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Información Filosófica Vol. VIII (2011) núm. 17 pp. 163-179 163 RESEÑAS AA. VV., Georg Lukács reconsidered. Critical essays in politics, philosophy and aesthetics, a cura di Michael J. Thompson, Continuum, New York–London 2011, 264 p. Nel presente volume, tredici insigni studiosi appartenenti a diversi campi (dalla sociologia, attraverso la politologia, fino alle molteplici aree disciplinari della filosofia) indagano alcuni aspetti fondamentali del pensiero del grande filosofo ungherese del Novecento: György Lukács (1885-1971). M. J. Thompson, nella sua Introduzione, sottolinea la necessità di una rivalutazione dell’eredità lukacsiana: il filosofo marxista – nonostante le distorsioni ideologiche proprie della sua concezione teoretica – è stato capace di afferrare un grande problema del pensiero occidentale contemporaneo: quello dell’allontanamento della coscienza umana dal proprio contesto sociale. Lukács, come pensatore radicale, proponeva di confrontarsi con la realtà sociale, per individuare le ragioni materiali del soggettivismo e dell’irrazionalismo che paralizzano qualsiasi motivazione etica e politica. Uno dei tratti distintivi di Lukács – rispetto ad altri marxisti – è che egli intendeva sviluppare le idee di Marx tenendo presente l’eredità della filosofia classica tedesca, in particolare di Kant e di Hegel (interpretati secondo il proprio peculiare punto di vista). Lukács credeva fermamente che la società umana potesse essere orientata ad un livello superiore in senso ontologico: sosteneva una particolare teoria etica e sociale in cui, da un lato, l’accento cadeva sulla dimensione oggettiva dei rapporti sociali dell’individuo, mentre, dall’altro, cercava di espungere più che possibile le deviazioni soggettivistiche, molto diffuse nel corso dell’Ottocento e del Novecento (cfr. pp. 1-2). L’orientamento ideologico di Lukács si spiega anche con il fatto che, a suo parere, Weber e Simmel, pur avendo messo a nudo numerosi problemi della società e della cultura moderne, contrariamente al marxismo, non erano in grado di formulare un programma d’azione per superare la “gabbia di ferro” (i paradossi) della modernità. In Storia e coscienza di classe (1923), superando i limiti della riflessione neokantiana, Lukács si richiama in particolare ad Hegel, per attingere quella totalità dell’esistenza sociale che possa preparare una trasformazione della società stessa (cfr. p. 5). Thompson sottolinea quelli che, per lui, sono i due maggiori interessi di Lukács, ossia, da una parte, il problema della frammentazione personale e sociale e il desiderio di integrità della vita umana e, dall’altra, l’impegno per la formulazione di una metodologia oggettivistico-materialista. Questi sarebbero i contributi più rilevanti di Lukács al pensiero teoretico-politico moderno, in quanto, oggi, ci troviamo, di nuovo,

AA. VV., Georg Lukács reconsidered. Critical essays in politics, philosophy and aesthetics

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Información Filosófica Vol. VIII (2011) núm. 17

pp. 163-179

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AA. VV., Georg Lukács reconsidered. Critical essays in politics, philosophy and aesthetics, a cura di Michael J. Thompson, Continuum, New York–London 2011, 264 p.       

Nel presente volume, tredici insigni studiosi appartenenti a diversi campi (dalla sociologia, attraverso la politologia, fino alle molteplici aree disciplinari della filosofia) indagano alcuni aspetti fondamentali del pensiero del grande filosofo ungherese del Novecento: György Lukács (1885-1971). M. J. Thompson, nella sua Introduzione, sottolinea la necessità di una rivalutazione dell’eredità lukacsiana: il filosofo marxista – nonostante le distorsioni ideologiche proprie della sua concezione teoretica – è stato capace di afferrare un grande problema del pensiero occidentale contemporaneo: quello dell’allontanamento della coscienza umana dal proprio contesto sociale. Lukács, come pensatore radicale, proponeva di confrontarsi con la realtà sociale, per individuare le ragioni materiali del soggettivismo e dell’irrazionalismo che paralizzano qualsiasi motivazione etica e politica. Uno dei tratti distintivi di Lukács – rispetto ad altri marxisti – è che egli intendeva sviluppare le idee di Marx tenendo presente l’eredità della filosofia classica tedesca, in particolare di Kant e di Hegel (interpretati secondo il proprio peculiare punto di vista). Lukács credeva fermamente che la società umana potesse essere orientata ad un livello superiore in senso ontologico: sosteneva una particolare teoria etica e sociale in cui, da un lato, l’accento cadeva sulla dimensione oggettiva dei rapporti sociali dell’individuo, mentre, dall’altro, cercava di espungere più che possibile le deviazioni soggettivistiche, molto diffuse nel corso dell’Ottocento e del Novecento (cfr. pp. 1-2). L’orientamento ideologico di Lukács si spiega anche con il fatto che, a suo parere, Weber e Simmel, pur avendo messo a nudo numerosi problemi della società e della cultura moderne, contrariamente al marxismo, non erano in grado di formulare un programma d’azione per superare la “gabbia di ferro” (i paradossi) della modernità. In Storia e coscienza di classe (1923), superando i limiti della riflessione neokantiana, Lukács si richiama in particolare ad Hegel, per attingere quella totalità dell’esistenza sociale che possa preparare una trasformazione della società stessa (cfr. p. 5). Thompson sottolinea quelli che, per lui, sono i due maggiori interessi di Lukács, ossia, da una parte, il problema della frammentazione personale e sociale e il desiderio di integrità della vita umana e, dall’altra, l’impegno per la formulazione di una metodologia oggettivistico-materialista. Questi sarebbero i contributi più rilevanti di Lukács al pensiero teoretico-politico moderno, in quanto, oggi, ci troviamo, di nuovo,

