’impulso dato in talsen so, nel maggio 1981, dal ministro per il Coordinamento dellepolitiche comunitarie, con la costituzione della Commissione stati-stica internazionale presieduta da sir Claus Moser, avente lo scopo disvolgere un’analisi delle statistiche ufficiali italiane con particolareriferimento ai conti nazionali, al settore pubblico, agli indici e allestatistiche dei prezzi. Nel 1982 la Commissione, nel presentare algoverno Spadolini i risultati del suo studio, corredati da osservazio-ni relative all’organizzazione del sistema statistico italiano sottoli-neava, tra gli altri, quanto fosse necessario che «ministri, alti funzio-nari dello Stato ed enti pubblici» assumessero «un atteggiamentopiù moderno e illuminante verso l’uso delle statistiche»12. La

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13 Ibidem, p. 38.

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Commis sione Moser specificava che l’ente si sarebbe dovuto impe-gnare per conseguire una maggiore efficienza nella produzione sta-tistica attraverso un migliore e più ampio coordinamento delle ricer-che, da realizzare anche accentrando la produzione dei dati. Lo svi-luppo dei vari istituti di statistica nazionali era stato caratterizzatonel corso degli anni dall’alternarsi di modelli organizzativi decentra-ti (come nel caso degli Stati Uniti) o centralizzati (come nella Repub-blica fe derale tedesca, in Norvegia e in Svezia) o «misti» (come nelRegno Unito). L’Italia, invece, si era caratterizzata per un unicomodello, rimasto sostanzialmente immutato sin dal 1926, nel qualela centralizzazione era stata chiaramente inibita da cause e disfun-zioni organizzative, ma soprattutto dall’assenza, in particolare nelcorso del se condo dopoguerra, di un deciso disegno politico voltoad affermare l’importanza della statistica ufficiale per lo svolgimen-to dell’azione di governo. E proprio su questi aspetti il rapportoMoser insisteva suggerendo di inserire gruppi di statistici all’internodei ministeri e negli enti periferici, in modo da renderli «maggior-mente consapevoli della necessità di disporre di dati per l’elabora-zione delle politiche e più capaci di decidere sulle relative priorità emeglio situati per fornire risultati utili alla progettazione delle poli-tiche e dell’amministrazione della cosa pubblica»13.

Nel 1979, mentre l’istat costituiva una «Commissione di studicon il compito di formulare proposte per la predisposizione di unAn nuario statistico sull’attività della pubblica amministrazione», acui parteciparono i membri delle maggiori istituzioni pubbliche delpaese, il Consiglio dei ministri incaricava il Ministero della funzionepubblica di predisporre una rilevazione dettagliata sullo stato degliuffici centrali e periferici dei ministeri. Lo studio – eseguito dal For-mez – aveva il compito di approfondire aspetti del funzionamento edell’organizzazione degli uffici, di rilevare i carichi di lavoro effetti-vamente svolti, gli orari di lavoro, le procedure amministrative, l’ef-ficacia del sistema dei controlli di legittimità, i servizi effettivamenteerogati nonché i tempi e i costi sostenuti dalle amministrazioni perla loro produzione.

Nel breve periodo sia l’istat sia il Formez approntarono ampiquadri statistici e rapporti analitici sul profilo delle amministrazionipubbliche dotando, così, l’operatore politico di una documentazio-

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14 Giannini, Rapporto, cit., p. 721.15 Per la ricostruzione dei rapporti tra Giannini e la storia politica vedi il saggio di Guido

Melis, Giannini e la politica, cit., pp. 1249-1276.

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ne di una consistenza mai così ampia. Tuttavia – secondo quantoscriveva lo stesso Giannini nell’introdurre il Rapporto – il sistemapolitico, ancora una volta mostrava una paralizzante indifferenza:

Ripercorrendo tutta la documentazione qui raccolta, vien fatto di osser-vare che il ministro che nel 1979 si mise all’opera per il nuovo Ufficio perla funzione pubblica (il cambiamento di denominazione che l’Ufficio rice-veva aveva infatti valore di preciso messaggio politico) era proprio un illu-so nel pensare che, partendo in modo razionale, in cinque anni si potessealmeno ottenere qualche risultato di ristrutturazione dell’apparato dei po -teri pubblici. Ne sono infatti già passati tre, e non si è fatto niente. Sareb-be interessante sentire però se quel ministro avrebbe fatto lo stesso quel cheha fatto14.

La morte di Pietro Nenni, l’uccisione di Vittorio Bachelet e larapida conclusione dell’esperienza di governo che con l’insediamen-to di Forlani portò alla Funzione pubblica il democristiano ClelioDarida, furono eventi che resero difficili i rapporti tra Giannini e ilpsi. In una lettera dai toni aspri Giannini scriveva a Craxi nel 1980come mai non avesse compreso l’importanza che aveva assunto ilMinistero della funzione pubblica, che interessava ormai circa 4 mi -lioni di dipendenti pubblici e che, grazie alle politiche attuate fino aquel momento, si collocava nel sistema politico con un ruolo di cer-niera tra i vecchi apparati e le nuove burocrazie. L’ex ministro sichiedeva se ciò fosse da attribuire a «un errore di prospettiva» oppu-re, polemizzava, «all’antica carenza del socialismo italiano in ordineai problemi concreti del pubblico potere»15.

Tra alterne vicende il rapporto con il segretario del Partito socia-lista, pur non deteriorandosi mai in modo irreversibile, non impedì,tuttavia, a Giannini di dare il suo contributo, nell’aprile del 1982,alla preparazione della conferenza socialista di Rimini.

La conferenza rappresentava l’occasione per il rilancio di quegliintellettuali (economisti, giuristi, sociologi) impegnati a scoprire icaratteri nuovi della società italiana. Nelle loro relazioni il fuoco erapuntato sulla forma che andava assumendo la società «post indu-

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16 Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi dellarepubblica, Roma-Bari 2005, in part. pp. 201 ss.

17 Cfr. P. Craveri, La repubblica dal 1958 al 1992, Torino 1995.

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striale» e il Partito socialista si candidava a diventare il partito rap-presentativo dei nuovi soggetti sociali, dai piccoli imprenditori aiprofessionisti, quel mondo «produttivo senza voce», insomma, a cuii socialisti intendevano fornire visibilità16.

La cultura politica riformista si misurava, in modo concreto, conla possibilità di assumere una prospettiva di regolazione che fosse ingrado di intercettare e di rispondere alle diverse spinte che proveni-vano dalla società, ma anche dalle amministrazioni pubbliche piùattive in quel momento, come le Regioni, ad esempio, che potevanorappresentare – se opportunamente stimolate – i soggetti da cui farpartire l’innovazione amministrativa e anche politica, a lungo ricer-cata.

Per far questo, però, era necessario che la politica si impegnasse aricostruire quel senso dello Stato che la crisi dei partiti e delle istitu-zioni di quegli anni aveva seriamente minato, allontanando quelloche alcuni definivano il paese reale, dalle forme di partecipazionediretta alla vita democratica degli organismi che lo rappresentavano17.

La spinta propulsiva dei riformisti, del resto, non era diversa daquella già espressa in passato da altri esecutivi nella fase di insedia-mento. È noto, infatti, che ciclicamente i governi, nel momento incui approntano il programma di legislatura, introducono progetti diriforma accompagnati dall’istituzione di commissioni di studio, dallaproposta di testi normativi, nonché dalla costituzione di gruppi dilavoro composti da esperti e amministratori. La periodicità con cuisi riproponeva, quindi, anche in Italia il tema della riforma ammini-strativa può essere interpretata come un passaggio rituale, ma neces-sario a introdurre il tema del cambiamento. E l’Italia – a partire dalsecondo dopoguerra – si può dire che abbia delineato le sue politi-che di riforma predisponendo strumenti e acquisendo capacità dianalisi via via più mirate e pertinenti. Ciò che tuttavia sembra esseremancato in modo ricorrente – come in parte fa intravedere ancheGiannini nei suoi scritti – è stata la puntuale valutazione degli esitidelle riforme e ciò, sia per quanto attiene alle proposte generali (piùdi sistema), sia per quelle di tipo settoriale.

Eppure le espressioni periodiche di diffusa insoddisfazione, sia

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18 M.S. Giannini, intervento alla conferenza nazionale della pubblica amministrazione,Roma 29 giugno-1° luglio 1982, in Per il riordinamento della pubblica amministrazione, Roma1982, p. 290 («Quaderni Formez», n. 22).

19 G. Freddi, Per un’analisi delle politiche pubbliche in Italia, introduzione a G. Capano,L’improbabile riforma, Bologna 1992, p. 32.

20 Ibidem, p. 29.

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da parte dei cittadini (intervistati sull’argomento con sondaggi mira-ti) sia degli studiosi, sia dei burocrati destinatari degli interventi diri forma, sia ancora degli stessi policy makers, avrebbero dovuto ren-dere consapevoli i principali attori della politica che, anche attraver-so una buona amministrazione si sarebbe potuto costruire il consen-so elettorale delle famiglie e delle imprese. Comprendere che le ri -forme amministrative non rappresentavano «un affare per pochi ad -detti ai lavori», ma una politica pubblica in senso stretto avrebbepermesso di inserirla tra le priorità dell’agenda politica dei governi.Eppure, nonostante gli sforzi di studi e di analisi e l’ampio numerodi proposte, si può dire che le riforme degli anni ottanta si risolsero,alla fine, in una sostanziale riforma del pubblico impiego finalizzataall’introduzione della contrattazione collettiva e al riassetto della di -rigenza.

Sollecitare il Parlamento è un’affermazione fatta da parecchi, ma solle-citare il Parlamento è una locuzione priva di senso, – scriveva Giannini nel1982 nel corso di una Conferenza nazionale della pubblica amministrazio-ne – perché il Parlamento si muove se si muovono i gruppi politici, e muo-vere i gruppi politici significa agire sugli uffici competenti dei partiti poli-tici affinché si trovino accordi tra i gruppi politici. Quindi se sono tra colo-ro che più hanno criticato e più criticano il Parlamento per la sua torpidi-tà e per la sua incapacità di organizzazione, dico pure di non caricare ditroppi torti il Parlamento medesimo18.

È evidente, quindi, che i progetti relativi alle «grandi riformesinottiche» furono sistematicamente abbandonati. Al loro posto siscelse, invece, di seguire un metodo di tipo incrementale19. Le rifor-me mai fatte furono sostituite dalla strategia del «riformare contrat-tando» nella convinzione che usando lo strumento della contratta-zione collettiva – che nel 1983 riceveva una importante formalizza-zione – «fosse possibile migliorare a piccoli ma solidi passi le pre-stazioni amministrative»20.

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21 Melis, Giannini, cit., da cui è tratta la cit. riferita a una lettera inviata da Giannini a Craxil’11 giugno 1984 e conservata nelle Carte M.S. Giannini (in via di ordinamento presso l’acs).

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Lo Stato pluralista acutamente messo a fuoco da Giannini neglianni ottanta e «percepito» come una grande opportunità dal Partitosocialista era uno Stato che richiedeva una amministrazione capacedi fare i conti con situazioni incerte e problematiche tipiche di unasocietà postindustriale, individualizzata, in forte crescita e bisogno-sa di nuove professionalità sia tecniche sia politiche, poiché anche ilsistema dei partiti che accompagnava la politica italiana di queglianni aveva raggiunto un punto di crisi che troverà la sua conclusio-ne nella drammatica frattura istituzionale dei primi anni novanta.

Quando, nell’estate del 1984, Giannini accettò la nomina all’As-semblea nazionale dei socialisti – come ben ricostruisce Melis –senza opporsi, per non suscitare polemiche, nonostante non fossestato informato della decisione, scrisse a Craxi evocando i contrastidel 1953: «Da allora sono rimasto un fedele compagno di strada; machi mi ha cercato per servire la Repubblica, quando ero ormai dive-nuto una personalità internazionale, sono stati sempre gli altri parti-ti. È una stranezza, ma è così. Oggi il Partito socialista è divenuto,sotto la tua guida, un partito moderno e mordente. Ma è rimastocom’era, permettimi di dirtelo apertamente, quanto a velleitarismo,insufficienza, eccetera»21.

I numerosi vincoli dati dal sistema politico e soprattutto la gabbiaculturale in cui si muoveva in modo autoreferenziale la burocraziadegli anni ottanta, dunque, non consentivano di seguire il passo delcambiamento di cui il paese aveva bisogno. Le amministrazioni, in -fatti, esigevano competenze ampie e professionalità provenienti dalmondo dell’industria e dei servizi. Il sistema di conoscenze necessa-rie alle amministrazioni non si esauriva più nella «legge» e nello svol-gimento formale delle procedure, ma richiedeva la costruzione diregole che permettessero di prendere decisioni e di risolvere proble-mi. I nuovi contenuti espressi dalla società non riuscivano a essereintercettati dalla politica, e ancor meno, interpretati dal formalismorigido delle burocrazie cosiddette «a diritto amministrativo» che,tuttavia – se ci si può concedere una provocazione – nel manteni-mento del proprio status di «corpi tecnici» tentavano, in taluni casi,di resistere all’invadenza politica dei partiti.

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22 L. Cafagna, La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, Venezia 1993.23 Colarizi, Gervasoni, La cruna dell’ago, cit., pp. 194-195.24 Capano, L’improbabile riforma, cit., pp. 322 ss.

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Peraltro, i dati macroeconomici del 1985 e del 1986 cominciava-no a svelare quanto fosse fragile la base del miracolo economicoavviato nei primi anni ottanta, mettendone in evidenza il caratteresquisitamente congiunturale. Il crollo della Borsa di Milano del mag-gio 1986 e di quella di New York, qualche mese più tardi, spaventa-rono la classe dirigente socialista che non fu risparmiata da attacchida parte della stampa. Fu accusata di leggerezza e di superficialitàper le incerte politiche economiche promosse dal governo Craxi,mentre la crisi fiscale, assumendo dimensioni non governabili, inne-scò quella che Luciano Cafagna definì la «grande slavina»22.

Le conseguenze di un sistema basato su un debito pubblico cre-scente, su un’inflazione fuori controllo e su un sistema fiscale che atten-deva di essere riformato da decenni, emergevano drammaticamente.

Alle spalle di una fiscalità debole, ingiusta e mal distribuita – scrive Si -mona Colarizi – e di un’evasione in larga misura tollerata, si era stabilitouna sorta di patto tacito e perverso tra i cittadini e lo Stato cui si perdona-vano la carenza dei servizi, l’inefficienza dell’amministrazione, l’elefantiacamacchina in perdita dell’impresa pubblica che davano comunque posti dilavoro e distribuivano privilegi corporativi a larghe mani. Quando peròl’an damento del deficit primario, il tasso di interesse reale sui titoli del de -bito, quello di crescita del Pil e quello dell’inflazione mettono a rischio lacredibilità finanziaria dell’Italia e minacciano di asfissia persino le futuregenerazioni, il ceto politico deve intervenire, con la conseguenza, però discatenare la rivolta23.

Nell’agenda dei governi degli anni ottanta, gli esecutivi si collo-carono, dunque, come protagonisti delle riforme istituzionali soltan-to nel momento iniziale della proposta. Si inserirono, poi, nelle fasidella loro elaborazione e della decisione, altri soggetti portatori diinteressi diversi, ma accomunati da una visione condivisa del sistemaamministrativo in cui si trovavano ad agire. Questo consentiva dicostruire complessi sistemi di relazioni che riuscivano a soddisfaregli interessi di tutti i soggetti implicati attraverso quella che è statadefinita «la retorica della riforma amministrativa intesa come inte-resse generale»24.

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25 D. Schietroma, intervento alla conferenza nazionale della pubblica amministrazione, Roma29 giugno-1° luglio 1982, in Per il riordinamento della pubblica amministrazione, cit., p. 19.

26 M.S. Giannini, Le incongruenze della normazione amministrazione e la scienza dell’am-ministrazione, in «Rivista trimestrale di diritto amministrativo», 1954, p. 303. La cit. è trattadal saggio di M. Rusciano, Giannini e il pubblico impiego, nella stessa rivista, 2000, p. 1123.

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giannini e la «grande riforma»

Il risultato era che qualsiasi paradigma riformista veniva, alla fine,trasformato in un problema di ordine tecnico-giuridico, e così è ac -ca duto anche alla «grande riforma» amministrativa degli anni ottan-ta. Anch’essa si scontrò, come accaduto già per altri ambiziosi pro-getti di cambiamento, contro la convinzione che i problemi si potes-sero risolvere con l’emanazione di norme qualificate ad agire quasiesclusivamente – secondo una strategia minimalista di microinge-gneria amministrativa – per ridurre le divergenze degli interessi incampo25.

La politica, in questo modo, consegnava ancora una volta la que-stione della riforma a quella che Giannini, già nel 1950 aveva indivi-duato come «la casta burocratica [...] capace di dare corpo ad unalegislazione di specie che, mentre aumenta smisuratamente il poterediscrezionale dei dirigenti, nello stesso tempo, con la sua complica-tezza, costituisce una barriera di difesa, sia dal punto di vista sostan-ziale, [...] sia dal punto di vista operativo, in quanto per penetrare inuna tale legislazione occorre una chiave, che è però depositata pres-so gli stessi interessati...»26.

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LA RIFORMA ELETTORALE

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Io mi sono concentrato su tre punti: anzitutto ho cercato di sgom-berare l’equivoco della valenza partigiana delle proposte di riformaelettorale socialista, perché ce l’hanno tutte la valenza partigiana,quindi è una cosa senza senso, che però è circolata a lungo.

La seconda, è, invece, vedere qual è il significato, oltre alla inevi-tabile valenza partigiana, di queste proposte, e soprattutto il signifi-cato della tendenza a posporre la riforma elettorale alla riforma isti-tuzionale, che ha caratterizzato la posizione socialista soprattuttonella ix e nella x legislatura, e la ricerca di motivazioni per questo,motivazioni che andassero al di là di pure esperienze, motivazioniserie, motivazioni di sistema.

Per queste due parti, mi sono rifatto a testi disponibili, quali idiscorsi parlamentari di Craxi e la collezione, quasi completa, di«MondOperaio».

La terza parte è più breve perché è una parte valutativa, cioè,cerco di rispondere alla domanda: come mai, nonostante questeserie motivazioni, questa posizione non ha sfondato?

L’accusa di valenza partigiana dimentica che i membri delle Assem-blee costituenti, o anche dei Parlamenti che rivedono le Co stituzioni,non sono angeli devoti al bene comune e, di regola, le Costituzionisono frutto di scontri politici, anche fortissimi, dove gli interessi e leambizioni hanno una parte cospicua, e le proposte di riforma avanza-te dai partiti sono, a maggior ragione, frutto di calcoli di parte, perchéproprio sulle modalità di traduzione dei voti in seggi, si gioca la for-tuna politica dei partiti e addirittura la loro sopravvivenza.

È inutile chiederci perciò se la posizione che i socialisti assunsero

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negli anni ottanta sulla riforma elettorale avesse una valenza parti-giana, ce l’aveva sicuramente, così come ce l’avevano le proposte deiloro avversari.

La questione diventa interessante se troviamo in quelle propostequalcosa di più: motivazioni di sistema, uno sguardo lungo sulla Re -pubblica, un’interpretazione necessariamente parziale, ma autenticadel bene comune.

E allora, queste cose si trovano, secondo me, a partire dai discor-si parlamentari di Craxi. Di riforma elettorale parla solo una volta,nel 1993. Nel 1982, argomentando all’indomani di una crisi del go -verno Spadolini, e quindi nei di pressi di quel tema su cui Giulianosi è diffuso ampiamente, nel 1982 Craxi riconosce che i problemisono politici, ma, aggiunge «è anche vero che la macchina porta laruggine, le istituzioni o sono incomplete, o sono invecchiate, e agen-do in una realtà assai diversa e più complessa di un tempo, richie-dono un vasto rinnovamento e perfezionamento, nonché una revi-sione costituzionale che deve essere attuata nel quadro insostituibi-le dei fondamentali principi democratici che sono il cardine delnostro sistema». E la questione, che è ora all’ordine del giorno dellapolitica italiana, non può essere ricacciata lontano: può correre ilrischio di essere fortemente contrastata o risolta poco e male e fa suol’invito del capo dello Stato a ritrovare lo spirito costruttivo e aper-to della Costituente. Segue un appello a correggere il voto segreto,che era chiaramente visto come primo passo nella direzione auspi-cata, che però non viene specificata, a conferma della tesi di Covat-ta che Craxi avrebbe fatto propria l’ipotesi presidenzialista nel 1989.D’altra parte, nel 1982 siamo ai primi passi di un cammino acciden-tato, come sappiamo, effettivamente la questione delle riforme isti-tuzionali è stata risolta poco e male. In Parlamento Craxi torna sultema dieci anni dopo, in una seduta della Commissione bicameraleDe Mita-Iotti, quando tutti giocano ormai a carte scoperte, ma in unclima di disfacimento del sistema dei partiti che ricordiamo tutti.Dopo aver ammesso che l’elezione diretta del capo dello Stato, cito,«cioè della creazione di un momento unificante, così come oggi noilo concepiamo, della collettività e delle istituzioni, di un’autorità col-locata al di sopra dell’esecutivo, espressione diretta del corpo elet-torale». È una tesi che per quanto difesa con buoni argomenti, nonè riuscita e non riesce a farsi strada; Craxi si occupa della riforma delregionalismo e del bicameralismo perfetto, per poi soffermarsi, que-sta volta in modo esplicito e dettagliato, sulla riforma elettorale.

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Attacca il sistema maggioritario con argomenti, a mio giudizio, dis-cutibili, rispolverando le antiche battaglie socialiste contro le clien-tele notabiliari indotte dai collegi uninominali e parla di distorsionidemocratiche che il sistema stava producendo in Inghilterra. Peròriconosce anche i guasti profondi della proporzionale pura, e pro-pone la soluzione seguente:

penso che le riforme elettorali per la Camera dei Deputati, debbano cor-reggere il proporzionalismo puro, introducendo elementi maggioritaridiretti da un lato a frenare un’eccessiva dispersione della rappresentanza,dall’altro, ad assicurare il margine di garanzia per una maggioranza digoverno, obiettivi che possono, forse, essere meglio raggiunti, attraversodue fasi: la prima, che definisce in modo proporzionale corretto la rappre-sentanza, garantendo ampiamente il pluralismo politico del sistema, laseconda, in cui le coalizioni alternative si misurano per l’assegnazione dellaquota di governo. In questo modo si definirebbe un sistema misto, fonda-to sul principio della proporzionale.

La soluzione viene avanzata dopo che Cesare Salvi, relatore sulleriforme elettorali ha depositato la sua proposta, abbastanza generi-ca, ma non tanto da nascondere l’intenzione di invertire l’ordine deifattori, tra riforma elettorale e riforma costituzionale, in un momen-to in cui il referendum è alle porte. Il fatto è che i maggiori partiti sistanno accordando su un sistema maggioritario con correttivi pro-porzionali, ed è su questa tenaglia che si sta chiudendo, che si ap -punta infatti la polemica di Craxi, quando con il suo linguaggioinconfondibile, osserva che i principi non si tagliano a fette come isalami, e propone di rimettere alle assemblee la scelta tra un sistemadi tipo proporzionalistico, corretto da elementi maggioritari, e unsistema maggioritario con un poco di prezzemolo proporzionale.

È inutile cercare adesso chi si sia mostrato meno lungimirante,d’altra parte l’esame di merito di tali proposte, è inseparabile dalmo mento difficilissimo nel quale furono avanzate. Per ricostruire laposizione dei socialisti su questo tema, ciò che conta è che, indipen-dentemente dalla sua fattibilità, la proposta di proporzionale corret-to con il doppio turno, e con l’assegnazione a seconda della quota digoverno, si iscriveva perfettamente nel solco di quelle sostenute daisocialisti nel decennio precedente, e che si compendiavano nell’ado-zione del sistema tedesco.

Già nel 1980, Giuliano Amato aveva fatto notare quello che poi

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ha giustamente ricordato oggi, che il sistema tedesco è proporziona-le quanto alla formula impiegata, ma maggioritario quanto all’effet-to, non solo in virtù della clausola di sbarramento, ma anche per laripartizione finale dei seggi con il metodo D’Hondt e per il fatto chel’attribuzione di metà dei seggi in collegi uninominali col sistemamaggioritario semplice, può tradursi nella prima scelta dell’elettoredestinata a ripercuotersi su quella che compie votando le liste. Gliargomenti a favore di questa scelta, come si vede argomenti tecnici,diventeranno sempre meno tecnici man mano che i comunisti, supe-rato l’iniziale rifiuto di riformare il sistema elettorale e l’assetto costi-tuzionale della forma di governo, si accorgeranno delle convenienzeche un sistema con premio di maggioranza alla coalizione vincente,come quello proposto da Ruffilli e Pasquino, poteva offrire, per darel’impressione di superare lo stallo del processo decisionale, contra-stare la proposta socialista di elezione diretta del capo dello Stato,convergere con una Democrazia cristiana, a sua volta tentata dall’in-traprendere la stessa strada.

E qui ripercorro una serie di articoli comparsi su «MondOpe-raio», in cui noi cerchiamo il più possibile di contrastare questa deri-va. Articoli di Mario Patrono, Salvo Andò, uno mio, e un altro diSergio Bartoli, in cui si cerca soprattutto di entrare nel merito dellariforma istituzionale. Bartoli nega addirittura che la riforma dellapresidenza della Repubblica sia all’ordine del giorno solo perché lachiede il Partito socialista, e ricorda che il progresso enlargementdelle funzioni presidenziali verificatosi nella prassi, non corrispondealla disciplina del testo, e ipotizza per un presidente eletto dai citta-dini, un ruolo di motore autorevole del sistema, in grado di contra-stare le situazioni di stallo politico. A sostegno della posizione socia-lista e della priorità accordata alla riforma istituzionale rispetto aquella elettorale, non mancano motivazioni di sistema, motivazioniche Amato adduce anche nel punto politicamente e storicamentepiù scabroso, ossia, la crisi dei partiti di massa.

L’ipotesi che, venute meno le ragioni dell’epopea dei partiti, cifos se bisogno di un’autorità democratica, non interamente dipen-dente dai partiti pigliatutto – ricorda in un articolo uscito su «Mon-dOperaio» nel febbraio 1991 –, era stata già fatta negli anni settan-ta, ma era rimasta nell’ombra nel de cennio successivo, quando sitrattava piuttosto di rimuovere ostacoli al funzionamento degliapparati, ossia un governo organizzato per feudi e un Parlamentodove i tempi non erano contingentati e il voto segreto era previsto in

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troppe occasioni. Dopo di che – prosegue – ci siamo accorti cherimosse le occlusioni che impedivano alla volontà politica di passa-re, questa non passava egualmente perché si stava essa stessa affie-volendo. Abbiamo potato e risistemato i rami dell’albero istituzio-nale, ma erano minate e malate le radici, le radici del consenso e delrapporto con la collettività popolare. Se così è, chiedere che le isti-tuzioni abbiano autorità democratica, non ha niente a che fare conl’autoritarismo, e ha a che fare piuttosto con la responsabilità.

Queste motivazioni dimostrano come le scelte istituzionali deisocialisti non si riconducessero alla presunzione di avere l’uomo giu-sto al posto giusto, all’esigenza di restare in campo, esigenza che unariforma elettorale in senso maggioritario non avrebbe consentito,come nota, sempre Amato, in un’intervista che fu curata da me su«MondOperaio», comparsa nel 1987.

Anzi, a chi scrive oggi, in un’epoca dominata dallo scollamentotra potere e responsabilità su scala globale nell’Unione Europea, e inItalia in maniera ancora più radicata, il fatto di associare nel 1991, laproposta di elezione diretta del capo dello Stato e il principio di re -sponsabilità, appare quasi un’ultima chiamata. Non perché non vifossero altri possibili congegni istituzionali per far valere il principio,ma perché tutti i variegati processi di concentrazione e dispersionedel potere pubblico e privato, verificatosi in seguito, ben al di là delletristi vicende della nostra legislazione elettorale, saranno accomuna-ti proprio dalla tendenza del potere a fuggire dalla responsabilità.

Dai testi emerge, dunque, una linea non puramente strumentale,né limitata al mantenimento del famoso potere di coalizione. A mag-gior ragione, dobbiamo chiederci perché non seppe parlare al paese,e qui il discorso sulle attese, che faceva prima Luciano Cafagna, conil quale, del resto, ho parlato di questo tema, c’entra molto. Non misto riferendo, quando mi chiedo perché non seppe parlare al paesequesta posizione, alle modalità tecniche, meno ancora alle confuseipotesi di referendum propositivo balenate nell’ultima fase della pre-sidenza Cossiga, mi riferisco proprio al consenso diffuso che, a uncerto punto, si fa massa critica, e si riversa nelle urne. A differenzadei due maggiori partiti, i cittadini italiani prima dello tsunami deiprimi anni novanta, non temevano affatto che la proposta di elezio-ne diretta del capo dello Stato nascondesse intenti, o producesseeffetti plebiscitari, c’erano, insomma, anche da questo cruciale pun -to di vista, le premesse per spostare il loro consenso su una forzatranquilla, pur in un contesto diverso da quello francese, ricordere-

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te lo slogan francese sul Partito socialista, una forza tranquilla. Maquesto consenso, bisognava saperlo intercettare, e i socialisti non nesono stati politicamente capaci. Per uscire dalla crisi istituzionale,occorreva presentare soluzioni ragionevoli, portarle avanti conpazienza e tenacia e dimostrare soprattutto di credere a quello che sidiceva, non di continuare a lanciare ballons d’essai, e confondersicosì con altri lanciatori.

Da questo punto di vista, non mi convince la raffinata ipotesi chelega il rilancio della «grande riforma», nella seconda metà degli anniottanta, alla scoperta che, rimosse le occlusioni istituzionali alla cir-colazione della volontà politica, questa non circolava lo stesso per-ché era troppo affievolita, non perché questo non sia vero, ma credoche la posizione dei socialisti non possa essere ricostruita così.

Credo che nel non breve periodo in cui la legge di Tocqueville, sucui Luigi Covatta ha scritto il suo ultimo libro, ancora non era appli-cabile, mancò ai socialisti, anche dal punto di vista istituzionale, unafiducia all’altezza delle ambizioni, la fiducia necessaria a superarequella condizione di eterno partito secondo, di cui parlò, molti annifa, Giuseppe Carbone.

È possibile che Craxi avesse in mente l’esperienza del suo mae-stro Pietro Nenni, che aveva dato un contributo impareggiabile allafondazione della Repubblica, senza trarne frutti politici. Può darsiche la sua fu la classica reazione eguale e contraria del figlio, il figliodi un fondatore, che perse la partita politica e al cui ruolo non è stataancora prestata sufficiente attenzione in sede di storia costituzionale.

È un’ipotesi, naturalmente, che andrebbe, questa sì, esplorata intutte le implicazioni, possibilmente con il gusto della libertà e laspregiudicatezza culturale che, per fortuna, non è ancora andataperduta.

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L’ABOLIZIONE DEL VOTO SEGRETO E LA RIFORMA DEI REGOLAMENTI PARLAMENTARI

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Desidero anzitutto rivolgere un vivo ringraziamento agli organiz-zatori di questa giornata di studio e di riflessione sulla «grande rifor-ma» di Craxi e, particolarmente all’amico Gennaro Acquaviva. Enon solo per avermi invitato a trattare un tema, a me particolarmen-te caro, come quello affidatomi su L’abolizione del voto segreto e lariforma dei regolamenti parlamentari, ma altresì per l’opportunitàoffertami di riconsiderare parte significativa dei discorsi parlamen-tari di Craxi che, peraltro, in larga misura avevo ascoltato in di retta,e che ho avuto modo di apprezzare ulteriormente per la schiettezzae la linearità del suo argomentare e soprattutto per la lungimiranzadi tante sue considerazioni che gli anni trascorsi da quando furonoformulate, rendono di straordinaria evidenza.

Nell’Introduzione ai Discorsi parlamentari, 1969-1993 di BettinoCraxi , curati per la collana «Fondazione della Camera dei deputa-ti» da Gennaro Acquaviva si legge, testualmente: «Accanto e direiprima della politica estera il punto centrale dell’azione politica diCraxi fu indubbiamente quello della governabilità. Potremmo diresenza forzature che, da quando divenne segretario del psi e fino aquando la vicenda craxiana fu espulsa violentemente dall’esperienzapolitica del paese, essa rappresentò la stella polare del suo agire poli-tico». E pensate che in riferimento alla politica estera lo stesso Craxiin uno dei suoi primi discorsi importanti da segretario del psi nel-l’aula di Montecitorio, precisamente il 10 agosto 1976, rivolgendosiall’allora presidente del Consiglio Andreotti, aveva sottolineato cheil suo partito «aveva a cuore l’indipendenza della politica estera delnostro Paese almeno quanto la sua libertà».

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Questa valutazione sul ruolo della governabilità nell’azione poli-tica di Craxi trova puntuale conferma nei vari interventi parlamen-tari da lui svolti, come segretario del suo partito in occasione dellafiducia a vari governi a partecipazione socialista, nelle dichiarazioniprogrammatiche dei governi da lui presieduti e altresì nella discus-sione sul messaggio del presidente della Repubblica Cossiga in mate-ria di riforme istituzionali e in due occasioni presso la Commissionebicamerale presieduta da De Mita sulle riforme istituzionali, conparticolare riguardo alla legge elettorale.

Che Bettino Craxi fosse leader politico di alto profilo è fatto no -torio che risulta ampiamente confermato dai suoi interventi parla-mentari. Era statista non incline alle mediazioni snervanti, specie suiprincipi, intento piuttosto a delineare le grandi strategie dirette agarantire stabilità e progresso al nostro paese; rifuggiva dalle tecni-calità e non amava particolarmente l’ingegneria costituzionale, nellaquale peraltro molti in quegli anni, politici e non, si cimentavano conlarghezza.

Il tema che più lo appassiona, sul quale ritorna con forza più volteè quello, come già rilevato, della governabilità, di cui sono capitoliparticolari, tra l’altro, la rappresentanza politica con la legge eletto-rale, l’abolizione del voto segreto e, più in generale, la riforma deiregolamenti parlamentari. Direi che l’intera «grande riforma» diCraxi, che è l’oggetto specifico di questo nostro convegno, ha a pre-supposto e si muove con il fine di garantire la governabilità delpaese.

Osservavo pocanzi che taluni dei più significativi interventi diCraxi avevo avuto modo di ascoltarli dalla sua viva voce e leggendo-li ora sono riaffiorati alla mia memoria tanti ricordi legati alle molteore trascorse nell’aula di Montecitorio.

In proposito consentitemi di esternare un solo ricordo personale,un ricordo che è anche una testimonianza. Mi trovavo in aula, accan-to al presidente della Camera Nilde Iotti, di cui ero allora il consi-gliere parlamentare capo della Segreteria. Era il 18 aprile 1980 eCraxi stava intervenendo nella discussione sulle comunicazioni del iigoverno Cossiga, (il discorso che Acquaviva intitola, nel volume dalui curato, La svolta della governabilità); la Iotti, che seguiva congrande attenzione l’oratore, sul finire del suo intervento mi confidòsottovoce: «Di questo signore non potrà non tenersi conto, con luici si dovrà certamente misurare». Questa valutazione della Iotti, cheera persona sempre prudente, attenta e riflessiva mi rimase partico-

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larmente impressa non soltanto per i suoi contenuti ma altresì per-ché era del tutto insolito che lei si lasciasse andare, specie a caldo, agiudizi così risoluti, che mi apparvero nettamente positivi.

Ma veniamo ora all’esame del tema assegnatomi e, cioè, le rifor-me dei regolamenti parlamentari che caratterizzarono gli anni ottan-ta sino all’inizio degli anni novanta tra le quali, particolarmente inci-siva e rilevante, quella della cosiddetta abolizione del voto segreto.

Preliminarmente è opportuno ricordare che il regolamento del1971, sulle cui prime modifiche oggi ci soffermiamo, è un regola-mento interamente nuovo, la cui predisposizione, fortemente volutadall’allora presidente della Camera Pertini, rappresentò un vero eproprio evento storico: era infatti dal lontano 1900 che la Cameranon si dotava di un nuovo, organico regolamento.

Come la storia parlamentare si è ampiamente incaricata di dimo-strare, le varie riforme dei regolamenti parlamentari, succedutesi neltempo, trovavano un forte aggancio in fatti politici significativi chene avevano stimolato e talora resa necessaria l’adozione: mi riferisco,nel caso della riforma del 1900, alla crisi di fine secolo e all’ostru-zionismo parlamentare contro i decreti emanati dal governo Pellouxche certamente indussero la Camera a dotarsi di nuovi strumentiregolamentari per assolvere efficacemente le proprie funzioni.

Il fenomeno, che è generale, vale, come vedremo, anche per lealtre riforme regolamentari. È tuttavia da rilevare che nel lungoperiodo che va dal 1900 al 1971 non è che non vi sia stato alcunintervento di riforma regolamentare: essi vi furono e, precisamente,nel 1939, con la Camera dei fasci e delle corporazioni e, nel 1945-1946, con la Consulta nazionale, ma furono scarsamente significati-vi, ancorché confermino l’assunto qui evidenziato, in quanto direttientrambi a disciplinare l’esercizio di peculiari funzioni di assembleenon elettive attraverso specifici regolamenti.

È ancora da sottolineare che la mancata predisposizione di unnuovo regolamento per un così lungo periodo di tempo – in dispar-te le due eccezioni ora evidenziate – si verificava nonostante fosserointervenuti in quegli anni straordinari eventi storici, quali l’avventoe la caduta del fascismo, la nascita della Repubblica a seguito delreferendum istituzionale e l’approvazione di una nuova Costituzio-ne. Ciò nondimeno la Camera, fino al 1971, non si era data unnuovo, intero e organico regolamento; essa operò, fino al 1971, conle vecchie norme del regolamento del 1900 (integrato con le modifi-cazioni introdotte fino al 1922 e cioè all’avvento del fascismo), nor -

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me che furono richiamate in vita anche per lo svolgimento dei lavo-ri dell’Assemblea costituente e che, nella prima legislatura furonointegrate in via novellistica per adattarle alle nuove esigenze di fun-zionamento della Camera, quale delineata dalla nuova Costituzione:si pensi, per fare un solo esempio, al nuovo procedimento legislati-vo attraverso le Commissioni parlamentari, anche deliberanti.

Sarà sufficiente, in questa sede, rilevare che anche il nuovo rego-lamento del 1971, che è fortemente innovativo rispetto al passato,risente dell’evoluzione della situazione politica di quel periodo sto-rico: si era esaurita la fase dei governi centristi, si era consumata l’e-sperienza del primo centrosinistra, si delineavano nuovi orizzontipolitici: non può non sottolinearsi che furono in molti a considerareil regolamento del 1971 figlio della cosiddetta «centralità del Parla-mento». Esso, cioè, accentuava il ruolo essenziale e trainante delParlamento il quale rivendicava, nei confronti del governo, un ruolonuovo di «motore del sistema», di protagonista, di coautore e nonpiù di comparsa nella determinazione dell’indirizzo politico e, quin-di, delle scelte fondamentali del paese. E, rispetto al passato, taleregolamento riduceva gli spazi propri della tradizione liberale, dinetta impronta individualistica, che poneva al centro del sistema ilsingolo deputato; ora il centro motore della vita parlamentare divie-ne il gruppo parlamentare, cui spesso vengono attribuiti compiti epoteri non sempre strettamente commisurati alla effettiva rappre-sentanza politica del gruppo, e si affermano forme di unanimismo etendenze assemblearistiche. Il regolamento, in sostanza, attenua erende meno netti i ruoli di maggioranza e opposizione, in preceden-za rigidamente precostituiti sulla base del ruolo fiduciario con ilgoverno: si delinea, cioè, una maggiore flessibilità nelle posizioni, nelsenso che il rapporto con il governo si adatta e si compone quoti-dianamente nel confronto e nel dialogo propri della dialettica parla-mentare.

Se, come prima rilevato, la storia parlamentare ha confermato l’e-sistenza di un collegamento fra riforme regolamentari ed evoluzionedella politica, talora anche molto stretto, il regolamento del 1971appare in qualche modo prodromico di quella fase politica notacome compromesso storico nella quale cioè si manifesta un più deci-so collegamento tra forze tradizionalmente antagoniste quali la De -mocrazia cristiana e il Partito comunista.

La riforma dei regolamenti parlamentari inizia nell’ottobre del1981, dopo un decennio dal varo del nuovo regolamento. L’unica

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mo difica apportata al regolamento della Camera antecedentemente atale data e, precisamente, nel giugno 1978, con l’inserimento di uncomma aggiuntivo all’articolo 143, è diretta conseguenza dell’appro-vazione della legge n. 14/1978 sul controllo parlamentare delle nomi-ne effettuate dal governo e si muove sempre nella medesima logicadell’ampliamento dei poteri del Parlamento, prima evidenziata.

Alla riforma regolamentare presa in esame in questa sede concor-rono due fattori politici non trascurabili, a conferma di quanto pri -ma rilevato circa il filo che generalmente lega le riforme regolamen-tari all’evolversi della situazione politica: da un lato volgeva or mai altermine la stagione della solidarietà nazionale, e andava delineando-si un nuovo, rinnovato centrosinistra, con una più intensa e deter-minante partecipazione del Partito socialista; dall’altro lato con laviii legislatura si consolidava la presenza in Parlamento del Partitoradicale, di una forza politica, cioè, che seguiva nelle Camere mo dulicomportamentali diversi da quelli fino ad allora prevalentementeseguiti da altri gruppi di minoranza.

Il gruppo radicale che aveva iniziato una contestazione genera-lizzata del regolamento parlamentare del 1971 fin dalla vii legislatu-ra, sotto la presidenza Ingrao – ricordo la giornata di studio pro-mossa da tale partito presso l’Hotel Parco dei Principi di Roma ovealla presenza anche di autorevoli studiosi delle istituzioni parlamen-tari fu presentato un voluminoso dossier di presunte violazioni rego-lamentari che si assumevano perpetrate nel corso di quegli anni – siera numericamente rafforzato nella successiva legislatura e ricorrevacon frequenza e sistematicità all’ostruzionismo, impedendo così ilregolare funzionamento delle Camere. Tale atteggiamento influì cer-tamente sugli orientamenti delle maggiori forze politiche che poseroin termini ultimativi il problema di un Parlamento moderno, capacedi decidere efficacemente e in tempi utili per soddisfare le esigenzedel paese.

Questo processo di revisione regolamentare che incise profonda-mente sul funzionamento dell’istituzione parlamentare tanto da con-durre, nell’arco temporale qui considerato, a rivoluzioni come quel-la dell’abolizione del voto segreto, prese le mosse, non a caso, dallamodifica dell’articolo 39 del regolamento della Camera relativo aitem pi di intervento nei dibattiti, allora illimitati, per ridurneragione volmente la durata.

E fu proprio in quell’occasione che il gruppo radicale mise in attol’ostruzionismo più marcato della storia parlamentare, superando

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per lunghezza ogni precedente primato di durata degli interventi epresentando un numero di emendamenti abnorme, cui mai in pre-cedenza si era arrivati (esattamente 53.366) per impedire all’Assem-blea di pronunziarsi.

Consentitemi di rivendicare con una punta d’orgoglio di avercontribuito in maniera determinante, in concorso con l’allora segre-tario generale, l’amico Vincenzo Longi, a delineare quella soluzionedella votazione in linea di principio (desunta dalla prassi relativa agliemendamenti presentati nelle Commissioni in sede legislativa, suiquali acquisire il parere delle Commissioni bilancio e affari costitu-zionali, prima di poterli sottoporre all’approvazione definitiva), checonsentì alla Camera di uscire dal pericoloso tunnel in cui era entra-ta. Su tale procedura fu espresso uno specifico parere della Giuntadel regolamento, fatto proprio dal presidente Iotti che ne espressepuntualmente le argomentazioni a sostegno nella seduta della Came-ra del 4 novembre 1981.

La riforma regolamentare, al di là dell’adozione di particolari, purnecessarie misure, tendeva sostanzialmente a superare la logica,prima evidenziata, che sottostava al regolamento del 1971. Non puònon ricordarsi che tale regolamento, fin dal suo nascere, aveva datoluogo a grandi consensi, ma anche a critiche significative, tanto chevenne fin da allora rilevata l’esigenza di procedere alla revisione ditaluni istituti più discussi dopo un congruo periodo di sperimenta-zione. Vi era, infatti, la consapevolezza che le soluzioni adottate,lungi dall’essere perfette, apparivano peraltro come le migliori pos-sibili e che soltanto l’applicazione di quelle norme avrebbe potutonel tempo far emergere l’opportunità e la possibilità di diversi e piùavanzati equilibri. D’altronde in questa medesima linea si colloca ladecisione della Giunta del regolamento della Camera che all’indo-mani dell’approvazione del regolamento adottò un parere, articola-to in ben 16 punti, con il quale si definiva l’interpretazione di nume-rose nuove disposizioni di dubbia e difficile applicazione, interpre-tazione che si richiamava, sostanzialmente, alla prassi formatasi sulleprecedenti norme.

La riforma regolamentare che si attua nell’viii legislatura, puravendo portata limitata, ha una grande valenza politica per due ordi-ni di considerazioni: anzitutto perché per la prima volta si procedeal varo di un pacchetto di proposte di modificazioni al regolamentoche pur non avendo intendimenti dichiaratamente antiostruzionisti-ci risponde a un progetto di razionalizzazione e modernizzazione del

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procedimento legislativo; in secondo luogo perché sull’insieme diproposte che la Giunta sottopone all’Assemblea, frutto di delicate ecomplesse mediazioni, si registra una convergenza di consensi assaiampia, ben superiore a quella costituzionalmente richiesta, che in -clude oltre alla maggioranza di governo anche gran parte dell’oppo-sizione e, segnatamente, quella di sinistra.

Questo primo pacchetto di riforme, oltre alla richiamata modifi-ca dell’articolo 39 del regolamento, sulla limitazione della duratadegli interventi nei dibattiti, include: 1) una nuova disciplina (arti-colo 85) della discussione degli articoli, all’interno della quale vienecollocato anche l’esame degli emendamenti, in passato oggetto didifformi interpretazioni, con precisi limiti alla durata degli interven-ti; 2) la revisione delle modalità di fissazione del programma e delcalendario (articoli 23 e 24) dei lavori parlamentari, affiancando alrigido criterio dell’unanimità, che era miseramente fallito, quellodell’approvazione a maggioranza da parte dell’Assemblea, sia pureattraverso una proposta presidenziale che media tra le divergentiposizioni; 3) l’introduzione di un filtro di costituzionalità nell’iterdei disegni di legge di conversione dei decreti legge, nel senso del-l’attribuzione alla Commissione affari costituzionali del compito diesprimere un parere scritto e motivato sull’esistenza dei requisiticostituzionali di straordinaria necessità e urgenza nel provvedere daparte del governo. A queste proposte si aggiunse l’anno successivo(settembre 1982) la modifica sostanziale della procedura per Com-missione redigente, che aveva avuto limitatissime applicazioni nellaprassi, al fine di renderla più agile e, quindi, percorribile.

L’anticipato scioglimento della viii legislatura interrompe l’iterdelle riforme regolamentari che riprende con maggior forza e am -piezza nella ix legislatura. Tra il settembre 1983 e il giugno 1986, ven-gono approvate dalla Camera, su proposta della Giunta del regola-mento, sei distinti progetti, che si ispirano ai medesimi principi cheavevano caratterizzato le innovazioni introdotte nella precedente le -gislatura, progetti che modificano ben 31 disposizioni del regolamen-to: dall’istituzione della sessione di bilancio, alla disciplina di talunipoteri ordinatori del procedimento da parte dei presidenti e rappre-sentanti dei gruppi con particolare riferimento ai quorum, opportu-namente elevati, necessari per avanzare determinate richieste, all’in-troduzione del question time; dalla disciplina della mozione di sfidu-cia individuale, allo snellimento e razionalizzazione dell’iter legislati-vo e all’ampliamento della composizione dell’Ufficio di presidenza.

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Un’altra fondamentale proposta della Giunta relativa al contin-gentamento dei tempi e alla cosiddetta corsia preferenziale, fu sol-tanto discussa nelle linee generali e, quindi, rinviata a seguito delleperplessità e riserve da più parti manifestate. Si tratta di due argo-menti tuttora di grande attualità: il contingentamento dei tempi allaCamera, in forza della disposizione transitoria tuttora in vigore, nontrova applicazione, diversamente dal Senato, per i disegni di legge diconversione dei decreti legge; quanto alla corsia preferenziale essa èa tutt’oggi invocata dalla maggioranza per la tempestiva attuazionedel programma.

All’inizio della x legislatura si modifica nuovamente la disposizio-ne regolamentare relativa alla composizione dell’Ufficio di presiden-za per consentire la rappresentanza di quei gruppi la cui costituzio-ne fosse stata dallo stesso Ufficio di presidenza autorizzata e che nonfossero in esso rappresentati; inoltre vengono modificate le disposi-zioni sulla composizione e sulle competenze delle Commissioni per-manenti, con riduzione del loro numero da 14 a 13, privilegiando,per quanto possibile, il criterio dell’unificazione delle materie persettori organici e integrati discostandosi, in qualche misura, da quel-lo tradizionale della «specularità» delle competenze con i modellimi nisteriali.

Peraltro la modifica di gran lunga più rilevante fu quella della sop-pressione del voto per scrutinio segreto sostituito dal voto palese.

Su questo tema Craxi già nella viii legislatura, nella seduta dellaCamera del 24 ottobre 1980, in occasione della discussione sul igoverno Forlani, si pronunziò a chiare lettere, come emerge da que-sta pagina del suo intervento, cui Acquaviva, nel volume da lui cura-to, ha giustamente dato il titolo di Voto segreto in fabbrica, voto pale-se in Parlamento, contenuto in uno scritto di quei giorni di LeoValiani, che Craxi richiama:

So di affrontare una questione spinosa, che molti in questa Assembleaforse considerano un tabù o addirittura – come ho sentito dire ieri – unavia avventurosa. Lo faccio con molto rispetto, sapendo però che il proble-ma non è nuovo ed investe questioni di principio di prima grandezza. Senon fossimo alla Camera dei deputati della Repubblica italiana, ma all’as-semblea della Repubblica romana del 1849 o della Repubblica veneta, allasinistra siederebbero i mazziniani, i repubblicani, i futuri garibaldini, soste-nitori decisi del voto palese, e alla destra i moderati, preoccupati di difen-dere il voto segreto che figurava negli statuti monarchici. Nelle due assem-blee risorgimentali, impegnate a gettare le basi morali del rinnovamento ita-

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liano, il dibattito sulla segretezza del voto finale sulle leggi fu molto accesoed in entrambe, alla fine, prevalse la tesi delle sinistre.

Dopo aver richiamato le opposte tesi sostenute nell’Assembleaveneta dal Sirtori e dal Tommaseo, sposando chiaramente quelle delprimo, perché il voto palese è sempre favorevole al popolo al qualebisogna rendere conto «di tutti i nostri atti legislativi, di tutte lenostre deliberazioni politiche», Craxi ricorda che

Il 14 ottobre 1947, di fronte all’Assemblea costituente, a parlare sullaproposta di inserire nella Costituzione lo scrutinio segreto per il voto sulleleggi, si alzò Aldo Moro e singolarmente riprese e difese le tesi di Sirtori,non quelle di Tommaseo. Egli disse, allora: «Mi ripugna che si faccia richia-mo, niente meno che nel testo costituzionale, a questo sistema particolaredi votazione, del quale si possono dire due cose: da un lato che tende adincoraggiare i deputati meno rigorosi nella affermazione delle loro idee edall’altro che tende a sottrarre i deputati alla necessaria assunzione di re -sponsabilità di fronte al corpo elettorale, per quanto hanno sostenuto e de -ciso nell’esercizio del loro mandato».

Craxi, dal canto suo, così concludeva sul punto:

Ebbene, onorevoli colleghi, tante esperienze hanno dimostrato se non altroquanto fondamento avessero le preoccupazioni dei padri del Risorgimento edei padri della Costituzione repubblicana, a proposito della schiettezza dellalealtà, della chiarezza delle responsabilità degli eletti verso la sovranità popo-lare, di cui sono rappresentanti. Giudicherà l’Assemblea, se lo vorrà, e deci-derà allora se riterrà giusto o meno ritornare allo spirito della Costituzione,senza che nessuno possa avere il diritto di giudicare questo un’avventura.

E, come è noto, l’Assemblea costituente nella seduta antimeridia-na del 15 ottobre 1947 respinse a scrutinio segreto un emendamen-to tendente a ripristinare il testo primitivo della Commissione, cheaveva previsto l’obbligatorietà di tale metodo di votazione per il votofinale sulla legge.

Ma proprio perché da tale votazione non poteva farsi discenderealtro vincolo se non quello che la Costituente aveva inteso manife-stare in proposito e, cioè, soltanto l’intendimento di non costituzio-nalizzare l’obbligo dello scrutinio segreto sul voto finale delle leggi,la questione, in concreto, risultò rimessa alla valutazione dei regola-menti parlamentari.

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Ora, mentre la Camera, secondo la tradizione del suo regola-mento (che derivava dall’articolo 63 dello Statuto Albertino, il qualeprevedeva che «lo isquittinio segreto [...] sarà sempre impiegato perla votazione del complesso di una legge e per ciò che concerne alpersonale»), conteneva all’articolo 91 tale disposizione, il regola-mento del Senato, invece, aveva soltanto la norma (articolo 113,comma 3), sulla prevalenza dello scrutinio segreto nel concorso didi verse domande tra più tipi di votazione; da ciò derivava che, inassenza di specifica richiesta, al Senato, diversamente che alla Came-ra, la votazione finale su di un disegno di legge avveniva «per alzatadi mano» e tale differenza tra i due regolamenti, per la quale eranostate espresse riserve di costituzionalità, fu invece ritenuta costitu-zionalmente compatibile dalla stessa Corte Costituzionale. E d’altrocanto tale disposizione regolamentare del Senato era esattamentesimmetrica con la norma di cui all’articolo 51, comma 3, del regola-mento della Camera, ove si disponeva: «nel concorso di diverse ri -chieste prevale quella di votazione per scrutinio segreto». Entrambii regolamenti, poi, prevedevano comunque un quorum minimo peravanzare tale richiesta, peraltro numericamente differente attesa ladiversa composizione delle due Camere.

La verità è che, dal punto di vista costituzionale vi è assoluta«indifferenza» verso l’una o l’altra modalità di votazione; né vale in -vocare: 1) in senso favorevole al voto segreto l’esigenza, che trove-rebbe conforto nell’articolo 67 della Costituzione sul divieto di man-dato imperativo, di garantire l’indipendenza del parlamentare dalsuo partito e dai suoi stessi elettori ovvero la circostanza che alla stes-sa Costituente si sia fatto uso del voto segreto per la sua stessa appro-vazione, ancorché prima del 23 aprile 1947, quando su richiesta delprescritto numero fu votato a scrutinio segreto l’emendamento, poirespinto, sull’indissolubilità del matrimonio, fossero ol tre sessanta-cinque anni che non trovava applicazione la norma sulla prevalenzadello scrutinio segreto; 2) a sostegno del voto palese gli articoli 68 e94 della Costituzione con il primo dei quali si prevede l’ir -responsabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio dellefunzioni, che sembrerebbe implicare un voto manifestato in for mapalese, mentre il secondo statuisce l’obbligo di ricorrere all’ap pellonominale per la fiducia al governo.

A ben vedere l’esigenza dell’abolizione del voto segreto si è fattavieppiù urgente e indifferibile allorquando di tale strumento si èabusato in modo vistoso e continuativo come dimostrato dal pro-

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gressivo espandersi in forma geometrica, a decorrere dalla vii legi sla -tura, del ricorso a tale tipo di votazione (si è passati dalle 182 vota-zioni della vi legislatura alle 643, 2485, 2516 delle successive vii, viiie ix legislatura e addirittura alle 1249 in poco più di un anno della xlegislatura) con particolari gravi conseguenze per la governabilitàdel paese; ciò specie con le ripetute crisi di governo indotte da dif-formità nei risultati, per l’operare dei «franchi tiratori», tra il votopalese sulla questione di fiducia posta ad esempio sull’articolo unicodi conversione di un decreto legge e il voto finale sull’intero provve-dimento che, per il regolamento della Camera, doveva svolgersi ascrutinio segreto.

Di qui la previsione della sua abolizione unitamente ad altreriforme istituzionali, in sede di predisposizione del documento d’in-tesa programmatica del governo pentapartito «organico» presiedutodall’onorevole De Mita.

In proposito possono utilmente richiamarsi le parole pronunzia-te dallo stesso Craxi, nel corso della discussione sulla fiducia, il 20aprile 1988:

Su un pacchetto delimitato, ma non per questo meno significativo, diriforme istituzionali si è raggiunta una intesa, che naturalmente consideria-mo aperta alla possibilità di intese parlamentari più vaste. È infatti sacro-santamente vero che le istituzioni sono di tutti e che per ciò sono somma-mente auspicabili le convergenze più ampie... si tratta delle prime riforme,non di tutte le riforme che sarebbero possibili e sono necessarie. È ciò chepare maturo, attraverso una presa di coscienza generale che è tardata avenire...

L’abolizione fu poi approvata a scrutinio segreto alla Cameranella seduta del 13 ottobre 1988 con 323 voti a favore, soltanto settevoti in più rispetto al quorum di 316 costituzionalmente richiesto.

Accanto alle riforme tradottesi in modificazioni formali dei rego-lamenti parlamentari, sommariamente sin qui ricordate, non puònon farsi cenno a due significative innovazioni nelle procedure par-lamentari che hanno, di fatto, inciso in maniera rilevante sul funzio-namento delle istituzioni: mi riferisco da un lato all’approvazione daparte della Camera della mozione Scalfaro-Biondi, sottoscritta daoltre la metà dei deputati, avvenuta il 15 gennaio 1991 sulla cosid-detta parlamentarizzazione delle crisi di governo; dall’altro lato alladeterminazione adottata dall’Ufficio di presidenza della Camera dei

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deputati nel 1992, in occasione dell’elezione del presidente dellaRepubblica, di procedere alla predisposizione di vere e proprie cabi-ne elettorali, che consentissero di garantire l’effettiva segretezza delvoto, da taluni non ritenuta assicurata con le modalità di voto finoad allora seguite.

Con la mozione si è inteso porre alcune limitazioni, sia pure diordine meramente procedurale, alla facoltà del governo di dimetter-si liberamente (è il caso della cosiddetta crisi extraparlamentare, incui, cioè, non è intervenuto un formale voto di sfiducia di una Came-ra, il solo che obbliga alle dimissioni) senza farsi carico di motivaree dar conto, in modo solenne e formale dinnanzi al Parlamento,delle ragioni che inducono lo stesso governo a interrompere unilate-ralmente il rapporto fiduciario con le Camere, da queste ultime nonmesso in discussione: si tratta, in sostanza, di recuperare al Parla-mento un ruolo centrale in materia di rapporto fiduciario che per ipiù sarebbe stato espropriato dalle direzioni dei partiti, offrendoaltresì al capo dello Stato utili elementi, in quanto riscontrati in Par-lamento, per risolvere la crisi di governo la quale pertanto dovrebbeaprirsi soltanto dopo il dibattito parlamentare.

Quanto alla modalità di espressione del voto per l’elezione delpresidente della Repubblica l’utilizzazione della cabina elettorale,che ne ha garantito l’assoluta segretezza, potrebbe anche avere inci-so significativamente, per taluno, sul futuro della vita istituzionaledel nostro paese.

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LA «GIUSTIZIA GIUSTA»

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1. la costituzione e le culture antistituzionali

Il contesto nel quale si sviluppa la politica di Bettino Craxi sulleistituzioni e la giustizia è caratterizzato: 1) dalla presenza in Italia diuna Costituzione materiale formatasi in un processo di conflitto/con -sociazione nel quale sono stati impegnati due tra i più autorevoli sog-getti della fase costituente; 2) dalla diffusione in Italia di ra dicate epervasive culture antistituzionali; 3) dall’esperienza degli anni settan -ta e ottanta nei quali si affermano teorie catastrofiche della società eteorie dell’inadeguatezza della democrazia nella gestio ne della com-plessità sociale.

Nelle culture di una parte dei costituenti sono stati presenti fortielementi antistatalistici. In settori del cattolicesimo democratico de -rivati da una latente contestazione della legittimità dell’autorità se - colare e nella sinistra comunista da una concezione delle istituzionicome strumento di oppressione della classe operaia.

Per entrare in un’analisi più specifica, si possono considerare duedelle matrici culturali della Costituzione condizionate dai seguentitemi della riflessione politica: 1) dall’analisi e dalla condanna agosti-niana dell’autorità secolare e dello Stato; 2) dalla condanna marxia-na delle istituzioni pubbliche e del moderno Stato liberale. Per il ve -scovo di Ippona l’autorità pubblica è portatrice di valori negativi.«Togliete la giustizia, e cosa sono i regni, se non grandi brigantaggi?Perché, anche le bande dei briganti cosa sono, se non piccoli regni?Sono manipoli di uomini comandati da un capo, legati da un pattosociale, con la ripartizione del bottino secondo una legge accettata

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da tutti» (Agostino, iv, 4). Quando il brigantaggio si espande, domi-na territori vasti e nazioni, ecco configurarsi la città, la cosa pubbli-ca. «Fu davvero una risposta brillante e veritiera quella data da unpirata fatto prigioniero dal famoso Alessandro Magno. Il re gli chie-se qual era il suo pensiero, per cui infestava i mari; e l’altro, con fran-ca impertinenza rispose: lo stesso per cui tu infesti il mondo. Soloche io, con la mia misera nave vengo chiamato ladro, mentre tu, conla tua grande flotta, imperatore». Solo una regola e una disciplinaultraterrena sono in grado di mitigare la violenza e la barbarie. Laguerra fu sempre, per Agostino, teatro di inenarrabili atrocità. Il vin-citore non seppe evitare mai la tentazione di distruggere material-mente il vinto e di togliere ogni riparo allo sconfitto. Solo una forzaextraterrena impedisce alla barbarie vendicativa di palesarsi. Tale èil miracolo del sacco di Roma. Saccheggi, incendi, sopraffazioni,come in ogni altra guerra. «La differenza invece, l’insolita mitezza dicui si rivestì la disumanità barbarica, per cui scelse e fissò vastissimebasiliche da riempire di gente, senza che nessuno là fosse ferito, nes-suno di là fosse rapito, [...] tutto questo va attribuito al nome di Cri-sto e all’era cristiana» (Agostino, i, 7). Pace sociale, legittimità, paci-fica coesistenza tra uomini sono quindi garantite per Agostino soloda un’autorità superiore e trascendente l’umanità e la storia.

Per la cultura marxista le istituzioni nate dall’età dell’illuminismoe formatesi nella tradizione della rivoluzione americana e di quellafrancese sono irrimediabilmente legate all’economia capitalistica e sipresentano come strumenti di dominio di classe. Marx nell’Ideologiatedesca non solo considera gli ordinamenti giuridici liberali comeespressione del dominio di classe, ma afferma che anche i diritti del-l’uomo riconosciuti dalla rivoluzione del 1789 sono legati alla teoriae alla prassi dello sfruttamento capitalistico del lavoro umano. «Pro-prio in quest’epoca – scrive Marx – tra la dominazione dell’aristo-crazia e quella della borghesia, quando gli interessi di due classi en -travano in collisione, quando il traffico commerciale fra le nazionieuropee cominciava a diventare importante e le relazioni internazio-nali assunsero quindi anch’esse un carattere borghese, il potere deitribunali cominciò a diventare rilevante, per raggiungere il suo cul-mine sotto la dominazione della borghesia» (Marx, Engels, 1969, p.328). Il diritto si coniuga con rapporti sociali ingiusti e per questo,sostiene sempre Marx, «noi abbiamo affermato l’antagonismo tra ilcomunismo e il diritto, sia politico e privato, sia nella sua forma piùgenerale come diritto dell’uomo» (Marx, Engels, 1969, p. 191).

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la «giustizia giusta»

Le due culture prima citate non hanno direttamente influito suiconnotati del testo costituzionale ma hanno favorito alcune inter-pretazioni del sistema istituzionale introdotto nel 1948 che ne atte-nuano il carattere secolare e che cercano di limitare il ruolo premi-nente del controllo elettorale e della sovranità popolare. In partico-lare quelle due culture hanno favorito forme di controllo esternosulla decisione democratica affidate ad autorità definite come supe-riori, imparziali, al di sopra della mischia. Alla democrazia si è con-trapposta la tecnica (l’azione di istituzioni di tipo giurisdizionale oburocratico) ovvero l’agire di corpi particolari (formazioni politiche,il partito moderno principe, l’intelligenza dell’intellettuale colletti-vo, le rappresentanze tradizionali del lavoro dipendente ecc.).

2. la continuità burocratica

Il risultato del convergere delle due culture prima citate nelladefinizione di una Costituzione materiale è stato un sistema istitu-zionale debole sottoposto a due forme di controllo esterno. Quellodelle burocrazie (amministrative, giudiziarie, tecnocratiche), quellodelle organizzazioni collettive: sindacati o partiti.

La Costituzione materiale favorita da quelle due culture è moltovicina alla forma e alla sostanza della Repubblica di Weimar. Qualierano le caratteristiche di questa esperienza politica innovativa esfor tunatissima? Da un lato la conservazione delle prerogative edelle facoltà di ceti burocratici che avevano rappresentato il suppor-to dell’imperialismo prussiano: il ceto militare, la magistratura, l’al-ta burocrazia. Da un altro lato le garanzie date al sindacalismo, alleorganizzazioni socialdemocratiche nonché ai movimenti di tipo«consiliare» di poter esercitare forme di interdizione, rituale o irri-tuale, nei confronti delle decisioni dei poteri legittimi.

Quella di Weimar era una democrazia a sovranità limitata. ErnstTroeltsch, aveva nel 1921 dato alcune definizioni della giovanissimademocrazia tedesca che possono essere adattate al modello istituzio-nale costruito in Italia dopo il 1948.

Esiste un altro punto fortemente illuminato e posto in primo piano dallacrisi attuale: il ruolo dei funzionari, e specialmente dei giudici, nel metterein pericolo o almeno rendere più difficile la repubblica. L’ex ministro Hae-nisch ha raccontato [...] in base a proprie esperienze come il suo proprio

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apparato amministrativo lavori contro di lui e che eminenti giudici gli assi-curano che dei governi venuti su attraverso rivoluzione e infrazioni del di -ritto non possono naturalmente godere la stessa protezione della leggecome i governi legittimi. (Troeltsch, 1977, p. 199)

Troeltsch era tagliente nel definire la natura di una nascente de -mocrazia costretta a ricorrere a un vecchio personale burocratico econdizionata dalle decisioni di un ceto giudiziario formatosi nellacultura prussiana dell’Impero. «Una rivoluzione che conservi concura il corpo dei funzionari precedenti è un caso unico al mondo, eproprio per questo ho sentito non di rado designare la nostra rivo-luzione, un po’ cinicamente come una rivoluzione di princisbecco,fatta da bonari idioti, che si può abolire con facilità» (Troeltsch,1977, p. 200). In sede di Assemblea costituente italiana si accettòproprio la «rivoluzione di princisbecco»: la continuità dell’ordina-mento giuridico e la continuità in democrazia degli apparati buro-cratici alimentati dal fascismo. In Assemblea costituente l’unica vocefavorevole a una rottura dell’ordinamento giuridico e della conti-nuità amministrativa fu quella di un profeta disarmato, di un socia-lista autonomo e anomalo, Lelio Basso. Nella formazione della Co -stituzione materiale (nelle prassi costituzionali e nelle interpretazio-ni degli anni cinquanta e sessanta) il ruolo delle strutture burocrati-che prima si rafforza e si espande poi in modo incontrollato, con lacrescita delle funzioni di welfare, con le politiche di intervento rego-latore nell’economia, con l’imprenditoria statale.

3. governabilità ed emergenza

Il contesto nel quale si trova a operare Craxi a partire dagli annisettanta è fatto da una Costituzione materiale di tipo weimarianochiamata a governare una situazione di crisi economica punteggiatada gravi emergenze.

Il dato più evidente (che riguarda non solo l’Italia) è la crisi digovernabilità provocata dalla modificazione della stratificazione so -ciale e dall’immobilismo del welfare state. Nel momento in cui lasocietà cambia e, accanto al sistema delle classi disegnato dall’eco-nomia industriale di tipo fordiano, si affacciano nuovi ceti, i criteridi distribuzione dei benefici, propri del welfare, si trasformano innuove forme di ingiustizia sociale e finiscono con l’alimentare quel-

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la «giustizia giusta»

la che O’Connor (1973) aveva definito come la crisi fiscale dello Sta -to: un’alimentazione delle politiche pubbliche che grava su stratisociali bisognosi (alla pari se non più dei beneficiari).

A ciò si aggiunge il fenomeno della violenza politica. L’Italia nelcorso degli anni settanta e ottanta ha subito una forma di terrorismopolitico sanguinosa e devastante. Si tratta di un terrorismo diversoda quello animato in altri paesi dell’Occidente europeo da questionidi identità etnica (Paesi Baschi, Irlanda). Le matrici del terrorismoitaliano erano politiche e i progetti riguardavano la collocazione dicampo del paese e la sua dislocazione in una sfera di influenza domi-nata dall’Est.

Crisi di governabilità e violenza vedono i propri effetti potenziatida variabili esterne: la crescita della concorrenza tra paesi capitali-stici e nuove forme di competizione indotte dal processo di unifica-zione dell’Europa.

Per Craxi i problemi prima enunciati non sono transitori ma af -fondano le proprie radici nella struttura della società italiana.

L’Italia – scrive Craxi – non attraversa una crisi congiunturale di emer-genza. Dobbiamo certo affrontare in modo eccezionale i nostri drammiquotidiani che si chiamano principalmente disoccupazione e crisi giovani-le, sanguinose imprese terroristiche, recrudescenza della malavita grande epiccola, persistenza dei fenomeni mafiosi, ma non possiamo negare cheanch’essi si legano a radici profonde. L’Italia è piuttosto ad un bivio stori-co dove attorno alle questioni strutturali si misurano le sue possibilità e lesue capacità di reazione e si definisce in un quadro internazionale semprepiù complesso ed imprevedibile, il suo avvenire prossimo. (Craxi, 1979)

Per alcuni versi la diagnosi di Craxi ricorda quella fatta da AldoMoro nell’ultimo discorso pronunciato al Consiglio nazionale delladc. Anche Moro presenta la situazione italiana come un drammanon solo congiunturale ma che tocca l’identità e la collocazione in -ternazionale del paese. Mentre Moro di fronte a un dramma nazio-nale sceglie il «male minore» cioè l’avvio del compromesso storicocon una forza politica che non ha ancora divelto le proprie radicidall’humus del comunismo sovietico, Craxi scegli un altro itinerario:il recupero di una politica istituzionale capace di sanare l’instabilitàsociale.

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4. il primato della norma sulla decisione

Una parte del programma istituzionale di Craxi non riguarda l’ar-chitettura costituzionale ma lo stile di governo. Si può sostenere checiò appartiene alla tecnica politica più che alle regole e alle istituzio-ni del diritto pubblico. Ma l’obiezione non è soddisfacente. In Italianel primo trentennio repubblicano si era in presenza di un doppioregime costituzionale: quello formale e quello materiale. In un siste-ma nel quale l’attuazione di principi costituzionali non era affidata aistituzioni (come la magistratura di estrazione professionale/legalenel Regno Unito o quella democraticamente legittimata negli usa)ma a equilibri tra i partiti, le convenzioni e le consuetudiniinterparti tiche avevano assunto la dignità di principi e di regole didiritto pubblico.

In presenza di una tale realtà Craxi sceglie di operare sullo stile digoverno contrapponendo il rispetto del testo costituzionale ai pat -ti/convenzioni della Costituzione materiale.

Negli anni della «grande riforma» la questione del decisionismoinvadeva i dibattiti politici. In alcuni casi la battaglia di Craxi controgli ostacoli frapposti dalla Costituzione materiale alle riforme erastata definita come decisionismo. Ma decisionisti in senso schmittia-no sono solo e proprio coloro che si richiamano alla Costituzionema teriale. Coloro che considerano gli accordi, le consuetudini, ipatti extraistituzionali prevalenti sul rigoroso rispetto della legge.

Non è assolutamente un caso che il pensiero di Carl Schmitt godenegli anni del governo Craxi di un successo imprevedibile non sullepagine di «MondOperaio» (ispirate al socialismo liberale e al positi-vismo giuridico di Norberto Bobbio) me presso corposi gruppi diin tellettuali di area comunista. A occuparsi di questo studioso ac -quiescente nei confronti del nazionalsocialismo sono i nuovi intel-lettuali del pci che trovano nell’irrazionalismo giuridico un terrenosul quale innestare la marxiana svalutazione delle istituzioni (dei di -ritti, del diritto eguale, dei principi della rappresentanza).

Contro chi sostiene la prevalenza della Costituzione materiale suquella formale, Craxi afferma il primato della norma sulla decisione,recupera la forma dello Stato di diritto contro la sostanza delle inter-ferenze burocratiche, sceglie il socialdemocratico Kelsen piuttostoche il filonazista Schmitt. I principi della Costituzione scritta assu-mono con Craxi un ruolo prioritario nei confronti di patti e di con-suetudini.

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la «giustizia giusta»

Craxi è per l’attuazione della Costituzione ma non per l’acquie-scenza a una Costituzione inventata dal «moderno principe» e daimoderni consiglieri del principe. L’accordo sulla scala mobile e ildecreto di San Valentino sono il frutto di questa filosofia. Craxi conquella scelta riconosce che il primato nella legislazione appartiene alParlamento e che il governo ha il dovere di intervenire in sede diprogettazione e di predisposizione normativa. Coloro che si oppo-nevano al decreto ritenevano viceversa che non si potesse operare invia legislativa in materie nelle quali, per vecchie consuetudini, ladecisione era concordata tra il governo, il Parlamento e la totalitàdelle organizzazioni sindacali «maggiormente rappresentative». Conil suo stile di governo Craxi progetta un ritorno alla Costituzione in -teso come rispetto delle regole esistenti innanzi tutto e poi come pri-mato della norma scritta rispetto al mercato politico. Anche la deci-sione di accettare di misurarsi con il referendum contro le nuoveregole sulla scala mobile, indetto dal pci e da una parte della cgil,appartiene alla stessa logica. Craxi sceglie di non intervenire con unartificio legislativo sulle norme vigenti per non indebolire la sovra-nità del referendum. Accetta che la legge sia sottoposta al voto po -polare per sancire il primato dei poteri formali dello Stato rispetto amanovre consociative.

5. legittimazione democratica

Craxi rompe anche il muro di ostilità costruito a sinistra (dal pci)contro ogni forma di rafforzamento delle istituzioni basata su di unalegittimazione del capo dello Stato. Nella cultura della sinistra ogniproposta di responsabilizzazione dell’esecutivo era stata bollata digolpismo e di bonapartismo. L’analisi di Marx sul colpo di stato diLuigi Napoleone era rimasta per più di un secolo un testo intangibi-le per la sinistra (non solo quella comunista). Pacciardi, il mitico co -mandante delle brigate internazionali nella Spagna repubblicana,era stato considerato una sorta di criptofascista in conseguenza dellasua proposta (resistenziale, antifascista, gollista) di una repubblicapre sidenziale. Mauro Ferri che agli inizi degli anni settanta aveva ac -cennato alla necessità di rafforzare l’esecutivo era stato accolto conminacciosa ostilità dalla sinistra quasi avesse voluto contribuire allastrategia della tensione.

Craxi rompe il muro del silenzio e ancor prima della vittoria di

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Mitterrand in Francia propone l’elezione diretta del capo dello Statocon un modello abbastanza vicino a quello francese. Il principioispiratore del segretario del psi non è solo quello dell’efficienza delleistituzioni ma anche quello della loro legittimazione e della loro re -sponsabilità nei confronti della sovranità popolare. Il sistema conso-ciativo nella visione di Craxi si configura come un attentato alloStato di diritto e come un tentativo di sostituire forme di mediazio-ne corporativa e tecnocratica alla scelta democratica.

Craxi critica con forza alcuni aspetti del sistema elettorale pro-porzionale. La frammentazione dei partiti, la possibilità di offrirerappresentanza anche a formazioni politiche microscopiche, contri-buisce nell’analisi di Craxi all’ingovernabilità. Le maggioranze devo-no subire il potere di interdizione di piccoli gruppi politici che avolte si limitano a essere espressivi di interessi di corporazioni socia-li o di gruppi imprenditoriali. Per alcuni versi nelle intuizioni di Cra -xi il sistema proporzionale «assoluto» è un veicolo che favorisce l’ir-responsabilità dei governanti e la crescita di poteri tecnocratici noncontrollati dalle istituzioni della rappresentanza o dell’esecutivo. Laquestione del voto segreto si inserisce, con l’analisi di Craxi, nellecritiche alle patologie del sistema proporzionale. Il voto segreto,retaggio delle monarchie costituzionali come strumento di difesa deiprimi Parlamenti dal possibile arbitrio o dalle possibili ritorsioni delpotere regale, attribuisce a piccoli gruppi, micropartiti o partiti neipartiti, la facoltà di privare di senso e di valore le decisioni dell’elet-torato. La critica di alcuni paradossi del meccanismo proporzionalenon si spinge tuttavia alla negazione del principio.

Craxi percepisce come l’Italia lacerata da scontri ideologici, nondotata di forti tradizioni liberali e democratiche abbia bisogno dirilegittimare costantemente le istituzioni attraverso l’apporto di par-titi che rappresentino la pluralità dei bisogni e dei progetti presentinella società. Il sistema proporzionale va quindi mantenuto con cor-rezioni (la clausola di sbarramento di tipo tedesco). Il problema è diimpedire che la frammentazione dei partiti e della rappresentanzafaccia trionfare la filosofia consociativa. In fondo nella Costituzionemateriale del secondo dopoguerra i patti non scritti e i diritti di vetodi soggetti sociali non legittimati a legiferare erano passati attraver-so artifici parlamentari e forzature dei regolamenti parlamentari. Ilvoto segreto consentiva ad esempio a minime minoranze di far crol-lare, senza che alcuno potesse esserne reso responsabile, interi pro-getti politici e intere strategie di riforma. Il meccanismo del voto se -

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greto aveva assunto nella prassi del Parlamento un ruolo sinistro:esso attribuiva un enorme potere ai gruppi di pressione e rendevaestremamente facile il lavoro lobbistico. Col voto segreto il gruppodi pressione non aveva l’onere di conquistare il consenso di unamaggioranza ma si poteva limitare a «convincere» un piccolo grup-po capace in modo palese o a volte segreto di far valere determinatiinteressi. La storia dell’impresa pubblica e privata in Italia è stataspesso legata nel secondo dopoguerra alla storia di piccole organiz-zazioni politiche o di piccole correnti di partito. Craxi considera l’a-bolizione del voto segreto una scelta di governabilità e di moralitàpolitica e giunge a ottenerlo.

Il segretario socialista è convinto che il primato della Costituzio-ne materiale (una concezione consociativa della vita istituzionale)ini bisce al popolo di valutare le responsabilità politiche dei gover-nanti producendo una democrazia solo apparente. In un tale siste-ma è impossibile sostituire le forze politiche al governo sulla base diuna rigorosa valutazione di responsabilità. Il sistema consociativooffusca l’imputabilità delle decisioni pubbliche (Rosanvallon, 1992),esse possono essere attribuite a chi governa ma anche alle opposi-zioni che hanno spinto, ovvero a indistinte forze sociali che hannoformulato richieste con maggiore o minore insistenza (in modo pale-se, mediato, oppure occulto). La responsabilizzazione delle istituzio -ni è vista da Craxi come veicolo di una nuova legittimazione di esse.

6. la democrazia contro il catastrofismo

Per definire il significato dei mutamenti istituzionali (la responsa-bilizzazione dei poteri, il ruolo delle burocrazie, la giustizia) nel pen-siero e nel progetto di Craxi occorre riflettere non solo sulle grandiculture che animano la vita istituzionale italiana nel secondo dopo-guerra ma anche su una specifica contingenza sociale e politica. Nelprogettare alcune significative riforme, Bettino Craxi svolge unaanalisi della società italiana e dell’Occidente che contrasta con alcu-ne interpretazioni catastrofistiche e pessimistiche della crisi degli an -ni settanta.

Il decennio è caratterizzato da un alternarsi di fasi di recessionealimentate da una crescita subitanea del prezzo del petrolio e dellematerie prime. La natura e i caratteri della crisi alimentano duegruppi di ideologie: uno di tipo sociale e un secondo di tipo politi-

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co. Un primo gruppo vede profilarsi nella crisi la fine del modello dieconomia fondato sul mercato e alimentato dalle libertà economi-che. Il secondo gruppo si manifesta con una pluralità di critiche alsistema democratico di decisione politica considerato inadeguato algoverno dello sviluppo industriale.

a. Il catastrofismo economico. La recessione indotta dalle politichedei prezzi di un Terzo Mondo produttore di materie prime consentea settori della cultura e della politica comunista di ipotizzare che ilmodello di sviluppo fondato sul mercato si avvii a una inarrestabilefase di decadenza. La crisi petrolifera simboleggerebbe il tramonto diun Occidente che ha fondato la propria crescita sulla disponibilità dimaterie prime a basso costo e su forme di sfruttamento delle areemeno sviluppate o mal sviluppate. Si tratta di una ipotesi che vieneformulata in vasti ambienti della cultura terzomondista, nel comuni-smo sovietico, nel comunismo occidentale. Nell’urss di Breznev lacrisi petrolifera alimenta nuove speranze e una nuova aggressività. Ledifficoltà dell’Occidente favorirebbero una nuova espansione delmodello sovietico. L’ipotesi si traduce in iniziative di carattere impe-rialistico/militare che si manifestano in Africa, in America Latina eche trovano il proprio coronamento nell’occupazione dell’Afghani-stan. La crisi petrolifera e le difficoltà strategiche dell’Occidentelasciano ipotizzare nel mondo sovietico la possibilità di un rilancio diun anticapitalismo fondato su di una alleanza tra il blocco socialista equella parte del Terzo Mondo dotata di risorse essenziali all’econo-mia industriale (fonti di energia, materie prime).

Negli anni settanta maturano nel comunismo occidentale formedi distacco dall’esperienza sovietica. La prospettiva dell’accesso deicomunisti a un’alternativa di governo in Francia, le opportunità pro-dotte dalla caduta del franchismo in Spagna, i successi elettorali delpci in Italia spingono tre partiti comunisti a ipotizzare un comuni-smo adeguato ai modelli di vita e ai livelli produttivi dell’Occidente:l’Eurocomunismo.

L’Eurocomunismo prende alcune distanze dalle politiche liberti-cide dei regimi dell’Est senza tuttavia condannare il totalitarismo,senza definire come spietate dittature le democrazie popolari, nonmancando di difendere lo schieramento filosovietico e l’urss dallacritica democratica (bollata costantemente con lo stigma dell’antico-munismo). Negli anni settanta persino le analisi di Bobbio (che apri-rono il dibattito di «MondOperaio») sull’inesistenza di una teoriamarxista dello Stato suscitano l’irata reazione degli intellettuali co -

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mu nisti e del pci. Il legame ancora forte con le ragioni dell’Est è inol-tre testimoniato dallo schieramento dei partiti comunisti a difesadell’urss sulla questione dell’arsenale difensivo europeo contro laminaccia sovietica alla democrazia.

In Italia il pci di Berlinguer è impegnato in una faticosa opera diliberazione dai condizionamenti sovietici ma nella strategia cheanima i comunisti è sempre presente la questione della crisi del mo -dello di economia fondato sul mercato e persino quella della supe-riorità del comunismo realizzato. Nel momento in cui la dirigenzabrezneviana scatena una spietata lotta contro ogni forma di dissensointerno, cancellando le aperture e la destalinizzazione di Chruscëv, ilsocialismo è dipinto come forma di società ispirata a un’etica supe-riore: ecco alcuni dei temi che animano la politica di Enrico Berlin-guer al xiv congresso del pci (18 marzo 1975). «È un fatto: nelmondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no». E ancora:il socialismo «è in grado di garantire la continuità dello sviluppoproduttivo e la crescita del benessere sociale [...] in quei paesi esisteun clima morale superiore mentre le società capitalistiche sono sem-pre più colpite da un decadimento di idealità e valori etici e da pro-cessi sempre più ampi di corruzione e di disgregazione» (Berlinguer,1975; Barbagallo, 2006, p. 218).

Nel 1977 Berlinguer presenterà la politica dell’austerità come al -ternativa a un modello economico considerato in una fase di inarre-stabile decadenza.

L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui sidebba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, perpoter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economicie sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentatadai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosìper noi. Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre lebasi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale edi fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lospreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismopiù sfrenati, del consumismo più dissennato. [...] L’austerità è per i comu-nisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento spontaneodelle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avvia-re il cambiamento. Così concepita l’austerità diventa arma di lotta moder-na e aggiornata sia contro i difensori dell’ordine economico e sociale esi-stente, sia contro coloro che la considerano come l’unica sistemazione pos-sibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosvi-

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luppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiusti-zie, di contraddizioni, di disuguaglianze. (Berlinguer, 1977)

b. Il catastrofismo tecnocratico. Speculari al catastrofismo econo-mico sono alcune teorie che considerano il modello democraticoinadeguato a gestire la complessità della società industriale matura.Si tratta di teorie che nascono come reazione a fenomeni globali dicontestazione e come riflessione su di una crisi di un modello di pre-senza della maggiore potenza occidentale sulla scena mondiale. Leriflessioni sui limiti della democrazia (Crozier, Huntington, Watanu-ki, 1975) partono dalla consapevolezza della sconfitta statunitensenel Vietnam e sono alimentati dalla crescita di forme di diffusa con-testazione sociale che coinvolgono tutto il mondo occidentale. Illavoro sui limiti della democrazia che fa da piattaforma ai dibattitidella Trilaterale sintetizza in modo efficace diffuse riflessioni sull’i-nadeguatezza degli strumenti tradizionali di decisione politica nellagestione di nuove forme di produzione della ricchezza, di nuoveforme di conflitto, di una crescente disobbedienza sociale. Si affac-cia nel dibattito politico sui limiti della democrazia l’ipotesi di unagestione tecnocratica della società che cerchi di razionalizzare edisciplinare domande politiche e bisogni (materiali ma anche sim-bolici ed esistenziali) che esplodono nel decennio.

Craxi si differenzia sia dal catastrofismo sociale sia da quello tec-nocratico ed è uno dei pochi dirigenti politici europei a vedere già allafine degli anni settanta i sintomi di una ripresa. La crisi petrolifera nonè considerata dal leader socialista italiano come catastrofe ma comeveicolo di cambiamento. Cambiamento dei rapporti tra Nord e Sudplanetario, cambiamento delle strutture produttive dell’Occidente edel Settentrione sviluppati. La crisi petrolifera è considerata come unaoccasione che può favorire un rilancio delle economie dei paesi petro-liferi del Mediterraneo (di qui viene l’attenzione nei confronti delmondo arabo e soprattutto delle élite islamiche che si avvicinano almodello democratico: tunisine, egiziane, palestinesi, marocchine). Lacrisi è vista come uno stimolo verso il cambiamento della strutturaproduttiva in Occidente. Il crescente costo del petrolio favorisce l’ab-bandono delle economie centralizzate fondate sull’acciaio o sulla chi-mica e apre la strada verso le economie della innovazione che esalta-no la creatività e l’autodisciplina di un lavoro liberato dalla gerarchiadella fabbrica e della tecnostruttura fordiana. «Nella società italiana cisono i segni e i frutti di una grande vitalità, sovente di sordinata, soven-

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te non interamente sfruttata in tutte le sue potenzialità, ma che segna-la un fondo di resistenza ancora ab bastanza solido. È l’Italia che lavo-ra, l’Italia che resiste, come dicono i versi di una bella canzone; è lacapacità, è l’iniziativa di larghi settori dell’imprenditoria privata, è l’al-ta professionalità della classe operaia» (Craxi, 1980).

7. istituzioni e giustizia

Per favorire la nuova vitalità della società italiana occorre perCraxi una «grande riforma» istituzionale. Essa non deve avere con-notazioni tecnocratiche ma fondarsi su di una espansione dellademocrazia e del controllo popolare sull’azione delle istituzionichiamate a decidere. Contro il catastrofismo del pci, Craxi sottolineale possibilità di ripresa delle economie occidentali. Una ripresa chepotrà avvenire non riducendo gli spazi di democrazia, non cedendoterreno alla decisione tecnocratica ma espandendo la democrazia.

Il disegno della «grande riforma» rappresenta una risposta a chiconsidera moralmente esaurito il modello delle libertà occidentali ea chi considera la decisione democratica come confliggente con lalogica dello sviluppo delle società complesse. Il disegno non riguar-da soltanto la configurazione dell’esecutivo e del legislativo ma an -che l’eliminazione di una serie di interferenze che hanno favorito laformazione di una Costituzione materiale nella quale le decisionidemocratiche sono vigilate da organismi e da ceti di tipo burocrati-co (sottratti al controllo dal basso, estranei al circuito della sovrani-tà popolare e dell’investitura democratica).

Nella rappresentazione della strategia istituzionale di Craxi sisuole distinguere tra l’impegno in direzione della riforma dei ramialti del sistema (Parlamento e governo) e quella nei rami bassi (giu-stizia, sistemi decisionali periferici, sistema dei controlli). Le analisidi Craxi sui cosiddetti «rami bassi» sono spesso ridotte alla dimen-sione della polemica spicciola, della reazione a ostacoli che avrebbe-ro potuto in altri modi essere superati.

A ben vedere la distinzione tra rami alti e rami bassi non ha gran-de significato. La battaglia di Craxi sui rami bassi è orientata a inci-dere sulla funzionalità e l’efficienza del sistema politico quindi suglistessi rami alti. Molto spesso le battaglie sui rami bassi dell’ordina-mento contengono una carica antitecnocratica che esprime i pienisignificati del progetto craxiano.

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La questione dei controlli burocratici, dello stravolgimento tec-nocratico della decisione politica, del protagonismo dei giudici, delcondizionamento giudiziario della vita democratica non è una que-stione di insofferenza, né il frutto di un’attenzione ossessiva per fun-zioni marginali dell’ordinamento. La polemica antiburocratica af -fronta viceversa il nocciolo duro di quelle culture antistituzionali chehanno alimentato in Italia la Costituzione materiale e la formazionedi una democrazia protetta.

Nella polemica di Craxi contro il prepotere di burocrazie e tec-nocrazie non elette dal popolo si legge il rifiuto di ogni concezionedella politica che si opponga al processo di secolarizzazione, chetema o consideri minacciosa la decisione del corpo elettorale. Le fi -losofie che avevano alimentato la Costituzione materiale italiana ve -devano con sospetto l’agire delle istituzioni pubbliche sollecitandola subordinazione di esse al controllo di organi capaci di rendere unasuperiore giustizia.

Una riforma sulla giustizia è quindi parte integrante del rinnova-mento istituzionale. Le istituzioni devono essere controllate dal bas -so, attraverso il funzionamento del sistema democratico e non dacentri di potere (strutture di superiore giustizia, di incontestabilecompetenza) che agiscono in base ad assunti di campo sottratti a unavalutazione e a un giudizio della collettività.

In materia di giustizia le polemiche di Bettino Craxi affrontanoquestioni ancora oggi aperte. Quella del giusto processo e dei rischidi un uso politico delle indagini. Quella dell’invadenza dell’organodi autogoverno della magistratura. Quella della partecipazione po -polare all’amministrazione della giustizia. Quella della responsabili-tà disciplinare e della responsabilità civile del giudice.

Ecco di seguito alcuni temi. La giurisdizione non deve alterare il gioco democratico.

Ma non c’è più grande male, per un’azione di moralizzazione e di giu-stizia, che quello che deriva dalla strumentalizzazione volgare, dall’uso po -litico delle carte e delle iniziative giudiziarie. In questo senso, non sto nep-pure a fare l’elenco di casi di eccezionale gravità sui quali ormai si potreb-be – anzi si dovrà – raccogliere un libro bianco di documentazione e didenuncia delle ingiustizie e degli abusi compiuti in nome della legge. Tuttociò rappresenta un fattore ulteriore di inquinamento, di intossicazione, didistorsione della vita democratica. Se si vuole favorire un’opera di effettivorinnovamento, risanamento della vita pubblica, gli strumenti della giustiziadevono essere posti in grado di funzionare con il massimo di efficienza, il

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che purtroppo ancora non è, ma anche con il massimo di autorevolezza edi indiscusso prestigio. Si pone ora la necessità di misure volte a rafforzarele garanzie e la tutela dei diritti dei cittadini ed a perseguire lo scopo di unareale indipendenza della magistratura. (Craxi, 1981a)

La giurisdizione anche nelle condizioni di emergenza deve pre-servare il principio di legalità. L’efficacia della funzione giurisdizio-nale è legata alla democratizzazione dell’ordine giudiziario e delleforze di polizia.

