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Riflessioni e proposte sul Piano Strategico Contributo delle aggregazioni laicali della Diocesi di Rimini

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Riflessioni e proposte sul Piano Strategico

Contributo delle aggregazioni laicali della Diocesi di Rimini

ACLI

AGESCI

ASSOCIAZIONE PAPA GIOVANNI XXIII

AZIONE CATTOLICA

CARITAS DIOCESANA

CENTRO CULTURALE PAOLO VI

COMUNIONE E LIBERAZIONE

FUCI

MASCI

MEIC

SERVIZIO DIOCESANO PER IL PROGETTO CULTURALE

UCID

UCIIM

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“Mi sembra anche importante la scelta di metodo già avviato,

cioè il metodo di non far scendere il Piano dall’alto, ma elaborarlo

con tutte le forze e le presenze vive della città.Mi sembra un metodo molto importante,

un metodo comunitario nel senso di ciò chei cittadini hanno in comune, come patrimonio

di valori, di ideali, di storia e di cultura capace di diventare energia per il futuro.”

mons. Francesco Lambiasitratto dall’intervista rilasciata

ai promotori del Piano.

Riflessioni e proposte sul Piano Strategico

Contributo delle aggregazioni laicali della Diocesi di Rimini

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Premessa Il documento è la sintesi di un percorso partito

nell’ottobre 2008, che si è concretizzato in diversi momen-ti di studio e approfondimento delle principali tematiche proposte dal Piano Strategico.

Alcuni rappresentanti delle associazioni cattoliche, ol-tre a partecipare ai momenti progettuali del Forum delle associazioni e agli otto ambiti di lavoro previsti, hanno avviato al contempo anche un serrato confronto interno al mondo cattolico sui contenuti e le sfide insite a questo Progetto.

Già in occasione del Corpus Domini del 2008, il vesco-vo Francesco Lambiasi aveva sollecitato i fedeli laici della Chiesa riminese a ripensare al nesso vitale tra Eucaristia e Città quale criterio guida di un vero e proprio “Piano Strategico”, che ha in Cristo il suo fulcro vitale: «Dalla cattedra dell’Eucaristia la comunità cristiana impara la grammatica di base dell’incarnazione e apprende la sin-tassi del rinnovamento della città, una sintassi che si ar-ticola in un “progetto” fondato su tre verbi principali e “reggenti”: condividere, trasformare, unire» (Discorso alla città – solennità del Corpus Domini, 22 maggio 2008).

Di fronte al disorientamento e alla crisi che travaglia il nostro mondo, che è fondamentalmente crisi di una visio-ne culturale e spirituale, crisi di una concezione antropo-logica e conseguentemente di “evidenze etiche”, i cristiani si sentono chiamati a ritrovare nell’Eucaristia il loro “cen-tro di gravità”, principio e meta di una storia nuova. Dalla logica eucaristica, che è logica di incarnazione, sono im-pegnati a riscoprire nella comunione, in Cristo, con Dio e con gli uomini, la forma espressiva e realizzativa della lo-ro fede: «Dare un’anima alla città significa testimoniare

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una fede che genera una carità operosa e un impegno so-ciale che non può e non deve conoscere limiti, come non conosce limiti di spazio e di tempo la presenza di Cristo nell’Eucaristia» (Discorso alla città, cit.).

Sulla base di questi presupposti, alcuni rappresentanti laici delle associazioni cattoliche hanno avvertito l’urgenza e la responsabilità di corrispondere alle molte-plici sollecitazioni messe in atto dal Piano Strategico, nel tentativo di assicurare una loro presenza, garantire con coerenza l’elaborazione di orientamenti e proposte, offrire un contributo specifico alla costruzione del bene comune, favorendo una cultura della riconciliazione e della solida-rietà.

Tutto ciò nella consapevolezza dei limiti insiti nel Pia-no Strategico, a partire da un possibile utilizzo strumen-tale delle aspettative messe in atto, dal rischio che il coin-volgimento sociale allargato possa essere finalizzato alla legittimazione politica e culturale di quanto è stato com-piuto negli ultimi decenni. Guardare con fiduciosa spe-ranza al futuro della nostra città e offrire il costruttivo apporto alla sua realizzazione, non può esimerci dal di-scernimento del presente, ma soprattutto non può confi-gurarsi come un “colpo di spugna” sul passato.

Tuttavia, fuori da ogni strumentale polemica e da ogni logica di schieramento e di appartenenza, riteniamo che sia indispensabile e ineludibile, anche per il mondo catto-lico, avviare un confronto onesto e costruttivo sui volti e le maschere della “Rimini presente”, al fine di adoprarsi con generosità e avvedutezza alla costruzione di “Rimini ven-ture”.

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1. Cultura, città e persona: presupposti per un Piano Strategico

1.1. La crisi attuale e le risorse della cultura e dell’educazione

Siamo invitati ogni giorno a fare i conti con la com-plessità, con l’interazione tra i saperi, tra le diverse for-me della razionalità e della conoscenza. Di fronte a questo inedito scenario, vale la pena di adoperarsi per “allargare gli spazi della razionalità”, di aprirsi ad una conoscenza che mai deve essere disgiunta dalla ragionevolezza, anche per non cedere alla facile semplificazione o allo speciali-smo settario e isolato. Le grandi sfide del presente, dalle problematiche ambientali a quelle dello sviluppo, dall’immigrazione alla società multietnica e multireligio-sa, dall’educazione alla cooperazione, impongono un’as-sunzione di responsabilità in grado di tener conto della complessità, di una visione integrale della conoscenza e del mondo, dell’interdipendenza tra i diversi sistemi am-bientali, sociali e culturali. Una città che intende proporsi come “accogliente e attrattiva”, “sostenibile e innovativa”, “internazionale e a forte identità relazionale”, non può non tener conto della condizione di complessità, di inter-dipendenza, di grave crisi economica e finanziaria nella quale oggi di troviamo.

In questo momento storico così difficile vanno raccolte tutte le energie migliori per impegnarle nella innovazione e nella ricerca di nuove forme di progettualità. Di fronte alla portata planetaria di questa crisi e dei suoi dramma-tici effetti sociali, è necessario comprendere in profondità le cause e i limiti di alcuni modelli dominanti, per essere in grado di elaborare nuove prospettive, «costruire nuovi granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno del-lo spirito» (M. Yourcenar).

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Riteniamo che il vero antidoto alla crisi e il presuppo-sto di ogni forma di ripensamento della città, sia la risor-sa della cultura, che deve costituire lo sfondo dell’intero Piano strategico. Infatti il futuro della nostra città dipen-de essenzialmente dalla cultura, – intesa come orizzonte di senso e accrescimento di sapienza per la vita –dall’investimento in termini di formazione, educazione, ricerca, conoscenza, innovazione… Siamo infatti convinti, come sottolineava Giovanni Paolo II nel suo celebre di-scorso all’Unesco del 1986, che la sfida del tempo presente è quella culturale, poiché «senza cultura non c’è umanità», ed è solo mediante la cultura che la persona può costruire la propria identità, plasmare la propria visione del mondo e del suo essere-in-relazione con gli altri, con l’ambiente, con il mondo.

Lo stesso concetto di cultura (come è stato ampiamente dimostrato dalla celebre scuola semiotica di Tartu, in par-ticolare da J. Lotman e B. Uspenskij) rimanda originaria-mente «alla sfera del valore e del senso», un complesso in-treccio di “figure” e di “significati”. Delle tante possibili ac-cezioni del termine ci preme qui recuperare quella proposta da un grande genio del pensiero cristiano del XX secolo, padre Pavel A. Florenskij (matematico, scienziato, filosofo e teologo), il quale affermava: «La cultura è la lotta consa-pevole contro l’appiattimento generale; la cultura consiste nel distacco, quale resistenza al processo di livellamento dell'universo, è l'accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è la contrap-posizione all’omologazione, sinonimo di morte». Dunque, ogni cultura è un sistema finalizzato e saldo di mezzi atti alla realizzazione e al disvelamento di un valore, alla co-struzione di un orizzonte di senso.

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Ebbene, proprio alla luce di questa idea di cultura, ci chiediamo preoccupati che cosa stia accadendo attorno a noi, nel nostro contesto urbano e nella nostra comunità civile, nella “promozione dell’immagine” stessa della città. Il tono dominante sembra purtroppo quello della triste ri-duzione della cultura a vacuo spettacolo, a banale diver-tissement, a rincorsa di modelli omologanti svuotati di o-gni senso, identità, memoria, valore, coscienza critica, di cui l’artificiosa e dispendiosa “notte bianca” di fine anno rappresenta uno dei sintomi più desolanti. Continuando a rincorrere la cultura-spettacolo, la cultura dei bagliori e degli effimeri “eventi”, si rischia di favorire soltanto la crescita del deserto nichilista che invade soprattutto il fragile terreno del mondo giovanile con conseguenze spes-so tragiche.

Di fondamentale importanza a questo riguardo è l’investimento per una cultura dell’educazione. Siamo og-gi di fronte ad una emergenza educativa che investe di-rettamente non solo l’ambito familiare ed ecclesiale, ma anche la vita civile, istituzionale, politica e sociale. In questa prospettiva affiora con rinnovata urgenza la do-manda (che coinvolge le diverse età della vita) sul come dare concretezza ad una prospettiva pedagogica in grado di affermare la bellezza e la plausibilità delle dimensioni costitutive dell’essere: la persona, l’interiorità, il senso, il dono di sé, la libertà, la responsabilità…

Di fronte alla dilagante cultura della frammentazione e del relativismo, è urgente ritrovare il coraggio di pro-porre l’unità dell’atto educativo, che nella coscienza delle persone e delle istituzioni consenta di tenere insieme, in una continuità dinamica e creativa, senso, cultura e vita. Questo presuppone la pazienza di ritessere un legame vi-tale con la tradizione, con il ruolo educativo della fami-

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glia, della scuola, delle differenti realtà aggregative e co-munitarie per alimentare il senso di una speranza affida-bile, di una fiducia nella vita, l’assenza delle quali sta spesso alla radice della profonda crisi morale, antropolo-gica e culturale.

Come ridare alla cultura la sua dignità, quello slancio di potenzialità nei diversi campi dell’educazione, della co-noscenza e del sapere? Come coniugare cultura e vita, e-ducazione e speranza, ricerca e formazione a partire dal nostro territorio? Come trasformare la nostra città da consumistica “vetrina di eventi” a città internazionale del-la cultura a partire dalle sue potenzialità, dal rapporto con la sua identità, la sua memoria, la sua vita ordinaria? È su queste e altre questioni cruciali che dovrà misurarsi – crediamo – la traduzione concreta del Piano Strategico nei prossimi anni.

1.2. Primato della persona e società civile

Punto di partenza di ogni riflessione che riguardi lo sviluppo strategico futuro di una città non può che essere la definizione e la ricerca della propria identità. Il criterio guida, il valore fondamentale e il punto di riferimento ul-timo per lo sviluppo di un modello di città veramente u-mana è la centralità della persona, il rispetto e la tute-la della sua dignità, libertà, nonché la promozione di rela-zioni interpersonali. La centralità della persona e una di-versa concezione della cultura possono costituire il punto di partenza per far progredire e strutturare una nuova vi-sione di città, senza cadere nella rassegnazione e nella di-sperazione. Ripartire dalla persona, dal suo essere in re-lazione, significa anche ridare cuore e impulso a una de-mocrazia viva e vera che sappia ri-conciliare persona e sviluppo, comunità e istituzioni, traendo ispirazione per

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un nuovo modello di politica, di etica e di economia. Porre al centro dello sviluppo culturale, sociale, politi-

co ed economico della città i valori costitutivi della perso-na e al tempo stesso tutte quelle manifestazioni della sua autonomia quali sono i corpi sociali intermedi (famiglia, comunità, associazione, movimento, comitato, fondazione, organizzazione non governativa, cooperativa, impresa, ecc.), che dal basso essa promuove e che costituiscono il tessuto connettivo della società civile, costituisce già di per sé un rovesciamento delle logiche ancora dominanti.