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in una situazione in cui è necessario ricercare delle alternative rispetto ai modelli sociali-economici vigenti e, più precisamente, rispetto al neoliberalismo (cfr. p. 7).

Nella presente recensione, per dare ad essa una continuità tematica, nonché per ovvi limiti di spazio, mi soffermerò su cinque studi. Il primo è di S. E. Bronner e reca il titolo Lukács e la dialettica: contributi alla teoria della pratica. Esso ci ricorda che, dopo il crollo del sistema bipolare, il marxismo – e con esso Lukács – sono stati fortemente screditati. Quei pochi che si interessavano a Lukács, si occupavano, in particolare, di alcune opere teoretico-estetiche anteriori alla sua svolta marxista, come, ad esempio, L’anima e le forme (1911) e la Teoria del romanzo (1920). Bronner sottolinea che, prima della pubblicazione di Storia e coscienza di classe, il marxismo (cosiddetto “scientifico” o “ortodosso”) era un’ideologia attivista, innanzitutto, per i partiti socialdemocratici emergenti, con delle presupposizioni epistemologiche analoghe a quelle delle scienze naturali e con la tesi dell’inevitabilità della rivoluzione del proletariato. Questa ideologia sosteneva che la storia si svilupperebbe secondo delle fasi determinate: il socialismo può apparire come alternativa solo quando un paese, nella fase capitalistica del suo sviluppo, ha portato la maggioranza della sua popolazione alla condizione di un proletariato che è cosciente delle proprie priorità politiche e dei propri scopi ideologici. Tale ideologia – teoricamente – poteva essere più efficiente nelle monarchie, dato che i socialdemocratici avrebbero potuto esigere, fondatamente, il diritto al suffragio universale, strettamente connesso alla forma repubblicana dello stato: anteriormente alla I guerra mondiale, infatti, anche Lenin e la Luxemburg identificavano la rivoluzione con l’istituzione della repubblica (cfr. pp. 13-6).

Nella teoria dialettica di Lukács il problema della costituzione (constitution problem) era centrale, giacchè la storia – rievocando la tesi vichiana – sarebbe sempre guidata dalla creatività umana. La società può e deve essere compresa come un fenomeno storico, con particolare riguardo alla libertà che offre ai propri cittadini. E ciò, ovviamente, si riferisce anche al capitalismo, in quanto la classe lavoratrice sfruttata (secondo la terminologia lukacsiana) ha un interesse oggettivo ad assumere il controllo di se stessa: della propria autonomia e della propria libertà. Il rendere esterna (Entäusserung) tale soggettività si compie nel processo di un’alienazione che costringe gli individui ad una forma di vita monotona e senza creatività, fondata esclusivamente sulla concezione minimax del capitalismo. Per Lukács, Kant ed Hegel sarebbero stati quei filosofi idealisti in grado di superare definitivamente l’eredità spirituale del medioevo, dando impulso così alle rivoluzioni borghesi. Ovviamente, Lukács ha sviluppato radicalmente lo storicismo dei filosofi tedeschi, in quanto la visione storicistica è diventata – per sua mano – una teoria rivoluzionaria capace di catalizzare la pratica rivoluzionaria. Bronner scorge un aspetto messianico nell’ideologia lukacsiana: Storia e coscienza di classe presenterebbe «l’ultima fase dell’imperialismo capitalista» come un contesto sociale in cui gli individui (i soggetti) diventano oggetti. In tal senso, la teoria della coscienza di classe diventa necessaria dal punto di vista del proletariato, giacchè essa è la teoria della propria possibilità oggettiva (cfr. pp. 16-7). È interessante notare che, mentre Lenin insisteva sull’“infusione”, nel proletariato, della coscienza di classe dall’esterno, ossia da parte di un’avanguardia di intellettuali rivoluzionari, Lukács pensava invece che, mentre il proletariato costituisse oggettivamente il mondo dell’oggettivazione (reification), solo gli intellettuali, che sono in grado di comprendere, a livello soggettivo, una tale situazione, possono concepire l’azione appropriata per modificarla. Il collegamento di questi due fattori dava per risultato la rivoluzione, ma,

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in ogni modo, l’avanguardia comunista doveva “imputare” al proletariato la coscienza di classe. Tutto sommato, l’azione rivoluzionaria è un gioco d’azzardo (cfr. p. 19).