Occorre che concentriamo tutte le nostre energie e i nostri sforzi peranimare una strategia democratica di difesa e di attacco, un’offensiva dellaragione e della critica che aiuti il risanamento della vita pubblica, attui lenecessarie riforme, ridia forza e mobilità alla vita democratica. La battagliaper l’ordine pubblico e la normalità della vita democratica sarà vinta soloquando saranno approvate e risulteranno operanti riforme incisive nel set-tore della polizia e della magistratura. Ogni azione riformatrice in questocampo tocca grovigli di potere, privilegi, incrostazioni rugginose che non sirimuovono facilmente e non si modificano in un colpo e tuttavia si tratta dimacchine essenziali il cui funzionamento deve essere portato al più altolivello. Un’opera di potenziamento e di riforma deve procedere in fretta edeve essere sorretta da chiara e costante volontà politica. (Craxi, 1978)

Gli organi giurisdizionali devono astenersi dall’interferenza con ipoteri dello Stato o da forme di supplenza. «Il Presidente della Re -pubblica si è trovato in più di una occasione nella necessità di difen-dere l’indipendenza del giudice ed arginare la invadenza incostitu-zionale di un Consiglio Superiore della Magistratura, fortunatamen-te ormai scaduto, per il quale occorre non solo una nuova legge elet-torale, ma occorrerebbe una buona riforma, che non si farà.» (Craxi,1990).

Per la pubblica accusa sono urgenti forme di coordinamento congli organi della sovranità popolare.

Occorrono nuove riforme anche nel campo della giustizia. Riguardano icodici e riguardano le strutture sovraccariche di un lavoro che non puòesser ragionevolmente smaltito nelle condizioni attuali degli organici e del-l’inadeguatezza dei mezzi. Riguardano un minimo di responsabilità dellamagistratura in particolare nella pubblica accusa, assicurando un suo piùsolido raccordo con gli organi in cui si esprime la sovranità popolare. Lovuole in primo luogo la solenne affermazione costituzionale secondo laquale «la giustizia è amministrata in nome del popolo». (Craxi, 1981c)

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Nel progetto della «giustizia giusta» confluiscono temi propridell’esperienza socialista del secondo dopoguerra. Innanzi tutto ladiffidenza verso i poteri burocratici e il condizionamento che le bu -rocrazie (e la continuità degli ordinamenti) possono esercitare sulgo verno democratico (tesi che accomuna Pietro Nenni e Lelio Bas -so). Poi la battaglia per le libertà condotta dai socialisti negli annisessanta e negli anni settanta. Nel progetto per una «giustizia giusta»si percepisce anche quella cultura che portò i socialisti a essere partedei movimenti di contestazione degli anni sessanta. È utile in pro-posito ricordare che la prima occupazione dell’Università di Roma,nel 1966 avvenne dopo la morte in circostanze drammatiche di unostudente socialista: Paolo Rossi. La critica delle invadenze del giudi-ziario risente delle battaglie degli anni settanta contro le incursionidi corpi separati dello Stato nella vita pubblica, contro l’eclissi delgarantismo, contro le culture e le prassi dell’emergenza. Nel pro-gramma per la «giustizia giusta» riecheggiano temi che furono pro-pri della corrente più di sinistra dell’ordine giudiziario: Magistratu-ra democratica. Dai dibattiti di quei magistrati progressisti viene l’i-dea del referendum della responsabilità civile del magistrato.

Nelle discussioni della cultura socialista sulla «grande riforma» esulla «giustizia giusta» si criticavano le patologie e l’invadenza delpo tere giudiziario ma non si condannavano le toghe rosse; semmai sidenunciava il dilagare di troppe toghe nere (Mancini, Marconi,1981). Non si temeva una magistratura democratica, si paventava alcontrario una magistratura non democratica, portata a ostacolare e aconfliggere con la scelta di istituzioni democraticamente legittimate.

8. progetti e strumenti

Craxi cerca di operare in direzione di una «grande riforma» privodi uno strumento efficace. È questo il limite maggiore della sua o pera.Egli dispone di un partito non grande e molto spesso non adeguato aicompiti prospettatigli. Il psi di Craxi gode di alcune rendite culturali epolitiche. È il partito dei bravi amministratori, dell’eguaglianza realiz-zabile, dei passi brevi ma in avanti. Ma alcuni valori e alcune attitudi-ni che hanno portato il socialismo italiano a essere apprezzato nellafase della costruzione dello Stato sociale (l’opera dei socialisti condu-ce in Italia alla legislazione del lavoro, al riconoscimento della dignitàdel lavoro dipendente con lo Statuto dei diritti, alla costruzione di una

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disciplina dell’urbanistica, a un sistema sanitario pubblico egualitario,a una scuola che cerca di ridurre le discriminazioni e ridurre il pesodella deprivazione economica nella costruzione dei destini individua-li) appaiono insufficienti alla gestione delle trasformazioni e dell’invo-luzione dello Stato del benessere. I criteri di ridistribuzione delle risor-se a favore dei ceti più deboli sono semplici finché prevale il modellodi organizzazione di tipo fordiano della società industriale. In presen-za di modelli postindustriali di organizzazione l’attitudine alla buonaamministrazione e alla ridistribuzione sociale di benefici pubblicirischia di sconfinare nello scambio politico o nel clientelismo. Nellasocietà in dustriale si tratta di offrire risorse ai più bisognosi e a coloroche soffrono a vario titolo per l’avvento del modello industriale di pro-duzione e di organizzazione sociale. Il modello fordiano di società èpiramidale. Un vertice dotato di ampie risorse simboliche, economi-che, di comando, e una vasta base sociale deprivata e in cerca di si -curezze. La ridistribuzione in tale si stema sottrae surplus economi co alvertice e lo riversa alla base per ottenere una crescita materiale e unamaggiore eguaglianza. Ma nella società postindustriale è difficile iden-tificare i gruppi meritevoli di maggiore tutela pubblica. Nella societàpostindustriale i confini di classe si attenuano e soprattutto si formauna vasta fascia intermedia dotata di risorse tendenzialmente omoge-nee, in seno alla quale alcuni gruppi, per tradizione o per capacità diessere ascoltati o per dotazioni di tipo organizzativo, afferma di essere«più uguale degli altri» cioè meritevole di benefici in misura maggiorerispetto ad altri gruppi. Il riformismo socialista nella babele degli inte-ressi in campo riesce spesso a mantenere la rotta e a orientarsi sullastella polare della giustizia sociale, altre volte si dissolve nel sistema delmercato del consenso e degli scambi politici. L’idea riformatrice diCraxi poteva rinunciare a un vasto consenso politico nei tempi breviper costituire nel tempo medio un nuovo blocco sociale fondato sul-l’economia postindustriale, sull’innovatività, sui lavori autonomi, sullacreatività, sulla demolizione delle bardature burocratiche, sul ruolocontroriformatore di istituzioni giurisdizionali. Ma era difficile far pro-cedere un simile progetto con il partito del quale il leader disponeva.

9. moderatismo contro riformismo

Sul partito di Craxi pesa poi una riduzione del riformismo al mo -de ratismo. Agli inizi del xx secolo la differenza tra riformisti/mo de -

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rati e rivoluzionari/estremisti aveva una spiegazione. I primi sceglie-vano la via pacifica per la realizzazione di grandi progetti di riformasociale. La differenza principale tra riformisti e rivoluzionari appar-teneva inizialmente alla questione dei metodi di lotta e di azionepolitica, per questo i riformismi si sono identificati col moderatismo.Essi respingevano la violenza e ritenevano che l’unico veicolo lecitodelle riforme sociali dovesse essere la democrazia e il suffragio uni-versale. Nel corso del xx secolo le cose sono cambiate. I cosiddettiri voluzionari hanno conservato alcuni progetti di rinnovamento in -tegrale della società e dell’uomo avvolgendoli nel sudario della Real-politik, cioè della forma peggiore di moderatismo. I rivoluzionarisono diventati molte volte i campioni del moderatismo, pronti, nelnome di un vantaggio immediato o di una legittimazione, a rinviareo a imbalsamare principi e progetti di palingenesi. Si pensi al pattoMolotov-Ribbentrop, alla svolta di Salerno sul governo Badoglio,alla costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi, al compromessostorico.

Di fronte alla Realpolitik di un preteso estremismo, il riformismoavrebbe avuto bisogno di ripensare la scelta moderata. Il riformismoavrebbe dovuto elaborare progetti realizzabili ma sostenerli in modoinflessibile. Il riformismo, di fronte alla deriva trasformistica dell’e-stremismo avrebbe dovuto caratterizzarsi per rigore giacobino: esse-re capace di coniugare il messaggio di Turati con quello di Saint-Just.

La natura del partito di cui Craxi dispone è viceversa votata al -l’accordo, al compromesso, alla mediazione, alla difesa dell’esisten-te. Craxi con i suoi scontri a volte violenti che lo oppongono alla dc,al consociativismo, al compromesso storico, cerca sicuramente dispogliare il partito dalla tonaca del moderatismo. Ma raramente èseguito nella sostanza dalla sua organizzazione. Né riesce a costitui-re un partito nuovo. Utilizza un notabilato che spesso opera solo perla riproduzione del proprio insediamento. Non compie che sporadi-ci tentativi in direzione di innesti vitali nel partito. L’attenzione versol’ala libertaria della sinistra, formatasi nelle esperienze extraistitu-zionali, nelle lotte sociali, nel concreto dei conflitti per l’eguaglianzae per le libertà fondamentali, è sporadica. Lo stesso vale per quellasinistra liberale che si definisce radicale. Craxi non riesce ad avereun partito libertario di massa dotato di quadri e di dirigenti adegua-ti. Craxi, culturalmente, non accetta il disordine, la concitazioneassembleare, il movimentismo tipico delle organizzazioni e dei qua-

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dri politici libertari. Così come non accetta i modelli esistenziali diuna generazione e di una dirigenza politica che ostenta il rifiuto deirituali del perbenismo piccolo borghese. Si pensi alla campagna con-tro la droga e per la censura del consumo di essa. Si pensi alla pole-mica contro le culture alternative che accomuna in un’unica assurdacondanna aspetti assolutamente diversi dell’esistenza: sesso, rockand roll e droga. Queste campagne tagliano i ponti o i canali di col-legamento con culture, con generazioni, con dirigenze e con mili-tanze politiche portate al cambiamento e alla radicalità del cambia-mento; riducono quindi le possibilità di un robusto insediamento,della formazione di un blocco sociale deciso a demolire quelle strut-ture burocratiche e quei corpi separati che inibivano (e bloccanoancora) l’espansione delle libertà e un ininterrotto dispiegarsi dellavita democratica.

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pio marconi

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introduzione

Questa relazione si propone di analizzare il ruolo svolto dallaquestione istituzionale nel «duello a sinistra» e, di conseguenza,nella crisi di rappresentanza vissuta dal sistema politico nel corsodell’ultimo quindicennio della cosiddetta prima Repubblica (1978-1992).

L’esito negativo dei tentativi di riforma, come noto segnato dailavori di ben tre Commissioni parlamentari bicamerali, ha una dellesue non secondarie cause nell’incapacità della sinistra italiana disuperare le sue divisioni che, proprio nella fase in cui si pose con piùevidenza l’esigenza del cambiamento istituzionale (gli anni ottanta),conobbero un inasprimento. Partiremo dalle ragioni da cui scaturì ildisegno di riforma sostenuto dai socialisti, provando a darne una let-tura che consenta di inserire quel progetto nel tormentato sviluppodei rapporti a sinistra. In questa sede, per ragioni di tempo, l’atten-zione sarà concentrata sul psi; tuttavia, le vicende dei due principalipartiti della sinistra italiana vanno colte nel loro reciproco intrec-ciarsi in quanto mai come in questi anni i loro destini sono legati;conferma se ne avrà nei decenni successivi, allorché le conseguenzedi quello scontro esiziale nella sinistra si riverseranno nella lunga etuttora non risolta transizione vissuta dal sistema politico-istituzio-nale.

La politica di Craxi è profondamente segnata dal rapporto con ilpci e ad esso si legano le due spinte contrastanti che la dominarono:il tentativo di assumere la leadership della sinistra ispirandosi all’e-

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RIFORME ISTITUZIONALI E DUELLO A SINISTRA

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sperienza vincente del socialismo francese, l’esigenza di garantire alpsi un ruolo intermedio tra i due partiti maggiori tale da garantirnel’influenza nel gioco politico. Il tutto in un quadro in cui socialisti ecomunisti non colsero fino in fondo la priorità rappresentata dallacrisi delle istituzioni e, soprattutto, della macchina statale. Un epi-sodio significativo di questa sottovalutazione: il sacrificio da partesocialista di un ministro della Funzione pubblica quale MassimoSevero Giannini in occasione della formazione del governo Forlaninell’ottobre 1980.

1. tra mitterrand e governabilità

La morte di Moro, con il suo esito cristallizzante sui due partitimaggiori, ebbe l’effetto di limitare anche le speranze socialiste diuna riforma del sistema politico, archiviando, di fatto, la prospettivadell’alternativa. Per i comunisti aveva inizio una lunga fase interlo-cutoria, caratterizzata dall’accantonamento della possibilità di acce-dere all’area di governo e dalla rinnovata volontà democristiana diporli ai margini della politica italiana. Consumatasi la possibilità diuna riedizione della solidarietà nazionale dopo il fallito tentativo LaMalfa del 22 febbraio-2 marzo 1979 e la conseguente ricomposizio-ne del patto tripartito dc-psdi-pri da cui scaturì il quinto governoAndreotti (20 marzo-4 agosto 1979), nel febbraio del 1980 il xivcongresso della dc (in aprile si sarebbe formato il ii governo Cossi-ga, in carica dal 4 aprile al 18 ottobre 1980, con partecipazione so -cialista) approvò la linea del «preambolo», segnata dall’impegno anon riaprire alcuna prospettiva di governo con il pci. Per il psi avevainizio la stagione della collaborazione con la dc e di una più accesaconflittualità con i comunisti. La tenacia con la quale il segretariosocialista perseguiva la linea della competizione con il pci nascevadalla convinzione della necessità del riequilibrio a sinistra, condizio-ne indispensabile della futura alternativa alla dc. Influiva, nella visio-ne di Craxi, l’esperienza vincente del socialismo francese che fin dal1971 con il congresso di Epinay aveva avviato una coraggiosa operadi rifondazione da cui era uscita ulteriormente confermata alle urne,pur in un quadro di alleanza con il pcf, la legittimazione del prima-to riformista a sinistra. Qui emerge un primo elemento di criticitànella strategia di Craxi. L’idea di strappare voti al pci puntando sullacontraddizione tra forza elettorale e capacità di governo di quel par-

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1 Sul sequestro Moro e la politica di Berlinguer, F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma2006, pp. 325-326; S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino 2006, p. 159. Sul punto,condividendo l’interpretazione di Pons e Gualtieri (L’Italia dal 1943 al 1992, Roma 2006, p.199) che propongono di non attribuire al sequestro Moro un valore decisivo, A. Giovagnoli,Berlinguer, la Dc e il mondo cattolico, in Enrico Berlinguer. La politica italiana e la crisi mondia-le, Roma 2007, pp. 96-100. Sulle ricadute elettorali della politica di Craxi, cfr., S. Colarizi, M.Gervasoni, La cruna dell’ago, Roma-Bari 2005, p. 161. Sulla lettura riduttiva che il segretariosocialista diede del consenso del pci nella società italiana, L. Musella, Craxi, Roma 2007, p. 192.

2 Del convegno, che si tenne dal 3 al 4 ottobre 1977, e dei temi al centro della riflessionedegli intellettuali socialisti in questa fase, parla L. Covatta, Menscevichi. I riformisti nella sto-ria dell’Italia repubblicana, Venezia 2005, pp. 133 ss.

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tito, se costituì un’abile strategia per ampliare lo spazio politico deiso cialisti, non era però confortata da una lettura adeguata delle ra -gioni del consenso comunista.

Come dimostrarono le elezioni svoltesi negli anni ottanta, il con-senso della dc e del pci era molto solido e quando subiva scalfituresolo in piccola parte veniva intercettato dal psi1.

Il pci non era un partito conservatore come il suo omologo fran-cese, la sua capacità di egemonia nell’elettorato di sinistra nascevadall’abilità nel coniugare pragmatismo e idealità, capacità di buonaamministrazione e fede in un indistinto quanto affascinante nuovoordine politico; ne derivava una forte sintonia con l’identità profon-da di tanta parte degli elettori di sinistra, pienamente inseriti nellasocietà del benessere ma disposti a sognarne la trasformazione. Nescaturiva un blocco sociale esteso anche al ceto medio che la strate-gia destrutturante di Craxi faticava a rimuovere. Si aprì così, a par-tire dal caso Moro, una lunga stagione di conflitti a sinistra che irri-gidirono i due nodi irrisolti che impedivano tanto le riforme, quan-to l’unità: l’indisponibilità ad archiviare la stagione di collaborazio-ne con la dc da parte dei socialisti, il rifiuto di affrontare il nodoidentitario rappresentato dal comunismo democratico per il pci.

Fin dal primo convegno di Trevi dell’ottobre 1977 i socialisti sierano mossi su un’iniziativa ad ampio raggio che comprendeva nonsolo i temi strettamente istituzionali ma si estendeva anche all’eco-nomia e alla riforma dello Stato: lotta all’inflazione, risanamento del -la finanza pubblica, attenzione verso la piccola e media imprendito-ria, riforma della pubblica amministrazione, nuova politica di inve-stimenti, sostegno ai redditi più bassi, formazione, sono i temi suiquali negli anni ottanta i socialisti tentarono di creare dal governo unnuovo consenso riformista che potesse consentire di guardare oltreil tradizionale insediamento sociale della sinistra2. Da questa impo-

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stazione scaturì la «grande riforma», lanciata dal segretario socialistain un editoriale sull’«Avanti!» del 27 settembre 1979. L’articolo svi-luppava un’analisi critica della paralisi decisionale in cui versava ilsistema politico italiano senza però individuare un chiaro modelloalternativo. Estraneo ai tecnicismi della materia, Craxi si dimostròsempre piuttosto cauto di fronte ai vari progetti di ingegneria istitu-zionale. Di qui una certa genericità dei suoi interventi e il richiamoad alcuni punti meno controversi – il superamento del bicamerali-smo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizionedel voto segreto – su cui, tuttavia, un consenso più ampio stentava aformarsi. Un punto va comunque sottolineato: la «grande riforma»non si tradusse mai in una proposta di superamento del modello diparlamentarismo razionalizzato disegnato nella Carta, ma piuttostone immaginò una sua correzione nella direzione della democraziagovernante. Interventi mirati che consentissero un più efficientefunzionamento del sistema. Ciò spiega perché Craxi, favorevoleall’e lezione diretta del capo dello Stato, non fu mai presidenzialista,né uninominalista.

Il psi negli anni ottanta si rivolgeva ai nuovi ceti produttivi prota-gonisti della terziarizzazione dell’economia, in grado di apprezzareun partito d’opinione a spiccata caratterizzazione leaderistica. Il pcipartiva da un’analisi della società italiana che si sforzava di indivi-duare un modello di sviluppo alternativo al liberismo trionfantenegli usa e in Inghilterra, ponendo l’inedito problema del rapportotra l’Occidente sviluppato e il Sud del mondo; un’elaborazione nonpriva di spunti innovatori quella dei comunisti italiani, ma lontanada quel «governare il cambiamento» cui pensavano i socialisti. I duepartiti parlavano due lingue diverse, come confermava anche larivendicazione sullo stato di benessere del paese contenuta nellarelazione di Craxi al 42° congresso socialista tenutosi a Palermo dal22 al 27 aprile 1981.

In quella occasione, il leader socialista liquidava, inoltre, comeespressioni di una nuova destra i richiami alla presunta superioritàdelle élite tecnocratiche. Il bersaglio era l’ipotesi di un governo fuoridei tradizionali confini dei partiti e che trovava una convinta spon-da in taluni settori del pri. Bruno Visentini, in contrasto con Spado-lini, si era speso in favore di questa ipotesi che la stampa aveva tra-dotto nella formula del «governo dei tecnici» che trovava un’econella proposta berlingueriana dell’alternativa democratica e nel suolegame con la cosiddetta questione morale. Eugenio Scalfari, dalle

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3 Sulle ragioni della scelta per la governabilità, il discorso pronunciato da Craxi alla Came-ra dei deputati il 18 aprile 1980 in occasione del dibattito che precedette la nascita del secon-do governo Cossiga. «Si è molto polemizzato e poco riflettuto sul cosiddetto pentapartito [...]La proposta politica di allora fu da me sempre inquadrata in una prospettiva che non rinne-gava la politica di solidarietà nazionale, al contrario ne auspicava la ripresa ed esplicitamentesi indirizzava verso la ricerca di un rapporto positivo a sinistra», in B. Craxi, Discorsi parla-mentari, 1969-1973, Roma-Bari 2007, p. 47. Sul primo Craxi, S. Colarizi, La trasformazionedella leadership. Il Psi di Craxi (1976 – 1981), in Gli anni ottanta come storia, a cura di S. Cola-rizi, P. Craveri, S. Pons, G. Quagliarello, Soveria Mannelli 2004, pp. 31 ss.

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colonne del suo giornale, aveva appoggiato questa ipotesi che agliocchi di Craxi appariva un’inaccettabile messa in mora dei partiti edella stessa possibilità di una futura presidenza del Consiglio socia-lista. Si manifestava già in questo passaggio la difficile conciliazionetra il livello «alto» del progetto riformatore portato avanti dai socia-listi e la difficile navigazione all’interno degli equilibri politici alloradefiniti; un dato che segnò l’iniziativa craxiana lungo tutti gli anniottanta. La «grande riforma» si andò caratterizzando sempre più co -me proposta di razionalizzazione dell’involuzione parlamentaristanell’ambito della competizione dc-psi, in attesa del riequilibrio elet-torale a sinistra, piuttosto che come strumento per la costruzioneanche in Italia di una democrazia dell’alternanza.

Un esito che non va ricondotto soltanto alla volontà di Craxi,giocò un ruolo determinante l’indisponibilità del pci ad abbandona-re il porto apparentemente sicuro del nuovo profilo d’opposizioneappena riconquistato. Di qui la mancata legittimazione a sinistradella presidenza del Consiglio socialista, una vicenda i cui prodromirisalgono al luglio 1979, allorché Craxi rimise al capo dello Statol’incarico di formare un governo «pentapartito» (a lui si deve lapaternità politica della formula) aprendo la strada alla formazionedel primo gabinetto Cossiga. Il pci si era dichiarato indisponibile aprendere in considerazione ipotesi diverse dalla partecipazionediretta al governo, non cogliendo nella novità di una guida del go -verno socialista l’unica possibilità per tornare in gioco3.

2. un socialista a palazzo chigi

Arriviamo così alla primavera 1982 (31 marzo-4 aprile), allorchési svolse la conferenza di Rimini cui fu assegnato il compito di indi-viduare il programma di governo dell’ormai prevedibile approdo di

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Craxi alla presidenza del Consiglio. Nella sezione dedicata ai pro-blemi istituzionali furono proposti, tra gli altri, una serie di inter-venti miranti a correggere le due principali disfunzioni del sistema:la scarsa durata dei governi, la lunghezza del processo legislativo.Colpisce il realismo delle proposte che individuavano dei correttivial carattere assembleare assunto dal parlamentarismo italiano.

Federico Mancini li definiva «interventi di micro ingegneria» eaggiungeva, a proposito della democrazia governante, «io mi limite-rò a dire che questa strategia non muscolare ma robusta ha un finepreciso: rendere possibile la formazione di governi di legislatura perl’attuazione di programmi di legislatura».

Enzo Cheli, che svolse la relazione sulla forma di governo, pro-pose il superamento del bicameralismo perfetto attraverso la diffe-renziazione delle competenze delle due Camere: una «Camera dellalegislazione» distinta da una «Camera del controllo» cui assegnareun ruolo di vigilanza economico-finanziaria, mentre sul governoproponeva l’introduzione dell’investitura fiduciaria concessa separa-tamente e preventivamente al presidente del Consiglio e alla messa apunto di una struttura «forte» (che evocherà la legge sul nuovo ordi-namento della presidenza del 1988) di consulenza tecnico-politicaarticolata in dipartimenti sul modello del Central policy staff inglese.Rivelatrice, inoltre, dell’impostazione pragmatica scelta a Rimini laproposta, formulata sempre da Cheli, di un «patto di legislatura» traforze politiche e capo dello Stato che inducesse le prime a presen-tarsi al corpo elettorale con un programma di legislatura; le crisi digoverno sarebbero sfociate, non per eccezione, ma per via ordinariain scioglimenti delle Camere, preceduti dall’impegno del presidentedel Consiglio a esplicitare al Parlamento in seduta comune le ragio-ni del venir meno della sua maggioranza. Respinta l’ipotesi di intro-durre la sfiducia costruttiva perché l’instabilità dei governi era giu-dicata il risultato di un’insoddisfacente aggregazione del sistema po -litico, non di meccanismi procedurali.

Alberto Spreafico si concentrò sulle riforme della normativa elet-torale. Anche in questo caso siamo lontani da proposte di cambia-mento radicale, l’impianto proporzionale del sistema era conferma-to introducendo alcuni correttivi: eliminazione delle disparità fra lecircoscrizioni elettorali che erano rese tutte tendenzialmente uguali,assegnazione dei seggi in sede circoscrizionale e di collegio uniconazionale (nel quale collocare personalità del mondo accademico,culturale e scientifico) con possibilità, in questo secondo caso, di

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4 Governare il cambiamento, Conferenza programmatica del Psi, Rimini 1982, pp. 50, 55-57,60-61. Su Rimini e per un bilancio del riformismo craxiano, L. Covatta, Un dubbio sulla scom-messa persa di Craxi. Fallì per avere osato troppo o troppo poco?, in «Il Riformista», 28 marzo2007 e Id., Menscevichi, cit., pp. 143-144.

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col legamenti fra le liste volti a stabilizzare la futura formazione dellemaggioranze, riduzione delle preferenze a una sola. Illuminante, allaluce degli avvenimenti del decennio successivo, la proposta di unesplicito riconoscimento giuridico dei partiti che ne regolasse la vitainterna e i finanziamenti; in proposito Spreafico suggeriva la nascitadi fondazioni responsabili della raccolta dei fondi e la distinzione frafinanziamento pubblico e spese elettorali, dando a queste ultimepre cisi limiti. Conclusero la sezione istituzionale le relazioni di Etto-re Gallo, Massimo Severo Giannini, Gino Giugni e, per le conclu-sioni, Salvo Andò4.

Ma come reagì il pci alle proposte provenienti dalla conferenza diRimini? Il 5 aprile si svolse, alla presenza di Berlinguer, un’assembleadei parlamentari comunisti. Edoardo Perna, capogruppo al Senato,svolse la relazione introduttiva nella quale segnalava il pericolo che ildibattito sulle riforme nascondesse il tentativo di proiettare nel futu-ro l’attuale maggioranza, facendo leva su puri congegni istituzionali;mentre la cosiddetta «grande riforma» andava ricondotta a due prin-cipi: mantenere, adeguare, allargare e rendere compatibili le riformegià fatte e quelle necessarie, attuare il principio costituzionale dellaprogrammazione, quest’ultimo un tradizionale riferimento comuni-sta all’adempimento dei principi fondamentali della Carta. Ingrao,nella dirigenza comunista tra i più attenti a questi temi, indicavaquattro punti per le riforme: monocameralismo, riforma organicadella struttura di governo nel segno della collegialità (la denunciadelle spartizioni ministeriali e dell’abuso della de cretazione), riformadel codice penale e dell’ordinamento giudiziario, un sistema digaranzie contro le pratiche lottizzatorie. Un dibattito, come si vede,molto lontano dalle elaborazioni di Rimini, che aveva sullo sfondo lanota contrarietà di Berlinguer ad affrontare il tema dell’alternanza odegli strumenti per realizzarla, senza una preventiva discontinuità sulpiano delle alleanze tra i partiti. Fin dagli anni precedenti, le rispostecomuniste alle sollecitazioni socialiste sulla riforma si erano concen-trate sulla critica nei riguardi di soluzioni meramente tecniche dellaquestione istituzionale che eludevano quella che per i comunisti erala «vera» questione politica: la ri mozione della discriminazione nei

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5 I resoconti del dibattito, in «l’Unità», 5 aprile 1982. La critica all’alternanza di Berlin-guer fu esposta nell’intervento al Comitato centrale del 15 aprile 1982, come sempre pubbli-cato da «l’Unità».

6 L’intervista di F. Ceccarelli a Ugo Spagnoli, Ma i comunisti non sono d’accordo, in «Pano-rama», 27 marzo 1979. L’intervento di L. Berlinguer, Un trucco istituzionale per governaremeglio?, in «l’Unità», 25 marzo 1979. L’articolo di S. Rodotà in «la Repubblica», 8 aprile 1979.

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riguardi del loro partito, in as senza della quale l’alternanza si sareb-be tradotta in una variante interna agli attuali equilibri di governo5.Ugo Spagnoli aveva parlato della necessità di dare soluzione innan-zitutto alla «questione comunista, la discriminazione che rende il pciun partito “diverso” cui ci si ostina a non riconoscere pari dignità»,mentre il sistema elettorale «può essere lasciato tranquillamente cosìcom’è. Semmai il problema è rendere più incisivo il lavoro parla-mentare»; Luigi Berlinguer aveva attribuito l’instabilità italiana nona carenze del sistema costituzionale, ma a contraddizioni riconduci-bili al sistema economico, «se instabilità c’è nel mondo capitalistico[...] essa è da attribuire non a pure ragioni di tecnica istituzionale, maa ben più profonde cause storiche: in una parola al crescente conflit-to fra i bisogni sociali in espansione e le resistenze al privilegio»; Ste-fano Rodotà, eletto come indipendente nelle liste comuniste nel 1979e membro della Commissione affari costituzionali della Camera, sot-traendosi al coro della denuncia della conventio ad excludendum,pensava a una nuova centralità del Parlamento da attuare attraversol’attenzione alla «microingegneria» costituzionale piuttosto che alla«ma cro ingegneria» istituzionale, «bisogna affrontare la riforma dellastruttura del governo, ripensare il bicameralismo, attuare forme didelegificazione. Scopriamo in cosa consista oggi la vera centralità delParlamento: nel fatto che serve una forte innovazione legislativa, chenon si conquista con riforme elettorali, ma facendo i conti con ilsistema di potere democristiano»6.

Si tratta di esempi che consentono, al di là delle sfumature pre-senti nei vari interventi, di cogliere la distanza nell’approccio ai temiistituzionali fra i due partiti; da parte socialista la denuncia dei limi-ti di governabilità del sistema e la necessità di un intervento sullalegge elettorale e sul rafforzamento del governo, da parte comunistal’accento sulla centralità del Parlamento, la degenerazione correnti-zia del governo, la necessità di un’evoluzione dei rapporti politici.

Sei mesi dopo Rimini, nel discorso al Comitato centrale del 29 ot -tobre 1982 (pochi giorni prima si era svolto il secondo seminario di

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7 Per la relazione al Comitato centrale del 29 ottobre 1982, si veda U. Finetti, Il socialismodi Craxi, Milano 2003, p. 209. Sulla collocazione temporale dell’adesione di Craxi all’elezionediretta del capo dello Stato, Covatta, Menscevichi, cit., p. 175.

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Trevi sui temi istituzionali), Craxi lanciò la proposta di elezionediretta del capo dello Stato chiarendo che «toccare la Costituzionenon significa rimuovere i principi che ne costituiscono l’ossaturaetico-politica, ma semmai esaltarli attraverso una modifica [...] L’e-lezione diretta da parte del popolo può rafforzare l’istituto del Pre-sidente della Repubblica, e cioè del capo della nazione che intera-mente la rappresenta continuando ad esercitare la sua funzione diarbitro e di garante della vita istituzionale [...] L’elezione diretta delcapo dello Stato dovrebbe essere accompagnata dalla riduzione del-l’arco temporale del suo mandato e dall’eventuale limitazione delnumero dei mandati conferibili. Dovrebbe essere rafforzata la posi-zione del capo del governo attraverso la fiducia parlamentare nelquadro delle misure tese a rafforzare il potere esecutivo»7. La sceltadi puntare sull’elezione diretta va messa in relazione con la progres-siva involuzione dei rapporti a sinistra dopo l’uscita del pci dallasolidarietà nazionale. Non sarebbe corretto stabilire un rapportomeccanico fra i due piani, ma il progressivo peggioramento dei rap-porti tra pci e psi nel biennio 1979-1981 e la scelta compiuta in favo-re della governabilità, portarono Craxi a cogliere nell’elezione diret-ta lo strumento per portare tutta la sinistra a convergere sul suonome. In proposito, è da menzionare l’episodio risalente all’11 mar -zo 1981, di cui si parla nelle carte di Tatò per Berlinguer pubblicateda Piero Craveri nel 2002, riguardante l’incontro tra Craxi e alcunidirigenti del suo partito, Eugenio Scalfari e i vertici del gruppo edi-toriale cui faceva capo il quotidiano «la Repubblica», nel corso delquale il segretario socialista formulò una proposta di accordo ai ver-tici del pci. Craxi chiedeva l’appoggio comunista a una presidenzadel Consiglio a guida socialista come atto propedeutico a un’allean-za tra l’area laica raccolta intorno al psi e al pci in grado di proporsicome alternativa alla dc. Si sarebbe aperta, a giudizio del segretariosocialista, una fase nuova che avrebbe consentito al pci di usufruiredell’appoggio del psi per la sua piena legittimazione come forza digoverno.

L’episodio, che chiudeva il cerchio aperto dall’incarico per la for-mazione del governo conferitogli da Pertini nel luglio 1979, va col-

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8 Il comunicato comparve sotto il titolo Incontro Pci - Psi. Rapporti migliori tra i due parti-ti, in «l’Unità», 1° aprile 1983. L’articolo di E. Macaluso, Alla sfida Dc nuova risposta della sini-stra, «l’Unità», 2 aprile 1983.

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legato al duplice scopo cui il leader socialista si dedicò nella faseapertasi dopo il rapimento Moro: il superamento dell’egemonia dc-pci, la conquista della presidenza del Consiglio. L’obiettivo era l’ap-plicazione del «modello Mitterrand» con alcune variabili tutte ita-liane: il rapporto di forza rovesciato tra socialisti e comunisti, unsistema politico-istituzionale che non consentiva l’alternanza, la dif-ficile conciliazione tra unità a sinistra e partecipazione al governo.

Nei due anni successivi si accentuò l’incomunicabilità tra i duepartiti di cui si avrà conferma il 4 agosto 1983, quando la presiden-za del Consiglio socialista divenne finalmente realtà. Nei mesi pre-cedenti si erano susseguiti segnali contrastanti. Dopo il congressodel pci di Milano (2-6 marzo 1983) sembrò essersi attivato un posi-tivo circuito di comunicazione che portò all’incontro delle Frattoc-chie fra due delegazioni (Berlinguer, Chiaromonte, Reichlin, Zan-gheri da parte comunista, Craxi, Martelli, Valdo Spini e Formica peri socialisti) ai massimi livelli; da sottolineare un passaggio del comu-nicato finale pubblicato il giorno seguente da «l’Unità» che definiva«preoccupante il concentrarsi sulle giunte di sinistra di attacchimossi da un’ispirazione politica» e avevano accusato alcune delleiniziative giudiziarie condotte in quei mesi, il riferimento era all’in-chiesta sulla giunta Novelli a Torino, «di suscitare forti dubbi distrumentalizzazione».

Il giorno successivo il direttore dell’«Unità», Emanuele Macalu-so, indicando la necessità di un’intesa a sinistra che raccogliesse lasfida democristiana, parlava di «apertura di un processo politiconuo vo»; parole che riassumevano l’auspicio della componente mi -gliorista del pci, di cui Macaluso era autorevole esponente, a frontedi un’evoluzione degli eventi che avrebbe avuto tutt’altro segno8. Il16 aprile Craxi aveva, però, gelato le speranze alternativiste del pcidichiarando all’«Avanti!» di «non voler cambiare la posizione e lealleanze dello psi». L’alternativa non costituì un tema della successi-va campagna elettorale per le politiche del 26 giugno, né i risultati(dati Camera) scaturiti ne costituivano un rafforzamento, conside-rando il lieve incremento socialista (l’11,4%, rispetto al 9,81% del1979) e il consolidamento del pci che conseguiva il 29,8% rispetto

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9 È il testo non firmato della nota politica di prima pagina pubblicata dall’«Avanti!» il 19luglio 1983.

10 Questo incarico e i progetti Dc, in «l’Unità», 24 luglio 1983.

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al 30,3% del 1979; i due partiti della sinistra raggiungevano appenail 41,3% (il 45,3 se vi consideriamo anche i voti del psdi) ben lonta-ni dalla possibilità di candidarsi senza la dc (pur se scesa dal 38,3%del 1979 all’attuale 32,9%) al governo del paese. Nonostante questepremesse, ancora il 1° luglio, «l’Unità» non perdeva l’ottimismo,titolando sulla possibilità dell’apertura di una fase politica nuova perl’alternativa di governo, mentre l’«Avanti!» riportava una dichiara-zione di Craxi nella quale ci si augurava che «anche i comunistiriflettano a lungo perché siamo di fronte a problemi che investono ilsistema democratico». Nei giorni successivi cominciò a consolidarsil’ipotesi di una presidenza Craxi contro la quale i socialisti lamenta-vano il fuoco di sbarramento comunista in nome dell’alternativa,definita «una prospettiva obiettivamente inesistente con argomentiche probabilmente stentano a convincere anche settori interni delpartito»9.

Il 20 luglio all’indomani della riunione del Comitato centrale delpci, il direttore dell’«Unità» ricordava che «l’ostacolo maggiore aldialogo fra i due partiti viene dal tentativo di ricomporre la vecchiacoalizione di governo».

Il 22 luglio, giorno dell’incarico a Craxi, ancora Macaluso motiva-va l’opposizione del pci con un elenco dei problemi politici aperti(dalle riforme istituzionali, all’installazione dei missili a Comiso, dallaquestione morale, ai problemi economici) che «attenevano al quadropolitico generale e a scelte di fondo che consideriamo errate».

All’argomento agitato dai socialisti, certamente insidioso, del si -gnificato storico dell’incarico a Craxi, rispondeva Tortorella secon-do il quale «se di pregiudiziali si volesse discutere, bisognerebbe ra -gionare dell’atteggiamento che si è assunto nei riguardi del Partitocomunista, fin dalla fase delle pre consultazioni tra i partiti delladisciolta maggioranza»10. Il 4 agosto «l’Unità» definiva il governo«un museo di facce stagionate» e prometteva un’opposizione «nettae commisurata a nient’altro che ai fatti». Il 5 agosto l’«Avanti!», afirma del direttore Ugo Intini, proponeva un parallelo tra il 1963 eil 1983 nella posizione del pci che «non vede la clamorosa novitàdella presidenza socialista, ma sottolinea i presunti cedimenti alla dce ai conservatori».

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Dichiarandosi indisponibile ad appoggiare un esecutivo a guidasocialista – la cui novità fu non casualmente colta da Luciano Lama,in questi anni inutilmente impegnato nell’affermare il valore strate-gico di un nuovo rapporto con il psi – il pci confermava la sua autoe-sclusione attestandosi su una posizione di sostanziale isolamento.

Sull’onda di questo dibattito si arrivò al congresso socialista diVerona del maggio 1984, al quale Craxi giunse all’indomani del duroscontro parlamentare con il pci sul decreto concernente la riduzionedei punti di contingenza. Dedicò alle tematiche istituzionali solo unabreve parte del suo discorso nella quale non nascose, utilizzando unacitazione di Nenni («se il buon Dio non avesse voluto creare ilmondo ne avrebbe dato incarico ad una commissione»), il suo scet-ticismo sulle possibilità della Commissione bicamerale sulle riformeguidata dal liberale Bozzi. Si limitò a rivendicare la necessità di una«democrazia governante», con il conseguente richiamo all’abolizio-ne del voto segreto che costituiva l’unica proposta concreta avanza-ta dal psi. Craxi, con l’avvento alla presidenza del Consiglio, decisedi giocare la sua partita sul terreno della governabilità del sistemadall’alto dimostrando agli elettori che il suo stile di governo, la capa-cità di prendere decisioni pienamente rivendicata a Verona, potevaportare a nuovi rapporti di forza a sinistra in grado di superare ilblocco che gravava sulla democrazia italiana. Era la scommessa sullasolidità dell’onda lunga socialista che avrebbe costituito un progres-sivo polo di attrazione anche per l’elettorato comunista. Analizzan-do i motivi dell’involuzione vissuta nel giro di un quinquennio dalriformismo socialista, emerge la presenza di un meccanismo specu-lare rispetto a quello di cui fu vittima il pci di Berlinguer. Come nelleader comunista vi fu la tenace volontà di salvare l’identità-diversi-tà del suo partito per non rinunciare al progetto di un comunismoconciliabile con la democrazia, in Craxi agì il timore di un ritornoall’antica subalternità dei socialisti nei riguardi del pci. Egli identifi-cava il ridimensionamento comunista come condizione inevitabiledell’unità a sinistra, con la conseguente ammissione del primato delriformismo socialista; questa la ragione, dal punto di vista socialista,dell’interminabile duello degli anni ottanta e del rilancio della poli-tica di collaborazione con la dc ancora nel 1990 quando era chiaroche i cambiamenti internazionali non avrebbero lasciato immuni itradizionali equilibri politici italiani. Craxi, leader socialista che ave -va nel suo codice identitario l’anticomunismo, non capì fino in fondola debolezza di quel partito; l’aver finito, all’indomani dell’esauri-

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mento del compromesso storico e del rifiuto di affrontare il nodoidentitario, le carte da giocare sul tavolo della politica italiana facevadel pci il depositario di un grande patrimonio elettorale, ormai privodella forza egemonica dei decenni precedenti.

Nel frattempo, un dato che dimostra quanto forte fosse l’identifi-cazione del partito nel suo leader: al congresso di Rimini (31 marzo-5 aprile 1987) Craxi fu rieletto, questa volta a scrutinio segreto, conil 93,25%.

La sua sfida riformista al pci si arrestò perché condizionata dalmancato sfaldamento della tradizionale composizione elettorale dellaprima Repubblica – il 14,26% conseguito alla Camera alle politichedel 14 giugno 1987 rispetto a cui anche nel miglior momento dell’e-sperienza di governo, il psi rimase fermo – ma anche per una sua radi-cata tendenza a non abbandonare la politica «corsara» sulla qualeaveva costruito le sue fortune. L’insoddisfacente ritorno elettoraleavrebbe dovuto far riflettere sui limiti di questa strategia, utile per l’a-zione di quotidiana interdizione nei riguardi dei due partiti maggiori,ma insufficiente per fare del psi un nuovo polo della politica italiana.Nel lungo documento della Direzione in preparazione del congressoconvocato a Milano per il maggio del 1989, i socialisti ribadirono illoro favore verso l’elezione diretta del capo dello Stato, considerata lostrumento esclusivo del rinnovamento delle istituzioni. Emergeva ladifficoltà di conciliare la conclamata volontà di rafforzare il potere deicittadini e il rifiuto di metterli nelle condizioni di eleggere il governo.

D’altra parte, come ha notato Luciano Cafagna, l’insistenza sul-l’elezione diretta va ricollegata alla volontà di ottenere dall’elettora-to sulla sua persona quel consenso che stentava a prodursi attraver-so il filtro del partito. Lo stesso richiamo all’esperienza mitterran-diana, sottofondo della strategia craxiana di questi anni, solo inparte, come abbiamo già visto, si adattava al caso italiano; la vicen-da francese aveva dimostrato che le due candidature di Mitterranddel 1965 e del 1974, in entrambi i casi con appoggio comunista alprimo turno, erano state possibili in virtù del forte peso elettoraledell’area della sinistra non comunista fin dagli esordi della quintaRepubblica. Inoltre, l’affermazione della leadership mitterrandiananella sinistra francese era stata tenacemente costruita dall’opposizio-ne, non collaborando con le forze conservatrici contro cui ci si pro-poneva di competere in un prossimo futuro.

La mancata scommessa nelle possibilità di una ricomposizionedell’area laica, all’origine del conflitto con Martelli che ne era con-

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11 Cfr., Finetti, Il socialismo di Craxi, cit., p. 351. La citazione è tratta dal documento ela-borato dalla Direzione del psi in occasione del 45° congresso nazionale del partito tenutosi

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vinto fautore, indicavano una direzione affatto diversa e, suo mal-grado, ancora tutta interna allo schema dell’alleanza competitiva conla dc. Se vi era una possibilità che l’elezione diretta divenisse la pro-posta di tutta la sinistra, questa risiedeva nella preventiva dichiara-zione da parte socialista di superamento del pentapartito con le con-seguenti ricadute sulla legge elettorale.

La strategia definita al congresso dell’Ansaldo (maggio 1989) era,invece, legata alla volontà di conservare la possibilità di una politica dimovimento che traesse il massimo vantaggio dalla popolarità derivan-te dalla leadership di Craxi, aprendo contemporaneamente un frontenei riguardi del pci. Un obiettivo confermato dalle proposte avanzatein materia elettorale: creazione di un collegio unico nazionale per ladistribuzione dei resti, superamento dell’uninominale al Senato, intro-duzione di una soglia di sbarramento la cui entità non veniva però spe-cificata, cui si aggiungevano sfiducia costruttiva e in troduzione delreferendum propositivo. Proposte tenute insieme dalla dichiarataavversione al maggioritario, identificato come quel si stema «al qualenon può fare riferimento una vitale democrazia parlamentare. Nonsaranno, quindi, mai premi di maggioranza a rendere forte una mag-gioranza poco coesa al proprio interno, e pri va degli strumenti parla-mentari necessari per operare». A questa impostazione il segretariosocialista rimase sempre fedele. Il binomio elezione diretta-proporzio-nale fu da lui abbandonato solo nell’autunno del 1992, nella fase fina-le dei lavori della seconda bicamerale. Si era in piena inchiesta di Manipulite e il segretario socialista accettava di rinunciare all’elezione diret-ta per ottenere in cambio un sistema elettorale a base proporzionalecon doppio turno non di collegio e premio di maggioranza. Era l’e-stremo tentativo di conservare la forza elettorale del suo partito nelnuovo schema dell’alternanza. L’indisponibilità di Segni a rinunciareal referendum, l’interesse del pds a ottenere il collegio uninominale dautilizzare in chiave anti so cialista, non ultima la forza di una campagnamediatica ostile ai partiti, fecero naufragare l’accordo. Contributo nonmarginale lo diede anche la vulgata filomaggioritaria assai in auge neiprimi anni novanta – da non assimilare tout court a mio parere alleragioni dei promotori il movimento referendario – che sosteneva glieffetti naturalmente stabilizzanti di un sistema che obbligava i partitia stipulare alleanze preventive11. Fino a quel momento i socialisti ave-

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all’Ansaldo. Sulla scelta «presidenzialista» di Craxi, L. Cafagna, La grande slavina. L’Italiaverso la crisi della democrazia, Venezia 1993, pp. 129-130. La vicenda del mancato accordo sulproporzionale a doppio turno con premio di maggioranza, è ricostruita da L. Covatta, La leggedi Tocqueville, Reggio Emilia 2007, pp. 48 ss. Sui rischi derivanti da questa difesa del propor-zionale vi è una lettera a Craxi di Mauro Del Bue del 1991 nella quale il dirigente socialistaosservava che «il mantenimento del sistema proporzionale risulta fortemente ancorato alsostegno di questo sistema politico e, forse, di questa alleanza. In questa fase sarebbe auspi-cabile mantenere aperte tutte le ipotesi, evitando di vincolarsi troppo al proporzionale», Fon-dazione Craxi (F.C.), Fondo B. Craxi, Sez. ii, Attività istituzionale, Serie 1 Camera dei depu-tati, Sottoserie 3, Gruppo socialista alla Camera e al Senato, ua2 Corrispondenza, Lettera diDel Bue a Craxi.

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vano di stinto il tema della stabilità da quello della preventiva forma-zione di maggioranze che si sarebbero candidate al governo. Era l’ele-zione diretta del capo dello Stato, come fu ribadito anche nelle tesiprogrammatiche approvate alla conferenza di Rimini nel marzo 1990,a contenere di per sé potenzialità maggioritarie e ad «avere effetti ditrascinamento sulla consistenza delle forze rappresentate in Parla-mento». Coerentemente si proponeva l’introduzione di una soglia disbarramento del 5%, strumento che serviva a calamitare sul psi i con-sensi dell’area laica.

La «grande riforma» lanciata dieci anni prima si era ridimensio-nata alla proposta dell’elezione diretta, soluzione intorno alla qualelo psi era riuscito a maturare il consenso del solo msi che, dal cantosuo, sosteneva posizioni presidenzialiste. La stessa proposta dell’U-nità socialista, formulata in seguito al crollo del comunismo a Est, fuindebolita dal rifiuto di mettere in discussione il tradizionale schemadi competizione-collaborazione con la dc; ai comunisti era chiesto diriconoscere l’errore compiuto a Livorno nel 1921 e aderire a un par-tito del socialismo riformista che avrebbe sanato l’anomalia della di -visione nella sinistra italiana.

Il fatto che il psi ritenesse urgente l’Unità socialista, ma non con-siderasse altrettanto matura l’alternativa al quarantennio di egemo-nia democristiana, dimostrava la difficoltà di Craxi a muoversi nelnuovo quadro politico scaturito dalla fine del comunismo. Una pre-tesa annessionistica destinata a tramutarsi in un errore, come denun-ciato anche in una lettera di Bobbio sull’«Avanti!» del 12 novembre1990, destinata a rafforzare nel paese l’immagine di un partito pocodisposto a mettersi in discussione e chiuso nella difesa della renditadi posizione.

Di queste difficoltà fu specchio il congresso straordinario del psitenuto a Bari nel giugno 1991, quando Craxi riaffermò ancora una

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volta la volontà di proseguire la collaborazione con la dc; mentreMartelli dava una lettura dell’Unità socialista come rassemblementdemocratico, senza tuttavia riuscire a modificare il monolitismodella linea politica disegnata dal segretario. Nel settembre 1991Craxi rifiuterà la proposta di presentare uniti i due partiti della sini-stra nel segno dell’alternativa alla dc nelle elezioni dell’anno succes-sivo. Ma si era già alla vigilia delle inchieste giudiziarie che segne-ranno la fine del psi, una stagione che vedrà sintetizzate tutte le con-seguenze negative del duello a sinistra combattuto negli anni ottan-ta e della mancata assunzione di una comune strategia riformatrice.

3. un sommario bilancio

Il sistema politico attuale è figlio della cesura consumatasi neiprimi anni novanta quando la congiuntura tra inchieste della magi-stratura, pressione mediatica, reazione della pubblica opinione neiriguardi dei partiti sconvolse la geografia politica determinatasi neldopoguerra. Al suo carattere incompiuto non è estranea l’insuffi-ciente riflessione sulla complessa vicenda del primo quarantenniorepubblicano e sulle cause della scomparsa dei partiti che ne furonoprotagonisti. Ciò ha determinato a sinistra dannosi processi di rimo-zione. Non aver fatto i conti fino in fondo con la vicenda del comu-nismo italiano, rinunciando ad affermare una propria riconoscibilelettura di quella storia, rappresenta l’errore più grande della genera-zione dei giovani berlingueriani protagonisti degli anni della svolta.Una scelta che ha causato lo stato di incompiutezza che ha accom-pagnato le diverse evoluzioni del soggetto politico postcomunista. Ilpci non fu soltanto un grande serbatoio di consenso reso inservibilea causa del «vincolo esterno». Né fu un partito massimalista, nel sen -so della rimozione del tema della propria partecipazione al go vernodel paese. Così nel 1944-1947 con la politica dell’unità antifascista,nel 1963 con il faticoso tentativo di Togliatti di svolgere un’influen-za sul primo governo di centrosinistra, in modo compiuto dopo l’a-scesa alla segreteria di Berlinguer.

Il compromesso storico si inserì pienamente nell’eredità togliat-tiana, coniugando una lettura delle dinamiche internazionali nelsegno della distensione e del superamento dei blocchi, a un’idea didialogo tra le culture politiche della Costituente; è questa coerenzacon la genesi della vicenda repubblicana che spiega il consenso ple-

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biscitario riscosso nel partito, almeno fino alla conclusione della soli-darietà nazionale, dalla politica di Berlinguer.

Ne consegue la scarsa credibilità di una lettura che propone unprimo Berlinguer lucido e aperto al dialogo, compreso fra gli anni1973-1979, cui se ne sarebbe sostituito un secondo radicaleggiantenei cinque anni successivi.

Rompendo la solidarietà nazionale Berlinguer non abbandonò l’i-dea di un compromesso di governo fra comunisti e partito cattolico,il che spiega la permanente freddezza verso ipotesi istituzionali disblocco del sistema; egli pensava di spostare nel tempo l’incontro trai due partiti dimostrando intanto l’impossibilità di governare il paesesenza i comunisti. La vera differenza è che nei primi anni ottantaquesto progetto non aveva più una solida politica su cui fondarsi edoveva fare i conti con un nuovo, scomodo protagonista: BettinoCraxi.

La svolta del novembre 1989 che portò alla nascita del pds scelsedi collocare il riformismo socialista nell’archeologia politica del No -vecento, utilizzando in chiave onnicomprensiva la categoria del con-sociativismo senza specificare se andasse riferita agli anni della soli-darietà nazionale, oppure costituisse una sorta di chiave interpreta-tiva del rapporto degenerato tra maggioranza e opposizione in rife-rimento all’intera vicenda repubblicana (secondo il lucido rilievoformulato da Gerardo Chiaromonte nella sua autobiografia). Magio cò un ruolo non meno rilevante nella rinnovata divisione dellasinistra italiana, la mancata percezione di una comune lettura del«fattore istituzionale».

Di fronte alla crisi di sistema, nel senso della sua dimensione isti-tuzionale, iniziata dopo l’esaurimento del centrosinistra, comunisti esocialisti avevano elaborato due proposte che, a cavallo del decennio1970-1980, segnarono una sorta di passaggio del testimone fra i duepartiti; una volta fallito il compromesso storico toccò alla «granderiforma» proposta dal psi indicare una via d’uscita alla crisi italiana,anche se risultò impossibile conciliare il cambiamento istituzionalecon l’ossificazione del quadro politico da cui scaturì il pentapartito.

Nel frattempo, dietro la crisi dei partiti andava emergendo quel-la ben più grave della macchina statale, lo dimostravano le dramma-tiche condizioni in cui versavano due amministrazioni simbolo del«pubblico potere»: l’istruzione e la giustizia.

Il psi fu un partito riformista sui generis, in grado di conciliare lapartecipazione ai governi con la dc, alla presenza di una forte com-

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ponente radicale che più di una volta scavalcò a sinistra i comunisti.Il vero cambiamento di cultura politica per i socialisti non avvennené nel 1956, né con il centrosinistra, ma con la segreteria Craxi. Fuallora che il socialismo liberale, grazie anche alle feconde elabora-zioni di Martelli, si accompagnò all’ambizioso tentativo di riformadel paese e del suo sistema politico. Un’ambizione rimasta incom-piuta perché limitata dall’incapacità del leader che l’aveva messa incampo di andare oltre l’estenuante competizione per il potere chenelle sue intenzioni rappresentava la sola condizione per il ribalta-mento dei rapporti di forza a sinistra. Si consumarono così le occa-sioni perdute della sinistra italiana, simboleggiate dall’aspra con-trapposizione degli anni ottanta che raggiunse il suo culmine pro-prio quando era conseguito lo storico risultato della contemporaneapresenza dei suoi uomini a Palazzo Chigi e al Quirinale.

Craxi, convinto che la politica socialista potesse svilupparsi solose il suo leader fosse nelle condizioni di utilizzare il potente stru-mento della guida del governo, non percepì l’urgenza di promuove-re la modernizzazione delle istituzioni di concerto con l’unico sboc-co possibile alla crisi della democrazia italiana: la creazione di unsolido sistema di alternanza tra partito cattolico e sinistra da realiz-zare grazie all’apertura di una fase costituente scaturita dal supera-mento degli equilibri di governo allora consolidati.

Vi era poi una dimensione solo apparentemente più sfumata delconflitto fra comunisti e socialisti che riguardava le personalità dei duesegretari e la diversa percezione che lentamente venne insinuan dosi trai due partiti: gli spregiudicati cantori del presente contrapposti ai nemi-ci della modernità. Una rappresentazione caricaturale, certamente, main grado di creare dei solchi profondi, soprattutto se utilizzata dalnuovo protagonista della politica anni ottanta con il quale Berlinguer eCraxi si trovarono, in modi assai diversi, a fare i conti: i media. Si affer-mò sui giornali e in televisione l’immagine di un Craxi autoritario ecinico cui si contrapponeva il rigore e l’intransigenza morale di Berlin-guer; una rappresentazione a tutto svantaggio del psi, i cui effetti furo-no sottovalutati dai socialisti e che ebbe grande influenza nel creare unclima ostile, non solo nell’elettorato comunista. La strategia di comu-nicazione di Craxi, se all’inizio servì a valorizzarne il profilo dinamicoe innovatore, si dimostrò poco adatta a suscitare l’apprezzamento del-l’elettorato di sinistra, abituato ad altri messaggi e a un altro stile.

Ricostruendo questo scenario si capisce come i primi anni ottan-ta abbiano rappresentato un passaggio decisivo. Il timore di Berlin-

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12 Sulla particolarità del sistema politico italiano a causa dell’impossibilità di utilizzare ivoti comunisti per il governo, si veda l’articolo di M.L. Salvadori e il dibattito storiografico cuisi richiama, Consensi e dissensi sull’analisi delle vite parallele Dc – Pci, in «Le ragioni del socia-lismo», a. iv, settembre 2006, p. 45.

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guer nei riguardi della definitiva omologazione comunista, si combi-nò alla diffidenza di Craxi, consapevole della fragilità del propriopartito. Nacque qui la degenerazione oligarchica che portò all’an-nullamento del partito nel suo leader, una reductio ad unum che isocialisti pagheranno cara. Ne derivò una conferma dell’anomaliadel caso italiano che, all’assenza di un equilibrato sistema di alter-nanza, aggiungerà il crollo per via giudiziaria del sistema dei partiti.La costruzione di un coerente sistema di regole per la «democraziagovernante» e la piena acquisizione, da parte del riformismo italia-no, della cultura del socialismo liberale, riassume il problema che daallora attende una soluzione12.

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LA FINE DELLA «GRANDE RIFORMA»: CRAXI, LA COMMISSIONE BOZZI

E LA COMMISSIONE DE MITA-IOTTI

1 P. Scoppola, La Repubblica dei partiti, Bologna 1991.

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Per capire il paradosso per cui il precursore della «grande rifor-ma» finirà per essere il più coerente e ostinato difensore del siste-ma proporzionale e di quella che Pietro Scoppola ha definito «laRepubblica dei partiti» è il caso innanzitutto di ricordare gli even-ti che nel 1987 portarono alla fine anticipata della ix legislatura1.

Essi infatti da un lato documentano quanto ormai la crisi delsistema politico pesasse sulla tenuta dell’edificio istituzionale; dal-l’altro squadernano l’incertezza di Craxi fra l’ipotesi di un compro-messo parlamentare e quella dell’appello al popolo, e in qualchemodo giustificano la decisione finale di privilegiare il criterio dellapolitique d’abord, adottata non solo per indole personale né solo perreminiscenza nenniana.

Il 28 febbraio 1987 Craxi, che aveva appena ottenuto la coopta-zione dell’Italia nel club delle grandi potenze industriali, e il cuigoverno andava a gonfie vele, sembra ribellarsi al patto partitocrati-co della «staffetta», e minaccia di chiedere la fiducia in Parlamentoper trasformare le prevedibili elezioni anticipate in un referendumsulla sua presidenza.

Il 1° marzo, invece, presenta le sue dimissioni al capo dello Stato,secondo la prassi invalsa nelle numerose crisi extraparlamentari deigoverni a guida democristiana.

Il 28 aprile la dc, per ottenere le elezioni anticipate, nega la fidu-cia al monocolore Fanfani che essa stessa aveva voluto per impedirea Craxi di gestire dal governo le elezioni.

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2 Si veda, a questo proposito, G. Statera, Il caso Craxi, Milano 1987.3 Claudio Rinaldi, in «Panorama», 1° marzo 1987.4 Stefano Folli, in «Corriere della Sera», 20 gennaio 2000.

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Anche nelle forme, evidentemente caricaturali, il sistema ostentale convulsioni della fase terminale: è infatti una caricatura del parla-mentarismo quella per cui si inibisce al capo del governo uscente dipresentare il suo bilancio direttamente agli elettori; ed è la caricatu-ra della partitocrazia quella per cui si inibisce al capo del governoentrante di ottenere la fiducia in Parlamento.

L’opinione pubblica, del resto, coglie la contraddizione. A mag-gio «L’espresso» pubblica un sondaggio da cui risulta che il 65%degli italiani dà un giudizio positivo su Craxi e un giudizio negativosul pentapartito; mentre il 14 giugno gli elettori dimostrano che lapopolarità di Craxi non è trasferibile neanche al suo partito, che re -gistra solo un lieve incremento di consensi (dall’11,4% al 14,3%)2.

Allora un «carissimo nemico», il compianto Claudio Rinaldi, ri -tenne di essere buon profeta pronosticando che Craxi non sarebberiuscito né a «conquistare il consenso delle masse», né a «ottenere lafiducia dell’establishment» perché continuava «ad ammonire chequesto Stato va cambiato da cima a fondo», dimenticando che «que-sta politica, per avere successo, ha bisogno di essere praticata in con-dizioni di quasi-emergenza, di corto circuito sociale e istituzionale»,mentre invece «oggi l’Italia, anche per merito del governo Craxi, è ilquinto paese industrializzato del mondo» e «sono pochi quelli chedavvero avvertono la necessità di tessere una seconda Repubblica»3.

Più di dieci anni dopo un altro acuto commentatore, Stefano Fol -li, riferendosi al citato sondaggio dell’«espresso», contestava in vecea Craxi di non aver saputo (o voluto) «capire che la sua figura avevagià spezzato i vincoli e le gabbie di un sistema partitico (o franca-mente partitocratico) ormai logoro» e di non essere stato «abbastan -za coraggioso, o semplicemente innovatore»4. Ma quello di Folli eraun necrologio che veniva pubblicato nel 2000, dopo che non po chiavevano avvertito «la necessità di tessere una seconda Repubblica».

Se Craxi abbia osato troppo o troppo poco è presto per dirlo, sesi usano le categorie storiografiche del comunismo cinese. Ma è pro-babilmente anche ozioso, dal momento che il leader socialista era inqualche modo obbligato ad adottare l’ottica della politique d’aborddall’assoluta carenza di spirito costituente presso i suoi interlocuto-ri. Innanzitutto presso la dc, la cui consapevolezza della crisi di siste-

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5 G. Sangiorgi, Piazza del Gesù, Milano 2005, p. 351.6 L. Cafagna, Una strana disfatta, Venezia 1996, pp. 43-44.7 Lo ha ricordato con particolare efficacia Pierre Carniti nel rievocare i suoi incontri di

allora con Berlinguer: «Fino al 14 febbraio pensò che l’accordo non si sarebbe fatto. Poi sca-tenò l’ira di Dio in Parlamento per far saltare il decreto. Quando capì che stava per esserevarato ricorse al referendum abrogativo nell’assoluta convinzione che il Paese gli avrebbe datoragione perché il pci era l’unico a rappresentare davvero i lavoratori» (in «Corriere dellaSera», 13 febbraio 2004).

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la fine della «grande riforma»

ma di cui la fine del governo Craxi era il segno era talmente labileche il 28 febbraio 1987 Giuseppe Sangiorgi, portavoce di De Mita,annota un episodio che indica quanto fra i democristiani orfani diMoro la percezione della realtà fosse tanto più debole quanto piùforte era la presunzione dell’intangibilità del loro ruolo: «Ho appe-na portato l’ultimo “proclama” di Craxi diffuso dalle agenzie: è unattacco alla partitocrazia e un appello diretto agli italiani. Misasi ri -cor da Polibio: il tentativo di alleanza tra il principe e la plebe perestromettere l’aristocrazia»5.

Era difficile, con questi interlocutori, battere la strada del com-promesso parlamentare. Ma Craxi, come si è detto, rinunciò ancheall’appello al popolo, rifiutando così la stessa alternativa del diavoloche aveva rifiutato Nenni nel 1946, quando, secondo Cafagna, egliavrebbe potuto essere «il leader “populista”, o popolar-democratico,della nuova democrazia italiana, e quindi di una via “populista” allademocrazia» alternativa alla via partitocratica che invece prevalse6.

Nel 1946, però, la partitocrazia comunque funzionava, e fra l’al-tro offrì a Nenni, dieci anni dopo, l’occasione di una rivincita. Allafine degli anni ottanta, invece, non funzionava più. Anzi: a Craxil’occasione della rivincita, nel 1985, era stata offerta proprio dall’ap-pello al popolo con cui Berlinguer aveva ritenuto di poter annullareil decreto di San Valentino, e che aveva documentato sia l’ininfluen-za del tiepido sostegno dei partiti alleati, sia l’obsolescenza di unodegli elementi portanti della Costituzione materiale della «Repub-blica dei partiti», quello che riconosceva al Partito comunista la rap-presentanza pressoché esclusiva del mondo del lavoro7.

la commissione bozzi

Pochi mesi prima di quel referendum aveva concluso i propri lavo-ri la Commissione Bozzi. Secondo Gianfranco Pasquino Craxi avreb-

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8 Nella prefazione al mio La legge di Tocqueville, Reggio Emilia 2007.9 Fino a giungere, nel marzo 1988, a teorizzare uno «sbrego» costituzionale per indire il

referendum propositivo. Del «Gruppo di Milano» facevano parte, fra gli altri, GiuseppeBognetti, Francesco Pizzetti e Serio Galeotti, che poi fu fra gli ideatori della via referendariaalla riforma elettorale.

10 Ruffilli proponeva un’investitura diretta dell’esecutivo e un suo rafforzamento costitu-zionale. In questo senso le sue proposte riecheggiavano sia quelle contenute nella prima pro-vocazione di Amato che quelle successivamente elaborate da Federico Mancini, Enzo Cheli eAlberto Spreafico alla conferenza programmatica che il psi tenne a Rimini nel 1982. Amato,che non aveva partecipato alla conferenza di Rimini perché impegnato in un anno sabbaticonegli Stati Uniti, al suo ritorno contestò il «minimalismo» delle proposte avanzate in quellasede e nell’autunno del 1982 per la prima volta si schierò a favore del presidenzialismo. Le suetesi, però, non furono accolte da Craxi. Si veda La Grande riforma, a cura di C. Macchitella,Firenze 1982, pp. 162-169.

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be potuto essere allora il Constitution maker, se di quella Commis-sione «non avesse brutalmente bloccato le possibilità riformatrici»8.

Può anche darsi, benché la diffidenza di Craxi per quella Com-missione fosse ampiamente giustificata dal clima politico in cui essaera stata concepita. Era infatti palese l’intenzione di quanti, a parti-re da De Mita, dietro le affabulazioni sull’arco costituzionale perse-guivano maggioranze diverse da quella che sosteneva il governo. Néera chiara la posizione del pci, che, al di là del generoso contributodei suoi commissari, non aveva superato il proprio conservatorismocostituzionale, tanto che alla fine non partecipò nemmeno al votoconclusivo.

Del resto mentre a Roma si discuteva a Sagunto si moriva: mentre,cioè, in seno alla Commissione Bozzi i parlamentari comunisti non sinegavano al confronto su una forma di governo meno debole di quel-la prevista nella Costituzione del 1948, quando il governo Craxi coldecreto sulla scala mobile diede una prova di «democrazia gover-nante», il pci scomodò perfino il decisionismo di Carl Schmitt.

Lo scomodò a tal punto, fra l’altro, da indurre Gianfranco Mi -glio, che del pensiero di Schmitt era fra i massimi estimatori in Ita-lia, a ritenere maturi i tempi per lanciare la propria sfida alla Costi-tuzione del 1948, fino a portare nell’arena politica con una certaaggressività le tesi che a partire dal 1983 andava elaborando in senoal «Gruppo di Milano» da lui stesso fondato9.

Quanto alla dc, è difficile non cogliere nelle sue posizioni il pre-valere di preoccupazioni tattiche, benché Roberto Ruffilli avesse for-nito fin dal 1983 ipotesi di riforma che contemperavano le ragionidel «maggioritarismo di composizione» e di quello «di funziona-mento»10.

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11 Del rapporto ambiguo fra Segni e la dc darà conto nel 1995 Marco Follini, che ricorde-rà che ancora nel 1993, in occasione dello «strappo» rappresentato dalla costituzione del mo -vimento dei «popolari per la riforma», «Segni parlava davanti a una gigantografia di Sturzo ein mezzo a deputati, amministratori e militanti del suo partito» (M. Follini, C’era una volta laDC, Bologna 1995, p. 41).

12 Un’eco della polemica «antiplebiscitaria» ancora in Scoppola, La Repubblica dei partiti,cit., p. 406.

13 Gianfranco Pasquino, in «il Mulino», maggio-giugno 1982.

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la fine della «grande riforma»

Per De Mita, infatti, l’obiettivo principale era quello di recupera-re il potere di coalizione del suo partito, ormai in discussione findalla costituzione del governo Spadolini. Per cui da un lato agitavail premio di maggioranza per scardinare il nuovo potere di coalizio-ne conseguito dal psi; dall’altro era restio ad abbandonare la praticaconsociativa, giustificata ai piani alti con l’evocazione di «tavoli isti-tuzionali» distinti da quelli di governo, e difesa ai piani bassi con lapratica del voto segreto in Parlamento.

L’ambiguità della posizione democristiana fu anche il brodo dicoltura per l’avvio dell’iniziativa di Segni, che se da un lato ne con-testava il minimalismo, dall’altro la sfruttava come un nihil obstat amettere in discussione il dogma proporzionalista e la conseguenteconcezione centripeta del sistema politico a lungo coltivata dal suopartito11. Per cui nella dc, mentre Scoppola polemizzava con la svol-ta «neoplebiscitaria» di Craxi, incubava la via plebiscitaria alla rifor-ma elettorale12.

È certo comunque che Craxi, restio a ricorrere all’appello al po -polo, ma diffidente verso intese «costituenti» fra i due partiti mag-giori, era vittima del paradosso che lo stesso Pasquino aveva segna-lato qualche anno prima, quando, nel rilevare che il psi precraxiano«era stato sempre (o almeno prevalentemente) mosso da considera-zioni di carattere sistemico rispetto ad interessi partigiani», con Cra -xi doveva prendere atto che «senza ambizioni partigiane» avrebbecondannato «se stesso a un ruolo subalterno che è altresì nocivo pertutto il sistema»13.

Probabilmente Craxi pensava di sciogliere la contraddizione fraruolo sistemico e ruolo partigiano del psi attraverso la prova di go -verno, e quando questa venne inopinatamente interrotta si proposeinnanzitutto di rinnovarla, anche modificando lo schema dellealleanze (è così che nasce il caf). Un ragionamento, il suo, più com-plesso di quanto lasci intendere il riferimento volgare a Ghino diTacco, e ispirato invece, come riconosce Folli nel già citato necrolo-

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14 A. Romano, Compagni di scuola, Milano 2007, p. 63.

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gio, anche da una «prudenza istituzionale» che faceva fede nella«sua tempra di democratico». Ma ispirato anche dalla fiducia (forseeccessiva, vista l’inaffidabilità dei suoi partner istituzionali) nel prin-cipio della politique d’abord.

la svolta di occhetto

È in questo clima che, alla fine del 1987, nel pci matura una «svol-ta» forse più significativa di quella successiva del 1989. È la svoltache porta al vertice del partito una nuova generazione di dirigentiguidata da Achille Occhetto, e che ha per oggetto innanzitutto la po -litica istituzionale.

Andrea Romano ora ricorda come il colpo di palazzo con cuiOcchetto giubilò Natta fosse indissolubilmente intrecciato con laprospettiva della «riforma del sistema politico», individuata come«l’occasione per forzare la mano all’agenda del partito, che vienecurvata in direzione di una lettura della crisi dei meccanismi di fun-zionamento della democrazia italiana», fino a produrre «un balzo inavanti che permetteva di scegliere una strada diversa rispetto allariformulazione di una proposta propriamente politica per il paese».

Secondo Romano da allora per il nuovo gruppo dirigente la que-stione non fu più «cosa fare dell’Italia, o meglio cosa fare del pci nelgoverno dell’Italia, ma come rimodellare le regole e le istituzioni delpaese per permettere al pci di entrare con la sua integrità identitarianel vero gioco elettorale», in modo da consentire «alla generazionedei giovani uno scarto laterale, mescolando il nuovo della riformaelettorale con il vecchio dell’identità comunista ed evitando a tuttoil partito di ripensare la propria ragion d’essere»14.

Anche per questo, del resto, Occhetto si guardò bene dal valoriz-zare la possibile convergenza col psi in tema di riforma istituzionale.Come ricorderà Norberto Bobbio in una lettera a Giorgio Napolita-no del novembre 1990, Occhetto rispose negativamente al suo sug-gerimento di scegliere il terreno delle riforme istituzionali («rispettoalle quali non si poteva negare che Craxi fosse stato un precursore»)come «l’unico modo serio di trovare un motivo di dialogo con ilpsi». Invece, deplorava Bobbio, «non appena il psi fa una proposta,

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15 La lettera è stata pubblicata dopo la morte di Bobbio in «Le ragioni del socialismo», feb-braio 2004.

16 Giuliano Amato, che a quei tavoli sedeva, nel 1995 così li ricorda: «Eravamo tutti con-vinti che incombeva su di noi un referendum che aveva in fondo un tema minore – la prefe-renza unica – ma che sarebbe stato il primo scoppio di dinamite contro il sistema dei partiti.Con questa consapevolezza ci riunivamo ogni settimana nell’ufficio di Martinazzoli. Ed eraun’autentica partita di domino. Fu così che arrivammo al referendum del giugno ’91. Era asso-lutamente possibile trovare un sistema elettorale tipo quello che ora è stato trovato per leRegioni, o molto meno di quello, che avrebbe calmato molto le acque, e che forse avrebbeimpedito un dirizzone troppo unilateralmente maggioritario, come quello al quale siamo arri-vati. Ma non c’era correttivo della proporzionale sul quale tutti e quattro ci trovassimo d’ac-cordo, perché ciascuno di noi pensava a quella quota di pecunia elettorale che rischiava di per-dere. E nessuno pensò che stavamo per perdere tutto» (in «Ragionamenti», settembre/otto-bre 1995).

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la fine della «grande riforma»

c’è subito una reazione di rigetto», concepita «unicamente per mo -strare la propria originalità», come nel caso della «proposta di ele-zione diretta del Presidente del Consiglio e non del Presidente dellaRepubblica», che «non ha alcun senso»15.

il messaggio di cossiga

D’altra parte neanche la maggioranza, nel corso della x legislatu-ra, diede prova di lungimiranza costituente. Dopo l’esperienza nega-tiva della Commissione Bozzi (e, last but not least, il ritorno della dcalla guida del governo) era stata abbandonata l’idea di dar vita a unamaggioranza costituente diversa da quella che sosteneva il governo.Ma la maggioranza di governo a sua volta non trovava la quadra ai«tavoli istituzionali» che pure aveva imbandito16.

Non c’è da stupirsi, quindi, se nel 1990 perfino la Corte Costitu-zionale avverte il divario che si è venuto a determinare fra Costitu-zione materiale e Costituzione formale, e decide di forzare l’inter-pretazione di quest’ultima dando via libera al referendum sulla pre-ferenza unica. Non è lo «sbrego» auspicato da Miglio qualche annoprima, e non è il referendum propositivo evocato in quei mesi daCossiga e, più flebilmente, dai socialisti. Ma sicuramente è una rifor-ma costituzionale, dal momento che introduce un istituto, quello delreferendum manipolativo, non previsto dalla Costituzione del 1948.

Capita così che quella che a metà degli anni ottanta era stata pocopiù che una trovata di giovani giuristi, e alla fine del decennio pocopiù che l’insegna politica di un movimento trasversale, diventi il fon-

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17 La paternità della via referendaria alla riforma elettorale è contesa fra Serio Galeotti, chefaceva parte del «Gruppo di Milano» guidato da Miglio, e Stefano Ceccanti, che ne parlò alcongresso della fuci del 1985. Sul nesso fra crisi del sistema politico e abuso dell’istituto delreferendum cfr. M. Fedele, Democrazia referendaria, Roma 1994.

18 G. Baget Bozzo, Cattolici e democristiani, Milano 1994, pp. 122-124.19 A. Benzoni, R. Gritti, La terra di nessuno, Roma 1995, p. 64.

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damento costituzionale di una nuova Repubblica17. E capita ancheche diventi il nuovo criterio di selezione delle forze politiche, comeapprenderà amaramente Craxi dopo che il suo appello a disertare leurne, in occasione del referendum del 1991, viene clamorosamentedisatteso dagli elettori.

È in questo contesto che matura il messaggio di Cossiga del 1991,che riletto oggi sembra sempre di più un ultimo avviso ai naviganti,e che forse poteva offrire a Craxi l’occasione per uscire dall’angolo.

Secondo Gianni Baget Bozzo, anzi, «se in quella circostanza i so -cialisti fossero andati innanzi al Paese con il programma della Co sti -tuente, offerto loro da Cossiga, forse avrebbero ottenuto che il saltocostituzionale fosse compiuto dalla politica e non imposto a essadalla magistratura penale». Se Craxi, cioè, non fosse stato «im pri gio -nato dall’organigramma», avrebbe capito che si trovava «dinanzi allasua occasione storica», mentre invece «l’involuzione dell’unico lea-der italiano che avesse la statura per guidare un salto co stitu zionaledisperdeva la possibilità di un’autoriforma della politica»18.

Sta di fatto che alla fine Craxi scelse, «per salvare la vita», di «per-dere le ragioni della vita», come annotò Alberto Benzoni in un sag-gio in cui tentava di esplorare la «terra di nessuno» che aveva segui-to il crollo della prima Repubblica19.

Come è noto la bicamerale che sarà presieduta prima da De Mitae poi dalla Iotti venne concepita proprio nel corso del dibattito cheun po’ obtorto collo la Camera dei deputati dedicò al messaggio diCossiga, con l’intento di renderne inoffensive le punte più acumina-te, a cominciare da quella con cui il capo dello Stato metteva in dub-bio la capacità del potere costituito di farsi potere costituente, ogget-to della critica dottrinale di numerosi costituzionalisti e della viru-lenta polemica politica dei postcomunisti, tutti appassionatamenteaf fezionati alle procedure previste dall’articolo 138 della Co sti tu zio -ne. E se il buongiorno si vede dal mattino, era difficile immaginareche la creatura concepita alla fine della x legislatura sarebbe cresciu -ta sana e robusta nell’xi, anche a prescindere dalle inchieste giudi-ziarie che si addensarono in quegli stessi anni.

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la fine della «grande riforma»

Il dibattito sul messaggio di Cossiga, infatti, documentò in modoinoppugnabile l’assenza di ogni spirito costituente presso le forzepolitiche maggiori. De Mita cucì su misura la sua proposta di rifor-ma elettorale su una prospettiva di eternizzazione della «cultura del -la coalizione» a egemonia democristiana. Dopo avere infatti ricono-sciuto che «il problema della governabilità, della stabilità dell’esecu-tivo non fu risolto dai Costituenti», egli rivendicava la soluzione cheal problema sarebbe stata data dalla dc «non in termini giuridico-formali, ma in termini politici», con «l’invenzione (da parte di DeGasperi, dei cattolici popolari) dei rappresentanti dell’istituzionemo derna della democrazia, del partito popolare di massa (come laDe mocrazia cristiana)» che «è la straordinaria novità del nostropaese».

Da questo fatto («e facto oritur jus», declamò in «latinorum») sidoveva partire per trovare «la risoluzione migliore possibile», nellaconsapevolezza che «quella dei governi di coalizione è un’esperien-za tutta italiana», da difendere senza accettare l’idea «che noi do -vremmo adeguarci all’Europa per uscire dalle difficoltà». Bastavaintrodurre il premio di maggioranza per «recuperare la stabilità e lalegittimità del governo parlamentare conservando le istituzioni dellademocrazia pluralista». Infatti «il male di cui soffriamo nel nostropaese è la mancanza di una autorità legittimata a governare, non ilpluralismo minoritario dell’opposizione», la quale, par di capire, piùsi frammenta e meglio contribuisce a garantire, per la sua parte, lastabilità del primo motore immobile del sistema.

Quanto a Occhetto, fu meno minimalista di De Mita in materiadi riforma costituzionale. Non solo, infatti, ritenne di operare unagrande apertura verso il psi riconoscendo che quella dell’elezionediretta del capo dello Stato era «una proposta in sé del tutto legitti-ma», il cui unico limite era «che essa pare costituirsi a prescindereda una prospettiva di ricambio del ceto di governo e da una pro-spettiva di alternativa»; ma, dopo questa bella dimostrazione di lun-gimiranza costituente, elencò un po’ alla rinfusa i contenuti di «unalinea precisa di riforma istituzionale».

Il cuore dell’intervento di Occhetto fu però una lunga perorazio-ne perché il psi superasse il non expedit in materia di riforma eletto-rale, dal momento che «qualsiasi grande riforma, lo voglio dire aCraxi, non può che basarsi in primo luogo sulla legge elettorale equesta è la vera grande novità che attendiamo dal Partito socialista:che si dichiari disposto ad entrare in campo su questo terreno per

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20 È questa la tesi di L. Cafagna, La grande slavina, Venezia 1993, pp. 129-130.21 È la tesi di Scoppola nel brano già citato.

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discutere con tutti noi, comuni mortali, di simili modeste questioni».Ma Craxi a Occhetto non rispose. Si limitò a ricordargli che «la

logica vorrebbe che riforme istituzionali e riforme delle leggi eletto-rali procedessero di pari passo, nell’ambito di un processo che nonpuò che essere unico», ma non degnò di una parola la «grande rifor-ma» su cui pochi minuti prima si era diffuso Amato. Del resto solonel 1989 aveva fatto propria l’ipotesi presidenzialista che Amatoaveva prospettato fin dal 1982. Ma nella migliore delle ipotesi si eratrattato dell’adozione di una debole strategia volta a ottenere perforza quell’egemonia sulla sinistra che il pci gli negava per amore20.Nella peggiore di una scelta tattica volta a contrastare in una logicapuramente ostruzionistica le grandi manovre sulle «regole» che Oc -chetto e De Mita stavano conducendo21.

Craxi polemizzò invece con De Mita, accettando pienamente ilterreno politico, e non «giuridico-formale», del confronto. Osservòche «la vita parlamentare di questi decenni è stata affaticata da variedifficoltà e da ricorrenti malanni», ma che «le sole difficoltà che nonsi sono mai incontrate sono quelle che avrebbero potuto derivaredalla formazione di maggioranze risicate». Perché allora la dc enfa-tizza tanto il tema del premio di maggioranza? Perché è convinta«che sia esaurito o stia per esaurirsi un ciclo e l’alleanza politica e digoverno che lo ha caratterizzato».

Tanto è efficace la demistificazione delle proposte democristiane,peraltro, quanto povera è la risposta politica che ad esse viene oppo-sta. In realtà a rispondere a De Mita non è il promotore della «gran-de riforma» e nemmeno il tenace «decisionista» degli anni del gover-no. È solo un Ghino di Tacco che difende coi denti il suo potere dicoalizione, e che si accontenta di prendere tempo per evitare che siail Parlamento in carica a modificare la legge elettorale.

la commissione de mita-iotti

Il Parlamento eletto nel 1992, però, dal punto di vista di Craxi eraancora peggiore di quello che lo aveva preceduto. Infatti gli elettoriavevano punito la dc di De Mita, ma non avevano premiato né il psi,che si limitò a non perdere, né la sinistra postcomunista.

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la fine della «grande riforma»

Per la prima volta dal 1948 i risultati elettorali potevano essereletti senza fare ricorso ai decimali: il 9% dei voti conseguiti dalla Le -ga, il 5% dei voti persi dai due partiti postcomunisti, il 4% dei votipersi dalla dc erano il segno di una mobilità elettorale che neanchela tradizionale vischiosità del sistema proporzionale riusciva più acontenere. E del resto le convulsioni che avevano preceduto l’elezio-ne di Scalfaro dimostravano che i partiti non solo non rappresenta-vano più gli elettori, ma faticavano a rappresentare anche gli eletti.

C’era quanto bastava per indurre i responsabili politici ad affron-tare con minore tatticismo la questione delle riforme istituzionali,visto che nel nuovo scenario non avevano spazio né la perenne coali-zione di De Mita, né l’alternativa di Occhetto, e men che meno il cafdi cui Craxi era uno degli eroi eponimi; e visto, inoltre, che le inchie-ste della Procura di Milano cominciavano a produrre i loro effetti.

Questa almeno era la convinzione di un costituzionalista sociali-sta, Mario Patrono, che sul «Giornale» del 6 luglio 1992, commen-tando la formazione del nuovo governo, had a dream: che avvenisse«quasi un miracolo», per cui il governo Amato fosse «l’ultimo dellaprima Repubblica e il primo della seconda».

Patrono non confidava sulla buona volontà degli attori politici,ma su «una variante: le elezioni del 5 aprile e le indagini di Di Pie-tro sulle tangenti», variante che poteva determinare «un mutamentodella “percezione di convenienza” della classe politica, che ha com-preso, che sembra aver compreso la necessità del passaggio in tempibrevi dal sistema dei partiti al governo delle istituzioni». Il «velo d’i-gnoranza», insomma, se non per amore per forza sembrava final-mente destinato a scendere sugli occhi degli attori politici.

Ma non tutti, nell’estate del 1992, sembravano consapevoli deirischi che correva il sistema politico nel suo insieme. Molti, a sinistrama anche al centro, si illudevano ancora di poter offrire all’opinionepubblica un’unica vittima sacrificale, quella socialista. Per cui tac-quero quando, il 2 luglio, nell’aula di Montecitorio Craxi pronunciòun discorso che a torto venne poi interpretato come una velleitariachiamata di correo, e che invece era un forte richiamo alla responsa -bilità collettiva del sistema politico di fronte alla crisi istituzionaleche covava sotto l’iniziativa sempre più incalzante della Procura diMi lano. Allo spirito «costituente», quindi, mancò fin dall’inizioquell’elemento di solidarietà che non era mancato, in circostanzeben più drammatiche, nell’immediato dopoguerra, e senza il qualenessuna riforma costituzionale è possibile.

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22 «Il Messaggero», 5 settembre 1992. Oltre a La Ganga al forum partecipavano CesareSalvi, Antonio Gava e Antonio Maccanico.

23 «la Repubblica», 25 settembre 1992.24 L’intervista, con la quale Martelli si proponeva di «restituire l’onore ai socialisti», in

«Panorama», 7 settembre 1992. 25 Sul ruolo di Martelli in quei mesi cfr. C. Petruccioli, Rendi conto, Milano 2001, pp. 108-

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la rinuncia al presidenzialismo

Per la verità quando, il 22 settembre, comincia la discussionegenerale in seno alla Commissione presieduta da De Mita, il ruolodei socialisti non sembra ancora compromesso. Silvano Labriola, in -fatti, disarma il «fronte interno» al sistema rimuovendo la pregiudi-ziale socialista sull’elezione diretta del presidente della Repubblica(«che, da quanto ci è dato di constatare, non raccoglie consensi cosìlarghi da diventare allo stato delle cose un’ipotesi praticabile»); eapre un varco su uno dei fronti esterni, offrendo alla Lega comenuova la riforma dell’articolo 117 da lui stesso elaborata nella pre-cedente legislatura.

Labriola non prende posizione esplicita sul sistema elettorale, mala posizione socialista è stata già accennata informalmente da GiusiLa Ganga, capogruppo socialista alla Camera, che in un forum sul«Messaggero» aveva proposto «un sistema elettorale in due turni»,nel primo dei quali «si votano i partiti», mentre «nel secondo le for -ze politiche si coalizzano, propongono un programma di governo eun primo ministro», e «la coalizione che prende più voti ha un pre-mio in seggi che le permette di governare per tutta la legislatura»22.

Il pds in un primo momento non si nega a un’intesa col psi. Delresto già sul «Messaggero» Cesare Salvi si era detto «completamen-te d’accordo» con La Ganga. A insorgere, invece, è Claudio Martel-li, che per primo considera «i referendum meglio del papocchio»23.

Martelli qualche settimana prima con una clamorosa intervistaaveva rotto pubblicamente con Craxi, del quale contestava non solola linea politica, ma anche l’insensibilità per la «questione morale»24.Ora lavorava con Pannella e La Malfa a un’alleanza più ampia, voltaa riproporre il tema delle riforme istituzionali al movimento refe-rendario, che però proprio in quella circostanza mostrò il suo limitedi one issue movement, perché non fu in grado di sfruttare l’argo-mento che gli veniva offerto, e cioè quel presidenzialismo che Craxiaveva ormai abbandonato25.

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26 Craxi non era un dottrinario, ma un animale politico. Il nesso da lui stabilito fra vitalitàdei partiti e solidità delle costituzioni è però confermato dalla teoria: «Grandi partiti e grandicostituzioni» formano «un binomio obbligato», essendo i partiti i «corpi d’appoggio nell’elet-torato di massa per l’edificio costituzionale universalistico» (M. Calise, La costituzione silen-ziosa, Roma-Bari 1998, pp. 14-15).

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la fine della «grande riforma»

la riforma elettorale

Craxi, da parte sua, mantiene la posizione. Il 12 novembre, inseno alla Commissione bicamerale, interviene nella discussione ge -nerale sulla riforma elettorale. Innanzitutto mette in guardia i parti-ti contro «certe tentazioni piuttosto autolesionistiche», ricordandoche essi, «destinati forse a divenire dei club che vivranno filosofeg-giando sull’essere e sul non essere (o, i più fortunati, festose associa-zioni per il tempo libero) hanno a tutt’oggi ancora un ruolo non se -condario nella vita politica e nella vita parlamentare»26. Poi contestala digeribilità del «sistema misto e italiano» messo in tavola da Salvie De Mita, e dichiara che «è difficile immaginare che sulla riformaelettorale il principio proporzionalistico, che ha una salda tradizionenel nostro paese, possa essere cancellato» silenziosamente, dalmomento che «i principi non si tagliano a fette come i salami»; percui, trovandosi la Commissione «di fronte alla difficoltà di sceglierein modo chiaro e convincente tra un sistema di tipo proporzionali-stico corretto da elementi maggioritari ed un sistema maggioritariocon un poco di prezzemolo proporzionale», è necessario rimettere«una decisione di tale portata alle Assemblee», perché «non si cam-biano un principio, una tradizione, un sistema senza una riflessioneed un voto sincero, libero e convinto di tutti i parlamentari».

Segni, che prende la parola subito dopo, conviene con Craxi chela scelta fra maggioritario e proporzionale «non è un salame che sitaglia a metà» e rinfaccia a De Mita che «quando si afferma chesiamo vicini all’accordo perché tutti vogliamo un sistema misto, si fain realtà un’affermazione che è tecnicamente una sciocchezza chepoliticamente confonde le acque, e che non serve a fare chiarezza difronte agli elettori». Ma diverge da Craxi sul metodo, e non si trattadi una piccola differenza. Ricorda infatti che «una scelta dei cittadi-ni in merito è già stata sollecitata», e osserva che «il Parlamento puòfarla propria, ma se si dovesse andare invece verso una soluzione incontrasto, eventualità che figura tra le possibilità giuridiche del Par-lamento, essa rientrerebbe di certo in uno dei casi in cui la volontà

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27 E. Galli della Loggia, «Corriere della Sera», 9 maggio 1993.

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popolare deve misurarsi con quella parlamentare», per cui «sarebbesaggio anticipare la data dei referendum rispetto a quella che tradi-zionalmente viene scelta dell’ultima domenica possibile nell’ambitodei tre mesi previsti dalla legge», e celebrarli «la prima domenicadopo la metà di aprile».

Il referendum, infatti, si celebrò il 18 aprile 1993, dopo che Scal-faro aveva rifiutato di firmare il decreto Conso e Amato aveva prean-nunciato le sue dimissioni. Craxi e i socialisti, ormai, non hanno piùruolo. Ma in realtà non hanno più ruolo neanche democristiani epostcomunisti, i quali però non lo sanno, e danno via libera a quel-la legge Mattarella che per gli uni doveva garantire la tenuta della dcnelle regioni meridionali e per gli altri accelerare il trionfo dellagioiosa macchina da guerra.