È necessario superare la grave separazione determina-tasi tra una società civile dinamica e creativa - che negli ultimi decenni ha saputo generare anche nella nostra cit-tà opere rilevanti, sia sotto il profilo sociale che culturale ed economico (dall’Associazione Papa Giovanni XXIII e tante altre realtà di servizio e volontariato, dal Meeting per l’amicizia tra i popoli alle Giornate internazionali del Pio Manzù, dall’Università alle diverse realtà di ricerca e di promozione culturale presenti sul territorio) – e la sfera politico-istituzionale. Occorre garantire alle diverse e-spressioni della società civile presenti sul territorio non solo il diritto di prendere parte alla vita culturale, econo-mica, sociale e politica della città, ma soprattutto la pos-sibilità di svolgere un ruolo attivo nella progettualità e nella gestione dei servizi della città (sussidiarietà orizzon-tale).

Assumere come riferimento ultimo la centralità della persona implica anche finalizzare lo sviluppo della città al perseguimento del bene comune, che è bene di tutti e di ciascuno – di tutto l’uomo (nelle sue dimensioni materiale, socio-relazionale e spirituale) e di tutti gli uomini – ma è molto più grande e più completo della somma dei beni in-dividuali dei singoli cittadini. Questo significa puntare al-

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la solidarietà, intesa innanzitutto come la capacità di cogliere le istanze di coloro che si trovano in situazioni di effettivo svantaggio e ricercare soluzioni di comune inte-resse, ma anche come la capacità di perseguire l’equità, cioè la ricerca di una giusta distribuzione della ricchezza e delle risorse, orientata al superamento delle disugua-glianze sociali lesive della dignità umana; significa anche corrispondere ai bisogni primari e garantire a tutti i mez-zi per il perseguimento del proprio progetto di vita, rico-noscendo il contributo offerto da ciascuno alla creazione del valore sociale, relazionale ed economico.

In un tale contesto valoriale il sistema di governo e il modello di sviluppo della città non possono che essere ba-sati sulla pianificazione partecipata e concertata (o amministrazione condivisa), ossia su un sistema di gover-no in cui enti locali, società commerciale e società civile (quindi il pubblico, il privato e il civile) interagiscono, se-condo regole condivise, per delineare una “strategia” di sviluppo futuro della città e per realizzarla concretamen-te. Ciò implica dunque il più ampio coinvolgimento possi-bile della società civile fin dalla fase della pianificazione e programmazione delle politiche di sviluppo, superando la dicotomia tra società civile e politica, capovolgendo la lo-gica di governo della città. Sotto questo profilo il Piano Strategico potrebbe configurarsi in effetti come l’avvio di una modalità radicalmente diversa di concepire i rapporti tra le istituzioni e le realtà sociali presenti sul territorio, animando relazioni e istituendo collaborazioni sulla base unicamente della effettiva rappresentatività sociale e del-la qualità delle proposte, superando finalmente logiche neo-corporative, protezionistiche o di appartenenza.

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1.3. La bellezza della città Uno dei punti di convergenza di queste diverse pro-

spettive incentrate sul primato della persona da conse-gnare alla Rimini del futuro è la valorizzazione della bel-lezza in tutti i suoi aspetti, relazionale, ambientale, cul-turale e spirituale, perché poco importa la bellezza archi-tettonica degli edifici, se coloro che li abitano sono spiri-tualmente e culturalmente vuoti.

La ricerca della bellezza quale criterio sul quale pro-gettare la città ha rappresentato per secoli uno dei valori costitutivi della Civitas, purtroppo sempre più trascurati negli ultimi decenni a vantaggio di logiche immediate di resa produttiva e/o di scelte utilitaristiche. Spesso ridotta alla sfera dell’emozionale, dell’apprezzamento soggettivo e persino dell’arbitrio, la bellezza in rapporto alla città ha perso progressivamente il suo contenuto estetico, simboli-co, spirituale, relazionale.

Come è stato colto con sensibilità impareggiabile da Dostoevskij, snodo decisivo del pensiero moderno e con-temporaneo, la premura per la bellezza investe il proble-ma dell’uomo e del suo destino. La bellezza, dunque, non è mai soltanto una proprietà formale, qualcosa di riducibile a mero estetismo, ma è anzitutto una caratteristica su-prema dell’esistenza. Si tratta di una realtà che nella sua essenza simbolica interpella la qualità relazionale della vita personale e sociale, dalla quale traspare l’immagine del mondo venturo.

Non si tratta soltanto di “tornare alla bellezza” nel tentativo di restituire il giusto valore al vasto patrimonio storico e artistico stratificatosi nella città di Rimini (e Provincia) lungo il corso dei secoli e ancora presente (seb-bene in gran parte violato o sepolto), ma soprattutto di re-stituire un senso complessivo di equilibrio e di armonia

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della vita civile, relazionale, ambientale, oggi sempre più compromesso. Contribuire all’edificazione di una “città bella”, preservando i suoi tesori, le sue forme, l’ordine e le proporzioni tra i diversi elementi compositivi e l’ambiente che li accoglie, significa anche edificare un ethos attorno al quale una comunità si riconosce nella sua identità, memoria e creatività. 2. La Rimini del presente: punti di criticità

Lo sguardo fiducioso sulla Rimini del futuro, generato anche dallo stimolante e creativo confronto sul Piano Strategico, non può tuttavia far dimenticare il volto attua-le della città. Questo volto si mostra ancora offuscato da diverse zone d’ombra che mal si conciliano con la cultura dell’ospitalità e di un turismo che pretende di proporsi come “modello” sul mercato internazionale. Urgono opzio-ni di sviluppo sociale, culturale, economico e urbanistico più equilibrato, rispettoso dell’ambiente naturale, della propria identità, della vita civile, soprattutto della vita delle famiglie, dei giovani e degli anziani. Ma anche con-crete scelte di accoglienza, di sostegno e promozione uma-na e sociale, in continuità con la più nobile tradizione ri-minese. Ci permettiamo a questo proposito di rimarcare alcuni punti di particolare criticità che da tempo attendo-no una risposta e una soluzione, ma che col passare degli anni si sono ulteriormente aggravati, rischiando di diven-tare dirompenti.

2.1. Il dissesto urbanistico e paesaggistico

Tra questi va ricordata la questione del rapido e di-sordinato sviluppo urbanistico, spesso sottratto al neces-

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sario confronto democratico con i cittadini e le diverse i-stituzioni civili. Il dissesto urbanistico e paesaggistico, che le scelte politiche degli ultimi decenni hanno senza dubbio favorito, ci spinge a ritenere superati alcuni mo-delli di governo del territorio. In particolare, in questi anni si sono alternati sia il modello della pianificazione ordinaria di tipo dirigistico, basata su un rapporto bipo-lare e unidirezionale pubblico-privato (Comune-cittadini) in cui il privato persegue soltanto il proprio interesse particolare, mentre viene delegato e demandato alla sola istituzione pubblica il compito di curare l’interesse gene-rale; sia quello della pianificazione contrattata, basata sul rapporto diretto tra amministrazione locale e attori privati, dotati di grande influenza socio-economica e fondata sulla logica contrattuale dello scambio mirato al perseguimento di reciproci vantaggi (si veda il ricorso al cosiddetto “motore immobiliare” o allo strumento del project financing). Entrambe le dinamiche hanno preso il sopravvento sulle forme di partecipazione e condivisione sociale inerenti allo sviluppo della città, contribuendo non poco allo stravolgimento dell’assetto urbanistico e paesaggistico mediante un intensivo e massiccio piano di cementificazione.

La rapida messa in opera di appalti e cantieri, che in pochi anni ha mutato radicalmente la fisionomia urbani-stica, è avvenuta senza tener conto del delicato equilibrio (paesaggistico, ambientale, ma anche sociale e culturale) tra città, periferia e campagna. La comparsa improvvisa di enormi strutture commerciali in zone appena periferi-che della città non solo ha stravolto la fisionomia urbani-stica e ambientale, ma ha aggravato ulteriormente la già critica situazione della viabilità. L’espandersi incontrolla-to di queste logiche costruttive ha inoltre influito in modo

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dirompente anche sulla natura e l’identità del centro sto-rico della città, sempre più “svuotato” della sua originaria vitalità e creatività, della fitta rete di relazioni personali, sociali e culturali, delle tante botteghe delle arti e dei me-stieri, per diventare sempre più “luogo anonimo” degli af-fari e del commercio diurno.

Per converso, stupisce e rammarica la lentezza con la quale si è affrontato in questi anni il ricupero strutturale del patrimonio storico, artistico e architettonico della cit-tà, con enorme dispersione di risorse economiche: si pensi al mancato recupero del Teatro Galli, delle ex colonie ma-rine, del Palazzo Lettimi; alla mancata realizzazione di adeguati servizi sociali e ambienti ricettivi per bambini, giovani, anziani, nonché di strutture sanitarie, sportive, ricreative e culturali proprio nelle aree di maggior espan-sione edilizia. Così come rammarica la chiusura, nell’indifferenza generale, delle tradizionali sale cinema-tografiche del centro e della prima periferia.

2.2. Sviluppo urbanistico, emergenza casa

e immigrazione Come è stato evidenziato anche da recenti indagini na-

zionali (Cfr. Affitti, in testa Rimini, in Il Sole24Ore, 8 maggio 2006) , quella di Rimini è una realtà complessa, in cui, oltre alla “fame edilizia”, indipendente ormai dal fab-bisogno abitativo tradizionalmente basato sulla crescita degli abitanti, sono presenti anche fenomeni che attengo-no all’invecchiamento della popolazione, alla dissemina-zione delle funzioni terziarie, direzionali e culturali. Tale complessità è aggravata dalla pluralità dei possibili punti di vista: c’è la Rimini vista dai residenti, quella degli “u-tenti” e quella dei turisti estivi, ci sono i bisogni di coloro che abitano il centro e di quelli che abitano la periferia.

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La città storica si trova ad essere sottoposta ad una pres-sione abitativa che non deriva da un aumento della popo-lazione stabile, quanto dalla nuova popolazione studente-sca dovuta alla presenza dell’Università, che provoca spesso meccanismi di alterazione del mercato degli allog-gi. Si tratta allora di governare forme di equilibrio tra queste diverse istanze, anche alla ricerca di una soluzione in grado di calmierare il mercato degli affitti.

Un documento pubblicato quest’anno dalla Caritas Diocesana, dall’Ufficio di Pastorale sociale e Ufficio dioce-sano per la famiglia, La casa, un bene fondamentale, de-nuncia il fatto che nel territorio riminese il problema abi-tativo è ancora grave e lontano da un’adeguata soluzione. La densità di edifici a ridosso della costa, il fenomeno del-la seconda casa e dell’investimento a solo scopo speculati-vo cui si è assistito nelle ultime stagioni, non fanno che accentuare la lievitazione dei prezzi, creando un evidente problema della casa che merita un’attenta e non riman-dabile risposta, affinché sia consentito anche alle giovani coppie, agli studenti universitari, agli immigrati e ai me-no abbienti di poter abitare sul territorio. La distorsione del mercato immobiliare, infatti, rende le fasce più deboli dei cittadini incapaci di competere con l’aggressività del mercato edilizio.

Il costo degli affitti sempre più elevato e i fenomeni speculativi e degenerativi del mercato immobiliare con-tribuiscono a far sì che l’emergenza casa coinvolga oggi almeno il 20% della popolazione riminese.