Secondo l’intepretazione di Bronner La distruzione della ragione (1954) è un complemento filosofico della teoria letteraria lukacsiana. In quest’opera, Lukács afferma che il nazismo avrebbe le proprie radici intellettuali nel romanticismo politico e nell’anti-illuminismo ottocenteschi, sottolineando, però, che la sua essenza non deve essere ridotta al razzismo. Per Lukács, il fondamento filosofico del fascismo è l’irrazionalismo (ossia la predilezione dell’intuizione invece della ragione, il disprezzo della storia e l’attacco contro la democrazia e il socialismo), che è l’ideologia per eccellenza dei “piccoli borghesi” e degli elementi reazionari della borghesia. Non è a caso che Lukács, proprio nel contesto della tensione della guerra fredda, avesse affermato che il nazismo sia da ricondurre ai romantici reazionari, come l’ultimo Schelling, ai proto-esistenzialisti apolitici come Kierkegaard, ai grandi intellettuali liberal-nazionalisti come Weber e Jaspers, nonché a filosofi di alto rango come Schmitt e Heidegger, i quali, infatti, hanno aderito al nazismo. Per Lukács – in un modo abbastanza problematico – nella formazione del nazismo, Nietzsche (un “radicale culturale” e allo stesso tempo un “reazionario politico”) ha avuto un ruolo-chiave. Oltre a lui, alla formazione di esso avrebbero contribuito Bergson, Proust e Freud (cfr. pp. 26-7). Nelle sue tesi conclusive, Bronner sottolinea che, col passare del tempo, Lukács si è allontanato dall’idea rivoluzionaria e, oltre ad aver distinto fra alienazione e oggettivazione, riteneva che il proposito di abolire questi fenomeni sociali fosse utopistico. Tuttavia, nella sua teoria, come elemento centrale, rimaneva il problema della dignità umana (anch’esso utopistico). In fin dei conti, la dignità umana può essere preservata per mezzo della resistenza nei confronti dell’oggettivazione (cfr. pp. 28-9).

S. Aronowitz, oltre ad analizzare La distruzione della ragione, dà pure un resoconto generale dell’evoluzione filosofica di Lukács. Tra l’altro sottolinea che Lukács, sviluppando la concezione marxiana relativa al feticismo dei beni di consumo, ha delineato una teoria materialistica della soggettività: ciò significa che è stato il primo a riconoscere l’importanza degli effetti che la società di consumo produce sulla coscienza degli individui. Tali effetti possono persino neutralizzare la politica rivoluzionaria e la coscienza di classe: nella società di consumo i lavoratori arrivano a coincidere al massimo con la coscienza dei sindacati (cfr. p. 52). Nel periodo del secondo dopoguerra e agli inizi degli anni cinquanta, Lukács si è dedicato soprattutto alla stesura dei suoi studi letterari (su Balzac, Dickens, Walter Scott, Thomas Mann e Solzenicyn) e di una monografia sul giovane Hegel. La distruzione della ragione è stata scritta e pubblicata in uno dei periodi più critici della guerra fredda (appunto nel 1954). In quest’opera, Lukács si è occupato dell’influenza di Nietzsche e ha formulato una critica nei confronti della scuola fenomenologica e, soprattutto, di Heidegger, Husserl e Sartre (cfr. pp. 53 e 55). In essa, si fa uso anche di un metodo critico “hegeliano-marxista” da realizzare in tre fasi successive: 1) identificare – da parte del critico – le premesse e il metodo d’interpretazione dell’autore in connessione con i fenomeni sui quali scrive; 2) giudicare fino a che punto l’autore sia stato capace di raggiungere il proprio scopo, partendo dalle premesse appena menzionate; 3) situare il risultato letterario nel contesto storico attuale. Naturalmente, l’ultima fase sarà sempre oggetto di nuove dispute e intepretazioni. Nella formulazione di una tale teoria delle fasi del procedimento critico, Lukács – come si è già detto – si è ispirato, in primo luogo, alla dialettica hegeliana (intepretata, ovviamente, in chiave materialistico-storica), nonché ai protagonisti dell’Illuminismo: secondo Lukács solo dopo la rivoluzione francese il carattere storico della dialettica – di