Solo Ernesto Galli della Loggia, allora, revocò in dubbio la paci-fica titolarità democristiana del polo moderato. «Un elemento cen-trale nel sistema della prima Repubblica uscita dal fascismo», scris-se sul «Corriere»,

è stata la virtuale complessiva delegittimazione della destra e in genere ditutta la cultura politica moderato-conservatrice. Grazie al ricatto dell’anti-comunismo l’elettorato di tale orientamento (milioni di voti) è stato, perdecenni, convogliato forzatamente al centro, e grazie poi alla manipolazio-ne partitocratrica, fatto servire, nella Democrazia cristiana, a politiche egruppi dirigenti orientati in senso a lui diametralmente opposto, cioè popu-lista. Ne è derivato un sistema affatto sbilenco, senza destra o centrodestra,senza cioè una rappresentazione propria e diretta della parte moderata econservatrice del paese, un sistema dove la deriva naturale, insita nel suocodice genetico risalente al cln, ha progressivamente spinto nella vastapalude del consociativismo e dunque ancor più sotto un segno egemonico– se non altro emotivo e lessicale – della sinistra27.

I postcomunisti, invece, restarono abbagliati dalla saccente pro-fezia di Maurice Duverger, il quale, convinto che «riformare il mododi scrutinio senza riformare la Costituzione sarebbe già sufficiente aportare il governo di Roma allo stesso livello di quelli di Parigi, Lon-dra e Bonn», sostenne che «la riforma elettorale maggioritaria diven-ta una priorità assoluta» per «promuovere un’unione della sinistra

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28 «Corriere della Sera», 4 gennaio 1993.29 Il resoconto di quel dibattito nel mio La legge di Tocqueville, cit., pp. 85-91.

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su basi inversamente simmetriche a quelle che l’hanno portata al po -tere in Francia»28.

Anche per questo nel novembre del 1993 per i postcomunisti nonexpedit che Amato e Labriola propongano la correzione della leggeMattarella, magari addirittura adottando il sistema francese che ilpds aveva sostenuto per onor di bandiera al fine di dissimulare ilproprio sostanziale consenso alla proposta di Mattarella: bisognavaandare alle urne con la stessa gioiosa fretta con cui la Irina di Cechovdoveva andare a Mosca.

Perfino Amato perde la pazienza, e con un linguaggio che non gliè consueto maledice la prima Repubblica: «Se riescono a prevaleretra di noi i motivi di dissenso, che pure ci sono, su questo supremointeresse della Repubblica e della politica, allora vuol dire che vera-mente noi siamo condannati a morte perché non siamo in grado disottrarci, pur avendone visto la possibilità, al boia che ci aspetta»29.

la cronicizzazione della crisi

Il 20 maggio 2007, vent’anni dopo le convulsioni del 1987, inun’intervista al «Corriere della Sera» Massimo D’Alema ha evocatolo spettro del 1992 denunciando una nuova crisi del sistema politico.

Una crisi, per la verità, cominciata subito dopo l’illusoria soluzio-ne della prima, come D’Alema sa meglio di chiunque, avendo tenta-to, nella xii legislatura, di riannodare il filo delle riforme con unanuova Commissione bicamerale. In realtà, quindi, una crisi senza so -luzione di continuità, come dimostra la semplice elencazione deglieventi che l’hanno scandita: la rinuncia a ritoccare la Costituzioneper ovviare alla «carenza decisionale» segnalata da Cossiga; l’infeli-ce compromesso sulla legge elettorale; la fretta di Occhetto di anda-re alle urne; la «divina sorpresa» dell’avvento di Berlusconi; il ribal-tone con cui si inaugurava la stagione dei governi «eletti dal popo-lo»; il trasformismo che portava il primo comunista a Palazzo Chigi;la moltiplicazione dei partiti con cui si onorava la promessa di unasemplificazione del sistema; l’obesa impotenza del secondo governoBerlusconi, ricco di consensi e povero di risultati; fino al «porcel-

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30 M. D’Alema, A Mosca l’ultima volta, Roma 2004, p. 98.

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lum», degna conclusione di una transizione verso il nulla e felicecoronamento di una stagione ostile all’oligarchia partitocratica.

Tre anni prima D’Alema aveva riconosciuto che da parte di Craxiera stato «lungimirante porre il tema di una democrazia “governan-te” capace di decidere in relazione alla globalizzazione e alle sue sfi -de», rispondendo così «a un’esigenza effettiva di evoluzione del no -stro sistema democratico»; ma obiettava che «l’errore drammaticodella strategia craxiana stava proprio nell’idea di poter fondare deci-sionismo e governabilità su quel suo risicato 11 per cento di voti»30.

Risicato per risicato, non è inutile precisare che Craxi non si erafermato all’11, ma era arrivato al 14%. Ovviamente però il proble-ma non è questo. Come si è visto, non è infondato sospettare Craxidi qualche velleitarismo. Ma che dire dei postcomunisti che nel 1992coltivarono l’idea di poter fondare addirittura una seconda Repub-blica su quel loro risicato 16% di voti? Alla luce del risultato c’èforse da rivalutare la «prudenza istituzionale» di Craxi.

Ma c’è soprattutto da valutare la condizione delle istituzioni re -pubblicane dopo un ventennio di mancate riforme costituzionali e diestemporanee riforme elettorali. Un ventennio nel corso del quale,peraltro, sembra essersi consumata anche la speranza della «granderi forma» che bene o male (più male che bene, come si è visto) erastata alimentata negli anni ottanta.

Non perché il Parlamento abbia omesso di varare riforme costi-tuzionali. Piuttosto perché ne ha varate ben due: nel 2001 quella cheha riscritto il Titolo v della Costituzione, approvata con quattro votidi maggioranza alla Camera e poi distrattamente confermata dallaminoranza di elettori che partecipò al referendum; e nel 2005 quel-la che terremotava forma di governo e forma di Stato, bocciata inve-ce alla prova referendaria da una maggioranza oceanica.

Le elezioni di questo 2008, del resto, per i cultori della politiqued’abord sembra che abbiano risolto definitivamente il problema: bi -polarismo e semplificazione del sistema dei partiti, obiettivi falliti siadall’ingegneria di Mattarella che da quella di Calderoli, sono statiraggiunti con le scelte politiche di Veltroni e Berlusconi.

C’è del vero, anche perché non è detto che quello della politiqued’abord sia un principio da demonizzare in ogni caso. Ma se si guar-da allo stentato avvio del dialogo parlamentare in questa legislatura,

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all’abuso della decretazione d’urgenza teorizzato dal presidente delConsiglio, e anche al riaffiorare, presso l’opposizione, della tenta-zione di tirare per la giacca il capo dello Stato, non si può negare chel’edificio costituzionale abbia bisogno almeno di una manutenzionestraordinaria. Tanto più di fronte al rischio, per nulla remoto, cheperfino l’introduzione del federalismo fiscale si realizzi invece coicriteri della manutenzione ordinaria.

meglio meno, ma meglio

Non per questo, peraltro, è il caso di riaprire cantieri per realiz-zare i progetti palingenetici di cui è lastricata la strada della secondaRepubblica. Basta meno, ma meglio, per ripetere un brocardo delriformismo. Basta magari, come stiamo facendo oggi, ripercorrere lediagnosi, se non le terapie, in base alle quali trent’anni fa propo-nemmo una riforma che allora ci sembrò grande, ma che ora, dopol’orgia di ingegneria istituzionale cui abbiamo assistito nell’ultimoventennio, sembra tutto sommato prudente e perfino minimalista.

Da tutte le relazioni, del resto, è emersa una grave preoccupa-zione per la situazione che si è venuta a creare dopo che, senza cheprobabilmente nessuno lo avesse deciso, di fatto l’unico fondamen-to co stituzionale della seconda Repubblica, l’unica riforma costitu-zionale che sia stata operata, è la sentenza della Corte Costituzio-nale con la quale nel 1990 venne introdotto nel nostro ordinamen-to un istituto che in Costituzione non c’è, e che è il referendum ma -nipolativo.

L’esilità del fondamento costituzionale della seconda Repubblicaè stata già segnalata questa mattina da Amato e da lui stesso ne sonostate segnalate le conseguenze. Oggi, il capo del maggior partito diopposizione annuncia un referendum non sul di vorzio, ma sul mae-stro unico; oggi, a sei mesi dall’insediamento delle nuove Camere,non è stato ancora eletto il presidente della Commissione di vigilan-za rai; e c’è da rallegrarsi perché almeno in questa legislatura laCamera dei deputati ha raggiunto il plenum, come non avvennenella xiii legislatura.

Questo malessere istituzionale smentisce quanti, troppo fiduciosinella politique d’abord, dopo le ultime elezioni hanno pensato che ilproblema che non aveva risolto Craxi, che non aveva risolto Amato,che non aveva risolto Mattarella, che non aveva risolto Calderoli, che

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non avevano risolto gli ingegneri elettorali, lo avevano invece risoltoBerlusconi e Veltroni con le loro scelte politiche. Non è così. Le scel-te politiche, come ricordava Amato questa mattina, sono sempre«an guillesche» e perciò difficilmente fissabili in procedure che ga -rantiscano poi la continuità di un certo clima politico. E infatti noiab biamo assistito a una semplificazione imprevista e imprevedibiledel sistema dei partiti, e, al tempo stesso, abbiamo assistito a un peg-gioramento dei rapporti fra maggioranza e opposizione, a un peg-gioramento delle condizioni del dialogo parlamentare, e, tutto som-mato, a giudicare dalla teorizzazione recente da parte del presiden-te del Consiglio sulla necessità dell’abuso della decretazione d’ur -gen za, anche a un peggioramento del rapporto fra governo e Parla-mento, un Parlamento a cui non manca una maggioranza ampia,solida, stabile.

In questa situazione non è stato inutile ripercorrere le analisi che,trent’anni fa, ci indussero a concepire una «grande riforma»: le tera-pie può darsi che siano datate, la diagnosi, purtroppo, no. Perciòpenso che il lavoro che abbiamo fatto in questa giornata non siastato inutile, e non lo sia neanche in un contesto in cui fortunata-mente è caduta, invece, la fiducia un po’ naïve nell’ingegneria eletto -rale. Io sono rimasto molto colpito da una dichiarazione del presi-dente del Consiglio di ieri sera sulla legge elettorale europea, che so -stanzialmente ha detto: «Se vi va bene questa proposta che noi ab -biamo fatto e della quale siamo convinti, bene. Se non vi va bene sivota con questa legge». Questa è una grande prova di laicità, perchémette finalmente in rilievo l’insignificanza relativa di tutte le ricette diingegneria elettorale che ci hanno ammorbato negli ultimi vent’anni.È vero che a noi l’ingegneria elettorale ci stava sullo stomaco ancheperché mirava ad azzerare la rendita di posizione di cui go devamo.Ma abbiamo visto innanzitutto a nostre spese, e forse anche a spesedel paese, che le rendite di posizione fondate principalmente suimeccanismi elettorali sono titoli tossici, che come vengono svanisco-no. Perciò è necessario mettere mano a una manutenzione straordi-naria dell’edificio istituzionale. Anche perché vengono i brividi apensare che dopo venti o trent’anni di grandi ragionamenti, di gran-di progetti, di grandi riforme annunciate, adesso, invece, si vada auna scelta come quella del cosiddetto federalismo fiscale con cate-gorie, criteri e progetti paragonabili a quelli della manutenzione or -dinaria di un edificio: come se si trattasse di dare una mano di into-naco e aggiustare qualche ringhiera.

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L’auspicio, quindi, è che le innovazioni istituzionali che verrannointrodotte nel corso dei prossimi anni abbiano lo spessore costitu-zionale che ad esse compete: che non siano cioè ancora una voltainnovazioni di fatto, che poi lasciano un disordine nell’equilibrio deipoteri, come denunciava Amato questa mattina.

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LA DOCUMENTAZIONE

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NOTA INTRODUTTIVA

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Gli anni settanta sono «anni di piombo», ma sono anche gli anniin cui il sistema politico italiano si blocca. Nelle elezioni del 1976 idue partiti maggiori si dividono pressoché equamente il consensodei tre quarti dell’elettorato. Il psi raggiunge il suo minimo storico(9,6%). Ai partiti laici non tocca una sorte migliore. La destra mis-sina non arretra di molto rispetto al successo del 1972. Per trovareuna maggioranza in Parlamento si escogita la formula della «non sfi-ducia»: pci, psi, psdi e pri si astengono nel voto di fiducia al mono-colore democristiano guidato da Giulio Andreotti.

Lo stallo ovviamente enfatizza la centralità del Parlamento, cheperaltro il pci tende a teorizzare anche oltre la contingenza. Nonsolo, infatti, ogni scelta dell’esecutivo deve essere contrattata nellecommissioni e in Assemblea. Anche l’azione amministrativa è con-dizionata da «organi collegiali» che ne affiancano i titolari politici. Eil Centro studi per la riforma dello Stato, guidato da Pietro Ingrao,immagina di racchiudere l’intero circuito istituzionale in una «retedelle assemblee elettive».

Si realizza pienamente, così, un modello di democrazia assem-bleare che per la verità già era affiorato nella prassi precedente, spe-cialmente dopo il fallimento della riforma elettorale del 1953, e checomunque non trovava grandi ostacoli neanche nella lettera dellaCostituzione, visto che all’Assemblea costituente non aveva avutoseguito l’ordine del giorno Perassi che chiedeva di introdurre cor-rettivi a possibili derive assemblearistiche.

A rendere ulteriormente inquietante l’esperimento di democraziaconsociativa, inoltre, era l’atteggiamento con cui ad essa partecipa-

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vano i due partiti maggiori. Il pci vi aveva visto l’occasione per «farsiStato» (offrendo così, fra l’altro, la verifica a contrario delle tesi diBobbio sulle aporie della dottrina marxista dello Stato e di quelle diSalvadori sul leninismo di Gramsci, attorno alle quali proprio inquegli anni si era aperto un intenso confronto sulle colonne di«MondOperaio»). Mentre la dc era incoraggiata a seguire la prassidel «governo ai margini» con cui aveva già fronteggiato le conse-guenze dell’insuccesso della riforma elettorale del 1953, e che neglianni successivi aveva rappresentato il brodo di coltura del dorotei-smo.

È in questo contesto che va letto il saggio di Giuliano Amato concui apriamo la raccolta di documenti che segue, e che riproduce iltesto della relazione da lui tenuta a uno dei seminari preparatori del«Progetto socialista» che l’anno seguente sarebbe stato proposto alcongresso di Torino del psi. Nel «Progetto» il «piano della demo-crazia» si affiancava al «piano del lavoro», ed era, sulla scia dellarelazione di Amato, esplicitamente polemico verso la democraziaconsociativa, proponendo invece la prospettiva di una «democraziagovernante» nel contesto fisiologico del conflitto politico.

Il saggio di Amato e le tesi del «Progetto» furono poco più cheun sasso nello stagno di un’opinione pubblica largamente incline asubire il protettorato del pci sul regime democristiano che l’esperi-mento di democrazia consociativa consentiva; furono quindi facilebersaglio del perbenismo costituzionale che caratterizzava l’insiemedelle forze politiche, e che specialmente a sinistra era tale da guarda -re ancora con sospetto, per esempio, al modello costituzionale dellaquinta Repubblica francese, che pure qualche anno dopo avrebbeconsentito la vittoria di Mitterrand e dell’Union de la gauche.

Il perbenismo costituzionale, del resto, guardò con analogo so -spetto, due anni dopo, anche l’articolo con cui, sull’«Avanti!», Craxiindicava all’viii legislatura la prospettiva della «grande riforma». Main quel caso non mancò lo scandalo, dal momento che per la primavolta un segretario di partito – e di un partito che aveva ricavato nonpochi vantaggi dalla rendita di posizione di cui godeva in seno alsistema politico vigente – metteva in discussione l’assetto istituzio-nale e ne reclamava il cambiamento.

Per la verità né Craxi né Amato mettevano in discussione il siste-ma elettorale (benché in seno al psi non mancassero i sostenitori delsistema francese), né allora mettevano in discussione la forma digoverno parlamentare (benché in seno al psi non mancassero i soste-

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nota introduttiva

nitori del presidenzialismo). Proponevano invece quei ritocchi allaparte ii della Costituzione (e soprattutto alla prassi parlamentare)che aveva auspicato Perassi nel 1947.

Non per questo, però, il senso delle loro proposte era meramen-te efficientistico. L’obiettivo ultimo, in realtà, era quello di superarela democrazia consociativa, responsabilizzando nelle rispettive fun-zioni governo, maggioranza e opposizioni. Il disegno politico, quin-di, mirava sia a snidare il pci dal limbo dal quale esercitava la suafunzione di «lord protettore», sia a determinare la contendibilità delprimato sul governo esercitato dalla dc. In ultima analisi, cioè, mira-va a costringere i due partiti maggiori a una trasparente competizio-ne, con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate anche sulleloro rispettive identità.

L’viii legislatura, però, fu sterile di risultati in materia di riformeistituzionali tanto quanto fu ricca di novità sul piano politico. La dc,dopo l’assassinio di Aldo Moro, vide deperire il proprio potere dicoalizione, che bene o male era stato pur sempre fondato sulla suacapacità di visione strategica. E il pci preferì arroccarsi nell’autosuf-ficienza della propria «diversità», anche per eludere il confronto,ormai aperto al suo interno, fra quanti avevano concepito i governidi unità nazionale come laboratorio della cultura di governo dellasinistra e quanti invece vi avevano visto l’avvio del compromesso sto-rico.

Finì che nel 1981 a guidare il governo venne chiamato GiovanniSpadolini, e che d’altra parte il pci, avendo rifiutato di virare la pro-pria strategia verso l’alternativa socialdemocratica, si ridusse a pero-rare un «governo degli onesti». A ben vedere si trattava di una nuovae più aggressiva versione del compromesso storico, che avrebbedovuto fondarsi non più sull’incontro fra le tre componenti (cattoli-ca, comunista e socialista) così com’erano, ma sulla selezione al lorointerno di una nuova classe dirigente secondo un criterio – quellodella «onestà» – di cui il pci sarebbe stato giudice inappellabile.

La tesi fece breccia soprattutto nell’intelligencija laica, che vede-va rivalutata la propria funzione, invece negletta nella prima versio-ne del compromesso, e che del resto mal sopportava l’incipienteprotagonismo di Craxi. Ma anche nella dc non mancarono gliapprezzamenti, specialmente da parte di quanti vi coglievano l’op-portunità di eludere il forte richiamo dei socialisti a una più marca-ta distinzione di responsabilità fra maggioranza e opposizione.

In quel contesto il «decalogo istituzionale» che Spadolini propo-

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se alla fine della legislatura, cogliendo l’occasione offertagli dalloscontro fra i ministri Andreatta e Formica che aveva provocato lacrisi del suo primo governo, sembrò piuttosto un espediente permascherare la condizione di stallo cui era pervenuto il sistema (delresto documentata anche dal varo del suo secondo governo, fotoco-pia del primo), che non il segno di una visione strategica.

Il «decalogo Spadolini» ricordava semmai il Torniamo allo Statu-to con cui all’inizio del secolo Sonnino aveva pensato di esorcizzarele conseguenze dell’introduzione del suffragio universale, anche se,forse preterintenzionalmente, offriva una sponda al «maggioritari-smo di funzionamento» più o meno esplicitamente auspicato daisocialisti. I quali, peraltro, dopo averne ulteriormente definito i ter-mini nella conferenza di Rimini della primavera del 1982, nell’au-tunno dello stesso anno, nel corso di un seminario a porte chiusepresieduto da Craxi, valutarono, scartandola, anche l’ipotesi presi-denzialista rilanciata da un Amato appena tornato da un anno sab-batico a New York (e quindi assente a Rimini).

Come sarebbe accaduto anche dieci anni dopo nel passaggio dallax all’xi legislatura, l’viii legislatura lasciò comunque in pegno alla ixil compito di costituire una Commissione bicamerale che elaborasseun progetto complessivo di riforma. La ix legislatura, però, era ca -ratterizzata da una novità politica ancora più radicale di quella chesi era verificata nella legislatura precedente, e cioè dalla successionedi Craxi a Spadolini. Il presidente socialista, per la verità, nelle suedichiarazioni programmatiche fu molto cauto nella riproposizionedelle sue tesi in materia istituzionale, e non mancò né di rendereomaggio al «decalogo» del suo predecessore, né di augurare ognisuccesso alla Commissione che stava per essere costituita sotto lapresidenza di Aldo Bozzi.

Nel frattempo, però, inaugurava un nuovo stile di governo, esembrava in grado, soprattutto, di garantire una stabilità che nonpoteva non essere apprezzata anche in alcuni di quegli ambienti didemocrazia laica che erano stati sensibili alla sirena del «governodegli onesti». Bruno Visentini, in particolare, ebbe modo di apprez-zare la decisione con cui Craxi difese la sua riforma fiscale, forte-mente osteggiata dalla coalizione trasversale degli interessi offesiche, come in passato, trovava sponde significative sia nella dc chenel pci.

Ma quando Craxi violò consapevolmente la Costituzione mate-riale, sfidando la cgil a distinguersi dal pci in occasione della tratta-

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nota introduttiva

tiva sulla scala mobile, si scatenò il finimondo: Berlinguer vi vide laconferma dell’invettiva con cui aveva salutato l’avvento del primosocialista alla guida del governo («un pericolo per la democrazia»); ivi gnettisti cominciarono a raffigurare Craxi con gli stivali e la cami-cia nera; e gli intellettuali che non mancavano alla corte del pci die-dero prova della loro erudizione rispolverando addirittura il deci-sionismo di Carl Schmitt.

Il clima che si venne a creare non era, evidentemente, il più pro-pizio per favorire il lavoro della Commissione presieduta da Bozzi,che infatti si concluse nel gennaio del 1985 con un nulla di fatto. Mail clima non cambiò neanche dopo il referendum del giugno dellostesso anno, promosso dal pci per sanare il vulnus del decreto sullascala mobile, e trionfalmente vinto da Craxi. Benché infatti la sfidaalla democrazia consociativa avesse ormai ottenuto anche una signi-ficativa sanzione popolare, la resistenza dei sostenitori degli assettitradizionali del sistema restò tenace.

Per loro ormai la principale anomalia da correggere nel sistemapolitico italiano era il nuovo potere di coalizione conseguito daCraxi. Anche per questo cambiarono di spalla al loro fucile, e men-tre continuarono a eludere i temi del «maggioritarismo di funziona-mento» rilanciarono con la proposta del «maggioritarismo di com-posizione». Infatti la riforma elettorale benché non determinante,come ora sappiamo, per garantire migliore governabilità, era la piùefficace per ridurre il potere di coalizione di Craxi.

De Mita lasciò la briglia sciolta a Mario Segni e agli altri demo-cristiani che da tempo inseguivano, ancorché un po’ confusamente,un’ipotesi di correzione bipolare del sistema. E Occhetto, finalmen-te asceso alla guida anche formale del pci, immaginò che cambiandole regole del mercato elettorale sarebbe stato più facile vendere pernuova un’identità comunista che invece era più complicato rinnova-re in quanto tale.

La conclusione di questo dibattito a somma zero è nota, ed è benrappresentata dal messaggio trasmesso alle Camere nel 1991 dal pre-sidente Cossiga e dal dibattito che ne seguì (e che, come si è giàdetto, si concluse rinviando alla legislatura successiva l’onere di legi-ferare). Nel frattempo, però, si sviluppava il movimento referenda-rio, nato anche dall’ibridazione fra i democristiani di Segni e gliintellettuali raccolti nel «Gruppo di Milano» guidato da GianfrancoMiglio, e successivamente rinsanguato dall’apporto di Occhetto. Equando, nel 1990, la Corte costituzionale, sancì l’ammissibilità del

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referendum sulla preferenza unica, sorvolando sul suo caratteremanipolativo, fu evidente che la titolarità delle riforme istituzionaliera passata di mano, come il fallimento della Commissione bicame-rale dell’xi legislatura avrebbe confermato.

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1. INCUNABOLI

Nell’estate del 1977 il Centro studi del psi, al quale era stata affi-data la redazione del «Progetto socialista» in vista del 41° congressodel partito (che poi si sarebbe tenuto a Torino nella primavera del1978) convocò un seminario sulle riforme istituzionali. Le relazioniintroduttive furono affidate a Giuliano Amato e a Gianfranco Pa -squino. L’interesse per l’iniziativa fu modesto. Al seminario parteci-parono alcuni studiosi e pochissimi dirigenti del partito. Anche l’ar-ticolo di Craxi del 1979, del resto, non rianimò la discussione in senoal sistema politico. I segretari degli altri partiti non gli risposero, eaffidarono le repliche a dirigenti pur prestigiosi, come Natta e Bisa-glia, che però parlavano a titolo personale.

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giuliano amato

RIFORMA DELLO STATO E ALTERNATIVA DELLA SINISTRA*

* «MondOperaio», luglio-agosto 1977.

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Lo Stato che abbiamo non è né quello scritto nella Costituzione,né quello che preesisteva storicamente al modello ivi tracciato. È ilrisultato di una ibridazione complessa, in cui sono confluite almenotre componenti: lo Stato anteriore, le innovazioni introdotte in essodalla dc sulla base di modelli estranei alla Costituzione (anche se for-malmente non contrastanti con essa), il processo di attuazione costi-tuzionale, che è però intervenuto a strati e per ondate successive,innestandosi sulle altre due componenti. Come ciò sia potuto acca-dere ce lo spiegano le vicende dell’immediato dopoguerra e lo scor-rere parallelo che allora si ebbe fra il consolidamento dello Statopre-repubblicano da un lato e la messa a punto dall’altro del disegnodi uno Stato diverso, consegnato a una Costituzione che veniva mes -sa però in frigorifero. Sono vicende assai note, ma conviene tornar-vi brevemente perché hanno un valore centrale nel nostro discorso;non solo per gli aspetti strettamente attinenti al sistema istituziona-le, ma anche per gli atteggiamenti che allora assunsero le forze poli-tiche, sia fra loro sia nel rapporto di ciascuna con tale sistema.

Il dato di partenza è costituito dall’incontro tra le forze politicheantifasciste negli anni successivi al 1943; dal patto comune, cioè, cheattraverso i cln permise e guidò il trapasso dal fascismo al post-fasci-smo. In quella fase i partiti furono essenziali per fornire una legitti-mazione nuova a uno Stato che doveva sopravvivere, ma che era

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ormai sprovvisto di altri punti d’appoggio nel paese. A questo fine ipartiti furono tutti essenziali e lo furono l’uno di fronte all’altro,cosicché la legittimazione che insieme fornirono allo Stato potéanche valere, allo stesso tempo, come legittimazione reciproca. Sitrattava, anche sotto questo profilo, di un grosso fatto nuovo, a tenerconto delle distanze che separavano alcuni dei partiti fra loro e,soprattutto, della lunga tradizione in virtù della quale i ceti proleta-ri e i loro rappresentanti erano non fuori della maggioranza, maeversivi ai margini dello Stato. E fu importante non solo il fatto in sé,ma anche il modo in cui questo si verificò: la legittimazione recipro-ca dei partiti si ebbe attraverso il loro stare insieme. Il patto, cheall’inizio si era integralmente risolto nella vita dei cln, dovette bifor-carsi dopo in due sedi diverse: la gestione quotidiana dello Stato,attraverso la partecipazione al governo, e la costruzione dello Statonuovo, attraverso il lavoro dell’Assemblea Costituente. La sua tenu-ta nelle due sedi fu diversa e a questo dobbiamo il differenziarsi equindi il sovrapporsi di piani istituzionali che caratterizza l’evolu-zione successiva. La tenuta maggiore la si ebbe, com’è noto, in As -semblea Costituente, dove anzi il patto riuscì ad affrancarsi dallecondizioni ciellenistiche che ne avevano consentito la nascita. LaCostituzione, infatti, fu congegnata sulla implicita ma chiara pre-messa che nello Stato futuro le diverse forze politiche avrebberooccupato ciascuna un proprio spazio e che pertanto la loro recipro-ca legittimazione non sarebbe più dipesa da quello stare tutte insie-me che l’aveva inizialmente favorita.

Oggi assistiamo a dibattiti singolari sulla Costituzione, animati dagente che si chiede se il compromesso storico sia o meno costituzio-nalmente dovuto. Un fatto è sicuro. La Costituzione disegnò unoStato molto articolato, nel quale all’organizzazione centrale si con-trapponeva un robusto sistema di governi decentrati e le sedi politi-che erano bilanciate da una pluralità di organi di controllo, dal Pre-sidente della Repubblica alla Corte Costituzionale. Chi concepì unsistema del genere non pensava né ad una maggioranza assediata dauna opposizione eversiva, né a una democrazia consociativa. In nes-suno dei due casi, infatti, avrebbe articolato il potere in sedi tantonumerose di esercizio e di bilanciamento. Questo va detto non perprendere posizione rispetto ai dibattiti a cui prima accennavo, maall’unico scopo di mettere in evidenza il reciproco atteggiamento egli intendimenti impliciti dei partiti durante la stesura della Costitu-zione.

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Le cose andarono invece in modo molto diverso in sede di gover-no, dove il patto si ruppe a metà del 1947, dando luogo all’espul-sione delle sinistre sul cui significato si discute ancora oggi. Molto èstato scritto su quella vicenda, e si è affermato da ultimo che essa sisvolse conformemente a una sotterranea intesa fra De Gasperi eTogliatti. Convinti entrambi della ineluttabilità della rottura, neavrebbero concordato i termini in modo tale da limitarne gli effetti:la sinistra veniva espulsa non dallo Stato, ma dal governo, e per ilfuturo non ci si sarebbe allontanati da un quadro democratico nelquale la partita avrebbe potuto nuovamente riaprirsi. Che questosia vero o no, interessa fino a un certo punto. I fatti sono che lo stareinsieme dei partiti si era configurato sempre più come una coabita-zione forzata; che il disegno costituzionale poté essere completatonella sua stesura, ma restò subito congelato per quanto riguardal’attuazione; e che solo il Parlamento entrò in funzione conforme-mente a quanto la Costituzione prevedeva. Quali che fossero perciòle in tenzioni dei protagonisti, è comunque assai chiaro il sofisticatoaccomodamento a cui essi in concreto arrivarono. La legittimazioneche il patto iniziale aveva dato alla sinistra venne articolata in duetronconi, dei quali l’uno riguardava lo stare al governo, e quindi lagestione dello Stato presente, l’altro riguardava lo stare in Parla-mento, unico pegno ottenuto dalla sinistra dello Stato futuro. Laconvenzione ad excludendum, che è arrivata sino ad oggi, ci confer-ma che almeno per i comunisti la rottura significò che essi perdeva-no la legittimazione a governare. Ma questo riuscì a non significarela espulsione dallo Stato, perché restò in loro la legittimazione a se -dere in Parlamento, alla stregua delle altre forze politiche. La vitadella nostra Repubblica iniziava con questo trauma, destinato ine-vitabilmente a segnarne anche il futuro. In particolare, esso avreb-be improntato la ricerca comunista del patto perduto, suggerendol’idea che la legittimazione del pci sarebbe tornata ad essere inte-grale solo ripristinando quello stare insieme che l’aveva consentitaall’origine.

la dc alla conquista dello stato

Sul piano istituzionale le conseguenze della rottura furono assaigravi. La dc si insediò nel vecchio Stato e le innovazioni che intro-dussero furono ben lontane da quelle previste nella Costituzione.

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Attuare la Costituzione avrebbe significato diffondere il potere insedi in cui lo avrebbero condiviso anche i comunisti (le Regioni) esottoporre le sedi del proprio potere al controllo di organi comun-que limitativi (la Corte Costituzionale). La dc doveva rafforzare sestessa e la creazione di nuovi organismi era concepibile soltanto seportava non a diffondere il potere, ma ad impedire con maggioreefficacia che altri lo potessero condividere e condizionare. Non sa -rebbe corretto attribuire questo atteggiamento ad avidità di partito.Almeno nei primi anni pesarono anche motivi ideali, che furonocerto perniciosi, ma che vennero perseguiti da molti con sicurabuona fede: nel clima creato dalla guerra fredda, ci fu la convinzio-ne di avere una missione da compiere e di dovere lasciare la propriaimpronta sullo Stato e sulla società per evitare che altri lo facesserocon grave danno per il paese. Se non fosse così, non ci spiegherem-mo come mai la pregiudiziale anticomunista, lungi dall’essere sol-tanto praticata, venisse esplicitamente formulata per giustificare lastessa distorsione dei congegni costituzionali. Gustavo Zagrebelsky,in un suo libro di prossima pubblicazione sulla Corte Costituziona-le, ricorda il dibattito avutosi nella prima legislatura sulle modalitàper l’elezione dei cinque giudici di competenza del Parlamento. Lesinistre proponevano la maggioranza qualificata, proprio perché cifosse sui giudici un largo consenso. E la dc così argomentò la suaopposizione per bocca del relatore di maggioranza: «Se fosse veroche il recondito pensiero nostro è precisamente quello di impedirel’ingresso di qualcuno appartenente ad una determinata correntepolitica, il nostro atteggiamento sarebbe, più che giustificato, dove-roso». Lo stesso Don Sturzo, del resto, aveva scritto nel 1950 che ilPartito comunista non aveva il «diritto di partecipare all’ammini-strazione dello Stato e degli organi ed enti di Stato». In questo spi-rito la dc fece due operazioni istituzionali, dettate entrambe da un’u-nica strategia: cercò di impadronirsi delle amministrazioni esistentied avviò la creazione di nuovi enti pubblici, più infiltrabili dei mini-steri e più di questi al riparo dall’occhio del Parlamento. Venne pianpiano conquistata la burocrazia ministeriale, che all’inizio era statadiffidente nei confronti della nuova dirigenza politica, con la qualeebbe anzi motivi di acuto contrasto per la scarsa udienza che trova-rono le sue prime rivendicazioni economiche. La cisl divenne uneccellente strumento di penetrazione e la affiliazione ad essa venneusata con grande spregiudicatezza nelle promozioni e in occasionedei concorsi che sistemarono in ruolo i tanti avventizi entrati preca-

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riamente nei ministeri durante e dopo la guerra. Ai posti di diretto-re generale vennero inoltre elevati uomini di sicura fede democri-stiana. Sul terreno delle procedure e della definizione dei compiti, ladc si avvalse dei moduli precedenti, senza mutarli e limitandosi ascavare negli spazi di discrezionalità da essi contenuti. Com’è noto,le leggi generali che governano ancora oggi la nostra azione ammi-nistrativa la incanalano secondo regole del tutto disinteressate adaccertare i fini economico-sociali concretamente perseguiti per suotramite. Di solito si fa riferimento a questo fenomeno sottolineandoche il prevalente interesse delle leggi in questione è per la regolaritàformale, in nome della quale l’azione amministrativa viene sottopo-sta a minuziosi controlli che la rallentano e la rendono magari con-troproducente. Va precisato che il fatto permane anche per le ipote-si (più numerose di quanto si pensi) nelle quali l’azione amministra-tiva, per ragioni che ne impongono una particolare celerità, vieneesentata dal rispetto delle regole usuali. Neppure in questi casi infat-ti la congruità rispetto ai fini è presa in migliore considerazione; alcontrario si cade nello schema del più incontrollabile potere arbitra-rio. Insomma, muovendosi tra i due poli del legalismo formalizzatoe della rapidità derogatoria, l’azione amministrativa sfugge comun-que (stando sempre alle leggi generali) ad ogni accertamento di effi-cacia e di rispondenza alle aspettative che si ripongono in essa. Dadiversi anni il Parlamento pur lasciando immutate le leggi generali,ha cercato di imbrigliare l’azione amministrativa fissandole finalitàmolto specifiche nelle singole leggi di intervento e facendosi inoltreinformare sulla loro attuazione attraverso relazioni del governo edaltri accorgimenti. Vedremo più in là quali sono le distorsioni deri-vanti da questo modo di fronteggiare il vizio senza eliminarne lecause (e cioè ficcando il naso sempre più a fondo nei singoli spazidell’intervento amministrativo, invece di cambiare le regole che logovernano). Quel che interessa ora chiarire è che nei primi anni dellaRepubblica la dc si avvalse con gran lena delle regole generali de -scritte ed evitò con cura di apporre nelle singole leggi di interventoi vincoli, finalistici e informativi, ai quali più di recente si è fattoricorso. Si dovevano fare le case: la legge stanziava i fondi, stabilivain via generale che per le costruzioni li si doveva trasferire ai Comu-ni, agli istituti per le case popolari, alle cooperative, e il tutto venivamesso nelle mani del ministro dei Lavori Pubblici. A questo puntoil ministro aveva magari due o tre controlli sulla legalità formale deimandati con cui provvedeva ai trasferimenti dei fondi, ma aveva le

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mani del tutto libere circa il riparto tra i soggetti indicati, le aree geo-grafiche e i ceti sociali da privilegiare. Altrettanto si faceva per leleggi di incentivazione finanziaria per l’industria e per l’agricoltura:si destinavano somme a generiche finalità di sviluppo e si lasciava laloro gestione, politicamente incontrollata e nascosta, alle scelte daeffettuare in sede amministrativa.

La rete del sottogoverno

A risultati analoghi dette luogo la seconda operazione istituzio-nale in cui allora la dc si impegnò, quella di costruire nuove ammi-nistrazioni parallele, nella veste di enti pubblici, per l’espletamentodi nuove funzioni. I due esempi più significativi furono l’ina-casa ela Cassa per il Mezzogiorno. In entrambi i casi l’agilità istituzionaledello strumento prescelto venne giustificata in nome dell’efficienzafunzionale che poteva derivarne; ma consentì anche una provvistadel personale sgombra dai vincoli di imparzialità insiti pur semprenei pubblici concorsi e una politica di intervento su cui nessuno, aldi fuori dei gestori così selezionati, poteva metter bocca. Questeoperazioni furono condotte con un lavoro alacre e singolarmentefattivo nel corso della prima legislatura. La fase parlamentare si svol-se senza defatiganti negoziazioni, grazie all’impegno compatto diuna maggioranza, che quasi sempre si limitò a sostenere l’iniziativadel governo. La fase attuativa manifestò rapidamente i suoi frutti intermini di vani costruiti, di infrastrutture, di opere irrigue e così via.Per questo, confrontata con quelle successive, la prima legislaturaviene oggi additata come l’unica nella quale il sistema costituzionalefunzionò veramente in conformità al suo modello. In realtà, l’effi-cienza a suo modo ci fu, ma la conformità al modello costituzionale,nel migliore dei casi, fu soltanto apparente. Quello che fece la dc fudi usare il Parlamento per imboscare nelle sedi della gestione ammi-nistrativa le sue scelte di indirizzo e le mediazioni rivolte a procac-ciarsi consenso politico e a piantare nei diversi gruppi sociali radicipiù solide e più ramificate. Le case, certo, furono fatte, ma il criterioche presiedette alle scelte di finanziamento fu quello di privilegiarele cooperative e di legare in tal modo alla dc il ceto medio impiega-tizio. Gli interventi nel Mezzogiorno ci furono, ma è noto che la pro-spettiva dello sviluppo fu incidentale e strumentale rispetto a quel-la, prioritaria, di aggregare attorno al partito egemone il notabilatolocale, da un lato, e i ceti marginali in cerca di occupazione, dall’al-

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tro. Non è casuale che gran parte delle attività pubbliche concentra-te nei ministeri o affidate sempre più largamente a nuove ammini-strazioni parallele, avrebbero dovuto passare, secondo Costituzione,agli enti territoriali di governo. La scelta del decentramento funzio-nale in luogo di quello territoriale – come bene ha osservato Alber-to Predieri – fu determinata proprio dallo scopo di esercitare conesso un potere politico non condiviso. Ciò fa risaltare nitidamente ildistacco che venne a determinarsi del modello costituzionale. Inbase a questo, il potere politico doveva diffondersi e articolarsi tradiversi organi ed enti di rango costituzionale, in modo da restarevisibile e da risultare controllato e bilanciato proprio in virtù dellapluralità di tali articolazioni. Nei fatti la discesa del potere politiconelle sedi amministrative aggirò e neutralizzò completamente il siste-ma dei checks costituzionali e ripropose, ancorché alleggerito e ag -giornato, il modello dello Stato-partito. L’opposizione si rese contodi quanto stava accadendo e, visti inutili i meccanismi di controllocostituzionale, tentò di inseguire la maggioranza nei meandri dellagestione amministrativa. A questo fine propose comitati ed altriorganismi rappresentativi che affiancassero i «gestori» e tenesserod’occhio ciò che essi facevano. Tali proposte vennero generalmente(ma non sempre) respinte. È importante notare che esse stesse con-correvano tuttavia a far diventare normale l’uso politico dell’ammi-nistrazione, l’assenza di limiti istituzionali contro la penetrazionepartitica nelle strutture e nei procedimenti di gestione, l’annebbia-mento di ogni confine tra le diverse funzioni e le diverse responsa-bilità. Ciò che rimaneva «anormale» era soprattutto il fatto che fossela sola dc a controllare e a gestire la macchina così congegnata. Nelperiodo successivo si ebbero, contestualmente, l’allargamento dellarete di controllo partitico (democristiano) delle sedi gestionali e ilprogressivo manifestarsi all’interno della rete di una serie di disfun-zioni. L’allargamento avvenne in più direzioni, con fatti che è appe-na il caso di ricordare: la conquista fanfaniana delle partecipazionistatali, quella delle banche, avviata alla periferia con le Casse diRisparmio e proseguita nel tempo verso i grandi istituti, il progressi-vo assoggettamento degli enti locali al finanziamento bancario, cheimmise tali enti nella rete dc anche quando erano a gestione social-comunista. Quest’ultima operazione avvenne abbassando il tasso diinteresse sul risparmio postale, che alimentava la Cassa Depositi ePrestiti e cioè la fonte finanziaria istituzionale dei Comuni. Da quelmomento essi dovettero ricorrere da un lato al sistema bancario, dal-

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l’altro all’amministrazione centrale, trovandosi su en trambi i fronti adover negoziare con interlocutori democristiani. Un regime in crisi.Allargandosi, il sistema cominciò però a presentare disfunzioni.All’inizio i diversi filamenti della rete scorrevano parallelamentel’uno all’altro, provvedendosi con ciascuno all’assolvimento di unamedesima funzione di scambio (risorse pubbliche contro consenso)nei confronti di aree distinte della società. Poco alla volta i gruppi diinteresse si moltiplicarono, si articolarono, si sovrapposero in modoche l’appagamento dell’uno cominciò ad im plicare il dissenso del-l’altro. Guadagnarsi i consensi in parallelo diventava difficile ecominciavano a manifestarsi i veti e le conseguenti paralisi decisio-nali. Questo fenomeno si accompagnò, ed a volte si fuse, con la fran-tumazione dell’originaria compattezza partitica e con l’insorgenza,nella rete, di gestioni auto-cefale. Entrambe le novità davano svolgi-mento, all’interno dell’apparato politico-istituzionale, alla moltipli-cazione dei gruppi di interesse: le correnti nella dc, i potentati nellepartecipazioni statali divennero sedi ora concorrenti, ora comple-mentari, che ponevano nuovi problemi di conflitto e fornivano spes-so ulteriori motivi di pesantezza nei processi decisionali. Le disfun-zioni, se affaticavano il funzionamento della macchina, erano peròeffetti inevitabili della sua azione. Aver tra sferito il potere politiconelle sedi amministrative, averlo trasformato in gestione e negozia-zione di benefici concreti nei confronti di singoli gruppi di interessenon poteva non scavare nei solchi della frantumazione sociale e con-correre poi all’aggrovigliarsi dei consensi e dei veti. Se così è, però,era questo, e non quello iniziale, il vero rendimento dell’assetto isti-tuzionale sviluppatosi a partire dal dopoguerra. L’efficienza deiprimi anni era stata dovuta all’indole ancora magmatica di largaparte della società italiana. Ceti sociali che più tardi si sarebbero fattivalere con proprie rappresentanze sindacali erano ancora privi diorganizzazione e quasi interamente rappresentati dai soli partiti;mentre ancora neppure esistevano gruppi di interesse che sarebberoentrati in scena con proprie, specifiche istanze, scaturite dal proces-so di sviluppo. In una situazione del genere, il descritto esercizio delpotere politico era potuto avvenire senza incontrare né suscitare iconflitti e le connesse esigenze di bilanciamenti e di compensazioniche si sarebbero manifestate più tardi. Il momento della verità eradunque quello del governo della società sviluppata. A quel punto, suuna rete istituzionale costruita per «trattare» esclusivamente flussi dirivendicazioni (e per tenerle tutte sotto controllo), potevano pro-

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dursi soltanto gli effetti che in concreto si produssero: o lacerazioniderivanti non dall’esercizio di autonomie, ma dall’emergere dipotentati (la testa fuori dal groviglio poteva infatti metterla soltantochi, oltre ad avere rivendicazioni nei confronti di altri, aveva ancheuna propria elevata capacità di appagare rivendicazioni altrui); ofenomeni di paralisi, perché la capacità di decidere diventava inver-samente proporzionale alla possibilità di aggregazione dei consensi.

le contraddizioni del centro-sinistra

Per quali ragioni l’esperienza di centro-sinistra non è riuscita acorreggere il sistema descritto? Fra i motivi che la ispirarono, ce nefurono alcuni senz’altro coerenti con un disegno fortemente innova-tivo. In primo luogo, l’idea stessa di programmazione, che implica-va il recupero della funzione di governo, come funzione distinta daquelle gestionali, e postulava altresì un rapporto con gli interessisociali diverso dalle tradizionali negoziazioni e correlato a unificantifinalità di sviluppo. In secondo luogo, le proposte di riforma ammi-nistrativa che, in conseguenza di ciò, vennero elaborate dai sociali-sti, per rendere le stesse funzioni gestionali più coerenti alla realiz-zazione di quelle finalità che non alla prosecuzione dei rapporti ne -goziali: riforma del bilancio, riforma delle strutture e delle procedu-re di spesa. In terzo luogo, la spinta decisiva verso l’attuazione delleRegioni, nelle quali si videro correttamente gli anelli di un sistemameno asfittico, più articolato e come tale più idoneo all’elaborazio-ne e alla attuazione di un disegno programmatico.

Questi motivi si presentarono tuttavia fusi e confusi con altri, cheridussero il potenziale complessivo di innovazione e addirittura lodeviarono verso direzioni che portarono al consolidamento del pre-cedente sistema e all’aggravamento dei suoi difetti. Non si trattò sol-tanto della debolezza della carne socialista, coinvolta da una dc ten-tatrice nel tradimento del virtuoso programma di partenza. Il pro-blema riguarda la stessa analisi e alcune delle impostazioni che ispi-rarono tale programma. Un peso determinante ebbe l’idea che, in unmomento in cui gli effetti dello sviluppo potevano divenire disgre-ganti, occorresse ricomporre e incanalare la società lungo un per-corso segnato e dominato dal primato della politica, inteso come pri-mato dell’autorità centrale di governo. A questa, anche se per finimutati, doveva perciò continuare a far capo, con una perdurante

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concentrazione di poteri negoziali e discrezionali, la rete delle istitu-zioni; che venne anzi ridisegnata, per renderla più razionalmentegeometrica e piramidale. Nel disegno le articolazioni e le autonomie,ancorché presenti, erano viste in una chiave molto strumentale ederano sovrastate dall’autorità politica centrale. Il decentramentofunzionale interessava non per districare le responsabilità gestionalie per garantirle nella loro autonomia (presupposto essenziale perchépoi le potesse far valere), ma come tastiera a disposizione di quel-l’autorità. Il decentramento territoriale doveva servire non a diffon-dere la capacità di risposta istituzionale alle domande sociali, ma afar pervenire queste con maggior ordine e coerenza a una autoritàcentrale di governo, munita così di più ampia e razionale informa-zione e più legittimata perciò ad esercitare i suoi ampi poteri neiconfronti delle stesse sedi decentrate. Sul piano dei fatti, questogenere di impostazione lasciava margini enormi al perdurare del vec-chio sistema ed è qui che finì per cumularsi con la debolezza con-trattuale dei socialisti e con la forza messa in campo dalla dc neldifendere la sua rete. Nacquero le Regioni, che la dc volle non comesedi di autonomia, ma come nuove stazioni di negoziazione in unarete più ampia e funzionale, loro incluse, con le antiche regole. Aquel punto i socialisti, che già avevano maturato una concezione delregionalismo meno strumentale ai processi «ascendente e discen-dente» della programmazione, restarono sconfitti. L’idea (socialista)di fare dell’apparato centrale la sede per l’elaborazione dei soli attidi indirizzo e di coordinamento è rimasta sulla carta. Non un soloatto che abbia davvero tale natura è stato sino ad ora adottato e leRegioni, vittime e complici, concorrono con l’apparato centrale nel-l’intrattenere con la società quei rapporti di tipo gestionale che sono,da noi, l’oggetto naturale dell’attività di governo. Gli apparati ammi-nistrativi, gli enti pubblici, gli istituti di credito, ai quali il centro-sinistra promise il primato di una politica più nobile, ma al pari diquella precedente senza confini, ebbero solo la lottizzazione. E lastessa programmazione finì per concorrere più al rinsaldamento chealla eliminazione dei vecchi difetti. In particolare, essa accentuò suomalgrado la progressiva sclerosi della capacità decisionale a benefi-cio dell’esigenza di massimizzazione dei consensi. Negli schemi pro-cedimentali in cui l’hanno tradotta una serie di leggi – per l’ediliziaospedaliera, per la casa, per la localizzazione degli impianti di pro-duzione dell’energia elettrica, per gli interventi straordinari nel Mez-zogiorno – essa si manifesta assai di rado come revisione delle pre-

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cedenti procedure operative (per renderle più agili, più trasparenti,più affidate alla responsabilità sostanziale degli operatori che airiscontri formali dei loro controllori).

Quasi sempre la programmazione è una fase procedimentale inpiù, anteriore a quella operativa, che rimane immutata; ed è una fasenella quale si snocciolano pareri, schemi, proposte, intese dei sog-getti più diversi, dai Comuni, alle Regioni, ai sindacati, ai comitatirappresentativi degli uni e degli altri. Un castello di consensi, la cuifaticosa aggregazione allontana sempre più nel tempo quella deci-sione che pure dovrebbe rappresentarne la ragion d’essere e il fine.

la crescita del parlamento

Gli anni recenti hanno portato due rilevanti novità: il grande raf-forzamento del Partito comunista e il maggior ruolo giocato dal Par-lamento. Le due novità si connettono sicuramente alle tendenze chesono maturate nel paese e alla accentuata difficoltà del sistema dirispondere in modo soddisfacente alle domande politiche insite inesse. Il pci è stato alimentato sia dal rivendicazionismo tradizionale,che ha preso a riporre in esso aspettative inappagate altrove; sia dalrivendicazionismo di tipo nuovo emerso in questi anni, quello cioèche ha saputo ricomporre in obiettivi generali istanze manifestatesiprima in forma solo categoriale o privata. I due rivendicazionismi(entrambi disgreganti ove rimangano senza risposta) hanno d’altraparte cercato il loro sbocco istituzionale in Parlamento. È nata ladottrina che attribuisce a questo la capacità di dare ordinati indiriz-zi a un’attività di governo svoltasi prima lungo i rivoli segnati dallepressioni dei potenti e dalle richieste delle clientele; di tener conto –grazie alle sue procedure più aperte – degli interessi diffusi e sotto-protetti che non hanno accesso agli apparati dell’Esecutivo; di for-nire infine i necessari, ampi consensi alle decisioni altrimenti impi-gliate nei veti. La dottrina è chiaramente simmetrica alla riscontrataemersione delle domande di verità, intendendosi dire con questoche identifica un ruolo potenziale (ed auspicabile) di un organocome il Parlamento. Ma è anche una spiegazione veritiera del ruoloche questo ha concretamente giocato da ultimo? Ciò che ha indottoa rispondere in modo positivo è il fatto che una serie di leggi su temiimportanti sono state approvate negli anni scorsi dopo ampi dibatti-ti che hanno dato spazio alle domande generali e con il concorso poi

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dei voti comunisti. E a questo proposito si è anche giunti parlare diritrovato spirito della Costituente. Io temo che in questi giudizi cisiano forti elementi di confusione. Sul piano dei fatti, le leggi chevengono additate ad esempio sono fra quelle di cui ho già parlato aproposito dei limitati effetti della programmazione: sono leggi, cioè,che descrivono obiettivi e costruiscono itinerari procedimentali inte-si a cumulare i consensi propedeutici alla loro realizzazione. Assol-vono perciò ad una prevalente finalità dimostrativa, amplificata dalfatto che il loro tessuto discorsivo è stato costruito, insieme, da tuttele forze politiche del cosiddetto arco costituzionale. Al di là di que-ste leggi c’è stata, è indubbio, una maggiore vitalità parlamentare,che ha avuto peraltro manifestazioni diverse, di cui sarebbe devian-te sovrapporre i caratteri. Da una parte si sono sviluppate forme discrutinio parlamentare sull’Esecutivo, costretto a dar conto dellenomine che fa e chiamato a riferire, non solo con i suoi ministri, maanche con i suoi dirigenti, sul funzionamento di determinati settorio sull’applicazione data a singole leggi. Dall’altra parte si sono mol-tiplicate le questioni che vengono decise in Parlamento (o in organidi derivazione parlamentare), ovvero dando peso a orientamenti cheivi si sono manifestati. Entrambi i fenomeni hanno una comunematrice, il maggior peso del Partito comunista, che non consente piùalla dc e ai suoi eventuali alleati di gestire gli apparati al riparo daocchi estranei e di regolarne gli interventi con discipline a cui il Par-lamento è chiamato soltanto a dire di sì. C’è però una profonda dif-ferenza fra i due fenomeni. Lo scrutinio parlamentare che, sia pureembrionalmente, ha cominciato a prender piede, rappresenta un’in-versione di tendenza, in quanto genera un rapporto tra istituzioni etra parti che innova rispetto alla tradizionale vocazione del sistema.Questo è infatti abituato a funzionare non per confronti dialettici frai titolari di competenze e responsabilità diversificate, ma per aggre-gazioni progressive, cumulanti le parti in gioco in processi di nego-ziazione e quindi di co-decisione. Le deliberazioni che si sono tra-sferite in Parlamento ne utilizzano invece la potestà legislativa pro-prio per coinvolgerlo (non in modo nuovo, ma certo con maggioreintensità) in tali processi. E gli fanno decidere il salvataggio di que-sta o quella impresa, il destino di una società autostradale in perdi-ta, il sostentamento dei 1.400 lavoratori addetti alle linee di naviga-zione di interesse nazionale. Sotto questo profilo il Parlamento, e inesso l’assenso comunista, sono solo l’anello in più di una catena cheè costretta ad allargare ulteriormente la ricerca del consenso per evi-

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tare di rompersi. La qualità delle decisioni e delle non-decisionirimane infatti sempre la stessa e così pure l’indole dei rapporti in cuiesse si collocano. Si continua ad esercitare un potere politico chenon è fatto di indirizzi ma di gestione spicciola, si continua a farvalere un primato della politica che non conosce diaframmi e nonsovraintende a un sistema di autonomie funzionali e territoriali, maproprio perché scende nella gestione, dissolve senza remore in sémedesimo le responsabilità e le competenze (che dovrebbero essere)altrui. Se differenza c’è rispetto al passato, essa consiste nel fatto cheun tale potere si avvale ora della legge assai più di quanto prima nonaccadesse. E ciò, ferme restando (ancora oggi) le regole generali del-l’azione amministrativa, si traduce per lo più in maggiore rigidità epesantezza nello svolgimento di questa; in un’ulteriore sclerosi, cioè,di capacità operativa.

due tendenze incompatibili

Che cosa c’è in queste cose dello spirito della Costituente? Se sifa riferimento al modello che essa aveva disegnato, è la diversifica-zione dei ruoli e delle funzioni insita nello scrutinio appena avviatociò che più vi si potrebbe ricondurre. Non certo, mi pare, una cen-tralità del Parlamento che ha risucchiato in esso le forme di nego-ziazione e di co-decisione, grazie alle quali l’intero assetto istituzio-nale si è venuto configurando come una rete in cui tutti hanno vocein capitolo, ma nessuno ha un ruolo definito e una sua autonomia difunzioni. In realtà, quando si parla di spirito della Costituente, si fariferimento allo spirito ciellinistico, allo stare insieme. E in questosenso il riferimento è esatto anche per le co-decisioni (che sono pro-prio quelle per cui lo si fa). È vero infatti che lentamente sta caden-do la convenzione ad excludendum; è vero che il pci, attraverso lalegittimazione a stare in un Parlamento all’inizio molto lontano dallefunzioni di governo, sta riacquistando, e in parte sta già esercitando,la legittimazione a governare; è vero infine che questa legittimazionesta riemergendo proprio con i moduli che ebbe all’origine, attraver-so i larghi accordi che il Parlamento consente.

Ma dove può andare a parare tutto questo? Può portarci versoistituzioni capaci di governo e sgombre dai difetti che sino ad ora lohanno impedito? I due usi del Parlamento emersi di recente, ancor-ché derivino entrambi dalla maggior forza dello stesso Parlamento e

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del pci, esprimono modelli molto diversi e perciò compatibili sol-tanto in questa iniziale fase di transazione. Non è immaginabileinfatti che possano coesistere a lungo rapporti dialettici e rapportisincronici, diversificazione tra responsabilità degli uni e controllodegli altri e braccio sia pure di ferro sul terreno della corresponsa-bilità e della co-decisione. Vi ostano ragioni di assetto istituzionale,perché la diversità fra i due modelli non si ferma ai rapporti intra-parlamentari, ma discende giù per i rami del sistema, ponendo a tuttii livelli l’alternativa tra un funzionamento impostato sull’esercizio diresponsabilità differenziate ed uno che punta sulla corresponsabili-tà nell’esercizio di funzioni tendenzialmente gestionali. E vi ostanoragioni di assetto politico, perché sono palesemente diversi gli atteg-giamenti reciproci e le aspettative dei partiti, in sistemi funzionantisecondo l’uno o l’altro modello. Tutta la forza dell’esistente milita afavore della marginalizzazione del primo modello e della utilizzazio-ne della maggior forza parlamentare al servizio del secondo. Nonsarebbe incoerente con l’esperienza trascorsa una gestione ciellini-stica della rete che la dc aveva pazientemente costruito per sé mede-sima. Che ciò possa tradursi nel massimo di consenso con il massi-mo di paralisi, sarebbe solo la naturale conseguenza del fatto chenella rete ormai ci sono tutti. Vediamo se anche la strategia istitu-zionale del pci intende muoversi nella stessa direzione.

ingrao e la democrazia consociativa

Il pci considera transitoria la fase che stiamo vivendo. Conoscebene i limiti dell’attuale centralità del Parlamento e ha maturato unaelevata consapevolezza dei vizi che hanno gli apparati amministrati-vi e le istituzioni pubbliche in genere. Nei suoi dibattiti l’attenzioneper questi problemi è venuta crescendo: era partito dai monopoli, èpassato poi alle imprese pubbliche, ora è giunto ad arrovellarsi sullaframmentazione ministeriale e sulla Corte dei Conti. Nel pci si pensadunque che occorreranno ampie riforme istituzionali per avere unoStato che serva. In questa riforma, tuttavia, la fase attuale dovrebbeinfondere qualcosa di sé che non è affatto ritenuto transitorio: lo spi-rito ciellinistico, la perdurante vitalità che il pci attribuisce alla for-mula dello «stare insieme».

Il fine della ricomposizione, che già fu tra gli impulsi del centro-sinistra, ricompare potenziato in tale formula. Lo giustificano la gra-

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vità della crisi attuale e il livello raggiunto dai processi disgregatori.Lo spiegano, nell’importanza che gli assegna il pci, l’impostazioneideologica dello stesso pci, la correlazione strettissima che esso vedetra istituzioni funzionanti e un blocco storico che le sostenga, la con-nessione che la storia gli suggerisce tra la propria legittimazione agovernare e il fatto di esercitarla insieme alla dc.

Sul piano istituzionale tutto questo si traduce in un’ipotesi diassetto fondato sul primato delle assemblee elettive. Tali assembleesono destinate ad assolvere ad un duplice ruolo: il primo è quello dicoagulare interessi sociali altrimenti frantumati e corporativi attra-verso la mediazione e la sintesi che ne fanno i partiti politici, prota-gonisti naturali della vita delle assemblee. Il secondo ruolo è quellodi trasformare le sintesi così realizzate in indirizzi trasmessi ad appa-rati operativi che a quel punto sarà possibile riaccorpare e renderepiù docili al primato della buona politica. Essi infatti saranno statidistricati dalle pressioni disorganiche degli interessi sociali, alla cuiforza corporativa e centrifuga devono la loro frammentazione attua-le. L’ipotesi non propone un modello di governo centralizzato, per-ché riguarda non il Parlamento, ma la rete delle assemblee elettiveche si chiude con esso, partendo però dai Comuni, anzi dai comita-ti di quartiere. Nella rete degli organi democratici dovrebbero ri -comporsi sia gli interessi sociali sia le funzioni di governo oggi dis-perse, specie alla periferia, in istituzioni funzionali o corporative. Adogni livello territoriale un’assemblea elettiva, con una sua fascia dicompetenze, e l’insieme, la rete, garantito nella sua armonia dai par-titi politici, ai quali in questo modo è anche affidato il ruolo di tes-suto connettivo dell’intero sistema.

Che ci sia in questa proposta – di cui Pietro Ingrao è il più illu-stre fautore – un rilevante sforzo di innovazione, è di tutta evidenza;non soltanto in termini di puro assetto istituzionale, ma anche inriferimento ai fini che si vogliono realizzare per il tramite di questo;fini esplicitati con appassionata nobiltà da chi l’ha avanzata e difesa.E tuttavia si ravvisano in essa degli elementi di continuità con prin-cipi e impostazioni del passato, che inducono a molti dubbi suglisbocchi a cui può condurre. Gli elementi da considerare sono due,per alcuni aspetti diversi, ma molto collegati fra loro. Il primo è ilprimato della politica, che rimane, ed è anzi ancor più legittimato, intutta la sua esuberante capacità di penetrare le istituzioni e le re -sponsabilità operative. Non c’è dialettica, non c’è differenziazione diruoli se non fra diverse posizioni politiche. E non c’è autonomia se

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non nei rapporti reciproci fra le diverse assemblee elettive. Gli altriruoli sono palesemente strumentali, e quindi intrinsecamente prividi garanzie di fronte a ciò che può dettare la ragion politica. Il secon-do elemento è la stessa idea ispiratrice, l’idea cioè che la frammen-tazione si elimini attraverso processi di ricomposizione interamenteaffidati a un tale primato della politica. Anche il centro-sinistra – losi è visto – venne impostato su questa premessa, ma si tratta di unapremessa sbagliata, o quanto meno fondata su un’immagine di socie-tà non più corrispondente alla realtà che abbiamo davanti.

Che l’articolazione della nostra società si sia non tanto trasforma-ta, quanto addirittura presentata in forma corporativa e alla lungadisgregante, è un fatto sicuro. Si tratta però di accertare se di ciò nonsia anche responsabile la rete in cui la si è fatta crescere, una retepriva di punti di autonomia e ricca solo di stazioni di negoziazione.Ciò che pertanto va messo in discussione è se realmente una tale arti-colazione frantumante possa essere vista come la patologia rispettoa una fisiologia costituita dalla compattezza del blocco storico: unblocco che la borghesia non è più in grado di ricomporre e che,essenziale oggi non meno di ieri, deve essere ricostituito dalla classeoperaia. La proposta delle assemblee elettive parte proprio da que-st’ultima premessa. E ciò finisce per farne soltanto una varianteaggiornata di una vecchia idea della sinistra, quella del monismoassembleare, secondo cui l’assemblea esprime la volontà del popoloe rispetto ad essa altre istituzioni non meramente strumentali posso-no essere null’altro che ostacoli. Alla Costituente sia Togliatti siaNenni si fecero portatori di quest’idea; al fondo della quale c’èappunto l’ipotesi che gli interessi che contano sono tutti aggregabiliin modo soddisfacente ed esaustivo nella volontà che si forma inassemblea. Ma la società di oggi non si presta a un tale trattamento.Ci sono in essa voci professionali e tecniche e vocazioni dirigenzialidi varia natura che esigono spazi propri, istituzioni che ne ricono-scano l’autonomia, la responsabilità, la capacità di mediazione e disintesi che non hanno tutte bisogno di essere rimesse agli organipolitico-partitici. Questo non esclude, sia chiaro, la guida di taliorgani, ma ne fa una guida profondamente diversa da quella – dicia-molo pure apertamente – che gli intellettuali organici raccolti inassemblea possono effettuare nei confronti di ceti subalterni. Oggiha senso cimentarsi nella guida di un insieme sistemico, non in quel-la di un blocco, ha senso indirizzare e arbitrare le diversità perché sicoordinino a fini comuni, non sussumerle tutte nel solo pluralismo

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dei partiti, temendo che al di là di esso possa esservi solo quella lot-tizzazione corporativa della società, fomentata in passato dalla dc.Attraverso la rete delle assemblee elettive si costruisce una demo-crazia consociativa a latente vocazione totalitaria, che può sortiredue effetti: o di essere paralizzata dalla consociazione, che consenteun equilibrio di tenuta fra gli interessi in gioco, ma minaccia di rom-persi ad ogni tentativo di sintesi davvero trasformatrice (saremmo,in questo caso, nella più lineare continuità con le tendenze oggi vin-centi); o di sfruttare la vocazione totalitaria per spingersi oltre l’e-quilibrio di tenuta. Questa seconda alternativa potrebbe portare, asua volta, o a un soffocamento delle diversità in un sistema senzaautonomie, o a una rinnovata esplosione delle stesse diversità sottoforma di forze centrifughe; come e più che in passato.

un nuovo disegno istituzionale

Se la diagnosi sin qui fatta è corretta, per modificare le nostre isti-tuzioni bloccate e per contrastare gli effetti di frantumazione che illoro blocco induce nel corpo sociale, occorre ribaltare l’impostazio-ne di partenza. Bisogna avere il coraggio di abbandonare schemiinterpretativi inadatti, accettando, senza equivoci e senza riservementali, che si tratta di aggregare non un blocco storico – come giàho detto – ma un insieme di gruppi sociali, di interessi, di istituzio-ni presenti nella stessa società, collegabili soltanto in un sistema atenuta elastica. Questo certo comporta una riflessione anche ideolo-gica da parte della sinistra, la quale tuttavia non deve soltanto inte-grare il suo tradizionale bagaglio, ma anche rintracciare in esso queifiloni che la matrice leninista ha emarginato. L’idea che l’unico limi-te del potere socialista sia la sua strutturale derivazione dagli inte-ressi proletari è del leninismo, non è del socialismo. Fanno inveceparte della storia di questo (e non soltanto del pensiero democrati-co-liberale, come spesso si pensa) il modello del potere articolato el’intuizione che un tale modello, garantendo una pluralizzazione delpotere, assicura anche che questo sia internamente limitato e non sitrasformi così in oppressione.

Su questa premessa, il riduttivo semplicismo e il volontarismopolitico ai quali si è ispirata sinora la strategia istituzionale della sini-stra, devono cedere il passo alla effettiva ricerca di quelle «tecnichepiù sofisticate» di governo che lo stesso Gramsci invitava a far pro-

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prie. A questo fine gli spunti da raccogliere, facendo anche ricorsoad esperienze e a culture diverse, sono i più vari. Ci sono gli spuntiforniti dalle nostre tendenze istituzionali più recenti: penso alla con-traddizione in atto in Parlamento fra la diversificazione funzionaleinsita nel rafforzamento delle attività di controllo e la sovrapposizio-ne corresponsabilizzante delle co-decisioni. È il primo, non il secon-do il filone da sviluppare non solo in Parlamento, ma nel tessutocomplessivo del sistema di governo. Ci sono gli spunti forniti dallacultura istituzionale della democrazia laica, che la sinistra ha consi-derato con diffidenza, proprio a causa della devianza leninista che leha impedito di coglierne le connessioni con la sua stessa tradizione.Chi legge oggi «Stato moderno», la rivista su cui soprattutto MarioPaggi fece maturare un suo coerente disegno istituzionale, ha unottimo materiale su cui riflettere: la necessità di porre limiti al debor-dare del potere politico e di porre argini che definiscano funzioni eresponsabilità. Ci sono infine gli spunti che provengono dalle speri-mentazioni e dalle ricerche sul terreno della «tecnologia democrati-ca», il terreno su cui più tipicamente si reperiscono le tecniche perun governo non dispersivo, ma neppure compatto, di una societàarticolata. La sufficienza che la sinistra italiana dimostra per solito aquesto proposito è tanto provinciale quanto contraddittoria. L’at-tenzione tecnologica è considerata lecita solo se serve a cogliere lo«strapotere» che le moderne tecnologie di analisi e di informazioneforniscono ai monopoli (oggi alle multinazionali). Diviene sintoma-tica di riprovevole adesione alle utopie della cultura anglosassone seesprime il tentativo di usare le medesime tecnologie a favore delleistituzioni democratiche. Qual è dunque il disegno istituzionale chegrazie anche a questi apporti può essere costruito? Il disegno sifonda anzitutto su tre proposizioni di principio. La prima è che negliinteressi tendono a farsi valere in modo corporativo per la prevalen-te ragione che hanno soltanto spazi di rivendicazione. Non hannoresponsabilità, non hanno per lo più le informazioni che permette-rebbero loro di esercitarne. La seconda proposizione è che gli inte-ressi trasformatisi in centri di vero e proprio «plus-potere» sonoanch’essi il portato dell’assenza di istituzioni sociali articolate ebilancianti. Le loro prevaricazioni sono perciò eliminabili non sol-tanto con il tentativo di sovrastarli con un potere di governo che cer-chi di essere più forte di loro, quanto, in primo luogo, promuoven-do istituzioni di responsabile contro-potere. La terza proposizione èche il governo è impotente perché si impiccia di tutto al più basso

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livello. E lo si può rafforzare ridimensionando le sue funzioni e con-sentendogli, a quel punto, di esercitarle senza gli intralci delle defa-tiganti negoziazioni in cui oggi è quasi sempre avviluppato.

Nelle sue singole parti, il disegno non è che il naturale svolgi-mento di queste tre proposizioni. Esso si articola in quattro grandicomponenti: le autonomie territoriali, le autonomie funzionali, leistituzioni di contro-potere, le istituzioni di governo.

autonomie territoriali e autonomie funzionali

Sulle autonomie territoriali il discorso è breve, perché si tratta diun tema in cui non sono le proposte innovative a mancare, ma è, datroppo tempo, la loro attuazione. L’esigenza di un chiaro riparto dicompetenze e di correlate risorse finanziarie può essere soltantoribadita. Due aspetti forse meritano una precisazione non ovvia. Ilprimo è che l’allocazione delle risorse finanziarie deve sempre avve-nire per blocchi e non per singole funzioni, per tempi di programmae non per tempi di bilancio. Il secondo è che l’ente locale deve esse-re recuperato a una effettiva responsabilità nella gestione delle risor-se così destinategli, e per farlo occorrono innovazioni che escanodalla tradizionale cultura dei controlli amministrativi. Oggi una effi-cace responsabilizzazione può solo passare per il terreno finanziario,qui come in tanti altri settori del sistema istituzionale. La strada dabattere è perciò quella di una rigorosa destinazione della finanza datrasferimenti (che pure dovrà essere consistente) alla realizzazione distandard minimi. Al di là di questi l’ente locale dovrà ricorrere (edovrà essere facoltizzato a farlo) alla leva fiscale e a quella tariffaria,senza scappatoie ulteriori. La strada della responsabilizzazione fi -nanziaria è in fondo quella della sostituzione del controllo ammini-strativo con il controllo (e l’auto-controllo) democratico.

All’interno delle autonomie territoriali, oltre che nell’ambito del-l’organizzazione centrale, devono essere costruite e articolate le au -tonomie funzionali. Intendo riferirmi con questo a un modello orga-nizzativo capace di porre rimedio alla degradazione della politica agestione d’affari e all’uso collusivo degli apparati. Questo fenomenoha avuto una serie di conseguenze negative, che ho già cercato disegnalare: la totale irresponsabilità in cui sono caduti i responsabiliformali degli apparati operativi; la correlata crescita in questi, ovun-que le condizioni di forza lo hanno consentito, di tracotanti poten-

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tati (anch’essi ovviamente irresponsabili, sia nelle prevaricazioni daloro architettate, sia nella esecuzione dei bassi servigi effettuati perconto di alleati partitici o di governo); la degradazione qualitativadei dirigenti che il sistema ha premiato; l’umiliazione e la frustrazio-ne che hanno colpito coloro che per i ruoli tecnici, imprenditoriali,finanziari avevano effettive attitudini. Per rovesciare tutto questonon basta confidare nella sostituzione della buona alla cattiva politi-ca, ma occorre creare dei «pieni» di responsabilità e di funzioni làdove oggi c’è una totale assenza di limiti nei confronti di qualunqueinfiltrazione. A tal fine due sono le linee innovative da perseguire,delle quali la prima riguarda ovviamente le nomine. Non esistonocongegni perfetti per impedire l’immissione nelle amministrazioni,nelle imprese pubbliche, nelle banche, di dirigenti aventi solo irequisiti e le attitudini per lo svolgimento di mansioni di interme-diari politici, di ex politici, di aspiranti politici. Né avrebbe sensoprivare gli organi politici delle facoltà di nomina loro spettanti, con-sentendo solo processi di cooptazione interna. Ciò porterebbe sol-tanto a sostituire i legami mafiosi con la separatezza del corporativi-smo istituzionale; e non è detto che i due, a giudicare dalle caratte-ristiche dei nostri corpi separati, non finiscano al momento buonoper sortire i medesimi effetti. Un largo ricorso ai processi di coopta-zione e di nomina interna deve esserci – e deve essere garantito nellasua inderogabilità – per le responsabilità intermedie in strutturecome quelle di gruppo delle partecipazioni statali e come le istitu-zioni finanziarie. Ma per le nomine di vertice, che giustamente com-petono agli organi politici, si può solo confidare nell’imposizione dirigorosi standard professionali e nell’obbligo di analitiche motiva-zioni, rese di fronte al Parlamento, di cui si può giungere a prevede-re l’assenso, conformemente a quanto accade nei rapporti fra Presi-dente e Senato negli Stati Uniti. È un meccanismo che ha i suoi limi-ti, ma le difficoltà riscontrate in questi mesi nell’imporre al governol’applicazione di criteri oggettivi per le nomine bancarie, dimostra-no da sole quanto esso possa essere eversivo rispetto al sistema cor-rente. La seconda linea innovativa riguarda le attribuzioni degliapparati operativi, che devono essere definite per «corpi» non pene-trabili dall’autorità di governo con decisioni traducentisi in atti digestione concreta (questo – si intende – per i soli apparati svolgentiattività tecnico-operative e non di mero supporto a quella politica).L’autorità politica deve consegnare agli apparati i suoi programmi ei suoi fini e sono gli apparati responsabili per la loro attuazione,

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senza interferenze nella trattazione dei singoli casi. La rispondenzaagli scopi perciò non deve essere più perseguita attraverso un conti-nuo sovrapporsi di autorizzazioni ministeriali agli atti di gestione (sipensi qui alla tendenza invalsa nelle partecipazioni statali), ovverocon la spartizione fra organi politico-burocratici e apparati tecnico-operativi delle singole istruttorie (si pensi agli attuali rapporti fraministeri e istituti finanziari per il credito agevolato). Tutto questoserve generalmente agli scopi diversi da quelli proclamati e ha inogni caso effetti di defatigante rallentamento. La garanzia va cercatautilizzando non il controllo preventivo sugli atti, ma il controllo suc-cessivo, che diventa sanzione, sulle persone in base a riscontri gestio-nali. I responsabili di apparati operativi che si discostino oltre certilimiti dagli obiettivi previsti – gestendo troppo a lungo in perdita,concedendo crediti a iniziative che non hanno sortito gli effetti occu-pazionali previsti – devono essere rimossi. Un tale effetto-ghigliotti-na può generare talora conseguenze contrarie ad equità. È un prez-zo che merita di essere pagato, di fronte alla garanzia che fornisce,non solo contro le devianze dei dirigenti tecnici, ma anche controquelle dei loro interlocutori politici.

Un sistema di contro-poteri

Dopo le autonomie territoriali e funzionali vengono nel disegno icontro-poteri da promuovere nelle stesse istituzioni e nei siti econo-mico-sociali generatori di fenomeni di «plus-potere». Istituzioni dicontro-potere, correttamente definite e collocate, indirizzano lerivendicazioni verso i loro destinatari naturali, hanno un effetto diriequilibrio, fungono da fattore di chiarificante dialettica. Tutto que-sto, per un verso può rendere superfluo l’intervento di organi ester-ni, per l’altro può rendere più consapevoli gli interventi che questicontinueranno a dover fare. Rientrano nell’ambito qui considerato ilcontrollo degli utenti sui servizi erogati da aziende pubbliche nazio-nali e locali, la democrazia industriale nelle imprese con un numeroadeguato di dipendenti. Il rafforzamento delle imprese minori, spe-cie sui mercati in cui sono esposte alla diretta concorrenza dei gran-di gruppi. Si tratta di situazioni diverse, che esigono formule diver-se di intervento pubblico. Per il controllo degli utenti la stradamigliore è probabilmente quella di far leva sui comitati di quartiere– intesi come polistruttura della democrazia di base. A tali comitatiè errato dare compiti estesi di gestione diretta (la gestione, oltre certi

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limiti, fa prevalere il profilo burocratico su quello democratico) e nevanno invece sviluppate le funzioni di controllo. Per la democraziaindustriale ciò che serve è rafforzare con legge le capacità delle rap-presentanze sindacali e di fabbrica di gestire i rapporti già instaura-tisi da noi con la contrattazione collettiva. Ciò può senz’altro com-portare la costituzione di nuovi organismi espressivi di tali rappre-sentanze, ma non il trasferimento della materia nell’ambito di com-petenza delle assemblee elettive (proposta questa emersa da partecomunista), perché ciò svilirebbe il ruolo di controparte sociale as -solvibile dal sindacato nell’impresa. Per il rafforzamento delleimprese minori occorre un istituto pubblico, di cui oggi abbiamo deicampioni in forma ridotta, che invece di far scorrere incentivi indanaro, abbia risorse tecniche e finanziare per organizzare servizi –di ricerca, di mercato, di formazione ecc. – utili a rendere tali impre-se più dimensionate, più informate, più competitive. Questi modidiversi di intervento pubblico non hanno in comune soltanto la giàchiarita finalità di bilanciamento tra poteri e contro-poteri. Li acco-muna anche il fatto che c’è in tutti essenzialmente una continua edampia circolazione di informazioni tra le parti del gioco volta a voltaconsiderato. Nel caso della democrazia industriale la legge dovràmolto appoggiarsi in proposito agli accordi che possono maturare insede di contrattazione, i cui successivi aggiustamenti sono i più ido-nei a registrare il superamento o il perdurare di quelle diffidenzeimprenditoriali e di quelle esasperazioni conflittuali di parte operaiache fanno da naturale intralcio alla circolazione e all’uso delle infor-mazioni. Nei casi invece del controllo degli utenti sui servizi e delpotenziamento delle imprese minori spetta all’intervento pubblicoattivare, con una intensità e un’intelligenza a noi sconosciute, l’usodi quelle tecnologie a cui ho accennato in precedenza.

il ruolo arbitrale del parlamento

Un assetto nel suo complesso così articolato è idoneo a spezzarela gran rete negoziale, i cui fili si ricongiungono tutti in capo all’E-secutivo e della quale lo stesso Parlamento rischia di essere solo l’e-stremo supporto. Essa, d’altra parte, evoca funzioni di guida politi-ca di cui si possono cogliere a questo punto, non solo l’essenzialità,ma le interne differenze delle Camere. Si può pensare a una varian-te di tale modello che comporti una elezione contestuale dei due

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organi, in modo da farli derivare entrambi da uno stesso contesto diconfronto politico. Si può all’apposto pensare a varianti del nostroattuale modello: rafforzamento del Presidente del Consiglio rispettoai ministri, con riferimento sia alla scelta di questi, sia alla direzionedella loro attività; riduzione dei momenti di necessario interventoparlamentare per l’attuazione del programma del governo, che ilParlamento potrebbe affidare a quest’ultimo con autorizzazioni dispesa più larghe e polivalenti di quelle attuali (mai più di questeorientate verso obiettivi di piano e accompagnate da conseguentiriscontri). Ciascuna di queste soluzioni è certo opinabile. È impor-tante percepire che in un contesto istituzionale più articolato essepotranno meritare attenzione. E un tale contesto è in realtà il piùcorrispondente allo stato di maturazione e ai problemi della nostraattuale società.

un programma per l’alternativa

Ho prospettato un assetto istituzionale alternativo a quello esi-stente ed alternativo anche a quello che potrebbe scaturire dalla retedelle assemblee elettive. Percorrendo così i sentieri dell’ingegneriaistituzionale, credo di aver raggiunto, senza averla neppur menzio-nata, la proposta politica dell’alternativa. Mi pare infatti che l’asset-to indicato sia il più congeniale ai contenuti di tale proposta e siaanche il più idoneo a renderla praticabile senza traumi. È il più con-geniale perché tende a eliminare il rivendicazionismo arricchendo leautonomie sociali, a vincere la frammentazione non con l’aggrega-zione nell’unità, ma con l’articolazione delle diversità, a combatterel’irresponsabilità non con la responsabilizzazione soltanto politica-partitica ma con il riconoscimento di responsabilità all’interno deidiversi ruoli istituzionali, professionali e sociali. Non è difficile vede-re come tutto questo sia coerente con i valori di fondo che la pro-posta dell’alternativa di governo della sinistra intende far crescere.Tale proposta, d’altra parte, trova in un assetto del genere il tessutoricco di bilanciamenti che le consente di realizzarsi senza suscitarereazioni destabilizzanti. Un sistema in cui il potere sta tutto da unaparte e nel quale si sviluppano forze politiche sempre più competi-tive, è costretto a procedere per aggregazioni successive e a fermar-si perciò alla democrazia consociativa. L’alternanza diviene tollera-bile se si cambiano le regole di un tale sistema e se lo stare al gover-

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no non consente un monopolio di potere senza residui. Nell’attualemomento ciò, lungi dall’escludere la consociazione, dà un’indicazio-ne precisa sul modo migliore per utilizzarla. Vale qui quanto ha scrit-to giustamente Gianfranco Pasquino, secondo il quale la consocia-zione deve servire per elaborare e concordare le regole che consen-tiranno in un secondo momento una sua rottura non traumatica. Èquesto il compito a cui i partiti dovrebbero accingersi oggi. È unapericolosa illusione quella di poter perseguire, grazie al rinnovato«stare insieme», importanti obiettivi di trasformazione sociale. Aparte il noto e penoso divario fra gli accordi programmatici di coali-zioni eterogenee e l’attuazione che poi se ne può fare, è inutile cari-care il nostro sistema istituzionale e i nostri apparati amministratividi compiti sovrastanti la loro attuale capacità operativa. Da qualun-que parte la si guardi, la riforma istituzionale è comunque un prius enon c’è volontarismo politico che possa ormai rimuovere questoimprescindibile dato di fatto. L’occasione dello «stare insieme», uti-lizzata per affrontare di petto la riforma istituzionale, sarebbe dav-vero un ritorno allo spirito della Costituente. Si tratta infatti di darvita a un sistema che, in forme sia pure aggiornate, recuperi l’artico-lata diversificazione dei ruoli, delle autonomie, delle responsabilità,presente nel disegno costituzionale. E, come allora, si tratta di darsile regole del gioco in base a cui, domani, ciascuno potrà fare la suaparte. Non pensino i comunisti che la loro legittimazione a governa-re debba ancora a lungo dipendere dal loro stare insieme alla Demo-crazia cristiana, secondo quanto accadde all’inizio di questa lungastoria. Nella misura in cui sono oggi legittimati a governare, lo sonoper l’aspettativa che hanno suscitato di essere alternativi rispetto alladc. Se ad essi manca ancora qualcosa sul terreno della legittimazio-ne a governare, non è per una scarsa vicinanza alla dc, ma per lascarsa vicinanza alla realtà del nostro tempo di alcuni loro filtri ideo-logici e, non casualmente, per una perdurante incertezza nella lorocollocazione europea. Pensino perciò ad abbandonare quei filtri cheancora li portano a pensare in termini di «blocco storico» e pensinoa scegliere in via definitiva fra l’Europa e l’Unione Sovietica. Se lofaranno, non avranno più bisogno di appoggiarsi allo scudo crocia-to. Potranno uscire all’aperto e dare il loro essenziale contributo allacostruzione in Italia di una schietta alternativa socialista.

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Piuttosto che inseguire le polemiche quotidiane che si aggirano inambiti sempre più ristretti, conviene forse allargare lo sguardo allostato di salute reale della nostra democrazia e ai doveri che ne deri-vano alle forze politiche che con essa e con le sue sorti vogliono inte-ramente identificarsi.

Sarà necessario allora ed in primo luogo interrogarsi sul destinodell’ottava legislatura repubblicana, nata da un aspro travaglio che ilpost-elezioni ha reso ancora più acuto e la cui vita è sospesa ad untenue filo.

In assenza di nuove prospettive, in mancanza di un punto di rife-rimento tale da suscitare nuove collaborazioni, convergenze e con-fronti, e quindi un ancoraggio stabile ed aderente ai problemi attua-li della società e dello Stato, questo filo rischia di spezzarsi in modoirrimediabile.

Si aprirà così il varco verso una fase più oscura della crisi politicae della crisi dei sistema; il fossato della sfiducia che separa ed allon-tana i cittadini dalle istituzioni si allargherà ancor più e pericolosa-mente.

Di questo rischio non paiono consapevoli coloro che lo dovreb-bero essere. Non tutti almeno. Un clima rissoso sta bruciando rapi-damente i tempi di una tregua immaginata come una fase di rifles-sione e di costruzione di un nuovo tessuto di relazioni tra le forzepolitiche. Gran parte del formulario corrente come mezzo di scam-

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* Apparsa su l’«Avanti!» del 28 settembre 1979 con il titolo Ottava legislatura.

bettino craxi

LA GRANDE RIFORMA*

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la documentazione - 1. incunaboli

bio e di confronto tra i partiti sembra galleggiare lontano dalla real-tà della società, dai suoi conflitti che tendono ad inasprirsi dalle con-traddizioni che la scuotono con intensità crescente.

I bizantinismi e i tatticismi in cui si rotolano esponenti politici,partiti E frazioni di partiti appartengono alla categoria del politici-smo, mostrano un aspetto di decadenza del sistema o di una partealmeno dei suoi gruppi dirigenti.

Quando tutto si riduce alla alchimia delle formule, alla manovraattorno alle combinazioni, alla lotta per un potere in gran parte cor-roso, paralizzato o male utilizzato, siamo ad un passo dal cretinismoparlamentare e a due passi dalla crisi delle istituzioni.

L’Italia non attraversa una crisi congiunturale di emergenza. Dob-biamo certo affrontare in modo eccezionale i nostri drammi quoti-diani che si chiamano principalmente disoccupazione e crisi giova-nile, sanguinose imprese terroristiche, recrudescenza della malavitagrande e piccola, persistenza dei fenomeni mafiosi, ma non possia-mo ignorare che anch’essi si legano a radici profonde.

L’Italia è piuttosto ad un bivio storico dove attorno alle questionistrutturali si misurano le sue possibilità e le sue capacità di reazionee si definisce, in un quadro internazionale sempre più complesso edimprevedibile, il suo avvenire prossimo.

Gli anni dell’ottava legislatura repubblicana non possono perciòessere vissuti alla giornata, né del resto, potrebbero esserlo, cosìcome non potranno essere il teatro di nostalgiche involuzioni.

Una legislatura già nata sotto cattivi auspici, minata dai pericolodi un voto politico puramente distruttivo vivrà invece con successose diventerà la legislatura di una grande Riforma. Non riforme set-toriali, episodiche, e in taluni casi mal calcolate e destinate a risol-versi in risultati deludenti, ma una riforma unitaria nella sua logica,nei suoi principi, nei suoi indirizzi fondamentali.

Ciò che occorre è un processo di riforma che abbracci insiemel’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale.

Attorno ad un processo di riforma si dovrebbero mobilitare tuttele energie migliori, utilizzando tutta la ricchezza e la creatività delleintelligenze che neil paese non mancano richiamando, in uno sforzoconvergente ed organico, la responsabilità e l’impegno di tutte leforze politiche e sociali disponibili, per un’opera di trasformazioneistituzionale, sociale e di progresso. Una riforma che ponga tutti difronte ad una prospettiva di largo respiro e trovi le sue basi di ap -poggio, non nella fragile diplomazia delle opportunità contingenti

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bettino craxi - «la grande riforma»

ma partendo da una robusta chiarificazione politica fra le forze rap-presentative in campo. Molti segnali significativi, ipotesi progettualied impulsi importanti si sono già manifestati ed operano verso unasimile direzione. La Riforma su cui impegnare l’ottava legislaturanon partirebbe da zero, non nascerebbe in un deserto arido di ideee di propositi. La riforma costituzionale rientra nei poteri del Parla-mento e la necessità di un bilancio e di una verifica storica è ormaifortemente sentita. Anche gli edifici più solidi e meglio costruiti, edil nostro edificio costituzionale ha dimostrato di esserlo, si misuranocon il logorio del tempo. Le esperienze fatte e vissute possono gui-dare la mano di una accorta revisione che ponga nelle migliori con-dizioni di funzionamento i fondamentali poteri dello Stato demo-cratico, consolidi i diritti dei cittadini, favorisca il miglioramentodelle relazioni sociali.

Vi sono problemi che riguardano l’esercizio del potere legislativo,la stabilità e l’efficacia dell’esecutivo, riadeguamento di istituti e distrutture amministrative alle nuove realtà ed alle nuove esigenze fun-zionali.

In questa materia il «presidenzialismo» può essere consideratocome una superficiale fuga verso una ipotetica Provvidenza, ma1’immobilismo è ormai diventato dannoso.

La riforma deve investire la Pubblica Amministrazione al centrocome alla periferia. Non vi è chi non veda che la crisi dello Stato èda tempo ormai un fattore di accelerazione della crisi economico-sociale. Il risanamento finanziario e la riorganizzazione dello Stato,una moderna e razionale riforma degli ordinamenti locali, auguranoda troppo tempo nella agenda dei buoni propositi senza che vengadato in modo organico un seguito concreto e risolutivo. Non sononeppure mancati spunti e iniziative di buona volontà, ma di certo ein conclusione hanno sempre finito con il prevalere le resistenze e ilsabotaggio delle forze politiche e burocratiche della conservazione.E, tuttavia, questa rimane la via maestra per mantenere l’Italia inEuropa e per aprire all’Italia nuove vie del mondo. Avvicinarsi, nel-l’arco di alcuni anni, agli standard europei di efficienza, produttivi-tà, ampiezza e qualità dei servizi prestati dalla Pubblica Ammini-strazione, in una cornice di riqualificazione di rimpegno e della pro-fessionalità pubblica non è una impresa fuori della realtà, anzi, è adun tempo un dovere e una necessità fondamentale.

Anche l’economia e la vita sociale soffrono delle politiche di cortoraggio, dei tamponamenti assistenziali, dell’assenza di programma-

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la documentazione - 1. incunaboli

zione, della rincorsa giornaliera di mali che inesorabilmente si aggra-vano. Le condizioni economiche del paese sono oggi molto proba-bilmente migliori di quanto non dicano le statistiche e le opinionicorrenti, ma parimenti assai poco diffusa la consapevolezza di quan-te e quali incognite gravino sulle prospet tive, quanta incertezza peri-colosa pesi sul nostro futuro, quante difficoltà si preparano e qualiconseguenze negative esse comportano se ci troveremo ad affronta-re a mani alzate senza corrette previsioni e predisposizioni adegua-te. II nostro sistema di economia mista può sembrare a prima vistail prodotto di una intelligente ed armoniosa virtù mediana tra i malidel capitalismo selvaggio e i vizi del capitalismo burocratico. Divie-ne un sistema percorso quando rischia di assommare insieme i malidell’uno ed i vizi dell’altro. Di qui la necessità non di fuoriuscire dalsistema pluralistico di una economia a più settori, ma di allargare daun lato l’arco della responsabilità sociale, la coscienza della solida-rietà e dei doveri verso la collettività, dall’altro lato di accrescere l’ef-ficienza e l’attaccamento ai valori del lavoro e della cosa pubblica. Sitratta di aumentare l’influenza dei lavoratori nella vita produttivaper ricevere l’impulso positivo di una partecipazione responsabile enon per aumentare il peso di controlli paralizzanti.