È evidente inoltre come l’economia legata al turismo abbia profondamente segnato in modo disomogeneo lo svi-luppo di Rimini dal dopoguerra ad oggi: la “zona turistica” risulta ancora nettamente separata dal centro cittadino (anche per effetto della linea ferroviaria che ha “tagliato

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in due” il territorio); parallelamente, non sono state ricer-cate opportunità di collegamento tra le due zone, che, ne-gli anni, avrebbero potuto permettere una sua crescita più equilibrata. Questo a danno anche della città del mare, che necessita di una consistente ristrutturazione delle strutture esistenti, una diversa funzionalità dei servizi e del sistema di viabilità, di una maggiore presenza di aree verdi nelle poche zone ancora non cementificate. Ormai inadeguati sono anche i collegamenti tra la città e l’entroterra, soprattutto in vista di un’adeguata valorizza-zione del territorio collinare interno.

L’immigrazione dall’estero è un fenomeno ormai strut-turale in tutte le città del nostro Paese e Rimini non fa ec-cezione: il richiamo di cittadini stranieri causato dall’offerta occupazionale soprattutto nel settore turistico, nelle attività commerciali e nell’edilizia, ha fatto raddop-piare negli ultimi cinque anni la percentuale della loro presenza rispetto alla popolazione autoctona, determi-nando, soprattutto in alcuni quartieri, nuove emergenze in termini di servizi sociali, abitativi, educativi, di rego-lamentazione del fenomeno per ridurre il rischio di con-flittualità sociale. Se da un lato non si può ormai più ne-gare che gli immigrati siano una risorsa, dall’altro è al-trettanto vero che il rapporto tra residenti e nuovi resi-denti solleva problematiche legate alla vivibilità e alla si-curezza, particolarmente in alcune zone della città.

È importante, quindi, porre l’attenzione al sistema normativo che disciplina la presenza dei cittadini stranie-ri sul territorio. Da una parte è necessario insistere sul miglioramento dell’impianto legislativo attualmente in vigore, dall’altra occorre promuovere una cultura della convivenza attraverso un approccio formativo ed educati-vo, rispettoso delle regole, che possa a medio e lungo ter-

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mine generare un clima di fiducia, convivialità e coopera-zione reciproca tra tutti gli abitanti della città, riminesi e non. La varietà delle etnie presenti, delle diverse tradi-zioni linguistiche, culturali e religiose, impone una più vi-gorosa azione politica a sostegno dell’educazione di resi-denti e di immigrati, un’educazione alla differenza e al dialogo interculturale e interreligioso, non soltanto come esigenza conoscitiva e responsabilità etica di uno sguardo più attento sul “villaggio globale”, ma anche come concre-ta prevenzione dei conflitti sociali e delle loro gravi conse-guenze.

2.3. Politiche culturali e Università

La gestione della politica culturale degli ultimi decenni evidenzia non pochi elementi di debolezza: l’eccessivo cen-tralismo istituzionale; il sostegno privilegiato ad alcune realtà culturali a scapito di altre; la scelta di iniziative a carattere prevalentemente spettacolare e “di immagine”, tendono a determinare l’esclusione e il progressivo impo-verimento delle diverse risorse presenti sul territorio, che garantirebbero un reale pluralismo culturale, politico e re-ligioso.

La scelta – pur valida – intrapresa negli ultimi anni te-sa a valorizzare e promuovere le preziose risorse storiche e artistiche della città risulta ancora troppo debole e discon-tinua. Ancora limitati sono la valorizzazione culturale (ar-tistica, ambientale, paesaggistica…) dell’entroterra, lo svi-luppo di un’adeguata offerta museale e la salvaguardia delle tipicità del territorio, come pure il recupero delle tradizioni popolari, linguistiche, antropologiche, spirituali ivi presenti.

Ad oltre dieci anni dalla sua istituzione, un’attenzione

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particolare andrebbe inoltre rivolta al rapporto tra Uni-versità, ricerca scientifica, formazione e sviluppo del terri-torio. Il Polo universitario di Rimini vanta un’offerta for-mativa sempre più ramificata distribuita su 8 facoltà con il coinvolgimento di 122 docenti incardinati e la presenza di una popolazione studentesca che supera le 6 mila unità. Tuttavia l’Università necessita di una più puntuale inte-grazione con il mondo del lavoro e della ricerca applicata, nel quale si sperimenta le collaborazioni con il territorio. Evidente è l’urgenza di promuovere un maggiore collega-mento tra l’Università e il tessuto del turismo della Rivie-ra riminese, tra l’Università e la vita culturale e istituzio-nale della città, affinché la professionalità e la competenza scientifica di docenti, ricercatori e studenti possano trova-re una feconda ricaduta anche nel territorio. Ancora mo-deste, inoltre, sono le esperienze di collaborazione scienti-fica tra l’Università e le diverse istituzioni culturali pre-senti nella nostra Provincia.

2.4. Crisi del modello turistico

Questa rapida sintesi sugli aspetti più problematici della Rimini del presente non può trascurare la crisi del modello di sviluppo turistico che ha investito la città negli ultimi anni, nonostante che il turismo rimanga il settore economico trainante, che rappresenta la più importante risorsa e fonte di ricchezza – contribuisce alla produzione per il 25% del valore aggiunto complessivo, contro il 15% dell’industria manifatturiera tanto che si può parlare di una vera e propria “industria turistica” –, nonostante che tra le varie tipologie di turismo quella dominante continui ad essere il turismo balneare estivo, che fa leva sulla spiaggia organizzata come sua risorsa strategica fonda-mentale.

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Quello riminese per anni è stato un modello turistico “vincente”. La natura mediamente ridotta delle strutture ricettive, la flessibilità dei ruoli, la presenza spesso dell’intera famiglia nel ruolo di proprietario e gestore dell’impresa, la naturale predisposizione ai rapporti uma-ni della gente di Romagna, avevano dato vita ad un tipo di ospitalità del tutto originale, nel quale le relazioni per-sonali prevalevano sugli aspetti strutturali dell’offerta. Nel corso degli ultimi decenni, una serie di fattori ha messo in discussione la validità di questo modello nei con-fronti di un turista sempre più esperto ed esigente.

La crisi del modello tradizionale ha portato con sé diverse conseguenze, in particolare il tramonto del turi-smo di massa e la nascita di un turismo sempre più di-versificato nei gusti e nelle richieste. Sport, congressi, fiere sono nuovi modelli già in atto, ma anche brevi sog-giorni settimanali, quando non addirittura compressi in un solo week end, che rischiano di snaturare l’identità della città, imponendo modelli culturali di tendenza mol-to effimeri, ma altrettanto pervasivi non solo sul mondo giovanile.

Nonostante sia in larga parte ormai tramontata anche la stagione legata al cosiddetto “divertimentificio”, il tu-rismo di evasione è ancora perseguito: sono su questa linea la progressiva dilatazione degli orari nelle discote-che e locali di intrattenimento, le proposte di case da gioco e casinò… Tutto ciò a dispetto delle analisi degli esperti del settore, che hanno messo in evidenza come il turismo di evasione risulti socialmente molto oneroso: le dinami-che sociali che esso mette in moto, si rivelano spesso con-trastanti con le esigenze sia degli altri ospiti, sia degli a-bitanti; e le forme della trasgressione connesse allo “sbal-lo” non sono più racchiuse in alcune eccentriche discote-

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che, ma si stanno sempre più diffondendo anche in luoghi di ritrovo per i giovani, pub, piccoli locali “di tenden-za”…Forme di tempo libero spacciate come espressioni di libertà, che spesso diventano forme di degenerazioni dell’integrità della persona.

Altrettanto evidenti anche i rischi insiti in un tipo di turismo intermittente “mordi e fuggi”, un fenomeno di fatto spersonalizzante, incapace di creare alcun tipo di rapporto con la città e con il suo tessuto umano, sociale ed anche economico, molto distante dalla tradizione riminese fatta di frequenti e intense relazioni umane.

In questo quadro, può inserirsi anche una riflessione sulla recente sempre più diffusa trasformazione degli al-berghi Residence, che ospitano un movimento sempre me-no legato a motivazioni di tipo turistico e rischiando di di-ventare talora zone franche di “rifugio” per malavitosi, persone nei guai con la legge, fenomeni di marginalità connessi con la presenza di clandestini irregolari e di pro-stituzione.

Il confronto storico con i modelli che hanno caratteriz-zato negli anni passati il grande sviluppo del settore turi-stico a Rimini mostra molto chiaramente come questo sia sempre stato strettamente legato all’elaborazione cultura-le e sociale che la città ha saputo produrre nelle diverse epoche. Allo stesso modo la definizione di nuovi prodotti turistici è sempre stata il frutto di esperienze maturate all’interno del contesto urbano. Il turismo, infatti, attinge al patrimonio della cultura dell’accoglienza di un territo-rio e lo alimenta, fa leva sulla capacità di sviluppare rela-zioni interpersonali e servizi di qualità, di innovare e in-sieme conservare la propria identità e la propria autenti-cità. Le strategie che un territorio deve mettere in atto a questo scopo richiedono un investimento virtuoso, teso

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soprattutto alla qualità e sostenibilità ambientali, alla co-esione sociale, alla visione fiduciosa del futuro. Occorre quindi tradurre in strategie turistiche la cultura della sostenibilità, trasformando il modello di sviluppo, per ritrovare una nuova e gratificante dimensione delle rela-zioni interpersonali, del tempo e dello spazio. Il turismo oggi non può più essere solo un’attività economica, ma de-ve caratterizzarsi come “industria delle relazioni”: con l’ospite, con il territorio, con la comunità civile ed econo-mica, con gli altri operatori, con gli enti pubblici. Deve di-ventare il turismo del ben-essere. Tutto questo richiede di saper utilizzare al meglio le competenze e le capacità di innovare dei giovani che hanno scelto di impegnarsi nel settore.

2.5. Povertà e nuove emarginazioni

Uno sguardo complessivo al fenomeno turistico ci sol-lecita a considerare lo specifico punto di vista di coloro che prestano il loro servizio in questo settore, ai tanti lavora-tori stagionali che con la loro opera garantiscono il fun-zionamento di questo complesso comparto. Nonostante le condizioni siano migliorate rispetto ai decenni trascorsi, permangono tuttavia ancora condizioni di marginalità e in alcuni casi di lavoro “nero” non regolamentato, oppu-re di pressione oraria e violazione dei diritti del lavorato-re. All’interno della produzione economica generata dall’industria del turismo, è fondamentale non perdere di vista la rilevanza del fattore umano e garantire condizioni di lavoro e di vita dignitose e rispettose della persona.

Uno sguardo attento allo sviluppo economico derivante dal settore turistico, posto in relazione con la condizione sociale, non può trascurare l’espandersi dell’evasione fi-scale, che ha raggiunto nel nostro territorio livelli davve-

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ro preoccupanti. Si tratta di un fenomeno tanto più grave quanto generalmente trascurato nelle sue reali dimensio-ni e ancor più nelle sue gravi implicazioni sociali, giuridi-che e soprattutto morali.

Riguardo poi alle nuove povertà e alle diverse forme di emarginazione i dati recenti dell’Osservatorio Caritas mo-strano una situazione in costante peggioramento che ri-guarda non soltanto le fasce sociali tradizionalmente più esposte e più deboli (anziani soli, tossicodipendenti, gio-vani senza lavoro, immigrati ecc.), ma anche molte fami-glie colpite dalla disoccupazione e da emergenze abitative. 3. Proposte e prospettive 3.1. Ripartire dalla propria identità e memoria

L’attenzione ai rapidi mutamenti del presente mai de-ve condurci alla perdita delle radici. Senza memoria non c’è cultura, né identità, né radici. Questo ha un immedia-to riflesso non solo sulla necessaria valorizzazione del pa-trimonio storico, artistico, culturale di un territorio, ma anche sulla costruzione della propria identità perso-nale e comunitaria, sulla relazione tra le diverse culture, sul costruttivo rapporto tra identità e alterità. La sfida culturale si fa educativa, per evitare che la perdita della memoria si traduca in “sradicamento”, che è di gran lunga la più pericolosa malattia delle società umane, anche per-ché si moltiplica da sola. Come aveva acutamente percepi-to Simone Weil: «Gli sradicati cadono nell’inerzia dell’a-nima, pari alla morte oppure violentemente sradicano. Chi è sradicato sradica». Qual è la risposta (in termini culturali ed educativi) al dilagare quotidiano di questo problema? Che cosa si sta approntando concretamente sul

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versante dell’educazione alla differenza, al dialogo tra le culture e tra le religioni? Cosa ci si propone sul versante della “convivialità delle differenze”, dell’educa-zione alla prossimità e all’alterità? Una città che pretende di fondarsi sul modello di un turismo ospitale non può e-ludere le implicazioni educative, antropologiche ed etiche di tali questioni, che hanno il loro fondamento nella rela-zione, vale a dire nell’idea di persona, che nel dialogo sco-pre il senso ultimo della carità e non dell’autosufficienza inospitale.