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cui Herder e Vico sono stati i precursori – ha trovato, in Hegel, la propria espressione metodologicamente cosciente e logicamente elaborata. Mentre Hegel stesso e una parte dei suoi seguaci idealisti si appellavano alla Ragione e sostenevano un ideale rivoluzionario, nel periodo che va da Schopenhauer a Heidegger, molti pensatori – secondo Lukács – sostenevano delle idee controrivoluzionarie, imbevute di irrazionalismo. I pensatori controrivoluzionari – figura-chiave dei quali, per Lukács, è Nietzsche – hanno preso posizione nei confronti del concetto “dialettico-storico” del “progresso”, inteso, innanzitutto, come quello sviluppo sociale (strettamente legato a quello industriale) che, a lungo termine, avrebbe reso possibile, per la maggioranza, una vita più “egualitaria” e culturalmente più ricca (cfr. pp. 56-7).

Un momento-chiave della riflessione di Lukács è ovviamente quello relativo a Nietzsche “padre dell’irrazionalismo”, in cui egli (in un modo piuttosto arbitrario) mette in relazione l’opera del filosofo tedesco con l’ideologia “imperialista” e “reazionaria”, espressione delle esigenze della classe intellettuale “parassita” tedesca. Per Lukács, Nietzsche, se, da un lato, ha rappresentato la corrente più reazionaria della modernità, prospettando una demagogia pseudo-rivoluzionaria che sfocia in un relativismo totale, dall’altro, ha espresso anche delle idee anticonformistiche (contro il cristianesimo, il concetto di “progresso” e l’hegelismo). È interessante il fatto che – contrariamente alle intenzioni esplicite di Nietzsche – Lukács sostiene che egli, per mezzo dei suoi aforismi, costituisca un sistema filosofico, anzi, un sistema epistemologico, tutto permeato di un “anticapitalismo romantico” pervaso di quell’ideale mitico aristocratico-elitario che, più tardi, avrebbe esercitato un effetto profondo su Heidegger. Lukács contrappone nettamente la dialettica storica di Hegel alla teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche: in Hegel la fase superata riappare nel nuovo, anche se in un contesto in cui le peculiarità del vecchio non sono già più rilevanti. La teoria dell’eterno ritorno non accetta la fase della negazione (l’antitesi hegeliana), ma incorpora a modo suo la presenza – così come la concepisce Hegel – del passato nel presente, facendosi carico, però, della trasvalutazione dei valori e sopprimendo quel fattore dato dal contesto storico. In tal modo – nonostante Nietzsche avesse criticato l’ontologia – in lui, secondo Lukács, si delinea, pur sempre, un’ontologia, in quanto il filosofo tedesco avrebbe elevato a “principio primo” quella tesi dell’eterno ritorno in cui diventa irrilevante la differenza tra vecchio e nuovo (cfr. pp. 58-9). Lukács scorge anche un’altra contraddizione, in Nietzsche, nel senso che egli, pur definendo la differenza come una qualità essenziale dell’essere, nega, al tempo stesso, la possibilità del mutamento sociale. Il fascino esercitato dalle idee di Nietzsche su molti intellettuali di sinistra del Novecento si spiega con il fatto che egli avrebbe criticato duramente la positività hegeliana. Tuttavia, l’insegnamento di Nietzsche – secondo Lukács – non offrirebbe altro, in rapporto al problema del potere, che la necessità di rafforzare il carattere autoritario e aristocratico di esso (cfr. pp. 60-1). La parte finale de La distruzione della ragione elabora una critica nei confronti della sociologia e dei suoi padri-fondatori: Simmel e Weber. Nonostante in quest’opera Lukács abbia connesso i precedenti due autori con l’irrazionalismo, l’imperialismo e il fascismo, risulta evidente – come si è già detto – la grande influenza che Simmel e Weber hanno esercitato sullo stesso Lukács (cfr. p. 63).