Si tratta di correggere le contraddizioni più vistose che vedonocongestionate le aree del nord e i vuoti nelle regioni meridionali. Sitratta di sorreggere ed incoraggiare tutte le forze sane della produ-zione creando le condizioni migliori per il loro sviluppo interno eper la loro espansione internazionale. Vanno contrastate le tendenzeegemoniche dei grandi gruppi economici portati a farsi una leggepropria, a ritagliarsi un regno nella Repubblica; va affrontata l’arcadel privilegio corporativo e della speculazione incontrollata, vannoaffermate per tutti le regole di una più rigorosa disciplina sociale.

Ma val la pena di ricordare che l’interesse di ciascuno e di tutti sidifende e si sviluppa meglio non con impostazioni arcaico-statalisti-che, sovente fonte di diseconomie e di corruttela, quanto piuttostosburocratizzando e socializzando sempre più la vita produttiva.

Si sente anche un grande bisogno di tanti cambiamenti nella vitapub blica che in sintesi corrispondono alla esigenza di una riformamorale. Si sente un grande bisogno di ristabilire una nobiltà dellapolitica che abbia le sue fondamenta nella coscienza storica di rap-presentare la guida e di rispondere delle sorti e del progresso di ungrande e vitalissimo paese.

La classe politica democratica deve riconquistare autorevolezza e

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bettino craxi - «la grande riforma»

credito principalmente di fronte alle nuove generazioni, rinnovandouomini e metodi, cultura e linguaggio.

Deve essere ristabilito il primato della giustizia e della verità chevicende trascorse e vicende attuali mantengono in uno stato di umi-liazione e di offesa. Solo se avanzerà una riforma morale potrà esten-dersi una più nitida coscienza ed un più vivo attaccamento a tutti ivalori che sono consentiti ed espressi dal nostro regime di libertà. Siè scritto giustamente che l’Italia è uno dei paesi più liberi del mon -do, ma troppe immoralità e tanto cattivo uso della libertà stessafanno velo ad una presa di coscienza collettiva che possa rendere ilpaese più unito, più solidale, più impegnato nella costruzione delproprio futuro.

L’Ottava legislatura repubblicana ha di fronte a sé una via aperta.Sta alle forze politiche decidere se percorrerla con coraggio ricer-cando in modo flessibile, senza pretese di mera continuità egemoni-ca, nelle forme possibili, il terreno su cui dare vita ad una sostanzia-le «alleanza riformatrice».

Se all’idea della Riforma e di un procedere spedito alla definizio-ne prima ed alla attuazione poi di tutti gli aspetti che debbono esse-re coinvolti in un processo di reale e profondo rinnovamento, se allanecessità di una «alleanza riformatrice» tra le forze politiche dispo-nibili che possa avvalersi del concorso decisivo delle forze culturalie sociali che rappresentano altrettanti capisaldi della nostra vitademocratica, si continuerà a contrapporre il gioco delle formule e lalotta dei particolarismi dietro cui si nasconde a mala pena la realtàdi un sistema in crisi, non è difficile prevedere quanto aspri si faran-no i conflitti sociali e politici. Tutto sarà allora imprevedibile trannel’aggravarsi della ingovernabilità del paese e di un più acuto e para-lizzante logorio delle istituzioni.

Battendosi contro questi pericoli, è ricercando con pazienza e conlungimiranza interlocutori ed alleati disponibili a concorrere in unequilibrato rapporto di competizione-collaborazione alla necessariaopera di risanamento e di riforma, che il movimento dei lavoratoriassolverà al suo compito storico di liberazione delle classi subalter-ne e di eguaglianza e di libero progresso per tutti. Il Partito sociali-sta continuerà ad approfondire questa riflessione nei modi dovuti edoffrirà concretamente alle forze politi che ed al paese un contributodi chiarificazione e la lealtà del suo impegno democratico.

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REAZIONI ALL’ARTICOLO DI BETTINO CRAXI

* Intervista ad Alessandro Natta, in «Paese Sera», 5 ottobre 1979.

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1. alessandro natta*

Allora, questo della riforma della Costituzione è un problema cheesiste davvero, è urgente come viene presentato, o è altra cosa?

Non è da oggi che si avvertono i segni di una crisi che investe leistituzioni, la loro funzionalità, i rapporti che le legano. È evidente,ad esempio, che il Parlamento, per le sue strutture, i suoi regola-menti, le sue procedure legislative e di controllo, appare non ade-guato ai compiti nuovi e complessi determinati dall’estendersi deisettori di intervento dello Stato e dalla sua articolazione. Non basta:ci sono anche altri ordini di problemi, e sono quelli dei ritardi nel-l’attuazione del disegno costituzionale nelle sue novità più rilevanti.Mi riferisco ad esempio al sistema delle autonomie, all’ordinamentoregionale, processi ancora non giunti a compimento. Inoltre vi sonoimpacci che derivano da quanto della Costituzione non è stato anco-ra attuato, come la legge sulla presidenza del Consiglio. In strettorapporto con questa questione è quella della pubblica amministra-zione. Così come una politica di programmazione comporta senzadubbio un rinnovamento nel campo istituzionale.

Ma il dibattito in corso sembra centrarsi sulla legge elettorale.

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la documentazione - 1. incunaboli

Ho già detto che il problema ha diverse facce, e va visto nella suacomplessità. È assurdo e illusorio far credere che con un qualchemarchingegno elettorale si possa risolvere tutto. Nella Costituzionenon viene affermato esplicitamente il principio della proporzionale,ma la legge elettorale proporzionale è una conquista, fa parte dellastoria e del carattere della democrazia italiana, che vive della plura-lità dei partiti. Non credo che con congegni elettorali si possano for-zare realtà e processi politici, e sono convinto che le ragioni dell’in-stabilità politica dell’ultimo decennio sono di ben diversa natura.

E la questione della Presidenza della Repubblica?

Voglio fare una considerazione di ordine generale. A mio giudi-zio occorre tener fermo un confine, un discrimine, tra riforme chesono coerenti con il complessivo disegno costituzionale e cambia-menti di fondo dell’ordinamento e dell’ordito della Costituzione. Lamia opinione è che in Italia non c’è bisogno né di rifondare la Re -pubblica, né di riscrivere la Costituzione. Il che non significa l’in-tangibilità di ogni organismo e di ogni norma. Mi spiego: discutere,e andare anche a provvedimenti innovatori per ciò che riguarda ilregolamento delle Camere, il numero dei parlamentari, o differen-ziare le funzioni dei due rami del Parlamento, o mettere anche indiscussione il bicameralismo non significa cambiare la concezionedello Stato democratico. Allo stesso modo si potrebbe decidere lanon rieleggibilità del Presidente della Repubblica, o abolire il seme-stre bianco, e anche questo non cambierebbe il carattere dello Stato.Ma configurare in modo diverso i poteri del Presidente avrebbealtro significato; il presidenzialismo segnerebbe un cambiamento diso stanza, sulla cui efficacia, tra l’altro, fanno dubitare le esperienzedi altre nazioni, in cui le soluzioni presidenzialistiche, di antica tra-dizione storica o di più recente sperimentazione, stanno vivendo unafase critica. Anche Craxi, mi pare, mette in guardia da ipotesi diquesto tipo.

Craxi però pone al centro delle sue proposte proprio la riforma isti-tuzionale.

Ripeto: sono d’accordo con chi afferma, e anche noi lo abbiamopiù volte riconosciuto, che è aperto un problema di adeguamento edi riforma per rendere più incisiva l’azione del Parlamento e del

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* Intervista ad Antonio Bisaglia, in «la Repubblica», 16 ottobre 1979.

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reazioni all’articolo di bettino craxi

governo, e per dare maggiore funzionalità e prestigio alle istituzionidemocratiche, all’organizzazione complessiva dello Stato. Ma credoopportuno, una volta riconosciuto che il problema esiste, ed ha que-sta ampiezza e complessità, stare tutti molto attenti a non cadere infacili illusioni o in semplicismi fuorvianti.

Le riforme istituzionali sono un aspetto, perfino una condizione,di un processo di trasformazione della società italiana. Ma non sonoun toccasana che di per sé risolve problemi che sono politici. Pergovernare oggi in Italia occorrono anche riforme istituzionali, ma ilproblema della governabilità non si riduce a questo momento, e peraffrontare, d’altra parte, questo compito in modo serio e positivo, èevidente che occorre una forte e larga intesa politica. Basta pensareal perché tanta parte della Costituzione è rimasta inattuata o è stataattuata con tanto ritardo.

E qual è questo perché?

È sostanzialmente politico. Molte volte abbiamo detto che dis-torsioni e inefficienze del sistema democratico, difficoltà e ritardi nelrinnovamento istituzionale sono derivati in larga misura dagli osta-coli che si sono voluti frapporre al processo di piena partecipazionedei lavoratori alla direzione del Paese.

2. antonio bisaglia*

Lei non parla di modifiche della Costituzione, mentre all’inizio diquest’anno proponeva un sistema di apparentamenti.

La questione del governo-ombra non è disgiunta dalla ricerca diun sistema che assicuri la stabilità di governo per la legislatura, anzisi spiega su questa base. Il problema italiano è di raggiungere unaeffettiva governabilità rispettando la realtà storico-politica, che pre-senta una molteplicità di partiti. La mia proposta è che tra i partitiche sono d’accordo su un programma di governo si faccia un appa-rentamento dicendo agli elettori: questo è il programma, questo è loschieramento, dateci la maggioranza.

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* Intervista a Bettino Craxi, in «Panorama», 29 ottobre 1979.

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la documentazione - 1. incunaboli

Lei pensa ad un semplice accordo politico o ad una modifica deisistemi elettorali?

La soluzione non può essere trovata solo con l’ingegneria costitu-zionale né solo con le alleanze politiche, ma combinando le due cose.Facciamo l’ipotesi: il pci e i suoi alleati hanno il 42%, la dc e i suoialleati il 40%. Per non ricorrere all’alleanza dei missini, bisogna tro-vare un sistema per garantire la nascita e la stabilità di un governo.

Un premio di maggioranza allo schieramento più forte?

Assolutamente no. Semmai prevederei un premio per i partiti mi -nori all’interno. Ma il punto è l’altro: se nessuno ha la maggioranzaassoluta. Escluso il premio, si potrebbe ricorrere al sistema francesedel doppio turno elettorale, quando vanno in ballottaggio solo i duepartiti (o i due schieramenti) più forti, oppure al sistema uninomi-nale inglese, ma in tal caso sparirebbero i partiti minori. È chiaroquindi che la scelta della soluzione, con tutte le sue specificazioniandrebbe fatta con l’accordo di tutte le forze politiche, senza nessu-na forzatura. Comunque, tutto questo non è dogma per me. È unmodo nuovo per provocare il dibattito.

Quest’idea dell’apparentamento è una delle garanzie chieste da Craxi?

Questa sarebbe una garanzia oggettiva, per tutti, mentre mi pareche Craxi parlasse di garanzie per il suo partito.

Craxi ha parlato di riforma del sistema politico, creando grandeallarme tra i comunisti. Le sue idee vanno verso questa riforma?

No. Io penso ad un perfezionamento del sistema politico.

3. replica di bettino craxi*

Cosa intende per seconda ricostruzione?

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reazioni all’articolo di bettino craxi

L’obiettivo è di modernizzare lo Stato e di delineare con chiarez-za un nuovo modello di società che abbia il suo punto di riferimen-to in una democrazia di valori. Ma per questo non ci si può limitarea esaminare singoli problemi. È necessario un approccio globale perstudiare assetti capaci di rendere più forte lo Stato creato dalla Co -stituzione.

Non cambiare la Costituzione, quindi?

Noi ci riteniamo vincolati fortemente ai valori costituzionali. Lacosa più importante è attuarla, la Costituzione. In via preliminarebisogna compiere una ricognizione per stabilire quali istituti sonosuperati, quali da adeguare, quali (e sono i più) restano validi. I valo-ri della Costituzione non sono in discussione.

In questi 30 anni sono avvenuti fatti nuovi.

Sì, per esempio le Regioni. Sono emerse discrasie tra Regione eRegione e tra queste e il centro. Il vertice dello Stato ha dimostratouna grande debolezza nei confronti del nuovo istituto. C’è l’esigen-za di chiarire questi rapporti.

In che modo?

In altri Paesi si è creato un Ministero per le Regioni, così da ricon-durre a unità nel contesto nazionale il disegno di decentramento sta-tuale. L’autonomia va valorizzata, ma non si può esprimere comecontrapposizione con il potere centrale o addirittura con altre realtàregionali.

Che cosa pensa della riduzione del mandato del Presidente dellaRepubblica da 7 a 5 anni?

Non sono favorevole. Ritengo che la durata di 7 anni assicuri unutile equilibrio tra i poteri costituzionali. Sono favorevole, invece,all’eliminazione del semestre bianco.

Il bicameralismo?

Non vedo l’opportunità di sopprimere una delle due Camere. Si

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la documentazione - 1. incunaboli

può decidere, invece, che tutte le leggi meno importanti (e sonotante) vengano approvate da un solo ramo del Parlamento, senza lasanzione, cioè, anche dell’altro.

Il rafforzamento dell’esecutivo?

Ne abbiamo parlato anche nell’ultima riunione della direzionedemocristiana e siamo tutti d’accordo che bisogna assicurare unamaggiore unità di direzione al governo.

Alla vigilia delle ultime elezioni lei parlò di cambiare la legge elet-torale, suscitando polemiche.

Polemiche strumentali. Si disse che volevo riproporre la legge«truffa». Ma io non proposi l’abolizione della proporzionale, con-vinto come sono che la risposta a sistemi imperfetti non può venireda soluzioni inique come la legge maggioritaria dei tempi di Gio -vanni Giolitti contro cui si batterono i popolari di don Sturzo.Allora posi soltanto in risalto un problema, offrendolo alla medita-zione comune.

E ora?

Resto convinto che può essere opportuno rivedere certi meccani-smi nella prospettiva di assicurare per esempio la governabilità deiComuni.

Che ne direbbe di eliminare le preferenze elettorali?

Le preferenze introducono nella vicenda politica un elemento digrave turbamento. Talvolta il cittadino perde addirittura di vista iprogrammi dei partiti per fare attenzione a quelli dei singoli candi-dati. Non sarebbe inopportuno un ripensamento dell’attuale mecca-nismo.

Per rivitalizzare le istituzioni non sarebbe opportuno ridurre il pote-re dei partiti, che in certe occasioni sembrano sovrapporsi alle istitu-zioni?

I partiti talvolta hanno dilagato, talaltra hanno lasciato che certi

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reazioni all’articolo di bettino craxi

spazi venissero ricoperti da altri (basti pensare all’enorme peso ac -quistato dai sindacati). Errori ce ne sono stati e vanno corretti.Occorre ricondurre i partiti al loro ruolo, valorizzando sempre piùla centralità del Parlamento. Ma con sano realismo. Nessuno ha tro-vato alternative valide al sistema dei partiti.

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2. DIVAGAZIONI

A cavallo fra il 1980 e il 1981 furono i laici ad avanzare le loroproposte, che però escludevano qualsiasi riforma istituzionale e pro-ponevano invece di «tornare allo Statuto», magari con qualche incli-nazione moralistica che non dispiaceva a Berlinguer, che all’epocaaveva qualificato la sua strategia dell’alternativa con la proposta del«governo degli onesti». A Visentini replica Bobbio, che prende ledistanze dal minimalismo moralistico.

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bruno visentini

UN GOVERNO DI CAPACI*

* Intervista a Bruno Visentini, in «Corriere della Sera», 23 dicembre 1980.

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Lei insiste nella sua proposta che qualcuno ha chiamato la propostadel «governo dei tecnici».

Devo subito precisare, ripetendo quanto ho detto in modo moltoesplicito e con insistenza (ma purtroppo la maggior parte delle per-sone non legge i testi e scrive sulla base di generiche impressioni),che io non ho mai parlato né di governo degli onesti, né di governodei tecnici. Ho detto chiaramente che la formula del «governo deglionesti» è soltanto una formula di propaganda, nella quale si inseri-sce una evidente intenzione di camuffare specifici contenuti politici,dove invece occorre essere molto precisi. Ho sempre detto altret-tanto chiaramente, ripetendolo più volte che non esistono governi ditecnici. Il governo è un fatto squisitamente politico e i ministri han -no funzioni politiche. Esistono politici e ministri capaci e politici eministri incapaci. Cattivi politici e pessimi ministri sono coloro chesanno tutto sulle correnti, sui partiti, sugli schieramenti, sulle astu-zie elettorali, sulle tangenti, sulle nomine del sottogoverno e su tantealtre cose (e che fanno i ministri in funzione di incremento di parti-to), ma che non sanno nulla degli argomenti di governo, di ammini-strazione e di gestione dello Stato e dei settori ai quali sono prepostie che quindi non conoscono neppure gli oggetti e le possibilità delledecisioni che devono prendere e delle scelte che devono fare e di ciòche devono saper creare. Ne deriva che il Paese non è gestito, non è

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la documentazione - 2. divagazioni

governato, è immobile e sfasciato e i problemi di ordine ammini-strativo e gestionale trascurati, diventano problemi politici, spessogravi. Molti auspicano i tecnici al governo di fronte all’incapacità deipolitici, ma non si rendono conto che ciò che essi realmente voglio-no (e che occorre) sono dei politici capaci. È chiaro, infatti, che nonbasta il possesso di conoscenze tecniche per fare un uomo di gover-no. Occorrono capacità di governo e quindi esperienze e capacità discelte e di decisioni politiche, con conoscenze di causa: esperienze ecapacità politiche che possono essersi formate anche fuori dei parti-ti e fuori degli intrighi delle correnti. Il governo che io mi configuroè un governo di politici che siano capaci, siano essi appartenenti aipartiti o fuori dei partiti: un governo politicamente omogeneo,fermo negli impegni sulle libertà politiche e civili, sulla politica eco-nomica di sviluppo e di avanzamento sociale e sulle scelte interna-zionali, occidentali, europeistiche ed atlantiche. Il problema che hoposto è quello che si riesca a individuare concordemente, senza pre-clusioni, senza arroganza e senza che si vogliano difendere a tutti icosti i poteri abusivamente assunti, un diverso tipo di rapporti fra ilgoverno, i partiti e il Parlamento, togliendo l’invasione e la sopraffa-zione dei partiti e delle correnti sul governo e creando un rapportopiù diretto, più corretto e più sciolto con il Parlamento. Occorre chesiano proprio i partiti a comprendere che essi devono dare al Paese,al governo e al Parlamento una fase di respiro e un adeguato margi-ne di azione. Occorre che tutti cerchiamo di individuare assiemecome questo possa essere raggiunto.

Mi pare, quindi, che lei non condivida il punto di vista secondo ilquale per assicurare la governabilità del Paese occorrerebbe procederea riformare la Costituzione.

No. Anzi, ritengo molto pericoloso che per assicurare stabilitàgovernativa e alternanze di maggioranza si pensi a modificazionicostituzionali. Queste modificazioni andrebbero necessariamente insenso di «presidenzialismo». Ed io credo che soluzioni presidenzia-listiche, come ogni altra che ponga all’elettorato la scelta fra dueblocchi contrapposti (e in questo senso sarebbe anche il passaggio alsistema elettorale uninominale, soprattutto se senza ballottaggio),sarebbe per il nostro Paese, almeno ancora in questa fase, estrema-mente pericolosa, rischiando di aprire la via a stabilità irreversibili eautoritarie e ad alternative non di governo, ma di regime. Né valgo-

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bruno visentini - «un governo di capaci»

no i richiami ad altri Paesi, che hanno situazioni completamente di -verse dalla nostra. Non è responsabile parlare di riforme costituzio-nali ai fini della stabilità dell’esecutivo senza individuarle e senzavalutarne le conseguenze e i pericoli. Tra l’altro, l’esperienza ci indi-ca quali deviazioni ed accentuazioni negative lo svolgimento concre-to della vita politica italiana sia capace di arrecare alle norme costi-tuzionali. Penso che sia invece doveroso, proprio per salvare le isti-tuzioni, pensare a revisioni nei comportamenti e nei modi di opera-re delle forze politiche, nell’ambito e nel rispetto delle attuali istitu-zioni, e rendersi conto della necessità, nell’ambito di esse, di ricam-bio della classe politica governativa.

Si è detto che la sua proposta costituirebbe un ritorno ai primi annidella Repubblica. È esatto questo, o quali altri riferimenti può avere?

Indubbiamente per un certo periodo negli anni successivi allaproclamazione della Repubblica, il rapporto fra il governo e i parti-ti della maggioranza governativa fu assai diverso da quello che èoggi, più corretto e più vicino al mio modo di vedere. Tuttavia, nelcomplesso, i confronti sono molto difficili. Si deve infatti tenere con -to che allora il Partito comunista rappresentava una forza assai piùlimitata e alquanto diversa da quella che è attualmente. Il richiamoal passato non serve quindi molto a capire la situazione di oggi. Altririferimenti non sono facili. Tuttavia vorrei ricordare il tentativo digoverno fatto nel luglio del 1979 da Pandolfi. Pandolfi è un demo-cristiano che non appartiene a nessuna corrente e che non ha maifatto parte della macchina del partito e degli organi direttivi di esso.Egli aveva configurato un governo che escludeva tutti i grandi capidelle correnti democristiane e che comprendeva, parlamentari e nonparlamentari, appartenenti ai partiti ma (tranne alcuni pochi e nonin posizioni rilevanti) non in funzione di partito, né di esclusiva legit-timazione partitica e che comprendeva anche persone politicamentequalificate ma estranee ai partiti. Egli aveva esaminato i problemi delgoverno e le possibilità di collaborazione governativa direttamentecon coloro che del governo avrebbero dovuto fare parte. Era uncauto e limitato inizio di comportamenti diversi. Ma Pandolfi fubloccato all’ultimo momento. Egli fu bloccato dai socialisti, che nelloro consiglio nazionale, tenuto nel giorno in cui Pandolfi dovevapresentare al Presidente della Repubblica la composizione del suogoverno, dichiararono per bocca dei più autorevoli esponenti che

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tale governo andava impedito, perché sarebbe stato un governotroppo forte e che sarebbe durato: e ciò dopo tanto parlare che essiavevano fatto dell’esigenza di assicurare la governabilità del Paese.Infatti, un governo svincolato dalle correnti democristiane e collo-cato in più diretto rapporto con il Parlamento e con l’opinione pub-blica, sarebbe stato certamente più forte e forse più stabile. Almomento delle conclusioni esso fu impedito dai capi-correnti dellaDemocrazia cristiana, con l’alibi del richiamo alle dichiarazioni deisocialisti.

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norberto bobbio

IL GOVERNO DEGLI ONESTI? NON BASTA*

* «La Stampa», 4 gennaio 1980.

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Da quando è scoppiata la «questione morale» non si parla d’altro.E giustamente ne ha parlato il Presidente della Repubblica nel suomessaggio di fine d’anno. Ma non mi pare si siano fatti grandi sfor-zi per capire di che si tratta. A giudicare dall’occasione da cui è nata(lo scandalo del petrolio e l’affare Pecorelli) sembra si voglia inten-dere che gli uomini politici debbono essere persone oneste nel sensocomune della parola, persone cioè che non rubano, non mentono,non commettono nessuno di quei reati che sono puniti dal codicepenale in quanto giudicati azioni che le persone perbene non do -vrebbero compiere. Questa interpretazione è tanto diffusa che ilpartito comunista ha ritenuto di dover proporre come una svoltanella storia delle nostre istituzioni un governo degli onesti...

Che la questione morale debba essere interpretata anche in que-sto modo, è fuori discussione. Fuori discussione perché ovvio. Nonsi vede infatti perché chi fa politica debba essere sottratto agli obbli-ghi cui è sottoposto l’uomo comune. Non esiste una morale pubbli-ca distinta dalla morale privata. Semmai, l’uomo pubblico dovrebbeessere più scrupoloso nel rispetto degli obblighi morali e di quelligiuridici (ma questi sono generalmente obblighi morali sanzionatidallo Stato) per la semplice ragione che le sue infrazioni sono piùdannose alla collettività di quelle dell’uomo comune.

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Non ignoro che il problema dei rapporti fra politica e morale èmolto più intricato, che in politica vale il principio che il fine giusti-fica i mezzi, che gli Stati non si governano coi pater noster, e via di -scorrendo. Ma, girata e rigirata da tutte le parti, la famigerata dot-trina della ragione di Stato significa soltanto questo: che l’uomo diStato si viene a trovare talora in circostanze eccezionali (si badi«eccezionali») a dover prendere decisioni riguardanti il bene comu-ne (si badi «il bene comune») che non possono essere prese se nonviolando regole della morale corrente. Ciò che giustifica un mezzomoralmente discutibile è soltanto la grandezza del fine, è la sua ecce-zionalità. Il che poi non è neppure una condizione particolare del-l’uomo politico perché lo stato di necessità vale come giustificazioneanche per l’uomo comune. Che l’esistenza del problema sia nellagrandezza del fine lo ha detto molto bene Ceronetti in un articolo di«Tuttolibri» di due settimane fa. Che il fine giustifichi i mezzi nonvuol dire che i mezzi siano giustificati da qualsiasi fine. La stessacelebre frase di Machiavelli dice che «i mezzi saranno sempre giudi-cati onorevoli e da ciascuno laudati quando il principe riesce a “Vin-cere” e a “mantenere lo Stato”».

Quale sia la grandezza del fine per cui alcuni dei nostri uominipolitici commettono atti disonesti e offendono la morale comune,non è dato capire. C’è il sospetto che il dilagare della corruzione siadovuto prevalentemente al bisogno di denaro per sostenere unacampagna elettorale o per mantenere in vita una corrente di partito.Nonché grandi, alcuni di questi fini sono politicamente tutt’altroche corretti. Si tratta, sì di vincere, ma non una guerra, bensì le ele-zioni. Si tratta di conservare, sì, ma non lo Stato, bensì il propriopotere personale.

La massima che il fine giustifica i mezzi è di per se stessa discuti-bile. È non solo discutibile ma insostenibile quando il fine chedovrebbe giustificare i mezzi è esso stesso ingiustificabile.

Tutto questo, come ho detto, è ovvio, ma non esaurisce il proble-ma. Qualsiasi trattato di morale distingue la morale generale cheregola l’azione di tutti gli uomini, e al cui rispetto quindi sono tenu-ti, dalle morali speciali cui sono sottoposti gli individui in quantoappartengono a una determinata classe o gruppo o categoria o pro-fessione. Accanto alla morale comune ci sono le etiche del medico edel sacerdote, del giudice e del commerciante, dell’insegnante e delgiornalista. In ognuna di queste valgono obblighi specifici, e anchespecifiche esenzioni di obblighi. Un medico ha l’obbligo di accorre-

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norberto bobbio - «il governo degli onesti? non basta»

re alla chiamata di un malato grave anche fuori della sua ora d’uffi-cio ma è esentato dall’obbligo di dire allo stesso malato la verità sullagravità della malattia. Ogni professione ha il suo codice morale, checon parola dotta e pretenziosa si chiama «deontologia».

Tra le morali speciali vi è anche la morale dell’uomo politico.Tanto più poi quando anche la politica è diventata una professione.Per capire la specificità dei diversi codici morali occorre aver di mirala funzione sociale delle diverse categorie cui si riferiscono. Dallaconsiderazione che la funzione sociale del medico è quella di prov-vedere alla guarigione degli infermi nascono tutti quei problemidelicatissimi di etica medica che vanno dall’eutanasia al prolunga-mento artificiale di una vita condannata.

La funzione sociale dell’attività politica è quella di perseguire epossibilmente conseguire l’interesse pubblico. Di qua deriva l’eticaspecifica di chi si dedica all’attività politica, il suo codice morale. C’èuna distinzione che corre lungo tutta la storia del pensiero politico,la distinzione fra buon governo e malgoverno fondata sulla distin-zione fra il governante che persegue il bene comune e quello cheper segue il bene proprio. L’etica specifica dell’uomo pubblico èquella in cui la distinzione fra l’azione buona e l’azione cattiva correparallelamente alla distinzione fra l’azione volta al bene comune equella volta al bene individuale.

Ne deriva che l’uomo politico ha oltre ai doveri di tutti anche idoveri che gli spettano in quanto uomo politico. Questi ultimi sonostrettamente connessi alla funzione specifica della sua attività. Lafunzione specifica della sua vita politica è il buon governo come lafunzione specifica del medico è quella di ben curare, quella del giu-dice di ben giudicare, dell’insegnante di ben insegnare ecc. No,quando si pone la questione morale con riferimento all’azione delpolitico, non si tratta soltanto del governo degli onesti nel sensogenerico della parola. Si tratta del governo di uomini che antepon-gano l’interesse dello Stato al proprio, a quello del proprio partito,della propria corrente, del proprio clan, di uomini che rispettinonon solo le regole della morale comune ma anche quelle della pro-pria morale professionale.

Uno dei maggiori rimproveri che oggi l’uomo della strada, l’uo-mo della morale comune, muove alla nostra classe politica nel suoinsieme è di subordinare l’interesse pubblico che è il fine specificodella sua azione specifica all’interesse privato, di approfittare delpotere pubblico che deve essere esercitato solo in vista del bene

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comune per accrescere il proprio potere personale. Una volta sidiceva che cattivo governante è colui che mira a soddisfare il beneproprio anziché mirare al bene comune. Oggi si dice che il malgo-verno consiste nel considerare gli affari di Stato come affari privati.Le parole cambiano ma la sostanza è la stessa.

In questo senso e solo in questo senso, la questione morale èanche una questione politica. Una questione politica che nessunritocco della Costituzione potrà mai risolvere. Dai buoni costumipossono nascere buone leggi.

Ma non bastano le buone leggi a produrre buoni costumi.

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3. PRECISAZIONI

Col congresso di Palermo del 1981 e più approfonditamente conla conferenza di Rimini del 1982 il psi comincia a precisare le sueproposte. Federico Mancini, Enzo Cheli e Massimo Severo Gianni-ni riprendono le questioni poste da Amato cinque anni prima e pro-pongono soluzioni che non esigono mutamenti costituzionali, ma«convenzioni» fra le forze politiche. Anche queste proposte, peral-tro, rimasero inascoltate.

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TESI DEL PSI PER IL XLII CONGRESSO(PALERMO, 22-26 APRILE 1981)*

* «Avanti!», 12 marzo 1981.

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Una «grande riforma» è necessaria, possibile, urgente. Il nuovoprocesso riformatore deve abbracciare il campo istituzionale, quelloeconomico, l’area delle relazioni sociali. Si tratta di arrestare ildegrado delle istituzioni, lo spontaneismo dispersivo in economia, laconfusione pericolosa nel campo delle relazioni sociali. Si rendononecessarie quindi anche riforme istituzionali, sia che esse comporti-no revisioni della Costituzione interventi legislativi e di revisione re -golamentare, indirizzi di politica organizzativa e misure amministra-tive conseguenti. L’edificio della Costituzione non deve essere con-siderato intoccabile salvo che nei principi e nei valori che ne defini-scono il carattere profondamente democratico. Ma proprio per rag-giungere lo scopo di preservare l’edificio nelle sue strutture portan-ti e nel suo disegno complessivo si rende necessaria un’attenta operadi verifica e di restauro, vagliando decenni di esperienze e valutan-do le esperienze ed il funzionamento di istituti presenti nella orga-nizzazione costituzionale delle più importanti democrazie parlamen-tari dell’Occidente.

Riportare i poteri democratici al massimo grado di efficienza,attuare con continuità di interventi la riforma della Pubblica Ammi-nistrazione, aggiornare riformandoli, e rendendoli più aderenti allenecessità e alle competenze del governo locale gli ordinamenti loca-li, sono compiti non più rinviabili e su di essi bisogna tornare arichiamare con forza la responsabilità e l’impegno di tutte le forze

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la documentazione - 3. precisazioni

democratiche disponibili ed interessate ad attuare una vasta opera diriforma. Il dibattito sulle istituzioni e sulla loro riforma va quindiriaperto e condotto verso sbocchi operativi e politici concreti e con-clusivi.

la crisi del parlamento

C’è una crisi evidente del Parlamento, ci sono dei limiti egual-mente evidenti che condizionano il funzionamento dell’esecutivo, cisono riflessioni che meritano di essere approfondite che si riferisco-no al funzionamento dell’ordinamento giudiziario. Vi sono leggielettorali che vanno riviste per favorire un più corretto funziona-mento dell’intero sistema politico.

Nel Parlamento stesso, in primo luogo, non può non essere dif-fusa la convinzione che è ormai indispensabile affrontare una rifor-ma strutturale. Il lavoro legislativo procede con esasperante lentez-za, le Camere sono sovente una doppione dell’altra, norme e proce-dure sembrano in molti casi fatte apposta per ritardare, intralciare,accrescere le difficoltà, determinare uno spreco improduttivo dienergie e di tempo.

Una divisione delle competenze, del lavoro, dei poteri è divenutaindispensabile ed è anzi la condizione per mantenere l’attuale siste-ma bicamerale. Il bicameralismo, nel modo in cui esso è organizza-to, è diventato un lusso superfluo e abbassa di per sé la produttivitàparlamentare. Occorre una riforma strutturale nel sistema bicame-rale, che pur mantenendo in vita entrambe le espressioni parlamen-tari, attui una sostanziale e razionale diversificazione dei poteri, dellecompetenze, delle funzioni.

Per un altro verso il carico del lavoro parlamentare deve essereridotto attraverso un’attenta opera di delegificazione mentre è ne -cessario incidere sulle procedure esistenti, addottarne di nuove, alloscopo di porre il Parlamento in condizioni di produrre decisioni intempi reali. L’attività di discussione e di controllo, sensibilmenteaumentata in questi anni, è una prova positiva della vitalità parla-mentare, ma anch’essa è ancora largamente insufficiente.

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tesi del psi per il xlii congresso (palermo, 22-26 aprile 1981)

la stabilità del governo

La stabilità dell’azione governativa è, a sua volta, un fattore essen-ziale per il buon funzionamento della democrazia politica e del siste-ma in cui questa si organizza. L’Italia, nel novero delle grandi demo-crazie parlamentari dell’Occidente può vantare in questo campo,primati negativi ineguagliabili. La breve, talvolta brevissima duratadella vita dei governi determina una cascata di effetti negativi: sullavita delle amministrazioni pubbliche, sulla direzione politica degliapparati dello Stato, sulla vita produttiva e sociale in generale. Lainstabilità governativa è fonte di discredito, di perdita di autorevo-lezza oltre che di cronica inefficienza nella direzione della cosa pub-blica. La complessità crescente della società industriale odierna, ilmoltiplicarsi delle funzioni e dei bisogni, l’allargamento della sferadi intervento dello Stato, le stesse nuove esigenze della realtà inter-nazionale, richiedono in forma imperativa e non eludibile azioniprogrammate, continuità di indirizzi, gestione non provvisoria deglistrumenti pubblici e quindi richiedono un sistema di governo stabi-le, operante in un arco di tempo medio sufficiente a sviluppare lepolitiche decise con il consenso richiesto dai principi democratici sucui si regge il sistema politico. Se tutto questo dipende in primo luo -go da problemi che possono trovare la sola soluzione in sede politi-ca, tuttavia esistono anche meccanismi che la favoriscono invece dicontrastarla. Altri aspetti che influenzano negativamente la vita degliesecutivi meritano di essere affrontati sia che si tratti della disorga-nica e talvolta pletorica composizione del governo sia che si tratti delmancato riconoscimento almeno nei fatti, del ruolo del Presidentedel Consiglio sulla cui responsabilità deve gravare la politica com-plessiva del governo e la cui autorevolezza deve essere confortata daicorrispondenti poteri.

Con l’assetto attuale, per il Presidente del Consiglio è già diffici-le assumere pienamente la stessa responsabilità della scelta dei mini-stri che pure la Costituzione gli affida. È naturale ed è legittimo chesiano salvaguardati gli elementi di equilibrio e di dialettica politicanecessari tra le diverse componenti di una coalizione di governo, maquesta salvaguardia deve conciliarsi sempre meglio con le esigenzedella conduzione politico-amministrativa che deve ricondursi a cri-teri coerenti sotto la responsabilità del Presidente del Consiglio.

Fondamentale resta il problema della stabilità governativa troppoesposta alle manovre di un deteriore parlamentarismo, quando non

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addirittura a vere e proprie imboscate parlamentari. Mentre il ritor-no al voto palese, così come era auspicato dalla volontà dei costi-tuenti in particolare di parte socialista e di parte democristiana,costituirebbe una salutare misura di moralità politica, nuove garan-zie di stabilità debbono essere introdotte nel nostro sistema con loscopo preciso di prevenire, scoraggiare le azioni che hanno determi-nato, sin qui il prevalere della instabilità nella vita governativa.

Questo è il senso della sfiducia costruttiva prevista dalla Repub-blica Federale, questo era il senso della riserva di sfiducia al Parla-mento in seduta comune, che era stata sostenuta nei lavori della no -stra Assemblea Costituente.

le leggi elettorali

Anche in materia di leggi elettorali occorrono le visioni utili ai finidi una sempre migliore e sempre più qualificata rappresentanza par-lamentare.

C’è una esigenza diffusa, che deve essere soddisfatta, di crearespazi a rappresentanze non localistiche sia alla Camera, sia al Sena-to, svincolando con ciò i parlamentari da mandati sempre più rigidi.

Non va trascurata l’opportunità di offrire ai partiti minori la pos-sibilità per avviare un processo di aggregazione che è essenziale allastessa efficacia della loro azione politica in una democrazia articola-ta e complessa come l’attuale. È necessario dare alla due Camere unafisionomia più distinta che, senza cedere alle suggestioni della rap-presentanza organica, rifletta comunque esperienze più vaste diquella strettamente partitica.

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CONFERENZA PROGRAMMATICA DEL PSI«GOVERNARE IL CAMBIAMENTO» (RIMINI, 31 MARZO-4 APRILE 1982)*

* Governare il cambiamento, Atti della conferenza programmatica del psi, in Quaderni de«Il Compagno», Roma 1982.

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federico mancini«rinnovare le istituzioni. per una democrazia che governi»

Consentitemi di esordire con un’osservazione che alle orecchiedel politologo o dell’economista suonerebbe lapalissiana, ma che lanatura sempre un po’ asfittica del nostro dibattito po litico rischia dimettere tra parentesi se non addirittura di oscurare. Quello dellagovernabilità non è un problema solo italiano e tanto meno riguar-da lo stato di salute del governo in carica. È un problema che trava-glia tutti i sistemi capitalistici maturi e in tutti ha per causa remotala fine del mercato come meccanismo automatico di allocazionedelle risorse, di distribuzione dei benefici e, in ultima di controllosociale. Un tempo posto al riparo dalle domande dei grandi e deipiccoli interessi, il sistema politico ha finito per esserne direttamen-te investito; strumenti di cui dispone si rivelano spesso incapaci,anche perché in parte forgiati quando il mercato era sovrano, diarbitrare fra quelle domande o di selezionare secondo criteri insie-me razionali ed equi. Da qui, da questa irriducibile e corrosiva ten-denza dell’economia a politicizzarsi deriva – condenso all’estremoun’analisi ben altrimenti complessa – la crisi di legittimazione chelogora le democrazie occidentali. E qui ha le sue radici la mobilita-zione di soggetti sociali vecchi e nuovi che le classi politiche delle

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democrazie cercano di realizzare intorno alle loro decisioni. Ascol-tate Schmidt e Mitterrand, ma anche Reagan e la Thatcher: tra l’El-ba e il Pacifico, consenso, neutralizzazione dei poteri di veto, acces-so degli interessi organizzati alle scelte di politica economica e socia-le sono divenuti i concetti-chiave di qualunque discorso sullo «Statodella nazione». Questo, dunque, vuol dire governabilità: controllopolitico-istituzionale dei processi di cambiamento, ma controllolegittimato dalla partecipazione di tutti i gruppi o per lo meno deimaggiori tra i gruppi in cui si articola una società pluralistica. Comeho detto, la sua ricerca è universale: ossessiona – è la parola – l’inte-ro Occidente. È vero però che in Italia essa appare particolarmenteardua e cosparsa d’insidie né si può di re che il fenomeno sia senzaragioni precise, io ne vedo almeno tre. La prima è insita nel no stropaesaggio sociale che somiglia sempre più ad una giungla tanto fittae ottenebrante, ma anche diversi, autonomi, specializzati sono gliinteressi che vi proliferano. Mettetelo accanto ai sistemi che occu-pano l’asse Vienna-Stoccolma, le cosiddette società del «compro-messo socialdemocratico». Paragonate il nitore delle loro organizza-zioni professionali – semiobbligatorie, gerarchiche, altamente rap-presentative – col nostro magma di associazioni e di movimentivolontari, spesso effimeri, mutevoli quanto a strutture ed iniziative,conflittuali all’estero e all’interno.

Non sfuggirete alla conclusione che in questo paese della sogget-tività e del frammento formulare una seria politica de gli interessi,scegliere le domande da privilegiare e quelle da penalizzare è male-dettamente più difficile.

Sta di fatto, tuttavia – ecco la seconda delle ragioni a cui allude-vo – che tale difficoltà è accresciuta dalle pessime abitudini a cuigoverni del passato lontano e prossimo hanno indotto i nostri i grup-pi d’interessi. Altrove lo Stato interviene nell’economia per sostene-re l’accumulazione complessiva e i suoi problemi sorgono dai sacri-fici che essa, l’accumulazione può imporre a gruppi il cui consensoè indispensabile alla pace sociale.

In Italia questo intervento non ha avuto luogo. Lo Stato non si èmai veramente sforzato di dirigere o di organizzare l’economia. Hapermesso invece che gli interessi privati si appropriassero del suoapparato per ottenere risorse o decisioni favorevoli, sostenendoquelli di volta in volta più forti e tacitando gli altri, gli interessi emer -genti o comunque spendibili nel mercato politico, con mediocri mi -sure compensative. Appunto appropriativo e spartitorio ha definito

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conferenza programmatica del psi «governare il cambiamento»

questo modello Giuliano Amato in un famoso saggio di alcuni annifa; e i guasti che ne sono venuti – disorganicità della politica econo-mica, assistenzialismo selvaggio ecc. – si collocano su un livello piùbasso, incomparabilmente più basso delle contraddizioni che agita-no le altre grandi società post-liberali.

Ma la ragione più importante del maggior carico di problemi checi affligge è la terza, anche perché da essa dipendono almeno par-zialmente le prime due. Se in Italia si decide poco, male e lentissi-mamente; se manca una strategia entro cui provvedere alle necessa-rie mediazioni tra gli interessi; se i pubblici poteri non riescono nep-pure a definire e a proteggere con sobria autorevolezza l’area delledecisioni non negoziabili (tanto che – ricordiamo il ’64 e il ’69 – ogniqualvolta la pressione dei gruppi subalterni giunge vicina ai confinidi quell’area, si assiste all’attivazione di pesanti meccanismi repres-sivi e a tentativi di sovvertire l’ordinamento democratico) se tuttoquesto accade – dicevo – lo dobbiamo per un largo tratto alle debo-li istituzioni in cui prende corpo la nostra for ma di governo e spe-cialmente il circuito che connette i poteri legislativo ed esecutivo.

Quanto fragile e foriero d’instabilità sia tale circuito è ben noto.Gli indicatori del suo cattivo funzionamento che ricorrono con mag-giore frequenza nei discorsi degli uomini politici e de gli studiosisono l’elevatissimo numero dei governi succedutisi dalla prima legi -slatura ad oggi (36) e lo scioglimento anticipato delle tre ultimelegislature. In realtà, un’analisi più approfondita permette di identi-ficarne al tri e forse ancora più eloquenti – qui ne segnalerò due – cheprovano come il fenomeno tenda ad aggravarsi. Il primo consiste nelprogressivo accorciamento della durata media dei governi che èormai prossima ai record della iii Repubblica francese e degli Statibaltici dopo la prima guerra mondiale. Dai 10 mesi e 10 giorni sututto l’arco degli anni 1948-1981, essa scende infatti a 6 mesi e 11giorni nell’ambito della quinta legisla tura, in 8 mesi e 13 giorni nelquadro della sesta, e in 9 mesi e 6 giorni in quello della settima e, dinuovo a 6 mesi e 15 giorni nella parte dell’ottava che precede la for-mazione del governo Spadolini.

L’altro indicatore è la crescita dei cosiddetti «tempi morti», cioèdei periodi in cui il paese è stato retto da governi dimissionari. Sitratta di cifre impressionanti: 43 giorni per le crisi della prima legis-latura; 79 per le 6 cri si della seconda; 100 per le 5 crisi della terza;124 per le 4 crisi della quarta; 188 per le 6 crisi della quinta (chedurò 4 anni); 244 per le 5 crisi della sesta (ancora 4 anni); 192 per le

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la documentazione - 3. precisazioni

3 crisi della settima (solo 3 anni). Il primato spetta ai 126 giorni tra-scorsi fra le dimissioni del go verno Andreotti e il giuramento delprimo governo Cossiga nella primavera e nell’estate del ’79. Qualiconclusioni devono trarsi da questi dati mi sembra abbastanzaovvio: un tempo atipici, i governi dimissionari sono divenuti norma-li, quasi come i governi sorretti dalla fiducia delle Camere. Tuttavia,essendo liberi dai vincoli a cui soggiacciono questi ultimi, che perconservare la fiducia sono costretti all’immobilismo, dimostrando incomplesso una maggiore capacità operativa. In somma: nel resto delmondo «tempo morto» è sinonimo di vuoto di potere; in Italia equi-vale a sovrappiù di potere.

La crescita dei tempi morti

A che cosa è dovuta una così straordinaria debolezza? Io cre doche non si violi alcuna regola di decoro politico se la si imputa alleangosce dei costituenti. I costituenti, non dimentichiamolo, avevanoalle spalle la vicenda del fascismo. Militavano per di più in partitiche, dopo la resistenza, si erano scoperti non avversari, ma nemici: enemici voleva dire non aderenti a una comune costellazione di valo-ri, non disposti a riconoscersi mutuamente legittimi oltre i limiti det-tati dalla presenza degli anglo-americani e dalla forza di ognuno.Finita l’occupazione alleata e apparendo notevole quella forza perl’instabilità degli elettori, il rischio di vedere la convivenza democra-tica interrotta dalla coalizione che avesse preso il sopravvento sareb-be divenuto – così essi ragionarono – altissimo. Era dunque neces-sario esorcizzarlo; e la sola garanzia capace di tanto, idonea ad atte-nuare il profondo reciproco sospetto che animava i loro partiti stavanel porre al centro del sistema il potere di fare e di disfare i governi.Esso – il potere di crisi, come lo si è definito – avrebbe infatti offer-to a tutti (anche alle minoranze che si sarebbero trovate di frontecoalizioni troppo composite per non essere divise da contrasti «ma -novrabili») la possibilità di far pendere sulla testa del governo unaperenne spada di Damocle; quindi di costringere il governo a teme-re in ogni istante per la propria vita; quindi di obbligarlo a disper-dere le proprie energie nello sforzo frustrante di durare; quindi diimpedirgli l’accumulo della forza necessaria a mettere fuori gioco glioppositori.

Dichiariamolo dunque, per quanto alto sia il costo politico, con lafranchezza che merita un dibattito di questo livello; il disegno dei

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conferenza programmatica del psi «governare il cambiamento»

costituenti e la filosofia della grande riforma sono in contrasto, se èvero, come a me sembra, che la grande riforma mira ad espellere ilpotere di cri si e a ricostruire con materiali meno friabili il piloneposto sul la sponda governativa del fiume. Ebbene, per quali stradeintendiamo attuare questo scopo? Intanto una precisazione. Già lametafora di cui mi sono servito sconta la volontà di restare fedeli allaforma di gover ni parlamentari, dal momento che i sistemi presiden-ziali, in cui l’esecutivo gode di legittimazione propria, non conosco-no ponti e piloni. Noi abbiamo scartato tale via, che pure conta nelpartito paladini autorevoli come i compagni Coen, Ruffolo, Cicchit-to e altri, per una serie di motivi. Il più stringente è una valutazionenon pessimistica, ma nemmeno trionfale dei progressi compiuti inquesti trent’anni dal nostro sistema partitico e dalla società che loesprime.

Una convenzione costituzionale

E allora? Allora al problema di tonificare le istituzioni noi pro-poniamo di rispondere con interventi di microingegneria studiati inmodo da investire entrambi i circuiti fondamentali del sistema: quel-lo che lega il Parlamento al governo e quello che congiunge il gover-no al Presidente della Repubblica. Ve li illustreranno nei dettagli,che so no alquanto complessi, i com pagni Cheli e Spreafico. Io milimiterò a dire che questa strategia non muscolare ma robusta, ha unfine preciso: rendere possibile la formazione di governi di legislatu-ra per l’attuazione di programmi di legislatura. Il perno intorno a cuiessa ruota è una convenzione costituzionale o, con formula menotecnica, un patto esplicito tra le forze politiche che: a) le vincoli aconcludere gli accordi di coalizione e a designare i leader del lealleanze in sede preelettorale, così da porre i cittadini dinanzi a chia-re alternative di go verno; b) obblighi il Presidente della Repubblicaa nominare Presidente del Consiglio (ma a questo punto sarà megliochiamarlo primo ministro) il leader dell’alleanza maggioritaria e asciogliere le Camere ove sorgano difficoltà insormontabili nell’ese-cuzione del programma.

Per fornire la convenzione di fondamenta e di prospettive piùsicure, la nostra proposta punta poi su una serie di ritocchi alle leggielettorali: favorendo lo sviluppo di un multipartitismo me no fram-mentato, essi mirano infatti a ridurre il potere di veto, e perciò dicrisi, che frazioni minuscole delle classi politiche hanno usato finora

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senza risparmio. E, sempre a quel fine, oggetto di riforma dovrannoessere anche i cardini dei due cir cuiti su cui la convenzione andrà adincidere. Si tratterà soprattutto di accorciare il mandato presiden-ziale fino a farlo coincidere con quello delle Ca mere; di razionaliz-zare la struttura del governo con vari espedienti, primo fra i qualil’investitura separata del primo mini stro; di abbandonare l’attualebicameralismo paritario non per la singola Camera suggerita dal pci,che si presta a processi di tipo assemblearistico ma per una fortediversificazione tra le due Camere sul terreno dell’investitura e dellecompetenze.

Dall’assunzione di queste medicine, e soprattutto di quel drasticofarmaco dissuasivo che è lo scioglimento delle Ca mere in caso dicrisi, Roma dovrebbe uscire stabile quanto Bonn o quanto Londra.Non più dimissioni a ogni stormir di foglia, non più governi dimis-sionari che occupano il venti per cento di una legislatura. Stabile,tuttavia, non vuol dire ancora capace di decidere o di eseguire ledecisioni; e per divenire tali agli interessi organizzati senza ricaderenel modello spartitorio, il sistema ha bisogno di altre riforme. Aesserne investiti per primi saranno ancora il Parlamento e il gover-no, ma adesso sotto il profilo funzionale. Le idee che ci guidanosono semplici. Al Parlamen to la grande normazione in for ma di leggiquadro (e, per inciso, con voto palese ogni qualvolta il governo lochieda); al go verno buona parte delle materie che oggi fanno ogget-to di leggine, deleghe di legislatura per in terventi di ampio spessoretec-nico e strumenti «extra ordinem» – penso al decreto legge – daim piegare con maggiore autodisciplina, ma anche restituiti alla lorovera natura: che significa tornati ad essere espressivi di un poteregrande e non intaccabile dalle minoranze con facili manovre ostru-zionistiche.

Toccherà poi ai cosiddetti «rami bassi» del sistema, che è l’argo-mento del professor Giannini. Amministrazione ed enti territorialipongono, com’è evidente, problemi diversi. In co mune, tuttavia, essihanno un fondo: recuperare responsabilità, affrancarsi dalle interfe-renze gestionali di organi – le dirigenze politiche, l’apparato centra-le – il cui compito consiste nel programmare nell’indirizzare e nelsindacare i risultati. All’inizio dello scorso decennio scoprimmo laRepubblica delle autono mie, la caricammo di speranze e, quando lasua prima incarnazione fallì, fummo tentati di voltarle le spalle. Maquesta – scrive Giuliano Amato – è una tentazione da spasimantidelusi e bisogna resisterle.

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Infine, la magistratura. Con la consueta perizia, il compagnoGallo cercherà di tracciare i confini che, nel programma dei sociali-sti, la separano dagli altri poteri. Io non lo invidio perché il territo-rio su cui quei confini do vranno passare non è mai stato tanto acci-dentato. Non alludo ovviamente alle polemiche de gli ultimi mesi. Miriferisco a fenomeni di ben altro rilievo. Ho parlato di una societàitaliana che ricorda la giungla e io ho detto che, per disciplinarne iconflitti, ci occorre una grande legislazione, composta di interventi-quadro o a larghe maglie. Ebbene, ai magistrati un simile approcciopromette spazi creatori di diritto, inevitabilmente qualificati da uncerto grado di generalità e di astrattezza. Né questi spazi (che, delresto, esistono già e sono larghi) essi possono rifiutarsi di occupareparlando di indebite «supplenze». Occuparli devono. E ciò postulache imparino a leggere il «sociale» con occhi più aperti e spregiudi-cati di quanto facciano oggi.

Ma il problema dei magistrati non è solo dei magistrati non è solodi aggiornamento culturale. Se il monopolio legislativo del Parla-mento è finito, non è finita la sua egemonia nell’allocazione dei valo-ri su cui si fondano i rapporti tra i singoli e tra i gruppi. Ora, a que-sti valori il terzo potere, proprio perché più libero di un tempo,dovrà inchinarsi come e più che un tempo. È dunque a nuove formedi auto-responsabilità che invitiamo i suoi uomini; in particolare, imolti di loro che hanno imboccato la via lunga, ma difficile delgarantismo dinamico. Dove poi – è il caso del pubblico ministero –la discrezionalità del la funzione giudiziaria si rafforza e il profilo giu-risdizionale impallidisce, non possiamo escludere la proposizione dicongegni che trascendano quelle for me di auto-responsabilità. So ditoccare un punto dolente; ma il problema esiste e i fatti s’incaricanodi renderlo irriducibile. Né ci si accusi di attentare, dicendo questecose, all’integrità del lo Stato di diritto. L’argomento è diffuso, mafragile. Chi lo avanza sa benissimo che l’irresponsabilità assoluta delpm non è una caratteristica necessaria dei regimi liberaldemocratici.È vero semmai il contrario. In quasi tutti i regimi liberaldemocrati-ci, che è quanto dire negli Stati di diritto, il pm è responsabile. Que-sto può non essere un buon motivo per modificare la sua condizio-ne in Italia, ma certo fa sì che sia tale condizione a dover essere giu-stificata. L’onere della prova non spetta a noi. Spetta a chi difende lostatus quo.

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I grandi gruppi d’interesse

Passo all’ultimo tema che sarà sviluppato nella relazione del com-pagno Giugni. La governabilità, ho detto, pretende anzitutto conge-gni stabilizzatori, poi dispositivi che permettano di decidere e infinemeccanismi che aprano i processi decisionali ai contributi dei gran-di gruppi d’interesse. Delle tre esigenze non c’è dubbio che sia l’ul-tima ad avere il maggior pe so, se non altro perché legittima le primedue. Vale per essa l’osservazione che ho fatto circa le autonomie.Una classe politica che la ignori mentre si munisce di attrezzi piùacuminati rischia di lasciare il terreno del la democrazia per puntaresu forme coercitive e manipolative di controllo sociale. Non puòessere questa, com’è ovvio, la prospettiva che un partito socialistaindica al paese. Ricerca di consenso nel quadro di una programma-zione concertata, insomma; e quindi anche ricerca dei suoi presup-posti, che sono un minimo di regola nell’organizzazione degli inte-ressi e un minimo di cooperazione tra gli interessi organizzati.

L’allegoria della giungla, si badi, non implica un giudizio negati-vo: evoca al contrario le immagini della ricchezza o della fecondità;e io sono l’ultimo ad auspicare un governo del nostro pluralismosociale che isterilisca – avrebbe detto lord Keynes – i suoi «spiritianimali». Però certi conflitti tra lavoratori delle medesime categorieo imprese, come spesso si danno nei servizi e cominciano a darsi nel-l’industria, non presentano nulla di fecondo; segnalano anzi unosmagliamento del codice operaio, le cui norme primarie erano il pro-gresso collettivo e la lealtà di gruppo. Bisogna dunque escogitare (inAmerica lo fece il «New Deal») procedure che riducano ad unità lerappresentanze sindacali. Bisogna chiarire le posizioni dei quadri.Gli stessi sindacati dovranno irrobustire la loro rappresentativitàdandosi assetti che inducano i lavoratori a vociare di meno e a vota-re di più. Ecco alcune delle misure che si impongono se non si vuoleche il mondo del lavoro una volta corresponsabilizzato nelle struttu-re preposte alla programmazione, si esprima con un coro di 400 vocinon tanto dissonanti (che sarebbe conforme a democrazia), quantoimpegnate ognuna a sopraffare le altre.

Alle strutture della programmazione concreta intendiamo affida-re il governo dell’economia. Da socialisti europei, riteniamo che eco-nomia di mercato e libertà di impresa siano non in astratto, ma certonelle condizioni date, garanzie di pluralismo anche politico ed indi-spensabili motori dello sviluppo. Devono perciò, questi strumenti,

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poter agire nell’ambito di regole scarne e chiare: nessun inutile in -tralcio per i capi delle aziende, nessun vincolo a cui non corrispon-da un puntuale beneficio in termini di utilità pubblica e di libertà deilavoratori. A «deregolare» e a far chiarezza potrebbe allora servireuna radicale pulitura della legislazione del lavoro in cui coabitano,con le immaginabili conseguenze, blocchi di norme profondamenteeterogenei: avanzatissimi, gli uni (così lo statuto dei lavoratori),invecchiati, gli altri (penso a molti articoli del codice civile o a legginei cui «iter» ebbe ruolo da protagonista niente meno che il depu-tato del Regno Filippo Turati).

Aprirebbe invece nuove frontiere una disciplina che sancisce lapresenza dei lavoratori negli organi delle società titolari di imprese.Sulle forme che è opportuno darle vi intratterrà Gino Giugni. A mepreme mettere in risalto la sua coerenza con i principi che ho ricor-dato e insieme – come dire? – la sua «italianità». La democraziaindustriale che c’interessa non è figlia di aziendalismi estranei allanostra tradizione. S’innesta in una scuola di pensiero che ha perpadre Rodolfo Morandi e si articola in maniera da orientare i lavo-ratori che siederanno negli organi societari verso una visione ten-denzialmente globale dei problemi. Partecipazione al governo del-l’impresa, in definitiva, come momento terminale della partecipazio-ne al governo dell’economia.

Sotto altri aspetti, certo, siamo cambiati. Cambiati come è cam-biata la società di cui facciamo parte. Il programma sembra, ci rive-la più laici, più sobri, più attenti all’efficacia più diffidenti delle ideeche non è possibile tradurre in tecniche. Sono alcune delle qualitàche gli storici riconoscono ai vecchi riformisti. Averle recuperatenon è stato un cattivo affare.

enzo cheli«parlamento e governo, le riforme possibili ed utili»

È noto che la nostra Costituzione ha scelto una forma di governoparlamentare di tipo rettificato e razionalizzato. Rispetto alla confi-gurazione più matura del parlamentarismo classico le rettificheintrodotte dai nostri costituenti tendevano essenzialmente ad evita-re un potere illimitato delle Camere. Queste rettifiche si esprimeva-no sia nel principio di rigidità della Costituzione (sottratta alle oscil-lazioni delle maggioranze parlamentari) sia nella previsione di un

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sistema di controlli e contrappesi al potere parlamentare espressiattraverso le competenze sostanziali riferite al capo dello Stato e ilcontrollo sulla legislazione riconosciuto alla Corte Costituzionale.

La forma di governo adottata dai nostri costituenti era anche unaforma razionalizzata, perché il potere di controllo politico del Parla-mento sul governo espresso attraverso la fiducia e la sfiducia nonveniva lasciato al caso, ma sottoposto, nell’art. 94, ad una disciplinamolto minuziosa e puntuale. Queste ret tifiche e razionalizzazioni delmodello – comprimendo i poteri – avrebbero dovuto in teoria raf-forzare il governo e la sua stabilità. Ma questo non è accaduto, perragioni che sono andate oltre il modello di «forma di governo» perinvestire l’impianto costituzionale nel suo complesso. Di cosa siètrattato? In ogni costituzione moderna sono sempre presenti, condiversi dosaggi, due finalità fondamentali; il fine della garanzia (odella rappresentanza) ed il fine dell’efficienza (o dell’omogeneità eforza dell’indirizzo politi co centrale). Queste due finalità sono sem-pre presenti e sempre destinate ad operare in funzione dialettica;privilegiare l’una significa in ogni caso attenuare e comprimere l’al-tra.

La scelta dei costituenti

Come Mancini ha ricordato, la Costituente italiana fece, su que-sto piano, una scelta di fondo precisa in direzione della fi nalità ga -rantista. Le preoccupazioni che nascevano dal ricordo ancora frescodella dittatura e dalla situazione di profonda frattura sociale in cuiversava il paese negli anni della Costi tuente furono tali da consiglia-re la collocazione al primo posto della esigenza garantista, e questoanche a rischio di creare una macchina di governo molto frenata emolto condizionata. Questo rischio fu calcolato perfettamente ed hafinito per produrre storicamente i suoi effetti sia positivi che negati-vi. Positivi, rispetto a quella che fu la logica originaria del disegnoco stituzionale, perché la sopravvivenza della democrazia in Italia –in mezzo alle vicende e ai passaggi tormentati che tutti conosciamo– è anche in parte dovuta a questo sistema di freni e contrappesi.Negativi, perché la garanzia spinta all’estrema conseguenza – cioèfino al ri schio calcolato del «governo debole» – ha, ad un certopunto del processo di sviluppo istituzionale del nostro paese, inne-stato una serie di sindromi patologiche quali quelle espresse neifenomeni di frammentazione del sistema di dispersione delle energie

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politiche, di vittoria dei poteri negativi di veto sui poteri di indiriz-zo. L’adozione di un metodo elettorale proporzionale piuttosto rigi-do sia per la Camera che per il Senato completava e saldava questalinea dispersiva.

Durante l’arco della nostra esperienza repubblicana que sto mo -dello di governo si è sviluppato secondo linee molto di verse e oscil-lanti: manifestando la sua validità quando era giusto premiare il finedi garanzia (si pensi alle vicende del 1953 sulla legge truffa), maesprimendo anche tutti i suoi limiti ogni volta che le attese del corposociale verso la domanda di governo tendevano a divenire più vive epressanti. D’altro can to, le difficoltà di funzionamento del nostromodello di gover no parlamentare si sono aggra vate anche in relazio-ne a motivi legati, più che al disegno costi tuzionale, alla stessa strut-tura del sistema politico. Sappiamo che il governo parlamentaremanifesta storicamente la sua maggiore vitalità là dove le forze poli-tiche si presentano in schieramenti semplificati e tra loro intercam-biabili nella guida del paese. Nella realtà dell’Italia repubblicana èmancata sia l’una che l’altra di tali condizioni: il multipartitismoestremo da un lato, la «democrazia bloccata» dall’altro – tanto perusare il linguaggio dei politologi – hanno finito molto spesso perstravolgere ed alterare le tecniche normali di funzionamento delgoverno parlamentare. Da qui le numerose disfunzioni che si sonomanifestare in passato e che ancor più oggi tendono a manifestarsisia a livello di governo sia nei rapporti tra Parlamento e governo.

L’esame di tali disfunzioni porta a sottolineare alcuni punti. Alivello delle funzioni parlamentari vengono solitamente denunciate:

a) la particolare lentezza dei tempi di produzione normativa;b) l’abbassamento della qua ntità e del tono della legislazione, con

una forte accentuazione della legislazione minore e settoriale;c) la quasi totale assenza di una programmazione seria del lavoro

parlamentare;d) l’insufficienza e la disorganizzazione delle attività di controllo,

o perché prive di adeguati supporti conoscitivi o perché non dotatedi effetti pratici rilevanti;

e) l’instabilità dell’esecutivo determinata dall’uso del voto segre-to e dalla pratica dei franchi tiratori;

f) l’ostruzionismo;g) l’assenteismo. Vero è che molti di tali mali ricorrono spes so

anche nella vita di altri Parlamenti occidentali – tutti più o menoimpegnati nella difficile opera di adeguamento delle lo ro strutture

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alle nuove dimen sioni della democrazia indu striale – ma, è anchevero che, in Italia, essi sono venuti ad assumere accentuazioni parti-colari.

Il risultato finale di tali processi distorsivi può essere così sinte-tizzato: il Parlamento italiano – pure attraverso passag gi che nehanno caratterizzato diversamente la sua presenza e incidenza nelsistema – ha fini to, negli ultimi anni, per collocarsi in una posizioneambigua, né marginale né centrale, né ratificatoria né decisionale. Ilri sultato è stato cioè quello di mettere a regime un organo sovraffol-lato di decisioni, ma scoordinato nell’azione; organo troppo forte edattrezzato di po teri effettivi per non rappresentare, in molte circo-stanze, un serio ostacolo all’azione ed alla continuità dei Governi;ma an che troppo debole e isolato dal contesto del paese e dagli altriapparati pubblici per esercitare una vera funzione di indirizzo o dicontrollo.

Se questa è la situazione del Parlamento, analoghi rilievi possonovalere per la sfera governativa, dove le disfunzioni che si sono mani-festate in questi anni presentano profili ancora più netti. La Costitu-zione su questo piano, si era sforzata di equilibrare la guida mono-cratica del Presidente del Consiglio con la guida collegiale del Con-siglio dei ministri. Si trattava di un difficile equilibrio che avrebbepotuto rompersi in ogni momento: ma l’equilibrio non si è rotto perla semplice ragione che non è stato neppure avviato, dal momentoche, nella realtà del nostro sistema, né l’ipotesi monocratica, né l’i-potesi collegiale si sono mai, nei fatti, storicamente realizzate.

Come conseguenza della frammentazione del sistema politicodell’impianto correntizio dei partiti si è, invece, sviluppato un meto-do di governo «a direzione plurima dissociata» o per feudi ministe-riali, senza vera direzione né vero coordinamento. La politica gene-rate del governo si è così delineata, nella maggioranza dei casi, noncome prodotto di scelte omogenee ma come risultante di tante poli-tiche settoriali messe a punto dai diversi comparti della burocraziacentrale.

Né il decentramento attuato attraverso l’impianto regionale sem-bra sinora aver concorso a migliorare questo stato di cose, spostan-do, come si sperava alla periferia le decisioni minori ed elevando illivello e la qualità delle decisioni centrali.

La mancanza di una guida stabile centrale, la quasi totale assenzadi leggi-quadro, il cattivo uso della funzione di indirizzo e coordina-mento da parte delle autonomie e degli apparati centrali, alla fine dei

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conti, an ziché alleggerire han concorso, in un certo senso, ad aggra-vare questo quadro delle difficoltà in cui si dibatte in Italia la fun-zione di direzione politica.

È a questo punto che sorge il discorso delle riforme possibili edutili, suscettibili di incidere nella funzionalità del nostro governoparlamentare. Quali riforme e per quali obiettivi? Gli obiettivi giàenunciati nelle relazioni che mi hanno preceduto conducono a pro-spettare come possibili ed utili alcune riforme sia di ordine struttu-rale che funzionale, suscettibili di incidere – attraverso interventi alivello di Costituzione o di leggi ordinarie attuative della Costituzio-ne o di regolamenti parlamentari – tanto nella sfera governativa.

Alcune di tali riforme sono già state prospettate e sottoposte averifica in pubblici dibattiti specialmente nel corso dell’ultimo anno(mi riferisco in particolare al convegno di «MondOperaio» dell’a-prile dello scorso anno). Altre hanno formato oggetto di riflessionenel corso della preparazione di questa conferenza e vengono oraenunciate come semplici ipotesi di lavoro, ancora da approfondire esviluppare.

L’anomalia del sistema bicamerale italiano

Partiamo dal Parlamento. Sul piano strutturale il tema centraleche viene da tempo posto attiene all’anomalia del nostro sistemabicamerale. L’Italia è l’unico paese al mondo che dispone di unimpianto bicamerale perfettamente «paritario», con due Camereinvestite di eguali poteri di legislazione e di controllo. Non solo: ledue Camere, in Italia, vengono elette con sistemi nella sostanza ana-loghi ed hanno pari durata. L’unica giustificazione per una soluzio-ne di questo tipo è il permanere di un esasperato garantismo, non-ché, forse, l’esigenza di preservare una rappresentanza ampia delpersonale politico. Ma gli svantaggi di tale siste ma, sia in termini diallungamento dei tempi delle decisioni sia in termini di instabilitàdell’esecutivo, sono evidenti e sotto gli occhi di tutti.

Per ovviare a tali svantaggi non riterremmo, nella fase attuale,giustificato proporre il passaggio immediato ad un mo dello mono-camerale. Questo passaggio potrebbe forse aumentare il peso del-l’organo par lamentare all’interno della for ma di governo, ma la ridu-zione dello spazio della rappresentanza sarebbe troppo brusca etroppo forzata rispetto all’attuale complessità del tessuto poli tico esociale del nostro paese.

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Del pari varie obiezioni vengono ad opporsi alle soluzioni incen-trate sulla trasformazione della seconda Camera o in «Ca mera degliinteressi» o in «Ca mera delle Regioni». Una Came ra degli interessi –sia pure in forma molto attenuata e peculiare – in effetti esiste già,nel cnel, ed ha prodotto sinora risultati molto modesti. Per chiavverte oggi l’esigenza di rafforzare e rendere credibile una rappre-sentanza istituzionale degli interessi, la via naturale da percorreresembrerebbe ancora es sere quella della riforma del cnel (attraversoun arricchimento dei suoi poteri) e non del la definizione di unnuovo orga no parlamentare.

D’altro canto, anche l’idea di una Camera delle Regioni, perquanto affascinante e collegata a obiettivi di politica istituziona leben giustificati, presenta notevoli difficoltà di messa a fuoco, tantosul piano della formazione (si pensi alla scelta tra elezioni dirette edindirette) che sul piano del ruolo che a tale Camera andrebbe asse-gnato (è appena il caso di accennare al le diversità che il nostro Statoregionale presenta rispetto alle forme dello Stato federale, dove laCamera degli Stati viene a svolgere la sua funzione più caratteristicae naturale). Anche in questo caso, se vogliamo pensare, come è giu-sto e necessario, a raccordi più funzionali tra ordinamento regiona-le e Stato centrale la via da percorrere e probabilmente diversa edovreb be passare attraverso la costruzione di una rete più fitta edarticolata di raccordi tra centro e periferia realizzati sia a livello par-lamentare (e l’organo più idoneo sembra essere ancora la Commis-sione bicamerale prevista dalla Costituzione) sia a li vello governati-vo (con la creazione di una o più sedi istituzionali di raccordo tragoverno e Giunte regionali).

Se così è, sembra che la soluzione migliore resti ancora quelladella specializzazione funzionale tra le due Camere, cioè del passag-gio da una forma di bica meralismo «perfetto» ad una forma di bica-meralismo «ineguale». Su questo piano si potrebbe pensare ad una«Camera della legislazione» distinta da una «Camera del controllo»con riferimento particolare al con trollo economico-finanziario (con-trollo da attuare anche at traverso il raccordo diretto con la Corte deiConti). Tale specializzazione funzionale dovrebbe essere collegataanche ad una diversificazione nelle tecniche di selezione del perso-nale poli tico, con la possibilità di favorire nella Camera del control-lo anche la presenza di particolari competenze tecniche.

La diversificazione tra le due Camere non dovrebbe peraltro ri -sultare rigida e netta: il procedimento bicamerale andrebbe infatti

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conservato per tutte le leggi di maggiore rilievo (di revisione costi-tuzionale, di autorizzazione alla ratifica dei trattati, di bilancio, didelegazione).

Corrispondentemente si potrebbe riferire al Parlamento in sedu-ta comune anziché alle Ca mere separate l’esercizio del controllopolitico espresso at traverso la fiducia e la sfiducia. A completamen-to di questo di segno altre riforme potrebbero essere indicate, inprimo luogo, nella riduzione del policentrismo interno parlamenta-re (oggi si contano all’interno delle due Camere varie decine di cen-tri di decisione con enormi diffi coltà, di coordinamento e di presen-za per il personale politi co); in secondo luogo, nell’opportunità diun ricorso più ac centuato a procedimenti legi slativi di tipo redigen-te (con la Commissione che formula i testi e l’aula che li approva,dopo aver dato gli indirizzi generali); in terzo luogo, nel completa-mento delle riforme regolamentari già avviate alla Camera in funzio-ne dello snellimento delle procedure e di una migliore programma-zione dei lavori; in quar to luogo, nell’abolizione del voto segretocome tecnica espressiva ordinaria della volontà par lamentare in sededi approvazione delle leggi (a questo tema si collega anche l’oppor-tunità di trasformare la «questione di fiducia» in «questione digover no» con lo sganciamento della richiesta del voto palese da par -te del governo dell’attivazione delle responsabilità governative). Infi-ne, occorrerebbe anche pensare ad un potenziamento delle struttu-re conoscitive delle Camere, attuando forme di collegamento e siste-mi informativi esterni.

Per quanto concerne il piano della produzione normativa la li neadi politica istituzionale da affermare dovrebbe essere quella dellaconcentrazione del le maggior energie parlamentari sul terreno dellegrandi leggi di principio o delle leggi quadro, con il passaggio all’e-secutivo della legislazione minore, da incentivare sia attraverso unuso più ampio della delega legislativa (si potrebbe suggerire l’impie-go di «deleghe di legislatura» riferite a vasti settori di campi norma-tivi) sia attraverso il ricorso a forme più organiche di «delegificazio-ne» nelle materie non coperte da riserva legislativa, materie da de-finire con rigore nei loro confini esterni.

Il risultato complessivo di tali interventi dovrebbe consentire didelineare un modello di Parla mento non ingorgato né destinato adoperare come mera «cassa di risonanza», ma orientato sulle grandiscelte e sui grandi indirizzi, cioè caratterizzato dalla qualità e dallivello dei poteri esercitati.

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Passiamo ora al governo. Su questo piano l’obiettivo fondamen-tale da perseguire resta quello di una vera funzione direzionale sia alivello monocratico che collegiale.

Per un rafforzamento della funzione direzionale monocratica delPresidente del Consiglio due sembrano le soluzioni più opportuneda adottare: la prima è l’investitura fiduciaria concessa separata-mente e preventivamente al Presidente del Consi glio; la seconda è lamessa a punto, attraverso la legge sulla Presidenza, di una struttura«forte», ma anche flessibile a disposizione del Presidente: strutturache non dovrebbe ricalcare il modello ministeriale, ma che potreb-be esprimersi at traverso un Segretariato Generale articolato in Di -partimenti «mobili» e in «gruppi di lavoro», con la costituzione, afianco del Presidente, di un Organo di consulenza tecnico-politica,del tipo Central policy staff dell’esperienza inglese.

A livello collegiale di Consi glio dei ministri il potere di direzionepotrebbe essere rafforzato non solo attrezzando il Con siglio di strut-ture serventi adeguate, che oggi mancano, ma anche puntando –secondo il «modello del Consiglio di Gabinetto» – ad una riduzionedel numero dei ministri chiamati in collegio a determinare la politi-ca generale del governo. A tale risultato si potrebbe giungere ri-com-pensando – come già in passato è stato proposto – le attuali struttu-re ministeriali in alcune grandi aree dipartimentali al cui vertice col-locare un ministro pleno iure, cioè con diritto di partecipare in Con-siglio dei ministri alla determinazione della politica generale delgoverno. Al vertice dei settori inclusi nel Dipartimento (e in par tecorrispondenti agli attuali ministeri) potrebbero essere insediati deivice-ministri, con poteri di direzione diversi e maggiori di quelli deiministri chiamati a comporre il Consiglio.

Il disegno potrebbe essere completato con la riduzione de gliattuali Comitati interministeriali – che tendono sempre più ad ope-rare come elementi dispersivi e non aggreganti della funzione diindirizzo politico centrale – con un ricorso più frequente e Comita-ti di ministri con funzioni istruttorie: nonché con una definizionedella figura dei Commissari speciali di governo, da investire a termi-ne, per il perseguimento di obiettivi eccezionali e determinanti.

Sono tutti questi interventi che attengono all’aspetto dell’efficaciadell’azione di governo: resta l’aspetto della stabilità che non è certomeno impegnativo, se si pensa alla durata media dei governi dellanostra Repubblica, che è stata nelle precedenti relazioni già ripetu-tamente richiamata. I costituenti del 1946 si occuparono anche di

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questo problema, quando attraverso l’art. 94, tentarono di discipli-nare l’esercizio del «potere di crisi». Sennonché questa norma inpratica non ha mai funzionato perché come sappiamo mai un gover-no, in Italia, è caduto per un espresso voto di sfiducia. Questo fattoconcorre a rendere chiaro come il potere di crisi si caratterizzi sem-pre sul piano sostanziale, affondando le proprie radici nel le stessestrutture portanti del sistema politico, senza lasciarsi imbrigliare inmeccanismi procedurali di tipo parlamenta re. Questa osservazionedovreb be anche indurre a nostro avviso, a valutare con una certacautela le proposte di riforma che sono state anche di recente avan-zate con riferimento all’introduzione di un meccanismo di «sfiduciacostruttiva». Il fatto è che, in una situazione quale è la nostra, moltodifficilmente un meccanismo formale, per quanto perfezionato,riuscirebbe ad impedire nella sostanza il potere di crisi o a contra-stare la volontà del Presidente in carica di abbandonare il potereanche senza una pronuncia formale delle Camere. Meglio dunquepensare a mec canismi meno rigidi, ma forse più in grado di inciderenegli equilibri sostanziali dell’azione di governo. Su questa linea sipotrebbe cioè valutare, ad un patto di legislatura stipulato tra leforze politiche ed il capo dello Stato che induca le prime a presen-tarsi al corpo elettorale con una ipotesi completa di programma e digoverno di legislatura che consenta al secondo di formare, sulla basediretta delle indicazioni del corpo elettorale, governi tendenzial-mente di legislatura. La crisi di tali governi – o per sfiducia o per rot-tura del patto di maggioranza – dovrebbe sfociare, come ipotesiordinaria e non eccezionale, nello scioglimento delle Camere. L’effi-cacia stabilizzante di tale meccanismo convenzionale potrebbe esse-re rafforzata dall’impegno che il Presidente del Consiglio dovrebbeassumere all’atto del suo insediamento di rendere comunque espli-cite le ragioni della crisi (se non determinata da un voto di sfiducia)dinnanzi al Parlamento in seduta comune. Si tratta di una strada chepuò certamente presentare i suoi rischi, ma che presenta anche ilpregio della flessibilità e che potrebbe gradualmente condurre all’af-fermazione non tanto di nuove regole scritte quanto di una nuovadisciplina sostanziale del no stro regime parlamentare, disci plina dacostruire tanto attraverso una maggiore presenza ed incidenza delcorpo elettora le nelle scelte di governo, quan to attraverso un mag-giore impegno equilibratore del Capo dello Stato.

In sintesi e concludendo. Riteniamo che la nostra forma di gover-no parlamentare – nonostante le disfunzioni che, nei vari passaggi

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della nostra storia, si sono manifestate – presenti ancora margini suf-ficienti di elasticità per tentarne un recupero in chiave di maggioreefficienza e stabilità.

massimo severo giannini«la questione amministrativa fra stato e poteri locali»

La relazione sulla «questione amministrativa», preparata da ungruppo di lavoro presieduto dal professore Massimo Severo Gianni-ni, in assenza di Giannini malato, è stata illustrata dal prof. SandroAmorosino. Eccone la sintesi.

L’insieme di riforme degli assetti e dei rapporti costituzionali finqui prospettate – investendo il modo di essere dei partiti e le formuleorganizzatorie costituzionali – mira a restituire stabilità e soprattut-to capacità di decisione, di governo al sistema politico-istituzionale.È però evidente che tutto ciò non si tradurrà in un salto di qualitànella funzionalità ed efficienza dei pubblici poteri se non sarannoapprestate strutture amministrative idonee ad attuare gl’indirizzi e ledecisioni politiche – espresse in leggi o in atti politici – spesso dicontenuto complesso ed implicanti un continuo di attività (si pensisolo alle pianificazioni amministrative di settore). In sintesi: il «kom-binat istituzionale» dev’essere messo in grado di decidere e di attua-re le decisioni. Governare è scegliere ed eseguire. Emerge quindi lacentralità della questione amministrativa, mai affrontata con globa-lità di visione e volontà di iniziative politiche coerenti e costanti nel-l’Italia repubblicana.

Nel caso italiano non s’è mai costruito compiutamente lo Statosociale-amministrativo, ma un assetto assistenziale-spartitorio.

Né può condividersi l’affermazione «vetero-economista» che se lariforma istituzionale diventa essenziale riforma amministrativa silascia in ombra il problema della pianificazione economica. L’espe-rienza della prima programmazione dimostra che la riforma dellestrutture è uno dei presupposti fondamentali della realizzabilità diuna «amministrazione per programmazioni». Contenuto congenialee naturale di una politica riformista è di impegnarsi in un vasto arcodi misure di razionalizzazione attraverso cui ridurre le disfunzioniamministrative a un minimo tollerabile.

Che sia un percorso praticabile è dimostrato dalla mole ingente dimateriali disponibili su questi temi – non solo elaborati in sede

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scientifica, ma anche raccolti, in atti di governo e parlamentari – checontengono una ricongiunzione quasi completa del quadro com-plessivo e delle singole parti della questione amministrativa. Senzarisalire alla legge del 1967 in cui erano già indicati i complessi pro-blemi da risolvere per avere una programmazione efficiente, si pos-sono ricordare, negli ultimi anni, il «rapporto Giannini» sui princi-pali problemi delle amministrazioni dello Stato, l’Ordine del Gior-no del Senato che nel luglio dell’80 recepì in una deliberazione d’in-dirizzo i contenuti del rapporto, le relazioni delle commissioni isti-tuite a seguito del rapporto (sull’organizzazione della Presidenza delConsiglio come apice dell’amministrazione, sulla riforma dei mini-steri, sui rapporti tra Stato e Regioni, sull’attuabilità della legge), leproposte di delegificare massicciamente la produzione normativa.

I socialisti ritengono – anche come testimonianza concreta di cul-tura di governo – di assumere nel proprio programma la gran partedei contenuti di queste proposte e relazioni valutando la convergenzaobiettiva tra lo sforzo ad esse comune di razionalizzazione e moder-nizzazione degli apparati amministrativi ed una efficace strategia rifor-mista. Il rinnovamento delle strutture dell’«Azienda Stato» è insiememomento e condizione della realizzazione del disegno riformista.

Nell’esame di merito delle problematiche che compongono laquestione amministrativa si può considerare un asse centrale costi-tuito dall’assetto, strutture ed organizzazione dei poteri locali, delleRegioni e delle amministrazioni centrali.

Tale asse costituisce la spina dorsale cui raccordare le disciplineamministrative dei singoli settori d’attività.

La Costituzione riafferma l’autonomia degli enti locali territoria-li, menzionando Comuni e Province. Ma occorre rendersi conto chedal 1920 ad oggi lo Stato ha ingombrato di proprie leggi tutte le fun-zioni degli enti locali, per cui lo spazio che residua alle libere sceltedegli enti medesimi è, in pratica, ridotto a quello della modulazionedelle accentuazioni di indirizzi (un Comune, per esempio, può sce-gliere tra più politiche di assetto urbanistico). È invece venuta menoquell’inventiva di nuovi istituti (ad esempio le municipalizzazioni)che caratterizzò i poteri locali tra il 1870 e il 1918, perché ben pocolascia loro la normativa statale.

Occorre dar inizio ad un’opera, che sarà lunga e lenta, di restitu-zione ai poteri locali della capacità di regolare secondo proprie fun-zioni, limitandosi le leggi dello Stato o delle Regioni alle norme diprincipio.

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Il problema fondamentale dei poteri locali è divenuto quello dellaloro vitalità, ossia dell’idoneità a rendere efficacemente i servizi checostituiscono il loro ambito istituzionale.

La vitalità dei poteri locali è oggi limitatissima: la possiedono,semplificando ed esemplificando, la maggior parte dei comuni com-presi nella fascia tra i 50.000 ed i 300.000 abitanti, e talune delle pro-vince ecologicamente omogenee. Rinviando a più oltre per le pro-vince, i comuni al di sotto o al di sopra delle dimensioni demografi-che or dette non hanno vitalità, per le due opposte ragioni, del difet-to o dell’eccesso di collettività di supporto per la carenza delle strut-ture.

Assetto e strutture dei poteri locali

L’assoluta maggioranza dei comuni ha oggi dimensioni minusco-le: da 50.000 abitanti in giù. Per i cittadini il costo di tanti di tanticomuni minuscoli è elevatissimo, mentre i servizi che essi possonoerogare sono scarsissimi. Occorre dunque favorire con ogni mezzola costituzione di unità territoriali primarie idonee a ricevere pro-venti tali da poter erogare servizi adeguati alle richieste dei cittadini.

La riforma della legge comunale deve disporre la fusione di pic-coli e piccolissimi comuni, anche con incentivi e garanzie, ed istitui-re associazioni obbligatorie di piccoli comuni a cui si affidano tuttele attribuzioni fondamentali dei Comuni: assetto del territorio, assi-stenza socio sanitaria, servizi pubblici di amministrazione, di tra-sporto, di sviluppo economico.

Come conseguenza si dovranno rivedere le varie forme associati-ve tra Comuni, al duplice fine di razionalizzare ed eliminare costi, iquali finiscono sempre col gravare sulle collettività locali. Gli attua-li consorzi dovranno, per quanto possibile, essere riportati alle asso-ciazioni obbligatorie, semmai prevedendosi forme di associazioni.Anche a revisione dovranno essere assoggettate le Comunità monta-ne: gli ausili alle zone montane non necessariamente comportano ilcosto di enti appositi come le attuali Comunità.

L’esperienza dei comprensori, che non deve essere valutata, comeora troppo spesso si fa, con giudizi perentori generalizzanti, va vistanon tanto sotto l’angolazione di enti intermedi tra Comuni e Pro-vince, quanto sotto quella di embrioni di nuovi Comuni maggiori odi associazioni generali. Essa non va dispersa, ma va utilizzata nellanuova diversa prospettiva.

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Per quanto attiene alle attribuzioni dei Comuni e delle Province,occorre procedere così come si è proceduto per le attribuzioni delleregioni, con la legge 1975 n. 382: una delega, che fissi i principi diindividualizzazione delle funzioni ed una commissione che analizzal’intera normativa vigente, distribuendo le attribuzioni tra i diversienti territoriali.

Una siffatta ricognizione dovrà essere seguita il più pos sibile dal-l’abrogazione di norme di leggi statali che disciplinano attribuzionidei Comuni, e, dove non opportuna l’abrogazione, dalla sostituzio-ne di dette nor me con riforme di principio. Solo così diverrà possi-bile restituire ai Comuni e alle Province quell’autonomia che primapossedevano. Inoltre solo dopo tale riassetto sarà possibile che daparte delle Regioni si proceda ad un’effettiva delega di funzioni aComuni e a Province; le deleghe di funzioni postulano che i dele gatisiano, di massima, struttu re ad efficienza per quanto più possibileomogenea, ed è mistificazione pensare che delegati possano essere,egualmente e indifferentemente, enti che vanno da 150 ad oltre2.000.000 di abitanti.

Alle Province, enti di media area, devono essere assegnate le fun-zioni di media area, oggi attribuite ad unità sanitarie locali o ad entiappositi (tipo ept). Nella ricognizione delle attribuzioni di cui si èdetto occorrerà quindi individuare tali funzioni e concentrarle sulleProvince. Pari cura va messa nella verificazione di talune idee emer-genti ma non del tutto convincenti, come quella di dare alle Provin-ce attribuzioni nel campo del governo del territorio, della tutela del-l’ambiente naturale, dei servizi culturali, e simili. In questi settoriagiscono impulsi corporativi, che vanno attentamente controllati.Quanto alle aree metropolitane e alle conurbazioni, la cosa più ra -gionevole da fare sarebbe di affidare alle diverse Regioni lo studio el’adozione delle istituzioni più adeguate, per la ragione che tanto leune quanto le altre sono realtà differenziate urbanisticamente nellediverse Regioni. Non vi è dubbio, ad esempio, che talune conurba-zioni potrebbero trovare il loro strumento nelle associazioni genera-li di Comuni, ed altre in costituzioni di Comuni. Una legge stataledovrebbe contenere dei principi quantomeno come guida alleRegioni. Per le Aree metropolitane, sull’esempio di altri paesi chehanno già affrontato la questione, è da prevedere l’articolazionedelle metropoli in Comuni distinti e la costruzione di un’autoritàmetropolitana per le funzioni che riguardano l’intera collettivitàmetropolitana. Nei diversi casi l’autorità metropolitana potrebbe

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essere configurata positivamente come autorità di una sempliceassociazione necessaria di Comuni, oppure un’autorità atipica diuna speciale unione di Comuni, oppure equiparata ad un’autorità diProvincia. È un problema che va affrontato caso per caso.

Per ciò che concerne il merito delle attribuzioni locali sembra visia sufficiente convergenza di opinioni su alcuni punti: la libertà sta-tutaria agli enti locali, la semplificazione delle aziende municipali oprovinciali, la radicale revisione delle strutture dei servizi sanitari, l’e-liminazione di organi e di figure ambigue, co me il sindaco-ufficialedel governo, la Commissione centrale per la finanza locale, e simili.

Per il riordinamento dei controlli si pone in primo luogo la que-stione della modificazione dell’art. 130 della Costituzione. Il con-trollo preventivo di legittimità si rivela sempre di più come un pro-cedimento inutile, specie con le dimensioni che assume, mentre nonvi è alcuna possibilità di introdurre controlli di gestione, che invecein altri paesi si rivelano come i più effi cienti.

Il completamento delle Regioni

La normativa del 1977 sul completamento degli ordinamentiregionali ha in realtà completato solo in parte: ha individuato talunefunzioni come regionali, ha eliminato taluni enti pubblici che inva-devano ta li funzioni, ha delegato alle Re gioni talune funzioni con-nesse. Peraltro nessuna delle materie che tale normativa avevaespressamente lasciato aperte a leggi apposite da adottare, ha poitrovato un suo assetto. Talché il completamento, per queste par tiscoperte, va ripreso e portato a termine.

Lo stato di sofferenza in cui per molti settori oggi le Regioni sitrovano ha origine in due cause simmetriche: la mancata ri forma deipoteri locali, la man cata riforma dell’apparato statale. La lamentatatendenza all’accentramento di parecchie Regioni è riferibile allaprima causa; le incertezze e le esitazioni in settori anche importanti,come l’agricoltura, lo sviluppo economico, il governo del territorio,alla seconda.

Peraltro sia il Parlamento che il governo hanno individuato già daqualche tempo dei problemi specifici relativi ai rapporti Stato-Regioni, e sono stati predisposti d.d.l. che prevedono: l’istituzione diuna conferenza permanente di esponenti delle Regioni presso la Pre-sidenza del Consiglio, la riforma degli organi collegiali interregiona-li oggi esistenti, la riforma o il collegamento degli organi collegiali

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misti Stato-Regioni, pur esistenti. È necessario che queste propo stetrovino conclusione in tempi rapidi.

Correlativamente va riordinata l’intera finanza regionale, conrazionalizzazione e semplificazione dei modi di provviste e di spese:i numerosi fondi a destinazione speciale devono es sere tutti elimina-ti; le Regioni devono munirsi di propri organi indipendenti di con-trollo di gestione.

Occorre, infine, predisporre le varie leggi quadro per i diver si set-tori di attribuzione regio nale, onde por fine ai conflitti Stato-Regio-ni, e soprattutto on de colmare i numerosi spazi vuoti, nei quali cioèné lo Stato né le Regioni operano, essendo incerta la spettanza del-l’attribuzione.

Lo Stato e gli altri poteri

Nella direttiva che il Senato adottò il 10 luglio 1980, all’unanimi-tà dei partiti dell’arco costituzionale, erano contenute del le precisescelte sui problemi, aperti dalle riforme degli anni ’70 in particolareda quella re gionale: si indicavano come condizionanti la riforma deipo teri locali e quella dell’apparato dello Stato, nei suoi organi cen -trali e locali.

Del compiuto programma tracciato dalla direttiva sino ad oggisono state messe in cantiere, con disegni di legge, solo alcune mate-rie: la legge quadro sull’impiego pubblico, la legge quadro sulle am -ministrazioni autonome e le aziende autonome dello Stato, la rifor-ma della Corte dei Conti con attribuzione alla medesima del con-trollo di gestione, l’ordinamento degli enti d’interesse nazionale.L’incertezza del quadro costituzionale ha sinora impedito che an chequeste riforme procedessero in modo soddisfacente.