Per una città come Rimini ripensare la propria memoria guardando al presente e al futuro significa an-zitutto riappropriarsi del proprio passato, di un patrimo-nio artistico, culturale, religioso e sociale in gran parte ancora sconosciuto, trascurato e purtroppo distrutto (non soltanto dai bombardamenti). Come pure ricostruire fi-nalmente “luoghi-simbolo” dell’incontro tra cultura e città (non solo il Teatro, ma anche luoghi storici in grado di ac-cogliere altre forme espressive: l’arte, la musica, la poesia, il cinema).

Parallelamente andrebbero recuperate l’originaria i-dentità e vocazione adriatica della città, favorite sia dalla collocazione geografica che dalla sua storia passata, la sua naturale apertura verso la civiltà dell’Oriente bi-zantino e slavo dal quale sono giunti i primi santi e testi-moni della cultura e della fede, dal quale ha tratto ali-mento la pittura della grande “Scuola Riminese del Tre-cento”, come pure altre forme del pensiero e dell’arte. Non si tratta di un recupero soltanto “archeologico”, ma di una memoria viva che potrebbe animare nuove prospettive di conoscenza e di sviluppo. Sarebbe qui necessario ripensa-re il rapporto tra beni culturali, conoscenza, Università e territorio, anche per esplorare nuove forme di valorizza-

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zione di Rimini come città europea della cultura, ri-volgendo una particolare attenzione al mondo slavo e alla Russia. La crescente presenza di questo mondo oggi è considerata all’interno di un calcolo meramente commer-ciale o come opportunità assistenziale, ma la cultura dell’Europa Orientale è gravemente ignorata e non esi-stono ancora istituzioni in grado di favorire la conoscenza e creare fecondi scambi culturali.

Se si considera di fondamentale importanza puntare su una città che valorizzi e “produca” relazioni fra le persone a tutti i livelli, occorre incentivare il più possibile i beni relazionali, intendendo per “beni relazionali” l’ambito familiare, affettivo e civile della partecipazione alla vita sociale, al volontariato e alla politica della pro-pria comunità, ma anche le relazioni e i rapporti di amici-zia tra i popoli e le culture.

3.2. Ripensare nuovi modelli turistici

Come già abbiamo evidenziato, nell’ultimo decennio anche Rimini, come peraltro quasi tutte le coste del Medi-terraneo, ha incontrato una seria difficoltà a conservare le proprie quote di mercato, che si sono via via erose. Una delle principali ragioni di questa situazione sta sicura-mente in un serio problema di maturità del prodotto turi-stico riminese, in particolare proprio quello balneare, che si trova di fronte all’esigenza di elaborare un progetto di riposizionamento competitivo, in grado di rilanciare la vocazione turistica della città.

Non è peraltro la prima volta che Rimini si confronta con il problema di un necessario processo di innovazione di prodotto e di sistema, tanto che nel passato si è già “inven-tata” diverse tipologie di prodotti turistici: si è passati dal

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turismo balneare d’élite (di fine ’800 fino alla prima guerra mondiale), al prodotto balneare di massa (sviluppatosi tra le due guerre mondiali e cresciuto esponenzialmente nel secondo dopoguerra, fino a tutti gli anni ’60), al modello del cosiddetto “divertimentificio” (sorto dopo la prima crisi del turismo balneare, in particolare a cavallo degli anni ’70 e ’80) fino al recente sviluppo e crescita del turismo d’affari o turismo fieristico-congressuale (il cui sviluppo sostanziale risale in particolare agli anni ’90).

Una scelta strategica per il futuro del turismo rimine-se può essere quella di puntare sull’innovazione del tu-rismo balneare, fermo restando che la spiaggia organizza-ta rimane la risorsa strategica fondamentale e, insieme, di insistere sulla diversificazione dei prodotti turistici a partire dal turismo fieristico-congressuale, per poi propor-re anche turismo relazionale, culturale, religioso, del “ben-essere” psico-fisico e della salute (turismo termale), turismo dell’entroterra, eno-gastronomico, teso alla risco-perta dei prodotti tipici, ma anche del ricco patrimonio paesaggistico storico-artistico e religioso.

Ma deve essere un turismo a forte base relazionale e culturale, focalizzato cioè sulla capacità di accoglienza e su eventi che puntino non tanto all’immagine (vedi Not-te Rosa e Capodanno) ma ai contenuti, alla cultura, alle relazioni. Si tratta quindi di mettere al centro della pro-posta turistica la qualità di esperienze a carattere rela-zionale, aggregativo e culturale (ad es. mostre, esposizio-ni, visite guidate, convegni, conferenze ecc.), con una pro-grammazione che non sia limitata al solo periodo estivo. Questa potrebbe essere la frontiera innovativa, il nuovo prodotto attorno al quale costruire un diverso flusso di tu-risti, valorizzando tra l’altro le diverse stagioni dell’anno. Incoraggianti tentativi sono stati messi in atto mediante

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la promozione e l’allestimento di importanti mostre di ri-levanza internazionale (spesso inaugurate in occasione del Meeting dell’Amicizia), ma ancora limitata è la valo-rizzazione delle risorse artistiche e culturali presenti sul territorio. Per animare questo progetto è fondamentale sostenere un programma di riqualificazione e ristrut-turazione dell’offerta ricettiva, costituita in gran par-te da alberghi obsoleti in quanto costruiti nel primo e nel secondo dopoguerra, per ammodernarla e per adeguarla al livello qualitativo richiesto in particolare dal turismo fieristico-congressuale. È di fondamentale importanza, in-fine, portare a termine il piano di realizzazione delle grandi opere infrastrutturali, iniziato da ormai più di un decennio ma non ancora concluso: si pensi in partico-lare al piano spiaggia – la cui riqualificazione non è certo soltanto un problema di tipo urbanistico, bensì di recupe-ro della qualità e della fruibilità della stessa, compresa l’ipotesi di riapertura serale –, un piano di riqualificazio-ne che escluda l’ennesimo ricorso alla cementificazione, come ipotizzata anche da alcuni progetti recenti, a favore piuttosto del recupero di aree verdi e della salvaguardia ambientale. Vi è poi l’urgenza del recupero e riqualifica-zione delle ex-colonie, della ricostruzione del palazzo dei congressi, della metropolitana di costa e più in generale di farsi carico delle principali problematiche ancora esistenti in tema di mobilità e sistema dei trasporti (fondamentale per garantire una buona vivibilità quotidiana anche ai re-sidenti).

Per fare questo è necessaria una nuova modalità di ge-stione e organizzazione che abbia come raggio d’azione e di interesse tutta la riviera romagnola: occorre tener con-to del “distretto turistico” nel suo complesso in un’ottica sistemica, puntando sulla realizzazione anche a Rimini

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del Sistema Turistico Locale, un apposito organismo di coordinamento pubblico-privato previsto dalla nuova leg-ge-quadro sul turismo. In tal modo si potrebbe portare avanti una gestione del territorio sinergica, sistemica, in-tegrata tra i diversi prodotti turistici offerti, ma anche tra i diversi attori protagonisti (le imprese, i turisti e i resi-denti, con le rispettive diverse esigenze), che sappia valo-rizzare la tradizionale vitalità della comunità locale.

Servono precise strategie tese a creare un più vivo e vir-tuoso intreccio di relazioni con la città, a partire dal coinvol-gimento delle diverse realtà culturali presenti, dalla propo-sta di itinerari artistici, museali e monumentali, quali la Rimini romana, la Scuola Riminese del Trecento, il Tempio Malatestiano e i castelli dell’entroterra, ma soprattutto l’e-norme patrimonio di arte sacra disseminato su tutto il terri-torio della Provincia. In questa prospettiva si è mossa, a partire dai primi anni Novanta, la Fondazione Cassa di Ri-sparmio di Rimini, che ha operato la scelta strategica della promozione dell’identità culturale della città con il restauro e il recupero di importanti monumenti e opere d’arte.

La scelta di puntare al turismo relazionale valorizze-rebbe, tra l’altro, uno dei punti di forza del nostro territo-rio, ossia la tradizionale capacità di accoglienza, recupe-rando un più positivo rapporto tra turisti e residenti e rea-lizzando una dimensione dell’ospitalità e dell’accoglienza più ampia e di qualità, attenta non solo alla quantità di beni e servizi offerti, ma soprattutto al bene della persona.

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3.3. Università, ricerca e formazione Un altro importante punto di forza è costituito dalla

presenza del Polo universitario collegato all’Università di Bologna. Il ruolo dell’Università è infatti cruciale per ge-nerare “sapere diffuso”, puntando sulla ricerca e la forma-zione di capitale umano. L’Università è quindi un’oc-casione irripetibile per trasformare il modello turistico da spontaneistico a programmato, puntando a fare di Rimini la capitale della ricerca e dello studio in ambito turistico, un potenziale punto di riferimento per tutto il bacino del Mediterraneo.

Nonostante l’avvio di recenti iniziative, molto resta ancora da costruire e potenziare anche per raggiungere alcuni obiettivi fondamentali. Primo tra tutti il consoli-damento e lo sviluppo del Polo accademico col rafforza-mento delle tre macroaree ritenute più rispondenti alle esigenze occupazionali del territorio (Turismo, Benessere, Moda), ma anche con la possibilità di attivare la ricerca su altri ambiti, rivolti in particolare alle scienze della formazione e dell’educazione. Il secondo obiettivo è far di-ventare il Polo di Rimini un punto di riferimento del ver-sante Adriatico e del Mediterraneo nell’ambito della ricer-ca scientifica e applicata, connessa soprattutto al turismo e al sistema economico e sociale. Da ultimo l’Università deve diventare un reale e costante fermento culturale del-la città, in grado di animare e valorizzare le diverse cono-scenze e le nuove frontiere del sapere, tenendo conto delle risorse presenti e investendo soprattutto sul “capitale umano” quale risorsa fondamentale per lo sviluppo (cul-turale, sociale ed economico) del nostro territorio.

Per il raggiungimento di questi obiettivi è necessario riservare a questo settore una maggiore considerazione in termini di strategie decisionali e politiche, con la creazio-

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ne di una rete di intese e collaborazioni scientifiche, ma anche con investimenti a medio e lungo termine.

La Diocesi, per parte sua, ha incoraggiato e sostenuto con impegno e slancio l’avvio e lo sviluppo dell’Università a Rimini, contribuendo significativamente all’accoglienza e all’ospitalità degli studenti, ma anche all’avvio di propo-ste e esperienze formative e scientifiche di particolare ri-lievo quali il Master in Economia ed etica del turismo, purtroppo al momento sospeso dopo tre anni di positiva attività.