Nello studio comparativo di P. U. Hohendahl, La teoria del romanzo e il concetto del realismo in Lukács e Adorno, l’autore richiama l’attenzione sul fatto che Adorno, in un suo articolo su Lukács, avrebbe distinto nettamente il periodo giovanile (includendovi anche Storia e coscienza di classe) da quello stalinista: mentre i lavori del primo periodo

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sono di alto profilo, quelli del secondo, invece, non possono non essere oggetto di critica. Adorno (difendendo il modernismo e l’avanguardia) giudica negativamente innanzitutto il “dogmatismo realista” di Lukács, ma – come osserva Hohendahl – per il modo in cui lo fa, Adorno stesso rischia di cadere nel dogmatismo. Com’è noto, l’oggetto specifico della critica di Adorno a Lukács è dato dalla tesi dell’“arte come riflesso della realtà” (Widerspiegelung), nonché da quella secondo cui il modernismo europeo avrebbe “deviato” dal realismo. In connessione a tutto ciò, è giusta l’obiezione di Adorno rivolta all’uso lukacsiano delle metafore biologiche (“decadenza”, “malattia”) per descrivere processi storici ed artistici. Adorno, inoltre, vede chiaramente che l’intenzione lukacsiana di intepretare la letteratura attraverso l’esistenzialismo di Heidegger prescinde dall’autonomia delle opere artistico-letterarie. A questo punto, si pone la seguente domanda-chiave: la letteratura moderna include la realtà storica nella rappresentazione letteraria? Lukács ha fatto distinzione tra forme “corrette” e “scorrette” della rappresentazione, mentre Adorno – condividendo con Lukács la concezione del processo storico indipendente dall’arte e accettando, inoltre, alcune tesi di Marx e criticando Brecht – distingue nettamente l’ontologia dell’opera d’arte da quella della realtà empirica. In tal senso, Adorno sottolinea che il rapporto fra arte e realtà empirica è molto più complesso di quanto Lukács avesse sostenuto: con ciò Adorno rifiuta pure la critica lukacsiana contro il solipsismo epistemologico, senza però far concessioni alla teoria universale del realismo. Si può constatare che, quando Adorno insiste sul carattere di espressione soggettiva dell’opera letteraria, non presuppone la rappresentazione estetica come principio universale. In più, risulta evidente che egli condivide – almeno in parte – la teoria lukacsiana del “riflesso”, pur criticando alcuni aspetti di essa (cfr. pp. 76-7).

Mutuando un esempio da Lukács, i romanzi di Balzac rappresenterebbero per lui – sia in senso sociale che letterario – una fase specifica dell’evoluzione della borghesia (nella sua lotta settecentesca contro la nobiltà feudale): nell’analisi delle Illusioni perdute di Balzac, Lukács è a favore dell’approccio sociologico centrato sul contenuto. E una delle conclusioni di tale analisi è dato dall’individuazione di una contraddizione all’interno della narrativa, in quanto la nuova classe emergente (la borghesia, appunto) risulta incapace di vivere secondo i propri standard etici e culturali. Ciò che distingue l’analisi di Lukács da un’investigazione sociologica ordinaria è l’accento da lui messo sul tema del capitalismo (cfr. p. 78). È molto probabile che sia stata proprio l’apologia lukacsiana del “realismo” a spingere Adorno ad avvicinarsi a Balzac, a partire dalla tesi secondo cui nell’opera in questione del romanziere francese mancherebbe la rappresentazione realistica. Adorno evidenzia il modo esagerato in cui i personaggi e le situazioni sono rappresentati nel romanzo. Utilizzando l’interpretazione della paranoia data da Freud, Adorno afferma che nell’opera di Balzac ci sarebbe un sistema delle relazioni sociali quasi-paranoico, dove tutto è collegato con tutto: ciò rende impossibile le alternative (per esempio, nelle decisioni dei personaggi). Pertanto, la forza della narrativa balzachiana sta tutta nella rappresentazione di un contesto spietatamente deteministico, in cui i rapporti sociali sono solo illusioni. Da precisare è che Adorno è d’accordo con Lukács per ciò che riguarda il fatto che la narrativa di Balzac offrirebbe una rappresentazione appropriata dell’Ottocento, ma nega il carattere realistico di una tale rappresentazione, ribadendo che il motivo-chiave dei testi in questione starebbe nel carattere irrazionale dell’ambiente sociale vissuto soggettivamente. Diversamente da Lukács, Adorno vede in Balzac un proto-modernista. In connessione a tutto questo è da ricordare che Adorno nel suo scritto La posizione del narratore nel romanzo