Per converso si sono avute spinte tangenziali che hanno rotto ildisegno programmatico, costituendo casi ormai non facilmente rin-quadrabili.

Emerge da ciò che la riforma dell’apparato dello Stato va conce-pita in modo unitario: sia per evitare le spinte settoriali di origineburocratica, sia e so prattutto per evitare duplicazioni, sovrapposi-zioni e, inversamente, vuoti. Il recente caso della miniriforma dellaPresidenza del Consiglio dei ministri è eloquente di come non sideve agire, in quanto si sono istituiti duplicati di organi di altri mini-steri, mentre sono state lasciate prive di uffici delle funzioni che puresistono.

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Un importante contributo agli studi per le riforme dei ministeri econtenuto nella relazione del la Commissione Piga, che pe raltro nonè stata resa pubblica e giace negli uffici della funzione pubblica daoltre un anno.

La relazione sembra puntare a una migliore distribuzione del lefunzioni dei ministeri, mentre per l’organizzazione periferica del-l’apparato dello Stato avrebbe sviluppato la direttiva parlamentaredi regionalizzare l’apparato medesimo.

Le conclusioni sotto questo profilo sono discutibili. Occorreinvece partire dalle premesse che non necessariamente tutti gli orga-ni centrali dello Stato debbono essere dei ministeri e che non neces-sariamente tutti i titolari politici di organi centrali debbono esseredei ministri. Nelle esperienze più recenti (in Inghilterra, usa, ecc.) viè una ten denza a differenziare i modelli degli organi centrali, che vaintesa come fatto di razionalizza zione democratica delle struttu re.

Del resto anche la direttiva parlamentare segnalava l’opportunitàdi distinguere tra or gani centrali con funzioni di coordinamento eorgani centra li con funzioni di gestione. La distinzione incide forte-mente sui profili professionali dei funzionari che si richiedono per ledue attività.

Una delle idee guida della ri forma dovrebbe essere perciò ladiversificazione tra organi cen trali di coordinamento (muniti di per-fezionati apparati di rilevazione ed elaborazione di dati, e di ufficistudi e analisi molto attrezzati) ed organi centrali di ge stione, prov-visti di organizzazioni operative, possibilmente articolate e decen-trate.

Gli uffici della Presidenza del Consiglio dei ministri non pos sonoessere intesi tutti come uf fici di coordinamento. Le fun zioni di coor-dinamento debbo no restare divise per settori sostanziali nei ministe-ri «occupati» (economia, finanza, territo rio, ricerca scientifica, affa-ri sociali, lavoro), alla Presidenza dovendo competere le soluzionidelle situazioni conflittuali non spettanti al Consiglio dei mini stri odi questi preparatorie, e i coordinamenti tecnici (attività normativa,distribuzione di affari amministrativi interdipartimentali). Invecepresso la Presidenza debbono essere istituiti uffici con funzioniconoscitive, estese a tutti i pubblici poteri.

L’istituzione di uffici centrali con funzioni di coordinamento,indipendentemente dal fatto che ad essi siano proposti titolari conrango di ministro, comporta che si debba rompere la regola dellacompetenza esclusiva dei ministeri (e degli uffici centrali) sulle mate-

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rie di attribuzione. La regola del resto già oggi è inoperante nei con-fronti degli uffici della ragioneria ge nerale, del tesoro e della funzio-ne pubblica. Ciò se non si vuol arrivare al criterio introdotto in Ger-mania, del governo ordinato a tre livelli ministri di coordina mento,ministri, sottosegretari con competenze proprie.

Per quanto attiene e questi ultimi, il fatto che si siano ottenutirisultati positivi nei diversi paesi che conoscono la figura dei sotto-segretari autonomi è constatazione che ne consiglia l’adozione.

Sull’organizzazione periferica dell’apparato statale vi è conver-genza di intenti, nel senso di organizzare intorno al Commissarioregionale del governo gli organi periferici e di ordinare possibil-mente le vane amministrazioni centrali con organi re gionali o inter-regionali: ciò appare indispensabile, in quanto altrimenti lo Statonon è in grado di colloquiare con le amministrazioni regionali.

La riorganizzazione del lavoro degli uffici amministrativi noncomporta particolari riforme le gislative, ma un’intensa opera a cui sipotrebbe già ora provvedere in via amministrativa. Basterebbe cheogni amministrazione si munisse di attrezzati uf fici di organizzazio-ne, per rivedere in senso moderno le proce dure interne di flussi dilavoro e di produttività. Occorre quindi provvedere con energia eperseveranza alla messa in opera di tali uffici utilizzando anche irisultati della ricerca svolta da Formez.

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4. ASSOLO

Nel mese di agosto del 1982, in occasione della crisi del suoprimo governo determinata da una forte polemica fra i ministri An -dreatta e Formica, Giovanni Spadolini detta il suo «Decalogo» sulleistituzioni. È polemico con la partitocrazia e rivendica il primato delpresidente del Consiglio. Ma pochi giorni dopo dà vita a un nuovogoverno che è la fotocopia di quello che si era dimesso. Diversa cara-tura e coerenza ha invece la posizione di Craxi, illustrata nell’inter-vento che egli fa alla Camera proprio nel dibattito per la fiducia diquel governo.

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giovanni spadolini

DIECI PUNTI PER LE ISTITUZIONI*

* «La Voce Repubblicana», 17 agosto 1982.

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L’impostazione della questione istituzionale da parte di un nuovogoverno dovrebbe passare per i seguenti punti:

1. attuazione pratica nella stessa struttura del nuovo governo del-l’art. 92 della Costituzione, sulla base di un comune impegno daparte dei partiti della coalizione, nello spirito dell’art. 49 della Costi-tuzione, circa il pieno rispetto, nel processo di formazione del gover-no, di tutte le regole costitu zionali che lo disciplinano: potere dinomina da parte del Presidente della Repubblica; potere di autono-ma proposta da parte del Presidente del Consi glio, in vista dellafiducia parlamentare ex art. 94;

2. introduzione nella struttura della Presidenza del Consiglio diun segretariato di coordinamento per i problemi istituzionali, cheoperi in raccordo da un lato con la auspicata Commissione interca-merale ad hoc; e, dall’altro, con un Comitato tecnico istituito pressola stessa Presidenza per l’istruttoria e lo studio delle varie questioni;

3. ripresa immediata in Parlamento dell’esame del progetto dilegge sulla Presidenza del Consiglio, strumento essenziale, dell’uni-tà e dell’omogeneità del gabinetto, in attuazione dell’art. 93 dellaCostituzione, tale da garantire l’effettiva direzione della politicagenerale del governo non meno che la piena esplicazione di una cor-retta collegialità; contestuale elaborazione del disegno di legge sul-l’organizzazione dei ministeri, su modelli europei, con utilizzazionedei lavori della Commissione Giannini-Piga;

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4. pronto avvio dell’esame parlamentare del disegno di legge sulleautonomie locali, nella prospettiva di una configurazione nuova deipoteri locali che immetta nel circuito attivo delle istituzioni, origina-li elementi che garantiscano l’efficacia e l’efficienza dell’autoritàdemocratica locale, sperimentando moduli suscettibili di afferma-zione successiva sul piano nazionale;

5. conclusiva ripresa dell’esame parlamentare dei progetti dilegge sulla responsabilità disciplinare e civile dei giudici, in una pro-spettiva che concili la piena autonomia e indipendenza costituziona-le dell’ordine giudiziario in ogni direzione (e la connessa garanziadell’attuazione del nuovo ordinamento giudiziario e dell’art. 98 dellaCostituzione) con il principio, di pari valore costituzionale, per cuil’esercizio del potere pubblico da parte di chicchessia non può anda-re immune da responsabilità per atti compiuti in violazione di dirit-ti (art. 28);

6. iniziativa legislativa in sintonia con la giurisprudenza costitu-zionale per la correzione delle procedure referendarie tale da elimi-nare le possibilità di uso distorto e deviante di questo fondamentalestrumento di democrazia diretta;

7. portare ad una equilibrata soluzione – di esclusione di ogni pri-vilegio legato alla c.d. giustizia politica, nel quadro di una correttagaranzia costituzionale – la questione della riforma dell’Inquirente;

8. urgente iniziativa congiunta di tutti i gruppi parlamentari dellamaggioranza – con adeguati contatti con l’opposizione parlamenta-re – volta a modificare la disciplina del voto segreto in Parlamento,anche in vista della opportunità di evitare contraddittorie delibera-zioni legislative sul medesimo oggetto nonché il frequente ricorsoalla questione di fiducia «tecnica»;

9. urgente iniziativa congiunta di tutti i gruppi parlamentari dellamaggioranza – con adeguati contatti con l’opposizione parlamenta-re – volta ad istituire, in attuazione dell’art. 72 della Costituzione,una procedura di urgenza che garantisca effettivamente al governo itempi della decisione parlamentare sulle proprie iniziative program-matiche, costituendo con ciò l’unico, radicale rimedio alla prolifera-zione dei decreti-legge;

10. urgente iniziativa congiunta di tutti i gruppi parlamentaridella maggioranza _ con adeguati contatti con l’opposizione parla-mentare – volta a garantire l’effettiva traduzione nei regolamentiparlamentari, della legge n. 468 sul bilancio dello Stato sulla leggefinanziaria, nello spirito dell’art. 81 della Costituzione, allo scopo sia

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della limitazione del potere di introduzione nella legge finanziaria dinuove materie e di nuove spese; sia della concreta applicazione della«sessione di bilancio», con effetti impeditivi dell’ordinario lavorolegislativo delle Commissioni; sia del blocco delle «leggine di spesa»attraverso il rafforzamento dei vincoli ostativi delle Commissionibilancio.

giovanni spadolini - «dieci punti per le istituzioni»

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ciriaco de mita

CAMBIARE LA COSTITUZIONE TUTTI INSIEME*

* Intervista a Ciriaco De Mita, in «la Repubblica», 9 settembre 1982.

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Signor segretario, ricordo che Lei fu il primo in Italia a parlare dellanecessità di un patto costituzionale per rinverdire, diciamo così, le isti-tuzioni. Ne cominciò a parlare, se non sbaglio, verso la fine degli annisessanta. Ma ora, di fronte alla proposta di Craxi della cosiddetta gran-de riforma Lei è apparso scettico, quasi ostile. Anche nel dibattito sullafiducia al governo, ha ribadito la primazia dei problemi economici suquelli istituzionali. Come mai questo mutamento?

Sono stato molto frainteso su questo punto. In realtà sono dagran tempo persuaso che la revisione delle istituzioni sia un fattoessenziale. La Costituzione poi non è qualcosa di immobile che siapprova una volta e poi si lascia lì ad ammuffire. Ci vuole una poli-tica costituzionale costante, un’attenzione continua al problemadelle istituzioni, perché i principi restano, ma gli strumenti cambia-no. Da noi non c’è stato nulla di simile da molti anni ed oggi i nodisono arrivati al pettine. Lei mi ha fatto una domanda precisa.Rispondo: il compito di un governo è di gestire l’esistente, perciò hodetto, e lo confermo, che il governo Spadolini deve soprattuttomisurarsi con i problemi dell’emergenza economica, perché sonoquesti che metteranno a dura prova, anzi temo a durissima prova, ilnostro paese e l’intero sistema economico occidentale nei prossimimesi. Certo il governo ha titolo per un’iniziativa, può anche preoc-cuparsi che siano snellite certe procedure parlamentari invecchiate e

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può utilmente sollecitare le Camere ad alcune modifiche regolamen-tari. In ogni caso il problema di una riforma delle istituzioni, chegiudico urgente ed essenziale, compete alle forze politiche. Ed essene debbono fare un tema centrale di dibattito e di confronto. Comevede, non penso affatto di sminuire l’importanza dell’argomento.

Dunque, Lei rilancerà per la sua parte il tema della riforma delleistituzioni.

È un tema che, come Lei ha cortesemente ricordato, ho sollevatofin dal 1967.

Ha idee precise sull’argomento? Vede, signor segretario, sono inmolti oggi a parlare di riforma o addirittura di grande riforma, ma alconcreto, se ne riesce a cavare assai poco. Se Lei ha idee precise inmateria, la pregherei di uscire dal generico.

Prima però mi deve consentire una premessa. La riforma delleistituzioni non è un fatto di ingegneria costituzionale. Non ci si sve-glia una bella mattina con l’idea di riformare le istituzioni. Il pro-blema nasce quando sono mutati i rapporti sociali e politici. Un mar-xista direbbe: quando è cambiata la struttura e bisogna adeguarvi lasovrastruttura. Io dico, più semplicemente: quando il sistema demo-cratico si trova di fronte ad una difficoltà, ad un ostacolo che nonpuò essere superato con il tipo di istituzioni esistenti.

E qual è l’ostacolo?

Lo disse Moro, certo non fu il solo a dirlo. L’ostacolo è che vivia-mo in una democrazia bloccata, senza possibilità di alternativa, diricambio di classe dirigente. Tutto nasce di lì. Quando si denuncial’inefficienza del sistema, si pone un problema senza risalire allacausa. Basterebbe mettere dei tecnici al posto dei politici? Non èquesta la soluzione: sarebbe un falso rimedio. Quando la classe digoverno è inamovibile, c’è il rischio che si sieda, perché non ha sfidealle quali rispondere, non ha giudizi ai quali sottoporsi. Per la lottiz-zazione, più o meno, è la stessa cosa. Il problema non è un’astrattaefficienza, quanto la garanzia dell’imparzialità dell’amministrazioneche è assicurata più facilmente quando c’è la possibilità di alternativa.

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Ma se la democrazia è bloccata, di chi è la colpa?

Non si tratta di colpa. Se aprissimo il discorso sulla colpa non la fini-remmo più. Se vuole, la colpa è di tutti. Dei comunisti soprattutto chesono rimasti per decenni legati ad un quadro di riferimento ideologicoe politico che li ha messi fuori dal sistema. E anche nostra, che di que-sta diversità comunista abbiamo fatto un motivo di inamovibilità.

Verso quale obiettivo si muove la riforma proposta da Craxi?

Francamente non so risponderle. I socialisti finora hanno spiega-to assai poco quello che hanno in mente. Hanno affermato un’esi-genza, e questa è comune. Al di là non sono ancora andati se non pervaghi accenni. Comunque ho l’impressione che vi sia in loro una ten-denza di tipo presidenzialista.

Lei è orientato diversamente?

Mi pare di averlo spiegato: io penso che si debba puntare acostruire, coinvolgendo tutte le forze costituzionali, meccanismi isti-tuzionali che abbiano l’obiettivo di rendere possibile il superamen-to della democrazia bloccata, rendere possibile l’alternativa e quinditutelare al massimo le libertà diffuse, l’imparzialità della pubblicaamministrazione e l’efficienza della gestione.

Andiamo al concreto, cominciando per esempio dal problema delvoto segreto, che il nuovo governo Spadolini si è impegnato a limitare.La DC è d’accordo, credo, visto che ha sottoscritto il programma digoverno. In che modo la limitazione del voto segreto s’inquadra nellasua visione di riforma istituzionale?

L’accordo di governo tra i cinque partiti prevede una riforma delregolamento parlamentare sulla base della quale il governo può chie-dere il voto palese su quei provvedimenti che esso ritiene di specia-le rilievo per l’attuazione del suo programma. In pratica, è l’attuale«fiducia tecnica», espressa in un altro modo. Spero che una taleriforma si faccia al più presto e la considero utile alla chiarezza e spe-ditezza dei lavori parlamentari. Ma, come vede, siamo alle «margi-nalia». I problemi sono altri. Quando s’invoca il voto palese e sigrida allo scandalo contro i franchi tiratori, che cosa si dice, che cosa

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si confessa, se non che l’esecutivo non riesce ad esprimere forza poli-tica, non riesce a gestire politicamente gli interessi e perciò ne su -bisce l’urto devastante? Certo, possiamo imporre il voto palese, madobbiamo anche tutelare la libertà dei membri del Parlamento e laloro responsabilità diretta e personale di fronte agli elettori. Altri-menti, tanto varrebbe abolire il voto di preferenza e votare unica-mente su simboli di partito. Se deve essere mantenuto il legame per-sonale tra elettori ed eletti, se l’individualità del parlamentare haancora una importanza – e secondo noi ne ha molta – allora la richie-sta del voto palese dovrebbe essere accompagnata dal divieto per igruppi parlamentari di prendere provvedimenti disciplinari controquei parlamentari che palesemente votassero contro le indicazionidel partito. È un tema complesso e difficile ma penso che ce nedovremmo fare carico. Comunque, lo ripeto, non è con il voto pale-se che si rafforza la stabilità dell’esecutivo.

E in che modo, allora?

Ci sono diverse strade: la prima è quella del presidenzialismo, ungoverno del Presidente della Repubblica controllato dal Parlamen-to: questa scelta porta diritti all’elezione diretta del Capo dello Statoda parte del corpo elettorale. Non dico che sia una scelta da rifiuta-re con orrore, ma ritengo che si tratterebbe di una semplificazioneforzata della nostra complessità politica. Un’altra strada è di far eleg-gere direttamente dalle Camere il Presidente del Consiglio, all’iniziodella legislatura.

Anche questo che Lei propone è un mutamento radicale.

È un mutamento, sì, ma nell’ambito dei nostri principi costitu-zionali. Anche adesso, infatti, il governo entra nella pienezza dei suoipoteri soltanto dopo aver ottenuto il voto di fiducia delle Camere. Iopenso che sarebbe un passo avanti e un rafforzare la stabilità dell’e-secutivo, farlo eleggere direttamente dal Parlamento.

In Inghilterra ed in Germania, di fatto, questo avviene, poiché ilCapo del governo altri non è che il leader parlamentare del partito odella coalizione che ha avuto la maggioranza alle elezioni.

Infatti.

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Forse si farebbe prima modificando il sistema elettorale in sensomaggioritario. Avremmo stabilità dell’esecutivo senza doverci inventa-re dei marchingegni complicati.

Io penso che oggi la raccolta del consenso debba avvenire ancoracon il sistema proporzionale. La stabilità dell’esecutivo può essereassicurata in modi diversi. Ho indicato prima l’ipotesi dell’elezioneda parte del Parlamento per la durata dell’intera legislatura (di cin-que o quattro anni). Altra ipotesi è che i partiti dichiarino le allean-ze tra loro prima delle elezioni. In questo modo si voterebbe, in pra-tica, per un blocco o per un altro: insieme si conserverebbe il plura-lismo e si acquisterebbe la stabilità. Il sistema maggioritario puòessere il punto di approdo naturale di un processo del genere. Equando parlo di sistema maggioritario penso sempre a raggruppa-menti contrapposti di partiti.

I comunisti non accetteranno mai. Lei aveva cominciato col dire chela riforma istituzionale deve avere come punto di arrivo di consentirel’alternativa...

Lo confermo. Ma ritengo anche che puntare all’alternativa e di -fendere contemporaneamente il sistema elettorale proporzionalecom’è oggi è una contraddizione. Ho l’impressione però che i comu-nisti comincino a capirlo. Per esempio, so che sarebbero favorevoliad elevare il limite dei comuni dove si vota con la maggioritaria.Attualmente quel sistema si applica ai comuni fino a 5.000 abitanti;si potrebbe portarlo almeno fino a 30.000 abitanti.

Lei sarebbe favorevole all’elezione diretta del Sindaco da parte deglielettori?

No, sono favorevole all’estensione del sistema maggioritario neicomuni ad un più elevato numero di abitanti.

Ho capito, signor segretario: sistema maggioritario, bipartitismo.

Non bipartitismo. Ribadisco: in Italia non mi pare né possibile néutile. Ci vogliono – questo sì – due raggruppamenti. Il pci è contra-rio al sistema maggioritario perché vuole preservare quella che vienedefinita la sua «diversità» rispetto agli altri partiti. Fino a quando

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sarà o dirà di essere «diverso», il pci non avrà alcuna possibilità diottenere la maggioranza, neppure quella relativa. Il famoso «sorpas-so» non ci sarà, perché la maggioranza degli elettori non affida leproprie sorti a qualcuno che si definisce in partenza «diverso». Per-ciò, il pci continua a difendere la proporzionale, che garantisce lasua diversità e ne assicura la puntuale rappresentanza. Ma se il pcivuole veramente l’alternativa, la sua pretesa «diversità» dovrà esseregettata alle ortiche.

Continuiamo, onorevole De Mita. Manterrebbe le due Camere?

Esprimo anche qui una opinione personale su problemi moltocomplessi. Manterrei le due Camere ma approfondirei seriamentel’ipotesi di una distinzione delle loro funzioni costituzionali.

Pensa ad un Senato del tipo di quello americano?

Le Costituzioni dei due paesi sono molto diverse, però penso ineffetti a qualche cosa di simile. Attenzione: di solito si crede che unpotere esecutivo forte debba subire pochi controlli; è vero esatta-mente il contrario, più forte è l’esecutivo e più deve essere pene-trante il controllo.

Se debbo portar fino in fondo il suo ragionamento, direi che nelquadro che Lei va delineando i membri del governo non dovrebberoessere membri del Parlamento.

Penso proprio così. Ci dovrebbe essere una completa incompati-bilità tra membri del governo e membri del Parlamento. Esiste unruolo diverso per l’uno e per l’altro incarico. Nel sistema attuale,d’altra parte, un parlamentare che non venga nominato almeno unavolta sottosegretario risulta un fallito. Ma che senso ha? Il parla-mentare deve rafforzare la propria funzione di rappresentanzapopolare, specializzandosi nella fattura delle leggi e nel controllodell’esecutivo; l’uomo di governo deve invece saper gestire un’am-ministrazione complessa. O una cosa o l’altra.

Le ripropongo la domanda di prima: Lei pensa che queste sue ideedi riforma istituzionale convergano con quelle di Craxi?

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Le ho già risposto: non lo so, non conosco quale sia l’obiettivoche con la riforma i socialisti vogliono perseguire. Non l’hanno an -cora detto. Una cosa hanno detto: che allo stato attuale non ritengo-no di potersi alleare con il partito comunista e quindi voglionogovernare con noi. E poi hanno detto un’altra cosa: che quando itempi saranno maturi punteranno sull’alternativa, sul ricambio nellagestione del governo. Mi sembra un programma serio e coerente. Seanch’essi puntano a creare le condizioni dell’alternativa, il loro dise-gno di riforma istituzionale non dovrebbe essere troppo lontano dalnostro.

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bettino craxi

UNA DEMOCRAZIA GOVERNANTE*

* Parte dell’intervento nel dibattito per la fiducia al governo Spadolini, Camera dei depu-tati, 31 agosto 1982.

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Resistenze conservatrici si sono riaffacciate e si riaffacciano nellavita politica nazionale e ogni qual volta vengono posti i temi del rin-novamento. Che la situazione italiana soffrisse come soffre di unmancato adeguamento della vita istituzionale alle esigenze proprie diquella che è stata definita «una democrazia governante», ed ai pro-blemi nuovi posti dalla complessità crescente della moderna societàindustriale, giunta in Italia al suo stadio maturo, risulta evidente damolti anni. La richiesta rivolta alle forze politiche di applicarsi adindividuare ed attuare le linee di una «grande riforma» delle istitu-zioni non era una invenzione originale, un colpo di fantasia, una tro-vata fatta per evadere dalla realtà, e neppure un espediente pertogliere ossigeno, potere ed efficacia al sistema della democrazia sul -lo sfondo di una sottile e non dichiarata propensione autoritaria.

Tutto questo è stato detto e scritto in un polverone di sordità,incomprensioni, deliberati equivoci, ingiustificati allarmi. «La Costi-tuzione non si tocca», è stata la parola d’ordine dei conservatori, inquesto caso di vario colore, che ha finito con il sopravanzare le di -verse sensibilità che pure emergevano nel mondo politico e la rin-novata attenzione di circoli intellettuali di studiosi e di esperti. È inquesto ultimo ambito che si sono manifestati i più sicuri e più qua-lificati segnali di sostegno e di incoraggiamento rivolti alla iniziativasocialista che riprendeva il filo di una problematica che era stata già

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da tempo sottolineata con dovizia di argomenti, di proposte e diparagoni utili, senza per questo incontrare nessuna rimarchevoleudienza politica. E tuttavia la decadenza delle istituzioni era ed è unfatto reale, il logorio degli attuali meccanismi avvertito in modo sem-pre più evidente. La difficile governabilità, il dominio della lento-crazia, le inefficienze pubbliche accettate quasi con naturale rasse-gnazione, le irrazionalità e le irregolarità del lavoro parlamentare, lerotture delle regole del gioco, la intempestività dei processi decisio-nali, sono emersi sempre più agli occhi di tutti. Il problema delle isti-tuzioni e della loro riforma ha via via preso le dimensioni di una que-stione centrale. Ben inteso non si tratta della sola, ma la sua impor-tanza si irradia verso tutti gli aspetti della vita della società e dellavita democratica.

Ciò che qualche anno prima era stato motivo di scandalo è diven-tato ora motivo di impegno programmatico per la maggioranza par-lamentare e per il governo e motivo di confronto attuale e diretto trale forze politiche. Non so quanta parte di ciò che è contenuto nellapiattaforma programmatica dell’attuale governo potrà essere realiz-zata nel corso degli scorci di questa tentennante legislatura. Noiabbiamo approvato le proposte di merito e di metodo presentate dalgoverno e per parte nostra ci siamo impegnati a mettere a fuoco lefasi ulteriori e le linee concrete di attuazione e di riforma. Nonabbiamo considerato e non consideriamo le riforme istituzionali«una onorevole via d’uscita» buone per trovare comunque una solu-zione ad una crisi difficile. Esse rappresentano in realtà una delleprincipali «vie d’uscita» dalla crisi di inefficienza e sovente di para-lisi in cui si dibattono i poteri democratici.

Molte questioni sono ormai sul tappeto e debbono essere affron-tate e risolte. Un momento di approfondimento e di sintesi è statoper noi il seminario organizzato dalla Direzione del Partito svoltosia Trevi nei giorni scorsi. Le revisioni costituzionali possibili e neces-sarie, la correzione delle regole parlamentari, il perfezionamentodelle leggi elettorali, le riforme nella Pubblica Amministrazione enegli apparati pubblici, la riorganizzazione e i controlli nella finanzapubblica, la riforma degli ordinamenti locali, la revisione di istitutied organi come il referendum o l’inquirente, e l’introduzione di nuo -vi istituti di garanzia democratica come il difensore civico, sono stateconfermate come linee direttrici lungo le quali deve muoversi l’azio-ne di riforma e che insieme debbono convergere verso l’obbiettivoche ci proponiamo che è quello di ridare autorità, efficienza, respon-

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sabilità a tutto il sistema democratico. Abbiamo affrontato e affron-tiamo nodi spinosi con propositi chiari. Quello che, un po’ impru-dentemente e con notevole esagerazione, proprio un esponentedemocristiano aveva paragonato ad «un colpo di stato» continua adessere visto da noi esattamente nei termini descritti dal fondatoredella Democrazia Cristiana Don Luigi Sturzo che giudicava il votosegreto in Parlamento «il rifugio dei deboli, dei senza carattere, degliindisciplinati interiori che al di fuori fanno i conformisti senza digni-tà», ed aggiungeva: «L’Italia è ancora l’unico tra i paesi del mondoad aver questo cancro nel suo Parlamento». Non c’è da aggiungerenulla se non l’impegno a far sì che si pervenga presto ad introdurrealmeno una significativa correzione. Nel formulare la nostra propo-sta limitata alla introduzione di quella che viene chiamata nel Parla-mento britannico «la questione di governo», e cioè il diritto delgoverno di chiedere il voto palese sulle leggi ogni qual volta lo riten-ga necessario, abbiamo tenuto conto delle forti differenze esistenti inParlamento nella valutazione e nell’apprezzamento dell’istituto delvoto segreto. A questa riforma se ne affiancano altre necessarie perrendere più razionale il lavoro parlamentare. Un Parlamento inpreda a veti, ostruzionismi, colpi di mano coperti dal voto segretodiventa una area del trasformismo e consuma da se stesso il propriocredito e la propria autorità. Gli accordi su questo come su altrosono stati presi all’atto della formazione del governo: ora non restache rispettarli. I lavori per giungere ad una revisione costituzionaledovrebbero prendere l’avvio da una commissione bicamerale cheattende di essere costituita. Toccare la Costituzione non significarimuovere i principi che ne costituiscono l’ossatura etico-politica masemmai esaltarli attraverso una modifica delle strutture operative.L’idea generale che muove le nostre proposte è quella di un raffor-zamento di tutti i poteri democratici, delle loro autonomie, delleloro libertà, delle loro autorità.

Noi siamo perfettamente consapevoli che la materia deve essereaffrontata con tutta la cautela necessaria purché la si affronti senzaveli di pregiudizio, tattiche di rinvio, o peggio, riduzione del tutto apochi accorgimenti senza significato.

Siamo egualmente consapevoli della necessità di ricercare i piùlarghi accordi possibili, suggeriti dalla natura stessa dei problemi.

Si tratta quindi di riesaminare metodi di elezioni, struttura deipoteri, composizione degli organi, procedure e articolazioni funzio-nali.

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la documentazione - 4. assolo

L’elezione diretta da parte del popolo può rafforzare l’istituto delPresidente della Repubblica e cioè del Capo della Nazione che inte-ramente la rappresenta continuando ad esercitare la sua funzione diarbitro e di garante della vita istituzionale con il massimo grado diprestigio e di autorità che può conferirgli un sistema democratico.L’elezione diretta del Capo dello Stato dovrebbe essere accompa-gnata dalla riduzione dell’arco temporale del suo mandato e dall’e-ventuale limitazione del numero dei mandati conferibili. Dovrebbeessere rafforzata la posizione del Capo del governo attraverso ladiretta fiducia parlamentare nel quadro delle misure tese a rafforza-re il potere esecutivo.

Il rafforzamento appunto dell’esecutivo cui deve essere assicura-ta maggiore stabilità, maggiore agibilità di poteri, una migliore arti-colazione della sua struttura interna, resta un obiettivo di fonda-mentale importanza.

Il migliore funzionamento del Parlamento, la maggiore autoritàdel potere legislativo dovrebbero essere perseguiti attraverso unacorrezione dell’attuale sistema bicamerale «perfetto», mantenendo ilbicameralismo con diversa articolazione di funzionamento ed uneventuale intervento sulla stessa composizione numerica dei due ra -mi del Parlamento. Allo scopo di raggiungere una maggiore rappre-sentatività possono concorrere correzioni alle leggi elettorali acominciare dalle leggi per le elezioni dei senatori che presentano nonpochi aspetti contraddittori. Non v’è dubbio che l’atomizzazionedello schieramento partitico è uno degli elementi negativi del nostrosistema democratico. Conservare i caratteri di una democrazia plu-ralista non significa da un lato incoraggiare la proliferazione delleformazioni politiche e delle liste elettorali, ciascuna delle qualidovrebbe incontrare procedure più rigorose per il proprio accessoalle competizioni elettorali e dall’altro, scartata l’idea di livelli disbarramento, non dovrebbe escludere procedure che favorisconol’aggregazione e l’apparentamento di forze affini ma distinte.

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5. FUOR D’OPERA

Alla fine del 1982 il psi tiene a Trevi, in Umbria, un seminario aporte chiuse sulle riforme istituzionali. Oltre al gruppo dirigente delpartito e ai relatori della conferenza di Rimini vi partecipano nume-rosi altri studiosi, fra i quali Silvano Tosi e Alberto Spreafico.Amato, che a Rimini era assente perché impegnato in un anno sab-batico negli usa, prospetta per la prima volta un’ipotesi presidenzia-lista, che però non viene condivisa né da Craxi, né dalla maggioran-za dei presenti.

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giuliano amato

RAGIONI E TEMI DELLA RIFORMA ISTITUZIONALE*

* Seminario di Trevi, 16 ottobre 1982.

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1. La ragione prima e più profonda della riforma istituzionale nonè l’intento di propiziare un assetto politico piuttosto di un altro, ma èl’esigenza di corrispondere ai bisogni e alle domande di una societàche è cambiata. È una ragione, perciò, che si impone in eguale misu-ra al senso di responsabilità di tutte le forze politiche democratiche.La società italiana non è più la stessa del 1946 e non sono più gli stes-si i rapporti tra i partiti. Di fronte alle incertezze che av volgevano allo-ra il futuro della nostra convivenza democratica, i costituenti scelserouna organizzazione fondata su un patto di garanzia fra le parti politi-che; non sulla garanzia, offerta dal Paese, di un sistema di governoautorevole ed efficiente. Oggi è l’assenza di un sistema del genere chepuò mettere a repentaglio la solidità della convivenza democratica.Una società divenuta complessa e ricca di nuova vitalità non ha biso-gno soltanto di spazi e di garanzie di rappresentanza. Ha anche biso-gno di momenti di decisione e di sintesi nel governo dello Stato, del-l’economia e dei conflitti sociali; ed esige istituzioni che non compri-mano, ma anzi esaltino i principi di re sponsabilità e di efficienza erispondano con tempestività alle do mande sociali.

Immutato, rispetto a trent’anni fa, è il bisogno di giustizia e quin-di di istituzioni capaci di rimuovere gli ostacoli che impediscono unaeffettiva eguaglianza. Proprio per questo vanno riviste quelle istitu-zioni che, attraverso l’incrostazione di garantismi e di privilegi, sonodivenute esse stesse ostacoli da rimuovere.

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Stabilità, responsabilità ed efficienza nella vita istituzionale. Mo -ralizzazione della vita politica. Sono questi i fini che i socialisti indi-cano per adeguare le nostre istituzioni ad una società che dovrà esse-re nelle prossime decadi più competitiva e più giusta.

Per realizzarli, sei sono le aree prioritarie di riforma: le istituzionicentrali di governo, la Pubblica Amministrazione, la finanza pubbli-ca, le autonomie locali, il governo delle relazioni industriali, il refe-rendum e la tutela del cittadino.

Sono le aree in cui più si giocano le sorti della governabilità e pro-prio per questo non si ritiene di aggiungere ad esse quella dei pro-blemi della magistratura. La magistratura – come giustamente e con-cordemente è stato detto da autorevoli rappresentanti degli stessima gistrati – non ha, non vuole e non deve avere responsabilità ri -guardanti i processi e i contenuti delle attività di governo. È essaperciò a chiedere di essere considerata – secondo quanto dice la stes-sa Costituzione – come «ordine», non come «potere». I suoi pro-blemi sono quelli dell’ordinamento giudiziario, su cui, in apposita ediversa sede, i socialisti dovranno esprimersi con il massimo impe-gno; nonché quelli che potranno conseguire al nuovo codice di pro-cedura penale, di cui i socialisti sollecitano l’approvazione, con ilripristino del carattere accusatorio, che lo caratterizzava nelle fasiiniziali del suo faticosissimo iter.

Ci sarebbe poi, secondo molti, il tema dei partiti. È convinzionedei socialisti che sia pericoloso e sbagliato affrontarlo con una diret-ta disciplina del loro funzionamento e delle loro attività. La morali-tà della vita pubblica e il rispetto in essa degli interessi generali siconseguono con il rinvigorimento dell’autorità e dell’autonomiadelle istituzioni e con il rafforzamento degli organi che, sempre in se -de istituzionale, già assolvono a finalità di garanzia.

2. Per quanto riguarda le istituzioni centrali di governo, pregiudi-ziale ad ogni modifica intesa a dare snellezza ai lavori e tempestivitàalle decisioni, è la garanzia di maggioranze più stabili e per ciò stes-so capaci di perseguire indirizzi durevoli.

È semplicistico e pericoloso cercare oggi in Italia tale garanzia indrastiche modificazioni, volte a riallineare rigidamente le forze poli-tiche intorno a due poli e a concentrare così il potere di governo inun capo dell’Esecutivo, sorretto da un mandato maggioritario. Inpresenza di un pluralismo tuttora radicato, modificazioni del genere

la documentazione - 5. fuor d’opera

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non solo sono irrealizzabili, ma corrono comunque il rischio o di fal-lire nel loro intento, o di realizzarlo con una concentrazione di auto-rità, che andrebbe in direzione opposta rispetto alle esigenze di unasocietà, che alle istituzioni chiede la garanzia di un potere efficiente,non il dominio di un potere autoritario.

Inadeguati sono per converso espedienti pur apprezzabili come ilpatto di legislatura: utile per rendere più chiari impegni e responsa-bilità, ma facilmente svuotabile nei fatti, con l’aggiunta di far dive-nire traumatiche le conseguenze di qualunque evoluzione politico-parlamentare. Le innovazioni necessarie sono meno drastiche di unsalto di sistema, ma più coraggiose e articolate di un mero ricorsoalla volontà pattizia dei suoi protagonisti politici. A questi protago-nisti occorre dare regole del gioco, che, senza trasformarsi in cami-cie di forza, impongano loro responsabilità più solide e più traspa-renti. Allo stesso tempo occorre rafforzare gli istituti che già nell’e-sperienza trascorsa hanno rivelato il potenziale di garanzia più ele-vato a favore della stabilità. Su queste premesse, tre innovazioni, dicui va pregiudizialmente sottolineata la complementarità, si racco-mandano al di sopra di tutte:

– la prima è il rafforzamento e una più solida legittimazione delruolo di garanzia del Capo dello Stato, attraverso la sua elezione diret-ta nel permanere dei poteri attuali;

– la seconda è il contestuale rafforzamento, in seno al governo,dello stesso Presidente del Consiglio, attraverso la riserva della fidu-cia parlamentare a lui soltanto e non anche ai ministri;

– la terza è la mozione di sfiducia costruttiva.

2.1. Eletto direttamente dal popolo e fermi restando i suoi pote-ri attuali, il Capo dello Stato avrebbe maggiore forza e maggioreautorità, non per sostituirsi al circuito governo-Parlamento-partiti,ma per garantirne il corretto funzionamento nel duplice senso in cuipiù di tutti ha dimostrato di saperlo assicurare il Presidente Pertini:da un lato evitandone le interruzioni immotivate e rimettendolo inmoto nelle stesse situazioni in cui la volontà dei partiti, lasciata a sestessa, non produrrebbe le pur possibili ricuciture nei tempi neces-sari; dall’altro utilizzando i suoi poteri di intervento e di freno con-tro gli inquinamenti e le prevaricazioni di parte, che sono la malat-tia endemica del nostro sistema politico.

Una figura del genere non sarebbe un potenziale attentato per lademocrazia parlamentare, in quanto non avrebbe i poteri ecceziona-

giuliano amato - «ragioni e temi della riforma istituzionale»

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li del Presidente di Weimar; come in altri sistemi europei, da quelloaustriaco a quello portoghese, esprimerebbe una efficace integrazio-ne della democrazia parlamentare, facendo risalire alla volontà popo-lare, tanto i protagonisti politici, quanto il garante della vita politico-istituzionale. Si aggiunga a tutto questo la dinamica nuova, ed essastessa stabilizzante, che verrebbe introdotta nei rapporti fra i partiti,grazie all’elezione diretta del Presidente: un’elezione da effettuarsiin due turni, con coincidenza del secondo turno con le elezioni par-lamentari (in quanto queste avvengano alle scadenze fisiologiche),per un mandato opportunamente ridotto a cinque anni.

2.2. La stabilità, garantita dal Capo dello Stato con l’esercizioquotidiano e flessibile della sua autorità, poggia anche sull’autore-volezza del Presidente del Consiglio in seno all’Esecutivo e sulla tra-sparenza dei rapporti fra questo e la maggioranza parlamentare. Perrendere più autorevole il Presidente del Consiglio ed anche alloscopo di mantenere gli opportuni equilibri al vertice dello Stato,diviene complementare alla elezione diretta del Capo dello Stato ilrafforzamento dell’investitura dello stesso Presidente del Consiglio,adottando la formula della fiducia votata dalle Camere soltanto neisuoi confronti.

Per rendere più trasparenti i rapporti fra Esecutivo e maggioran-za parlamentare, va introdotta la mozione di sfiducia costruttiva, unistituto al quale è ben possibile ricondurre le stesse crisi extra-parla-mentari, erroneamente considerate il suo tallone d’Achille. In casodi crisi extra-parlamentare, infatti, il Capo dello Stato procederà alladesignazione di un nuovo Presidente del Consiglio entro un terminedefinito, alla scadenza del quale le Camere dovranno comunque e -sprimersi: o voteranno la fiducia al Presidente designato, o sarannosuscettibili di scioglimento. Si avrà così un efficace deterrente con-tro gli episodi di irresponsabilità parlamentare e, in quanto questi siverifichino, si potrà contare sulla accresciuta autorità del Capo delloStato perché la ghigliottina dello scioglimento scatti solo quandonon ci sono soluzioni di ricambio (il che dimostra, fra l’altro, chenon c’è alcuna contraddizione fra l’elezione diretta del Capo delloStato e l’introduzione della sfiducia costruttiva).

2.3. Sulla base di queste pregiudiziali modifiche, possono espli-care tutta la loro efficacia quelle, da tempo discusse e maturate, inte-se a migliorare la legislazione elettorale, a rendere più snelli i lavori

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e più tempestive le decisioni del Parlamento, a dare una maggiorefunzionalità all’Esecutivo.

Per quanto riguarda la legislazione elettorale, un consistente con-tributo alla qualificazione del personale parlamentare e alla moraliz-zazione della vita politica potrà venire dalla creazione di un effettivoCollegio Unico Nazionale (in cui vengano eletti candidati presentatisu apposite liste nazionali) mentre, per il Senato, è ormai tempo diabbandonare la finzione (e gli effetti arbitrari) dei collegi uninomina-li e di passare direttamente a elezioni regionali con lista bloccata conassegnazione dei seggi non più ai quozienti successivi, ma ai quozientialternati, in modo da correggere le forti sperequazioni attuali.

Per quanto riguarda le Camere, al di là delle modificazioni rego-lamentari in corso di esame (creazione di corsie preferenziali, allar-gamento della sede redigente, attenuazione del voto segreto, sessio-ne di bilancio a tempi rigidi), c’è ormai un ampio consenso per l’ab-bandono dell’attuale bicameralismo paritario. L’innovazione piùcondivisa è la specializzazione funzionale delle due Camere, da rea-lizzare rendendo monocamerale la legislazione minore, salvo richia-mo, lasciando a procedure bicamerali le leggi di particolare impor-tanza (tassativamente indicate come tali) e concentrando nella se -conda Camera l’attività di controllo per la quale potrà essere utiliz-zato e valorizzato il cnel, come struttura tecnica ausiliaria. In questomodo si avranno anche le premesse per la riduzione del numero deiparlamentari, che potrebbero suddividersi in numero pari, ad es.400, fra le due Camere.

Per quanto riguarda l’Esecutivo, il rafforzamento della investiturapolitica del Presidente del Consiglio e la stessa migliore struttura-zione della Presidenza possono rivelarsi inadeguate, ove non si pro-ceda contestualmente a rendere meglio coordinabile l’attuale conge-rie delle attività di governo. È perciò sullo stesso Consiglio dei mini-stri che occorre lavorare, allo scopo di affiancare il Presidente conun organo collegiale non dispersivo, in grado di mettere a fuoco e digestire efficaci indirizzi di governo.

Due sono le strade che si possono seguire a tal fine: o sfoltire lecompetenze del Consiglio, con restituzione delle questioni più mi -nute alla responsabilità, individuale o di concerto, dei soli ministri;o procedere – come in Inghilterra e in Germania – alla suddistinzio-ne dei ministri in base all’importanza politica dei rispettivi dicasteri,riservando solo ad una parte di essi la partecipazione al collegio, chediverrebbe con ciò una sorta di consiglio di gabinetto.

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In ambo i casi il risultato ottenuto sarebbe quello di concentrarel’organo collegiale di governo sulle questioni più rilevanti per la poli-tica generale.

2.4. La riforma delle istituzioni politiche non sarebbe completasenza la revisione dei giudizi di accusa, essenziali, insieme al ruolo digaranzia del Capo dello Stato e alle proposte modifiche elettorali, perassicurare la moralità della vita politica. La riforma, ad avviso deisocialisti, deve ispirarsi al duplice fine di liberare il Parlamento da unruolo istruttorio che non gli è proprio e di assicurare, allo stessotempo, un giudizio che non privi l’imputato dei mezzi non solo didifesa, ma anche di ricorso di cui dispone il comune cittadino. Perquesto la nuova disciplina dovrà essere articolata in tre momenti: l’au-torizzazione a procedere, in cui si esaurirà l’intervento, più limitato epiù pertinente, del Parlamento (con autorizzazione affidata al Senatoper i ministri non parlamentari); il giudizio di primo grado davanti algiudice ordinario, identificato nella Corte di Cassazione; il giudiziodella Corte Costituzionale configurato come giudizio di appello.

3. La stabilità e l’efficienza delle istituzioni politiche sono la con-dizione oggi necessaria per dare uno sbocco operativo alle iniziativedi riforma della Pubblica Amministrazione, che da troppo temposono ferme alle soglie della decisione. D’altra parte, lo stesso miglio-ramento delle istituzioni politiche sarebbe largamente frustrato, senon si accompagnasse ad una migliore funzionalità dell’«aziendaStato», nella quale i socialisti vedono il completamento imprescindi-bile delle prospettate riforme dell’Esecutivo.

L’azienda Stato, nelle sue diverse articolazioni e tenendo ancheconto degli enti pubblici e degli enti locali, è oggi il principale dato-re del lavoro del Paese: ha circa quattro milioni di occupati, quasi il20% dell’intera forza lavoro. Se così è, l’azione di riforma è in primoluogo necessaria per introdurre in un’azienda di tali dimensioni iprincipi, oggi mortificati, di professionalità, mobilità e responsabilità.Non farlo, è uno spreco sempre più costoso, che grava sulla finanzapubblica, sui cittadini-utenti dei servizi, sullo stesso personale.

È pertanto l’introduzione degli indicati principi il filo conduttoreche i socialisti indicano per il riordinamento dei ministeri e delleaziende pubbliche, per la riforma dei servizi, per la legge-quadro sulpersonale: momenti tutti essenziali – e da tempo sull’agenda – della

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riforma amministrativa, che tuttavia difficilmente troveranno unosbocco, se non saranno sorretti da questa comune ispirazione, cherisponde più di ogni altra ai bisogni della nostra società.

Ciò significa: – orientare il riordinamento dei ministeri, non tanto sulla base di

astratti raggruppamenti, ma in modo piuttosto da superare la par-cellizzazione di competenze, tanto fra Amministrazioni, quanto fra isingoli uffici, che impediscono l’attribuzione e l’esercizio di definiteresponsabilità e la valorizzazione delle qualità professionali. Piùancora del numero dei ministri, interessa l’organicità delle compe-tenze che possono far capo a ciascuno e quella delle loro interneripartizioni;

– provvedere alla riorganizzazione delle aziende pubbliche, e allariconduzione alla formula dell’azienda pubblica, allo scopo di dis-tricare l’attività di indirizzo governativo da quella di gestione, inmodo che emergano con trasparenza, e siano concretamente eserci-tabili le responsabilità rispettive;

– salvaguardare il principio degli accordi collettivi nel pubblicoimpiego, che è la premessa necessaria della pur faticosa ricomposi-zione categoriale, nella prospettiva di progressive unificazioni deiruoli e, quindi, dei processi di mobilità che questi potranno consen-tire;

– distinguere le funzioni rispetto alle quali la responsabilizzazio-ne del personale esige il rapporto di impiego pubblico – in partico-lare le funzioni dirigenti – da quelle a cui, allo stesso scopo, più siattagliano rapporti di tipo privatistico, secondo una indicazione op -portunamente fornita dal rapporto Giannini;

– andando oltre sulla medesima strada, identificare i servizi la cuierogazione per ragioni di economicità e di efficienza, potrà essereaffidata a forme di gestione collettiva e cooperativa. È questa una pro-spettiva che si apre nei servizi locali, nei servizi sociali, e in partico-lare in quelli sanitari, anche sulla base di esperienze straniere già inatto. Quando il reddito stesso degli erogatori viene a dipendere invia diretta dalle condizioni di economicità in cui il servizio è gestito,c’è l’antidoto più efficace contro la lievitazione dei costi e la buro-cratizzazione dei processi. Ed è forse questa l’unica strada per evita-re che l’intervento statale – com’è stato detto – distrugga le condi-zioni della sua realizzazione;

– adeguare gli organi di consulenza e di controllo dell’Ammini-strazione al fine di accrescere la effettiva responsabilizzazione e la

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efficienza nella gestione dei servizi. Ciò comporta la revisione strut-turale della Corte dei Conti e l’abbandono del controllo preventivoatto per atto a favore del controllo gestionale, nonché, per il Consi-glio di Stato, la rigida separazione tra funzioni giurisdizionali e fun-zioni di consulenza.

4. Nel settore della finanza pubblica occorre una disciplina piùrigorosa, che possa garantire una spesa più controllata, più respon-sabile e più egualitaria di quella che ci ha travolto negli ultimi anni.Va dotato il governo di strumenti meno sussultori per gli interventicongiunturali, come i cambiamenti di aliquote, soggetti ogni volta adecisione parlamentare. Va modificato l’art. 81 della Costituzione,imponendo vincoli più specifici alla approvazione delle leggi dispesa, in modo da assicurare: a) coperture non fittizie e fondate suuna motivata e analitica previsione degli andamenti di spesa futura;b) coperture con indebitamento per le sole spese di investimento. Laspesa sociale va nel suo insieme rivista, rimuovendo i molteplici econtraddittori titoli di legittimazione, che si sono venuti stratifican-do nei decenni e che hanno dato luogo a babeliche diseguaglianze,ad onta dello «stato di bisogno», a cui la Costituzione la voleva anco-rata. Tanto per la destinazione dei trasferimenti che per la distribu-zione non remunerativa dei servizi occorrerà far capo, non più a pri-vilegianti garantismi, ma una scala, certa e trasparente, delle situa-zioni di bisogno.

La spesa locale va resa responsabile, riconducendo il più possibi-le ad unità il potere di deliberare le spese e il dovere di trovare imezzi per farvi fronte. Ciò comporta, da un lato la sostituzione del-l’attuale, generalizzata copertura statale delle spese locali con unacopertura, che si limiti ad assicurare standard minimi di necessariaeguaglianza nella erogazione dei servizi locali: il resto, ciascun entelocale dovrà trovarlo da sé, rispondendone ai propri elettori; dall’al-tro lato la garanzia statale di adeguati conguagli, quando la legge delParlamento imponga alle Regioni e ai Comuni spese aggiuntive osottragga loro delle entrate.

5. Autonomie locali più responsabilità saranno l’effetto, in primoluogo, delle indicate innovazioni finanziarie. È inutile nascondere,però, che al medesimo fine potrà anche concorrere una revisione dei

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controlli. Dal controllo burocratico e talora discriminante dei prefettisi è passati, dopo la nascita delle Regioni, a un controllo parapolitico,esercitato al di fuori di visibili responsabilità e in modi che peccanotalora di lassismo, talora, all’opposto, di irrigidimenti non motivati. Èquesto un tema su cui lavorare, nell’ambito di una generale revisionedel sistema dei controlli, che non si è adeguato alla evoluzione delleattività pubbliche e che va anche ripensato, a valle nei confronti adesempio delle Unità Sanitarie Locali, a monte nei confronti delleRegioni e – come già si è detto – nei confronti dello stesso Stato.

C’è poi il problema dell’efficienza, che passa pregiudizialmenteper una più adeguata definizione dei livelli di governo locale, delledimensioni minime di ciascuno, delle rispettive funzioni. Sono temisu cui da tempo i socialisti hanno presentato le loro proposte e suiquali la messa a fuoco delle priorità potrà opportunamente avvenirenella assise dei nostri amministratori locali.

6. Il governo delle relazioni industriali e dei conflitti sociali nonpuò più essere lasciato a una Costituzione inattuata e a una prassisempre più complessa, ma sempre più povera di sedi, dotate di tra-sparenti responsabilità e di coerente capacità di decisione.

Se il sistema di contrattazione delineato nell’art. 39 è ormai inat-tuale, è tempo di identificare, sulla base dell’esperienza trascorsa, iprincipi su cui possa reggersi una contrattazione, che garantiscadistinte responsabilità ai diversi livelli, democraticità di procedure,certezze ai lavoratori e agli imprenditori interessati, con soluzionieventualmente distinte per il settore pubblico e per quello privato,nell’unità dei principi.

Così pure, se l’art. 40 è un compromesso ormai superato nella suairrisolta ambivalenza, occorre dare allo sciopero la configurazioneche oggi gli manca e ai sindacati l’autorità e la responsabilità neces-sarie per assicurarne un corretto esercizio.

Infine, se superato è anche l’art. 46 sui consigli di gestione, lamaturazione a cui è giunta, in Italia e in sede comunitaria, la que-stione degli strumenti e delle procedure per la partecipazione deilavoratori al governo dell’impresa, consente una riscrittura dello stes-so articolo, che lo renda attuale e concretamente operativo.

Toccherà ai sindacalisti socialisti la messa a fuoco delle nostre pro-poste sui temi indicati.

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7. Nell’ordinamento democratico, la garanzia di decisioni politi-che e amministrative rispondenti ai bisogni non è fornita soltanto daimeccanismi attraverso i quali le stesse decisioni sono adottate. Nonmeno importanti sono gli strumenti a disposizione del cittadino percontrastare le decisioni che ritiene sbagliate e per ottenere la rimo-zione degli ostacoli e delle negligenti inadempienze che impedisco-no la sollecita adozione delle decisioni giuste. Fra tali strumenti, duemeritano prioritaria attenzione in sede di riforma istituzionale, inuna sede, perciò, che può sottoporre a revisione quelli esistenti, cosìcome può introdurre quelli ancora mancanti: il referendum e il di -fensore civico.

Il referendum va adeguato ai tempi, sottolineandone il carattere diverifica popolare su singole e definite decisioni legislative e renden-do più trasparenti e sollecite le procedure preparatorie. A questi finisi impone una riscrittura dell’art. 75 della Costituzione, intesa adaggiornare il quorum dei richiedenti, a dettare una disciplina piùanalitica e più garantista per la raccolta delle firme e per la defini-zione dei quesiti, a meglio definire i tempi e i criteri del giudizio diammissibilità della Corte Costituzionale.

Il difensore civico è un istituto già sperimentato in sede regionale,che ha una sua specifica utilità al fianco degli istituti di giustiziaamministrativa. Non regge l’obiezione che ritiene esaurite da questiultimi le esigenze di tutela dei cittadini, giacché non tutti ricorronoin giudizio e non tutti i motivi di doglianza possono essere fatti vale-re in giudizio. Vi sono categorie di interessati – o loro rappresentan-ze – che solo in una sede non vincolata al rigore procedurale dellagiustizia amministrativa possono veder soddisfatte le istanze di tra-sparenza e di efficienza di un’azione pubblica sempre più estesa. Ildifensore civico, dotato di adeguati poteri di ispezione e di impulsonei confronti degli apparati amministrativi, può provvedere con effi-cacia a tal fine.

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6. SVOLTA

Alla fine del 1987 Achille Occhetto sostituisce Alessandro Nattaalla segreteria del pci. Nella relazione al Comitato centrale rovesciala tradizionale posizione del suo partito sulle riforme istituzionali.Secondo Andrea Romano, da allora per il nuovo gruppo dirigentecomunista la questione non fu più «cosa fare dell’Italia, o megliocosa fare del pci nel governo dell’Italia, ma come rimodellare le rego-le e le istituzioni del paese per permettere al pci di entrare con la suaintegrità identitaria nel vero gioco elettorale», mescolando così «ilnuovo della riforma elettorale con il vecchio dell’identità comunistaed evitando a tutto il partito di ripensare la propria ragion d’essere»(A. Romano, Compagni di scuola, Milano, 2007, p. 63).

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achille occhetto

RELAZIONE AL COMITATO CENTRALE DEL PCI*

* «l’Unità», 26 novembre 1987.

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La crisi del sistema politico ha al suo centro l’esaurirsi di quellaconcezione della «democrazia consociativa» che non è nostra, mache ha dominato il pensiero politico e l’azione della dc; cioè quellaparticolare concezione che ha fatto della cooptazione nell’«areademocratica», di cui la dc stessa si considerava il centro inamovibi-le, la risposta alle forti spinte sociali e politiche che hanno caratte-rizzato la scena italiana nello scorso quarantennio.

poste le premesse del cambiamento politico

È chiaro che ormai da alcuni anni siamo giunti a un punto criticodi quella fase di allargamento progressivo delle basi democratichedello Stato nel corso della quale sia noi, all’opposizione, che la dc, algoverno, nel vivo di uno scontro aperto e acutissimo, abbiamo co -munque avuto la capacità e la possibilità di guidare e di valorizzare,di controllare e di mantenere quella tensione sociale e politica nelcontesto di un rafforzamento di tutto il quadro democratico. Un taleprocesso è stato possibile, deve essere chiaro, anche grazie alle seve-re sconfitte che sono state inferte, per merito principale del nostroforte impegno di lotta, alle tendenze conservatrici operanti nellastessa dc e ai veri e propri tentativi reazionari che, in vari momenti,si è cercato di mettere in atto da parte di poteri palesi e occulti.

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Nel quadro di questo confronto l’intelligenza e il realismo politi-co dell’ispirazione togliattiana è consistito nel non porre allora sultappeto la questione del governo nei termini di una alternativa alladc, ma di combatterne apertamente e nei fatti lo strapotere, attra-verso aspri scontri e duttili battaglie che ne hanno logorato l’egemo-nia; e tutto ciò lo si è fatto con efficacia proprio perché si è saputoporre all’ordine del giorno della politica italiana un tema ben piùfecondo: quello dell’allargamento delle basi democratiche delloStato in vista della partecipazione unitaria delle masse popolari algoverno del paese. Questa battaglia, che ha segnato la storia italianae ha posto le vere premesse del declino della centralità democristia-na, è stata condotta lungo un ampio fronte che andava dalla que-stione meridionale e contadina alla lotta contro la clericalizzazionedello Stato, della scuola e della cultura, ha avuto una grande influen-za, oltre che politica, anche culturale, e ha trascinato con sé, al di làdella nostra stessa forza numerica, le componenti più avvertite dellacultura italiana e gli elementi più avanzati della stessa area «demo-cratico-borghese».

È proprio nel contesto di quella complessiva strategia che il pciha potuto favorire, almeno inizialmente, sulla base di precise condi-zioni programmatiche riformatrici, l’apertura a sinistra, consideran-do la partecipazione del psi alle prime esperienze dei governi di cen-tro-sinistra come la conquista di un terreno di lotta più avanzato.Non c’è dubbio che questa linea, pur con tutte le sue contraddizio-ni, incertezze, e anche chiusure nostre, è stata contrassegnata dasignificativi successi del pci, che in certi momenti si sono identifica-ti con i successi della nostra stessa democrazia, con gli sviluppi posi-tivi della società italiana e della sua modernizzazione.

In questo senso possiamo rivendicare a noi il merito di avere, sualcune questioni decisive per l’avvenire del paese, governato anchestando all’opposizione e di avere nello stesso tempo, con la fermez-za e decisione nella lotta contro tutto uno sviluppo distorto, squili-brato e socialmente ingiusto, posto le premesse per un cambiamen-to della direzione politica del paese, che hanno avuto nel ’75 e nel’76 il loro punto culminante.

Si può forse dire che la proposta di compromesso storico è statoil tentativo, l’ultima grande politica, voluta e dispiegata da EnricoBerlinguer, che mirava a portare fino alle estreme conseguenze ilprocesso di allargamento della democrazia, delle sue basi sociali epolitiche, e che al tempo stesso tendeva, su quelle basi politiche, a

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realizzare, attraverso un profondo rinnovamento degli stessi partiti,un processo di trasformazione del paese.

Sta di fatto però che per i limiti politici entro i quali nasceva, eanche, bisogna ricordarlo, per lo spregiudicato uso del terrorismo,l’esperienza di solidarietà nazionale si è tutta risolta nella difesa delleconquiste democratiche raggiunte e, pur avendo fatto maturare iltema della piena «legittimazione» del pci a partecipare al governodel paese, non è stata in grado di avviare un processo di trasforma-zione del paese.

In tal modo, però, un’intera fase della nostra storia giungeva alsuo punto di esaurimento: a questa rottura dobbiamo saper guarda-re con chiarezza e senza infingimenti.

Dobbiamo infatti sapere che è alle nostre spalle proprio quell’i-dea dell’incontro tra le grandi forze politiche del paese, quell’ideache fosse necessario e sufficiente il loro incontro a produrre rinno-vamento. Tutto ciò è ormai passato e irripetibile per le novità strut-turali maturate nella società e nel rapporto tra società e partiti.

Qual è stato il primo, evidente segnale che si stava entrando inuna fase diversa?

Ricordiamo tutti la famosa frase pronunciata dai compagni socia-listi dopo le elezioni del 1976: «Noi scrolliamo l’albero e altri rac-colgono i frutti». A parte la validità di quella espressione rispettoalla valutazione su chi avesse avuto il merito maggiore nello scuote-re il vecchio tronco del sistema di potere democristiano, e a parte lalegittimità, da noi mai contestata, della ricerca di un nuovo spaziopolitico da parte del psi, è del tutto evidente che quel partito avver-tiva la necessità di avviare una esperienza del tutto inedita, che si èdiretta, progressivamente, alla ricerca, a volte persino affannosa, diun cambiamento nei tradizionali rapporti fra i partiti e delle consue-tudini che avevano sino ad allora regolato il funzionamento del siste-ma politico.

Dobbiamo riconoscerlo: questa rinnovata iniziativa della politicasocialista ci sorprese, in una certa misura ci colse impreparati; nelsenso che abbiamo avuto delle esitazioni a capire che andavamoverso un cambiamento di fase. Essa ha messo perciò a nudo elementidi lentezza politica e programmatica e un nostro attardarci in unavisione delle condizioni della lotta politica italiana che era, ormai, altramonto.

Nello stesso tempo questo nostro mancato aggiornamento si ri -fletteva, al di là delle intenzioni dei gruppi dirigenti, in un ripiega-

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mento talora settario, alimentato dalla recriminazione per la rottura,da parte del psi, dell’unità della sinistra.

Oggi si tratta di superare, estirpandone le radici, i motivi di unavecchia polemica, ricollocando le ragioni della autonomia del psi e leragioni, se ci è consentito, della autonomia del pci, all’interno di unaprospettiva diversa.

Del resto, già la proposta dell’alternativa democratica, avanzatada Berlinguer a Salerno, interveniva attivamente nella novità dellasituazione, anche se ha rischiato e talora è stata effettivamente inter-pretata come una proposta che rimaneva all’interno di una vecchiavisione dello schieramento politico italiano, come una proposta chenon prendeva compiutamente atto degli elementi di rottura e di verae propria discontinuità che si erano oggettivamente determinati eche subivano una accelerazione ad opera della iniziativa socialista.

Da ciò sono derivate molte delle nostre difficoltà, a causa di ciòabbiamo corso il rischio di rimanere imprigionati in una posizioneche poteva apparire oggettivamente conservatrice, nobilmente con-servatrice, di tenuta e di garanzia di una democrazia che è in soffe-renza, che resta un punto forte dello sviluppo storico del nostropaese, ma che tuttavia non sarebbe facilmente ed efficacemente sal-vaguardata da un atteggiamento puramente difensivo.

Se allora si vuole comprendere tutta la portata della scelta cuisiamo di fronte occorre prendere atto che è andata in crisi una visio-ne del rinnovamento politico come graduale e progressivo allarga-mento delle basi dello Stato democratico da perseguire attraversosuccessive formule di governo (centrismo, apertura a sinistra, cen-trosinistra, solidarietà nazionale).

Appare dunque con sempre maggiore chiarezza che per nonlasciare spazio a soluzioni regressive della crisi del sistema politicooccorre, da parte nostra, la forza di andare avanti segnando, rispet-to a quel passato, un salto di qualità e un vero e proprio mutamen-to di ottica. In primo luogo rispetto a noi stessi, rispetto al nostromodo di intendere e di essere nella politica italiana.

Occorre dunque, da parte nostra, introdurre un elemento di di -scontinuità, si è detto da molte parti. Ma quale discontinuità? Eccoil punto su cui occorre fare chiarezza. Alcune cose in questi anni – esoprattutto al Congresso di Firenze – le abbiamo dette e rispondono ai problemi posti dall’esaurirsi di quella lunga stagione politica.E però, vorrei dire che le fondamentali difficoltà nella interpretazio-ne e applicazione creativa delle scelte del Congresso di Firenze deri-

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vano dal non aver colto tutto ciò che lì veniva a definire una svoltarispetto al vecchio modo di essere del sistema politico (e quindi lastessa scelta programmatica si riduceva ad una banalità).

Per farlo occorre comprendere sino in fondo che cosa vuole direche è andata in crisi la politica delle formule.

Vuol dire che le alleanze politiche non possono essere il fine, mail mezzo e la conseguenza delle scelte politiche. Questa è la ragionepiù intima del primato dei programmi sugli schieramenti, che vuoleessere una risposta al progressivo distacco tra politica e società.

Questo porta a subordinare le alleanze alla coerenza programma-tica e progettuale. Il programma, il progetto è la leva e la misuradelle alleanze sociali e politiche. Alleanze sociali e politiche che de -vono essere effettive, cioè con soggetti specifici, portatori di valorispecifici e interessati in modo autonomo ai contenuti del progetto, èsu questa base che si debbono poi produrre ipotesi di governo chesi confrontino e competano apertamente.

Non ci troviamo solo dinnanzi a una questione di metodo. Il paeseè già dominato, grazie all’attuale crisi del sistema politico, da unaforma di illegalità diffusa, da un pericoloso vuoto di poteri. Vo gliofare un esempio, che è oltretutto di grande rilievo anche perché nellaprossima primavera saremo chiamati a fronteggiare un impegnativoturno di elezioni amministrative parziali. La situazione di crisi per-manente ed endemica in cui versano gli Enti locali è di fatto unaforma di abdicazione del potere politico e di esaltazione dei poteripalesi e occulti dei potentati economici e, in alcune parti del paese,della mafia e della camorra. In questa situazione, la rigida fedeltà allapolitica delle formule diventa fattore di ingovernabilità e di decom-posizione del tessuto democratico del sistema delle autonomie.

Ciò vuol dire, molto semplicemente, che il rigoroso riferimento aiprogrammi e alle forze disponibili ad attuarli, diventa da anomaliaun vero e proprio dovere democratico verso le comunità locali, pur-ché, beninteso, non si vogliano coprire con le giunte di programma,in modo surrettizio, meri giochi di potere. Sta di fatto che non pos-siamo non porci con urgenza e responsabilità democratica il proble-ma della stabilità del governo locale, anche attraverso una riflessio-ne sulle opportune riforme istituzionali, di cui parlerò tra breve.

Il punto fondamentale, comunque, è che, non solo a livello loca-le ma sul piano nazionale, siamo entrati in una fase in cui occorregovernare più ancora che mediare. In cui occorre dare slancio edefficacia a una nuova capacità di governo democratico.

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È dunque vero che esiste oggi un problema di governabilità, main proposito si deve essere tutti consapevoli che con il pentapartito,da un lato, per volontà preminente della dc, si è andati a un irrigidi-mento e a un blocco ulteriore della dinamica politica, dall’altro, adopera soprattutto del psi, tutte le coordinate del vecchio sistemapolitico sono state sottoposte a tensione, a rottura: si sono colpite lelarghe alleanze sociali e politiche e il metodo della mediazione, apartire dal decreto sulla scala mobile; sono state compromesse, in -somma, le basi della vecchia «governabilità» ma non ne sono stategettate di nuove.

Il psi ha intuito l’esaurirsi di una politica, ha colto la ripresa deiceti forti, ha percepito come tale ripresa premeva contro la vecchiapolitica e ha dato espressione a tutto ciò (di qui la sua forza).

Solo che il psi stesso, scegliendo di chiudere la sua politica all’in-terno dell’area moderata, adoperando i meccanismi del vecchio si -stema politico per rovesciarli, ha avuto una funzione di destruttura-zione e non di rinnovamento della nostra democrazia.

Ma, ripeto, per rispondere a tutto ciò con efficacia occorre com-prendere che non è più sufficiente attestarsi su una posizione dimera difesa dello status quo che non garantirebbe neppure la salva-guardia reale dei principi fondamentali che si vogliono preservare. Ilproblema del chiaro riconoscimento del punto di svolta, e cioè l’esi-genza di render conto e di fondare le novità della nostra elaborazio-ne e collocazione in modo netto (e cioè di rendere visibili i presup-posti che stanno alla base della rottura con posizioni del passato) èun tema che è perciò centrale per la vita politica del paese (sia all’in-terno che all’esterno del partito).

Nello stesso tempo la necessità di aprire una fase nuova nella sto-ria della Repubblica ci è sollecitata non soltanto dai processi politi-ci, ma anche dai grandi mutamenti economici, sociali e culturali checaratterizzano l’intero Occidente e attraversano anche il nostro pae -se, cioè da quell’insieme di mutamenti, che, come vedremo in segui-to, non sono riducibili a mere variazioni quantitative all’interno diun modello sociale e produttivo consolidato, e che si configuranocome una vera e propria trasformazione progressiva del «modelloso ciale industriale» che a lungo ha contraddistinto lo sviluppo del-l’Italia.

L’insieme della situazione attuale ci dice che siamo a un discrimi-ne tra destrutturazione e rinnovamento del sistema politico, tra de -regulation e nuove regole in economia, tra ruolo subalterno dello

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Stato e nuovi rapporti tra pubblico e privato; tra smantellamento eriforma dello Stato sociale.

Queste sono alcune delle grandi opzioni che dividono il paese inprogressisti e conservatori. Al centro di queste opzioni si colloca lariforma dello Stato e del sistema politico.

L’alternativa è perciò il movimento politico reale che apre la stra-da a un nuovo rapporto tra i partiti e tra questi e la società.

La scelta in gran parte nuova che intendiamo fare con questariunione del cc e della ccc consiste nel presentare un terreno nuovodi intervento politico e legislativo volto a porre contestualmente leproposte di riforma dello Stato e del sistema politico, superandoposizioni di mero difensivismo.

La forza di un simile approccio al problema istituzionale è chequesto non viene concepito come lo strumento di una particolarestrategia o di una determinata formula o schieramento.

La nostra visione dei problemi istituzionali rimane saldamenteancorata alla necessità generale di un superamento dell’attuale crisidel sistema democratico ed è guidata dall’obiettivo di introdurrequelle novità e quei mutamenti in grado di ristabilire un più vitalerapporto tra il sistema politico e il paese, dando soluzione alle esi-genze di trasparenza e di decisione.

Lo abbiamo detto in altra occasione e lo ripetiamo: i gravi limitidella democrazia italiana non dipendono solo dalla convenzione perescludere i comunisti, dato, certo, di irriducibile gravità. Ci trovia-mo in realtà di fronte a qualcosa di più ampio, che ha dimensioninazionali e internazionali e che richiede un riesame di tutti gli stru-menti della democrazia.

una riforma che rafforzi lo stato sociale

Ma, nella società italiana, la situazione è di particolare gravità. Iltema generale che dobbiamo porre è innanzitutto quello della pie-nezza della possibilità e della libertà stessa di poter esercitare alcunifondamentali diritti democratici. Ciò richiede una riforma delloStato, del rapporto tra politica e amministrazione (ecco il centro del -la questione morale), dei criteri che presiedono alla gestione delloStato sociale. Si rafforza inoltre l’esigenza di affrontare il decisivoproblema della democrazia economica, del controllo democraticodei processi di accumulazione, dell’uso e della finalizzazione delle

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risorse, a livello nazionale come a livello sovranazionale. L’interna-zionalizzazione dei processi sociali, economici e politici spinge adaprire nuove frontiere alla democrazia e spinge a muoversi al di làdella crisi della rappresentanza nazionale.

Ci troviamo, cioè, a dover fronteggiare disfunzioni gravi delle isti-tuzioni, sia di quelle rappresentative, connesse alla crisi del sistemapolitico, sia delle istituzioni pubbliche erette a garanzia di fonda-mentali diritti sociali e culturali.

L’insieme della disorganizzazione sociale e politica, che pervade ilpaese, ha comunque il suo centro di irradiamento nel cuore del siste-ma politico, nel suo essere permanentemente dominato dalle scorre-rie di una politica corsara che conferisce, ormai, a gruppi ristretti,anche alla più piccola delle organizzazioni partitiche, il potere dellapressione, dell’intralcio e della soppressione della capacità di deci-sione e di governo.

Lo stesso susseguirsi delle scelte e degli eventi nel corso dellarecente crisi del governo Goria è una testimonianza eloquente diquanto dico. Il potere di coalizione si presenta, sempre di più, comeun potere extraparlamentare e come licenza al ricatto e alla interdi-zione. Il neocorporativismo che si diffonde per tutte le fibre delcorpo della società italiana trova così ai vertici della politica una san-zione e un incoraggiamento.

In questa situazione diventa difficile e impossibile lavorare peralternative di ampio respiro, mettendo allo stesso tempo a riparo lafunzione del governare, il dovere di dirigere e di decidere nel nomedi tutta la società. Dovere che molto probabilmente potrebbe esserefacilitato dal vincolo di esprimere fiducie e sfiducie costruttive, diindicare, su basi programmatiche, le prospettive di governo che siintendono perseguire.

Oggi, al contrario, la confusione permanente tra partiti e istitu-zioni conduce, oltre che a fenomeni di immoralità, all’ingovernabili-tà di tutto il sistema politico.

In questa situazione abbiamo il compito – prima che sia troppotardi – di prendere nelle nostre mani le ragioni della stabilità, dellacapacità di governo, della efficacia e della efficienza della azionepubblica, insieme a quella della dinamica della dialettica politica edemocratica. Occorre superare la commistione tra esercizio delgoverno e iniziativa dei partiti, rendendo più chiare e trasparenti leresponsabilità distinte del primo e dei secondi.

Se tutto ciò che precede è vero, si tratta di porre in primo piano

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la questione del rinnovamento, anche attraverso riforme istituziona-li che abbiano l’obiettivo di frenare i processi di destrutturazioneponendo in primo piano la questione del governo. Riforme istitu-zionali che siano in grado di realizzare un rapporto più vitale ed effi-ciente tra esecutivo e Parlamento, che siano capaci di favorire unaripresa della funzione progettuale dei partiti, una loro più incisivaazione programmatica, e di rilanciare, innovandole, le forme didemocrazia diretta, in primo luogo i referendum. È in questo qua-dro, in cui si risolvono insieme i problemi della stabilità di governo,della trasparenza ed efficacia della politica, rafforzando i legami traistituzioni e società che si potrebbe allora anche dare soluzione allaquestione del voto segreto in Parlamento, che – al di là degli even-tuali abusi – è il risultato di un determinato rapporto tra segreteriedei partiti, parlamentari, governi.

è inceppato tutto il meccanismo legislativo

Ma è tutto il meccanismo del procedimento legislativo che dimo-stra di essere inceppato. Il sistema di continuare ad aggiungere isti-tuzione a istituzione, organismo ad organismo senza mai nulla to -gliere, ha portato ad un ingorgo assurdo. Il sistema regionalisticopresupponeva una radicale riforma del centralismo, il superamentodi diversi ministeri, il decentramento effettivo delle funzioni. Si èfatto il contrario. Le leggi regionali e nazionali si accavallano. E adesse si aggiungono le direttive comunitarie – con valore di legge –sottratte ad ogni controllo parlamentare, in una confusione che pureserve la causa di una cattiva governabilità.

Tutto il sistema regionalistico e delle autonomie va rilanciato. E aciò può essere utile anche un ripensamento di leggi elettorali che giàoggi – del resto – sono diverse da quelle nazionali. In riferimento aquesto tema, ma anche al modo con cui salvaguardare i principi pro-porzionalisti nella legge elettorale nazionale, pur studiandone piùapprofonditamente i meccanismi, il recente seminario della Direzio-ne del partito ha messo al lavoro una commissione di compagniesperti che riferiranno alla Direzione e al cc.

Si tratta, in seguito, di lavorare alla definizione di nuove regoleper il funzionamento dell’economia (e in particolare del mondo del-l’informazione) con un ruolo più autonomo e regolativo e meno digestione diretta da parte dello Stato, si tratta di lavorare a una orga-

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nica riforma dello Stato sociale, della Pubblica amministrazione e auna riforma del sindacato.

È su questa base, dunque, e con questa ispirazione, che noi rimet-tiamo alla discussione di tutte le forze politiche e del Parlamento ledirettrici di una grande riforma delle nostre istituzioni.

Noi siamo pronti. Non pretendiamo che si accettino senz’altro lenostre proposte, chiediamo tuttavia l’inizio di un impegno serio econcludente a partire da alcune indicazioni di fondo.

Compagne e compagni, mi sembra di aver sinora cercato diaffrontare il tema delle prospettive dell’alternativa non attraversodefinizioni astratte, ma come un’opera di rinnovamento e di iniziati-va politica. Mettendo quindi l’alternativa immediatamente allaprova, non come una ipotesi di schieramento, ma come una scelta difondo che sollecita una innovazione di aspetti rilevanti della tradi-zione comunista e della sua cultura.

Sappiamo – naturalmente – che si tratta anche di rispondere con-cretamente a obiezioni che sono ricorrenti nel dibattito interno edesterno al partito. Ogni qual volta si manifesta una differenza di in -dirizzo e di posizione tra noi e i compagni socialisti – come è ancheavvenuto in rilevanti scelte recenti – ci sentiamo dire: ma allora lavostra strategia dell’alternativa è in crisi, non avete più una prospet-tiva. La nostra risposta è chiara. In primo luogo se si ritiene che perconvalidare la prospettiva dell’alternativa si debba da parte nostradire sempre di sì a tutte le proposte socialiste, e persino ai repentinicapovolgimenti di posizione, rispondiamo apertamente che ciò sa -rebbe sbagliato.

Sappiamo che si tratta di un desiderio, ampiamente coltivato daicompagni socialisti, i quali si mostrano a volte assai risentiti dell’av-versione nostra alle loro scelte, in quanto ritengono che nello scon-tro politico italiano noi dovremmo svolgere un ruolo di puro soste-gno – non dico di portatori d’acqua – della contesa che, entro il pen-tapartito, essi alimentano nei confronti della dc.

Noi invece riteniamo che una nostra subordinazione ai compor-tamenti tattici del psi, portati sino a scavalcamenti della dc anomaliper una forza di sinistra, non solo è ovviamente incompatibile con leragioni di una qualsiasi forza politica autonoma, e dunque tanto piùper noi, ma indebolirebbe l’azione stessa del psi e le prospettive ditutta la sinistra. Infatti vanificherebbe, anziché rafforzare, la pro-spettiva dell’alternativa che non scaturirà mai da un «allargamento»del pentapartito ma dalla sconfitta della logica che lo sostiene. Chi

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non coglie questo dato non si rende conto in realtà che una interafase della politica italiana è definitivamente chiusa.

Comprendere da parte dei compagni socialisti le ragioni reali –che sono perfettamente il contrario del settarismo – del nostro pun -to di vista sarebbe già un grande passo avanti, fornirebbe un contri-buto rilevante a svelenire il confronto tra posizioni tra di loro diffe-renti, contribuirebbe a portare la discussione, di volta in volta, suicontenuti, favorirebbe un miglioramento effettivo dei rapporti asinistra.

I nostri rapporti con il psi hanno sempre avuto, storicamente, unrilievo particolare. Sono, in certo modo, una parte stessa della nostrastoria. Tali rapporti hanno vissuto, come tutti sappiamo, fasi alterne,sia in un passato lontano che in quello recente. Oggi, il rapporto trai due maggiori partiti della sinistra non è buono. Però, se non sivuole che tale difficoltà sia paralizzante e che finisca per alimentaredivisione e settarismo, occorre saperla interpretare, e compiere unosforzo non di pregiudiziale incomprensione ma di equilibrio nel ri -conoscere e nel disconoscere.

Come già dicevo prima occorre innanzitutto collocare i rapporticol psi nel quadro nuovo in cui essi effettivamente operano. Un qua-dro che tenga conto delle novità strategiche del psi, della sua intui-zione, sia pur unilaterale e discutibile nelle conclusioni, che si èaperta una nuova fase della politica italiana. Tale quadro non con-sente un certo vecchio modo di intendere i rapporti unitari a sinistra.

Credo perciò che a questo proposito non sia sufficiente limitarsia passare in rassegna gli atti e gli atteggiamenti del psi che hannocontribuito a deprimere, depotenziare le attese e le speranze di tuttala sinistra riformatrice.

Sarebbe cioè sbagliato fare del psi l’ostacolo che sta dinnanzi allapolitica di alternativa, perché, in tal caso, è proprio la ricerca di unaunità aprioristica – che non tiene conto delle novità strategiche delnuovo psi – che si tramuta nel suo contrario, nella disillusione e nellarecriminazione.

Noi non critichiamo tanto il psi perché non si dichiara immedia-tamente disponibile a un governo di alternativa, quanto perchémanca nella sua iniziativa un approccio costruttivo rispetto alla pro-spettiva di una nuova fase della democrazia e della sinistra. Il psi èvicino così a un punto di stallo tra una soluzione della crisi del siste-ma politico di tipo presidenziale, che però non pare per ora perse-guire con determinazione e con convinzione, e una pratica di rin-

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corsa al consenso moderato e di mera destrutturazione che non èdestinata a durare all’infinito.

La nostra critica più decisa è per il fatto che il psi non indica alcu-na soluzione alla crisi dell’attuale sistema politico. Pur avendo coltoprima di altri i segni di questa crisi, il psi sembra oggi intenzionato piùad utilizzare le opportunità che ne scaturiscono per i propri disegni dipartito che a ricercare e indicare le soluzioni possibili e necessarie.

Ma senza la chiarezza di un approccio che riformi e risani il siste-ma politico italiano, la stessa presenza dinamica del psi può costitui-re un fattore più aggiuntivo che risolutivo della crisi stessa.

Perciò rinnoviamo l’invito a un confronto e rilanciamo la sfida.La nostra domanda al psi resta quella che ci venga chiarito se e comeesso intende perseguire una politica riformatrice.

Il nostro atteggiamento verso il psi resta quello di valutare le suescelte sulla base dei contenuti più significativi.

Questi dunque sono oggi i termini del confronto a sinistra e dellasfida riformatrice. È questa la via per costruire una sinistra nuova,più forte e più grande. Si tratta di un compito difficile ma urgente.Ed è per questo che, facendo leva sulla nostra autonomia ideale eprogrammatica, contrasteremo punto per punto, fatto per fatto,tutte le scelte contrarie a questa prospettiva.

La nostra visione dell’alternativa e l’importanza che conseguente-mente attribuiamo al programma supera sia le interpretazioni mini-maliste, che riducono l’alternativa a un accordo di basso profilo trapci e psi, sia quelle millenariste, che la confinano in un indistintoavvenire, o, più semplicemente, la identificano con la stessa via ita-liana al socialismo.

È del tutto evidente, invece, il valore dinamico della preminenzaprogrammatica, in quanto non solo non si presenta come indiffe-rente agli schieramenti ma, al contrario, si propone come leva per ladeterminazione delle alleanze.

come rompere l’attuale rigidità di schieramenti

È certo che si tratta di una proposta e di una ispirazione volte arompere l’attuale rigidità degli schieramenti, a rimettere in movi-mento tutte le forze politiche, a partire dai problemi che attraversa-no l’insieme dello schieramento politico e in un rapporto fecondocon le trasformazioni e i movimenti che operano nella società.

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È in questo senso e con questo significato che sono assurdi enegativi per noi, sbagliati per il paese, poiché indicano la non capa-cità, la non volontà di misurarsi con la crisi del sistema politico ita-liano, sia il preambolo democristiano che l’azione di sbarramentosocialista, e cioè la pretesa interdizione rispetto a una nostra capaci-tà e possibilità di iniziativa su tutto l’arco dello schieramento politi-co italiano.

Tanto meno accettiamo che si colpisca la possibilità di determi-nare la più ampia unità democratica su grandi questioni di interessenazionale o di portata costituzionale.

Ecco che cosa intendiamo parlando di primato dei programmisugli schieramenti, e di quella autonomia programmatica su cui ab -biamo insistito negli ultimi tempi, che non vuol dire isolamento emancanza di confronto, ma vuole essere la capacità di proporre labase di quel confronto. Autonomia, innanzitutto, dai potentati eco-nomici, dai centri di potere, in grado di salvaguardare le ragioni stes-se di un progetto di trasformazione.

Occorre dunque affermare con nettezza che l’alternativa deveavere il significato di un piano politico; non deve cioè perdere né ilrespiro programmatico e strategico né il senso concreto di una svol-ta nella direzione politica del paese. Di un paese, ricordiamolo, do -ve, per la sua tradizione politica e per la sua attuale configurazione,una maggioranza che si riconosca in una alternativa di programmanon è un dato esistente e già operante, e dove la stessa feconda pre-senza di un «riformismo» cattolico-democratico, che opera all’inter-no e all’esterno del partito cattolico, arricchisce ma rende più com-plessa e problematica, non necessariamente più lontana, ma certopiù complessa e problematica la formazione di una omogenea mag-gioranza di progresso.

Ciò ci deve indurre a dare di più il senso che la costruzione del-l’alternativa rappresenta un passo avanti della democrazia italiana.

Nello stesso tempo deve essere chiaro che il superamento dellepolitiche consociative, così come sono state concepite dalla dc, chia-ma in causa il modo di essere di tutti i partiti, la loro identità e col-locazione. Della dc, ovviamente, ma anche delle forze laiche minori,il cui malessere è evidente.

In queste ultime se ne ha spesso manifestazione nelle forme diuna ricerca improvvisata e poco fondata di un maggior spazio poli-tico purchessia, e in sortite ancor più discutibili, come quella recen-te del pli.

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In ogni caso è evidente un travaglio che esprime l’esaurirsi dellevelleità strategiche del pentapartito e del cosiddetto polo laico e che,più a fondo, ha le sue origini nell’esaurirsi di tutta una stagione poli-tica che ha consentito ai partiti laici un ruolo di mediazione in unsistema oggi non più attuale.

esaurita la fase imperniata sulla centralità dc

La crisi del sistema politico, di cui abbiamo parlato, chiama peròa prove assai ardue in particolare il partito democratico cristiano.Infatti quella crisi coincide largamente con l’esaurimento di una plu-ridecennale strategia politica che aveva come perno e presupposto lacentralità della dc.

Negli anni trascorsi la dc ha cercato di nascondere e di nascon-dersi tale dato di realtà, giuocando tutte le sue carte sulla controf-fensiva moderata e sulla divisione della sinistra.

Non è stata una scelta lungimirante e i fatti lo dimostrano. Il siste-ma politico non si è rafforzato e anche la dc non ha ricavato certonuovo slancio e vigore da quella politica.

Oggi quella politica sembra cominci ad apparire priva di pro-spettive alla stessa dc: sia nella sua versione egemonistica che inquella dell’accomodamento moderato.

Di qui i fermenti, gli scontri, gli interrogativi emersi anche neirecenti convegni delle principali correnti democristiane.

Noi percepiamo talora, in tale discussione, per la realtà un po’confusa, accenti nuovi, anche se ancora piuttosto episodici. Noiseguiamo quel tanto di riflessione sulla crisi del sistema politico: sitratta però di voci isolate. D’altra parte, a testimoniare quanto le vec-chie certezze si stiano incrinando nella dc, sta il fatto che persino DeMita, il più strenuo difensore della validità strategica del pentaparti-to, sia stato costretto a interrogarsi sull’esaurimento delle «politichedi coalizione», e dunque, se intendiamo bene, sulla fine delle politi-che delle formule. E tuttavia prendiamo anche atto che quando si vaa stringere, il richiamo del vecchio è ancor assai più forte del gustodel nuovo. Prevale il riferimento a una visione tradizionale e immo-bilistica delle alleanze; dopo molte peripezie intellettuali si rimane,alla fine, al pentapartito. La dc vive in realtà un contrasto tra la pro-pria vocazione a rappresentare gli interessi moderati e quella a inter-pretare i fermenti e gli ideali che vivono nel proprio retroterra popo-

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lare e cattolico. Ma da questo dilemma la dc non esce e non usciràsenza il coraggio di scelte nuove, alle quali non possono, prima opoi, non chiamarla la pressione delle cose e la nostra stessa iniziati-va di alternativa democratica.

Noi riteniamo infatti che il nostro atteggiamento sia oggi davveroquello più costruttivo nei confronti delle forze migliori del cattolice-simo democratico. Proprio in quanto è un atteggiamento di sfidaaperta sui problemi. Noi pensiamo che la nostra linea che privilegiai programmi sugli schieramenti è quella che più di ogni altra mettain discussione l’immobilismo della Democrazia cristiana.

E questo almeno per due motivi. Perché una tale scelta contrastafino in fondo ogni ripristino di vecchie logiche di centralità, non solocome strategia politica ma come complessa forma istituzionale; eperché mette in discussione quella specifica priorità degli schiera-menti pregiudiziali sui contenuti che è alla base dell’unità politicadei cattolici.

Ma a ben vedere c’è anche un terzo motivo: il sistema di governoapplicato dalla dc nella democrazia consociativa aveva come corol-lario che il programma fosse una risultante della mediazione frarichieste e spinte diverse, volte a salvaguardare e perpetuare un equi-librio di potere. Nella definizione di una alternativa di programma,il confronto fra i programmi è invece la base della competizione,della scelta degli elettori, della convergenza fra le diverse ipotesi po -litiche.

Noi sappiamo anche che nel dir questo, nel ragionare sulle possi-bili scelte della dc e dei cattolici democratici, dobbiamo stare atten-ti a valutare quanto avviene nel mondo cattolico. Una valutazioneche si presenta obiettivamente complicata. Molte cose, infatti, stan-no cambiando nel mondo cattolico. Le stesse scelte politiche dei cat-tolici conoscono una oscillazione. Una oscillazione, ad esempio, traun maggior raccordo con la dc, e un più dispiegato pluralismo.

Si tratta di oscillazioni che hanno in larga misura origini proprie,interne alla riflessione in corso nel mondo cattolico e senza che sianoancor chiari gli esiti possibili. Il che non esclude che noi dobbiamooperare per favorire un maggior pluralismo e forme più aperte dipresenza dei cattolici in politica, sempre partendo da un confrontosui contenuti, sulle scelte e sui valori che queste scelte motivano.

Non ci sfugge che nel mondo cattolico è in corso un confronto, etalora anche un conflitto, su come procedere oltre la lunga stagioneconciliare; che è in discussione tutto un rapporto tra spiritualità e

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politica. Noi rispettiamo quella che ci sembra una ricerca generale,fra i cattolici, innanzitutto intorno alla propria identità. È solo sullabase di reciproche identità, del resto, che si può stabilire un auten-tico rapporto.

E tuttavia cogliamo anche bene che in tale ricerca vi è un con-fronto tra spinte regressive e tendenze progressive. Percepiamo chevi è chi pensa alla creazione di oasi nel deserto di un mondo in crisi,chi, come Comunione e Liberazione, a ipotesi di separazioni eletti-ve, e chi invece è proteso alla ricerca di un nuovo modo di vivere l’e-sperienza sociale comune.

Noi privilegiamo ovviamente il confronto con queste ultime posi-zioni, che ci sembrano quelle più feconde rispetto ai compiti comu-ni dell’uomo di oggi. E ricerchiamo perciò un dialogo e un confron-to, sui problemi comuni, a cominciare da quelli supremi e indissolu-bili della salvaguardia della pace e della promozione umana. Noiintendiamo rivolgerci al movimento cattolico, nelle sue moltepliciespressioni, ci aspettiamo che esso esprima i termini di una più chia-ra interlocuzione nei nostri confronti. E ad esso chiediamo, da partenostra, che si manifestino i modi in cui si intende vivere e interveni-re in questa fase di passaggio e di sofferenza della nostra democra-zia. Essendo consapevoli che questo confronto non sarà possibile, intermini soddisfacenti, senza una disponibilità a un dialogo che tra-sformi in certa misura ciascuno degli interlocutori.

Ciò vale non solo per i partiti, ma per tutti i protagonisti, tutti isoggetti della democrazia italiana, comprese le organizzazioni socia-li e fra queste, in primo luogo, le organizzazioni sindacali.

Ciascuno di noi conosce la situazione di disagio e di difficoltà delsindacato, i problemi presenti nel rapporto tra le organizzazioni sin-dacali e la base dei lavoratori, mentre si delinea una campagna diret-ta a condizionare la legittimità del diritto di sciopero.

Importante è dunque interrogarsi sul ruolo del sindacato anchealla luce della crisi del sistema politico.

Non sfugge a nessuno il nesso che esiste. Non sfugge a nessunoche in questi anni si è cercato di imporre a componenti del sindaca-to forme nuove di condizionamento.

Noi non vogliamo e non dobbiamo dettare soluzioni e ricette; ilnostro rispetto della autonomia sindacale è profondo e di principio,non sono certo venute da noi nostalgie per vecchie logiche di cinghiedi trasmissione.