Turismo, ambiente, culture locali devono integrarsi a vicenda per valorizzare al massimo le loro potenzialità; a tale fine occorrono un più vigoroso investimento educativo e formativo ed una costante attenzione ad armonizzare le esigenze di modernizzazione dello sviluppo e dell’econo-mia, con le ineludibili istanze di umanità, solidarietà, ci-viltà e memoria; ciò, non solo per un vantaggio immediato e di breve respiro, ma soprattutto come forma di investi-mento e rispetto per le generazioni future. L’obiettivo cui tendere è il superamento, da parte dell’Università, di una certa auto-referenzialità e, da parte delle istituzioni e del-la città, dell’accentuato indifferentismo nei confronti di tale risorsa fondamentale.

3.4. Cultura della sussidiarietà, famiglia e lavoro

Occorre pensare ad interventi sul territorio finalizzati al potenziamento e al completamento delle infrastrut-ture esistenti mediante azioni tese a migliorare il servizio pubblico, rendendolo più efficace, capace di “captare” inte-resse, nell’ottica di un miglioramento della qualità della vita, delle condizioni ambientali, della fruibilità e dell’uti-lizzo degli spazi pubblici: si pensi ad esempio al poten-

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ziamento, valorizzazione e diversificazione dei servizi maggiormente legati alle esigenze quotidiane (trasporti, scuole per l’infanzia, servizi alle persone non autosuffi-cienti ecc.). Occorre garantire tutele fondamentali – in particolare ai soggetti più a rischio di emarginazione –, che vengano riconosciute e monitorate dall’intera comuni-tà intesa come società civile. Questo può avvenire verifi-cando l’efficienza del servizi dedicati, la loro efficacia nei termini di una concreta e coerente risposta ai bisogni, l’accessibilità da parte dei soggetti fruitori senza alcuna esclusione. Si pone allora la necessità di costituire o implementare delle “reti” (network) al fine di ottimizzare l’impiego di risorse, evitando gli sprechi e favorendo sempre di più il diffondersi di una cultura della sussidiarietà. Si tratta di consolidare un principio di costruzione politica median-te un nuovo protagonismo della società civile, dando spa-zio a un grande ambito pubblico dotato di una sua pecu-liare fisionomia. Come già accennato inizialmente, ciò che qualifica la nuova concezione del civile è il valore antro-pologico della relazione. La relazione tra soggetti è co-stitutiva del bene e l’identità dei soggetti coinvolti, le loro motivazioni, sono parte integrante del bene prodotto. Non è quindi ragionevole una visione meramente strumentale dell’azione economica; mentre è ragionevole pensare ad una sempre maggiore “civilizzazione dell’economia”, come agire economico ispirato ad un’etica della solidarietà e del rafforzamento dei legami sociali. La svolta verso una cul-tura della sussidiarietà implica anche un’economia che concepisca il mercato come luogo in cui si vive e si raffor-za il vincolo sociale e in cui le relazioni sono riconosciute come valore e fonte di valore per se stesse.

In questa prospettiva vanno allora ripensate anche le

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politiche sociali ed economiche, vanno promosse adeguate politiche per la “casa a misura di cittadino”, a favore di famiglie a basso reddito e con figli; a sostegno degli an-ziani (assistenza domiciliare, spazi aggregativi, cura di patologie degenerative ecc.); di sviluppo delle competenze al servizio dei più deboli (bambini, anziani, indigenti, por-tatori di handicap ecc.) per valorizzarne le capacità e compensare gli svantaggi.

Una particolare rilevanza viene qui ad assumere la famiglia nella sua portata culturale ed educativa, ma con-temporaneamente sociale e politica. La famiglia è il cuo-re della nostra identità e il cammino educativo ha qui la sua fonte e il suo obiettivo: quello di renderci compiuta-mente persone, quello di sviluppare e far fiorire il nostro essere frutto di una relazione generativa. La famiglia, che vive di cose concrete, produce, insieme e attraverso di es-se, un bene immateriale, e cioè il legame e la relazione umanizzante. Il dono della famiglia alla vita sociale è uni-co, soprattutto per questa sua vocazione di generare u-manizzando, di personalizzare, di donare ad ognuno il senso della propria unicità e irripetibilità entro un’appar-tenenza significativa. Pertanto la famiglia è il primo luogo di cui il sociale si deve pre-occupare, il luogo da mettere al centro, di cui prendersi cura. Per molteplici ragioni, pro-prio in questo particolare momento storico di crisi della famiglia, avvertiamo l’urgenza non più eludibili di mette-re in atto, a partire dal nostro territorio, serie e valide politiche familiari, in grado di sostenerle sussidiaria-mente, valorizzando i soggetti sociali che agiscono nella prospettiva di rendere possibile l’impresa educativa.

Il lavoro deve essere riconosciuto da tutti come possibi-lità e risorsa, un valore e non solo uno strumento finaliz-zato all’ottenimento di garanzia economica; in questo sen-

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so assume un ruolo fondamentale la formazione di una cultura del lavoro, che è in particolare compito dell’Ente Locale promuovere con iniziative e azioni adeguate.

In questa prospettiva meritano attenzione il tema del-la sicurezza nei luoghi di lavoro e quello della qualità del lavoro, in un’ottica di salvaguardia dell’uomo e della sua vita e della valorizzazione della sue capacità; come pure lo sviluppo delle azioni volte all’inserimento lavorativo in particolare di soggetti vulnerabili o a rischio di marginali-tà sociale.

Si tratta di aprire una stagione culturale che metta a tema il senso del lavoro con iniziative e proposte capaci di orientare il dinamismo dell’industria edilizia, delle sue tradizionali filiere, della progettazione, delle risorse del territorio. Difficile da capire, per esempio, come un’im-portante area come quella cantieristica, storicamente le-gata alla marineria riminese, sia stata nel corso degli an-ni abbandonata a se stessa e lasciata soffocare dall’ inso-stenibile sviluppo residenziale che sta connotando la zona della sinistra del porto.

Tutto questo all’interno di una precisa strategia di svi-luppo “sostenibile”, garantendo una solida rete istituzio-nale e sociale, in grado di tenere insieme i diversi livelli, da quelli europei a quelli comunali e locali.

3.5. Ripensare il governo della città

Il Forum del Piano Strategico ha messo in evidenza una presenza diffusa di soggetti singoli ed associati che hanno a cuore la città e possiedono le capacità di analisi e sintesi per proposte innovative. Questo fermento di pen-siero e proposte ha evidenziato l’urgenza di un nuovo “si-stema di governo”; è infatti incoerente pensare ad una

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“nuova città” senza pensare a dei nuovi cittadini che si assumano la responsabilità di guidarne lo sviluppo. Si a-pre dunque la questione di come conciliare questi diversi aspetti della medesima questione: la “governance” della città e del Piano Strategico da qui al 2027.

Il primo referente istituzionale è, evidentemente, la Provincia. È necessario che Rimini diventi il centro della Provincia, che nel 2027 sarà molto più estesa di quella at-tuale: dallo spartiacque del Monte Carpegna al mare lun-go tutta la valle del Marecchia e forse quella del Conca. Va quindi ripensata l’intera provincia con una rete di col-legamenti tra costa ed entroterra completamente nuova.

Chiaramente non è sufficiente affrontare solo la que-stione infrastrutturale per realizzare una nuova provincia; serve necessariamente, nel quadro istituzionale attuale, che la provincia non sia un “supercomune”, replicando le iniziative dei singoli comuni o, addirittura, usurpandone le funzioni, e cominci ad essere il soggetto titolare del co-ordinamento dei servizi in “area vasta”; curando menole iniziative promozionali provinciali e impegnando risorse nel coordinamento dei comuni, dell’Az. USL., dei servizi statali sul territorio e degli interventi della Regione.

In quest’ottica segnaliamo, oltre al già citato problema dei collegamenti, il problema dell’anomalia tutta riminese dei servizi sociali comunali delegati all’Az. USL con due piani di zona: uno per il distretto sud e l’altro per quello nord; come pure il problema del trasporto pubblico locale. Entrambe le emergenze andrebbero esaminate nella pro-spettiva di allargamento ad ovest della provincia.

Tra coloro che hanno un minimo di esperienza con questioni istituzionali e amministrative sorge spontanea una domanda: chi approverà il Piano Strategico? È chiaro che spetterà al Consiglio Comunale di Rimini, il secon-

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do referente istituzionale. Ma il Consiglio Comunale sembra avere quasi comple-

tamente perso la sua funzione di ambito propositivo, di luogo ove si decidono “gli indirizzi” e i “piani di ampio re-spiro”, per diventare sempre più spesso luogo di dispute ideologiche o, peggio ancora, luogo di ratifica di scelte fat-te in contesti extra istituzionali. Anche per questo ci au-guriamo vivamente che alcuni dei temi caratterizzanti che il Forum sta dibattendo già da mesi vengano messi all’ordine del giorno delle prossime sedute del Consiglio.

Allo stesso modo i Consigli di quartiere, gli altri re-ferenti istituzionali, sono diventati il luogo dove vengono ratificate le scelte urbanistiche (forse sarebbe meglio dire “di edilizia privata”), già decise e deliberate in altri ambiti e hanno perso la loro funzione di assemblee locali nelle quali affrontare le specifiche problematiche inerenti il territorio.

La potestà statutaria comunale dovrebbe essere utiliz-zata per creare un nuovo modello di quartiere che raccol-ga le urgenze e le peculiarità dei vari territori per portar-le nel luogo della “sintesi”, cioè nell’ambito dell’ammini-strazione comunale. Non serve a nessuno un quartiere svuotato di prerogative, che non sappia ascoltare le istan-ze della popolazione. Solo a titolo d’esempio, si potrebbe proporre che un addetto al sistema manutentivo cittadino fosse presente, almeno un giorno alla settimana, in ogni quartiere per raccogliere le segnalazioni del degrado ur-bano e che avesse quel minimo di autonomia da poter provvedere immediatamente alle questioni più semplici ed urgenti.

Invece la tendenza è quella dei “global service” (con i “call center” che spesso hanno sede a Bologna), che deci-dono gli interventi sul territorio senza neppure prean-

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nunciarli al Presidente di quartiere o al Consiglio. Come si può pensare ad una Rimini più accogliente e attrattiva, sostenibile e innovativa, aperta alle prospettive interna-zionali e nel contempo in grado di offrire servizi efficienti se l’istituzione più vicina al cittadino e al territorio viene tagliata fuori dal percorso decisionale?

3.6. Il sistema produttivo

Puntare sulle “imprese innovative e di qualità” signifi-ca innanzitutto incentivare e sviluppare imprese che sap-piano mettere al centro, interpretare e rispondere ai biso-gni delle persone nell’attuale contesto culturale, economi-co e sociale con creatività e capacità di visione strategica del futuro. Significa inoltre anche combattere e abbando-nare la cultura – o la politica – della rendita di tipo finan-ziario (speculazione finanziaria), immobiliare (specula-zione immobiliare), di posizione (corporativa) e fiscale (e-vasione e lavoro nero), che troppo spesso ha caratterizzato il nostro territorio e che ostacola il processo di innovazio-ne, per tornare invece ad un’economia reale e produttiva, basata sulle dinamiche della produzione, del reddito e dell’occupazione. Tutto questo implica, anche da parte dei cittadini e delle imprese, riscoprire la capacità di mettersi in gioco, di accettare la sfida della concorrenza, di rifiuta-re un atteggiamento di sola difesa delle proprie prerogati-ve o del proprio ruolo passato o anche un atteggiamento apatico, rassegnato oppure di semplice godimento della rendita esistente “fin che dura”.

Una volta definita l’identità della città, il sistema di governo e gli obiettivi di sviluppo che ci si pone, i progetti e le politiche che ne conseguono, devono essere il punto di riferimento e il criterio guida di tutte le successive scelte di governo del territorio, tra cui soprattutto quelle relati-

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ve allo sviluppo economico e urbanistico. Queste sono la naturale conseguenza delle decisioni politiche adottate con il coinvolgimento di tutti gli attori della rete sociale (tramite il metodo del c.d. “bottom-up”). In altri termini, sono l’economia e l’urbanistica che devono adattarsi alle scelte politiche e svilupparsi di conseguenza, non vicever-sa.