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contemporaneo (pubblicato nel 1954 sui fascicoli di Akzente) sottolineava la contraddizione interna del romanzo moderno, in quanto in questo – contrariamente ai romanzi realisti dell’Ottocento – la narrazione non risultava più possibile. L’argomentazione principale a favore di tale tesi riguarda il cambiamento intervenuto nella relazione tra soggetto e oggetto. Il romanzo moderno, infatti, non ha più il ruolo di “rappresentare la realtà”, ma vuole afferrare i momenti soggettivi, gli elementi riflessivi (non in senso lukacsiano!) e saggistici. Come sostiene Benjamin, nel romanzo moderno l’elemento centrale è, ormai, l’interiorizzazione – e il caso esemplare di ciò è Proust. Hohendahl sottolinea: l’approccio eminentemente filosofico di Adorno al tema del romanzo moderno si appunta sullo statuto (ontologico) del soggetto-individuo nel mondo moderno, e quasi non ha interesse per il problema narratologico, ossia non analizza la funzione del narratore. Quindi – nonostante le critiche di Adorno a Lukács – la teoria letteraria del primo è strettamente legata alla tradizione lukacsiana (cfr. pp.79-81). A proposito dell’opera di Flaubert, Hohendahl ritiene che l’analisi effettuata da Lukács sia stata produttiva, giacchè il filosofo ungherese ha rilevato adeguatamente il contrasto tra la frammentarietà del soggetto-individuo e il fluire perenne del tempo, precisando che l’elemento-chiave negli scritti di Flaubert è dato proprio dal tempo (cfr. p. 86). Infine, ancora da dire è che Hohendahl mette in chiaro che, nella teoria di Lukács, la produzione estetica e la conoscenza scientifica hanno, in ultima analisi, uno scopo identico: l’esplorazione della realtà. A questo punto, a mio parere sarebbe stato molto produttivo impostare un confronto con la teoria estetica di Croce (cfr. p. 93).

L’analisi della teoria letteraria di Lukács è ulteriormente sviluppata nello studio di János Kelemen, La lotta dell’arte per la libertà: Lukács, storico letterario. Il contributo lukacsiano alla critica letteraria mondiale (per quanto riguarda le tragedie greche, Dante, il Faust di Goethe, Balzac, e Thomas Mann) e ungherese (La tragedia dell’uomo di Imre Madách) è indubbiamente di grande rilievo, anche se – come abbiamo già accennato – oggi è oggetto d’analisi solo da parte di pochi specialisti (cfr. pp. 110-1). Una tesi estetica fondamentale di Lukács è che un’opera d’arte esiste in quanto tale solo in funzione della sua valutazione. Impresa che costituisce sì un fatto, il quale, però, non deve essere realizzato da un individuo determinato. È sufficiente che si dia o la possibilità riguardo alla costituzione di esso o una verifica che accerti che una tale costituzione è stata già effettuata. In sintesi, si tratta di un atto di valutazione potenziale, così come la coscienza di classe va considerata anch’essa come una “coscienza potenziale” (cfr. pp. 110-1).

Come afferma Kelemen, in merito al problema della periodizzazione letteraria, non c’è da meravigliarsi che Lukács – come pensatore marxista che sosteneva la determinazione sociale dell’arte – abbia ritenuto che essa si basasse su “fattori esterni”. In linea con la sua concezione finale, formulata nell’Esztétika, la letteratura è un aspetto del processo storico, quindi la letteratura – come l’arte in generale –consegue la propria autonomia nell’ambito di un’interazione perpetua: la periodizzazione deve essere vista, dunque, nell’ambito dell’interazione tra arte, religione e tradizione. Questa concezione di Lukács sta a fondamento della sua teoria dell’arte come lotta per la libertà. Per l’elaborazione di essa, i testi degli autori dell’Ottocento si presentavano come i più appropriati: con ciò si spiega l’attrazione di Lukács verso Goethe, Heine, Balzac, Stendhal, Tolstoj e Dostoievski, come pure verso Hegel e Marx (cfr. p. 113). Nelle sue osservazioni sporadiche su Dante, Lukács fu probabilmente influenzato dall’amico italianista Lajos Fülep. Per Lukács, Dante era un buon esempio sia per la sua concezione relativa all’interazione tra arte, scienza e religione, sia per quella relativa alla storia