Tuttavia siamo convinti che il sindacato potrà giovarsi ed entra-

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re in un rapporto positivo – nella sua piena autonomia – con il pro-cesso di rinnovamento del sistema politico che noi proponiamo. Ilsindacato in questi anni ha perduto potere; versa in una grave crisidi rappresentanza.

È indubbio che il sindacato ha un suo itinerario da compiere perritrovare, nelle mutate condizioni sociali e produttive, i punti su cuiedificare il proprio potere e gli strumenti per esprimerlo. Le risorsestesse della conflittualità sociale sono oggi diverse da quelle tradi-zionali e classiche e comunque tendono ad arricchirsi qualitativa-mente.

La riflessione sul sindacato deve dunque cogliere i nuovi terrenidel conflitto, individuare gli strumenti più adatti per rappresentarlo,dotarsi di una nuova capacità progettuale. È un’opera complessivacui il sindacato si sta dedicando già da tempo. È un’opera e una pro-spettiva vitale per la democrazia. Ma appunto perciò è irresponsabi-le l’atteggiamento di chi vorrebbe negare al sindacato il futuro, cer-cando anzi di ridimensionare e di restringere ulteriormente gli spazi– già stretti – di cui il sindacato dispone oggi. Ed è altrettanto irre-sponsabile pensare di difendere l’autonomia senza rafforzare il lega-me con i lavoratori, e anche senza intendere la democrazia sindaca-le nel quadro di una nuova ipotesi di democrazia economica. Ciòcomporta che si apra una fase nuova di riflessione sul significato del-l’autonomia sindacale; che non ci si limiti a perseguire una autono-mia da (i padroni, i partiti e lo Stato), ma si passi a una autonomiaper, e cioè a una autonomia progettuale, che è l’unica via, assiemealla democrazia per superare alle radici le tentazioni al collaterali-smo, e i tentativi di condizionamento da parte dell’esecutivo.

È sullo sfondo di queste considerazioni generali che abbiamoassunto una posizione precisa, e anche iniziative efficaci e unitarie,sul tema della regolamentazione dello sciopero nei servizi.

È chiaro, comunque, quel che ci proponiamo anche su questo pro-blema specifico e delicatissimo; respingere l’attacco al potere del sin-dacato, e cogliere anzi l’occasione per rilanciare una azione che abbiadi mira l’estensione, il potenziamento, la definizione dei poteri sinda-cali non solo guardando agli interessi del mondo del lavoro, ma anchegli interessi complessivi dei cittadini e degli utenti, alla vitalità e allacapacità propulsiva dell’intero sistema della nostra democrazia.

Il nostro paese, la nostra democrazia, lo sviluppo economico,sociale, civile hanno bisogno di un sindacato non debole e delegitti-mato, ma rinnovato e forte per nuovi consensi e nuovi poteri.

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LETTERA DI NORBERTO BOBBIO A GIORGIO NAPOLITANO

(DICEMBRE 1990)*

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Caro Napolitano,ho letto e in parte riletto (perché alcuni scritti li conoscevo già) il

tuo libretto. È inutile che ti dica che io sono totalmente d’accordocon te dalla prima riga sino all’ultima. Trovo addirittura incredibileche un partito che ha fatto per anni una politica da partito socialde-mocratico, ora che potrebbe farla alla luce del sole, torni indietro aposizione da gran tempo dal partito stesso superate. La tua afferma-zione chiave che il pci era da tempo diventato cosa diversa dal nomeche portava è fondamentale. Non riesco a capire perché non vengaaccolta da tutti come la base del nuovo corso. Anche tutta la storiache fai dei rapporti del pci con i partiti socialisti europei è moltoistruttiva. Proprio nel momento in cui si poteva trarre i frutti di unapolitica durata decenni, ecco che il mulo cocciuto si ferma e nonvuole più andare avanti, o meglio ci sono alcuni, e non sono pochi,che si comportano come il mulo. Tutto quello che scrivi a me paresommamente ragionevole. Ma probabilmente io non conosco gli u -mori della «base», ed è proprio questa base, educata male, a fare dafreno.

Ma qui sta l’errore, lo dico con franchezza, di uomini come In -grao. Invece di fare da guida, e sarebbero stati seguiti, si sono lascia-ti guidare dal sentimento popolare, e così hanno rinunciato alla lorofunzione.

* «Le ragioni del socialismo», febbraio 2004.

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la documentazione - 6. svolta

Fondamentalmente è il rapporto con il psi. Quando Occhetto mivenne a trovare, gli dissi che l’unico modo serio di trovare un moti-vo di dialogo con il psi era quello delle riforme costituzionali, rispet-to alle quali non si poteva negare che Craxi fosse stato un precurso-re, e invece, anche recentemente, non appena il psi fa una propostadell’elezione diretta del Presidente del Consiglio e non del Presi-dente della Repubblica c’è subito una reazione di rigetto. Sembra siastata fatta unicamente per mostrare la propria originalità.

Coi più sinceri auguri per l’anno nuovo, che per voi è veramenteun anno decisivo e cordiali saluti.

Norberto Bobbio

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Nel 1991 il presidente della Repubblica Francesco Cossiga tra-smette alle Camere un messaggio sulla crisi delle istituzioni che rilet-to oggi appare singolarmente profetico. Già la trasmissione del mes-saggio è oggetto di controversia. Il presidente del Consiglio, GiulioAndreotti, si rifiuta di controfirmarlo, come invece è prassi. Allacontrofirma viene delegato il ministro guardasigilli Claudio Martel-li. Quanto al dibattito parlamentare che ne segue, esso non brilla perlungimiranza. Alla fine viene accolta una proposta di Franco Bassa-nini che prevede l’istituzione di una Commissione bicamerale nellalegislatura successiva.

7. AVVISO

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MESSAGGIO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA AL PARLAMENTO*

* Atti parlamentari, Camera dei deputati, seduta del 26 giugno 1991.

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Signori del Parlamento,

1.0. È stato scritto, con forte e sapiente senso della storia, da ungrande italiano e insigne giurista, non sempre ascoltato testimonedel suo tempo, Piero Calamandrei, che i muri maestri della Costitu-zione che ha retto la nostra Repubblica dal 1° gennaio 1948 sonostati cementati dal popolo italiano colle sue lacrime e con il suo san-gue. È certo che essa ha assicurato all’Italia un lungo periodo di svi-luppo dei beni fondamentali per la vita di un popolo: l’indipenden-za nazionale, le libertà politiche e sociali, il pluralismo delle forzepolitiche, la crescita economica, la convivenza fra le classi sociali.

1.1. Nei momenti più difficili della contrapposizione politica edideologica, internazionale ed interna, della cosiddetta «guerra fred-da», cioè in età di continua transizione e di poche certezze, la Costi-tuzione che ci governa ha sviluppato tutta la forza pedagogica deisuoi grandi principi, penetrando gradualmente con le sue norme econ i suoi valori nel profondo della coscienza popolare e contri-buendo, così, non solo alla ricostituzione dello Stato, ma anche allamaturazione civile e politica degli Italiani.

L’ancoraggio delle grandi masse italiane ai valori costituzionali haresistito alla spinta dirompente delle varie contestazioni del nostrosistema, che si sono susseguite nel corso di questo quarantennio, ed

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al colpo gravissimo vibrato dallo scoppio inconsulto di un misto diutopie, alimentato da improvvide predicazioni e da violenze, invo-cate impudentemente con la pervicacia di non pensate parole e che,traviando coscienze e stroncando vite umane, condusse alla tragicaavventura del terrorismo.

Riconoscenza, perciò, dobbiamo alla nostra Costituzione; maquesto sentimento non ci deve impedire la riflessione critica e l’im-pegno politico per valutarla nel confronto dei mutati tempi, e quin-di per migliorarla ed ammodernarla. Gli effetti distorsivi determina-ti, infatti, dalla inattuazione, per lunghi anni, di parti di essa, dallemodificazioni tacite, operate o tentate per la via dei regolamenti par-lamentari o con prassi e convenzioni costituzionali non sempre con-formi al suo spirito, hanno prodotto notevoli usure che vanno oraesaminate insieme all’insoddisfacente rendimento di alcune istitu-zioni costituzionali come, del resto, era stato posto in preventivo giàin sede di Assemblea Costituente.

Certamente sui Padri costituenti si proiettava ancora l’ombradella dittatura, dell’Esecutivo onnipossente, del potere arbitrario,della inesistenza di una vera e forte rappresentanza nazionale. Fucosì che alla proposta favorevole alla forma di governo presidenzia-le propugnata da grandi e moderni democratici, sicuri amici dellalibertà e della Repubblica, Calamandrei, Valiani, Pacciardi, Nobile eMazzei, si preferì quella di altri insigni politici e giuristi, a favore delsistema parlamentare, secondo l’ordine del giorno Perassi; sistemada disciplinarsi, tuttavia, «con dispositivi costituzionali idonei atutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare ledegenerazioni del parlamentarismo».

Se riflettiamo che letture sempre più riduttive e paralizzanti del-l’articolo 95 della Costituzione sono state adottate in varie fasi dellanostra storia; che soltanto nell’agosto del 1988 è stato possibile vara-re, in forma ridotta rispetto alle esigenze e con talvolta paralizzanticompromessi, la legge n. 400 sulla disciplina dell’attività di governoe sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, cirendiamo conto dell’enorme ritardo che si è accumulato nella neces-saria azione di revisione della istituzione «Governo», la cui architet-tura tante discussioni e preoccupazioni aveva sollevato nella Assem-blea Costituente, ancor prima che l’intero corpo di fabbrica fossestato completato.

Per quanto attiene, d’altro canto, al nostro sistema bicamerale,già all’inizio degli anni cinquanta il problema di fondo irrisolto, cioè

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quello di realizzare una concreta differenziazione, nella pari dignità,tra i due rami del Parlamento, veniva in discussione insieme conquello della riforma e della integrazione del Senato.

Voglio qui ricordare le conclusioni della Commissione senatoria-le presieduta da Enrico De Nicola, il disegno di legge costituzionalepresentato dal primo Governo Segni, il progetto di riforma propo-sto da Luigi Sturzo.

Gli esempi che ho citato danno la misura della provvisorietà ditalune delle soluzioni adottate dai Padri costituenti e della consape-volezza che essi ebbero della necessità che alcuni istituti dovesseroessere ancora ripensati alla luce dell’esperienza, e se necessario rifor-mati.

Su questo tema pagine illuminanti sono state scritte da alcuni deinostri maggiori pensatori in tutto l’arco dell’esperienza costituzio-nale repubblicana, da Croce e Calamandrei, a Salvemini, Jemolo eBobbio, con parole talvolta aspre e dure. Se Croce si limitò a defini-re il testo elaborato dai 75 come il frutto di un «reciproco concede-re ed ottenere», Calamandrei giunse sino a paragonarlo ad un liber-tino di mezza età al quale un’amante giovane aveva strappato tutti icapelli bianchi per ringiovanirlo ed una vecchia moglie tutti i capel-li neri per invecchiarlo, sicché alla fine era rimasto calvo del tutto.

1.2. Del resto non bisogna mai perdere di vista il quadro ideolo-gico e culturale nel quale il processo costituente ebbe nascimento.

All’originario filone risorgimentale liberale, laico e cattolico, de -mocratico, repubblicano, federalista e mazziniano, si affiancarono lenuove espressioni del pensiero del cattolicesimo sociale e di quellodi ispirazione marxista, che il fascismo aveva travolto nel momentoin cui cominciavano a proporsi con le loro risposte alle nuove edinsoddisfatte esigenze della società italiana come compiuti program-mi politici. Come ha lucidamente osservato Piero Calamandrei, cia-scuna di queste componenti culturali, da un lato avvertiva la urgen-te responsabilità di pervenire, attraverso un rapido, accettabile com-promesso, ad una situazione di immediata governabilità della liberaRepubblica appena nata, dall’altro considerava irrinunciabile versa-re nella Costituzione le proprie promesse, in una parola il propriopeculiare modo di sfidare la Storia, anche se non con compiuta con-cretezza.

L’evolversi della situazione internazionale che implicò per l’Italiala provvida, lungimirante, decisa scelta del campo occidentale, giu-

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stamente definita da un altro grande e nobile patriota italiano, Giu-seppe Saragat, come «scelta di civiltà», ebbe immediate, divaricantiripercussioni nella politica interna ed anche internazionale delnostro Paese.

Il primo riflesso di una scelta operata per salvaguardare i valoriappena riconquistati, libertà ed indipendenza, e per tutelare e difen-dere l’ordinamento democratico che si veniva edificando, ma cheaveva comportato la «rottura» dell’unità operativa dell’antifascismonella Resistenza, a cagione delle diverse e anche opposte ispirazionie motivazioni di essa, si avvertì nei lavori stessi dell’Assemblea Costi-tuente, ove si arrivò persino a formulare la proposta che il Governodella Repubblica fosse costituito dal solo Consiglio dei ministri e chenon fosse neanche previsto l’ufficio di Capo dello Stato. Era natura-le che ciò accadesse perché, essendosi delineati, dopo la fine dellacollaborazione di governo dei partiti del Comitato di LiberazioneNazionale, due schieramenti contrapposti, nessuno arrivava a preve-dere con certezza quali equilibri si sarebbero costituiti e quali mag-gioranze avrebbero governato il Paese e più che all’efficienza delsistema si pensava all’adozione di una struttura di equilibri e di mu -tua garanzia.

In altre parole, tutti immaginarono di poter essere collocati al -l’opposizione e programmarono perciò un sistema di controlli adelevatissima sensibilità e grado d’allarme, tale da risultare, per alcu-ni versi, quasi paralizzante; insomma bisognava controassicurarsi av -verso l’ipotesi di un esecutivo forte e stabile, anche a costo di unsistema complessivo debole, ma eminentemente garantista. Questecircostanze gradualmente condussero già nella Costituente e, suc-cessivamente, nel corso degli anni, ad una situazione d’equilibrio tramaggioranza ed opposizione fondata, da una parte, sulla cosiddettaconventio ad excludendum per cui il partito che era all’opposizionenon poteva integrarsi nel Governo centrale del Paese, ma ad essoveniva garantita una larga partecipazione al potere, territoriale enon, e dall’altra, in parallelo, sulla conventio ad consociandum, per laquale, senza il consenso del partito che era fulcro e guida dello schie-ramento di opposizione, non si poteva porre mano a scelte fonda-mentali relative alla materia costituzionale e alle grandi riforme distruttura del sistema politico, economico e sociale: quasi a conside-rare questo consenso come indispensabile fattore di legittimazione.

In Italia, il riferimento politico, ideale ed umano ai due sistemicontrapposti nei quali il mondo della guerra fredda si era suddiviso,

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creò contrapposizioni anche fra i cittadini, assai simili a quelle cheCarl Schmitt indicava nel rapporto «amico-nemico».

Soltanto la saggezza italiana, e la moderazione ed il buon sensodella gente comune, la prudenza dei grandi leaders democratici,insieme al ruolo pacificatore ed unificante svolto dalla Chiesa e daimovimenti dei lavoratori, consentì al nostro Paese di adattare vitapolitica e funzionamento della Costituzione a quella dura divisione,che era internazionale, ma con incisivi riflessi interni, facendo sì chel’Italia potesse, anche in tempi difficili, conservare intatto il suo regi-me di libertà, il suo sistema di diritto, le sue proprie, libere istituzio-ni democratiche e repubblicane e sviluppare in modo mirabile la suasocietà civile in termini di economia e cultura.

1.3. Mentre questo processo costituzionale e politico si consoli-dava, un radicale cambiamento, in termini propriamente strutturali,avveniva nel tessuto socio-economico del Paese, reso possibile, comesi è dianzi ricordato, dalle scelte operate dall’Assemblea Costituentenel campo delle libertà civili e politiche e delle libertà economiche.

Nel giro di poco più di un decennio, il Paese cambiò volto, la so -cietà e l’economia si trasformarono da prevalentemente agricole inprevalentemente industriali. Questa trasformazione richiese un im -ponente esodo della popolazione dal Sud al Nord, dalla campagnaalla città. L’urbanizzazione pose nuovi e delicati problemi di equili-brio nella convivenza socio-politica e contemporaneamente diedeun forte impulso al settore terziario. L’ingente crescita della produt-tività, soprattutto industriale, permise il miglioramento delle condi-zioni di vita degli italiani in un contesto di soddisfacente stabilitàmonetaria. Gli scambi con l’estero si accrebbero significativamente,soprattutto a seguito dell’adesione dell’Italia alle Comunità europeee la bilancia dei pagamenti correnti divenne attiva. Alle soglie deglianni sessanta la lira era considerata la moneta più stabile dell’Occi-dente. Si parlò di «miracolo economico».

Fu così possibile porre mano alla costruzione dello «Stato delbenessere», sulla scia di analoghe esperienze estere, nonché a un piùincisivo impegno per lo sviluppo del Mezzogiorno.

Milioni di cittadini appresero in fabbrica l’esercizio della tuteladei propri diritti divenendo più consapevoli dei fondamenti dellapolitica democratica e, attraverso i sindacati, accrebbero fortemen-te le pressioni per una diversa distribuzione dei redditi. L’economiaebbe un sussulto negli anni sessanta, prima con una crisi di bilan-

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cia dei pagamenti e poi con rivendicazioni dei lavoratori moltoavanzate.

1.4. Mentre le forze produttive si interrogavano sul futuro dell’e-conomia di mercato e tentavano di orientarsi nelle nuove condizionisocio-politiche, sopravvenne la prima crisi petrolifera, che scosse ilsistema economico mondiale, modificando gli equilibri tra paesiproduttori di materie prime e paesi trasformatori, come l’Italia.

L’economia mondiale – e con essa l’Italia – uscì da questa crisi allesoglie degli anni ottanta, ripristinando talune regole di funziona-mento dei liberi mercati, limitando i benefici promessi ai cittadinidallo Stato del benessere e, soprattutto, facendo ricorso all’innova-zione tecnologica. L’economia e la società presentarono una nuovaprofonda trasformazione. Da quel momento l’occupazione si ridus-se e, al suo interno, si accrebbero gli addetti ai servizi. «Il prodotto»ha incorporato dosi sempre minori di materialità e dosi sempre cre-scenti «di idee e di cultura». Per definire questa nuova rivoluzionesi fa ricorso al termine di economia «post-produttiva».

I modi di vita, non solo quelli di lavoro, si sono trasformati; ècaduto il tasso di natalità ed è aumentato l’invecchiamento dellapopolazione; le tecnologie sono entrate anche nelle case e nei luoghidi insegnamento; le conoscenze necessarie per accedere al mondodel lavoro si sono accresciute enormemente.

1.5. Tutta la società e la sua cultura furono e sono investite da unvento di rinnovamento e da grandiose trasformazioni sociali.

Per la memoria collettiva della gente, può bastare ricordare alcu-ni grandi processi sociali che sono stati non solo caratteristici maaddirittura «costituenti» della nuova società italiana, che tutti insie-me, «governo e popolo», abbiamo costruito come avrebbe detto Al -do Moro, grande spirito della nostra storia nazionale, caduto vittimadella violenza generata da utopiche predicazioni.

Il primo di questi processi è stato quello relativo al riconosci-mento dei diritti individuali: per un popolo che nel 1945 conoscevasolo per aspirazione o sentito dire cosa fossero i diritti di libertà poli-tica (di parola, di voto, di associazione partitica, ecc.) e che ancoranei primi anni cinquanta non aveva il diritto di spostamento sulsuolo nazionale (era ancora in vigore la legge contro l’emigrazioneinterna); per un popolo di questo tipo, il lungo dopoguerra ha signi-ficato una grande saga dei diritti, specie individuali: dal riconosci-

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mento dell’obiezione di coscienza a quello della facoltà di sciogli-mento del vincolo matrimoniale, dal riconoscimento della paritàfemminile a quello del diritto all’autocertificazione di alcuni atti for-mali, e cioè alla presunzione di veridicità delle dichiarazioni dei cit-tadini. Il che ha prodotto forse la sensazione che in Italia si privile-gino di più i diritti che i doveri, ma ha senza dubbio generato altre-sì la consapevolezza che la democrazia non è soltanto libertà di par-lare e di votare come si vuole, ma è anche e più sostanzialmentelibertà di espandersi delle sfere di autonomia (e di autonoma perso-nalità) dei singoli.

Il secondo grande processo di sviluppo sociale è stato quello datodalla moltiplicazione dei canali di mobilità ed avanzamento sociale.Dopo secoli di rigidità assoluta, la struttura sociale si è aperta e tuttiabbiamo avuto una certa, anche se ancora molto marginale, possibi-lità di crescere.

I canali ed i meccanismi di mobilità sono stati quindi tanti edhanno spesso operato in sinergia, così che oggi possiamo dire – guar-dando a quarantacinque anni fa – che l’Italia è un Paese a forte vita-lità sociale, a forte volontà collettiva nell’andare più in alto in termi-ni di gerarchia sociale, a forte tensione a vivere la democrazia anchecome contenitore di forti processi di dinamica sociale.

Ma la volontà collettiva in questi anni non si è fermata al momen-to della dinamica sociale, della mobilità verticale degli individui edei gruppi sociali; essa è andata anche nella direzione di affermareuna forte carica di appartenenza ai soggetti intermedi della società.Se oggi l’Italia può corrispondere forse più di altri Paesi a quel con-cetto di «soggettività della società» di cui ha scritto Papa GiovanniPaolo ii nella sua recente Lettera Enciclica, Centesimus Annus, ciò èdovuto al fatto che negli ultimi quarantacinque anni sono enorme-mente cresciuti i soggetti collettivi, i soggetti intermedi fra individuie Stato. Basta a tal proposito ricordare la vitalità costante del gran-de sindacato, il forte proliferare delle organizzazioni professionali aivari livelli, l’enorme carica dell’associazionismo di vario tipo, il cre-scente peso delle presenze anche informali del volontariato, la spin-ta all’aggregazione collettiva sul territorio – dal localismo economi-co alla sperimentazione di istituzioni locali intermedie – le vicendenaturaliter alterne – di spinta iniziale e di decadenza – dei tantimovimenti, le nuove forme di difesa collettiva (ad esempio dei con-sumatori come degli utenti). In fondo questo Paese, considerato, eda ragione, un Paese di grandi individualisti, si è arricchito in questi

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anni di una ampia gamma di interessi e di soggetti collettivi, acqui-sendo un tessuto sociale, intermedio fra individuo e Stato, che èforse la sua più solida ricchezza, non solo sociale, ma anche socio-politica e democratica.

1.6. Altrettanto profondi sono stati i mutamenti e gli sviluppinella dimensione religiosa e spirituale della comunità nazionale, pereffetto di eventi, dal Concilio Vaticano ii, alle nuove intese tra Chie-sa Cattolica e Stato italiano e agli accordi con le altre Chiese, comu-nità e confessioni religiose d’Italia.

Non sembri improprio al mio ufficio o non coerente ed appro-priato con i fini ed il contenuto del mio messaggio, che mi soffermibrevemente su tali aspetti della vita della comunità civile.

L’indipendenza dello Stato democratico, la sua originaria autori-tà sociale e storica, la laicità della nostra Repubblica individuano untipo di organizzazione statuale che, in nome dei principi di libertàdella umana coscienza, di autonomia delle istituzioni giuridiche, dirispetto verso la ricchezza molteplice della società, non ha compe-tenza né giuridica né etica in materia di verità religiosa; ma ciò nonsignifica che la Repubblica non riconosca i valori religiosi, le realtàecclesiali, la dimensione etica della vita dell’uomo e non ne pro-muova, ne apprezzi e ne consideri il valore e la funzione.

La tradizione civile e sociale della Nazione italiana è cristiana, coni peculiari arricchimenti che ad essa ha sempre portato la presenzapreziosa di focolari ebraici nel nostro Paese. Cristiana è la tradizio-ne comunale e repubblicana italiana; nel segno cristiano, si iniziòcon la Lega Lombarda l’avventura del comune destino della genteitaliana che doveva costituire, secoli dopo, la Nazione in Stato uni-tario, libero e indipendente. E di fermenti cristiani è animata la stes-sa passione risorgimentale, che eventi ed incomprensioni storichedolorose – il cui significato è nascosto nella Provvidenza, ma su cuil’altissimo insegnamento di Giovanni Battista Montini ci ha datoilluminanti e preziosi sprazzi di luce! – hanno poi oscurato sul pianodelle istituzioni e delle relazioni tra Stato e Chiesa. Per cui, in epocatravagliata, un grande italiano e prete cattolico, Antonio Rosmini,scriveva: «[...] Il cristianesimo ha salvato le antiche società civiliormai prossime a perire, appunto perché ha proposto agli uomini –agli individui, alle persone, non alle “masse” – nuovi beni da conse-guire, beni diversi e superiori a quelli di cui le antiche società eranoormai sazie. Non avendo più nuovi beni a cui tendere, le intelligen-

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ze degli uomini si spegnevano, le volontà si indebolivano: di qui l’in-tima decadenza degli uomini nelle antiche società civili.

Tutto ciò che prese a fare il cristianesimo, non fu che dare agliuomini quel fine veramente ultimo, che mancava alle antiche socie-tà, e che pure doveva essere la bussola che le guidasse nella difficileloro navigazione. Le antiche società naufragarono, perché vagantiper un oceano immenso pieno di pericoli senza sapere dove tende-re, dove approdare, mancando loro il certo e sicuro porto... E quimerita che si osservi come a quest’alta dottrina del cristianesimo,s’accordi mirabilmente il criterio politico cavato dal fine ultimo dellasocietà, che noi abbiamo più sopra indicato».

La religione è stata quindi sempre parte della nostra vita civile,anche se in forme e con modalità di presenze diverse che in altripaesi, vuoi per mancanza del pluralismo tipico di questi, ma forseanche a motivo della stretta connessione territoriale e storica con ilcentro del Cristianesimo, dotato di così grande autorità e forte pre-stigio.

Della storia d’Italia fa parte la storia della pietà del nostro popo-lo e la dimensione religiosa è una dimensione non astratta ma con-creta della nostra società.

Gli insegnamenti del Concilio Vaticano ii, in ispecie quelli sullamissione del laicato, sul valore della società civile, sulla doverositàdell’impegno politico, sulla libertà religiosa, sul primato della co -scienza, hanno inciso nella vita di tanti uomini cattolici e non. El’eco storica ed istituzionale di questo insegnamento si ritrova nelpreambolo al nuovo accordo tra la Santa Sede e la Repubblica ita-liana che apporta modificazioni al Concordato Lateranense e chenon ha un mero significato giuridico ma una portata storica e cultu-rale immensa.

Il fiorire dello spirito religioso nelle forme del volontariato, dellasolidarietà con gli esclusi e gli emarginati, dell’impegno per la pace,non sono cose da esser trascurate, poiché sono novità importantidella società italiana di oggi.

La rinnovata vita della comunità ecclesiale anche nella consape-volezza della sua dimensione sociale è, in via generale, un fattore digrande rinnovamento nella società italiana.

D’altro canto, gli insegnamenti del Concilio Vaticano ii Apostoli-cam Actuositatem e il «Decreto sulla libertà religiosa», le linee pasto-rali contenute nei recenti documenti alle università e ai seminari sul-l’insegnamento della dottrina sociale cattolica, insieme con il venire

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meno, nel quadro internazionale delle minacce alla libertà di religio-ne da parte di ideologie atee ha restituito ai cattolici, specie per ilfuturo, maggiore latitudine di scelta nel concreto impegno politicoin fedeltà ai dettami della propria coscienza e del proprio essere cit-tadini.

Di queste novità che non sono solo novità delle Comunità reli-giose ma novità della società, non si può non tener conto in unavalutazione complessiva di ciò che sia la comunità civile di oggi e diciò che sia più appropriato nel rinnovamento delle istituzioni chesono chiamate a governare.

1.7. È del tutto naturale, dunque, che l’impetuosa crescita delnostro Paese, anche in termini di efficienza e di modernizzazione,ponesse all’attenzione dei cittadini il problema della corrispondenzafra istituzioni consolidate e realtà sociale trasformata o in via di tra-sformazione, ossia il divario fra società politica e società civile.

A differenza di quanto accade nelle altre democrazie industriali,il sistema dei partiti operante in Italia ha manifestato tendenze a tra-sformarsi da strumento di intermediazione tra società politica esocietà civile, così come prevede l’articolo 49 della nostra Costitu-zione, in un complesso e chiuso apparato di raccolta e «difesa» delconsenso, come titolo per una articolata e spesso assai impropriagestione del potere, ad ogni livello. Questa tendenza, ove si consoli-dasse, costituirebbe una involuzione assai preoccupante in sensosostanzialmente oligarchico, dato il metodo prevalentemente dicooptazione per la formazione della classe dirigente, che finirebbeper alterare definitivamente e profondamente lo stesso significatodella rappresentanza politica e costituire la causa principale di unadisaffezione dei cittadini per la vita dello Stato, che già oggi si espri-me, spesso, in avversione verso uno «Stato dei partiti», inteso comeStato in cui i partiti sono non organizzazioni di consenso per la vitadelle istituzioni, ma piuttosto di dominio sulla vita della società.

Il processo riformatore, pertanto, deve anzitutto trarre alimentodalla primaria esigenza di recuperare la fiducia del popolo nelle isti-tuzioni democratiche e rappresentative, a cominciare dagli stessipartiti, da restituire alla loro vera vocazione e liberati dai gravi impe-dimenti e dai molteplici compromessi connessi all’esercizio di fun-zioni improprie.

Occorre, dunque, anche «salvare i partiti», strumenti indefettibi-li ed insostituibili della democrazia, dagli effetti devastanti della par-

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titocrazia. «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelleforme e nei limiti della Costituzione»: ecco la formula che i Padricostituenti adottarono per coniugare, in sintesi mirabile, sovranitàpopolare, democrazia partecipativa e istituti di rappresentanza. Orbe-ne, l’azione dei partiti deve ritornare a contribuire a rendere vitale ilcircuito democratico, combattendo ed eliminando da essi quei feno-meni degenerativi che finirebbero inevitabilmente per delegittimarele istituzioni rappresentative.

Questa esigenza diventa di vitale importanza nel momento in cuiil nostro Paese sta per entrare nella fase finale dell’integrazione euro-pea a fianco, ma anche in concorrenza con altre grandi democrazie,che, per tanti aspetti, appaiono più radicate ed efficienti della nostra.

E qui si ripropongono le domande che già formulai nel messag-gio di fine anno 1988 e che mi sembrano conservare tutta la loro at -tualità. «La società economica forse è già pronta, anzi certamente ègià pronta a questa integrazione. Ma sono pronte le strutture statua-li, sono pronte le strutture amministrative degli Stati, e per quelloche ci riguarda è pronta la nostra Amministrazione, sono pronti lenostre strutture amministrative, i nostri governi locali, il nostro Go -verno centrale, il nostro apparato pubblico ad affrontare i problemiin modo tale che il Mercato Comune non sia dominato soltanto dallegrandi forze economiche, ma trovi una regola e una disciplina comu-ne in vista del benessere di tutti in una presenza più efficace dei pub-blici poteri?».

Questi interrogativi sono diventati ancor più pressanti, se si guar-da agli straordinari avvenimenti di cui siamo stati testimoni e alle tra-sformazioni epocali di cui siamo stati ammirati, ma forse imprepara-ti e quasi increduli spettatori; essi hanno confermato le autentiche«rivoluzioni» politiche, interne ed internazionali, civili, culturali edeconomiche che il vento della libertà e della verità aveva avviato nel1989 e che in questi ultimi due anni la Storia ha fatto trionfare, conaccelerazione poderosa e forse anche imprevista, mutando total-mente la fisionomia dell’Europa e del mondo ed imprimendo al lorovolto i tratti della giovinezza che sono propri della libertà dello spi-rito.

1.8. La domanda di riforme, che sale sempre più forte dalla socie-tà civile e che sembra oramai dar voce, in chiave univoca, ad unaconsapevole, diffusa e radicata aspirazione dell’intera pubblica opi-nione, diviene ancora più evidente e non più solo decifrabile, ma

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chiaramente leggibile, se viene posta in collegamento con i sintomidi una serie di palesi disfunzioni del nostro sistema costituzionale edel nostro sistema amministrativo.

A loro volta, queste disfunzioni risultano enfatizzate ed amplifi-cate, nella loro portata, non meno che nella loro preoccupante gra-vità, per effetto del contrasto – vorrei dire un’autentica e stupefa-cente contraddizione! – fra esse e l’ampiezza, la vivacità ed il suc-cesso dello sviluppo verificatosi nel nostro Paese in questi decenni divita repubblicana, cui ho prima accennato; uno sviluppo che è valsomeritatamente all’Italia l’inserimento a pieno titolo nel novero delleprincipali democrazie industriali.

I risvolti negativi, che fanno da corollario alla maturazione ed allacrescita dell’Italia repubblicana, riflettono una serie di condiziona-menti, di manchevolezze e di limiti, che vengono in buona parte fattirisalire all’instabilità ed all’inefficienza del sistema, ad una carenzadecisionale, in una parola, ad una sorta di paralisi o di asfissia chesembra minacciare l’intero apparato istituzionale.

La lamentata inadeguatezza dei Governi e del Parlamento ad af -frontare e a risolvere efficacemente e compiutamente i principaliproblemi del presente ne è uno degli aspetti più largamente anche senon sempre meritatamente denunziati.

Ciò vale anche per il perdurante squilibrio fra il Nord ed il Suddel Paese, che costituisce quasi l’epitome del contrasto fra progres-so e arretratezza, fra spinta all’innovazione e tendenza involutiva, ag -gravato, in un «crescendo» sempre più drammatico, dall’azione di -sgregatrice della criminalità organizzata, che mina e pone in discus-sione la credibilità non solo della legge penale, ma della effettivitàdella stessa sovranità statale in talune zone del Paese.

Ciò vale anche per altre grandi questioni, che pure formano og -getto del generoso e volenteroso sforzo del Governo e del Parla-mento e di tutte le forze politiche e sociali, come l’ormai insosteni-bile indebitamento pubblico, le deficienze e le insufficienze degliapparati statali, che risultano tuttora sovrabbondanti, antiquati edispersivi, e quindi non certo al livello delle legittime esigenze e do -mande provenienti da una società moderna.

Numerosi, e tutti egualmente gravi, sono i sintomi di questo dete-rioramento istituzionale: basti, al riguardo, ricordare l’intrinseca in -stabilità dei Governi, con le conseguenze negative che ne derivanosul piano della capacità stessa di attuare puntualmente ed esaurien-temente programmi ed interventi. Ma vale ripetere che pure esiste

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una sostanziale continuità della nostra politica e che sarebbe curio-sità non inutile verificarne contenuti e realizzazioni.

Basti evocare la circostanza che il decreto-legge, essendosi ormaiverificata una effettiva alterazione dell’ordine delle fonti normative,sia divenuto, quasi paradossalmente, non solo uno, ma lo strumentoordinario della normazione nel nostro Paese, per trarne la deduzio-ne che siamo in realtà in presenza di autentiche anomalie nell’armo-nioso dispiegarsi ed espletarsi della funzione legislativa, così comeera stata originariamente concepita, e che finisce quindi con il collo-carsi in un quadro atipico, certamente non corrispondente né allospirito né alla lettera della nostra Costituzione, laddove acuti giuri-sti avevano ritenuto essere i decreti-legge addirittura strumenti perla gestione di emergenze costituzionali ed extra-costituzionali.

Basti ancora, in proposito, menzionare che il Presidente dellaRepubblica viene costretto da motivi di reale necessità sociale ademanare per ripetute volte i medesimi decreti-legge perché il Gover-no è indotto a reiterarli da ragioni spesso inconfutabili sul pianodegli obiettivi interessi della collettività, mentre il Parlamento nonriesce né a convalidarli né a respingerli!

È in un contesto siffatto che si collocano le incomprensioni, opeggio, il graduale, netto distacco della gente dalle Istituzioni, poi-ché sfuma, appunto, agli occhi della gente, in una configurazionesempre più confusa e sempre più indistinta, l’immagine alta ed augu-sta dello Stato, di uno Stato che valga effettivamente a garantire l’or-dinato svolgimento della vita civile e ad amministrare efficacementela giustizia.

In questa situazione, si registra al contempo una sorta di smarri-mento, di graduale perdita di identità delle Istituzioni, quasi che ilcammino compiuto dal 1946 ad oggi, anziché concorrere a puntua-lizzare ed a precisare, attraverso una progressiva edificazione di con-venzioni e di prassi, i caratteri ed i ruoli delle varie istituzioni, aves-se invece in qualche modo contribuito ad accrescere, intorno a que-sti caratteri ed a questi ruoli, ambiguità, dubbi, contraddizioni. Ècosì che oggi le loro funzioni risultano sovente non univoche e nonindiscusse, ma anzi suscettibili di discordanti e spesso lacerantiinterpretazioni contrapposte, non saldamente ancorate alla certezzadel diritto, ma soggette alla precarietà di diverse letture, a volteanche strumentali, con grave nocumento per la stessa capacità delleistituzioni di operare correttamente al servizio dello Stato e dei cit-tadini. E ciò vale anche per la posizione ed il ruolo del Presidente

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della Repubblica, ora enfatizzati a mo’ di contrappeso, quando nondi «opposizione», a maggioranze di cui non si sia partecipi, ora neu-tralizzati quando si pensi di poter se non altro influenzare le «mag-gioranze», anche quando non in sintonia con i propri indirizzi.

E tutto ciò accompagnato da dovizia di citazioni di affermata cul-tura giuridica e capacità interpretativa.

1.9. Certamente non appartiene al Presidente della Repubblica lascelta fra le varie e possibili soluzioni di riforma – ciò infatti equi-varrebbe ad appoggiare l’adozione dell’uno o dell’altro specifico,composito modello delle forze politiche –, ma certamente costituiscediritto e dovere del Capo dello Stato indicare quali esigenze debba-no essere soddisfatte affinché, all’opera di riforma delle istituzioni,si senta interessata e partecipi la parte più larga possibile della co -munità nazionale ed anche esprimere valutazioni di congruità o dinon congruità e, soprattutto, di conformità o non conformità deimodelli proposti ai principi costituzionali ed ai valori dello Statodemocratico.

La disfunzione delle istituzioni; l’appannamento dei valori di cre-dibilità dello Stato e degli altri soggetti del potere pubblico; l’affie-volimento dell’autorità effettiva dello Stato stesso in alcune zone delPaese; le carenze e le lentezze nell’amministrazione della Giustizia,sia civile che penale, ed i sospetti di partigianeria politica che su diessa a volte si sono fatti gravare; l’insufficiente risposta dei servizialla domanda sociale della gente; l’apparire sempre di più i partiti,più che quali organizzatori del consenso per l’affermazione di orga-nici programmi, quali gestori di potere; tutto ciò rischia di allonta-nare il cittadino e di indebolire la sua fiducia, il suo sostegno, la suaadesione, il suo rispetto delle istituzioni democratiche repubblicane,che sono il presidio delle civiche libertà e della democrazia.

Insieme ad una crescente disaffezione dal nostro sistema di gover-no, c’è il grave pericolo che questo malessere si esprima, presto otardi, in un comune sentimento di non accettazione dei principi di«legittimità» che prima ancora di quelli di «legalità» sono il fonda-mento reale dell’osservanza della legge e dell’autorità dello Stato.D’altro canto, la vita della comunità civile, per fantasia, laboriosità,gusto del rischio nell’impresa economica industriale e agricola; re -sponsabilità, solidarietà, intelligente e consapevole produttività nelcampo del lavoro e dell’artigianato; fioritura di inventiva e di intui-zione nell’arte e nella scienza; più maturo e partecipato interesse

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della gioventù ai problemi della società; rinascita autentica del sensoreligioso e dell’impegno spirituale; sviluppo rigoglioso del volonta-riato, inteso come strumento ed espressione di reale e solidale comu-nicazione-comunione fra gli uomini; più generale interesse per i pro-blemi della vita e dello sviluppo e per le lotte di libertà, di liberazio-ne e di progresso delle altre nazioni e degli altri continenti: tutte que-ste cose consentono di misurare la crescita umana, culturale e civiledella nostra comunità nazionale.

È quindi la distanza fra istituzioni e società civile che occorreridurre, è questo pericolo di allontanarsi e disaffezionarsi del citta-dino dalle sue istituzioni che occorre evitare.

La recente prova referendaria ha dimostrato un largo interessedei cittadini alla espressione immediata e reale della propria volon-tà, senza intermediazione di gruppi, gestione di partiti, mediazioniesterne ed interne, a volte avvertite come vere e proprie fonti etero-genee alle proprie scelte e come fattori di possibili manipolazionidelle proprie opzioni.

Di tutto ciò la classe politica non potrà non tener conto, posta difronte al problema della riforma delle istituzioni. Di tutto ciò occor-rerà che il Parlamento tenga conto nella scelta dei modi e delle pro-cedure attraverso i quali ammodernare le nostre istituzioni. Sonoimportanti, certamente, le scelte di merito: presidenzialismo, semi-presidenzialismo, cancellierato, Governo del Primo Ministro e cosìvia. Ma altrettanto importanti sono, sotto il profilo dell’acquisizionedi un reale consenso alle istituzioni che si vanno a costituire, le scel-te delle procedure attraverso le quali operare le scelte di merito.

Guai se le opzioni da adottare fossero intese come accordi con-trattualistici di potere fra i partiti! Guai se le scelte da attuare fosse-ro sentite come ispirate non dall’interesse generale, ma dalla volon-tà pervicace di conservare e gestire comunque la quota di potereconquistato e mantenuto, magari sotto forma di rendita di un siste-ma che, allora sì, sarebbe destinato ad un rapido e non rimpiantodeclino!

La volontà di partecipazione attiva della gente alle scelte fonda-mentali che riguardano l’assetto del nostro sistema, e quindi l’avve-nire della nostra comunità, è questo un valore essenziale, un senti-mento condiviso che dovrà essere tenuto ben presente, in particola-re quando si deciderà sui modi e sulle forme della partecipazionepopolare al procedimento di rinnovamento delle istituzioni e, quindi,sul modo di riconoscere e di affermare in concreto la naturale e pri-

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migenia preminenza della sovranità popolare ed il carattere originariodell’essere il popolo in democrazia l’unico e vero sovrano reale.

Nel momento in cui ci si preoccupa di colmare il fossato fra socie-tà civile e istituzioni non sarebbe facile spiegare ai cittadini, dopoaver lodato la loro partecipazione al recente referendum, come formadi alto civismo e di acuto senso dello Stato, che le riforme istituzio-nali debbano, o forse è più prudente, invece, che vengano fatte senzauna loro diretta partecipazione; non sarebbe facile spiegare allagente comune che, dopo averla chiamata a decidere sulla unicità delvoto di preferenza, in vista di assicurare maggiore genuinità e tra-sparenza alla formazione della rappresentanza nazionale, si servireb-be meglio l’interesse generale se, sui problemi quali le forme di go -verno, cioè il modo in cui il Paese deve essere governato, si proce-desse senza la diretta utilizzazione delle sue scelte, senza la imme-diata efficacia del suo voto!

Una società moderna, aperta, informata, matura come la nostranon comprenderebbe tutto ciò, se non, ahimè! nella chiave inter-pretativa di una ostinata volontà di conservazione degli equilibri esi-stenti e di difesa dell’attuale assetto del potere politico.

Pur avvertendo questi pericoli, e desiderando scongiurarli, impe-gnato nel promuovere il rinnovamento, che è oggetto della coralerichiesta della gente comune, al Presidente della Repubblica nulla dipiù è consentito, in relazione a questo problema, che «consigliare,incoraggiare, ma anche ammonire», secondo un’antica regola del co -stituzionalismo britannico. Secondo la Costituzione e la regola mora-le di servizio di cui essa è strumento, questo è diritto incontestabile,dovere e responsabilità indeclinabile del Capo dello Stato: ad altrioperare, scegliere, deliberare secondo le proprie attribuzioni esecondo il dettato della propria coscienza e la corretta interpreta-zione e la genuina espressione della volontà popolare.

Non sembri eccessivo il giudizio sullo stato presente delle istitu-zioni: ché né rigore né pessimismo hanno mai impedito alla «buonavolontà» né indulgente e prudente realismo, né ottimismo e decisio-ne nell’agire.

* * *

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i progetti di riforma

2.0. ottava legislatura: l’avvio del processo riformatore

La questione istituzionale è all’ordine del giorno del Paese daanni e all’attenzione del Parlamento da almeno tre legislature.

2.0.1. Le prime proposte formulate dai Presidenti del Consiglio Forla-ni e Spadolini

All’inizio degli anni ottanta, le tematiche sulla politica costituzio-nale divennero gradualmente centrali nel dibattito tra i partiti e nelladialettica tra il mondo politico e la società civile.

Nelle sue dichiarazioni programmatiche rese in Parlamento in se -de di presentazione del suo primo Governo (22 ottobre 1980), l’o-norevole Forlani fu il primo a svolgere considerazioni e a sollevare laquestione delle riforme: «lo sviluppo della società si intreccia ognigiorno di più con l’urgenza di una diversa funzionalità delle istitu-zioni; rilanciare il senso delle istituzioni dello Stato significa perse-guire l’obiettivo di garantire ai soggetti individuali e collettivi la lega-lità: un quadro di certezze giuridiche nel quale sia possibile realizza-re ciascuno la propria iniziativa, i propri compiti». Pur riconoscen-do l’esigenza di porre mano ad una vasta riforma che riconsiderassealcuni istituti e procedure previste dalla Costituzione, il Presidentedel Consiglio Forlani ritenne già nel 1980 indispensabile affrontareimmediatamente le questioni connesse alla riforma della pubblicaamministrazione, alla riorganizzazione della Presidenza del Consi-glio e ad una revisione legislativa nel settore della giustizia.

I temi di riforma costituzionale, affrontati dal senatore Spadoliniin Parlamento, nella esposizione del programma del suo primo Go -verno, si allargarono all’esigenza di un ritorno alla Costituzionerispetto a prassi e comportamenti invalsi nel corso degli anni, con ilripristino della mozione di fiducia motivata e la rivalutazione, secon-do l’articolo 95 della Costituzione, della figura e del ruolo del Presi-dente del Consiglio dei ministri. Nel suo discorso il Presidente delConsiglio affrontò anche i problemi della cosiddetta «giustizia politi-ca», nonché quelli concernenti l’introduzione di una «corsia prefe-renziale» nel procedimento legislativo per i provvedimenti program-matici del Governo e l’organizzazione di una sessione parlamentare

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di bilancio secondo i principi già contenuti nell’articolo 119 delRegolamento della Camera e nell’articolo 125 del Regolamento delSenato. Furono pure affrontate le questioni della regolamentazionedello sciopero nei pubblici servizi, dell’organizzazione della prote-zione civile e di una nuova legge sull’ordinamento degli enti locali.

2.0.2. L’accordo programmatico sulle forme istituzionali nel secondogoverno Spadolini

Nella fase di formazione del suo secondo Governo, il Presidentedel Consiglio incaricato Spadolini propose di inserire nel programmaun cosiddetto «decalogo» programmatico in materia istituzionale. Ildocumento, siglato al termine della riunione dei cinque partiti (dc, psi,pri, psdi e pli), recitava testualmente: «I rappresentanti dei partitihanno constatato l’esistenza di una piattaforma programmatica ido-nea a dar vita ad un Governo che ponga decisamente al centro dell’i-niziativa politica nel Parlamento e nel Paese il problema di completeed incisive riforme costituzionali capaci di neutralizzare le cause delledisfunzioni che troppe volte hanno paralizzato gli sforzi dei Governi».

Nelle dichiarazioni programmatiche, il Presidente del ConsiglioSpadolini, dopo aver osservato che si poteva verificare «un punto disvolta rilevante per il nostro sistema politico», aprì il discorso istituzio-nale a tutte le forze politiche, precisando: «Il Governo deve e vuole farerivivere nell’accordo sottoscritto dai partiti della maggioranza tutte leconvergenze culturali e politiche nate e maturate in questi anni, o me -glio decenni, di riflessione sulla questione istituzionale. Il Governoricercherà sempre con l’opposizione lo idem sentire de constitutione,convinto che le possibili riforme istituzionali non sono affari di mag-gioranza, bensì investono la comune politica nel suo complesso».

2.0.3. La costituzione dei Comitati ristretti in seno alle CommissioniAffari Costituzionali della Camera e del Senato

A seguito dell’accoglienza favorevole, anche fra le forze di oppo-sizione, delle proposte del Presidente del Consiglio, i Presidentidelle Camere, onorevole Iotti e senatore Fanfani concordarono: «diinvitare le Commissioni Affari Costituzionali del Senato e della Ca -mera a procedere alla costituzione, nel proprio seno, di un Comita-to ristretto – composto da un rappresentante per ciascun gruppoparlamentare, inserendo anche i membri di gruppi non rappresenta-

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ti nella Commissione – con il compito di sottoporre, entro il 31 otto-bre 1982, al Presidente della Camera di appartenenza un documen-to recante un elenco ragionato:

– delle proposte già all’esame delle Camere in materia istituzio-nale, curando di verificarne lo stato;

– di eventuali altri punti degni di considerazione sulla stessamateria, in evidenza in sede politica e parlamentare;

– di eventuali suggerimenti in ordine a modifiche regolamentariche dovessero ritenersi necessarie in relazione alle suddette propo-ste di carattere istituzionale».

I Comitati di studio all’uopo creati adempirono senza indugio ilcompito loro assegnato e ciascuno, nel termine fissato del 31 ottobre1982, presentò ai rispettivi Presidenti la relazione conclusiva.

2.0.4. La proposta del Presidente del Consiglio Fanfani di costituzionedi una Commissione bicamerale per le riforme istituzionali

Il Presidente del Consiglio Fanfani, il 10 dicembre 1982, nellaesposizione delle linee politiche e programmatiche del suo quintoGoverno, dichiarò: «Uno dei principali impegni caratteristici delnuovo Governo sarà quello di secondare, per la parte che gli spetta,l’opera che il Parlamento – dopo l’inventario delle iniziative esisten-ti e dei temi dibattuti in materia di revisione costituzionale, conclusoil 31 ottobre con le relazioni dei Comitati ristretti del Senato e dellaCamera – si accinge a sviluppare per la riforma delle istituzioni.

Parlamento e Governo devono, con coordinate iniziative a cia-scuno spettanti, rendere le varie istituzioni più rappresentative dellasocietà mutata, più capaci di adempiere alle funzioni per le qualisono costituite, concorrendo agevolmente e tempestivamente a sod-disfare le giuste attese del popolo italiano.

[...] Subito dopo il dibattito sulla fiducia è necessario promuove-re il voto nelle due Camere di una identica mozione. Servirà a darevita ad una Commissione bicamerale. Essa indicherà ai detentori delpotere d’iniziativa le proposte da presentare alle Camere e quelle dasuggerire nelle rispettive Giunte del Regolamento, per le innovazio-ni di carattere legislativo-costituzionale o ordinario – e regolamenta-re ritenute necessarie. In questo contesto dovrà essere coordinata laconclusione di proposte di legge in corso d’esame parlamentare,come quelle relative alla Presidenza del Consiglio, alle autonomielocali ed ai procedimenti d’accusa».

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La proposta avanzata dal Presidente del Consiglio Fanfani furecepita da Camera e Senato che deliberarono di costituire unaCommissione bicamerale, con il compito di formulare proposte diriforma costituzionale e legislativa.

Tale Commissione, per la fine anticipata dell’viii legislatura, potéessere costituita soltanto nella legislatura successiva.

2.1. Nona legislatura: la Costituzione della Commissione bicameraleper le riforme istituzionali. I contenuti della relazione conclusiva e leiniziative conseguenti

2.1.1. La dichiarazione programmatica del Governo Craxi

All’inizio della ix legislatura, il Presidente del Consiglio Craxidichiarò in Parlamento, in sede di presentazione del suo Governo:«La riforma istituzionale non potrà non essere uno dei temi centralidella ix legislatura. L’opera di rinnovamento delle istituzioni politi-che, dell’Amministrazione, delle autonomie e della giustizia di cui dalungo tempo si avverte la necessità, anzi l’indispensabilità per ilmiglior funzionamento complessivo dell’intero sistema, investe laresponsabilità di tutte le forze del Parlamento e offre il terreno di ungrande e libero confronto di ideali e di indirizzi che verranno amaturazione attraverso il lavoro parlamentare, di cui il Governo au -spica una sollecita ripresa, attraverso la costituzione di una Com-missione intercamerale, già deliberata nella precedente legislatura».

Molti i temi di riforma indicati dall’onorevole Craxi, ma i piùsignificativi sono quelli concernenti l’organizzazione del lavoro par-lamentare (in particolare: l’abolizione del voto segreto, la non emen-dabilità e reiterabilità dei decreti-legge; l’instaurazione della sessio-ne di bilancio per l’esame dei documenti finanziari) e la riformadella Presidenza del Consiglio dei ministri, sulla base del progettogià presentato nella precedente legislatura dal Governo Spadolini.

L’auspicio del nuovo Presidente del Consiglio fu realizzato, con lacostituzione il 12 ottobre 1983 della Commissione bicamerale.

2.1.2. Le proposte della Commissione bicamerale contenute nella rela-zione presentata al Parlamento

La Commissione bicamerale per la riforma istituzionale, a presie-

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dere la quale i Presidenti delle Camere chiamarono il compiantoonorevole Aldo Bozzi, il 29 gennaio 1985 presentò una relazione, incui erano formulate le proposte di revisione costituzionali e legisla-tive per le quali si era manifestato un ampio consenso ed erano messiin evidenza i punti sui quali, viceversa, detto consenso non si eraavuto.

Le forze politiche (fatta eccezione per i rappresentanti delGruppo msi-dn) erano tutte orientate ad una riconferma delle scel-te fondamentali compiute dall’Assemblea Costituente, nella dire-zione di uno Stato unitario organizzato nella forma del governopar la mentare.

Gli interventi dovevano dunque consistere in aggiornamenti e ret-tifiche del testo costituzionale che, pur conservandone la tramaessenziale, ne riconsiderassero, alla luce dell’esperienza, alcune par ti.

In particolare:

a) Delegificazione e decentramento legislativo. Istituti di democra-zia diretta.

La Commissione osservò che nell’ordinamento si registrava unprocesso basato sulla diffusione del potere e sul policentrismo deisoggetti decisionali, che non andava frustrato, ma almeno in partesecondato con la delegificazione e il decentramento legislativo, conl’introduzione di nuove forme di referendum, con l’istituzione deldifensore civico e la tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, conil rafforzamento dell’istituto della petizione, con l’istituzione della«riserva di regolamento».

Altre importanti innovazioni concernevano una razionalizzazionedel referendum abrogativo. Alla luce dell’esperienza e di alcune sen-tenze della Corte costituzionale, si proponeva di aumentare il nume-ro degli elettori necessari per la sottoscrizione, di definire più esat-tamente l’oggetto del referendum e le ipotesi di esclusione, di antici-pare la verifica di ammissibilità della Corte costituzionale, in mododa escludere iniziative avventate e da evitare insieme una antiecono-mica attività di sottoscrizione di proposte inammissibili.

Veniva accolta la proposta, da più parti avanzata, di introdurrenel nostro ordinamento una forma di referendum simile a quello pre-visto in altri ordinamenti, per sentire il parere del corpo elettorale suquestioni di alta rilevanza politica, con il consenso della maggioran-za del Parlamento: un referendum consultivo, non giuridicamentevincolante per il Parlamento e per il Governo, e ciò al fine di non

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intaccare le prerogative di questi organi in un ordinamento preva-lentemente ispirato ai principi della democrazia rappresentativa.

b) Il Parlamento.La Commissione si era lungamente soffermata sul dilemma tra

una soluzione monocamerale, tenacemente sostenuta dal pci, da dp,dalla Sinistra Indipendente e, con diverse caratteristiche, dal msi-dn,e una soluzione bicamerale.

La Commissione tuttavia si orientava prevalentemente per man-tenere la scelta bicamerale, strutturata però nel senso di una mag-giore differenziazione della composizione e delle funzioni delle Ca -mere.

Per quanto riguardava la composizione, la Commissione auspica-va una riduzione del numero complessivo dei parlamentari.

Quanto alle funzioni, la Commissione si era orientata nel senso diattribuire alla Camera dei deputati una prevalenza nell’eserciziodella funzione legislativa e al Senato una prevalenza nell’eserciziodella funzione di controllo. Per la funzione legislativa, le attualimodalità di esercizio «collettivo» da parte delle due Camere dove-vano essere conservate soltanto per alcune categorie di leggi «bica-merali» in ragione della loro rilevanza.

Si prevedeva inoltre l’istituzione della «corsia preferenziale» per iprogetti di legge del Governo, in connessione con la drastica ridu-zione del ricorso alla decretazione di urgenza.

Si proponeva, infine, che la fiducia al Governo fosse accordata orevocata dalle due Camere riunite in seduta comune, al fine di evi-tare una inutile duplicazione di procedure.

c) Il Governo e i suoi rapporti con il Parlamento.Per quanto riguarda il Governo, si prospettava un rafforzamento

dei poteri di indirizzo e di coordinamento del Presidente del Consiglioe l’adozione di strumenti che tendessero alla formazione di «Governidi legislatura». Si proponevano pertanto soluzioni quali: il legamefiduciario diretto tra Presidente del Consiglio e Parlamento; l’attribu-zione al Presidente del Consiglio del potere sostanziale di nomina erevoca dei Ministri; l’istituzionalizzazione del Consiglio di Gabinetto;l’esplicita previsione normativa delle figure dei Ministri senza portafo-glio; la definizione del ruolo dei Comitati interministeriali; l’adozionedi un regolamento interno per il Consiglio dei ministri.

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d) Il Presidente della Repubblica.La Commissione riteneva, nella sua grande maggioranza, che non

andasse modificata l’attuale posizione costituzionale del Presidentedella Repubblica, considerata complessivamente soddisfacente, siaper quanto riguarda il collegio elettorale che lo esprime, sia perquanto riguarda i poteri e la durata del mandato.

La Commissione si era orientata nel senso di introdurre la nonrieleggibilità del Presidente della Repubblica, con contestuale revi-sione del cosiddetto «semestre bianco», indicando la soluzione diconsentire lo scioglimento anche nell’ultimo semestre del mandatopresidenziale, ma su parere conforme dei Presidenti delle Camere:parere che diventava così, per questa sola ipotesi, non solo obbliga-torio, ma anche vincolante.

La Commissione proponeva di dare una definizione normativaorganica a tutta la materia dell’impedimento, che aveva sollevatotante polemiche dopo il «caso Segni» e che non sembrava il caso dilasciare ulteriormente affidata alla prassi.

e) Finanza pubblica.La Commissione elaborò anche una proposta sulla ridefinizione

dei principi costituzionali in materia di finanza pubblica, con l’e-splicazione dei vincoli connessi alla legge di bilancio e dei vincoli inordine al rinvio delle leggi per violazione dell’articolo 81 della Costi-tuzione.

Al termine dei suoi lavori la Commissione approvò quindi unarisoluzione, allegata alla relazione finale, nella quale invitava il Par-lamento a programmare nei tempi più rapidi, con un’apposita ses-sione dei lavori, la discussione e la puntualizzazione definitiva delleconclusioni raggiunte, attraverso la presentazione di una specificalegge di revisione costituzionale, cui collegare organicamente la revi-sione dei regolamenti parlamentari.

Il Presidente Bozzi e il Vice Presidente Mancino presentarono,rispettivamente, alla Camera e al Senato, disegni di legge contenen-ti le proposte di modifica della Costituzione elaborate dalla Com-missione.

Le indicazioni contenute nelle relazioni di minoranza furonooggetto di svariati disegni di legge presentati presso i due rami delParlamento.

I progetti furono assegnati alle Commissioni Affari Costituziona-li di Camera e Senato, ma lo scioglimento anticipato del Parlamento

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pose fine al tentativo di grande riforma che avrebbe dovuto caratte-rizzare la ix legislatura.

2.2. Decima legislatura: l’attuazione delle prime riforme istituzionali

2.2.1. Le proposte del Presidente del Consiglio Goria

All’inizio della x legislatura, il Presidente del Consiglio Goriaintrodusse nel suo discorso programmatico del 30 luglio 1987 lanecessità di riaprire il processo di riforma istituzionale, nel quale sierano impegnate tutte le forze presenti nel Parlamento durante laprecedente legislatura. Per parte sua il Governo intendeva portare acompimento la riforma dell’organizzazione e dell’attività dell’Esecu-tivo e della pubblica amministrazione, nonché quella delle autono-mie locali. Contestualmente chiedeva al Parlamento di perfezionarerapidamente l’opera già impostata di revisione dei regolamenti par-lamentari.

In particolare si trattava di definire la questione del voto segretoe della introduzione di corsie preferenziali per proposte qualificantiper l’Esecutivo, da bilanciare con il potenziamento delle strutture dicontrollo parlamentare nei confronti dell’attività governativa.

Intanto presso i due rami del Parlamento venivano ripresentati idisegni di legge di revisione costituzionale che erano decaduti per lafine anticipata della ix legislatura.

2.2.2. Il Governo De Mita: la riforma della Presidenza del Consiglio ela revisione dei regolamenti parlamentari

Il Governo De Mita elesse a punto essenziale del suo programmaun processo di riforma istituzionale che doveva coinvolgere tutte leforze disponibili in Parlamento. Del Gabinetto fece parte per la primavolta un Ministro senza portafoglio per le riforme istituzionali.

Su tale base, tenuto conto delle conclusioni emerse nella Com-missione Bozzi, Governo e Parlamento dovevano procedere:

– alla sollecita conclusione dell’iter parlamentare del disegno dilegge sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri;

– alla riforma dei regolamenti parlamentari, con particolare rife-rimento alla soppressione del voto segreto;

– alla verifica del funzionamento del bicameralismo;

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– alla riconsiderazione della posizione del Governo e del suo pro-gramma in Parlamento.

Accanto alla riflessione sugli istituti e sulle procedure del Gover-no centrale, del Parlamento, dei Ministeri, della Presidenza del Con-siglio, il Governo De Mita considerava urgente la necessità di rifor-mare la «Repubblica delle autonomie».

Il nuovo ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministrifu approvato con la legge 29 agosto 1988, n. 400.

Camera e Senato contemporaneamente modificavano alcuni arti-coli dei rispettivi regolamenti parlamentari, concernenti:

– la disciplina del voto segreto;– gli effetti del parere contrario della Commissione bilancio su

provvedimenti recanti maggiori spese o minori entrate;– l’ulteriore definizione dell’istituto della sessione di bilancio,

attraverso l’indicazione di procedure e tempi per l’esame dei prov-vedimenti di bilancio in Commissione e in Assemblea;

– la programmazione dei lavori parlamentari, con l’introduzionedi «sessioni», al fine di evitare la contestuale convocazione delleCommissioni e dell’Assemblea (soltanto al Senato);

– l’introduzione dell’istituto della interrogazione a risposta imme-diata;

– l’obbligo d’inizio dell’esame delle proposte di legge d’iniziativapopolare e delle Regioni entro un mese dall’assegnazione del prov-vedimento alla Commissione competente.

Dopo che con il referendum dell’8 novembre 1987 erano stateabrogate le norme relative alla «giustizia politica», il Parlamento conlegge costituzionale ridefiniva il procedimento per i reati previstidagli articoli 90 e 96 della Costituzione.

2.2.3. Sesto Governo Andreotti: la conclusione al Senato dell’esamedel disegno di legge di riforma del bicameralismo e le riforme delleautonomie locali

L’onorevole Andreotti, nella esposizione delle linee programma-tiche del suo sesto Governo, insisteva sulla necessità di riforma delbicameralismo e proponeva, tenuto conto degli orientamenti emersiin sede parlamentare, che la doppia lettura dei progetti di leggepotesse essere applicata a materie di particolare rilievo (costituzio-nale e di bilancio, ad esempio) ed ad alcuni tipi di provvedimento(deleghe e decreti-legge), mentre per la restante legislazione dovesse

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essere di regola sufficiente l’esame completo ed analitico e il voto diuna sola Camera. Riteneva, inoltre, che la riforma delle autonomielocali dovesse essere votata sollecitamente. Un breve accenno veni-va infine dedicato alle proposte avanzate da alcuni partiti sull’intro-duzione nel nostro ordinamento del referendum propositivo.

Proprio sulla riforma del bicameralismo il Senato, dopo un esameprotrattosi per circa tre anni, approvò il 7 giugno 1990 un disegnodi legge costituzionale risultante dall’unificazione di otto propostepresentate da vari Gruppi parlamentari. Il provvedimento stabilivala validità del principio del bicameralismo perfetto per i disegni dilegge in materia costituzionale ed elettorale, di delegazione legislati-va, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali di natura poli-tica o che importino variazioni del territorio, di formazione ed ap -provazione di bilanci e consuntivi, di conversione dei decreti-legge.Per tutti gli altri provvedimenti veniva stabilito il principio delcosiddetto «bicameralismo procedurale», secondo il quale il disegnodi legge viene approvato definitivamente dal ramo del Parlamento incui è stato presentato (la regola della «culla»), salvo che l’altro ramodel Parlamento o il Governo entro quindici giorni non ne richieda ilsecondo esame.

Il Senato concludeva nel frattempo l’esame del disegno di leggeriguardante la modifica dell’articolo 85 della Costituzione che stabi-lisce la non immediata rieleggibilità del Presidente della Repubblicae l’abrogazione dell’articolo 88, secondo comma (eliminazione delsemestre bianco).

Il 7 giugno 1990 viene approvata in via definitiva la legge sull’or-dinamento del governo locale.

Deve essere infine sottolineato che sul problema della parlamen-tarizzazione delle crisi di Governo, che fu per la prima volta affron-tato dalla relazione Bozzi, la Camera dei deputati ha approvato unamozione – strumento tipicamente monocamerale ed espressionedella volontà di indirizzo di una determinata Camera in una deter-minata legislatura, la cui idoneità allo scopo, nel caso di specie, èpertanto assai più che dubbia – proposta dai deputati Scalfaro eBiondi, con la quale si impegna il Governo, qualora intenda presen-tare le proprie dimissioni, a rendere previa comunicazione motivataalle Camere.

Su questa materia e con le stesse finalità è stato presentato poi alSenato un disegno di legge costituzionale.

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2.2.4. La questione istituzionale e la formazione del settimo GovernoAndreotti

Durante la crisi che portò alla formazione del settimo GovernoAndreotti, raccogliendo le indicazioni pervenutemi dalle forze poli-tiche durante le consultazioni, chiesi al Presidente del Consiglioincaricato di trovare i punti di convergenza tra le proposte formula-te dai partiti di maggioranza, relative al metodo per affrontare leinvocate riforme istituzionali, sentite anche, su una materia di cosìvasta rilevanza, tutte le altre forze politiche presenti in Parlamento.

Il Presidente incaricato Andreotti, tuttavia, constatò la difficoltàdi pervenire a risultati solleciti e nelle dichiarazioni programmatichesu questo tema affermò: «Le riforme istituzionali, che toccano lacostituzione materiale dello Stato, richiedono una maturità di giudi-zio, che va acquisita in profondità ed attraverso un’ampia partecipa-zione.

Ciò è tanto più vero ed opportuno allorché si passa a discuteredelle forme di presidenza dello Stato e Governo e della necessità diadattarle al grado di crescita della nostra società.

Non concordanze sul mandato da fissare in questa legislatura perdare al primo biennio della prossima poteri di riforma costituziona-le hanno fatto rientrare il mio programma in proposito: salvo oppor-tunità che emergessero in senso diverso, occorre, quindi, rimettersialla volontà ed alle indicazioni dell’xi legislatura della Repubblicacirca i metodi ed il contenuto delle riforme. Ma nel frattempo unampio confronto, anche in ambienti culturali ed accademici, comegià fu fatto nell’immediato dopoguerra, prima dell’Assemblea Costi-tuente, consentirà di chiarire i termini delle questioni in giuoco,senza pregiudiziali negative né pretese di intangibilità.

C’è, tuttavia, parecchio da fare sul terreno delle riforme, senzaritardi e rinvii. Oltre al perfezionamento della legge sul bicamerali-smo e sulle Regioni e le citate modifiche costituzionali sui decreti-legge e sulla disciplina di bilancio di cui ho già detto, vi è anche dacompletare l’iter del disegno di legge che rende più rigorosa l’intro-duzione delle amnistie. Confermiamo, altresì, il nostro appoggio allaproposta di legge costituzionale presentata da diversi deputati e rela-tiva al cosiddetto semestre bianco, allorché quest’ultimo coincida intutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura. Ne sottolineol’urgenza indifferibile.

Continuerà, intanto, il confronto sulle modifiche alle leggi eletto-

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rali, sulle quali per ora è acquisito soltanto il favore per l’introdu-zione di un collegio unico nazionale per la Camera dei deputati e peradeguare il numero dei collegi ai seggi senatoriali, tuttora incomple-ti (oggi 238 su 315 mandati)».

Formatosi il settimo Governo Andreotti, il disegno di legge sulbicameralismo ha concluso il suo iter presso la Commissione AffariCostituzionali della Camera dei deputati, che ha apportato diversemodifiche al testo del Senato. Il nuovo testo, infatti, contiene unaridefinizione del «bicameralismo procedurale» e l’introduzione dicriteri di ripartizione della funzione legislativa tra Stato e Regioni,che prende le mosse dall’enumerazione delle competenze del primo.

La Camera dei deputati ha anche trasmesso al Senato un disegnodi legge che modifica l’articolo 88 della Costituzione, nel senso cheil Presidente della Repubblica può sciogliere le Camere anche negliultimi sei mesi del suo mandato, purché in coincidenza con la sca-denza naturale della legislatura.

* * *

Alla luce di quanto già esposto, si può, dunque, a ragion vedutaaffermare che, nella lista dei propugnatori delle riforme istituziona-li, il Presidente della Repubblica figura buon ultimo.

Significative iniziative sono state condotte a buon fine.La riforma dei regolamenti parlamentari, le leggi sui procedi-

menti di accusa e sul governo locale, il nuovo ordinamento dellaPresidenza del Consiglio dei ministri, la riforma delle procedure dibilancio e la legge sul procedimento amministrativo costituisconocontributi di prim’ordine al «buon governo».

Malgrado tutto questo, peraltro, non ha ancora preso consistenzaquel disegno organico e coerente di riforma delle istituzioni che leforze politiche da gran tempo perseguono.

Ricordo che, nei primi tempi del mio settennato, ebbi ad affer-mare che le riforme istituzionali si possono fare o non fare, ma chenon è lecito parlarne come di cose indispensabili, per poi lasciaretutto come prima.

Ora, credo che sia un dovere preciso del Capo dello Stato darvoce alle aspettative dei cittadini.

Ed è proprio in adempimento di questo dovere che, nell’affidarel’incarico per la formazione dell’attuale Governo, nello scorso mesedi aprile, posi io stesso il problema nei dovuti termini di urgenza,

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attraverso il conferimento di un mandato qualificato dall’impegnoistituzionale.

Nelle trattative che seguirono, i partiti della coalizione non trova-rono modo, come si è già accennato, di accordarsi su questo, chedoveva essere il punto più qualificante, a detta degli stessi partiti, delprogramma del nuovo Governo. Vedremo più avanti il perché, so -prattutto con riferimento alle questioni di metodo, afferenti allamodificazione dell’articolo 138 della Costituzione.

2.2.5. Le proposte di riforma

In effetti rimangono ancora da sciogliere i nodi fondamentali chel’opinione pubblica ben avverte e che possono essere così illustrati,risalendo alle cause di alcune patologie costituzionali che l’esperien-za ha posto in luce.

Dal suo particolare punto di osservazione, il Capo dello Statonella sua qualità di rappresentante dell’unità nazionale, ha vissuto evive con particolare sensibilità l’esperienza di questo malessere co -stituzionale.

I partiti hanno ora precisato e messo a punto le rispettive posi-zioni, sui quattro temi fondamentali della forma di governo, dellalegge elettorale, delle autonomie locali e del bicameralismo.

Tutte le proposte sono favorevoli al rafforzamento del potere ese-cutivo in vista di una migliore efficienza dell’azione di governo.

Per realizzare questa finalità alcune forze politiche puntano sulmodello presidenziale o semi-presidenziale; altre su misure di parla-mentarismo razionalizzato, quali il ruolo centrale del Capo dell’Ese-cutivo; la sua elezione da parte del Parlamento; il voto di sfiduciacostruttiva e lo scioglimento automatico delle Camere.

Strettamente connessa al problema della individuazione dellaforma di governo è la questione dei sistemi elettorali. Anche qui imodelli proposti variano sensibilmente: alcuni si rifanno all’espe-rienza del sistema del doppio turno alla francese e a quello tedescoper l’elezione del Bundestag. Non si registra una scelta netta da partedella maggioranza dei partiti per un sistema elettorale o totalmentemaggioritario su base uninominale o totalmente proporzionale.

L’unica preoccupazione comune che è dato cogliere nelle varieproposte è quella relativa alla possibilità che il corpo elettorale siamesso in condizione di esprimersi sull’indirizzo politico e program-matico dell’azione di governo.

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In tema di bicameralismo, gli orientamenti espressi sono in partefavorevoli a realizzare l’ipotesi già fatta propria dal progetto all’esa-me delle Camere sul così detto «bicameralismo procedurale», secon-do le linee già illustrate, in parte invece riprendono l’ipotesi già ven-tilata all’Assemblea Costituente, di una seconda Camera delle Regio-ni, mentre rimane in piedi, nella concezione di talune forze politi-che, l’opzione monocamerale.

Le autonomie locali rimangono ancora al centro dell’attenzionedelle forze politiche. Si tratta di completare la riforma già delibera-ta con la legge 8 giugno 1990, n. 142. Vi sono suggerimenti relativialla revisione dell’articolo 117, nel senso del conferimento di piùampia potestà legislativa alle Regioni, anche attraverso una inversio-ne della logica della norma, che comporti l’elencazione non più dellematerie conferite alle Regioni, ma di quelle riservate alla legislazionenazionale. Per quanto riguarda gli enti territoriali minori, si registrauna convergenza di posizioni sulla obbligatorietà delle deleghe daparte delle Regioni, con apposita modifica dell’articolo 118 della Co -stituzione. Un largo schieramento è anche favorevole alla elezionediretta dei sindaci.

* * *

i terreni delle riforme

La seguente indicazione dei temi e dei terreni delle riforme nonvuole naturalmente essere esaustiva.

3.0. forme di governo, strumenti di governo, sistema elettorale

Nel dibattito costituzionalistico e politologico che indaga sulleragioni del malessere istituzionale della nostra Repubblica, un datosembra restituire unità alle diverse e molteplici analisi, conducen-dole, in maniera prevalente, all’ormai ineludibile necessità di pormano alla riforma complessiva dei «rami alti» del nostro sistema digoverno.

Ciò che appare indilazionabile è restituire poteri efficienti eresponsabilità riconoscibili alle istanze di governo, mediante un lorodiretto fondamento democratico. Questa finalità può essere perse-

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guita sia con la forma di governo parlamentare, sia con il sistemapresidenziale, secondo l’esperienza delle democrazie pluralisticheoccidentali.

Molte sono, poi, le varianti che queste due soluzioni conoscono opossono conoscere e ampia è la riflessione sui rispettivi pregi e difet-ti, sull’articolazione dei rapporti tra gli organi di indirizzo che impli-cano, sulla loro compatibilità con le caratteristiche peculiari di ognitessuto sociale e politico.

La storia italiana degli anni recenti mostra con tutta evidenza lanecessità che anche i nostri Governi vengano rinvigoriti da poteri eresponsabilità democratici, che non si dissolvano nei processi dellaloro formazione e nella fragilità dei loro fondamenti. Qualunque siala scelta riformatrice che si vorrà compiere sulla strada della demo-cratizzazione e del rafforzamento delle strutture di governo, essa im -plicherà naturalmente la ridefinizione dei poteri delle istituzioni diindirizzo politico e dei loro reciproci rapporti.

Ben diversamente, ad esempio, dovranno e potranno delinearsi ipoteri e i modi di elezione del Presidente della Repubblica e del Par-lamento, in conseguenza della scelta di un regime di elezione diret-ta del Capo del Governo, ovvero del partito o della coalizione di Go -verno.

Così, ben diversamente si configureranno i rapporti tra Governo,Parlamento e Presidente della Repubblica ove si decida di permane-re nel quadro dei regimi parlamentari, o si voglia, invece, accoglierela novità del regime presidenziale.

È sufficiente riflettere, a questo fine, sulla particolarissima, ten-denziale compatibilità, in regime di separazione di poteri, e noncerto in regime parlamentare o anche semipresidenziale, tra Gover-ni e maggioranze parlamentari di diverso segno politico, ove siabbiano condizioni di omogeneità sociale e bilanciamenti istituzio-nali non paralizzanti, o, ancora, riflettere sulla specificità della fun-zione parlamentare di controllo.

Così, basta considerare le necessità di stabilizzazione delle mag-gioranze e di razionalizzazione del rapporto di fiducia e del poteredi scioglimento delle Camere imposte da una forma di governo par-lamentare di coalizione, per comprendere che non hanno eguali néin un regime parlamentare tendenzialmente bipartitico, né, ovvia-mente, in un regime presidenziale.

Lo sforzo riformatore indirizzato alla legittimazione diretta delsistema di governo perderebbe, però, gran parte del suo significato

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ove non implicasse l’attribuzione al Governo e alla sua maggioranza,di poteri e di garanzie di attuazione del proprio programma, dallaquale risulti poi, palesemente riconoscibile, da parte delle opposi-zioni e del corpo elettorale, il titolare della responsabilità.

Devono essere affrontati allora innanzitutto i nodi del governodella manovra finanziaria e della legislazione di spesa, così comequelli della decretazione d’urgenza, della delegificazione, fino allaprevisione eventuale di una vera e propria riserva di regolamento.

Il problema della forma di governo si interseca inevitabilmentecon quello della legislazione elettorale. In particolare in un sistema a«multipartitismo estremo» come il nostro, le esigenze di legittima-zione di maggioranze di governo omogenee, durevoli e chiaramenteresponsabili, debbono essere conciliate con la complessa problema-tica della rappresentanza di molti interessi e di molte forze.

3.1. Autonomie

Il varo di strategie istituzionali intese ad attivare un processo dirinnovamento pone il problema di un diverso rapporto tra lo Statocentrale, le Regioni e gli enti locali, per l’importanza che questi assu-mono nel quadro generale del sistema istituzionale.

Le difficoltà e i limiti connessi al completamento dell’ordinamen-to regionale non appaiono oggi superabili se non attraverso un ade-guamento del sistema istituzionale che faccia del livello regionale lacerniera ed il momento qualificante di un articolato pluralismo isti-tuzionale.

Non v’ha dubbio che la valorizzazione del governo locale è formadi garanzia dell’equilibrio complessivo del sistema e del suo radica-mento democratico, considerando che un governo locale forte e for-temente collegato ai cittadini rappresenta il contrappeso di un fortepotere esecutivo centrale.

Quale sia la scelta finale che il Parlamento opererà nel campodella ripartizione di competenze tra Stato e Regioni, non v’è dub-bio che la definizione del nuovo sistema istituzionale dovrà proce-dere di pari passo ad una revisione dell’articolo 119 della Costitu-zione, perché, acclarato che l’autonomia finanziaria non rappresen-ta più un ambito sufficiente né sotto il profilo delle risorse né dellaresponsabilizzazione politica, solo l’attribuzione di un’autonomiatributaria che consenta di definire un sistema fiscale coordinato conil nuovo sistema istituzionale, rappresenta la garanzia fondamenta-

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le per la sua effettività, ma anche per la costruzione di un sistema dicorresponsabilizzazione dei centri di spesa nel reperimento dellerisorse.

La recente legge n. 142 del 1990 ha aperto nuove prospettive alruolo che l’ente locale viene ad assumere nell’impianto complessivodell’ordinamento costituzionale, con una forte accentuazione dellaautonomia statutaria, quale nuova ed incisiva fonte di diritto, checonsente la fuoriuscita dall’uniformità verso la differenziazione ed ilpluralismo.

Sino ad ora, per la diversa opinione presente nelle forze politiche,non si è posto mano ai meccanismi elettorali locali, ritenendosi piùopportuno collegarli al discorso che si farà in sede nazionale al mo -mento della scelta della forma di governo e, di conseguenza, delsistema della rappresentanza.

Di certo si tratta di un problema non ulteriormente dilazionabileal fine di completare il disegno già iniziato di riforma delle struttureamministrative, operando nel senso di una separazione tra l’indiriz-zo politico e gestionale, ma fissando le forme ed i modi in cui possaessere garantito l’esprimersi di nuovi interessi e di nuove domandesociali. In una parola, ridare al corpo elettorale la possibilità di inci-dere decisamente nella scelta della rappresentanza a livello locale, seè vero che i Comuni rappresentano un momento essenziale di auto-governo e il primo volto dello Stato nel rapporto con i cittadini, eche l’obiettivo sostanziale delle riforme resta quello di dare rinnova-ta saldezza e democraticità alle istituzioni medesime.

3.2. Ordine giudiziario

Altro ineliminabile tema di riforme istituzionali, in ragione dellafondamentale funzione attribuita all’ordine giudiziario nel nostroordinamento, come in ogni altro sistema fondato sul principio dellasupremazia del diritto, è rappresentato dall’insieme delle norme cheregolano le funzioni, lo stato giuridico dei magistrati e l’organizza-zione degli uffici.

La previsione contenuta nella vii disposizione transitoria dellaCostituzione è rimasta ancora inattuata, atteso che, se con leggi disettore sono state via via modificate molte parti dell’ordinamentogiudiziario, è tuttavia mancata quella riforma integrale che, con uni-taria visione dei problemi, potesse compiutamente realizzare e, sedel caso, sviluppare i principi della Costituzione.

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In sede di riforma integrale dell’ordinamento giudiziario dovràtra l’altro valutarsi in che modo procedere ad una migliore organiz-zazione del pubblico ministero, per rendere questo istituto maggior-mente aderente alle esigenze del nuovo processo penale, quali formedi effettivo ed efficace coordinamento nell’esercizio dell’azione pe -nale debbano essere introdotte, da quali garanzie debbano essereassistiti i magistrati del pubblico ministero, secondo la stessa previ-sione costituzionale che consente una differenziazione tra giudici emagistrati del pubblico ministero, e se i sistemi di reclutamento, diformazione e di carriera di questi ultimi debbano essere gli stessi deigiudici o possano o debbano essere diversi.

E comunque tali sistemi sono attualmente oggetto di discussioneanche per quanto riguarda i giudici, soprattutto sotto il profilo dellaidoneità a garantirne e ad accrescerne la professionalità.

Dal messaggio indirizzato alle Camere nel febbraio 1991, quandoho inviato la relazione della commissione di giuristi da me consulta-ti, era stata già evidenziata l’esigenza di una totale riscrittura dell’in-tero ordinamento giudiziario, anche per consentire l’introduzionedegli opportuni rimedi allo sviluppo pressoché automatico della car-riera dei magistrati, sia giudici sia pubblici ministeri, e per consenti-re che il Consiglio superiore della magistratura possa riappropriarsiin modo effettivo e concreto di uno dei suoi compiti primari che èquello di garantire la qualificazione professionale dei magistrati.

Nella stessa sede è emersa la necessità di rivedere la normativa sulConsiglio superiore della magistratura, al fine di chiarirne i compitie le attribuzioni, per un più puntuale rispetto della riserva di legge,a tutela della garanzia dell’autonomia della Magistratura, dell’indi-pendenza del giudice e dei magistrati del pubblico ministero, non-ché per meglio coordinare le funzioni del Consiglio con quelle delMinistro di Grazia e Giustizia.

Nell’affrontare il compito di queste riforme, il legislatore nonpotrà eludere il problema di verificare se in fatto trovi completa egeneralizzata attuazione nel nostro ordinamento il principio dell’ob-bligatorietà dell’azione penale, e, più in generale ancora, se nellacomplessa società moderna esista la possibilità stessa di dare attua-zione a tale principio, o se un tale obiettivo possa essere raggiuntosolo in presenza di una vasta e profonda riforma del sistema sostan-tivo penale che porti ad una estesa depenalizzazione.

È questa una indagine doverosa anche per dare adempimento allaraccomandazione adottata in materia nel 1987 dal Comitato dei

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ministri del Consiglio d’Europa e per introdurre, ove dovesse risul-tare che non tutto il penalmente sanzionato è perseguibile nei tempie nei modi prescritti, opportuni meccanismi che garantiscano che unpotere, che tanto rilievo ha ai fini dell’azione di repressione dei feno-meni di criminalità e che tanta incidenza può avere sulla libertà esulla dignità dei cittadini, venga esercitato secondo criteri uniformie scelte trasparenti sottoposte ai controlli ritenuti compatibili.

Mi auguro che stiano maturando le condizioni nelle quali sia pos-sibile, senza pregiudizi ideologici, realizzare appieno i principi fon-damentali che debbono sorreggere il sistema giustizia e presiedereall’esercizio della funzione giudiziaria: la supremazia della Costitu-zione e della legge scritta del Parlamento, la certezza del diritto, l’in-dipendenza del giudice e la sua terzietà, l’attribuzione della funzio-ne giurisdizionale al singolo giudice e non al corpo di cui esso faparte, la sua esclusiva soggezione alla legge. Spero, in altre parole,che presto possa essere definitivamente superato il momento dei«contropoteri» politici, da taluni teorizzati sulla base della conce-zione del tutto particolare e decisamente obsoleta della cosiddetta«costituzione materiale».

Rimane comunque il problema di una eventuale rivisitazione del-l’intera materia, ivi compresi argomenti come quelli dell’obbligato-rietà o discrezionalità dell’azione penale, disciplina della strutturadel pubblico ministero e sua responsabilizzazione democratica.

3.3. Finanza pubblica

Altro importante aspetto della vita concreta dello Stato, da rivisi-tare e da rimeditare, è quello della gestione della finanza pubblica.Se «motto» delle rivendicazioni di un sistema rappresentativo furo-no le famose parole «No taxation without representation», di fron-te a voragini di disavanzo, a stillicidio di nuove spese, o di larghezzadi favori, sarebbe forse il caso di mantenere fermo il vecchio, ma diadottare anche un nuovo motto: «Nessuna spesa senza responsabili-tà nella gestione e nella copertura di essa». Salva la sovranità popo-lare nel campo della tassazione e nella programmazione generaledella spesa, occorre ridare all’Esecutivo, sotto il controllo politico,ma senza la supremazia parcellare della tecnica emendatizia del Par-lamento, il governo del bilancio e della finanza pubblica.

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3.4. Interessi diffusi e interessi collettivi

In una problematica generale di riforma, non possono non figu-rare i nuovi doveri e i nuovi diritti, sia collettivi, sia diffusi, chehanno acquistato particolare rilevanza nello «Stato sociale», neldisegno cioè di welfare state in cui, proprio per le sue finalità e carat-teristiche, essi sono presi in speciale considerazione.

Nello Stato contemporaneo infatti, il singolo non è il solo centrodi imputazione di diritti e di doveri, ma è inserito all’interno di uncontesto sociale ed economico composto di ordinamenti particolarie intermedi che sempre di più acquistano rilevanza politica, cui cor-rispondono interessi collettivi dei singoli gruppi.

Il fenomeno si è oggi ampliato fino all’emersione dei cosiddetti«in teressi diffusi», fra i quali spiccano quelli collegati alla «qualitàdella vita» e alla preservazione dell’ambiente naturale dall’inquina-mento.

Il problema è stato avvertito dalla giurisprudenza e dalla dottrinanei paesi economicamente più sviluppati, con il riconoscimento deldiritto di cittadini singoli o associati ad agire per la tutela di dettiinteressi.

Nel nostro ordinamento, i principi della Costituzione consentonodi ampliare la partecipazione ai procedimenti decisionali di tutti co -loro che vi possano risultare coinvolti.

Nella prospettiva dello Stato partecipativo e pluralista, la comu-nità popolare deve essere messa in grado di svolgere proficue ini-ziative di collaborazione e di integrazione con l’azione svolta dallapubblica amministrazione. Un’apertura in questa direzione si è giàavuta con la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente, nonchécon la recente fondamentale legge n. 241 del 1990, che favoriscel’introduzione di interessi secondari nel procedimento amministra-tivo e puntualizza l’iter procedurale dell’azione amministrativa, e -saltando il principio della responsabilità del titolare del procedi-mento.

È auspicabile che tale orientamento legislativo venga ora ulterior-mente sviluppato. Detto auspicio trovò accoglimento nei lavori dellaCommissione Bozzi, la quale volle prevedere una nuova disposizio-ne da inserire tra il terzo ed il quarto comma dell’articolo 24 dellaCostituzione.

In questa categoria di «nuovi diritti», infine deve trovare colloca-zione e riconoscimento anche quello ad una corretta e veritiera

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informazione, come corollario inscindibile della libertà di espressio-ne, che trova nella libertà di stampa la sua più alta manifestazione.

* * *

il metodo delle riforme

4.0. Le proposte delle forze politiche sui grandi temi delle rifor-me scorrono, tuttavia, per molti aspetti, su binari paralleli destinati,ove non vengano operate le opportune convergenze, a non incon-trarsi. Si è in sostanza determinata una situazione di paralisi dellavolontà politica riformatrice. Quando, perciò, durante le consulta-zioni a seguito della crisi del sesto Governo Andreotti, i rappresen-tanti di tutte le forze politiche mi espressero la convinzione che sidovesse procedere a superare questa posizione di stallo, presi la riso-luzione, come espressamente dichiarai, di conferire all’onorevoleAndreotti il mandato di ricercare se già all’interno delle forze cheandavano a costituire il Governo «si potesse trovare un accordo na -turalmente da offrire anche alle altre forze parlamentari, per avviareconcretamente, almeno nei metodi, le riforme istituzionali».

Come è noto, il nuovo Governo – ed io non potei come Capodello Stato che prenderne atto – si assegnò il compito più limitato dicoltivare alcune già iniziate riforme istituzionali, mentre non fu rag-giunto l’accordo per fare del Governo stesso l’organo di proposizio-ne di norme di modifica dell’articolo 138 della Costituzione.

D’altra parte, il problema delle riforme istituzionali, come giàsopra lumeggiato, rimane nella sua interezza, completezza ed inelu-dibilità, perché nasce dall’esperienza politica, economica, civile e so -ciale del quarantennio ed è riconosciuto come urgente da tutte leforze politiche e parlamentari. Da questa costatazione trassi l’idea dicui detti pubblico annuncio proprio a conclusione della crisi di Go -verno, di utilizzare il potere conferitomi dall’articolo 87, secondocomma, della Costituzione, di inviare un messaggio alle Camere delParlamento.

L’articolo 138 della Costituzione rappresenta l’unica via legitti-mamente percorribile per riformare la nostra carta fondamentale.Ciò anche nell’ipotesi che la portata delle riforme da introdurre in -duca a ritenere necessaria una vera e propria fase costituente.

Su tale materia il Presidente della Repubblica non esprime alcu-

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na personale preferenza per l’una o l’altra delle soluzioni politiche otecniche – se mai di soluzioni tecniche si possa parlare – che possa-no essere adottate. Si tratta, infatti, di una scelta di competenza delParlamento e delle forze politiche che lo compongono e, in istanzasuprema, del popolo cui la sovranità appartiene.

Ma il Capo dello Stato ha il dovere indeclinabile di prospettare lanecessità che qualunque procedimento venga prescelto, tenutoconto dell’importanza fondamentale delle opzioni che stanno difronte alle forze politiche, sia sempre garantita l’espressione dellalibera e sovrana volontà popolare. Essa è l’autentico fondamento delnostro Stato, è il titolo di legittimazione giuridica della Costituzionestessa in cui sono racchiuse le norme fondamentali elaborate dal-l’Assemblea Costituente, conformemente ad un mandato ispirato aigrandi valori di libertà, di democrazia e di giustizia sociale testimo-niati dal sacrificio dei martiri della Resistenza e dei caduti dellaGuerra di liberazione, convalidato e ratificato dal voto popolare.

4.1. Nell’orizzonte della problematica vasta e complessa dellariforma delle istituzioni della nostra Repubblica, in coerenza con iprincipi «naturali» di una moderna democrazia, accanto al temadella individuazione e della scelta delle materie e degli oggetti istitu-zionali cui l’impegno riformatore debba applicarsi, ed accanto alproblema dei «modelli» che sia maggiormente utile ed opportunoadottare, e cioè degli istituti e procedure che occorra correggere,riformare o rifondare, in un disegno coerente ed organico, elabora-to e radicato nella realtà viva della società italiana moderna, collega-to ai suoi reali bisogni ed espressione dei valori più attuali, comunie partecipati, si pongono i problemi del «metodo» per l’individua-zione e la scelta di queste «materie ed oggetti», e quindi per l’elabo-razione e l’adozione dei relativi nuovi modelli.