L’economia riminese, pur profondamente dominata dal settore turistico, si caratterizza anche per l’esistenza di altri “poli industriali”, che costituiscono l’ossatura di un vero e proprio sistema produttivo, che vede alcune grandi e molte piccole e medie imprese operare nei settori del manifatturiero e del terziario avanzato. Ci si riferisce alle numerose realtà operanti nei settori della metalmeccani-ca, dell’editoria, della moda, del legno e della marineria. Queste realtà produttive, sebbene duramente provate dal-la crisi finanziaria in atto, costituiscono importanti risor-se per il territorio. Per questo dinamismo e innovazione devono riguardare anche il comparto dell’economia non turistica. In particolare, un passo non più procrastinabile è quello della creazione dei distretti industriali o arti-gianali a livello sovra-comunale (provinciale o inter-provinciale); sull’esempio dell’Area Vasta Romagna in sa-nità, si tratta di creare e rafforzare i collegamenti tra le imprese dello stesso settore per sfruttare le economie di scala e creare sinergie, e per condividere servizi, infra-strutture e reti viarie.

Data la dimensione delle imprese del riminese, preva-lentemente piccola e media, la chiave di volta che può consentirne un aumento della competitività nell’attuale contesto di un’economia sempre più globalizzata è legata da un lato alla capacità delle istituzioni di procedere ad una programmazione e gestione integrata degli insedia-

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menti, dall’altro alla capacità delle stesse imprese di fare “rete”, allo scopo di rafforzarsi vicendevolmente, svilup-pando la loro attitudine alla “connessione” per costituire un “nodo” di una rete estesa al mondo intero.

Creare nuovi distretti industriali significa mettere a di-sposizione delle imprese in crescita luoghi e aree dove po-ter stabilire o allargare gli insediamenti produttivi, ma an-che garantire nuovi servizi e nuove infrastrutture che ne consentano lo sviluppo (come reti telefoniche e digitali che facciano di Rimini una città cablata pronta agli sviluppi fu-turi portati dalla tecnologia info-telematica), oltre che ri-solvere i problemi di mobilità e di accessibilità che anco-ra oggi affliggono numerose zone del territorio riminese (reti viarie, raccordi, snodi). Ciò significa programmare l’uso del territorio e dell’urbanistica avendo sempre come obiettivo ultimo il bene comune e lo sviluppo socio-economico, quindi combattere la speculazione e l’uso inte-ressato del territorio, creando zone a “misura d’uomo”, do-tate di adeguati spazi verdi e di aggregazione sociale, par-cheggi, piste ciclabili e garantire una scorrevole viabilità.

Solo così l’economia turistica e l’economia non-turistica potranno convivere e interagire come parti di un unico “sistema”, senza sottrarsi risorse a vicenda, ma rappre-sentando l’una il volano di sviluppo per l’altra.

3.7. Il terzo settore

Con questo termine (peraltro controverso) intendiamo riferirci anzitutto alla “terza gamba della società”, essen-do la prima il sistema istituzionale, la seconda il sistema produttivo classico. Nel terzo settore si colloca la vasta area della cooperazione, specie quella sociale, come pure il mondo dell’associazionismo e del volontariato.

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Il grande valore della cooperazione è riconosciuto nella capacità di incontrare i bisogni dei cittadini, e nella capacità di impiegare quei soggetti che non trovano spazio nel mondo tradizionale della produzione, ma si sta scon-trando, in questi ultimi tempi, da una parte con una crisi di crescita (la nostra regione e la nostra provincia sono sede di cooperative in grado di gestire appalti internazio-nali), dall’altra con una crisi di identità, dovuta al supe-ramento dei tradizionali meccanismi di aggregazione, fi-nora incentrati sull’appartenenza politica, ora timida-mente diretti verso una concentrazione per uniformità produttiva.

Per uscire dalla crisi si deve puntare sulla formazione, specie dei quadri dirigenziali, perché diventino capaci di farsi promotori di servizi innovativi e non essere più solo esecutori di servizi pensati da altri e devoluti alla coope-rative nella sola ottica del risparmio. In questo contesto è necessario che, specie nella gestione dei servizi pubblici o a domanda individuale, venga superato il meccanismo del subappalto per addivenire al pieno riconoscimento, da parte della Pubblica Amministrazione, del delle coopera-tive come interlocutrici dirette.

L’associazionismo riesce a raccogliere gruppi di per-sone, omogenei per interessi o identità e consente la crea-zione di una società viva e dinamica. Si è rilevato fonda-mentale sia per il mondo produttivo – si pensi ai sindacati e alle organizzazioni di categoria – sia sul versante educa-tivo: grazie alle associazioni sono gestiti, quasi a costo zero per la Pubblica Amministrazione, il settore dello sport (di-lettantistico e ricreativo), quello culturale e ricreativo…

In una visione strategica di una nuova città, eviden-temente, non è possibile farne a meno, ma questo implica la necessità di valorizzarlo, rendendolo realmente prota-

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gonista delle scelte culturali e sociali. Un assessorato all’ambiente, per fare solo un esempio, non può non rap-portarsi con le associazioni ambientaliste per creare una rete di controllo diffuso del territorio, ma anche di servizio e di proposta.

Una più intelligente valorizzazione merita anche il mondo del volontariato, nel quale opera un grande nu-mero di educatori giovanili, di promotori di eventi cultu-rali, di gestori dell’assistenza. Si pensi alla protezione ci-vile, che, di fianco ad operatori professionali, schiera vo-lontari che vanno in ferie dal proprio lavoro per fare le e-sercitazioni o per correre in aiuto alle popolazioni terre-motate, alluvionate o disastrate.

In un piano regolatore classico non avrebbero spazi di intervento, ma in un piano strategico sarebbe un grave errore non ricorrere alla loro “sapienza operativa”. Siamo consapevoli, però, che, per essere all’altezza del loro com-pito, sia l’associazionismo che il volontariato dovranno do-tarsi di una governance nuova, per superare il pressappo-chismo troppo spesso palesato, e puntare sulla formazione dei responsabili. Nei tempi lunghi si rivelerà una risorsa fondamentale, perché un volontariato formato, capace di intercettare le opportunità che provengono anche dall’U-nione Europea, non può che diventare fucina di una nuo-va classe dirigente.

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Osservazioni conclusive Il Piano Strategico può rappresentare un punto di

svolta di fondamentale importanza nel sistema di governo e gestione della città e si auspica diventi la prassi anche per il futuro, essendo basato sull’azione sinergica e sul rapporto di tipo multipolare e circolare fra tutti gli attori coinvolti, pubblici, privati, sociali, economici e culturali. Così impostato, esso consente di valorizzare una capacità nuova di guardare la realtà, oltre gli schemi ideologici e le proiezioni visionarie, e di prendere atto e superare la de-bolezza degli strumenti urbanistici tradizionali, facendo leva sulla sussidiarietà orizzontale e sul coinvolgimen-to della società civile. Introduce inoltre un fondamentale elemento di trasparenza nella definizione delle linee stra-tegiche di sviluppo futuro, che mira alla massima condivi-sione possibile tra gli attori istituzionali, sociali, economi-ci e culturali del territorio.

Un’attenta valutazione delle prospettive messe in campo con l’avvio del Piano Strategico, colto non soltanto nelle sue implicazioni economiche, ma anche sociali, cul-turali e spirituali, ci porta a riconsiderare la priorità di alcune questioni che devono stare alla base di un modello di città centrato sul valore della persona e la qualità delle relazioni personali e istituzionali.

Occorre puntare, in primo luogo, alla concreta realizza-zione del bene comune nella vita della città e alla effettiva comune destinazione universale dei beni, affinché si creino le condizioni che permettano la piena realizzazione della persona. Questo significa anche «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i

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lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (Costituzione, Art. 3, comma II).

Non dimentichiamo che il bene comune è il bene dello stesso essere in comune. La politica nasce e ha un senso anzitutto quando si assume il “bene relazionale” di cui si è parte, come “bene comune”. La relazione è alla base dell’identità umana personale e comunitaria. La soggetti-vità civile esiste, infatti, là dove si ha coscienza che la re-lazione tra soggetti è risorsa. Ciò che è innovativo, dun-que, è porre al centro un soggetto relazionale quale prin-cipio di una socialità intesa come relazione comunicativa, come partecipazione dei soggetti tra loro.

È necessario, di conseguenza, investire sulla cultura quale tratto qualificante della costruzione dell’identità e della memoria della città, ma anche di accrescimento del-la propria umanità e di attaccamento al proprio ethos. Questo significa investire in settori strategici quali l’edu-cazione, la formazione, la conoscenza, l’innovazione, la mediazione interculturale.

In particolare, l’attenzione più volte richiamata dai cattolici sull’attuale “emergenza educativa” nasce dalla presa di coscienza che la posta in gioco riguarda, in ulti-ma istanza, il senso stesso che attribuiamo all’uomo e alla nostra civiltà. Anche per questo riteniamo fondamentale e primario, a partire dalla stessa comunità cristiana, inve-stire sull’educazione le energie migliori. È tempo per im-pegnarsi a promuovere nuove alleanze – a partire dalla famiglia – per l’educazione a servizio della crescita delle nuove generazioni. Occorre rilanciare e dare concretezza culturale e politica ad un progetto educativo che ripro-ponga l’esigenza di una visione globale e integrale dell’educazione, aggiornandone i tratti alle caratteristiche della cultura del nostro tempo.

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Tenendo conto della storia della nostra città, siamo i-nostre chiamati a valorizzare nel modo migliore una au-tentica cultura dell’ospitalità e dell’accoglienza capa-ce di coinvolgere non soltanto coloro che già operano nel settore turistico, ma anche tutti coloro che intendono met-tersi al servizio per la costruzione quotidiana di un auten-tico umanesimo integrale e solidale. Ciò implica il rispetto dell’ospite, delle altre culture, ma anche l’apertura al dia-logo e all’ ascolto, costruttivo superamento di ogni forma di discriminazione etnica, culturale e religiosa. Tale com-pito di apertura all'altro e di convivialità delle differenze trova il suo presupposto nella tradizionale vocazione al-l'accoglienza della nostra gente.

L’investimento culturale deve avvenire a partire dal versante della solidarietà soprattutto nei confronti delle persone più svantaggiate e dei disabili, ai quali vanno ri-conosciuti pari diritti nella fruizione delle risorse della città. Connesso a questo impegno di solidarietà che si e-stende anche verso gli immigrati, si richiede il rispetto della legalità e delle comuni regole di convivenza civile.

Nel perseguire questi obiettivi vanno valorizzate le ri-sorse umane esistenti. Questo esige una diversa conside-razione ed un permanente sostegno a tutte le realtà che già operano sul territorio nell’ambito del disagio giovani-le, dell’emarginazione, della devianza, delle nuove forme di povertà, della difesa dell’ambiente.

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Progetto Culturale della Conferenza Episcopale Ita-liana), Laterza, Roma-Bari 2009.

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CONSIGLIO PASTORALE DIOCESANO (della Diocesi di Ri-mini), “… E mi sarete testimoni”. La Chiesa riminese di fronte alle sfide attuali, Il Ponte, Rimini 2009.

DIOCESI DI RIMINI, Dare un’anima al turismo. Economia, etica e cultura dell’ospitalità a Rimini (Contributo al Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona), Il Ponte, Rimini 2006.

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V. NEGRI ZAMAGNI, M. MUSSONI, G. BENZI (a cura di), Per un turismo autenticamente umano, Fara, Rimini 2001.

PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, LEV, Città del Vaticano 2001.