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dell’arte come lotta per la libertà. Mentre per Croce – dato che, per lui, l’allegoria è in contrasto con la poesia – non risulta possibile convertire la filosofia e le tesi scientifiche o ideologiche in poesia, per Lukács invece tale procedimento è possibile e auspicabile: la grande poesia ha un profilo sempre intellettuale. Qui, si mostra chiaramente l’influenza di Fülep su Lukács, giacchè il primo – oltre al fatto di essere un critico feroce di Croce – sosteneva che la Divina Commedia fosse il miglior esempio di opera d’arte in cui l’elemento concettuale e l’esperienza diretta si fondono in un’unità organica. Non è a caso che anche il più grande traduttore ungherese della Commedia, Mihály Babits, riteneva che quest’opera sia la sintesi sublime di filosofia e poesia. Il passo con cui Lukács va oltre Fülep consiste nella concezione – con cui riconosce e ribadisce la qualità estetica dell’allegoria – secondo cui le allegorie dantesche sono uniche nel proprio genere. Inoltre, l’allegoria, pur essendo un fattore che per definizione divide in due, allo stesso tempo unisce. In connessione a tutto ciò, non va dimenticato come Erich Auerbach abbia intitolato il proprio studio dantesco (apprezzato da Lukács) Dante poeta del mondo terreno (1929). L’unicità dell’allegoria dantesca può essere compresa anche con il termine lukacsiano «immanenza nella trascendenza» (cfr. pp. 114-7). Kelemen, citando la famosa frase di Freccero ispirata a Lukács, secondo cui la Commedia, costituendo l’ultima epopea e il primo romanzo, funge da ponte – anche al livello dei generi letterari – tra medioevo e modernità, e proseguendo con la propria analisi puntuale, giunge tra l’altro ad uno dei suoi temi preferiti, la comparazione tra il Faust di Goethe e la Fenomenologia dello spirito di Hegel, da un lato, e la Commedia, dall’altro, rivelando, fra di esse, connessioni di grande rilievo (cfr. pp. 118-23). L’ultimo argomento trattato è la critica mossa da Lukács, nel 1911, nei confronti de La tragedia dell’uomo (1862) di Imre Madách, giustamente ritenuto da Lukács (nonché da Kelemen) come una specie di Divina Commedia e di Faust “in versi”. E ciò perchè nell’opera maestra in questione (probabilmente, ispirata in parte a Vico), contrariamente alle due opere citate in precedenza e come nel Paradiso perduto di Milton (1667), ai protagonisti non è data la possibilità di vivere l’esperienza della salvezza (cfr. pp. 123-5).

Qualche parola, infine, sull’eccellente saggio di M. J. Thompson, Ontologia e totalità: ricostruendo il concetto di teoria critica di Lukács. Come è detto giustamente da Thompson, Lukács cercava di risolvere la tensione immanente all’idealismo tedesco: la relazione tra l’etica autonoma, col primato della ragione soggettiva e pratica, da una parte, e l’etica non-autonoma, che mette in risalto o la natura oggettiva della vita etica (Sittlichkeit, secondo la terminologia hegeliana) o il valore etico intrinseco alla struttura oggettiva e alla pratica della vita sociale (cfr. p. 230). In base agli ultimi lavori di Lukács, una teoria critica della società può essere formulata, per lui, solo in base alla forma specifica di un contenuto etico, a sua volta fondato sulla struttura ontologica della società umana (cfr. p. 232). Come l’Autore sottolinea, Lukács ha cercato di escludere – anche se non ci riuscì del tutto – l’errore naturalistico (ossia quello di descrivere i fenomeni sociali con una terminologia desunta dalle scienze naturali), impegnandosi nella formulazione di categorie che non riducono la vita sociale ad un meccanismo materiale-naturalistico, ma che (come conseguenza di un’analisi della società) rendono possibile l’incremento della libertà degli individui e la riduzione dell’alienazione e della frammentazione. Per raggiungere tale scopo, secondo Lukács è assolutamente necessario superare l’epistemologia e l’etica soggettivistica (cfr. p. 233). Qui, interessante è il richiamo dell’alternativa fornita da J. Habermas: secondo lui la teoria critica deve muoversi in direzione del problema della deliberazione, ossia del paradigma kantiano

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integrato con il pragmatismo, allo scopo di risalire alle condizioni in cui sia possibile formulare dei giudizi imparziali, basati esclusivamente sulla ragione. Come osserva Thompson, nonostante Habermas rilevi la natura intersoggettiva della ragione, e ciò è un elemento fondamentale nella sua teoria etica del discorso (discourse ethics), egli non è capace – anzi evita – di risolvere il problema della relazione dialettica tra soggetto e oggetto, ossia non coglie il rapporto tra la ragione soggettiva e le strutture economico-sociali oggettive. Adorno, Habermas e gli altri della “scuola di Francoforte” tenderebbero, in modo vistoso, ad abbandonare il problema ontologico e a muoversi – analogamente all’idealismo classico tedesco – nella direzione della separazione della coscienza dalle strutture oggettive che la determinano (cfr. pp. 234-5). Invece, secondo Lukács, individuando la struttura ontologica della società, avremmo a disposizione un punto di riferimento oggettivo per la costruzione dei valori etici relativi al mondo, il quale – superando il problema dell’atomismo – potrà essere ordinato in modo tale da assicurare la libertà umana in senso genuino. L’ontologia sociale di Lukács significa la ricerca di quella categoria cruciale della totalità sociale nel cui ambito gli individui si formano. Essa ripensa il problema dell’alienazione (Entfremdung) in vista di una migliore comprensione delle cause (inerenti – secondo Lukács – al capitalismo) della degradazione umana in senso ontologico e morale, rispetto a ciò che l’umanità potenzialmente potrebbe raggiungere. Secondo Lukács, per capire qualitativamente a fondo i gradi di perfezione del realizzarsi dell’essere umano, il primato spetta all’ontologia, non all’epistemologia (cfr. p. 237). Per lui, ovviamente in base alle idee di Marx, la categoria-chiave per analizzare la società è data dal concetto di lavoro (labor), definito nel modo seguente: ciò che può promuovere la realizzazione simultanea di praxis e poiesis, stabilendo autonomamente uno scopo e dei mezzi per raggiungerlo in un contesto teleologico che superi il mero adattamento, così che, nel processo di esso, l’oggettività e la soggettività si possano fondare mutuamente nel senso hegeliano della sintesi (cfr. pp. 238-9). Una delle conclusioni importanti dell’analisi dettagliata di Thompson è che lo scopo fondamentale di Lukács è stato quello di formulare un’etica oggettivista basata su dei valori realizzabili attraverso la trasformazione della vita sociale e delle istituzioni (cfr. p. 245).