Il problema del «metodo», pertanto, è il problema non tanto deicriteri storici, politici, sociologici e culturali ed anche degli interessieconomici, che debbono illustrare ed illuminare queste individua-zioni e queste scelte, quanto dell’elaborazione e dell’adozione di«modelli», della ricerca di materie ed oggetti ed opzioni di valori edinteressi, posti come «fine» ontologico della riforma e da attualizza-re, almeno nella prospettiva del loro sviluppo e della loro afferma-zione, in una legittima dialettica politica nella società ed in una dia-lettica produttiva di «beni» delle e nelle istituzioni pubbliche.

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Ma il problema del «metodo» è anche problema della determina-zione delle istituzioni, nuove o rifondate, delle norme da rinnovareo da emanare e delle procedure cui affidare sul piano istituzionaletale individuazione, tale scelta, e tale elaborazione, in un quadro uni-tario ed omogeneo, secondo una «progettualità» organica e coeren-te, per giungere ad adeguate soluzioni normative fondanti nuove edarricchenti istituzioni e norme di condotta.

4.1.1. È questo, a ben vedere, forse il problema centrale e fonda-mentale del processo riformatore in atto, sotto il profilo non solotecnico, ma anche storico, etico, politico e di autenticità dell’impe-gno riformatore che deve affrontarsi: problema storico, poiché, nellastoria costituzionale delle Nazioni e anche del nostro Paese, non solo«che cosa» occorresse riformare, ma «chi» dovesse provvedervi, fusempre questione essenziale.

La storia liberale e democratica del nostro Paese e, del resto, l’in-tera storia del costituzionalismo europeo è ricca di controversie sulpotere primigenio legittimato a fondare l’ordinamento dello Statodei cittadini o del potere sovrano: il popolo attraverso un’AssembleaCostituente da esso «fondata e legittimata», il popolo direttamente,anche in collegamento con l’Assemblea da esso eletta, o il «sovrano»per atto unilaterale (le cosiddette «costituzioni octroyées» o anchequelle accordate contrattualisticamente, sulla base di un ipoteticocontratto fra sovrano titolare primigenio della sovranità ed il popo-lo che veniva a parteciparvi o che concorreva alla titolarità, secondoalcuni, ovvero, secondo altri, al solo esercizio della sovranità stessa).

Non dimentichiamo il progetto ed il sogno dell’Assemblea Costi-tuente nel corso del Risorgimento, come strumento della fondazio-ne della Nazione in Stato unitario, progetto promosso e sogno vis-suto con passione e sacrificio dalla parte più democratica del movi-mento per la Causa nazionale; non dimentichiamo, nella Germaniadell’800, che ricercava l’unità della Nazione tedesca, per la sua ispi-razione liberale e nazionale, frutto del clima patriottico della guerracontro Napoleone e che questa guerra sentiva come guerra popola-re, nazionale e per la libertà, il moto che portò alla creazione dellaprima Assemblea nazionale germanica nella chiesa di San Paolo aFrancoforte sul Meno, anche se sfortunata e breve fu la sua vita einfruttuoso il suo esito.

Il problema del «metodo» è quindi un importante problema poli-tico, ma anche giuridico-istituzionale, perché attiene alla «legittima-

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zione» di un istituto e di nuove norme: poiché la scelta delle istitu-zioni e delle procedure, come più avanti compiutamente si dirà(corpo elettorale, attribuzione di funzioni costituenti alle Cameredel Parlamento nazionale che si andranno ad eleggere o AssembleaCostituente, ed eventuale collaborazione-integrazione dell’iniziativa,dell’attività, della capacità decisionale di questi soggetti con il diret-to intervento del corpo elettorale), con cui procedere alle «riforme»,non è problema solo tecnico, ma problema etico-politico e politicoin senso stretto. Problema etico-politico poiché attiene al concettoed al contenuto etico della democrazia, non intesa semplicementecome tecnica per conciliare autorità e popolo, in una concezione incui il regime di governo è caratterizzato dal governo delle èlites, an -che se scelte o confermate dal popolo, ma come visione nella qualesoggetto della democrazia, direi soggetto «manzoniano» della Storiae quindi della vita istituzionale, sociale, ed economica che caratte-rizza uno Stato democratico è il popolo, nelle sue varie espressioni:il corpo elettorale nell’ordinamento istituzionale, le chiese, le asso-ciazioni, i sindacati dei lavoratori e le associazioni degli imprendito-ri, le università, le cooperative e le altre forme di libero associazio-nismo sul piano della società civile.

Quanto ho affermato potrà ritenersi appartenere all’ambitoastratto della scienza politica; ma esso invece appartiene oggi, moltoconcretamente, alla realtà della politica attuale, appartiene cioè alproblema della dislocazione delle forze politiche, economiche esociali, al loro essere presenti nella società, alla volontà, non diversatalvolta nella maggioranza e nell’opposizione, di voler tutto preve-dere e contrattare per quanto attiene al governo del Paese.

L’attribuzione quindi alle assemblee rappresentative o al popolointeso come corpo elettorale, in vario grado di combinazione anchetra «decisione rappresentativa» e «decisione diretta», non è un pro-blema di semplice ingegneria costituzionale, ma un problema cheattiene al modo etico e politico e non solo tecnico, di concepire lademocrazia, lo Stato, la vita sociale, la stessa Storia. AlessandroManzoni, indicando come soggetto della sua «storia», che era storiavera di uomini concreti, non solo Spagna, Francia ed Impero, maRenzo, Lucia, Fra Cristoforo, l’Innominato, il Cardinale FederigoBorromeo, Don Abbondio ed anche, mi sembra appropriato citarlo,l’Azzeccagarbugli; le masse che saccheggiarono i panifici di Milanoe l’umanità dolorante e morente nei lazzaretti degli appestati, creò ilprimo «romanzo democratico» dell’Italia moderna, in coerenza con

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il suo essere cattolico per impegno religioso e spirituale, e liberaleper impegno civile e «religioso».

E lo scontro tra le due ipotesi procedurali o sul grado di combi-nazione di esse è scontro non solo tra scuole di pensiero scientifico,ma scontro concreto tra sistemi di potere e tra la concezione di fon-dazione ed uso democratico del potere medesimo.

4.1.2. In materia di metodo, il primo problema, non solo storico-pratico, ma anche di valore, affonda le sue radici tanto nella storia delcostituzionalismo, antico e moderno, quanto, come già detto, sulpiano politico-istituzionale, nella realtà concreta della nostra societàfra «rappresentanza» e «popolo», come sedi privilegiate del processonon solo politico, ma istituzionale delle riforme, il problema di unadistinzione fra metodo, per ridurre la semplificazione agli estremi,«decisionale» da un lato, e «compromissorio o contrattualistisco» dal-l’altro, per l’elaborazione e l’attuazione del disegno riformatore.

4.1.3. Si può ben dire che il problema delle riforme sia quindiintimamente collegato al problema del governo nel nostro Paese edalla concezione che si ha delle linee attraverso cui esso si deve svi-luppare nella sua vita democratica e culturale. Dovrà essere quindinostro dovere e nostra cura saper cogliere, evidenziare e tenere inconto queste questioni e le implicazioni che esse pongono per i rap-porti fra i vari poteri.

Un primo tipo di riformismo è quello che ritiene che la Costitu-zione del 1948 sia tuttora pienamente valida, anche nella sua parteistituzionale, e che occorra perciò soltanto limitarsi ad alcune oppor-tune ed essenziali, nel senso di limitate, correzioni. Un altro riformi-smo si domanda invece se la Costituzione – fatto naturalmente salvoil suo grande valore storico e direi simbolico e sacrale, soprattutto perquanto attiene alla parte relativa ai principi fondamentali riguardan-ti i diritti e le libertà dei cittadini – nella parte in cui vengono disci-plinati i pubblici poteri sia ancora valida o non vada invece adegua-ta ai reali bisogni istituzionali dell’attuale società italiana ed alladomanda, che sempre più prepotentemente si alza da essa, in rela-zione alle sue obiettive esigenze economiche, sociali e civili ed a tuttii livelli, di «governo», democratico, di diritto, garantito e responsa-bile, ma di governo.

Così, la differenza fra il privilegiare la sede della «rappresentan-za» e la sede dell’«intervento popolare diretto» corrisponde non

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solo, al limite, a due diverse configurazioni della democrazia, ma alconvincimento che il confronto e la dialettica in una assemblea sianopiù agibili ed utili che non il confronto e la dialettica nel corpo elet-torale a livello di società. Tale differenza si collega inoltre da un latoad una logica «contrattualistica», «consociativa» e «compromisso-ria» della politica e specificatamente della pratica di governo a livel-lo di esecutivo, di legislativo e di amministrazione, che si contrap-pone a quella del «confronto», e cioè quella della normale conve-nienza, ma anche della piena legittimità delle decisioni in base alprincipio di maggioranza: ritorna a ben vedere il discorso della legit-timità o preferenzialità del principio maggioritario in alternativa aquello «contrattualistico» e «compromissorio».

Il Presidente della Repubblica non può esprimersi qui per l’una oper l’altra concezione del riformismo: non gli compete, almeno inquesta fase. Egli, peraltro, pur rievocando quanto il metodo com-promissorio sia stato imprescindibile e prezioso in periodi crucialidella vita democratica del nostro Stato e della nostra comunità, nonpuò non sottolineare la piena legittimità, nella doverosa ricerca delpiù ampio consenso, del «principio maggioritario» e del suo carat-tere di ordinamento del processo democratico e della propensionead esso legata a conferire un certo grado di preminenza alla sovrani-tà popolare. Ciò anche per effetto del venir meno, oggi, della con-ventio ad excludendum e della corrispondente e compensativa con-ventio ad consociandum, per cui si è avuto in passato insieme un regi-me di responsabilità con potere, di responsabilità senza potere, dipotere con responsabiltà ed anche di potere senza responsabilità, di«governo senza opposizione» e di «opposizione con attribuzione digoverno», con nello sfondo rilevanti riferimenti a sistemi politico-militari contrapposti.

4.2. Da un punto di vista teorico le strade conformi alla Costitu-zione, per addivenire ad un dibattito, ad un confronto e ad una deci-sione in tema di riforme istituzionali, sono fondamentalmente tre:

a) l’esercizio da parte del Parlamento, di quello attuale o da partedelle Camere che si andranno ad eleggere, del potere di adottareleggi di revisione costituzionale o altre leggi costituzionali in forza econ la procedura prevista nell’articolo 138 della Costituzione, e laeventuale partecipazione referendaria del popolo contemplata dallastessa disposizione;

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b) attribuzione da parte delle Camere in funzione ad esse mede-sime, o alle Camere che verranno ad essere elette dopo di esse, diveri e propri poteri costituenti, e cioè del potere non vincolato nelsuo esercizio dalle procedure dell’articolo 138 della Costituzione dimodificare le norme costituzionali o di approvarne altre con proce-dure più snelle rispetto a quelle previste e disciplinate dal citato arti-colo 138;

c) elezione di una Assemblea Costituente dotata di veri e propripoteri costituenti e quindi senza limitazioni procedurali o di meritoderivanti dalla Costituzione vigente. Questa Assemblea Costituenteprocederebbe quindi all’approvazione di leggi costituzionali, modi-ficative o integrative della Costituzione vigente, nelle forme propriedella legislazione ordinaria, salvo, come si vedrà più appresso, l’e-ventuale intervento del popolo in una delle forme di referendum ipo-tizzabili.

4.2.1. In relazione a questi tre modelli deve però tenersi a menteche:

a) né l’attribuzione alle future Camere, né l’autoattribuzione alleattuali Camere, di poteri di revisione o di approvazione di leggicostituzionali con procedure diverse, ad esempio semplificate neiquorum o nell’obbligo della doppia lettura o nei termini temporaliattualmente previsti per una approfondita «meditazione» della op -portunità della revisione, può avvenire se non con la rigorosa e pienaosservanza dell’articolo 138 della Costituzione nonché, per quantoattiene all’eventuale perfezionamento delle deliberazioni parlamenta-ri con voto popolare, nelle forme del referendum confermativo, previ-sto dalla stessa norma. Del rispetto di queste procedure e dell’osser-vanza di queste norme, il Presidente della Repubblica ha la coscien-za di dover essere e sarà il necessario garante;

b) dovrà attentamente valutarsi, come parte della dottrina costi-tuzionalistica ritiene, essendo il potere di revisione costituzionale odi approvazione di nuove leggi costituzionali previsto dall’articolo138 della Costituzione, non un «potere costituente», ma un «poterecostituito», se esso non trovi nel suo esercizio non solo il limitesostanziale esplicito (articolo 139 della Costituzione), ma anche altrilimiti sostanziali impliciti, connessi ai principi strutturali del nostroordinamento costituzionale, così come approvato dall’AssembleaCo stituente nel 1948: ad esempio il principio del bicameralismo eforse anche quello del bicameralismo così detto paritario, il limite

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della forma di governo parlamentare nella forma classica, comeadottata dal nostro costituente; ciò che sarebbe certamente di osta-colo all’introduzione nel nostro ordinamento, con una semplicelegge di revisione costituzionale, non solo di un regime presidenzia-le, ma anche di regimi che, inquadrando in un procedimento «auto-matico» per effetto del voto popolare o di diretta espressione parla-mentare la nomina del Capo dell’Esecutivo, implichino la soppres-sione della funzione di arbitrato e garanzia che si volle propria delPresidente della Repubblica e che ne giustificò l’adozione dell’isti-tuto: Capo dello Stato;

c) la scelta della via dell’elezione di una Assemblea Costituenterichiede una disciplina – peraltro già sperimentata e collaudata nelregime provvisorio e transitorio in vigore in Italia tra il 1945 e il 1948– dell’esercizio della funzione ordinaria legislativa da parte del Go -verno, non potendosi per motivi di tempo e di «qualità dell’impe-gno» gravare l’Assemblea Costituente dell’esercizio di dette funzio-ni legislative ordinarie – neanche in forma di delega o di legge diconvalida dei decreti-legge del Governo – e inoltre una disciplinadel modo con cui l’Assemblea Costituente eserciterà le funzioni diindirizzo e controllo sul Parlamento che sono connaturali anche adun regime parlamentare «attenuato» e che da esso dovrebbero esse-re opportunamente e necessariamente attribuite;

d) anche il conferimento di «poteri costituenti» ad una Assem-blea Costituente deve passare necessariamente non solo attraverso laprocedura dell’articolo 138 della Costituzione, ma anche attraversouna procedura rinforzata che, per dare legittimazione politica, e forseanche istituzionale, all’Assemblea stessa, preveda comunque la con-ferma della legge costituzionale istitutiva dell’Assemblea Costituente,e ad essa conferente poteri costituenti, per mezzo del referendumconfermativo popolare previsto dal citato articolo 138 della Costitu-zione: e ciò qualunque sia la maggioranza che sull’eventuale testoapprovato si sia raccolta in entrambe le Camere, un referendumquindi non eventuale, facoltativo e su richiesta, ma obbligatorio ed’ufficio.

Infatti, solo così si può aprire, ad avviso del Capo dello Stato, unavera e propria fase costituente, come processo popolare sovrano dirifondazione dei propri ordinamenti; e ciò perché l’ordinamentocostituito si fonda anch’esso su una norma fondamentale ad esso pre-ventiva e ad esso sovraordinata: il «principio della sovranità popola-re», principio «attuale» storicamente ad ogni popolo, principio

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coessenziale al concetto stesso di Repubblica e di Stato democrati-co, «norma», strumento riconosciuto nel nostro essere Stato demo-cratico per il fatto normativo in sé del rovesciamento della dittaturae della monarchia, della lotta di resistenza e della guerra di libera-zione, del referendum istituzionale e della scelta per una nuovaCostituzione attraverso una Assemblea Costituente eletta a suffragiouniversale, libero, diretto e segreto e con il sistema proporzionale daparte del popolo italiano, per di più in una fase di transizione, perl’assenza di un regime costituzionale definito e stabile, avendo il pre-cedente regime derivante dallo «statutario» e dal «fascista» perdutoogni residua legittimità e legittimazione ed essendo stato surrogatoda un regime provvisorio che aveva come riferimento anche lo Statoarmistiziale e di controllo alleato;

e) con la procedura prevista dall’articolo 138 integrato o convali-dato da un voto popolare, nella forma di un referendum confermati-vo obbligatorio, si potrebbero attribuire poteri costituenti e non dimera revisione costituzionale anche alle Camere ordinarie che an -dremo ad eleggere allorché le attuali Camere saranno disciolte maove si ritenesse esservi ancora lo spazio temporale sufficiente, anchealle attuali Camere, che sono state elette con questo mandato ancor-ché implicito ed inespresso; naturalmente, trattandosi in questo casodi esercizio di «potere costituente» e non di esercizio di «poterecostituito», esse potrebbero statuire anche in deroga ai limiti espres-si od inespressi, che si ritenessero esser contenuti nella Costituzionedel 1948, e a cui ho prima accennato.

Anche di questi principi il Presidente della Repubblica dichiarache sarà assoluto garante e ne chiederà il rispetto con tutti i suoipoteri.

4.3. I tre fondamentali modelli sin qui illustrati hanno però biso-gno di sviluppo, precisazioni ed osservazioni, in parte comuni, inparte relative ad uno od a due di essi, in particolare per quanto attie-ne alla scelta del sistema per la elezione degli organi chiamati adassolvere al compito di procedere alla riforma delle istituzioni.

4.3.1. Qualora si ritenesse di affidare alle Camere la missione diprovvedere alle riforme istituzionali secondo la procedura aggravataprescritta dall’articolo 138 della Costituzione, non vi sarebberomodifiche da apportare alle norme in esso contenute, salvo quelle

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relative alla previsione come non facoltativa, ma obbligatoria e ne -cessaria, di un referendum confermativo.

4.3.2. Diversi i problemi invece che occorrerebbe affrontare qua-lora si affidasse alle Camere e non ad una Assemblea Costituente lamissione di provvedere alle auspicate riforme con una procedurasemplificata ed alleggerita rispetto a quella dell’articolo 138. In que-sto caso infatti sarebbe opportuno, anche per compensare l’affievo-limento della rigidità della Costituzione in vigore causato dall’alleg-gerimento della procedura di revisione:

a) limitare nel tempo il mandato conferito e la speciale compe-tenza a provvedere alle riforme con una procedura di revisionediversa, cioè alleggerita e semplificata in termini procedurali, tem-porali e di maggioranza, rispetto a quanto disposto in via ordinari adall’articolo 138 della Costituzione;

b) prevedere ai fini dell’economia dei lavori, sia in senso tempo-rale che in senso di merito, un qualche raccordo tra le Commissioniche nelle due Camere sarebbero competenti ad elaborare i progettidi riforme ed a riferire su di essi alle Assemblee;

c) decidere se, sempre a compensazione dell’affievolita rigiditàdella Costituzione e della semplificazione ed alleggerimento delleprocedure di revisione, quali previste attualmente dall’articolo 138della Costituzione, non sarebbe conveniente prevedere, come soprasi è detto, comunque almeno nel caso che non si raggiunga in cia-scuna Camera la maggioranza di due terzi dei membri assegnati aciascuna di esse, ancorché si raggiunga la maggioranza assoluta deivoti, non come facoltativo e su richiesta, ma come obbligatorio enecessario, un referendum confermativo delle deliberazioni adottatedalle due Camere.

4.3.3. Rispetto ai suddetti modelli una scelta che potrebbe esserefatta è quella a favore di una configurazione delle Commissioniinterne a ciascuna Camera simile a quella prevista dall’articolo 36,comma 2, del Regolamento del Senato, a norma del quale, dopo unaprima deliberazione di indirizzo da parte delle Assemblee, le Com-missioni assumono funzioni redigenti, riservando alle Assembleeesclusivamente il voto finale senza possibilità di emendamenti.

4.3.4. Del tutto semplificati risulterebbero i problemi tecnico-giu-ridici e politici qualora si addivenisse invece ad una scelta radical-

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mente diversa: la scelta della convocazione di una Assemblea Costi-tuente, così come proposto da ultimo, con grande decisione edesemplare chiarezza, da un eminente membro del Parlamento, ildeputato Martinazzoli: non rimarrebbe qui che il problema di stabi-lire la durata del mandato costituente ad essa affidato. Non vi sareb-be da affrontare il problema della unicità o pluralità, ed in questocaso di raccordi, delle Commissioni preparatorie o redigenti, e deiloro poteri, dovendosi naturalmente prevedere, nell’ambito dell’uni-ca Assemblea Costituente, un’unica Commissione o con sola com-petenza referente od anche con competenze redigenti, sulla base dirisoluzioni di indirizzo nelle singole materie e sui singoli oggetti sot-toposti a revisione da parte dell’Assemblea.

Rimarrebbero da risolvere come sopra già accennato:a) se sottoporre a convalida popolare in un referendum confer-

mativo il conferimento dello speciale mandato costituente, preve-dendolo come fase finale necessaria ed obbligatoria della procedura,naturalmente ex articolo 138 della Costituzione, cui occorrerebbefare sempre ricorso per l’approvazione di una specifica legge costi-tuzionale necessaria per istituire, attribuire la speciale competenza«costituente» e disciplinare, almeno nei principi, l’elezione dell’As-semblea Costituente;

b) se sottoporre a referendum confermativo, eventuale e opziona-le in relazione a ristrette maggioranze raggiunte, o invece comunqueobbligatorio e necessario, le deliberazioni delle Camere per dare adesse il valore di nuove norme costituzionali;

c) se prevedere, a maggiore esaltazione della sovranità popolare,come necessari entrambi i referendum, con il primo dei quali il po -polo sovrano conferirebbe alla nuova Assemblea il mandato costi-tuente e con il secondo ne convaliderebbe i risultati;

d) se con riferimento ai problemi relativi alla gestione del regimecostituzionale, provvisorio ed interinale, affidare al Governo l’eser-cizio della funzione legislativa ordinaria, con l’individuazione delleforme di indirizzo e controllo da parte dell’Assemblea Costituente.Si consideri che questa soluzione avrebbe il beneficio di un collau-do già fatto di questo modello negli anni dal 1946 al 1948 e dellalunga esperienza che in questo periodo si è maturata in proposito.

4.3.5. Per quanto attiene al popolo, primo soggetto, per autorità e«naturalezza», del procedimento di riforma istituzionale, la sua parte-cipazione al processo riformatore può essere ipotizzata nelle seguenti

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forme, ovviamente da introdurre, per quelle nuove, con leggi costitu-zionali:

a) referendum di indirizzo: con un’iniziativa popolare qualificatao con l’appoggio e la partecipazione anche di altri soggetti pubblici,si sottoporrebbero al corpo elettorale, per materie ed oggetti omo-genei chiaramente individuati, schemi contenenti principi e criteridirettivi cui l’istanza rappresentativa dovrebbe attenersi nella elabo-razione dei progetti di riforma. Si tratterebbe cioè di una specie di«delega di principi» la cui osservanza da parte dell’istanza rappre-sentativa potrebbe anche essere garantita in una qualche forma dalPresidente della Repubblica, da solo o eventualmente in concorsocon la Corte costituzionale;

b) referendum di investitura: il conferimento alle prossime Came-re delle funzioni di revisione costituzionale potrebbe, ed a mio avvi-so anche ad una Assemblea Costituente dovrebbe, essere approvatodal popolo, sottoponendo ad esso obbligatoriamente e d’ufficio lalegge costituzionale ex articolo 138 con la quale si dovrebbe confe-rire ad esse o ad essa il mandato «a riformare»;

c) referendum ordinario: confermativo, nelle stesse forme e neglistessi modi previsti dall’articolo 138 della Costituzione.

Considerata l’importanza politica e direi civile e morale che lanuova fase riformatrice ha per i cittadini, tale forma di interventopopolare appare al Capo dello Stato totalmente inadeguata ed insuf-ficiente, a riguardo sia delle attese della pubblica opinione, sia delleesigenze di legittimazione dei nuovi istituti;

d) referendum propositivo: secondo una interpretazione che diquesto modello è stata data, la procedura si dovrebbe svolgere in talsenso: una certa aliquota di elettori sarebbe legittimata a proporreall’istanza rappresentativa uno o più schemi normativi (nel nostroordinamento vi è già l’istituto dell’iniziativa popolare delle leggi), equalora tali schemi, dopo un esame da parte di dette istanze, nonfossero approvati, ma ottenessero almeno una minoranza qualifica-ta, essi dovrebbero essere sottoposti al voto popolare e se ottenesse-ro la maggioranza diventerebbero leggi;

e) referendum confermativo: i progetti di revisione della Costitu-zione sarebbero sottoposti al voto popolare, qualunque sia la mag-gioranza ottenuta in sede parlamentare;

f) referendum approvativo: è il tipo di partecipazione popolareche, insieme al referendum propositivo, suscita le maggiori riserveanche se essi non sono eguali nel significato e negli effetti.

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Si dovrebbero sottoporre, ove si adottasse tale istituto, al votopopolare non solo i progetti approvati in sede parlamentare, maanche quelli che pur non approvati abbiano ottenuto voto minorita-rio ma qualificato da un certo quorum.

4.3.6. Nei confronti di tutti i modelli e delle procedure ipotizza-te, vale però una esigenza che è esigenza di chiarezza, trasparenza egenuinità della volontà costituente, vuoi espressa da Assemblee:«sovrani legali» per mandato del «sovrano reale», il popolo, vuoi e -spressa in una qualche forma – si dirà più compiutamente appresso– direttamente dal «sovrano reale» medesimo.

Questa esigenza è stata avvertita in forma negativa da coloro checriticarono, agli albori del dibattito su «rappresentanza» e «istitutidi democrazia diretta», l’adozione di questi istituti, perché afferma-rono che il popolo poteva essere sedotto o costretto, nell’espressio-ne della sua volontà affermativa, da una non «onesta» formulazionedel quesito referendario, che ad esempio in un unico documentosottoposto alla deliberazione popolare, comprendesse soluzioni nongradibili con altre norme invece auspicate dal favore popolare adesso accattivanti.

Per questi motivi, ed anche al fine di una ordinata, responsabile econsapevole partecipazione del popolo agli eventuali referendum edal fine di garantire genuinità e chiarezza alle scelte popolari, occorre-rebbe sforzarsi di elaborare ed adottare proposte di riforma distinte tradi loro per materie definite ed oggetti individuati, e ciò vale anche inordine al modo di procedere delle stesse Assemblee rappresentative,Camere ordinarie ed Assemblea Costituente, nel loro interno.

4.4. Come accennato più sopra, uno degli oggetti della riformaistituzionale ed uno degli argomenti più ampiamente dibattuti daipartiti, nella società civile e nella dottrina è il problema dei sistemielettorali, visti sia sul piano della sostanza delle riforme, che sul pianoappunto del metodo.

4.4.1. Incombenti sono i doveri, precise e vincolanti le responsa-bilità, definiti ed incisivi i poteri del Presidente della Repubblica inordine alle eventuali modifiche delle leggi elettorali vigenti per l’ele-zione della Camera dei deputati e per l’elezione del Senato dellaRepubblica, modifiche che si volessero adottare nella legislatura in

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corso. A questo proposito, particolarmente urgente appare, comeeb be a dire il Presidente Andreotti presentando alle Camere l’attua-le Governo, l’adeguamento della legge elettorale del Senato dellaRe pubblica, che porti il numero dei collegi a coincidere con il nume-ro dei Senatori, come deve necessariamente essere strutturato unsistema che prende le mosse dal principio uninominale, sia pure conle correzioni proporzionalistiche che sappiamo.

4.4.2. Il primo problema in materia è quello posto in ordine alleeventuali riforme della legge elettorale vigente per l’elezione dellaCamera dei deputati, da chi ritiene che la riduzione dei voti di pre-ferenza esprimibili da una pluralità ad uno solo, determini – ove nonsi adottino correttivi su altri piani – possibili inconvenienti nell’e-spressione della volontà popolare.

Sembra che rimedio a tali inconvenienti si voglia ricercare in unaridefinizione delle circoscrizioni, aumentandone il numero e dimi-nuendone la dimensione territoriale, e con l’istituzione di un piùampio collegio unico nazionale cui imputare un maggior numero diseggi per la più ampia utilizzazione dei resti, in modo tale da com-pensare, in omaggio al principio della proporzionale che si vuole sal-vaguardare, l’incidenza in senso maggioritario della riduzione delnumero dei candidati che si eleggerà in ogni circoscrizione.

4.4.3. Nulla il Presidente della Repubblica avrebbe da obiettaread una siffatta riforma, sempre che in essa non venga compresoaltresì il ristabilimento anche ad un livello minimo, della pluralitàdei voti di preferenze, contro la quale pluralità si è espresso l’eletto-rato, con l’abrogazione delle relative nonne per effetto dei risultati delreferendum abrogativo del 9 giugno 1991.

4.4.4. Il Presidente della Repubblica, in quanto garante politico-istituzionale dell’ordinamento costituzionale e quindi del correttofunzionamento degli istituti previsti dalla Costituzione e quindianche del risultato del referendum abrogativo, si opporrebbe dove-rosamente, con l’esercizio dei poteri a lui espressamente conferitidalla carta fondamentale, ad ogni iniziativa in contrasto con i risul-tati del referendum e per ciò stesso in contrasto con il principio deldovuto rispetto della volontà e della sovranità popolare.

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4.5. In modo sensibilmente, anche rispetto alle competenze inquesta o altra sede del Capo dello Stato, diverso si pone il problemagenerale della scelta fra i vari sistemi elettorali.

4.5.1. I sistemi elettorali come è noto si dividono in due grandicategorie: i sistemi elettorali proporzionali e quelli non proporzio-nali, con soluzioni miste che possono consistere nell’attribuzione dipremi di maggioranza alle maggioranze relative o minoranze piùforti o con l’introduzione di sbarramenti cioè di livelli minimi di votisenza raggiungere i quali non si è ammessi alla ripartizione dei seggi.

La preferenza tra i due sistemi può derivare dal diverso concettoche si ha della funzione del sistema rappresentativo. C’è infatti chiritiene che il sistema elettorale abbia come funzione preminentequello appunto di eleggere rappresentanze in grado di rappresenta-re nel modo più ampio possibile lo spettro degli interessi, dei valorie delle opinioni della società, al fine di combinarli e proiettarli alivello di attività di governo, in modo mediato e contrattuale, e chiinvece ritiene che il sistema elettorale debba portare all’elezione dirappresentanze che siano strumento utile e idoneo per adottare deci-sioni di governo.

Nel Regno Unito ed in Francia, ad esempio, prevale quest’ultimaconcezione, mentre nel nostro Paese, così come in Belgio, prevaleuna concezione diversa.

L’adozione dei sistemi proporzionali è tipica tra l’altro delle socie-tà in evoluzione, nelle quali non si è ancora raggiunta omogeneità dibase e vi è ancora una forte divaricazione di valori e di interessi, non-ché in quei periodi storici nei quali le società che si trovano in unafase costituente sono impegnate a fondare le loro più idonee strut-ture costituzionali.

Il sistema elettorale teoricamente migliore, o almeno il più dutti-le, potrebbe essere quello che, nel costituire la «rappresentanza»,riesca a conciliare la più vasta rappresentazione possibile dei valori,degli interessi della società con le esigenze della formazione dellemaggioranze che decidano, in quanto lo Stato esiste per assicurare ilgoverno del Paese e le sue istituzioni sono costituite per poter pren-dere delle decisioni e non esclusivamente per garantire dibattiti neiquali siano rappresentati valori e interessi e ci si limiti a formularevoti e progetti.

Questo grado di combinazione e di conciliazione di ciò che i duesistemi vogliono esprimere e raggiungere può essere vario; ognuno

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dei due sistemi è peraltro compatibile con la democrazia e dipendedalle circostanze e dalle necessità storiche che si prediliga una con-cezione più dialettica o più decisionista del sistema democratico.

In un solo caso, invece, i principi democratici postulano tassati-vamente come preferenziale il sistema proporzionale, e nel senso piùampio: quando si tratti di eleggere assemblee rappresentative muni-te di poteri costituenti o quand’anche si tratti di eleggere assembleerappresentative ordinarie conferendo ad esse poteri speciali di revi-sione della Costituzione.

Poiché gli ordinamenti costituzionali, per avere vigenza effettivabasata su un reale, ampio ed effettivo consenso, nelle assembleecostituenti ed anche in quelle assemblee dotate di poteri paracosti-tuenti, specie ove non si preveda in modo prevalente l’integrazionedella volontà della rappresentanza con quella del corpo elettoraleattraverso l’uso di strumenti di democrazia diretta, il valore da pren-dere in considerazione in via primaria è quello della più ampia rap-presentanza possibile degli interessi e dei valori di tutta la comunità.

Deve ritenersi che al Presidente della Repubblica, in questo caso,incombano doveri specifici e spettino funzioni particolari di garan-zia, affinché questo principio del rispetto della sovranità popolarevenga pienamente rispettato.

Diverso è il caso in cui Camere ordinarie siano dotate, non dipoteri costituenti, ma di poteri costituiti per la sola revisione dell’or-dinamento costituzionale. Per assicurare la maggiore rispondenzadel potere di revisione alla sovranità popolare si possono adottareanche altri meccanismi, quali la doppia lettura, le maggioranze qua-lificate, i referendum popolari approvativi.

Il Presidente della Repubblica adempierà anche in questo caso aisuoi doveri di garante dell’ordinamento costituzionale e di quelprincipio della sovranità popolare che è la «norma fondamentale»,originaria e fondante dello Stato democratico.

4.6. Sembra ora utile riferire in termini storici e «tecnici», percompletezza di esposizione, per ogni utile valutazione politica ed achiarimento di quanto fin qui detto, quale fu lo stato e l’oggettodelle trattative in materia di riforme istituzionali durante l’ultimacrisi di governo dell’aprile scorso, che si concluse con il cosiddettoconcordato «sfilamento della questione relativa alle riforme istitu-zionali» dal tavolo delle trattative dei partiti che avevano manifesta-

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* Gli schemi che sono stati elaborati durante la trattativa per la soluzione della crisi diGoverno sono contenuti in un’appendice al messaggio.

to l’intenzione di ricostituire sia il Governo di coalizione, sia la mag-gioranza parlamentare per sostenerlo.

4.6.1. Durante le trattative per la soluzione della crisi dell’aprile1991 e in parallelo ad esse, si ebbero numerosi contatti, scambi dielaborati, confronti di tesi ed idee tra esponenti della progettatamaggioranza, alla ricerca di una soluzione, cui ritenne di non farmancare un tentativo di contributo lo stesso Presidente della Repub-blica, sia per il valore generale istituzionale dei problemi di cui sicercava una soluzione, sia perché il Capo dello Stato è il «commis-sario della crisi» ed ha il dovere di agevolarne la soluzione, secondole indicazioni raccolte nelle consultazioni: indicazioni che eranounanimi nel ritenere urgente e necessario affrontare il problemadelle riforme istituzionali; e ciò anche perché il Capo dello Stato hasempre manifestato il proprio giudizio: essere cioè ormai necessarioprovvedere ad una seria riforma delle istituzioni, per superare lericorrenti crisi del sistema di governo, non meno che le insufficien-ze e le disfunzioni dell’amministrazione della giustizia, dell’ordine edella sicurezza pubblica, dei conti pubblici dello Stato, nonché persoddisfare le esigenze naturali ed insopprimibili di sviluppo di unPaese che è cresciuto ed ancora più vuole crescere in libertà e benes-sere, in una Europa moderna.

4.6.2. Nel corso delle trattative per la formazione del Governofurono elaborati sugli argomenti finora qui trattati una serie di sche-mi, che nella loro semplicità erano ben rappresentativi delle varieposizioni e che furono utile strumento di confronto*.

4.6.3. Come è noto, le trattative tra le parti politiche impegnate aricostituire il Governo di coalizione e la maggioranza parlamentareche lo avrebbe dovuto sostenere non approdarono su questo temaad un qualche risultato di rilievo.

Tesi dirimente fu quella relativa al rapporto tra deliberazioni as -sembleari e referendum popolari in materia di riforme istituzionali.Si sostenne da una delle parti politiche che a referendum popolare, eprecisamente confermativo, dovessero, anche obbligatoriamente,

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sottoporsi – e caso mai solo ed esclusivamente – le deliberazioni o iprogetti adottati dalle Assemblee rappresentative, eventualmenteper schemi separati in relazione a materie individuate e ad oggettidefiniti, e da altra parte politica, sottoporsi invece al voto popolarenella forma del referendum deliberativo o approvativo, per ogni ma -teria individuata ed oggetto definito ad esempio i modi di elezionedel Capo dello Stato o altre questioni relative alle forme di governo,non solo la proposta o le proposte che avessero ottenuto la maggio-ranza, ma anche, ove maggioranza qualificata o meno non si fosseraggiunta, quei progetti che avessero nelle Assemblee raccolto una«minoranza qualificata» di voto (ad esempio il 25 per cento). Si pro-spettò anche la tesi che il secondo progetto, quello minoritario, pur-ché avesse ottenuto analoga minoranza qualificata, dovesse esseresottoposto a referendum deliberativo insieme ed in alternativa al pro-getto maggioritario. Non fu possibile accordarsi né sui modelli diriforma né sulle procedure di revisione e l’argomento fu «sfilato» daltavolo delle trattative.

4.7. Gli eventi della crisi portarono al fallimento di questa partedelle trattative, il dibattito politico e culturale che la precedette e chela seguì e che è tuttora in corso dimostrano, come il punto centraledella questione istituzionale risieda, oltre che nella prospettazione dimodelli diversi in materia di «forma di governo», su questioni essen-ziali di procedura, e cioè sul rapporto tra «sovrano reale», cioè ilpopolo, e «sovrano legale», cioè le Assemblee rappresentative, ordi-narie o straordinarie, al di là del fatto che esse siano dotate o menodi poteri normali o speciali.

* * *

conclusioni

5.0. Prima di concludere questo messaggio, vorrei rivolgere il miopensiero anche a tutta la comunità italiana nel mondo, ai nostri con-nazionali all’estero privi, purtroppo, ancora della possibilità di eser-citare lo ius activae civitatis senza esporsi alle gravi spese di viaggioe di soggiorno nelle occasioni elettorali.

Colgo questa occasione per sollecitare l’esame dei progetti di legge

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giacenti presso le Camere, onde risolvere un problema che nei mieiincontri con i nostri connazionali all’estero ho constatato sentitissimo.

Signori del Parlamento,la richiesta di riforme istituzionali, di nuovi, moderni e più effi-

cienti ordinamenti e procedure, non è quindi una richiesta solo«politica» o tanto meno di «ingegneria costituzionale», ma è una ri -chiesta civile, morale e sociale di governo, di libertà, di ordine, diprogresso da parte della gente comune; ed è una richiesta da partedi quei gruppi e di quei settori dirigenti del sistema politico, econo-mico, culturale che avvertono come dinnanzi alle incalzanti scaden-ze europee, all’inadeguatezza dell’amministrazione, alle carenze elentezze della giustizia, al dissesto della finanza pubblica, l’Italiacorra il rischio di perdere o di vedere insidiato il posto che si è meri-tatamente conquistato nel concerto delle Nazioni.

Certo le riforme istituzionali non sono, di per sé, la soluzione ditutti questi mali o la garanzia assoluta avverso questi pericoli. Ma inuna società moderna, anche proprio perché società di mercato,società pluralista di competizione che vive di confronto e di dialetti-ca, più che mai è necessario un Parlamento efficiente nelle sue fun-zioni di legislazione e di controllo, ma anche un Governo che gover-ni ed una amministrazione che amministri, un giudice che giudichi,secondo diritto certo ed effettivo; proprio in una società come que-sta, che per vivere in libertà deve essere regolata dal diritto – perchélibertà e regola del diritto sono valori fra loro non scindibili – ènecessaria la certezza del diritto, che vuol dire prontezza e chiarezzanel legiferare, ognuno al proprio livello e nel proprio ambito terri-toriale, Governo con responsabilità e responsabilità con Governo,giudici liberi, indipendenti ed imparziali.

Ma nessuna riforma istituzionale ha mai da sola risolto i proble-mi di una società: a questo fine, è necessario l’impegno della societàstessa, a tutti i livelli: le istituzioni sono uno strumento non suffi-ciente senza una aperta volontà politica e civile; ma sono uno stru-mento necessario che deve essere adeguato allo scopo.

Una sola opera di ingegneria costituzionale, infatti, per quantoavveduta, intelligente e lungimirante, non molto potrebbe ai fini diun mutamento profondo del modo di essere e di operare di unoStato moderno, se non si combinasse con una reale metanoia delmodo di fare politica, che coinvolga partiti, movimenti, cittadini,gruppi, ed insieme rinnovi concezioni, mentalità ed abitudini.

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In una società politica moderna, complessa, aperta, dinamica,liberale come la nostra, metanoia della politica e riformismo istitu-zionale debbono essere momenti distinti ma sinergici di un’unica edautentica rivoluzione democratica.

Ed è questa l’epoca per questa rivoluzione democratica del nostroPaese.

Al Presidente della Repubblica sembra che questo sia il momen-to magico in cui sperare in una reale capacità di cambiamento delleregole della politica e dell’assetto delle istituzioni democratiche erepubblicane.

Un impegno particolare di riforma e risanamento ricade dunquesulla società politica, in particolare per quanto attiene l’organizza-zione ed il funzionamento dei partiti, come ho già accennato.

In una società aperta, pluralista, informata, quale è la societàmoderna, in una società che voglia essere governata dalle regole deldiritto e dalla responsabilità, e quindi dalla individuazione delle com-petenze e dalla trasparenza del loro esercizio, i partiti debbono ritor-nare ad essere prevalentemente, giova ripeterlo, soggetti di progetta-zione politica, e per la raccolta del consenso attorno ai loro program-mi, luoghi di formazione della classe dirigente, propositori di essa e,quando ne ricevono il mandato, diretti e responsabili gestori del pote-re negli uffici cui siano democraticamente preposti. Non molto le leggipossono operare in tal senso: qualcosa sì, e deve essere tentato. Di quiperò deriva soprattutto un autentico impegno morale della comunità.

Questo discorso sui partiti, nel contesto di un più generalediscorso sulle istituzioni, potrebbe apparire generico e astratto, senon affrontasse situazioni concrete, anche se sotto il profilo del ge -nerale problema del funzionamento del sistema.

Molte delle disfunzioni del nostro sistema politico, e la stessacausa principale del non elevato livello della morale pubblica e diquella privata dei governanti, sono attribuite, come ho già rilevato,al fatto che la nostra è stata, per quasi quarant’anni, una democraziabloccata, e cioè una democrazia senza alternative di fondo tra Gover-no e opposizione. In relazione a quanto viene osservato, e che cioèvi sono paesi in cui la stabilità dei partiti o delle coalizioni al gover-no del Paese non «offre» alternative, si afferma giustamente che nonsoltanto l’«alternativa», ma anche la stessa, sola «possibilità» realedell’alternativa funziona da moderatrice del sistema.

Nel nostro Paese la «non alternanza» ha avuto delle cause strut-turali collegate a situazioni internazionali aventi forte incidenza nella

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stessa vita interna del Paese: essa ha trovato la sua motivazione ideo-logica nella contrapposizione, non solo politica, ma anche culturalee morale, di blocchi ideali differenti, e nella riduzione di questasituazione conflittuale reale, più che a posizioni politiche, quasi a«filosofie» dei due maggiori partiti la cui storia e la cui vita sembra-no quasi potersi vedere come funzionali tra di loro.

Per essere stato l’un partito il fulcro del potere e del Governo,non poteva non essere il partito avverso il fulcro e l’egemone aggre-gatore dell’opposizione.

Per essere stato il principale partito d’opposizione parte di unoschieramento politico internazionalista, avente forti riferimenti conun robusto schieramento politico militare antagonista (al campo incui era schierato il nostro Paese), il cui corollario era la sovranitàlimitata dei paesi che del sistema facevano parte, al partito più fortedella maggioranza anche in quanto riferentesi ad istituzioni ed orga-nizzazioni religiose con fedi ben radicate nella coscienza degli uomi-ni, era inevitabile porsi al centro di un controschieramento essen-zialmente liberal-democratico anticomunista, ma soprattutto occi-dentale ed anti-sovietico.

La rigidità di un sistema di democrazia bloccata e senza alternan-za fu parzialmente mitigata, almeno nei suoi effetti estremi, dallapresenza delle forze politico-parlamentari: socialdemocratici, libera-li, repubblicani, socialisti ed autonomisti. La loro autonomia di pen-siero ed elaborazione politica, l’originalità e la specificità di iniziati-ve, sul piano istituzionale, nella società politica e nella comunità civi-le, riuscirono non solo a concorrere in modo determinante all’affer-marsi dei valori di libertà e di giustizia, al funzionamento del siste-ma rappresentativo democratico, al governo del paese nella libertà eper il progresso, ma resero anche possibile una dialettica delle ideee la realizzazione di un sistema almeno parziale di controllo.

Il sistema politico italiano fu smosso dalla sua rigidità ideologicae pratica ed avviato ad una qualche fluidità dal processo riformistaed autonomista del partito socialista, la cui dislocazione – sofferta eprofondamente maturata, in fedeltà ai suoi valori tradizionali ed allasua storia e frutto di una coraggiosa e lungimirante revisione di alcu-ni suoi giudizi storici – nello schieramento liberal-democratico edoccidentale, fu elemento fondamentale di sviluppo nella società civi-le e politica e, ancor più, incoraggiando dapprima riforme incisive,fattore di avviamento e di propulsione del processo riformatore orain sviluppo.

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Negli anni epocali 1989-1990, il muro di Berlino è stato abbattu-to, i reticolati, simboli e strumenti della cortina di ferro, sono statidivelti, i governi comunisti sono stati deposti, il sistema politico,economico e militare del Patto di Varsavia si è dissolto, nei Paesi del-l’Est si sono insediati regimi democratici, essi ricercano forme nuovee sincere di collegamenti tra di loro e con altri per la propria difesaed il proprio sviluppo economico, la perestrojka avanza anche se gra-dualmente nella stessa Unione Sovietica! Un vento di libertà è sof-fiato imponente spazzando via i rottami della storia dall’Ovestall’Est! Ma esso è soffiato anche da Est ad Ovest!

Nel nostro Paese, venuti meno gli inevitabili condizionamenti edi coinvolgimenti internazionalistici, già peraltro notevolmente ridi-mensionati per effetto di precedenti decisioni, nulla ora impedisceche il partito che vuole raccogliere la vasta eredità di sogni infranti edi utopie tramontate, ma anche di passione generosa, prenda risolu-tamente posto – qualora lo voglia – nei grandi schieramenti politicie partitici europei, con una definitiva opzione, nel nome e nell’azio-ne, per una sinistra democratica nell’alveo della grande tradizioneliberale e socialista dello Stato rappresentativo e di diritto. Ed è mioauspicio che quelle masse di lavoratori, intellettuali, operai, contadi-ni, tecnici ed artigiani che non già la loro vocazione popolare, bensìsettarismo ed utopia tennero in parte «separati», entrino pienamen-te nel circuito vitale del sistema democratico, nazionale ed europeo,nella alternanza di funzioni di opposizione e di governo propria diuna democrazia pienamente compiuta.

Un partito, sgravato da una funzione vicaria rispetto ad un sistemadi democrazia socialista e laica che oggi si è in gran parte ricomposta,centro dello schieramento democratico sul fronte interno e su quellointernazionale e garante della sua tenuta, nella situazione politica total-mente mutata in Europa nel nostro Paese, riacquisti la «santa libertà»di un partito avente una propria specifica iniziativa, partito quindinuovamente di proposta, partito non solo di vocazione di governo, madi guida della società, e non solo partito di mediazione e raccolta.

Se a questi due partiti ho fatto primario e specifico riferimentonon è né per predilezione particolare – che non vi è, né mi sarebbeconsentita – ma perché è ad essi che la nuova stagione della demo-crazia pone i problemi più pressanti, in termini ideali e pratici, dellacui soluzione essi sono debitori verso il Paese, perché è sulla storiadel Paese che le loro storie particolari hanno fortemente influito. Inaltre parole, tali valutazioni riguardano esclusivamente, per l’econo-

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mia di questo messaggio, e per il suo fine, quello che sembra esserestato l’effetto che la specificità storica dei loro ruoli ha avuto sul fun-zionamento pratico e reale del nostro sistema politico e costituzio-nale. I loro meriti nella ricostruzione del Paese, nella lotta per lalibertà e l’indipendenza della Patria, nella sua difesa da pericoli diegemonie straniere, nel radicamento della democrazia e nella batta-glia contro l’eversione ed il terrorismo, fanno parte di un altro capi-tolo nobile ed eroico della storia d’Italia, fianco a fianco con i meri-ti altissimi del pari spettanti alle forze politiche liberal-democrati-che, autonomiste, laiche e socialiste, ed alla società civile.

Ma è di ogni tradizione, di ogni forza politica, area culturale eambito religioso, che ha bisogno l’impegno a rinnovare oggi le isti-tuzioni democratiche ed a vivificarle domani di spirito autentica-mente repubblicano: dalla nazionale, alla liberale, dalla socialista,alla laica, dalla repubblicana alla radicale, all’autonomista, a quelladegli operai e contadini di storia comunista, ai credenti e ai non cre-denti!

E tutte le forze politico-parlamentari debbono sentire questocome un impegno primario.

Le stagioni delle riforme istituzionali sono state sempre le stagio-ni della crescita delle sfide, dei rischi di una società: la primaveradelle istituzioni deve essere insieme la primavera della comunità, sead esse vogliamo che segua la maturità di un’estate in cui la Nazio-ne italiana possa cogliere i frutti del suo passato e del suo presente,della sua storia, della sua vocazione europea e mediterranea ed esse-re soggetto rispettato e prezioso dell’Europa e della Comunità inter-nazionale.

La nobiltà del fine ci illumini! Una Italia moderna e civile, unaRepubblica comunità vera di uomini liberi ed eguali, una Patrialuogo e sentimento comune dei cittadini, uno Stato democraticofondante il diritto e garante di esso, forte del reale consenso dei cit-tadini, una società politica pervasa di valori e programmi e scuola diservizio e responsabilità, una comunità civile luogo di ricerca e vitadella verità, del bello e del giusto.

Questo dovrebbe essere il fine di una riforma delle istituzioni edinsieme di un rinnovato impegno morale e civile degli Italiani che lodetermini e lo accompagni; la validità e la serietà dell’impegno, frut-to di ricerca, disinteresse, senso civico, coraggio delle decisioni, lun-gimiranza e praticità, avrebbe richiesto ben altro messaggio, sia neltesto che soprattutto nell’autore. Suppliranno: la gente comune con

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il suo buon senso, e la classe dirigente italiana con la sua prepara-zione, suppliranno i partiti, i sindacati, le associazioni degli impren-ditori, tutti coloro che in forma singola od associata vogliono con-correre al rinnovamento istituzionale.

Ma perché si apra l’invocata, feconda stagione di rinnovamentodelle istituzioni e perché essa dia i frutti di giustizia, equità, libertà,uguale opportunità che i cittadini attendono, occorre non solo unimpegno forte delle assemblee rappresentative, ma il concorso delloschieramento, il più ampio possibile, delle forze politiche, sociali, cul-turali, religiose, economiche, d’ogni parte d’Italia! Parlare di rinno-vamento delle istituzioni e considerare questo problema come priori-tario non significa dimenticare o non riconoscere, come ho già dettoall’inizio di questo messaggio, il grande valore che la Costituzione del1948 ha per la storia e nella storia del nostro Paese, una Costituzioneche è stata il frutto di lotte gloriose che hanno segnato il completa-mento del nostro processo risorgimentale, di cui fu sempre sognoricorrente e mai avverato quello di una Assemblea Costituente.

Non credo che coloro i quali, nella Camera dei Comuni del Re -gno Unito, votando nel 1911 e nel 1947 le leggi che cambiavano ra -dicalmente la struttura del venerando Parlamento Britannico, alte-rando i rapporti fra le due Assemblee rappresentative di quel Parla-mento, o che ampliavano il suffragio introducendo un vero sistemapolitico-sociale democratico, ritenessero di sconfessare le decisioniassunte dal Parlamento di Londra durante la gloriosa rivoluzione del1688-89 che avevano trasformato l’Inghilterra da monarchia assolu-ta a monarchia costituzionale.

Non credo che il popolo francese, quando si diede la Costituzio-ne della Quinta Repubblica, abbia inteso o sentito di rinnegare ivalori della Resistenza, che erano stati posti alla base della QuartaRepubblica e della sua Costituzione.

Non credo che chi la Quarta Repubblica francese ha fondato,abbia voluto rinnegare la Costituzione della Terza Repubblica, sottola quale la Francia aveva combattuto e vinto la Prima Guerra Mon-diale.

Una cosa è parlare con senso di giusta sacralità della Costituzio-ne del 1948, come insieme di principi, valori, istituzioni, in cui si ècoagulato il frutto di una battaglia ideale e di una lotta per la libertàe per il riscatto nazionale; altra cosa è parlare di rinnovamento delleistituzioni. Chi però ritenesse che invocare una stagione di riformeistituzionali significhi non onorare chi è caduto nella Resistenza, chi

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ha lottato contro la dittatura, chi ha pagato nelle galere, perché l’As-semblea Costituente potesse essere convocata, chi ha comunque ser-vito o cercato di servire la patria, perché il popolo potesseliberamen te darsi nuovi ordinamenti, scegliendo con voto diretto fraMonarchia e Repubblica, perché l’Assemblea Costituente potesseliberamente deliberare la nostra Costituzione; chi ritenesse di na -scondersi dentro questa Costituzione, dietro questa Costituzione e,trasformatala in un feticcio, volesse sbarrare la strada a quella che èla legittima richiesta di nuove istituzioni, in realtà tradirebbe e lo spi-rito e i valori della Costituzione del 1948.

Mutate le condizioni storiche che condussero al glorioso pattoche fu posto alla base della Costituzione del 1948, venute meno lecomplesse vicende che attraversarono la storia d’Italia e questi ordi-namenti condizionarono nella loro applicazione, quello che si chie-de è un nuovo patto nazionale da porre a fondamento delle rinno-vate istituzioni democratiche e repubblicane: né la Storia recente néquella passata, né velo consunto di ideologie o fantasmi di utopie, oanimus di rivincita o rivalsa, né spirito da vinti o da vincitori – poi-ché quando è la libertà che vince tutti hanno vinto – può porre osta-coli, a questo incontro di cittadini e di forze politiche, per un nuovopatto per una rinnovata Repubblica.

Oggi abbiamo bisogno di una democrazia compiuta e governante!Ai membri del Parlamento, di questo Parlamento spetta assume-

re l’onore e l’onere di aprire nelle Camere un ampio dibattito sulleriforme più utili e necessarie allo sviluppo dello Stato democratico,al rinnovamento delle sue istituzioni, con l’effettivo, consapevole edoperoso consenso e concorso dei cittadini, alla supremazia del dirit-to, alla crescita di una comunità di liberi nel segno della giustizia.Mi auguro che questo Parlamento intenda farlo e che non troppoangusto appaia, sia od anche diventi politicamente e temporalmen-te l’orizzonte entro cui esso è chiamato ad operare, e la cui concre-ta ampiezza, in termini non solo di calendario, ma di disponibilitàpolitica, non mi sembra però possa costituire, di fronte alla comu-nità nazionale, motivo di evasione o ritardo per la classe politicanell’impegno riformatore, dato che sempre viva ed utilizzabile è lafonte di ogni possibile, rinnovata legittimazione politica ed istitu-zionale, e cioè il corpo elettorale. Né si invochino le urgenze imme-diate, che sono reali ed a cui bisogna porre senza indugio rimedio:il risanamento della finanza pubblica, la lotta alla criminalità orga-nizzata, la riforma del sistema assistenziale, sanitario e pensionisti-

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co. Non sembra peraltro che il ritardo nell’affrontare il tema delleriforme sia stato di una qualche utilità in questo campo nei tempipassati.

A questo mio messaggio non conferisce, ne sono pienamente con-sapevole, specifica autorità dottrinale, né particolare autorevolezzapolitica – come certo in questo momento sarebbe stato necessario –né personale prestigio di guida morale, che non ho, né titoli di rap-presentanza di forze sociali e politiche che non posseggo, né una miaattuale particolare dimestichezza con il mondo della cultura giuridi-ca e istituzionale; ma mi auguro che ad esso assegni almeno nei con-fronti del cittadino comune una qualche concreta autenticità e pra-ticità il mio lungo impegno in Parlamento e negli altri uffici delloStato che mi furono assegnati, molto più per effetto degli eventi cheper titoli di rappresentanza politica effettiva o per particolari com-petenze e meriti, e nei quali, da persona comune, ho maturato un’u-tile esperienza in un non comune impegno. E mi auguro che a que-sto messaggio, almeno per la gente comune, conferisca un suggellodi semplice sincerità la mia irrevocabile decisione, suggerita dadoverosa modestia e da senso dei propri limiti ma anche da consa-pevole realismo molto più che da calcoli politici, decisione dettataanche insieme da considerazioni istituzionali come da pur irrinun-ciabili scelte personali di considerare terminata con la data del 3luglio 1992 la mia esperienza presidenziale, confermando peraltroche fino a quella data totale e pieno sarà il mio impegno per l’esple-tamento del mio mandato al servizio della Nazione, con l’assunzio-ne di tutte le responsabilità e l’esercizio di tutti i poteri che vi sonoconnessi; e con l’esaurimento naturale della mia esperienza presi-denziale terminerà anche il mio quarantennale impegno di politicomilitante che la legge e la consuetudine d’altronde individuano elimitano nella attribuzione di diritto di un seggio senatoriale vitali-zio, ricoprire il quale sarà per me un grande onore e una grandegioia perché mi permetterà di rientrare con semplicità, umiltà ed inpiena libertà, in quella che io sempre considero la mia vera e vecchiacasa istituzionale: il Parlamento.

Il dibattito parlamentare che dovrà seguire questo mio messaggionelle forme che consigliano le attuali circostanze e che prescrivono iprincipi e le norme relative ai ruoli e alle responsabilità proprie delPresidente della Repubblica e delle Camere mi auguro si sviluppinon sulle cose che io ho prospettato, ma sui temi che io ho indicatocome recepiti da corale sollecitazione della gente e dalla società civi-

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le a livello di istituzioni di società del nostro Paese: sui giornali, sulleriviste, sugli altri mezzi di comunicazione, nelle università e nellescuole, nelle fabbriche e nelle botteghe, nelle associazioni e nellecase, nelle città, nei villaggi e nelle campagne, tra i dotti e tra la gentecomune, in un ampio dibattito sullo stato della Repubblica e suimezzi e rimedi per migliorarla nell’interesse di tutti.

È mio fervido voto che le Camere trovino tempestivamente tempie modi per studiare le vie, i metodi e i mezzi per i necessari esami,gli utili confronti e le esigite delibere per far sì che con l’elezione diun nuovo Parlamento dotato delle opportune e specifiche compe-tenze o in altra sede e forma, sempre in conformità ai principi dellavigente Costituzione, pur nelle modifiche che ad essa già in questalegislatura sarà necessario apportare, si possa aprire una nuova rigo-gliosa stagione di forti istituzioni democratiche e repubblicane alservizio dei cittadini e della Nazione.

Iddio protegga l’Italia!

Francesco CossigaIl Guardasigilli, Ministro di grazia e giustizia: Martelli

messaggio del presidente della repubblica al parlamento

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DISCUSSIONE ALLA CAMERA DEI DEPUTATI SUL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE

DELLA REPUBBLICA*

* Atti parlamentari, Aula, Camera dei deputati, seduta del 25 luglio 1991.

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1. intervento di ciriaco de mita

Signor Presidente, onorevoli colleghi, siamo ormai quasi alla con-clusione di un dibattito che sbaglieremmo tutti se lo volessimo assu-mere per il modo che lo determina anziché per la natura e la qualitàdei problemi che lo impongono. Sarebbe un grosso errore non sol-tanto di stile, ma anche un’occasione mancata che l’Assemblea mani-festerebbe a non saper cogliere questa difficoltà per trasformarla,come insegna il Machiavelli, in una grande opportunità.

Certo, i problemi del nostro paese non sono soltanto istituziona-li (La Malfa ha ragione), ma le istituzioni sono la condizione entro laquale si affrontano e si risolvono anche i problemi politici.

La questione istituzionale, evocata in vario modo, oggi è al centrodella nostra attenzione e per le riflessioni fatte, per le indicazionidate, per i suggerimenti qui raccolti, essa fa perno sulle condizionidi governabilità, stabilità e legittimazione democratica del Governo.Il punto di partenza è questo.

E tale questione, onorevoli colleghi, non è, a ben vedere, una que-stione che si pone oggi con riferimento all’ordinamento. Peccato chel’onorevole Amato nella sua lunga, interessante e dotta dissertazionesull’evoluzione delle istituzioni abbia trascurato questa considera-zione.

Il problema della governabilità, della stabilità dell’esecutivo non

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fu risolto dai costituenti. Due furono le questioni rimaste in sospe-so: quella della stabilità del Governo e quella del bicameralismo. Delresto, sono problemi che ci trasciniamo, anche se il primo, quellodella stabilità del Governo, nell’esperienza democratica del nostropaese ebbe una risposta non in termini giuridico-formali, ma in ter-mini politici.

Agli onorevoli Amato e Barbera, che si sono soffermati su questoproblema, e a tutti coloro che riflettono sulla storia politica delnostro paese vorrei suggerire una riflessione diversa, per un dialogo,per capire, per cogliere il nesso inevitabile tra processi politici e isti-tuzioni. Se la nostra riflessione non procede in questo modo, infatti,corriamo un duplice rischio: o immaginare un modello astratto diordinamento, che non saremmo in condizioni di realizzare e, se lorealizzassimo, non sarebbe funzionale allo sviluppo della democra-zia; o, viceversa, desiderando l’impossibile, rimanere impantanatinella difficoltà che stiamo vivendo.

La storia politica italiana del dopoguerra non è una storia di scon-tro tra conservazione e progresso. Essa è l’invenzione, da parte di DeGasperi, dei cattolici popolari – Giuliano Amato! –, dei rappresen-tanti dell’istituzione moderna della democrazia, del partito popola-re di massa (come la democrazia cristiana), che dà risposta a un pro-blema che, come tu hai osservato, si poneva già prima; un problemache non ha riscontro nelle istituzioni dal punto di vista formale, mache dal punto di vista politico è la straordinaria novità del nostropaese.

La coalizione degasperiana non è la maggioranza, non è la sommadei partiti per avere il 50 per cento. Essa è l’associazione tra forzepopolari ideologicamente diverse, con strategie politiche diverse,quali erano i partiti nell’immediato dopoguerra (il marxista, il social-democratico, il laico, il liberale e il repubblicano), che si mettonoinsieme per creare le condizioni per il governo dei processi di tra-sformazione di una società. Ieri La Malfa ci ha ricordato che la sto-ria è questa: noi sappiamo che la storia è questa, e facciamo riferi-mento a tale esperienza quando ipotizziamo un modello istituziona-le che ricostituisca tale condizione.

Certo, non abbiamo la pretesa di affermare che questa è l’unicasoluzione possibile. Trovo singolare che nella discussione che si stasvolgendo in quest’aula, anziché misurarsi con le risposte che siavanzano (credo che nessuno possa avere la pretesa di dire: questa èla verità) fare uno sforzo per analizzare i fatti e, sul fatto, dare la

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risposta giuridica (ex facto oritur jus: è un insegnamento che nondovremmo dimenticare), discettiamo in astratto su quale possa esse-re la risoluzione migliore possibile.

La democrazia cristiana ha avanzato una sua proposta, che noiriteniamo di grande significato e di grande valore. Pensiamo che nonsia l’unica, esclusiva, ma che vada giudicata per quella che è, percome la proponiamo. Il tentativo di liquidare la proposta democri-stiana, tutto incentrato sulla discussione sul premio di maggioranzae sull’accostamento alla legge Acerbo, può essere utile per una dis-cussione non solo in piazza, ma anche in Parlamento; ma certamen-te non serve a farci capire il problema.

Ad Amato vorrei dire (non so se quanto ho letto sia vero) che laproposta del premio di maggioranza è stata avanzata dai socialistiper primi, nel 1945, con una nota anonima sull’«Avanti!» (edizionedi Milano). In presenza della discussione sui sistemi elettorali daadottare all’epoca della Costituente, i socialisti avanzarono questaipotesi. Con quale logica? C’era, anche allora, la preoccupazione chela proporzionale non fosse funzionale a risolvere il problema dellago vernabilità. Quindi, demonizzare un meccanismo o giudicarloseparatamente dai processi politici che si vogliono governare è, amio avviso, un’astrazione che non ci aiuta ad andare molto lontano.

Quella dei governi di coalizione è un’esperienza tutta italiana. Ionon condivido le affermazioni che spesso si leggono che noi dovrem-mo adeguarci all’Europa per uscire dalle difficoltà. L’adeguamentoall’Europa deve avvenire su un altro piano, per altri problemi, peraltre ragioni. Dal punto di vista istituzionale, non è così. E apparesingolare a noi che non vogliamo essere provinciali, a noi che denun-ciamo il limite del provincialismo come una condizione insufficien-te per risolvere i problemi, indicare il semipresidenzialismo francesecome la via per uscire dalle difficoltà. I socialisti avanzano questaipotesi, neppure completandola con il riferimento al sistema eletto-rale; lo avanzano soltanto sul piano dell’indicazione generale, igno-rando che negli ultimi anni Mitterrand e il partito socialista, riflet-tendo sul meccanismo introdotto in Francia e sul sistema elettoralevigente in quel paese hanno avvertito le difficoltà di quel meccani-smo. Il sistema maggioritario a doppio turno (che i liberali avanza-no come una soluzione e che in realtà, sperimentato in Francia, hadimostrato di non essere tale), è un meccanismo che serve a stabili-re subito chi vince e chi perde, ma poi crea enormi difficoltà quan-to a garanzia di governabilità.

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Per quale ragione? Lo dico a tutti coloro che vogliono analizzarequesto problema con riferimento alla storia e ai disagi che esistonoall’interno di una società, anziché con la tentazione di disegnare unmodello giuridico astratto. Cosa succede infatti in Francia con ilsistema a doppio turno, con i blocchi contrapposti (che De Gasperiscongiurava la democrazia cristiana di non favorire mai nel sistemapolitico italiano, perché diversamente sarebbero stati un limite all’a-vanzamento del processo democratico)? Nel momento elettorale,questo sistema consente la possibilità di vincere perché, utilizzandole estreme, il meccanismo della vittoria è assicurato. Ma poi, quandosi passa alla fase del governo, le estreme non aiutano il governo deiprocessi di trasformazione, anzi hanno una spinta sugli estremi op -posti o in termini di conservazione, se sono da una parte, o in ter-mini di disegni velleitari, se sono dall’altra. Cioè, il meccanismo chein astratto, al momento del passaggio del voto, consente l’individua-zione del vincitore, in realtà, al momento della gestione del potere,crea una difficoltà enorme sulla quale, Giuliano Amato (credo diavertelo detto anche in epoca passata), i socialisti e Mitterrand stan-no riflettendo. La loro preoccupazione è concorrere a creare unmeccanismo elettorale che consenta coalizioni centrali, non nel sen -so della moderazione, ma nel senso dell’accorpamento tra forze poli-tiche che, rappresentando gli interessi generali della collettività, poiorganizzano le condizioni di Governo per poter guidare i processi ditrasformazione che caratterizzano le società moderne avanzate comela nostra.

Ora, su questo problema la proposta della dc non è come l’haspiegata Amato (mi è sembrato tanto che descrivesse la posizionesocialista più che la posizione democristiana!). Ma se c’è un equivo-co, è meglio che l’equivoco scompaia e che ragioniamo con riferi-mento alla reale intenzione che abbiamo. E la proposta democraticacristiana su questo problema non ritiene la legge elettorale lo stru-mento risolutivo di tutto; essa è solo uno dei momenti della propo-sta. Quando l’esperienza dei governi di coalizione finisce (e l’espe-rienza dei governi di coalizione è una cosa sulla quale tutti dovrem-mo riflettere), una delle cose che mi sorprende di più (lo dico rife-rendomi a tutti i vari fermenti che esistono nel mondo della sinistrapolitica del nostro paese) è che mentre c’è una grandissima atten-zione a rivedere tutta la loro storia passata, le sinistre hanno tenta-zioni dissacranti, oltre il necessario, nei confronti della dc e della suaesperienza storico-politica. È come se ci fosse un complesso, quello

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di non fare i conti con alcuni errori che la sinistra nel dopoguerra hacommesso nel nostro paese e di immaginare che la sua difficoltà daldopoguerra in poi sia dovuta alla cattiveria della democrazia cristia-na, dando così una lettura della nostra storia politica non dico falsa,ma certamente stravolta.

Onorevoli colleghi, questa invece non è la storia del nostro paese:la storia del nostro paese è completamente diversa. Fin dalla forma-zione del centrismo, che vide uno scontro politico all’interno dellademocrazia cristiana aspro e duro, tale da mettere in contrapposi-zione il mondo cattolico e la democrazia cristiana sulla scelta demo-cratica che De Gasperi operò.

De Gasperi chiamò allora le forze politiche democratiche – credoche adesso questo termine possa essere compreso più agevolmente –per organizzare la democrazia possibile. L’onorevole Occhetto harichiamato questa espressione, che certamente non è nella tradizio-ne della cultura marxista, qualche tempo fa, indicandola come il mo -dello teorico astratto giusto per guidare i processi di trasformazionedel paese.

Quella scelta fu una scelta di democrazia, fu una scelta di libertà:della democrazia e della libertà possibili. Si crearono le premesse peruna crescita ulteriore. Successivamente, l’associazione del partitosocialista alla direzione del Governo non avvenne per caso, ma peril concorso attivo delle forze che diedero vita a quell’esperienza: ilpartito socialista, la democrazia cristiana e le forze laiche. Per farquesto la democrazia cristiana pagò in termini elettorali un prezzoaltissimo, ma conseguì un risultato democratico di grande vantaggio,consentendo il concorso di forze non a sostegno dello Stato demo-cratico – come si diceva – ma il coinvolgimento di larghe masse, perfavorire una larghissima partecipazione popolare.

Giuliano Amato, a questo riguardo c’è diversità concettuale tra latua e la nostra analisi. Nella tua analisi ho la sensazione che il ruolodei partiti scompaia e che vi sia la tentazione di risolvere il proble-ma con riferimento ad una struttura del potere che abbia una razio-nalità in sé. Se fosse così e per qualcuno è così, alcune indicazionirischiano di essere intese così, ebbene tali indicazioni introduconosul piano del processo democratico un rischio dal quale difficilmen-te potremo liberarci.

Affermare oggi – e lo abbiamo letto – che la storia è rimasta bloc-cata significa dire una non verità. La crisi nostra, la difficoltà nostradiscende dal fatto che questo processo, quello dell’allargamento del-

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l’area democratica intorno alle istituzioni è finito, si è esaurito per-ché tutte le forze sono state coinvolte ed hanno una potenziale dis-ponibilità a concorrere alla rifondazione del potere.

È su questo problema che la riflessione politica del nostro paeseva avanti dalla fine del centro-sinistra. Abbiamo introdotto un mec-canismo distorto: non quello di definire l’istituzione, la cui ammini-strazione consenta anche di alternarsi nella sua direzione; stiamoinvece portando avanti un discorso, che ricompare soprattutto nelleparole delle varie anime che costituivano una volta il partito comuni-sta, per il quale si teorizza un’istituzione in funzione dell’alternativa.

Le istituzioni non sono, non possono essere in funzione di qual-cuno o di qualcosa, perché quando fosse così, sarebbero un diritto afavore di qualcuno e, in tal caso, costituirebbero un privilegio. Leistituzioni sono funzionali alla risoluzione dei problemi, e dalla qua-lità della risposta ai problemi che si pongono si organizzano schie-ramenti che si possono contrapporre, in alternanza, nella gestionedel potere. Ora, se non facciamo una riflessione su tale questione,non ne veniamo fuori.

Giuliano Amato ha detto che la democrazia cristiana è sola: ionon so chi è solo e chi è in compagnia. Siamo un po’ tutti soli. Maneppure questa è una novità. Già Moro nelle sue altissime riflessio-ni sulla situazione politica, descrivendo il rapporto tra i partiti, face-va riferimento a una condizione di indifferenza, nel senso che veni-vano meno – sono venuti meno – i riferimenti ideologici, culturali etradizionali che aggregavano le forze.

Oggi diciamo tutti che è caduto il muro di Berlino, che le ideolo-gie non ci sono più, ma la tentazione di questo richiamo del passatoper costruire la nostra solidarietà nel futuro rimane.

Quando sento dire che la sinistra è progressista – probabilmentelo diventerà, questo non lo escludo: è tra i suoi obiettivi! – con rife-rimento all’ideologia marxista e alla storia passata, mi sembra tantodi essere in una posizione neppure di conservazione ma di estinzio-ne sul piano culturale e politico anziché d’indicazione di qualcosa dipiù avanzato e moderno.

Certamente la democrazia cristiana, per la cultura che ha avuto(lo dico non ai democristiani ma ai rappresentanti degli altri partiti),per la cultura dei cattolici popolari e per la loro concezione dellademocrazia, per l’ispirazione religiosa che ha caratterizzato la cultu-ra di questo partito, onorevole Martelli – l’ispirazione religiosa per icattolici è stata una motivazione della libertà – si è posta, e i cattoli-

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ci democratici si sono posti in Italia – in virtù di questa motivazione– come riferimento civile, non religioso, per i credenti e per i noncredenti [Applausi dei deputati del gruppo della dc].

La spiegazione del successo di questo partito sta in questo e l’ap-pannamento del nostro partito sta nell’aver qualche volta trascuratotale riferimento. Ma dal punto di vista culturale certamente oggi, trale culture politiche alle quali si può fare riferimento, quella dei cat-tolici popolari non dico sia la straordinaria o la sola novità, ma cer-tamente è una cultura con la quale bisogna fare i conti. Nonostanteciò, nonostante tale retroterra culturale, anche la democrazia cristia-na sarebbe travolta se con riferimento a tale processo non si facessecarico di concorrere con gli altri a ricostruire regole del potere, isti-tuzioni democratiche forti, che consentano al nostro paese di usciredalla difficoltà che lo attanaglia.

Il punto di partenza è quello del Governo. Quali proposte sonostate avanzate, Giuliano Amato? Sono due. Una prima, del partitosocialista e se non sbaglio del movimento sociale e del partito libe-rale, che prefigura l’istituzione Governo organizzata intorno alla for -ma di Repubblica presidenziale, non definita. Io non sono tra colo-ro che per il fatto che non sia definita ritengono che non abbia signi-ficato. La categoria generale c’è; è una forma istituzionale efficace,che in alcune esperienze di paesi democratici ha svolto e svolge unsuo ruolo, mentre in altri, e stranamente in quello che voi indicatecome modello, ha notevoli difficoltà, sulle quali i socialisti francesiriflettono, ma è comunque un’indicazione.

Il resto del Parlamento ne ipotizza un’altra, su cui c’è uno schie-ramento vastissimo: ritiene cioè di risolvere il problema della stabi-lità, della governabilità e della legittimità del governo parlamentarein maniera diversa.

Qui, la proposta che è emersa è abbastanza raccordata a interes-si più larghi. Circa l’elezione del Presidente del Consiglio non m’in-teressa discutere sui particolari o stabilire questa o quella procedu-ra. La sostanza qual è? Noi vogliamo recuperare la stabilità e la legit-timità del governo parlamentare conservando – ecco, noi vogliamoconservare: non so se siamo conservatori dicendo questo, ma co -munque lo affermiamo con chiarezza – le istituzioni della democra-zia pluralista, che ha costituito il reticolo entro il quale c’è la straor-dinaria storia tormentata, ma una storia di libertà del nostro paese.

Per far questo, per un Governo che diventi stabile avvertiamo l’e-sigenza che esso abbia una legittimità democratica, cioè che non

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venga eletto un Presidente del Consiglio a caso, dopo di che rimane.Noi vogliamo, per chi viene eletto – per il fatto che venga eletto –, chesia coinvolto il popolo nel giudizio sulla possibilità dell’elezione. Sidiscute tanto di sovranità popolare. Quando si individua una for madella democrazia rappresentativa, attenti a far riferimento alla sovra-nità popolare astratta! La sovranità popolare astratta non esiste.

La sovranità popolare si esercita, e nel regime democratico la siesercita con riferimento ad una proposta, ad una idea, ad una indi-cazione. Quando la sovranità popolare si esercita di per sé, già i clas-sici ci hanno spiegato che il passaggio alla demagogia è inevitabile,come ieri d’altronde ha ricordato Forlani.

Visto che siamo tutti preoccupati di reinvestire la volontà popo-lare nella gestione di questo processo di adeguamento, mi chiedoperché, quando indichiamo una forma – che può anche essere dis-cutibile ma certamente forma è – si dica: no, questo non va.

Questa è la nostra proposta. La proposta elettorale è solo dellademocrazia cristiana? Non mi parrebbe, perché tutti hanno parlatodi riforme elettorali. Sull’argomento voglio discutere con molta sere-nità dicendo – non per finzione, ma perché parliamo con grandeconvinzione, come ieri ha fatto Forlani per tutta la democrazia cri-stiana – che questa è la nostra proposta e che siamo convinti dellasua giustezza. Non pensiamo, però, di imporla agli altri senza unconfronto, senza cercare spazi d’intesa. Noi mettiamo nel contoanche la possibilità che prevalga non solo una diversa legge elettora-le, ma anche un diverso sistema di governo. Vogliamo soltanto che,una volta posto il problema, si individuino le vie democratiche pos-sibili per arrivare a una conclusione. Questa, sì, è una nostra esigen-za. Mi pare però non sia solo nostra.

Non capirei il dibattito che abbiamo fatto e non capirei neppuretutti gli atti di ossequio al Capo dello Stato per il messaggio che hainviato, se poi concludessimo col niente. L’atto di ossequio, il rilievoche si è dato al messaggio, indipendentemente dalle motivazioni, silegittima straordinariamente per la difficoltà esistente. Quindi, unadiscussione sulla sua legittimità o meno può anche essere sostenutadal punto di vista giuridico, ma non avrebbe nessun significato dalpunto di vista politico.

Noi dobbiamo fare questo sforzo. Sulla legge elettorale – l’ha giàdetto Forlani ed io ora lo dico a Giuliano Amato – la nostra propo-sta è quella più duttile; non dico la più democratica, ma certamentequella più aderente alla condizione del quadro politico che esiste nel

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paese, alla sua possibile evoluzione. Infatti, pretende che le forze chesi associano per il governo del paese, per il tempo dato in cui l’asso-ciazione c’è, s’impegnino a governare. L’esperienza politica di questianni ci ha dimostrato che è mancato proprio questo. Ed anche l’o-norevole La Malfa, che pure ha dedicato la sua attenzione a proble-mi diversi, all’interno del suo ragionamento ha dovuto riconoscereche la difficoltà è legata anche al venir meno dello spirito di coali-zione.

La nostra proposta è funzionale proprio a far crescere lo spirito dicoalizione, senza imporlo, creando la convenienza a realizzarlo e par-tendo dal presupposto che, quando forze politiche hanno indirizzo digoverno comune, hanno per l’appunto convenienza ad associarsi.

Perché il premio? Per la sollecitazione che il processo esige; ediversamente non saremmo in presenza della difficoltà. Tutte le pro-poste di nuovi sistemi elettorali avanzate – la nostra, quella del pds equella dei liberali – in realtà funzionano così: nella prima fase regi-strano le opinioni diverse, cioè in un primo momento i partiti si con-tano per le opinioni che hanno. Su questo punto non c’è differenzain nessuna delle proposte. Dopo, la proposta del pds presuppone ilpremio alla coalizione. E dico subito che, quando si demonizza ilpremio, non si può demonizzare quello degli altri e pensare che ilproprio sia utile. In realtà – è la mia opinione, ma si può discutereanche questo sistema – è funzionale non solo alla coalizione e ai finidella governabilità, ma anche alla coalizione che perde. Non vorreiessere maligno, ma prospetto la mia riflessione al collega Barbera: ilpremio alla coalizione che perde mi sa tanto di previsione funziona-le a un partito, piuttosto che alle istituzioni del paese. Individuarechi governa è necessario, mentre individuare che a perdere sianouno o più non conta ai fini della stabilità di governo.

Questo mi porta a ritenere impropria la proposta dello sbarra-mento. È vero che esso è previsto nell’esperienza tedesca, ma è an -che vero che la situazione politica tedesca è diversa dalla nostra. Losbarramento – in questo concordo con Barbera – non sarebbe fun-zionale a risolvere il problema della stabilità del Governo.

In astratto esso dovrebbe fermare la frammentazione: ma, stiamoattenti, la frammentazione non è la ragione, ma la conseguenza. Ilmale di cui soffriamo nel nostro paese è la mancanza di un’autoritàlegittimata a governare, non il pluralismo minoritario dell’opposi-zione. Sarei quindi molto cauto a interrompere l’inizio di ogni movi-mento, perché le forze politiche nuove nascono dal poco, non nasco-

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no con una grande forza. Introdurre uno sbarramento potrebbe es -sere una via rischiosa.

Le due proposte rispondono quindi alla stessa logica, con una dif-ferenza. Dico ai socialisti, che sostengono che la prima delle due èfatta per la vittoria della democrazia cristiana, che, nel breve perio-do, se ipotizziamo che la coalizione di governo possibile comprendatra gli altri anche democrazia cristiana e partito socialista, si tratte-rebbe di una legge elettorale non funzionale soltanto alla dc, maall’aggregazione dei partiti per il governo del paese.

Ma in prospettiva il ruolo del partito socialista – lo riconosco nonper concessione, ma perché lo capisco – guarda alla possibilità diuna forza, unica, unitaria, federata, che metta insieme le forze dipro venienza della sinistra e raggiunga nello schieramento politicodel paese una consistenza molto più forte.

Le istituzioni non possono prevedere il futuro, lo amministrano.Com’è allora regolato il processo all’interno di questa istituzione?Finché queste forze hanno convenienza ad associarsi per il governodel paese si associano; quando esse valutassero, l’una e l’altra, nonuna soltanto di esse, che l’indicazione da dare aggrega forze diversee non mette più insieme al partito socialista e la democrazia cristia-na, la soluzione sarebbe funzionale anche a tale disegno.

Faccio però il futurologo rilevando che credo non sia difficileprevedere, con molto realismo, per quanto c’è dato di prevedere,che anche il processo di unificazione socialista non approderà neitempi brevi alla maggioranza assoluta. Probabilmente darà, mi augu-ro che dia consistenza ad una grande forza, ad un altro partito, adimensione popolare, come la democrazia cristiana, culturalmenteispirato in maniera diversa.

I partiti infatti non sono soltanto figli dell’ingegneria e della pub-blicità: essi sono figli della storia di un paese. E la storia dei paesi èfatta anche di errori, non solo di virtù, anche perché gli errori gene-rano virtù e le virtù errori. In questo processo continuo, questa gran-de forza della sinistra può venir fuori ed io mi auguro che vengafuori. Ma questo meccanismo non la preclude, questo meccanismonon la contrasta – non vorrei eccedere nella spiegazione della pro-posta –, oso ritenere che questo meccanismo la favorisca.

presidente. Il tempo a sua disposizione è scaduto, onorevole DeMita!

ciriaco de mita. Le chiedo scusa, Presidente, sapevo della difficoltà diparlare controllando l’orologio: se mi consente di spiegare la proposta...

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presidente. Onorevole collega, si avvii alla conclusione, comehanno fatto gli altri oratori.

franco piro. Come Socrate: il tempo è finito!presidente. Il tempo massimo è di trenta minuti, termine che nes-

sun oratore può superare! franco piro. Ma non c’è premio di maggioranza?! presidente. No, non c’è il premio di maggioranza! C’è il tempo

che ogni gruppo ha a disposizione.ciriaco de mita. Parlando di regole, signor Presidente, per ren-

dere credibile la mia opinione, mi atterrò alla regola e chiederò soloqualche minuto per concludere.

Credo che questa discussione avrà senso se ci sforziamo di con-cludere individuando la procedura per affrontare le riforme.

Giuliano Amato, la proposta della democrazia cristiana non è unapistola. Se fosse una pistola, sarebbe una pistola scarica. Che sensoha? Immaginare la politica così, significa immaginare la non politica!

La nostra è un’indicazione seria. La democrazia cristiana non haavanzato questa proposta tentando di contrabbandarla nei momen-ti di difficoltà e di farla passare con i voti che si possono trovare inParlamento. Se la democrazia cristiana avesse fatto questa scelta, l’a-vrebbe spiegata prima. La democrazia cristiana ha fatto questa pro-posta per concorrere con gli altri a risolvere il problema. E noi met-tiamo la proposta elettorale – come tu hai detto come conseguenzadella risoluzione del problema della governabilità perché, se e quan-do se ne discuterà – e io credo che dobbiamo definire se e quandone discuteremo – questo problema venga risolto. Non reputo cherisolvendo questo problema si risolvano tutti gli altri. Ma – mi rivol-go a La Malfa – la mia opinione è che, se non risolviamo questo pro-blema, tutti gli altri non siano risolvibili. Questa dunque è la condi-zione per recuperare la governabilità.

Tra le proposte avanzate ve n’è una mista: quella dell’Assembleacostituente e del potere costituente. Vorrei spiegare perché nonsiamo favorevoli all’Assemblea costituente. La decisione l’ha illu-strata il segretario del nostro partito: siamo contrari perché mi sem-bra che, dal punto di vista della praticabilità, le vie per conseguirlasiano due.

La prima consisterebbe in un atto rivoluzionario che cambi l’esi-stente, elegga, inventi, proclami un’Assemblea costituente senza unadiscussione sui poteri attribuiti a tale Assemblea. Mi rivolgo al mioamico Gava – che ha ipotizzato per questa eventualità un intervento

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della Corte costituzionale, perché un’Assemblea così eletta delegitti-ma tutto e crea la legittimità del nuovo. Non mi pare che siamo inpresenza di questo rischio (perché questo lo considererei un ri -schio). Ma non riesco neppure ad immaginare che il Parlamento,una volta maturata una simile consapevolezza ed una simile convin-zione, deleghi un’altra istituzione. Ho letto che quest’Assemblea co -stituente dovrebbe essere composta da persone con determinati tito-li. Ho difficoltà ad immaginare che vi siano gli esperti per i proble-mi costituzionali: i giuristi aiutano i politici, ma l’esperienza ci dimo-stra che le soluzioni sono sempre politiche; poi i giuristi le sistema-no. De Gasperi, che di queste cose se ne intendeva, diceva che tro-vava sempre otto costituzionalisti che gli spiegavano una soluzioneed otto che gli spiegavano quella contraria. Ciò non significa che icostituzionalisti non abbiano opinioni, ma è saggio che diano razio-nalità all’indicazione politica fornita. La seconda via è quella delpotere costituente, che mi sembra un’espressione più accettabile. Echiedo ai socialisti di essere attenti su questo passaggio – parlo aisocialisti, ma mi rivolgo a tutti – perché probabilmente rappresentail momento in cui la nostra riflessione potrebbe far maturare unaprocedura sulla quale essere d’accordo. Siamo favorevoli al poterecostituente, non intendendolo come una Costituente a metà, ma nelsenso che abbiamo tutti la consapevolezza e conveniamo (e questanon è una mia interpretazione, è una registrazione, perché tale affer-mazione è stata fatta da tutti in questa sede) che su alcune forme diorganizzazione del potere previste dalla Carta costituzionale (perfare un riferimento preciso potremmo parlare dell’istituto Governo,del bicameralismo, dell’organizzazione dell’ordinamento regionale)vi è la necessità di riflettere, di riconsiderarle e di adeguarle; e quin-di di esercitare il potere costituente. Per quanto concerne la modifi-ca della nostra Costituzione – non discetto sul vincolo giuridicostretto o largo – l’articolo 138 della Costituzione prevede una pro-cedura per la revisione costituzionale. Ma la lentezza, gli intralci, gliostacoli introdotti dall’articolo 138 della Costituzione (lo dico a Giu-liano Amato, raccogliendo la sua riflessione finale) erano in virtùdella considerazione che tutto l’ordinamento costituzionale fosse incondizioni di efficacia e che non si palesassero difficoltà. Quindi ilcostituente non impediva la possibilità di cambiare, ma se in fondoal processo di cambiamento tutto rimaneva inalterato, poteva rima-nere tale. Pertanto l’articolo 138 ha questa motivazione, a cui è lega-ta anche la doppia lettura. Come abbiamo proposto e riproponiamo,

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se vogliamo rendere credibile la fase costituente per un periododella prossima legislatura, la modifica dell’articolo 138, per quantoriguarda il tempo, ha questa spiegazione. Anche se diamo indicazio-ni diverse nessuno di noi dice che il problema possa rimanere cosìcom’è. Tutti diciamo che deve essere risolto, anche se le soluzioni so -no diverse (Governo parlamentare rafforzato, Repubblica presiden-ziale), ed indichiamo il modo di farlo. A Quercini vorrei dire cheparlare di doppia lettura, con questa motivazione, non avrebbe rilie-vo, perché conveniamo che dobbiamo cambiare. Pertanto indicareuna procedura non superficiale, ma più adeguata al cambiamento,secondo la mia opinione non sarebbe in contrasto neppure con lalogica che ha dato vita a quella norma. Inoltre l’articolo 138 preve-de che le leggi di revisione della Costituzione se votate con la mag-gioranza qualificata non si sottopongono a referendum, mentre sevotate senza tale maggioranza possono esserlo. Come ha detto For-lani e ha ripetuto Gava, noi saremmo del parere che le proposte co -munque votate debbano essere sottoposte a referendum, raccoglien-do in positivo senza forzature e stravolgimenti l’indicazione che dapiù parti viene, e sulla quale i socialisti si soffermano con attenzionerilevante, in ordine all’opportunità, se non la necessità, di un coin-volgimento popolare anche in riferimento alle modifiche che s’in-tendono adottare. In questo modo avremmo due momenti di coin-volgimento elettorale: il primo, in quanto si va alle elezioni. Se con-cordiamo di risolvere il problema credo che ognuno di noi spieghe-rà le proprie proposte quando si andrà, se si andrà, al passaggio elet-torale. Il meccanismo della democrazia partecipata, GiulianoAmato, è questo, ed io starei molto attento a snaturarlo, a cancellar-lo, mentre sono molto attento e molto disponibile a discutere circal’opportunità di utilizzare tutte le forme possibili che consentano dirispondere a questa domanda. Il secondo momento sarebbe quellodi convenire o meno sul fatto che le proposte votate dal Parlamentodebbano essere sottoposte a referendum. Se nelle procedure checoncordiamo il punto di partenza è che tale modifica è necessaria enon facoltativa, in fondo al processo previsto dalla Costituzione(votazione, referendum confermativo) se non ci fosse l’approvazio-ne da parte popolare per la proposta approvata dal Parlamento, cer-tamente non potremmo dire che il problema non si pone più: essorimane e va risolto. Dico la mia opinione non coinvolgendo nessunoe ritenendo che possa essere non una proposta definitiva, ma uninvito ad approfondire una riflessione. Se fossi un osservatore, con

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questo ragionamento concluderei col dire che il popolo non appro-vando la proposta, oggettivamente fornisce un’indicazione in meri-to. Non dimentichiamo, infatti, che stiamo discutendo, non inastratto ma nel concreto, tra due soluzioni: quella che prevede il raf-forzamento del Governo parlamentare e quella della Repubblicapresidenziale. Perché non ragioniamo, perché non individuiamo unaprocedura che impegni tutti a chiudere la discussione strumentalesulla questione e ad indicare una strada in fondo alla quale ci sia ladecisione, qualunque essa sia, legata a questo strumento complessodei meccanismi della democrazia rappresentativa e del coinvolgi-mento della volontà popolare? Concludo, onorevoli colleghi, mani-festando una mia preoccupazione, che credo sia di tutti: se conti-nuiamo a discutere di questo problema con l’illusione che strumen-talizzando il dibattito qualcuno di noi ne possa trarre vantaggio, pro-babilmente nel breve periodo qualche vantaggio qualcuno potrebbeanche ottenerlo; ma io ho il timore fondato che nel medio periodoquesta tattica coincida con l’irresponsabilità di tutti noi. Esaltiamotanto il ruolo del Parlamento, siamo tutti attestati a difendere ilruolo del Parlamento nelle democrazie moderne, ma non vorrei checoncorressimo con la nostra insipienza a fare in modo che il Parla-mento sia travolto.

2. intervento di achille occhetto

Signor Presidente, onorevoli colleghi, il dibattito che si è fin quisvolto sul messaggio inviato alle Camere dal Presidente Cossiga èindubbiamente evento di primaria importanza. Attraverso il Parla-mento esso mette l’intero paese, i poteri e le espressioni della socie-tà civile, l’opinione pubblica, di fronte al tema cruciale della crisidella Repubblica e alla prospettiva che ne scaturisce necessariamen-te di un processo di riforma che investe le nostre istituzioni. E mettetutti e ciascuno di fronte alle propri e responsabilità.