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APPENDICE

FRANCESCO LAMBIASI* Eucaristia: “piano strategico” per una città nuova (Discorso alla Città, al termine della processione eucaristica Solennità del Corpus Domini, Rimini, 22 maggio ’08)

La processione del Corpus Domini – lo sappiamo bene – non appartiene al genere delle parate civili o militari, delle sfilate di propaganda o delle marce di protesta, né rassomiglia a un malinconico corteo commemorativo. È piuttosto una pubblica manifestazione di fede in un even-to già compiuto eppure in corso; è il riconoscimento grato e adorante di un’alleanza ormai siglata una volta per sempre e tuttora in vigore. L’evento è quello della morte e della risurrezione di Cristo; l’alleanza è stata firmata con il suo sangue, ed è e sarà per sempre la “nuova ed eterna alleanza”. Sfilare raccolti e festosi dietro il SS.mo Sacra-mento per le vie della città significa dire forte la nostra fede in una Presenza che si vuole fare prossima ad ogni miseria, intima ad ogni gioia; una Presenza che sostiene ogni slancio di bene, dà forza ad ogni impegno di pace, appaga ogni inesausta ricerca di felicità, acquieta ogni in-sopprimibile sete di verità, di libertà, di fraternità.

Ma c’è un valore aggiunto in questa processione citta-dina che merita di essere evidenziato, e consiste nel signi-ficato sociale dell’Eucaristia. Infatti la Chiesa è persuasa che il Cristo presente nel Sacramento non solo è alimento e sostegno per il cammino del popolo di Dio nella storia, ma può contribuire anche a rinnovare e umanizzare la

* Vescovo di Rimini.

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cultura e la vita sociale. «L’Eucaristia – scriveva Giovanni Paolo II – non fornisce solo la forza interiore, ma anche, in certo senso, il progetto. Essa infatti è un modo di esse-re, che da Gesù passa nel cristiano e, attraverso la sua te-stimonianza, mira a irradiarsi nella società e nella cultu-ra» (Mane nobiscum Domine, 2004, n. 25).

In altre parole, dalla cattedra dell’Eucaristia la comu-nità cristiana impara la grammatica di base dell’incarna-zione e apprende la sintassi del rinnovamento della città, una sintassi che si articola in un “progetto” fondato su tre verbi principali e “reggenti”: condividere, trasformare, u-nire. 1.Condividere

La logica eucaristica dell’incarnazione richiede ai cri-stiani di incarnarsi nella storia. Come Cristo assume la forma, il sapore, il colore, lo spessore del pane e del vino per rendersi presente in mezzo a noi, così i cristiani do-vranno “impastarsi” nella società, immedesimarsi nelle sofferenze e nelle speranze della città, diventandone l’a-nima, senza privilegi e senza discriminazioni, senza calco-li e senza riserve.

Dare un’anima alla città significa testimoniare una fe-de che genera una carità operosa e un impegno sociale che non può e non deve conoscere limiti, come non conosce li-miti di spazio e di tempo la presenza di Cristo nell’Euca-ristia.

C’è da assicurare presenza. L’estraneazione e l’assen-teismo, il rifugio intimistico nel privato, la delega in bian-co non sono leciti a nessuno, ma per i cristiani sono pecca-ti di omissione.

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C’è da garantire coerenza. Nessuno è perfetto, neanche i cristiani, ma i cristiani sanno che condizione imprescin-dibile per una feconda ed efficace azione sociale e politica è l’interiore tensione, nella vita privata come nel servizio pubblico, verso quella misura alta della vita cristiana qual è la santità.

C’è da dimostrare competenza. A nessuno che sia im-pegnato nel servizio della cosa pubblica è consentita su-perficialità o improvvisazione, meno che meno al cristia-no.

Il beato Alberto Marvelli docet: ha testimoniato per la nostra città un impegno sociale e politico, vissuto da cri-stiano con scienza e coscienza, con una trasparenza spec-chiata, con limpida onestà senza compromessi e senza confusioni, con un servizio senza interessi e senza sconti. 2. Trasformare

Nella consacrazione eucaristica si realizza una tra-sformazione misteriosa, ma reale e sostanziale: un pezzo del nostro mondo – un boccone di pane, un sorso di vino – viene trasformato nel corpo e nel sangue del Signore Ge-sù. È l’anticipo di quella trasfigurazione finale quando la terra e il cielo di prima saranno tramutati in cieli nuovi e nuova terra.

I cristiani, i laici in particolare, sono chiamati a tra-sformare in profondità la città dell’uomo in tutti i suoi ambiti: dalla cultura alla politica, dall’economia al lavoro, dalla famiglia alla scuola, dalla sanità al tempo libero. Si tratta di dare alla vita della città la luce di quella ispira-zione più alta e la forza di quella marcia in più che deri-vano dal vangelo per renderla una città abitabile, degna della sua storia, all’altezza della sua vocazione.

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3. Unire Un terzo significato sociale dell’Eucaristia è quello di

unire gli uomini con Dio e tra di loro. Si tratta di un vin-colo più forte di ogni legame naturale: l’amore di Cristo è il cemento più tenace e resistente per la costruzione di una città sicura, serena, aperta. L’Eucaristia non solo u-nisce i cristiani tra di loro, ma alimenta lo spirito di co-munione e di servizio verso tutti.

Una città diversa è possibile. Una città più vivibile per tutti, a cominciare da coloro che sono i più svantaggiati, è realizzabile. Una città che sappia farsi carico in solido del-le piaghe che continuano ad affliggerci – penso in partico-lare alla tratta della prostituzione, al problema della casa, alla insufficiente attenzione al pianeta-giovani, alle loro sofferenze e alle loro risorse. Una città dove si condivido-no angosce e speranze; dove i sogni di umanità piena si trasformino in progetti, i progetti in cantieri, i cantieri in opere concrete e tangibili. Una città fatta da persone dalle mani pulite e unite, sotto un arcobaleno intramontabile di pace e di giustizia.

È chiaro: una strategia del genere non può certo essere il frutto della logica del profitto a tutti i costi, una logica “anti-eucaristica”, perché individualista e disumana che genera egoismo, produce tensioni e divisioni sociali, allar-ga la forbice tra ricchi e poveri.

C’è bisogno, dunque, di Eucaristia. Questa, infatti, fa sì che i cittadini, da estranei gli uni agli altri, da concor-renti gli uni contro gli altri, diventino uguali, solidali e uniti, fino a formare una grande famiglia con un cuore so-lo e un’anima sola, nella ricerca convinta e costante del bene comune.

Non sembra esagerato dire allora che l’Eucaristia rias-sume il meglio del contributo che i cattolici possono dare

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alla elaborazione del “piano strategico” per la costruzione di una città nuova, la Rimini del prossimo futuro.

Che il Signore benedica la nostra città!

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STEFANO ZAMAGNI* Vita economica, solidarietà e bene comune nella Caritas in Veritate (Istituto Regionale di Studi sociali e politici “Alcide De Gaspe-ri”, Bologna, Luglio 2009)

Numerosi e di grande momento gli stimoli per la ri-flessione e le indicazioni per l'azione che promanano dalla Caritas in veritate (CV). Mi limito qui a toccare i punti che reputo di maggiore originalità e rilevanza pratica.

a) Un primo messaggio di rilievo concerne l'invito a superare l'ormai obsoleta dicotomia tra sfera dell'econo-mico e sfera del sociale. La modernità ha lasciato in eredi-tà questo convincimento: che per avere titolo di accesso al club dell'economia sia indispensabile mirare al profitto ed essere animati da intenti esclusivamente autointeressati; quanto a dire che non si è pienamente imprenditori se non si persegue la massimizzazione del profitto. Altri-menti, ci si deve accontentare di far parte dell'ambito del sociale. Questa assurda concettualizzazione – a sua volta figlia di quell'errore teorico che confonde l'economia di mercato che è il genus con una sua particolare species quale è il sistema capitalistico – ha portato ad identificare l'economia con il luogo della produzione della ricchezza (o del reddito) e il sociale con il luogo della solidarietà e/o della compassione.

La Caritas in veritate ci dice, invece, che si può fare impresa anche se si perseguono fini di utilità sociale e si è mossi all'azione da motivazioni di tipo pro-sociale. È que-sto un modo concreto, anche se non l'unico, di colmare il * Docente di Economia presso l’Università di Bologna.

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pericoloso divario tra l'economico e il sociale – pericoloso perché se è vero che un agire economico che non incorpo-rasse al proprio interno la dimensione del sociale non sa-rebbe eticamente accettabile, del pari vero è che un socia-le meramente redistributivo che non facesse i conti col vincolo delle risorse non risulterebbe alla lunga sostenibi-le: prima di poter distribuire occorre, infatti, produrre.

b) Ampliando un istante la prospettiva di discorso, dire mercato significa dire competizione e ciò nel senso che non può esistere il mercato laddove non c'è pratica di competizione (anche se il contrario non è vero). E non v'è chi non veda come la fecondità della competizione stia nel fatto che essa implica la tensione, la quale presuppone la presenza di un altro e la relazione con un altro. Senza tensione non c'è movimento, ma il movimento – ecco il punto – cui la tensione dà luogo può essere anche mortife-ro, generatore di morte. È tale quella forma di competi-zione che si chiama posizionale. Si tratta di una forma re-lativamente nuova di competizione, poco presente nelle epoche precedenti, e particolarmente pericolosa perché tende a distruggere il legame con l'altro. Nella competi-zione posizionale, lo scopo dell'agire economico non è la tensione verso un comune obiettivo – come l'etimo latino "cum-petere" lascerebbe chiaramente intendere – ma l'hobbesiana "mors tua, vita mea". È in ciò la stoltezza della posizionalità, che mentre va a selezionare i migliori facendo vincere chi arriva primo, elimina o neutralizza chi arriva "secondo" nella gara di mercato. È così che il le-game sociale viene ridotto al "cash nexus" e l'attività eco-nomica tende a divenire inumana e dunque ultimamente inefficiente.

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Ebbene, il guadagno, certo non da poco, che la Caritas in veritate ci offre è quello di prendere posizione a favore di quella concezione del mercato, tipica dell'economia civi-le, secondo cui si può vivere l'esperienza della socialità umana all'interno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa o a lato di essa, come suggerisce il modello dicotomico di ordine sociale. È questa una conce-zione che è alternativa, ad un tempo, sia a quella che vede il mercato come luogo dello sfruttamento e della sopraffa-zione del forte sul debole, sia a quella che, in linea con il pensiero inarco-liberista, lo vede come luogo in cui posso-no trovare soluzione tutti i problemi della società.

La Dottrina Sociale della Chiesa va oltre (ma non con-tro) l'economia di tradizione smithiana che vede il merca-to come l'unica istituzione davvero necessaria per la de-mocrazia e per la libertà. La Dottrina Sociale della Chiesa ci ricorda invece che una buona società è frutto certamen-te del mercato e della libertà, ma ci sono esigenze, ricon-ducibili al principio di fraternità, che non possono essere eluse, né rimandate alla sola sfera privata o alla filantro-pia. Al tempo stesso, la Dottrina Sociale della Chiesa non parteggia con chi combatte i mercati e vede l'economico in endemico e naturale conflitto con la vita buona, invocando una decrescita e un ritiro dell'economico dalla vita in co-mune. Piuttosto, essa propone un umanesimo a più di-mensioni, nel quale il mercato è visto come momento im-portante della sfera pubblica – sfera che è assai più vasta di ciò che è statale – e che, se concepito e vissuto come luogo aperto anche ai principi di reciprocità e del dono, costruisce la "città".

c) La parola chiave che oggi meglio di ogni altra e-sprime questa esigenza è quella di fraternità, parola già presente nella bandiera della Rivoluzione Francese, ma

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che l'ordine post-rivoluzionario ha poi abbandonato –per le note ragioni – fino alla sua cancellazione dal lessico po-litico-economico. È stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che esso ha conser-vato nel corso del tempo. Che è quello di costituire, ad un tempo, il complemento e l'esaltazione del principio di soli-darietà. Infatti mentre la solidarietà è il principio di or-ganizzazione sociale che consente ai diseguali di diventa-re eguali, il principio di fraternità è quel principio di or-ganizzazione sociale che consente agli eguali di esser di-versi. La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali di espri-mere diversamente il loro piano di vita, o il loro carisma. Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e so-prattutto il ’900, sono state caratterizzate da grosse bat-taglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà, e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movi-mento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti ci-vili. Il punto è che la buona società non può accontentarsi dell'orizzonte della solidarietà, perché una società che fos-se solo solidale, e non anche fraterna, sarebbe una società dalla quale ognuno cercherebbe di allontanarsi. Il fatto è che mentre la società fraterna è anche una società solida-le, il viceversa non è necessariamente vero.

Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una so-cietà di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transa-zioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l'altro ver-so, a aumentare i trasferimenti attuati da strutture assi-stenziali di natura pubblica , ci dà conto del perché, nono-stante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile del grande trade-off tra efficienza ed equità. Non è capace di

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futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire quella società in cui esiste solamente il "dare per avere" oppure il "dare per dovere". Ecco perché, né la visione liberal-individua-lista del mon-do, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione statocen-trica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate.

d) Cosa comporta, a livello pratico, l'accoglimento della prospettiva della gratuità entro l'agire economico? Di due conseguenze, tra le tante, desidero qui dire in breve. La prima concerne il modo di guardare alla relazione tra cre-scita economica e programmi di welfare. Vien prima la crescita economica o il welfare? Per dirla in altro modo, la spesa per il welfare va considerata consumo sociale oppu-re investimento sociale? La tesi difesa nella Caritas in ve-ritate è che, nelle condizioni storiche attuali, la posizione di chi vede il welfare come fattore di sviluppo economico è assai più credibile e giustificabile della posizione contra-ria.

La seconda conseguenza che discende dal riconoscere al principio di gratuità un posto di primo piano nella vita economica ha a che vedere con la diffusione della cultura e della prassi della reciprocità. Assieme alla democrazia, la reciprocità è valore fondativo di una società. Anzi, si potrebbe anche sostenere che è dalla reciprocità che la re-gola democratica trae il suo senso ultimo.

In quali "luoghi" la reciprocità è di casa, viene cioè praticata ed alimentata? La famiglia è il primo di tali luoghi: si pensi ai rapporti tra genitori e figli e tra fratelli e sorelle. Poi c'è la cooperativa, l'impresa sociale e le varie forme di associazioni. Non è forse vero che i rapporti tra i componenti di una famiglia o tra soci di una cooperativa

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sono rapporti di reciprocità? Oggi sappiamo che il pro-gresso civile ed economico di un paese dipende basica-mente da quanto diffuse tra i suoi cittadini sono le prati-che di reciprocità. Senza il mutuo riconoscimento di una comune appartenenza non c'è efficienza o accumulazione di capitale che tenga. C'è oggi un immenso bisogno di coo-perazione: ecco perché abbiamo bisogno di espandere le forme della gratuità e di rafforzare quelle che già esisto-no. Le società che estirpano dal proprio terreno le radici dell'albero della reciprocità sono destinate al declino, co-me la storia da tempo ci ha insegnato.

e) Tre i principali fattori strutturali della crisi. Il pri-mo concerne il mutamento radicale nel rapporto tra fi-nanza e produzione di beni e servizi che si è venuto a con-solidare nel corso dell'ultimo trentennio. A partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, la più parte dei paesi occidentali hanno condizionato le loro promesse in mate-ria pensionistica ad investimenti che dipendevano dalla profittabilità sostenibile dei nuovi strumenti finanziari. Al tempo stesso, la creazione di questi nuovi strumenti ha via via esposto l'economia reale ai capricci della finanza, generando il bisogno crescente di destinare alla remune-razione dei risparmi in essi investiti quote crescenti di va-lore aggiunto. Le pressioni sulle imprese derivanti dalle borse e dai fondi di private equity si sono trasferite in pressioni ancora maggiori in altre direzioni: sui dirigenti ossessivamente indotti a migliorare continuamente le per-formance delle loro gestioni allo scopo di ricevere volumi crescenti di stocks options; sui consumatori per convincer-li, mediante l'impiego di sofisticate tecniche di marketing, a comprare sempre di più pur in assenza di potere d'ac-quisto; sulle imprese dell'economia reale per convincerle ad aumentare il valore per l'azionista (shareholder value).

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E così è accaduto che la richiesta persistente di risultati finanziari sempre più brillanti abbia cominciato a riper-cuotersi, attraverso un tipico meccanismo di trickle down (di sgocciolamento), sull'intero sistema economico, fino a diventare un vero e proprio modello culturale. Per rincor-rere un futuro sempre più radioso, si è così dimenticato il presente.

Il secondo fattore è la diffusione a livello di cultura po-polare dell'ethos dell'efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica. Per un verso, ciò ha finito col legittimare l'avidità – che è la for-ma più nota e più diffusa di avarizia – come una sorta di virtù civica: il greed market che sostituisce il free market. "Greed is good, greed is right" (l'avidità è buona; l'avidità è giusta), predicava Gordon Gekko, il protagonista del ce-lebre film del 1987, Wall Street. Per l'altro verso, l'ethos dell'efficienza è all'origine dell'alternanza, ormai sistema-tica, di avidità e panico. Né vale, come più di un commen-tatore ha cercato di spiegare, che il panico sarebbe conse-guenza di comportamenti irrazionali da parte degli opera-tori. Perché il panico è nient'altro che un'euforia col segno meno davanti; dunque se l'euforia, secondo la teoria pre-valente, è razionale, anche il panico lo è. Il fatto è che è la teoria ad essere aporetica, come dirò nel prossimo para-grafo.

La terza causa remota ha a che vedere con le specifici-tà della matrice culturale che si è andata consolidando negli ultimi decenni sull'onda, da un lato, del processo di globalizzazione e, dall'altro, dall'avvento della terza rivo-luzione industriale, quella delle tecnologie info-telema-tiche.

Due aspetti specifici di tale matrice sono rilevanti ai fini presenti. Il primo riguarda la presa d'atto che alla ba-

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se dell'attuale economia capitalistica è presente una seria contraddizione di tipo pragmatico. Quella capitalistica è certamente un'economia di mercato, cioè un assetto isti-tuzionale in cui sono presenti e operativi i due principi basilari della modernità: la libertà di agire e fare impresa; l'eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Al tempo stesso, però, l'istituzione principe del capitalismo – l'impresa ca-pitalistica, appunto – è andata edificandosi nel corso degli ultimi tre secoli sul principio di gerarchia. Ha preso così corpo un sistema di produzione in cui vi è una struttura centralizzata alla quale un certo numero di individui ce-dono, volontariamente, in cambio di un prezzo (il salario), alcuni dei loro beni e servizi, che una volta entrati nel-l'impresa sfuggono al controllo di coloro che li hanno for-niti.

Il secondo aspetto riguarda l'insoddisfazione, sempre più diffusa, circa il modo di interpretare il principio di li-bertà. Come è noto, tre sono le dimensioni costitutive del-la libertà: l'autonomia, l'immunità, la capacitazione. L'au-tonomia dice della libertà di scelta: non si è liberi se non si è posti nella condizione di scegliere. L'immunità dice, invece, dell'assenza di coercizione da parte di un qualche agente esterno. La capacitazione (letteralmente: capacità di azione), infine, dice della capacità di conseguire gli o-biettivi, almeno in qualche misura, che il soggetto si pone. Non si è liberi se mai (o almeno in parte) si riesce a rea-lizzare il proprio piano di vita. Ebbene, mentre l'approccio liberal-liberista vale ad assicurare la prima e la seconda dimensione della libertà a scapito della terza, l'approccio stato-centrico, vuoi nella versione dell'economia mista vuoi in quella del socialismo di mercato, tende a privile-giare la seconda e la terza dimensione a scapito della prima. Il liberismo è bensì capace di far da volano del mu-

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tamento, ma non è altrettanto capace di gestirne le conse-guenze negative, dovute all'elevata asimmetria temporale tra la distribuzione dei costi del mutamento e quella dei benefici. I primi sono immediati e tendono a ricadere sui segmenti più sprovveduti della popolazione; i secondi si verificano in seguito nel tempo e vanno a beneficiare i soggetti con maggiore talento. D'altro canto, il socialismo di mercato – nelle sue plurime versioni – se propone lo Stato come soggetto incaricato di far fronte alle asincrasie di cui si è detto, non intacca la logica del mercato capitali-stico; ma restringe solamente l’area di operatività e di in-cidenza. La sfida da raccogliere è allora quella di fare sta-re insieme tutte e tre le dimensioni della libertà: è questa la ragione per la quale il paradigma del bene comune ap-pare come una prospettiva quanto meno interessante da esplorare.

f) Quanto mai opportuna l’insistenza della Caritatis in veritate sulla necessità di attuare una governance globale, ma di tipo sussidiario e poliarchico. Ciò implica, per un verso, il rifiuto di dare vita ad una sorta di superstato, per l’altro verso, l’urgenza di completare e aggiornare l’opera svolta nel 1944 a Bretton Woods quando si disegnò il nuo-vo ordine economico internazionale.

A mio giudizio si tratta di: 1) affiancare all’attuale as-semblea delle NU una seconda assemblea in cui siedano i rappresentanti delle varie espressioni della società civile transnazionale; 2) dare vita al Consiglio di Sicurezza so-cio-economica delle NU in appoggio all’attuale Consiglio di Sicurezza militare; 3) istituire una Organizzazione Mondiale delle Migrazioni e una Organizzazione Mondia-le per l’Ambiente sul modello della Organizzazione Mon-diale per il Commercio; 4) intervenire sul FMI per affron-tare il problema di una valuta globale e realizzare la ri-

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forma delle riserve monetarie globali, come è stato propo-sto dalla Conferenza delle NU del 23 giugno 2009.

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INDICE

Premessa ............................................................................................. 1 1. Cultura, città e persona: presupposti per un Piano Strategico ..... 3

1.1. La crisi attuale e le risorse della cultura e dell’educazione .. 3 1.2. Primato della persona e società civile ................................... 6 1.3. La bellezza della città............................................................. 9

2. La Rimini del presente: punti di criticità..................................... 10 2.1. Il dissesto urbanistico e paesaggistico................................. 10 2.2. Sviluppo urbanistico, emergenza casa e immigrazione .... 12 2.3. Politiche culturali e Università ............................................ 15 2.4. Crisi del modello turistico ................................................... 16 2.5. Povertà e nuove emarginazioni............................................ 19

3. Proposte e prospettive ................................................................. 20 3.1. Ripartire dalla propria identità e memoria .......................... 20 3.2. Ripensare nuovi modelli turistici......................................... 22 3.3. Università, ricerca e formazione.......................................... 26 3.4. Cultura della sussidiarietà, famiglia e lavoro...................... 27 3.5. Ripensare il governo della città ........................................... 30 3.6. Il sistema produttivo ............................................................ 33 3.7. Il terzo settore....................................................................... 35

Osservazioni conclusive................................................................... 38 Rimandi bibliografici ....................................................................... 41 Appendice:

F. LAMBIASI, Eucarestia: piano strategico per una città nuova . 43 S. ZAMAGNI, Vita economica, solidarietà e bene comune nella Caritas in Veritate........................................................................ 48

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Riflessioni e proposte sul Piano Strategico

Contributo delle aggregazioni laicali della Diocesi di Rimini

ACLI

AGESCI

ASSOCIAZIONE PAPA GIOVANNI XXIII

AZIONE CATTOLICA

CARITAS DIOCESANA

CENTRO CULTURALE PAOLO VI

COMUNIONE E LIBERAZIONE

FUCI

MASCI

MEIC

SERVIZIO DIOCESANO PER IL PROGETTO CULTURALE

UCID

UCIIM