Che il Presidente della Repubblica solleciti una discussione piùsui temi da lui indicati che sulle posizioni di merito che egli espone,ci sembra un suggerimento saggio, rispettoso dei poteri e delle com-petenze dei più diversi organi, anche se un’osservazione va pur fatta.Avremmo voluto, e ci sembra che sarebbe stato più saggio da partesua, una maggiore attenzione alla pluralità delle posizioni in campo.Anch’io ritengo, come altri colleghi, che il messaggio non possa esse-

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re isolato dal contesto di una serie di esternazioni che hanno deter-minato un clima, una certa lettura del processo riformatore.

Non intendo intervenire sulle riflessioni storico-politiche che ilmessaggio svolge intorno al processi che hanno portato alla nascitadella Costituzione, anche se colpisce la rappresentazione di unavicenda politico-costituzionale assai complessa e a tratti drammati-ca; una vicenda nel corso della quale la democrazia italiana s’irrobu-stì anche per la forza con cui l’opposizione seppe farsi sperimentataed accorta tutrice del progetto costituzionale. Colpisce – dicevo –che essa venga ridotta, da un lato, ad una pura proiezione del con-flitto di campo tra est e ovest e, dall’altro, ad una sorta di alternan-za politologica tra conventio ad excludendum e conventio ad conso-ciandum. Lasciamo stare. Le nostre valutazioni e i nostri giudizi sidifferenziano in modo assai netto da quelli che il Presidente espri-me.

Contemporaneamente non ci può sfuggire che, almeno in parte,la ricostruzione storica che ci viene fornita dal messaggio presiden-ziale è funzionale ad un immediato obiettivo politico e ad una parti-colare visione del rinnovamento costituzionale. Si tratta, infatti, diuna ricostruzione che di fatto mette in secondo piano la direttaresponsabilità politica delle varie compagini governative che si sonoavvicendate dal ’48 in poi. E devo dire all’onorevole Magri che,essendo io un fermo e convinto sostenitore della necessità della ri -forma del nostro sistema politico, non condivido la tesi di quantiattribuiscono importanza capitale e dirimente solo alle responsabili-tà politiche delle classi dirigenti. Ma non condivido nemmeno, comelui, la tesi di quanti, concentrando esclusivamente la loro attenzionesulle distorsioni del sistema politico, tendono ad una ricostruzionedei fatti che sostanzialmente prescinde dalle responsabilità politichee di governo.

È di fronte a noi il censimento dei problemi sociali e politici, delledifficoltà reali e dei nodi da sciogliere. Si tratta – molti lo hannoricordato in questi giorni di problemi enormi: la crisi dei partiti lega-ta alla loro occupazione del potere, la lentezza del processo legisla-tivo, la fragilità dei governi e la scarsa autorità delle coalizioni gover-native a causa dei loro conflitti interni, la commistione tra politica edamministrazione, un debito fuori controllo, l’inefficienza dei servizipubblici, lo stato di emergenza creato dalla forza crescente delle or -ganizzazioni criminali, il dissesto della giustizia, l’assoluta mancanzadi pari opportunità in vastissimi settori della vita economica e socia-

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le, a partire dal dominio delle grandi concentrazioni nel settore del-l’informazione.

Ebbene, la causa di questi mali non va ricercata nella Costituzio-ne. C’è una responsabilità delle classi dirigenti che non va dimenti-cata; o, se si vuole, non si possono convertire le critiche alle personein critiche alle istituzioni. Ma non solo di questo si tratta. La nostraCostituzione indica la strada di uno sviluppo riformatore della socie-tà, dei rapporti tra Stato e mercato, tra uguaglianza e libertà, tra ivalori dell’individuo e della socialità che possono iscriversi negliorizzonti di un socialismo autenticamente democratico.

Ecco perché una determinata ricostruzione storica rischia di nonessere neutra rispetto al progetto politico che ci sta dinanzi. E dicoquesto non dimenticando che, quando si parla di sovranità popola-re, la stessa sovranità popolare va riempita di contenuti nuovi, chepermettano un suo effettivo esercizio, collegato a quanto prevedel’articolo 3 della Costituzione, quello relativo all’obbligo di rimuo-vere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fattola libertà e l’uguaglianza dei cittadini.

Alla luce di queste sommarie considerazioni, credo di poter direche il fascino delle interpretazioni globali, se non è sorretto da un’a-nalisi determinata, non ci permette di fare un’analisi storica, ma – alcontrario ci conduce diritto ad una sorta di filosofia della storia ecioè di ideologia. Non si può certo rimproverare a me di non averavvertito la portata del crollo del muro dei muri; tuttavia ritengo cheil peso determinante della divisione del mondo in blocchi contrap-posti che ha caratterizzato questi quarantacinque anni di storia mon-diale, non possa in alcun modo offuscare le caratteristiche originalied inedite della storia vera della democrazia italiana e della genesidel patto costituzionale.

In questo senso storicamente ineludibile noi continuiamo a direche i valori della Costituzione sono intangibili e rivendichiamo amerito della sinistra italiana le grandi ed appassionate battaglie perla loro realizzazione. Naturalmente questa impostazione storicamen-te e culturalmente corretta non implica, a nostro avviso, l’assunzio-ne di posizioni conservatrici. La stessa Costituzione, come ogni o -pera storica ed umana, è sottoposta alla verifica dell’esperienza ed allogoramento ed alla prova degli eventi, in particolare alla necessitàdi adeguare l’ordinamento e le regole alle esigenze dei tempi. Noiriteniamo che anche certi valori, come la libertà, debbano fare iconti con l’evoluzione delle tecnologie e con l’emergere di nuovi

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diritti. Valgano per tutti temi cruciali come l’informazione, la demo-crazia economica ed i poteri sovranazionali. Tuttavia, la primaRepubblica poggia le sue fondamenta sulla Resistenza; sarebbe benmisera cosa fondare una nuova Repubblica sulle tavole rotonde o sugenerici appelli plebiscitari.

Noi non siamo quindi per una nuova Costituzione, ma per unarevisione profonda, fortemente innovativa, di quella parte dellaCostituzione che attiene alla forma di governo, all’organizzazioneregionalistica ed autonomista della Repubblica. Siamo favorevolinon solo alla riforma del sistema politico, ma anche alla più genera-le riforma dello Stato, dei poteri e delle regole; siamo per dare corpoe voce ai nuovi diritti di cittadinanza.

Ma il nucleo del messaggio è ben altro: è quello in cui si affrontail problema cruciale del metodo delle riforme. Sono tre le strade fon-damentali che vengono indicate: la prima è quella di una revisionedell’attuale Costituzione con la procedura prevista dall’articolo 138;la seconda consiste nell’attribuzione alle Camere attuali o a quelleche saranno prossimamente elette di veri e propri poteri costituenti,di poteri, cioè, non vincolati al proprio esercizio dalle norme del-l’articolo 138; la terza è l’elezione di un’Assemblea costituente, dota-ta di veri e propri poter i costituenti e, quindi, senza limitazioni pro-cedurali o di merito derivanti dalla Costituzione vigente.

Insomma, il Capo dello Stato sembra contrapporre il processo direvisione costituzionale normato dall’articolo 138 – in forza delquale non si potrebbe operare alcuna delle riforme di cui si parla,dal monocameralismo alla questione delle forme di governo, al regi-me presidenziale o semipresidenziale – ad un processo costituente inforza del quale si determina una vera e propria fuoriuscita dal siste-ma costituzionale vigente.

Ciò che verrebbe in tal modo instaurato è un nuovo ordinamen-to, con una diversa base di legittimazione: è quello che Cossigaevoca quando fa riferimento ad un processo popolare sovrano dirifondazione dei propri ordinamenti.

Su questo punto non sono consentiti equivoci: non si può inalcun modo prendere in considerazione l’ipotesi che il passaggioriformatore avvenga mediante sospensione del vecchio ordinamen-to. Intendiamo qui riaffermare un punto di principio: qualsivogliamodifica o revisione della Costituzione non può avvenire che nelrispetto assoluto delle norme che la Costituzione stessa prevede aquel fine.

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Due devono essere i riferimenti essenziali nel comportamento diogni organo dello Stato e di ogni attore politico: l’impegno più riso-luto per dare risposta alla domanda di riforme ed il più rigorosorispetto delle norme in vigore, dei poteri e delle responsabilità à cosìcome sono attualmente stabiliti . Consideriamo sia da respingere fer-mamente ogni ipotesi di indebolimento della Costituzione mediantela contrapposizione, a cui si fa ricorso nel messaggio, fra poteri costi-tuenti e poteri costituiti.

Solo la piena assunzione di responsabilità da parte del Parlamen-to ed il pieno esercizio dei poteri ad esso attribuiti garantiscono l’or-dine istituzionale, la concretezza e l’efficacia del processo di riforme.Sentiamo di dover ribadire – a fronte di sollecitazioni sempre piùfitte e talvolta disparate ad imboccare la via delle riforme ed a fron-te di manovre difficilmente decifrabili, che paiono oscurarne il per-corso – che il Parlamento è il depositario di ogni potere in materiadi riforma elettorale ed istituzionale. Il Parlamento, nel rispetto dellenorme in vigore, è il solo che possa decidere senza strappi di legitti-mità anche in materia di procedure e di strumenti finalizzati alleriforme. Vi è oggi l’assoluto bisogno che il Parlamento, se vuole darcorpo e senso al dibattito che stiamo svolgendo, si attrezzi per ope-rare immediatamente, raccogliendo anche la sollecitazione scaturitadalla consultazione referendaria.

È questo un grande banco di prova per una sinistra rinnovata. Sealla crisi della Repubblica non è seguito un collasso istituzionale edè stato fin qui contrastato con successo ogni sbocco avventuristico oconservatore, ciò si deve anche al ruolo che abbiamo svolto, alnostro impegno ed alla nostra responsabilità di forza di opposizione.

Inoltre, ciò si deve alla scelta, cui abbiamo aderito fino in fondoe senza riserve, di un rinnovamento della sinistra come chiave e pre-messa di una rifondazione democratica dello Stato. Si tratta di dareconcretezza ed incisività a questa prospettiva, che è tutt’uno con ladomanda di riforma della politica.

Vediamo che il partito socialista reitera la sua proposta relativaalla scelta con voto popolare di un Capo dello Stato che sia munitodi poteri di alta direzione politica. È una proposta in sé del tuttolegittima; l’abbiamo detto più volte, anche se non ne condividiamoquello che ci pare il senso e se intravediamo un percorso costituzio-nalmente assai accidentato. Quel che è certo è che essa pare costi-tuirsi a prescindere da una prospettiva di ricambio del ceto di Go -verno e da una prospettiva di alternativa.

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In ultima istanza essa finisce con il penalizzare – almeno questopare a noi – proprio quel processo di riavvicinamento, addirittura diconvergenza, tra le forze che hanno una comune origine nel movi-mento operaio e socialista e che – lo sappiamo bene può rappresen-tare un elemento essenziale per l’alternativa e il rinnovamento dellasinistra, a patto che i partiti e le forze di sinistra sappiano essereinterlocutori affidabili di una domanda di riforma della politica, dinuovi valori, di profonde trasformazioni dello Stato e della societàitaliana, che emerge dal paese.

Allora io dico: se dobbiamo riformare regole e poteri della nostravita pubblica, è bene che la sinistra vada ad un confronto limpido, chese ne discuta senza artifici, manovre, messaggi trasversali. Deponiamoi pregiudizi di ogni segno, ma abbiamo l’onestà e il rigore necessari anon occultare o camuffare consensi e dissensi politici di merito.

Se non affronteremo i termini duri di questo confronto è inutilefarsi illusioni: la sinistra non sarà in grado di porre in termini nuoviil problema del governo dell’Italia; non sarà in grado di voltare pagi-na rispetto al regime di questo decennio, verrà meno alla propriafunzione nazionale, non saprà elaborare (e non lo saprà il pds, ma,certo, neanche i socialisti, per non parlare di quell’arco vastissimo diforze progressiste che non hanno ancora diretta o indiretta espres-sione di governo) una proposta di governo forte dei processi econo-mici, sociali e istituzionali, una proposta che per ciò stesso esigericambio ed alleanza.

Non ci sarà riforma della politica se si rimarrà all’interno del siste-ma di potere democristiano, di quella commistione clientelare diresponsabilità pubblica e di interesse privato, che ha alimentato laformazione di un quasi regime di cui tutti stiamo constatando i costidevastanti, a cominciare dallo Stato, come ricordava proprio LaMalfa ieri, ma che tuttavia, assorbendo nella propria orbita unaparte della sinistra, è diventato l’ostacolo più poderoso sulla via diun fisiologico ricambio di classi dirigenti e di ceto politico.

La via che sta di fronte a noi è quella che può consentirci di dise-gnare e tradurre in realtà regole e poteri di una democrazia matura.Questo Parlamento ha davanti a sé meno di un anno; sono mesi pre-ziosi. Abbiamo detto che debbono essere impegnati per affrontareuna legge elettorale, che consenta ai cittadini di eleggere il nuovoParlamento con regole nuove, che garantiscano in primo luogo ilpotere del cittadini, la trasparenza e la moralità della vita pubblica.

Abbiamo già indicato per parte nostra una linea precisa di rifor-

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ma istituzionale: dare ai cittadini il potere di determinare con il votogli indirizzi, i programmi, le maggioranze di Governo. Ma abbiamoanche detto che la nostra è una proposta aperta, la cui logica non èquella del premio di maggioranza a un partito.

Si tratta inoltre di attribuire a una Camera con un ridotto nume-ro di membri la pienezza del potere legislativo, di rafforzare poteri ecompetenze delle Regioni facendo capo a una seconda Assembleanazionale (la Camera delle Regioni), di regolare e riformare poteri estrumenti essenziali, pubblica amministrazione e informazione inprimo luogo; problemi, cioè, che sono, a quanto pare, cari anche adAmato, che qui li ha affrontati con grande passione.

Ma se non opereremo più tempestivamente in questa direzione, ilpaese sarà consegnato a una democrazia povera e a uno sviluppobloccato. Sono queste le cose che intendiamo fare subito, per lequali ci batteremo. Sentiamo come nostra, come Amato, la convin-zione sobriamente espressa dal presidente Roosevelt nel discorso del4 marzo 1933: «La politica che preferisco» – diceva – «è di fareprima le cose che devono essere fatte prima». Allora vediamo qualisono e arriverò a questo punto.

Ma al Presidente della Repubblica, da questa sede, con la più vivaconsapevolezza delle responsabilità che la Costituzione gli attribui-sce, ripropongo una riflessione. È nostra convinzione che per ragionistoriche e funzionali sia necessaria una riforma del nostro sistemapolitico e degli assetti istituzionali. Questa convinzione si accompa-gna in noi alla fermissima volontà di procedere secondo quanto laCostituzione prevede e prescrive e alla convinzione che il confrontofra le diverse proposte e le diverse ipotesi debba avvenire, come pre-visto e prescritto, in questa Camera e nel Senato, senza che altri pote-ri dello Stato intervengano a sostegno di questa o di quella soluzione.

A quanti si lamentano per il fatto che emergano con grande nobil-tà posizioni conservatrici, noi chiediamo una riflessione critica. Nonè forse l’avere sostenuto una via avventurosa, di rottura istituziona-le, accompagnata da un furore incapace di collegarsi ai necessari ele-menti di continuità con il meglio della democrazia italiana, della suastoria, delle sue passioni, delle sue sofferenze; non è forse una simi-le linea di rottura istituzionale che finisce per dare prestigio e nobil-tà alle posizioni conservatrici?

Dico questo con la forza che ci viene come pds dall’avere per partenostra abbandonato posizioni nobilmente conservatrici. Noi ci siamomossi – vorrei ricordarlo ai compagni socialisti – con l’obiettivo di

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superare in avanti quello che poteva essere il vero rischio della sini-stra, quello cioè di rimanere invischiata in una contesa tra genericheposizioni di rottura istituzionale e posizioni di mera difesa dell’esi-stente, incapaci di cogliere le impazienze, le contraddizioni nuove, ilprofondo travaglio del tempo che stiamo attraversando. Entrambiquesti atteggiamenti aprono la strada a soluzioni pericolose, a rottu-re che possono evolvere in direzione autoritaria. Per questo noi nonci collochiamo sulla trincea della conservazione istituzionale. E vor-rei dire a Forlani, che ha parlato di autoriforma dei partiti, che noiabbiamo rinnovato noi stessi per contribuire a rinnovare tutto il siste-ma politico. Non solo; noi veniamo da una riunione del nostro con-siglio nazionale nel corso della quale abbiamo chiuso con nettezzasenza precedenti verso ogni ipotesi di politica dei due «forni».

La scelta dell’alternativa non come formula da contrapporre adun’altra formula, ma come politica, come strategia di tutta la sinistra,ne è uscita ancora più forte e ancora più limpida.

Non prepariamoci dunque – vorrei dirlo ai compagni socialisti –al solito vecchio gioco di denunciare presunti accordi tra pds e dc perrendere eterni i reali accordi tra dc e psi! Ed ho apprezzato, nell’in-tervento di Amato, il fatto che non vi sia stato questa volta un simileriferimento. Dico questo perché il momento della verità è giunto pertutti. Noi abbiamo abbandonato posizioni che potevano anche appa-rire ambigue. La prospettiva dell’alternativa alla dc e al suo sistemadi potere è per noi netta e chiara. Non abbiamo mai pensato che l’al-ternativa fosse la nostra cooptazione nella vecchia politica.

La dc, nel suo complesso, non può non essere considerata comeil grande partito moderato del nostro paese, interprete e beneficia-rio principale dei meccanismi di rivoluzione passiva che le strategieconsociative hanno continuato fin qui ad alimentare.

Vorrei dire all’onorevole De Mita che il consenso che alla dcviene da vasti ceti popolari, la presenza nel partito della dc di orien-tamenti socialmente avanzati o addirittura di vere e proprie forze disinistra non sono sufficienti a garantire un superamento del sistemadi potere e quindi a fondare un’alleanza di progresso con questopartito. In questo la sinistra è progressista, De Mita; non in riferi-mento all’ideologia marxista, ma in riferimento al modo di esseredella democrazia cristiana. Nei confronti di un grande partito mode-rato, un partito di sinistra, un partito che vuole combattere la vec-chia tara trasformistica del nostro paese, ha una sola linea strategica:l’opposizione e la sfida democratica!

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In questo contesto, a nostro avviso, devono collocarsi i cattolici ela riforma elettorale pone anche ad essi un problema di coerenza traprogrammi, alleanze e schieramenti.

In questo quadro si misura anche la credibilità del partito socia-lista come forza di cambiamento. Non cerchiamo dunque di trucca-re le carte, di prepararci magari a vecchi scontri, a cose già viste: ilconflitto simulato tra la dc ed il psi per tornare a governare insieme.

Chiedo a Craxi di non farlo non solo perché si tratta di un cano-vaccio noto che non fa più effetto e che nessun virtuosismo dellacommedia dell’arte riuscirebbe a rivitalizzare; ma perché, perquanto ci riguarda, si rischia di prendere un abbaglio. Noi non solonon stiamo preparando accordi strategici con la dc, ma anche perquanto riguarda la legge elettorale ci presentiamo con una pro-spettiva completamente diversa da quella che si configura attraver-so la proposta democristiana. Non esiste nessuna ipotesi o possibi-lità di accordo a due tra dc e pds per fare una legge elettorale allespalle del partito socialista italiano! Non crediamo che si possaaprire una nuova fase della storia della Repubblica attraverso scor-ribande corsare che dividono le forze democratiche e, in particola-re, la sinistra.

Certo, ad un dato punto, se non si vuole stare fermi, occorreràdecidere a maggioranza. Ma, allora, diciamoci come stanno le cose!Non è possibile far passare una legge elettorale attraverso un accor-do tra dc e pds, perché noi non lo vogliamo (e lo stesso De Mita hainvocato un accordo più largo), perché le posizioni di merito sonomolto lontane, perché non siamo disposti a scherzare con le coseserie, a mettere in campo, non si sa con quale prospettiva strategicaper la sinistra, un Governo dc-pds per fare la riforma elettorale. Nonsiamo né degli ingenui né degli irresponsabili, tanto meno quando sitratta delle sorti della sinistra italiana.

Nello stesso tempo non è possibile un accordo tra dc e psi sullequestioni istituzionali capace di risolvere il problema. Che fare, dun-que? Non resta che mettere in campo le varie proposte. E anche ilpartito socialista, mantenendosi al riparo dalla grande riforma, senon vuole favorire anch’esso, come rischia di avvenire, uno stalloistituzionale, deve mettere in campo la sua proposta.

Quindi, non resta che perseguire la strada di una più ampia edunitaria ricerca istituzionale. Come metteva bene in evidenza Barbe-ra, le differenze, per quanto rilevanti, non sono sempre incomponi-bili; ciò che le rende incomponibili è l’incomunicabilità e il sospet-

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to, l’utilizzazione dei propri progetti più come bandiere per divider-si e contarsi che come strumenti per delineare le comuni regole delgioco.

Noi siamo per determinare responsabilmente le condizioni diquesta più ampia ricerca unitaria; e sono fermamente convinto che èpossibile sentirsi accomunati dall’obiettivo di rafforzare insieme cit-tadini, Parlamento e Governo; che è possibile sentirsi accomunatidall’obiettivo di rafforzare le istituzioni, rilanciando la funzione pro-gettuale dei partiti nella società. Ma qualsiasi grande riforma, lovoglio dire a Craxi, non può che basarsi in primo luogo sulla leggeelettorale – e mi sembra ovvio – e questa è la vera grande novità cheattendiamo dal partito socialista: che si dichiari disposto ad entrarein campo su questo terreno per discutere con tutti noi, comuni mor-tali, di simili modeste questioni.

Ed ho capito bene quanto ha detto Amato: la riforma elettoraledeve essere favorita da un’evoluzione dei rapporti politici. Benissi-mo! Per parte nostra, lo abbiamo già detto e lo ripetiamo, la riformaelettorale e la costruzione di un’alleanza politica a sinistra devonomarciare in parallelo. La riforma elettorale è dunque per unire lasinistra e non già per dividerla. Per questo saremmo disposti a lavo-rare assieme a voi, compagni socialisti, per prospettare a tutte leforze politiche democratiche una comune ipotesi di lavoro, a pre-scindere dalle diversità di posizioni sul presidenzialismo.

Scarichiamo – per stare alla colorita metafora dell’onorevoleAmato – tutte le pistole e le pregiudiziali, anche quella presidenzia-le, per affrontare quei temi appassionanti (e che in modo appassio-nato Amato ha qui affrontato) che ci vedono concordi: dall’infor-mazione alla democrazia economica, alla riforma della pubblicaamministrazione. E, badate, sarebbe grave per il cittadino comunenon avere una sana pubblica amministrazione e una seria democra-zia economica perché ci siamo reciprocamente bloccati su delle pre-giudiziali, su posizioni di bandiera.

Così si discute a sinistra, se si lavora per l’unità, e non attraversotrabocchetti ed inutili agguati.

È in questo contesto che siamo noi a rilanciare completamente esu basi solide la prospettiva dell’unità delle forze che s’ispirano agliideali del socialismo.

Non solo non temiamo tale prospettiva, ma la perseguiamo, acondizione però che si faccia sul serio sul piano della ricerca pro-grammatica, delle grandi opzioni sociali ed economiche, delle al -

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leanze e del comune impegno di coalizione; a patto cioè che si partadall’Italia, dalla politica e non dall’ideologia.

Per questo, io dico, non è questione di ricorso al popolo. Le ele-zioni non sono uno scandalo – ci mancherebbe altro! –, ma abbia-mo già detto altre volte che se si vogliono le elezioni occorre venirequi, in Parlamento, a dire chiaramente che si vuole cambiare politi-ca e tipo di governo, che si vuole cominciare ad aprire un’altra pro-spettiva. In caso contrario, le elezioni a ottobre o in primavera noncambieranno niente per la sinistra e per lo stesso partito socialista.Solo un serio tentativo unitario, da perseguire di qui alla primavera,potrebbe cambiare la politica italiana e fornire una nuova prospetti-va e speranza agli elettori. Ma, se non è così, non cerchiamo, proprionel momento in cui si discute di voler cambiare il vecchio sistemapolitico, di ricorrere ai trucchi più consunti di quel vecchio sistema,non cerchiamo, dopo la tragedia, di recitare la farsa, non mettiamoin campo scontri falsi tra contendenti che si vogliono già accordaresul risultato.

Ecco perché l’alternanza è il problema centrale che noi poniamo,che individua una maggioranza ma anche (voglio dirlo a De Mita)una opposizione democratica che lavora per l’alternativa. Una cosaè certa: una nuova fase della Repubblica non può nascere da unafarsa e dalla rappresentazione sbiadita di un vecchio trucco. C’èbisogno di ben altro! Ci stiamo misurando con il fallimento dellestrategie moderate e l’alternativa si presenta come una necessità vita-le per il paese e per il suo Governo. È una strada tutt’altro che sem-plice, lo sappiamo, ma per la sinistra, per tutta la sinistra, se sapràsuperare le proprie divisioni e giovarsi in una rinnovata prospettivaunitaria della molteplicità delle proprie esperienze, delle proprie tra-dizioni e delle proprie risorse, questa è la sfida più esaltante, la ricon-quista di una grande vocazione unitaria nazionale e riformatrice.

3. intervento di bettino craxi

Signor Presidente, onorevoli colleghi, gli onorevoli Labriola,Andò e Amato hanno già illustrato con efficacia le idee, gli orienta-menti, le preoccupazioni e i propositi dei socialisti, rinnovando ilnostro apprezzamento per il messaggio che il Presidente della Re -pubblica ha voluto indirizzare al Parlamento . Ho chiesto perciò laparola solo per svolgere brevemente una riflessione sulla questione

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che la democrazia cristiana ha posto di fronte al Parlamento e cherappresenta, rispetto agli equilibri politici presenti e futuri, un puntodi natura pregiudiziale, discriminante e dirompente.

La vita parlamentare di questi decenni è stata affaticata da variedifficoltà e da ricorrenti malanni: periodi di instabilità governativa,una frequente, esasperante lentezza delle decisioni, l’uso disinvoltoe irresponsabile che si faceva del voto segreto. Le sole difficoltà chenon si sono quasi mai incontrate sono quelle che avrebbero potutoderivare dalla formazione di maggioranze risicate.

Ripercorrendo, ad esempio, solo la lunga vita del governi di cen-tro-sinistra sino ai giorni nostri, incontriamo infatti generalmentemaggioranze ampie, per lo più attorno al 58 per cento, con la ulte-riore significativa parentesi del periodo cosiddetto dell’unità nazio-nale, che portò ad una strabocchevole maggioranza, superiore al 90per cento dei voti parlamentari.

Anche nella legislatura in corso la maggioranza parlamentare cheha sorretto diversi governi prima del ritiro del partito repubblicanosi è collocata alla Camera vicino al 60 per cento e forse perfino suuna percentuale superiore al Senato.

La instabilità politica e di Governo, quando si è verificata esovente ripetuta, è sempre nata per fattori di ben altra natura. Bastaindirizzare una non difficile ricerca verso le conflittualità che si sonomanifestate volta a volta tra i partiti coalizzati, nei partiti, nel parti-to di maggioranza relativa.

Che cosa allora ha spinto e spinge, in buona sostanza, l’idea chesia ora necessario introdurre un consistente premio destinato agarantire la maggioranza assoluta dei voti ad un partito o ad unacoalizione cui il corpo elettorale avesse dato solo la maggioranzarelativa dei voti?

Evidentemente, innanzi tutto, la convinzione (che non potevanon essere espressa in modo più eloquente di questo) che sia esauri-to o stia per esaurirsi un ciclo e l’alleanza politica e di Governo chelo ha caratterizzato. E poiché i socialisti, tra gli alleati di Governodella democrazia cristiana, sono i soli, per il loro peso, in grado digarantire la formazione di una maggioranza assoluta, è evidente-mente in primo luogo la collaborazione con i socialisti che vieneconsiderata in via di superamento. Contemporaneamente, sembraimplicitamente emergere la preferenza per un sistema di tipo «satel-litare» attorno alla democrazia cristiana. Essendo difficile prevedereper questo tipo di formula la conquista di una maggioranza assolu-

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ta, si prevede appunto allora, in un auspicio di conquista della mag-gioranza relativa, l’assegnazione di un premio di maggioranza. Ono-revoli colleghi, questa non è un’interpretazione forzata, artificiosa epolemica, è invece una lettura politica, ad un tempo semplice ed ine-vitabile. Posta la questione in questi termini, a noi non resta (e seconfermata, non resterebbe) che prenderne atto. Certo, nessuna al -leanza è indissolubile. Tutto si muove e tutto è destinato ad esaurir-si. Nella vita democratica, le alleanze e gli equilibri politici natural-mente mutano e possono mutare, ma perché questo avvenga non èassolutamente necessario, e comunque per noi non è accettabile, chesi pretenda non di introdurre una semplice rettifica e correzione madi attuare un vero e proprio stravolgimento del sistema fondato sullaproporzionale. Così non è, dicono e ripetono alcuni dei proponentidella democrazia cristiana: questa non è affatto la nostra intenzione,il nostro obiettivo, questa non è la nostra politica! Ma se così non è,non si capisce allora per quale ragione si vorrebbe introdurre unmeccanismo attraverso il quale una maggioranza già ampia fruireb-be di un ulteriore premio e di un’aliquota aggiuntiva niente menoche di 75 deputati, che potrebbe portarla financo al 70 per cento deivoti parlamentari. Si tratterebbe in questo caso di una situazioneassolutamente anomala. Essa comprimerebbe inutilmente lo spaziodelle minoranze e di fatto travolgerebbe persino le garanzie di mag-gioranze qualificate previste dalla Costituzione. Non vale e non con-vince l’argomento che si porrebbe fine, in tal modo, alla frammen-tazione della rappresentanza parlamentare. Questa è certamente unadegenerazione, è un male effettivo, cui però potrebbe essere postorimedio introducendo una semplice correzione alla proporzionalepura. Non vale e non convince neppure l’argomento secondo ilquale gli elettori debbano essere sempre e comunque posti di fron-te ad una scelta tra diverse coalizioni di governo. L’argomento ha unsuo fondamento politico e riguarda soprattutto la chiarezza dell’in-dirizzo politico dei partiti, ma esso non giustifica la pretesa di giun-gere sino al punto di espropriare il Parlamento del suo fondamenta-le potere di modificare la composizione delle maggioranze e, quindi,delle coalizioni di governo, sia pure temperato – come sarebbeauspicabile – dalla introduzione della regola della sfiducia costrutti-va. Ma, onorevoli colleghi, una siffatta limitazione dei poteri del Par-lamento non è assolutamente prevista nello schema di Repubblicapresidenziale che noi abbiamo proposto, provocando una levata discudi nella maggioranza delle forze politiche e tante polemiche

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demagogiche intessute di retorica comicità. Aggiungo solo che sitratta di uno schema equilibrato e rispettoso delle fondamentali pre-rogative della democrazia parlamentare, sul quale insisteremo nellasperanza che, superate diffidenze che non hanno ragione di essere,una parte almeno degli scudi che si sono levati possa tornare adabbassarsi. Non valgono e non convincono gli argomenti che parla-no della democrazia compiuta, sbloccanda ed alternanda . Tuttecose che una democrazia salda e forte può perfettamente permetter-si senza per questo introdurre misure che la possono, invece, sfigu-rare. In un’epoca di grandi trasformazioni, di grandi cambiamenti,di grandi revisioni, tutto si è fatto più incerto, più complesso e forseanche più imprevedibile. Nel tempo possono moltiplicarsi i fattoridi crisi, di divisione e di vuoto, ma possono anche nascere nuoviprocessi di convergenza e di unità – l’unità socialista, in primo luogo– e, quindi, diversi equilibri e diverse alternative. Noi, per partenostra, attenti e disponibili verso ciò che si muove attorno a noi evicino a noi, lavoreremo per favorire, come è nostro dovere di fare,la crescita di una grande forza socialista e democratica anche in Ita-lia. Ma noi non intendiamo avventurarci né sul terreno di equilibriambigui, né su quello di alternativismi confusi. Tra gli argomenti chenon valgono, e che comunque non ci convincono, figura quello –diciamo così – europeistico. In Europa esistono sistemi di tipo mag-gioritario basati in varie forme sul collegio uninominale. In talunicasi essi mostrano ormai la corda di inaccettabili distorsioni. Ma innessuna legislazione europea fondata sul sistema proporzionale èprevisto un premio di maggioranza tale da contraddire e stravolgereil principio della proporzionale. Siamo di fronte ad una questioneessenziale che è, ad un tempo, politica e di principio. La materiaelettorale non è materia astratta, teorica, asettica. Essa è eminente-mente politica e di principio. La logica vorrebbe che riforme istitu-zionali e riforme delle leggi elettorali procedessero di pari passo, nel-l’ambito di un processo che non può che essere unico e la cui sedenaturale dovrebbe essere il nuovo, futuro Parlamento. Vale per noila logica e vale anche il metro costituzionale che il Capo dello Statoha sottolineato nel suo messaggio a proposito dell’elezione di unParlamento chiamato ad esercitare poteri costituzionali. Se non-ostante tutto così non fosse, costretti a condurre una battaglia diopposizione, noi la condurremmo con assoluta linearità, lealtà e conpiena convinzione e determinazione. Mi auguro sinceramente chequesto non sia necessario; per il resto va da sé che noi non potrem-

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mo, da un lato, condurre una battaglia politico-parlamentare diopposizione su un problema di questa natura e di questa portata e,dall’altro, mantenere intatta, come se fosse in viaggio privato versola Luna, un’alleanza politica e di governo. Ci troveremmo, come èassolutamente evidente, nella necessità di affrontare una situazionedel tutto nuova, che comporterà la scelta di una linea e di una posi-zione diversa. Sembrava che la democrazia cristiana avesse trovatosulla questione specifica del premio di maggioranza, in questo dibat-tito, un solo interlocutore disponibile, cioè il pds, che del resto a suavolta ne ha uno suo da proporre, sia pure in forma e in un contestodiverso. Su questo punto ho sentito prima formulare una dichiara-zione esplicita di disponibilità ad un confronto sereno ed ho sentitoanche fissare un appuntamento per il mese di settembre; ora le paro-le di Occhetto sembrano escluderlo recisamente. Ebbene, noi perparte nostra siamo invece inquieti e preoccupati, perché siamo con-sapevoli delle difficoltà, dei rischi e delle responsabilità che di fron-te a determinate circostanze saremmo portati ad affrontare. Io nonposso che augurarmi che tutte queste complicazioni possano essereevitate e che ragionevolmente e realisticamente si prenda atto dellasituazione nella quale ci troviamo. Essa, da un lato, richiede da partedi tutti una ulteriore riflessione ed un ulteriore approfondimento e,dall’altro, comporta la necessità di ridurre i tempi di questo finale dilegislatura, che diversamente rischia di diventare, per tante ragioniche si stanno accumulando convulso, inconcludente e dannoso pertutti. Non potrà che trarne vantaggio, onorevoli colleghi, un vantag-gio di credito e di autorevolezza, una classe politica che si ripropo-ne di riformare se stessa e l’insieme del sistema istituzionale, e cheha il dovere di tentare di farlo e di farlo presto e bene.

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Il 9 settembre 1992 s’insedia la Commissione bicamerale «preno-tata» da Bassanini nella legislatura precedente. La presiede CiriacoDe Mita. Silvano Labriola, capogruppo alla Camera per il psi, sgom-bra il campo dalle pregiudiziali e propone un itinerario realistico diriforma costituzionale. Sulla riforma elettorale, oggetto di una con-fusa trattativa fra dc e pds, interviene Craxi, che a sua volta rinunciaalle pregiudiziali e apre a una soluzione molto simile a quella a suotempo sostenuta da De Mita. Craxi però propone che sia l’Assem-blea a scegliere fra un sistema proporzionale corretto e un sistemamaggioritario. Gli replica subito dopo Mario Segni, che pur condi-videndo il giudizio negativo sul «sistema misto» dietro il quale sinasconde l’accordo fra De Mita e Occhetto, rivendica il primato delreferendum sul Parlamento.

8. RESA

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1. intervento di silvano labriola*

Penso che una discussione generale sull’oggetto dei lavori dellanostra Commissione debba, in primo luogo, costituire una sorta diriepilogo delle posizioni emerse in questi ultimi anni. Non mi rife-risco, evidentemente, a quelle che sono posizioni in qualche modopresupposte dal dibattito che si è sviluppato sul tema delle riformea partire dal 1979, ma, in modo particolare, alle due discussioni chesi sono svolte nell’arco delle legislature precedenti: quella sugli esitidella Commissione Bozzi e l’altra che ha avuto occasione di svilup-parsi alla fine della scorsa legislatura sulla base delle indicazionicontenute nel messaggio del Presidente della Repubblica.

Questo è un primo punto che almeno noi, rappresentanti dei duegruppi parlamentari di Camera e Senato del partito socialista, sen-tiamo di dover affrontare.

L’altro, invece, riguarda l’itinerario che ci siamo dati circa i temisottoposti al lavoro dei gruppi, che costituiscono in qualche modospecie di priorità, teste di capitolo di queste riforme, nonché il rap-porto tra tali questioni ed il tema della riforma elettorale, che tuttiabbiamo convenuto di considerare come un tema centrale, del qualeperò dobbiamo ancora fornire qualche approfondimento circa i rap-porti con l’ordinamento generale dei problemi della Commissione.Sarebbe deludente se poi il massimo di attenzione della Commissio-

COMMISSIONE BICAMERALE PER LE RIFORMEISTITUZIONALI (DE MITA-IOTTI)

* Atti Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, seduta del 22 settembre 1992.

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ne si concentrasse sulla riforma elettorale per ragioni non dico con-tingenti ma legate allo sviluppo degli eventi istituzionali che sono difronte a noi, senza considerare che se è centrale la questione dellariforma elettorale lo è proprio perché non la si considera in modocontingente, legata al periodo in cui ci troviamo.

Per quanto riguarda il primo ordine di problemi, dobbiamoconfermare pienamente la priorità (e porla anzi come questioneessenziale), nella valutazione di importanza che i socialisti fannodei temi della riforma istituzionale, della questione della forma diStato. E questo non solo perché l’esperienza degli anni che sonoalle nostre spalle prova che è sulla forma di Stato e sulla sua rivisi-tazione critica che si innestano le considerazioni di maggior pesodei problemi aperti in quello che noi preferiamo chiamare – nonper gusto filologico ma per una profonda ragione culturale – ilsecondo tempo della nostra Repubblica e non una qualche secon-da Repubblica rispetto alla prima; ma perché nella rilettura dellaquestione della forma di Stato noi vediamo anche l’opportunità distabilire un rapporto organico, quindi veritiero, con gli eventi cheat torno al nostro paese si profilano, si sono già verificati e si verifi-cheranno e a cui il nostro paese partecipa da protagonista. Nonavrebbe molto senso continuare a professarsi di fede europeista –praticando tale fede anche nell’azione di governo, legislativa e poli-tica – se tutto questo non avesse una ricaduta culturale nella nostraconcezione della forma di Stato. Oso dire che se non ci ponessimoquesto problema, non avremmo titolo a parlare con serietà, e noncon i discorsi domenicali, della questione europeista come questio-ne principale della politica italiana. Non avrebbe senso fare questaaffermazione se non scontassimo, e quindi non esplicitassimo nelmomento giusto, che è questo, cosa intendiamo per rivisitazionecritica di forma di Stato.

Almeno per quanto riguarda il nostro punto di vista, ciò nonimplica necessariamente una riapertura di questioni che sono conse-gnate alla storia del nostro paese e che hanno visto anche, perlome-no dalla fine del secolo diciannovesimo in avanti, una posizione cen-trale del movimento socialista, oltreché del movimento cattolico e dialtre forze popolari dello Stato unitario. Questo non significa – ripe-to – una riapertura dei termini di vicende composte dal corso dellastoria. Significa però che quell’accettazione che il costituente repub-blicano ha fatto della forma di Stato unitaria, con qualche licenzaverso l’ordinamento regionale, non ha retto ai tempi: un piccolo giro

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di valzer che si concluse malinconicamente nella Costituzione conuna visione dell’ordinamento regionale in parte debitore di vertenzeinternazionali (come avvenuto per l’Alto Adige e la Valle d’Aosta),in parte debitore di questioni antiche nostre (come si è visto, soprat-tutto in questi ultimi anni, in Sicilia e in Sardegna) e per il resto unaforma molto timida di estensione territoriale del concetto di decen-tramento amministrativo.

Noi aggiungiamo anche questa considerazione riguardo allaforma di Stato, presidente. Se anche non ci fossero le ragioni impor-tanti, che invece noi vediamo e che abbiamo prima ricordato, ve nesarebbe almeno una che imporrebbe di riconsiderare la forma diStato: il declino delle speranze legate all’attuazione delle Regioni el’attuale stato di cose dell’esperienza regionale, che, se rimanessecosì com’è nei termini istituzionali culturali e sociali in cui si pone,sicuramente non avrebbe più un gran senso nella prospettiva di unaevoluzione moderna delle istituzioni.

Per dare una comunicazione certa, per così dire, delle intenzionisocialiste sullo sbocco da dare alla questione forma di Stato, ci per-mettiamo di riportarci – e chiediamo che questa sia consideratacome la posizione socialista – alla conclusione che alla fine dellascorsa legislatura fu tratta, su nostra proposta, del dibattito sullariforma del bicameralismo, che il Senato trasmise alla Camera neitermini che tutti ricordiamo e che la Camera non ritenne di poterprendere in considerazione, sostituendola con altra. In quel testo viè proprio quello che noi oggi consideriamo ancora – e consideriamofermamente – come contributo socialista all’idea di un mutamentodella forma di Stato. Questo ci dispensa dall’impegnarci in discus-sioni, che riteniamo per il momento non utili e nemmeno opportu-ne, sulla questione filologica del federalismo, quasi federalismo onuovo federalismo, perché non è questo il tema al quale siamo inte-ressati ed anche perché esso, laddove pure ha tradizioni molto piùantiche ed organiche delle nostre, mostra segni di logoramentoquanto alla unicità di concezione e, soprattutto, alla unicità di espe-rienze istituzionali. In questi ultimi due secoli, le forme federaliconosciute nel mondo occidentale hanno avuto traiettorie cosìdiversificate e lontane dalle proprie origini (e tuttavia ciascuna debi-trice delle vicende altrui), che sarebbe quasi arbitrario tentare unaclassificazione categoriale di questa nozione.

Noi non ci impegnamo in questo tipo di discussione perché rite-niamo che la concezione accentrata dello Stato, così come acritica-

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mente bisogna dire – né poteva essere diversamente, date le condi-zioni storiche: il costituente repubblicano ha riprodotto da tutto ciòche era stato il tipo di sviluppo dello Stato italiano prima del colpodi mano autoritario – deve essere radicalmente superata.

Pensiamo che in ciò trovi posto – non vogliano negare quella cheè stata l’intuizione di alcuni – la riforma dello Stato, la sua riabilita-zione. Quando ci riferiamo alla dimensione, al punto, al pivot dellariforma che pensiamo di dover proporre e che proponiamo allaforma di Stato nella enumerazione tassativa delle competenze stata-li, tutte le altre essendo riservate alle Regioni, poniamo in primoluogo, se non proprio esclusivamente, la bandiera, la spada, la togae la moneta; in realtà puntiamo ad un recupero e ad una riabilita-zione dell’idea, della legittimazione e dell’autorità dello Stato unita-rio. Quella è infatti la via che permette allo Stato unitario di recupe-rare le sue ragioni naturali e inalienabili, tutte le altre rimanendodelegate all’autogoverno del territorio, attraverso la sua dimensioneragionevole che nella nostra esperienza storica è quella regionale.

Conosciamo benissimo le obiezioni che sono state fatte e che ver-ranno ancora sollevate riguardo al carattere poco pensato ed appro-fondito della regione nelle sue dimensioni, nella sua individuazione.In proposito, è sufficiente scorrere le pagine del dibattito in Assem-blea costituente per rendersi conto di come sia stato in effetti nonsufficientemente approfondita questa maglia reticolare che ha indi-viduato le regioni e le ha collocate nella storia e nella geografia dellanostra Repubblica. Però, questo è un argomento molto secondariorispetto al fatto che in quaranta anni le regioni comunque si sonoriconosciute in quei territori e in questi ultimi venti anni in quei ter-ritori esse hanno agito dandosi l’autogoverno e un inizio di culturadi autonomia politica nel quadro dello Stato unitario. Pensiamo per-tanto che quella individuazione reticolare possa fornire una idea suf-ficientemente attendibile del destinatario di questo criterio di auto-determinazione delle scelte politiche e quindi di una nuova forma diStato, che non esitiamo a definire ora – visto in questa luce – Statoregionale. Lasceremo alla cultura scientifica il compito di impegnar-si nelle definizioni categoriali e nel dogma della scienza formale, main termini politici e di riforma istituzionale questo è il punto dalquale partono le considerazioni socialiste per quanto attiene allaforma di Stato.

Ci permettiamo di rinviare alla lettura della proposta di leggepresentata alla Camera (atto Camera n. 120), e che riproduce il

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testo dell’intesa raggiunta su nostra proposta, nella scorsa legislatu-ra, in Commissione affari costituzionali (ricordo che quello era iltesto del relatore proposto alla Commissione e da quest’ultimaaccolto), per rendere noto quale sia il «tessuto» delle propostesocialiste sull’idea sulla forma di Stato. Riteniamo che su quell’arti-colato e sulle disposizioni – anche se su ciò avremo modo di torna-re in sede del comitato che si occuperà della forma di Stato e, al ter-mine dei suoi lavori, in Commissione quando tale questione saràridefinita – si possa utilmente ragionare per la revisione generale deltema. Da esso discende una serie di conseguenze che si riflettono sututte le altre parti nelle quali abbiamo convenuto di suddividerel’impegno del lavoro della Commissione. Mi riferisco alla questionedella forma di governo, a quella della legge elettorale vista non solocome circuitazione del consenso e del controllo sociale del potereda parte del popolo, ma anche come forma di legittimazione per-manente della rappresentanza. Forse questo non è stato ancoradetto in termini chiari ed io voglio qui ribadirlo. Nella nostra visio-ne dei problemi della democrazia, pur dando atto di tutto l’impe-gno culturale e politico che è stato profuso segnatamente in questiultimi dieci anni, teso a scavare nei difetti, nei limiti e nelle con-traddizioni dei meccanismi rappresentativi in modo da appellarsi aisuoi sostitutivi, ai suoi integrativi ed ai suoi corroborativi con leforme della partecipazione, della co gestione delle scelte, dei con-trolli permanenti e quant’altro, noi siamo però fermi – e passo cosìal secondo punto di questo primo e modesto contributo che i socia-listi danno alla discussione generale – nel considerare, non soloancora ma so prattutto ora, centrale il rapporto di rappresentanzacome meccanismo che più di ogni altro – e non in luogo di qualchealtro – rende l’idea e realizza in pratica, con l’imperfezione dellecose umane, la qualità democratica del sistema istituzionale. Esso èl’architrave su cui si regge l’intero edificio della Repubblica, finquando esso potrà essere considerato un edificio sostenuto da unaeffettiva democrazia politica.

Senza rappresentanza non può esservi traccia di democrazia. Ilnostro compito, semmai, sarà quello di trovare il modo per renderlapiù forte e veritiera, e la legge elettorale è il veicolo per questa indi-cazione. Voglio ricordare le illusioni e le delusioni del Sessantotto, lesuggestioni e anche qualcosa di peggio, che sentiamo alimentarsiintorno a noi su un certo modo di intendere le nuove forme di de -mocrazia. Esse provano, al di là di ogni dubbio, che il rapporto di

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rappresentanza resta l’architrave di cui un edificio stabile e rassicu-rante non potrà mai fare a meno.

Se questa concezione della forma di Stato e del valore della rap-presentanza reggono insieme – come è nostra opinione – alloraanche le altre questioni generali possono snodarsi con quella coeren-za necessaria per dar luogo ad una riforma e non ad un insieme didisposizioni aperte e svariate ed opportunistiche interpretazioni.

Intanto vogliamo ricordare che deve essere affermato il valore –non sappiamo se possa essere scritto in una disposizione costituzio-nale, ma pensiamo debba essere presente in tutte le disposizioni enelle loro relazioni reciproche – secondo il quale senza rappresen-tanza non vi è potere e non può esservi potere senza fondamentorap presentativo. Questo è un principio di grande importanza.

Gli esempi più vicini a noi sono quelli ai quali possiamo faremeglio appello per farci capire e per capirci. Voglio ricordare, allo-ra, che nell’ultima discussione svoltasi alla Camera dei deputati,quando il Presidente del Consiglio ebbe la cortesia di citare alcuninostri interventi sulla questione delle deleghe in presenza di fattistraordinari, riferì esattamente il dubbio, che alcuni di noi avevanomanifestato, sulla possibilità di trasferimento del Parlamento algoverno, che pure è organo rappresentativo anche se di secondogrado almeno nell’attuale ordinamento dell’indirizzo, del potere diemanare decreti legislativi; quindi, sulla possibilità di un trasferi-mento di potere legislativo vero e proprio in termini molto più ampi,tanto ampi da far pensare più che ad un trasferimento di una com-petenza per atti, ad un trasferimento vero e proprio della compe-tenza per tempo, cosa molto diversa.

In quella occasione il Presidente del Consiglio dei ministri, forseun po’ per la fretta della citazione, un po’ per l’urgenza dei proble-mi che conosciamo, compì una piccola omissione, che voglio colma-re per rendere l’idea di quello che intendiamo, quando affermiamoche potere senza rappresentanza non può esservi, il che poi porta ilsuo inverso o reciproco, vale a di re che non può esservi rappresen-tanza senza potere: i nostri dubbi portavano anche una soluzione,vale a dire che, qualora fosse divenuta necessaria, come sembra pro-filarsi oggi, la concessione di una delega così generale, ampia e pro-lungata, da somigliare più ad un trasferimento di poteri per tempo,che ad un trasferimento di poteri per atti (siamo andati a rileggere ladiscussione sulla proposta di legge n. 400), sarebbe stato necessarioconferire ai pareri delle Commissioni parlamentari sui decreti del

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governo un valore vincolante, funzione completamente diversa daquella attribuita ai poteri parlamentari sui decreti legislativi delgoverno stesso.

Questo significa che il Parlamento non può, anche se vuole, spo-gliarsi per intero del potere di decidere, sia pure a fronte di situa-zioni straordinarie, gravi e difficili.

Tornando alle questioni di carattere generale, se questo disegno èsostenibile, come noi pensiamo, allora anche la questione relativaall’organizzazione dei soggetti del potere politico in qualche modoviene letta in maniera più chiara, a cominciare dal Parlamento, al difuori da una visione presidenziale della forma di governo che, daquanto ci è dato di constatare, non raccoglie consensi così larghi dadiventare allo stato delle cose un’ipotesi praticabile; quindi, vieneletta nell’idea della continuità di una forma di governo, che veda nelParlamento la titolarità dell’indirizzo e nel rapporto fiduciario lavalidità dell’attribuzione di esso, per l’esercizio e l’attuazione, algoverno. Vediamo, insomma, nel Parlamento l’organo destinato arealizzare l’indirizzo e a controllarne l’attuazione da parte del gover-no in una forma, in una struttura e in una legittimazione che sianocoerenti a queste premesse.

In questo modo si può a nostro avviso superare ragionevolmenteil bicameralismo, senza ignorare le ragioni che del bicameralismohanno fatto un elemento di una Costituzione che ha retto positiva-mente questa Repubblica per oltre un quarantennio; senza nemme-no ignorare l’obiezione di fondo che si muove all’attuale bicamerali-smo, che è quella di essere l’unico caso di una specie mai esistita,vale a dire il bicameralismo paritario. Ripeto, si tratta del solo casodi una specie mai esistita, perché nella storia delle costituzioni con-temporanee, anche nella nostra, non è facile trovare un bicamerali-smo come quello previsto dalla nostra Costituzione.

Tale bicameralismo non è mai esistito. Lo Statuto del Regno fumonocamerale fin dall’inizio, perché il Senato intese subito che, nonavendo basi elettive, non aveva potere politico; è noto che, quandotentò di appropriarsene, ne fu subito e vittoriosamente scoraggiataqualsiasi velleità, che, come i cultori di storia sanno meglio di me,era stata indotta nel Senato da poteri terzi.

Il bicameralismo potrebbe conservare una sua ragione soltanto seobbedisse a due condizioni. La prima è che non debba trattarsi di unbicameralismo riprodotto. Se non ci sentimmo, pur con molto rin-crescimento, di accettare l’idea di riforma del bicameralismo parto-

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rita dal Senato nella scorsa legislatura, fu soprattutto perché non sitrattava di una riforma del bicameralismo, nel senso che si persegui-va un obiettivo sbagliato. Voglio dire con molta franchezza, perchéè un punto difficile, ma inevitabile da risolvere se si vuole affronta-re questo tema, che non è possibile modificare il bicameralismofacendone un altro come quello che dobbiamo riformare.

Questo è del tutto impossibile. La conseguenza, nella miglioredelle ipotesi è, innanzitutto, che non cambi niente; nelle altre, piùprevedibili, che la situazione cambi in peggio, con un generale degra-do dei poteri del Parlamento, un pericolo che, come alcuni schemi ealcune escogitazioni hanno dimostrato, non è astratto, ma reale.

Se lo Stato mutasse la sua natura e la sua forma e da Stato unita-rio diventasse Stato delle Regioni, la via per arrivare ad una forma dibicameralismo non solo sarebbe accettabile, ma anche utile e aper-ta. Allora è evidente che da questo e solo da questo può derivare unacertificabile, comprensibile e ragionevole riforma, che mantenga ilbicameralismo come principio, dando nel contempo ad esso unsenso comune, che oggi purtroppo – dobbiamo ammetterlo – si èstoricamente del tutto dissolto.

Questo implica un insieme di scelte, sulle quali non mi soffermoin questa fase, non solo perché saranno proprie del comitato chedovrà affrontare la questione degli organi costituzionali e poi anchedella forma di governo, ma anche perché, pur trattandosi di que-stioni di grande importanza, tutto sommato sono generalmentemeno decisive di quelle sulle quali dobbiamo convenire o certifica-re il nostro dissenso fin da ora. Infatti, che il Senato sia provvistodel potere di indirizzo e quindi del potere fiduciario o non lo sia,che il Senato abbia per conseguenza una derivazione elettoralediretta o, invece, non l’abbia; ancora, che il Senato (più corretta-mente dovrei parlare di una delle Camere, perché si potrebbe pen-sare anche alla Camera dei deputati facendo questo ragionamento)abbia una formazione per elezione diretta, ma per Regioni e quindisenza più la rappresentanza generale della comunità nazionale, cheoggi è tipica di ambedue le Camere e che, invece, dovrebbe essereriservata a quella per la quale esista un potere fiduciario, la compe-tenza primaria per la spada, la bandiera, la toga e la moneta, è unproblema di enorme importanza, comunque da affrontare e disag-gregare subito dopo aver assunto le decisioni dalle quali nasconoqueste considerazioni, cioè quelle relative alla forma di Stato dellanostra Repubblica.

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Per concludere, debbo svolgere due ultime considerazioni, ri -guardanti la forma di governo e la legge elettorale.

Prima ho ricordato che allo stato delle cose non sembra prevalerené avere una larga eco l’ipotesi di una forma di governo presidenzia-le, anche se in passato, parlo del recente passato, ha avuto numerosinon tanto sostenitori quanto fiancheggiatori. Ovviamente intendo co -me forma presidenziale di governo quella in cui il governo trae la sualegittimazione dal voto diretto dei consociati, così come la lettura piùrassicurante sul piano delle definizioni ci consente di affermare.

Questa non sembra che sia oggi una opinione generalmente o lar-gamente condivisa, però è altrettanto chiaro, e noi siamo disponibi-li ad esplorare questa strada, che nemmeno si deve considerare lar-gamente condivisa e generalmente sostenuta la conservazione del-l’attuale forma di governo parlamentare. Ciò non perché (siamomolto d’accordo su questa sottolineatura che mi permetto di fare neiconfronti dei colleghi della Commissione) si pensi di aggiustare orestaurare la forma di governo parlamentare e dei suoi antichi e tra-dizionali vizi, ma perché si cercano con animo molto obiettivo – unadelle ricerche più leali e disinteressate che si possano intravederenell’ordito e nella trama della discussione sulle riforme istituzionali– forme nuove ed argomenti nuovi che valgano a porre la forma digoverno parlamentare su basi più solide dal punto di vista dello svi-luppo storico della democrazia repubblicana.

Noi riteniamo, ad esempio, e vorremmo l’attenzione dei colleghisu questo punto sul quale dovremmo discutere poi molto serrata-mente, che quanto si dice e si sostiene circa i cosiddetti premi dimaggioranza elettorale (abbiamo sentito affermazioni che appari-rebbero e poi sono in realtà delle contraddizioni in termini: propor-zionale corretta, maggioritaria ma non troppo) in realtà significhi unqualche trasferimento di una parte della potestà di fissazione del-l’indirizzo politico al corpo elettorale del Parlamento, quindi sot-traendola al rapporto fiduciario.

Tutto ciò è molto importante, così come è importante esplorarefino in fondo questa via e trovare il punto giusto di limite e di di -scrimine per non cadere nei due eccessi che come parlamentarisocialisti denunciamo negativamente. Il primo è quello di lasciare lecose come stanno: coglie nel segno l’obiezione, fatta da varie parti,secondo cui l’antico detto «il cittadino è sovrano una sola volta ognicinque anni» è un dato non più accettabile. L’altro corno negativodel dilemma in cui potremmo dibatterci vanamente è quello di con-

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siderare che tutto sia trasferito al corpo elettorale, il che rappresen-terebbe una grave forma di ipocrisia.

Sappiamo che il momento in cui si rinnovano le Camere rappre-senta una fase della storia di un paese e che dopo quindici giorni lasituazione è già così cambiata che le scelte operate non possono cheda altri essere aggiornate allo sviluppo della situazione; quindi anchese lo volessimo non sarebbe possibile realizzare quell’obiettivo se -condo cui le scelte vanno fatte nel momento in cui si conferisce ilpotere rappresentativo da parte del corpo elettorale. Sarebbe un’af-fermazione insincera ed oltre tutto impossibile, senza considerareche in questo modo, inoltre, manterremmo una quinta ruota nellascena. Chi le scrive quelle scelte? Chi le forma? L’eccesso di gestio-ne diretta delle scelte comporta il velleitarismo ed il populismo, nonla democrazia.

Questi sono i problemi sul tappeto per quanto riguarda la formadi governo e noi speriamo di aver fornito un’idea sufficientementechiara delle nostre disponibilità e della nostra laica predisposizioneall’intesa ed alla convergenza sulle soluzioni che al termine di questadiscussione potranno essere trovate, dicendo fin dall’inizio quali sonoi due punti dai quali vogliamo mantenerci comunque discostati e chemi sono permesso appena ora di indicare. Tutto ciò, e concludo, pre-sidente, si riflette naturalmente sulla legislazione elettorale.

Personalmente ho sempre considerato non solo opportuno madel tutto inevitabile che la Commissione affrontasse la questionedelle riforme elettorali e non solo perché sarebbe stato del tuttoassurdo attribuire ad una sede la definizione della taglia e all’altrasede la confezione del vestito – invece di fare buona sartoria avrem-mo fatto un altro letto di Procuste – ma perché se c’è un tema moltodelicato in cui (non è un paradosso) non basta la rigidità di unaCostituzione formale a garantire (ci vuole molto di più) questo èproprio quello della legge elettorale.

Come cittadino potrei non essere preoccupato ed accettare conuna sufficiente serenità l’ipotesi di essere battuto in una votazionesulle riforme costituzionali e, essendo nelle mie convinzioni in ridot-ta compagnia rispetto al minimo quorum che la Costituzione con-sente, di non avere nemmeno il rimedio del tentativo di appellarmial popolo; al contrario sarei preoccupato di trovarmi escluso da unagaranzia che va al di là della Costituzione e che è quella offerta da unragionevole insieme di tutele e di principi della riforma elettorale.

Ecco perché è stato importante, oltre che per ragioni di coerenza

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* Atti Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, seduta del 2 novembre 1992.

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– inevitabili tra la rilettura del Parlamento e la riforma della leggeche ne deve costituire il meccanismo formativo – attribuire alla no -stra Commissione il tema della legge elettorale, sul quale diciamoche l’urgenza è molto più richiesta delle scadenze istituzionali (refe-rendum) dalla natura dei problemi, ma soprattutto si deve sposarecon la centralità di questa riforma. Sarebbe molto negativo, infatti,se ci avventurassimo a definire soluzioni o meccanismi senza nondico aver definito ma aver chiaro qual è il quadro generale di riferi-mento in cui non solo la riforma del bicameralismo, quindi di cia-scuna delle due Camere, ma la forma di Stato prima ancora che laforma di governo vanno a collocarsi nel nostro ordinamento.

Tutto ciò va nel senso – ho veramente concluso – auspicato dalpresidente di fare bene e di fare rapidamente, cosa alla quale comesocialisti collaboreremo in tutti i modi.

2. intervento di bettino craxi*

Prendo la parola per sottolineare innanzitutto il valore e l’impor-tanza del lavoro sin qui svolto dai Comitati. Esso non è solo di carat-tere preparatorio e chiarificatore ma ha già creato le condizioni peresprimere, per un certo numero di questioni essenziali, un indirizzorisolutore. Il buon risultato di questo lavoro iniziale dice bene quan-to poco siano fondate le ombre di scetticismo, di sottovalutazione edi distacco che da più parti vedo gettare sulla Commissione, sul suoruolo, sulla sua capacità di assolverlo nel modo migliore.

Esiste, è vero, tutta una storia di monumentale inconcludenzascritta dalle Commissioni parlamentari, e tuttavia sono certo chequesta Commissione avrà sorte, destino e risultati ben diversi. Per ilresto, vedo, come tutti vediamo, che sull’intero Parlamento vienegettata l’ombra della precarietà, della provvisorietà e financo dell’il-legittimità. La crisi delle istituzioni e del sistema politico investe inprimo luogo la responsabilità del Parlamento: è questo Parlamentoche è chiamato a mettervi riparo, correggendo, riformando ed inno-vando, realizzando, per quanto possibile, una chiara e salda conver-genza di forze e di responsabilità democratiche, allontanando i peri-coli della paralisi ed anche quello dei cattivi compromessi.

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Mi consentano gli onorevoli colleghi di osservare che in questosenso mi sembrano stonate anche certe tentazioni piuttosto autole-sioniste. È difficile dimenticare infatti che, per quanto degenerato efatto oggetto di una critica radicale che porterà probabilmente al suosuperamento, è giust’appunto con il sistema delle preferenze chesono stati eletti seicentotrenta deputati, non tutti degenerati, e che ipartiti, destinati forse a diventare dei club che vivranno filosofegian-do sull’essere e sul non essere (o, i più fortunati, festose associazio-ni per il tempo libero), hanno a tutt’oggi ancora un ruolo non secon-dario nella vita politica e nella vita parlamentare.

Le istituzioni, la pubblica amministrazione, gli ordinamenti, ilsistema politico non sono in crisi da oggi. Oggi, questa crisi precipi-ta, con caratteri tali che non consentono perdite di tempo. Chi avevasegnalato con grande anticipo l’esigenza di un’opera di riforma vastaed approfondita può avere solo un motivo di rammarico per il ritar-do ed i danni relativi che si sono negli anni venuti accumulando.

Desidero comunque ricordare le riflessioni e le indicazioni chevenivano svolte in tempi più recenti, non più tardi di un anno e mez -zo fa, di fronte al 46° congresso socialista e ripetute poi di fronte alcorpo elettorale. Sottolineavamo allora: «Le istituzioni che hannoconsentito la crescita sociale e civile dell’ultimo quarantennio hannocompiuto la loro missione. Proprio perché concepite come luogo diincontro e di convivenza tra forze sociali e politiche inizialmentedivise, a distanza di anni, e colmate ormai le profonde fratture diallora, esse appaiono indebolite nell’autorità, nella responsabilità,nell’efficienza, che sono invece necessarie nella società cresciuta dioggi, per le esigenze del suo maggiore sviluppo, della sua moderniz-zazione, della nuova dimensione europea, per l’efficace tutela deivecchi e dei nuovi diritti dei cittadini».

Ed ancora: «La malattia delle istituzioni si lega a doppio filo allamalattia dei partiti, il cui concorso, previsto e garantito dalla Costitu-zione, per rappresentare e far valere di fronte allo Stato bisogni collet-tivi, si è progressivamente spostato all’interno dello Stato e delle isti-tuzioni pubbliche, arrivando a prevaricare parte della loro autonomiae a soffocarne sovente nei veti e nei negoziati la capacità decisionale».

Parlavamo allora della riforma delle istituzioni come un compitoche «risponde ad una esigenza ineludibile», aggiungendo che «lariforma delle regole e dei meccanismi non può offrire da sola unasoluzione magica di tutti i problemi ed è quindi vero che moltodipende e dipenderà dagli uomini, dai programmi e dall’etica che

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riesce a prevalere. Ma, al punto in cui siamo, è fondamentale giun-gere ad un cambiamento delle regole, uscendo dal circolo vizioso incui stiamo cadendo».

Eravamo prima e non dopo il 5 di aprile, che vedo da qualcheparte indicato come una sorta di spartiacque tra il vecchio e il nuovo,la conservazione e il progresso. Dicendo questo, sviluppavamo concoerenza una linea critica, profonda ma anche sempre co struttiva,realistica e concreta. Stamane osservo con soddisfazione che molteindicazioni contenute nel ventaglio di proposte che venivamo alloraillustrando convergono con le proposte di altri e, almeno nelle lineegenerali e di principio, hanno ormai una larga base di consenso. Nonè il caso dell’elezione diretta del Capo dello Stato, cioè della creazio-ne di un momento unificante (così come noi lo concepiamo) della col-lettività e delle istituzioni, di un’autorità collocata al di sopra dell’E-secutivo, espressione diretta del corpo elettorale, garante di fronte adesso non solo della legittimità formale ma anche dell’interesse nazio-nale, degli impegni internazionali, del regolare ed efficiente funziona-mento dei pubblici poteri. Punto di forza e caratteristica centrale dialtri sistemi democratici, la Repubblica presidenziale o semipresiden-ziale rimane piuttosto isolata nello schieramento delle forze politichee quindi resta al suo posto, che è quello di una tesi che, per quantodifesa con buoni argomenti, non è riuscita e non riesce a farsi strada.

Sempre al 46° congresso socialista, al primo posto tornammoquindi a collocare l’idea di un nuovo regionalismo, «non il regiona-lismo timido, soffocato dalle burocrazie centrali che abbiamo avutoin questi anni, ma un regionalismo autenticamente politico, ai limitidel federalismo e perciò stesso fortemente radicato nelle comunitàlocali. Un regionalismo fondato su un principio di uguaglianza chedeve essere innanzitutto eguale diritto di ciascuna comunità di orga-nizzarsi secondo le proprie esigenze». Regioni, e non Stati; Regionie non Repubbliche. Autonomia, come diceva Nenni, «promotrice dienergie e non generatrice di inerzia»; non indipendenza, separazio-ne, secessione, o quant’altro di cui si sente parlare. Non più unoStato onnipresente ed invadente, ma uno Stato con piena compe-tenza legislativa ed amministrativa su di un numero limitato e pre-determinato di materie, che fissa su tutte le altre i saldi principi legis-lativi a tutela delle fondamentali esigenze unitarie. Uno Stato forte-mente decentrato ma che rafforza in tal modo l’unità della nazione,non una unione di Stati che finirebbero con lo scomporla.

La questione del bicameralismo perfetto si presenta, onorevoli

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colleghi, come una delle più spinose. Il superamento dell’attualesistema è necessario e ineludibile; il confinamento del Senato dellaRepubblica in un ruolo marginale, secondario, politicamente delegit-timato mi sembra francamente impossibile. Nel progetto di un nuovoregionalismo, l’idea che viene fatta avanzare di una Camera delleRegioni fa nascere una molteplicità di interrogativi. Penso che affin-ché possa procedere si renderanno necessarie risposte convincenti.

Senza ostacoli mi sembra che invece avanzi la tesi di un primo mini-stro che sia l’unico a godere della fiducia del Parlamento, che possaessere rimosso solo con la sfiducia costruttiva e che abbia il potere diproporre non solo la nomina ma anche la revoca dei ministri.

È difficile immaginare che sulla riforma elettorale il principioproporzionalistico, che ha una salda tradizione nel nostro paese,possa essere cancellato o ridotto al punto tale da risultare stravolto.A frugare nelle vecchie carte sono aspri gli argomenti che i propor-zionalisti di allora scagliavano contro il collegio uninominale ed ilsistema maggioritario. Diceva l’onorevole Michelli, il relatore delprogetto di legge proporzionale: «Con il collegio uninominale lelotte assumono troppo frequentemente un carattere personale, loca-le, campanilistico, apolitico, donde una irriducibile antitesi tra l’in-dole dell’origine e la natura della funzione del deputato. Il rapportodel deputato con i suoi elettori diviene apolitico. Lo riduce al livellodi commissionario degli interessi privati dei suoi elettori presso ipoteri centrali o le autorità locali». Sembra una filippica contro uncerto tipo di voto di preferenza.

Ed ancora: «La enorme inutilizzazione dei voti, con la conse-guente irrealtà della rappresentanza, produce tre fenomeni: l’asten-sionismo, le lotte violente e le coalizioni inorganiche».

Don Sturzo, divenuto critico della proporzionale pura e delle suedegenerazioni, spiega così la sua avversione al collegio uninominale:«Per me e per molti altri nel Mezzogiorno c’era un problema darisolvere: quello di liberarci dalla soggezione politica ed economicarappresentata dalle consorterie locali e sostenuta dalla malavita, daimazzieri, camorristi e mafiosi».

La polemica contro i notabili (le personalità, si direbbe oggi) econtro il sistema delle clientele generate dal collegio uninominale erail cavallo di battaglia dell’associazione dei proporzionalisti nata aMilano sotto l’impulso di elementi radicali, socialisti e liberali e pre-sieduta da Filippo Turati.

Ho trovato in un articolo apparso sull’«Avanti!» del lontano ago-

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sto 1945 uno spunto che forse mantiene una qualche attualità: «Ilcollegio uninominale ci riporterebbe senza dubbio alle vecchieclientele che sono il contrario della democrazia.

Tuttavia, la pluralità dei partiti, il loro frazionarsi in gruppettimolteplici causò dopo le elezioni del 1919 e del 1921 l’instabilitàgovernativa. Il sistema clientelistico si riproduce sul piano della pro-porzionale pura. Proporzionale, quindi, ma non pura».

Per venire ai nostri giorni, possiamo osservare come nelle demo-crazie europee, a partire dall’Inghilterra, patria della democraziaparlamentare, dove vige il sistema maggioritario, le distorsioni ormaisiano di natura tale da divenire un vero e proprio problema demo-cratico.

La proporzionale pura, come tutti possono vedere, ha già pro-dotto dal canto suo un numero considerevole di guasti. Il sistemadella preferenza unica ha introdotto un fattore di ulteriore degene-razione del sistema del voto di preferenza.

Penso che la riforma elettorale per la elezione della Camera deideputati debba correggere il proporzionalismo puro introducendoelementi maggioritari diretti da un lato a frenare un’eccessiva di -spersione della rappresentanza, dall’altro ad assicurare il margine digaranzia per una maggioranza di governo. Obiettivi che possonoforse essere meglio raggiunti attraverso due fasi: la prima che defini-sce in modo proporzionale corretto la rappresentanza, garantendoampiamente il pluralismo politico del sistema, la seconda in cui lecoalizioni alternative si misurano per l’assegnazione – diciamo così –della «quota di governo». In questo modo si definirebbe un sistemamisto fondato sul principio della proporzionale.

Onorevoli colleghi, su questo punto occorrerebbe ormai fare ilmassimo di chiarezza. I principi non si tagliano a fette come i sala-mi. Penso che, posti di fronte alle difficoltà di scegliere in modochiaro e convincente tra un sistema di tipo proporzionalistico cor-retto da elementi maggioritari ed un sistema maggioritario con unpoco di prezzemolo proporzionale, noi dovremmo rimettere unadecisione di tale portata alle Assemblee. Non si cambiano un prin-cipio, una tradizione, un sistema senza una riflessione ed un votosincero, libero e convinto di tutti i parlamentari.

Se si dovesse creare già in questa fase, su di una questione pre-giudiziale e di principio, una situazione di incertezza e di difficoltà,la Commissione avrebbe il dovere di chiedere subito alle assembleeun indirizzo chiaro e definitivo che non lasci margini ed equivoci di

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* Atti Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, seduta del 2 novembre 1992.

sorta e sulla base di questo procedere poi alle ulteriori definizioni.Per il resto vedo che molti professori e gran dottori s’industriano

a spiegarci con le buone e qualche volta con le cattive cosa dobbia-mo fare e cosa non dobbiamo fare. Noi li ascoltiamo (o ci sforziamodi farlo) in rispettoso silenzio anche quando ci indicano le stradesbagliate, poi ci preoccupiamo di decidere con la testa nostra.

3. intervento di mario segni*

In questa fase del dibattito stiamo affrontando il nodo centraleche ci sta davanti e devo dare atto all’onorevole Craxi (di cui, com’ènoto, non condivido le posizioni in materia istituzionale) di averedetto alcune cose chiare, e cioè che siamo di fronte ad una scelta, chesu quella scelta non sono pensabili posizioni di compromesso e chequella scelta va compiuta. Questo è il primo compito della Commis-sione, e può darsi che lo sia anche del Parlamento, ma certamente ènostro.

La Commissione inizia i suoi lavori in un momento di crisi gene-rale molto grave, non certo partendo da zero, ma in un paese che èattraversato da crisi profonde e nel quale alcune proposte di riformaistituzionale sono già state avanzate e lo sono state in modo partico-lare, come mai era avvenuto nella nostra storia.

La crisi è evidente, ed investe in particolare le istituzioni (volumisono stati scritti su questo punto) e i partiti. Non alludo alla crisi diquesto o quel partito, cioè delle idee politiche fondamentali chehanno attraversato questa o quella formazione partitica; mi riferiscoalla crisi della forma partito quale si è venuta enucleando in questiquarantacinque anni di storia repubblicana, quale oggi in buonasostanza si configura storicamente in tutti i partiti, ed in particolarenei grandi partiti di massa, in quelli fondati sulla concentrazione delpotere in gruppi ristretti di apparato e di militanti. Tali partiti, chesono modellati su una burocratizzazione molto forte e su un accen-tramento altrettanto forte, per le ragioni tante volte dette hannoperso in questi decenni la loro capacità di contatto con gran partedella società civile, determinando lo stacco netto tra il cosiddetto

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Palazzo e la società. Basta vedere del resto la crisi generale di tuttele federazioni giovanili dei partiti e l’entusiasmo invece con cuiampie fasce giovanili del paese seguono fenomeni politici del tuttonuovi o estranei allo schema classico dei partiti, come il movimentoreferendario.

Su questa crisi molte posizioni sono state già assunte da partiti, dagruppi culturali, da movimenti del tutto nuovi come la lega (con laspinta regionalistica o, meglio, federalistica in esso contenuta). Maciò che devo sottolineare per la sua forza e per la sua particolarità èla spinta, la proposta referendaria. Essa ha una caratteristica parti-colare: nasce non solo da un movimento di opinione, ma da un mo -vimento di opinione che ha già avuto tre appuntamenti istituzionali.Alludo alle due raccolte di firme, di amplissima portata, alla batta-glia referendaria, del 9 giugno dell’anno scorso, certo condotta solosu un punto, anche limitato, della complessiva proposta referenda-ria, ma incentrata sull’affermazione della validità di tutto il pacchet-to di proposte referendarie e vinta con larghissimo consenso degliitaliani.

La proposta referendaria non è solamente un grimaldello o unasollecitazione al Parlamento: ha un contenuto ben preciso che è sta -to sempre sottolineato in tutte le occasioni come il punto essenzialee determinante di ciò che si andava a proporre agli italiani: il pas-saggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario, la conce-zione del collegio uninominale come perno di un nuovo sistema,accanto alle ben note proposte strettamente legale in materia di ele-zione dei consigli comunali e dei sindaci.

Non voglio negare in alcun modo la portata di svolta radicale diquesta proposta rispetto al sistema precedente. Non si tratta di unaggiustamento, non l’abbiamo mai detto; siamo veramente di frontead una svolta del sistema politico, ad una svolta culturale, ad unasvolta rispetto al tipo di Stato in cui viviamo, ad una svolta nei rap-porti tra cittadini, Stato e istituzioni, che conseguentemente interes-sa tutte le forme di organizzazione politica, compresi inevitabilmen-te i partiti.

È una svolta di ordine culturale: si passa da un sistema nel qualevengono evidenziate le peculiarità, le identità e quindi le differenze aduno in cui sono esaltati i punti di convergenza (naturalmente moltomeno numerosi, che devono essere limitati, ma forti e chiari) per deli-neare maggioranze di governo o alternative al governo stesso.

Si tratta di un naturale e logico cambiamento strettamente con-

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nesso alla forma partito: si passa da una forma organizzata che pre-tende di assumere la guida del sistema politico in modo continuati-vo ad una che, senza necessariamente rinunciare – la scelta poi spet-ta naturalmente a ciascun partito – alle proprie caratteristiche poli-tiche, ideologiche e culturali, deve essere concepita come strumentoposto al servizio delle istituzioni, nelle quali avviene la sintesi politi-ca e attraverso un rapporto diretto con i cittadini, vengono compiu-te le scelte fondamentali.

Questa linea è stata del resto più volte espressa; su di essa si è svi-luppata un’amplissima discussione nel paese e sono state espresse –è legittimo dirlo – considerazioni opposte, come quella lineare echiara esposta ieri dall’onorevole Magri. Egli valuta molti degliaspetti che considero positivi da un diverso angolo visuale perfetta-mente legittimo, ma concorda con me nel sottolineare la radicalesvolta portata dal movimento referendario.

Questo è il nodo centrale che abbiamo di fronte la risposta alladomanda quale tipo di Stato si vuole per l’Italia domani. È vero chetutto si lega, che ogni riforma istituzionale produce conseguenzesulle altre e deve fondersi poi in un complesso armonico, ma è altret-tanto vero che questo è un nodo centrale, sia perché da esso altrescelte dipendono, sia perché è il più importante di tutti. Altre rifor-me in definitiva possono essere realizzate quale che sia la scelta com-piuta su questo punto, sebbene vengano comunque influenzate poli-ticamente dal quadro generale.

Alcune questioni non interferiscono direttamente, come quella,pur importante, del bicameralismo, o quella riguardante il numerodei parlamentari. È connesso, ma ha una sua autonomia l’altro gran-de tema sul tappeto in ordine al regionalismo, al federalismo o aipoteri che si ritiene opportuno attribuire in misura maggiore alleautonomie locali. Non è strettamente legata sotto certi aspetti laquestione della forma di governo o dell’elezione del primo ministro,che oggi è di grande attualità soprattutto dopo le dichiarazioni resedall’onorevole La Malfa...

cesare salvi. Eh no, è legata!mariotto segni. Non è strettamente legata perché esistono siste-

mi di tipo maggioritario – basti pensare all’Inghilterra – che conser-vano la forma parlamentare pura ed altri dello stesso tipo che inve-ce – ricordiamo la Francia – hanno forme presidenziali o semipresi-denziali.

Quello che mi sembra certo (ecco la divergenza rispetto ad altre

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posizioni) è che un sistema che volesse introdurre l’elezione direttadel governo o del primo ministro non potrebbe, comunque, pre-scindere da un sistema di tipo maggioritario in Parlamento: senza unParlamento forte si verificherebbe, infatti, un accentramento dipoteri pericolosissimo. Non è esatto quanto affermato ieri dall’ono-revole Magri, su questo punto (sul quale non sono infatti d’accordocon lui) e cioè che la linea referendaria porta inevitabilmente ad unascelta come quella che viene prospettata. In realtà, la linea referen-daria porta già, certo, ad una scelta del tipo di Stato, sulla quale pos-sono poi inserirsi altre scelte istituzionali. Non vi è dubbio circa lanecessità di fare, a tale proposito, una scelta rapida, ma non solo inconsiderazione dei referendum: occorre scegliere rapidamente per-ché non è possibile continuare in una situazione in cui il Parlamen-to dopo anni di discussioni non decide; perché la crisi del paeseavanza a grandi passi; perché nessuno può escludere (anche se credoche nessuno qui lo voglia) che ci si possa trovare, a causa di situa-zioni imprevedibili, nella drammatica eventualità di elezioni antici-pate che, senza un nuovo strumento elettorale in grado di assicura-re governabilità e scelte chiare da parte dei cittadini, rappresente-rebbe per l’Italia un dramma. L’urgenza delle decisioni è quindi neifatti prima ancora che nei referendum; e l’urgenza delle decisioni èdel Parlamento: è il Parlamento che deve decidere. È strano che ognitanto – anzi molto spesso – si lanci sul movimento referendario l’ac-cusa di antiparlamentarismo, sostenendo – mi pare di capire – chesiamo noi a contribuire in qualche misura a gettare discredito sulParlamento.

marco pannella. Non ci credono nemmeno loro, Mariotto!mariotto segni. Il discredito sul Parlamento nasce da quella

montagna di inconcludenza di cui ha parlato poco fa l’onorevoleCraxi; nasce da un decennio di discussioni inutili; nasce da una posi-zione parlamentare sostanzialmente di netta chiusura ad ogni tipo diriforma, o per volontà precisa o per impossibilità, ma la cui conclu-sione e conseguenza è stata comunque questa. L’onorevole Craxiricorderà, dopo aver affermato i suoi meriti, di avere in questo talu-ne responsabilità quando con la sua decisione politica spinse ilgoverno a porre la fiducia per bloccare gli emendamenti che avreb-bero schiodato la vicenda elettorale dei Comuni. I partiti che hannoguidato il governo nella scorsa legislatura ammetteranno di avere leproprie responsabilità per il fatto che la conclusione di ogni accor-do di governo e di ogni vertice, in occasione delle crisi ed al di fuori

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di esse, furono costantemente di non fare nulla pur di salvaguarda-re un equilibrio che serviva solamente a far avanzare la crisi delpaese.

Nemmeno la spinta del 9 giugno servì a nulla se a distanza di unmese, dopo una lunga discussione e dopo generali richieste, solleci-tazioni ed affermazioni di voler sbloccare la situazione, ancora unavolta il dibattito parlamentare si concluse con un nulla di fatto e siarrivò alle elezioni senza avere minimamente messo mano a questiproblemi.

La verità è invece che crediamo più noi alla forza e all’importanzadel Parlamento: se prima delle elezioni abbiamo costituito tra i can-didati il patto preelettorale per portare comunque queste riforme inParlamento; se grazie a questo patto abbiamo strappato al governol’impegno di permettere e di spingere la riforma elettorale dei comu-ni che – ha ragione Novelli – se pure andrà in porto in modo un po’confuso, comunque uscirà da questo Parlamento (e mi adopererò perquesto) nei tempi più rapidi possibili. Un’altra delle vergogne delsistema e delle sconfitte del Parlamento, infatti, sarebbe giungere alleelezioni amministrative della prossima primavera senza aver varato lalegge elettorale: faremo di tutto perché essa venga varata in tempoper quelle elezioni, e credo che ve ne sia la possibilità.

Quello che deve essere chiaro (ed in proposito le ripeto, onore-vole Craxi, che concordo con lei) è che questo nodo non è un sala-me che si taglia a metà. Rimango francamente stupito di fronte alleaffermazioni, che si leggono ogni tanto, che si sta per raggiungere unaccordo ed alle tesi che ci vedono prossimi alle conclusioni. Sonorimasto stupito ieri mattina quando su tutti i giornali si declamavache la Commissione bicamerale fosse ormai ad un passo dall’accor-do, quando con le mie orecchie ho sentito, nella mattinata dell’altroieri, l’onorevole Occhetto affermare una soluzione che dovevacomunque essere basata, qualunque fossero le soluzioni tecnichescelte, su un passaggio dal sistema proporzionale a quello maggiori-tario uninominale; quando ho ascoltato, poche ore dopo, l’onorevo-le Labriola affermare, lucidamente ma rigidamente, una tesi contra-ria; ed inoltre avendo saputo che la domenica precedente l’onorevo-le Craxi (e non è mistero perché si tratta di posizioni coerentemen-te seguite) ha riaffermato, come ha fatto questa mattina, il valoredella proporzionale. Le mie perplessità sulla possibilità di un accor-do sono aumentate ieri quando ho sentito il senatore Martinazzoliesprimere una linea di politica istituzionale che va sostanzialmente e

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chiaramente nel segno di una continuità del sistema, compreso quel-lo proporzionale. Una linea, quindi, che mi pare sostanzialmenteuna continuazione di quella portata avanti sui temi istituzionali dal-l’onorevole Forlani, naturalmente legittima ma che non vedo comepossa conciliarsi con tutta un’altra serie di posizioni espresse in que-sta stessa Commissione per esempio, oltre che dall’onorevole Oc -chetto, ieri dal senatore Mazzola, ieri l’altro dall’onorevole Pannellae da tanti altri.

È vero che su questo dobbiamo pronunziarci, ma per compiereuna scelta tra un sistema e l’altro. Quando si afferma che siamo vici-ni all’accordo perché tutti vogliamo un sistema misto, si fa in realtàun’affermazione che è tecnicamente una sciocchezza, che politica-mente confonde le acque e che non serve certamente a fare chiarez-za di fronte agli elettori. Di chiarezza invece c’è bisogno. Cosa signi-fica sistema misto? Significa che ogni scelta ha dei correttivi. Matutte le scelte, o quasi tutte, hanno correttivi. Lo stesso Labriola haprecisato ieri – e lo sappiamo bene – che anche il sistema propor-zionale italiano non è puramente proporzionale perché alcuni seggipesano o costano più di altri. Cosa vi è di più misto del sistema refe-rendario? Badate bene, cari amici, che il sistema referendario partedalla scelta precisa del passaggio al collegio uninominale maggiori-tario. Vi sono poi all’interno differenze di posizioni circa le tecniche,gli strumenti e il tipo di sistema maggioritario, ma la scelta è pursempre questa. Se poi si è arrivati ad un contemperamento dellalogica maggioritaria uninominale, ciò è stato innanzitutto impostodal quesito referendario. Abbiamo anche detto e siamo convinti chequesto possa essere un utile correttivo (del resto si tratta di una lineaautorevolmente espressa dallo stesso Dahrendorf), ma, se volete lamia opinione, anche se preferisco per il momento non entrare inquestioni tecniche, non vedo perché si dovrebbe andare oltre le cor-rezioni che già vi sono in un quesito referendario che ha il pregiodella chiarezza. Ma su questo ci soffermeremo più in là.

È certamente necessario che su un punto fondamentale comequesto non siano possibili mediazioni, perché – qui sono d’accordocon quanto detto ieri dall’onorevole Magri – ogni sistema ha alcunilati positivi ed altri negativi, ma la commistione di due sistemi rias-sumerebbe probabilmente i lati negativi di entrambi, senza possede-re alcuno dei lati positivi. Nulla sarebbe oggi peggiore e più delete-rio che dare all’opinione pubblica la sensazione di una non scelta edi una soluzione imposta solamente da un criterio di spartizione

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della torta: un pezzo a te, un pezzo a me, mentre poi si tratterebbedi un’idea a te e di un’idea a me, su un piano assolutamente impra-ticabile.

Quale scelta sarà compiuta dal Parlamento? Se il Parlamentodecidesse in senso referendario è ovvio che saremmo i più felici, cheappoggeremmo questa soluzione e che anzi accelereremmo i tempiaffinché essa si trasformasse rapidamente in soluzione legislativa,sulla quale costruire poi le altre, necessarie riforme costituzionali.

Scarto quindi l’idea di soluzioni non chiare, che sarebbero le peg-giori. E tra le soluzioni non chiare includo l’idea, che ogni tantoviene avanzata da qualcuno, che le richieste referendarie vadano ac -colte in una Camera, il Senato, il cui ruolo magari è destinato adessere depotenziato e ridotto a semplice consultazione, conservandoper l’altro ramo del Parlamento, quello importante, l’elezione con ilsistema proporzionale. Credo che proporre soluzioni del genere nonsarebbe dignitoso per nessuno!

Scartata quindi l’ipotesi peggiore, quella della scelta di un sistemache non abbia coerenza e pertanto quella di una non scelta (al ri -guardo mi pare che molti, almeno a parole, siano d’accordo: mi augu-ro che si sia conseguenti nei fatti), vi è da chiedersi se il Parlamentodimostrerebbe saggezza politica nel perseguire una strada contrariaall’iniziativa referendaria. Una scelta dei cittadini in merito è infatti giàstata sollecitata: certo, il Parlamento può farla propria, ma, se si doves-se andare invece verso una soluzione in contrasto, eventualità chefigura tra le possibilità giuridiche del Parlamento, essa rientrerebbe dicerto in uno dei casi in cui la volontà popolare deve misurarsi conquella parlamentare. Sarebbe un caso classico in cui si dovrebbe anda-re al referendum, in cui i cittadini dovrebbero essere chiamati adesprimersi su una scelta che noi abbiamo sollecitato già due volte. Esarebbe veramente assurdo – credo però che nessuno voglia farlo dataanche la gravità della situazione del paese – dare la sensazione di unPalazzo che si chiude in se stesso o contro la volontà e i desideri deicittadini, cercando di soffocare una consultazione popolare con unadecisione opposta che darebbe veramente il senso non più di un dis-tacco, ma di una rottura insanabile tra le istituzioni e il paese.

Se viceversa il Parlamento non riuscisse (non so se si verificheràtale ipotesi, ma non ditemi che sono antiparlamentare se oggi vedoche il Parlamento ha difficoltà a prendere queste decisioni: mi limi-to a constatare dei fatti, non faccio previsioni e non esprimo augu-ri), in sede di Commissione bicamerale o in Assemblea ad assumere

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una decisione in tal senso, comunque propedeutica, non resterebbealtro che seguire la strada dei referendum e far sciogliere agli italia-ni questo nodo.

marco pannella. Hanno eletto Casavola apposta per risponderti!Le risposte ti arrivano così!

mariotto segni. Non capisco come ogni tanto si possa dire chespinte di questo genere sono elitarie, che rappresentano interessi digruppi forti, che il movimento referendario risponde ad interessiristretti. Vedo in realtà un paese in cui, grazie soprattutto a quelloche abbiamo fatto, vi è oggi una società avanzata, rispetto alla quale,invece, élites ristrette e soprattutto élites politiche fanno da freno adun movimento di rinnovamento politico ed istituzionale. Vedo quin-di esattamente l’opposto.

Ritengo allora che sarebbe saggio anticipare la data dei referen-dum rispetto a quella che tradizionalmente viene scelta, dell’ultimadomenica possibile nell’ambito dei tre mesi previsti dalla legge. Seinsomma il Parlamento non fosse in grado di decidere, invece diposticipare il referendum all’ultima domenica di giugno, per tentaredi raggiungere un accordo in extremis, che in questo caso sarebbepericoloso (personalmente mi auguro che una scelta positiva vi sia eper quanto mi è possibile contribuirò a far sì che si assuma una scel-ta in senso pienamente referendario), sarebbe molto più semplicescegliere la prima domenica dopo la metà di aprile, in modo che lascelta dei cittadini in merito ad un nodo fondamentale diventi la pre-messa per l’ulteriore lavoro che la Commissione bicamerale e il Par-lamento sono tenuti a svolgere.

Non si tratterebbe di una rottura tra cittadini ed istituzioni, ma diuna riforma che deve essere poi completata in Parlamento e sullaquale in primo luogo si sarebbe espresso il popolo, in una forma chealcuni possono malevolmente definire plebiscitaria, ma che in realtàrispecchia un concetto di profonda democrazia.

Questa posizione mi pare responsabile, preoccupata della crisidel paese, rispetto alla quale la lentezza delle decisioni politiche è digrande danno: dobbiamo tutti renderci conto del fatto che si trattadi una crisi che galoppa velocemente, a fronte di istituzioni e Parla-mento che procedono lentamente e di cui il paese non è più dispo-sto ad accettare la lentezza.

Accingiamoci per intanto noi, membri della Commissione bica-merale, a sciogliere rapidamente, questo nodo. Quando si sarà com-pletata la discussione, si passerà all’esame dei documenti ed io stes-

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so mi permetterò di presentarne uno nel senso e sul punto che mi stapiù a cuore. Prendiamo pertanto rapidamente in questa sede le deci-sioni necessarie, perché esse sono la premessa per sapere se il Parla-mento è in grado di andare avanti o se è altrimenti indispensabile,prima di una ulteriore fase, un passaggio che veda i cittadini pro-nunciarsi su uno dei nodi fondamentali del nuovo Stato che voglia-mo costruire.

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