È chiaro che il presente volume può suscitare grande interesse non solo in ambito filosofico, teorico-letterario o politologico, ma per tutti coloro che sono alla ricerca di soluzioni alternative per superare la crisi politica, culturale, etica ed economica, che investe la società contemporanea.

József Nagy

AA.VV., Leggere Dante oggi. Interpretare, commentare, tradurre alle soglie del settecentesimo anniversario, a cura di Éva Vígh, Aracne, Roma 2011, 409 p.

A cura della Direttrice scientifica dell’Accademia d’Ungheria in Roma, escono gli

Atti del Convegno Internazionale su Dante, tenutosi, presso questa stessa sede, il 24-26 giugno 2010. Dopo una Premessa (pp. 5-6), della curatrice, ed una Prolusione (pp. 7-14), di Giuseppe Frasso, il volume si articola in due sezioni («I. Commento, interpreta-zione, lettura»; «II. Fortuna, ricezione, traduzione»), in cui susseguono, in totale, ben trentacinque contributi critici.

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Nell’impossibilità di riferire qualcosa su ognuno di essi, cercherei di individuare un percorso, interno al volume, che garantisca il passaggio attraverso alcuni dei suoi snodi teorici più importanti. Partirei dal fatto che l’ideazione stessa del Convegno è venuta da uno spunto del presidente della Società Dantesca Ungherese, János Kelemen, presente, infatti, all’iniziativa in questione, non solo come relatore (Sull’asimmetria tra afferma-zioni filologiche e quelle ermeneutiche, pp. 97-102), ma anche come colui che si assume l’onere di redigere il bilancio finale di essa (Conclusioni, pp. 389-92).

Come ci ricorda il sottotitolo del volume, poiché ci troviamo solo «alle soglie» del settecentesimo anniversario della morte di Dante (2021), lo scopo della manifestazione non intendeva essere meramente celebrativo, ma offrire un’occasione di confronto in merito ad alcune questioni filosofiche e letterarie legate alla lingua e all’interpretazione dell’opera del Sommo Poeta.

E proprio una di tali questioni sta al centro del saggio di Luigi Tassoni, La narra-zione del Convivio (pp. 35-46). In quest’ultimo, il proposito di Dante sarebbe stato la difesa e il «rilancio di una lingua “nuova”», produttrice di uno stile di scrittura che fosse particolarmente adatto ad una «narrazione filosofica in volgare». Il Convivio si presente-rebbe, così, come «un’avventura della conoscenza» (p. 36), fondata sul principio secon-do cui la «grana della voce» di chi narra sarebbe «inseparabile e coincidente rispetto alla grana del pensiero» (p. 38). Come si sa, il «Trattato secondo» dei quattro che costituis-cono l’opera in questione inizia con la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, seguita dal commento filosofico di essa. Ebbene, tale commento seguirebbe «il filo con-duttore dell’intendere-comprendere-interpretare» e sarebbe l’indice del «movimento di un pensiero» (p. 41) che procede per confronti, alternanze e comparazioni.

Il contributo critico di János Kelemen, prima ricordato, mette in risalto, invece, il «carattere autoreferenziale e autoriflessivo» della Divina Commedia, in quanto testo che contiene in se stesso la propria poetica. Essa è, forse, «la prima tra quelle opere letterarie in cui l’autoreferenzialità è un principio formativo»: autoreferenzialità in virtù della qua-le lo stesso autore di essa si configura come «un puro effetto di testo» (p. 100).

Il volume presenta, inoltre, diversi saggi che prospettano problemi esegetici connes-si con il commento della Commedia, nonché di altre opere dantesche. Abbiamo, così, i contributi critici di Saverio Bellomo, Per un nuovo commento alla Commedia (pp. 85-96), commento a cui l’Autore sta lavorando da anni e che vedrà presto la luce, di Gior-gio Inglese, Esperienze di un commentatore dell’Inferno dantesco (pp. 121-30), dove sono presentati i risultati del lavoro testuale ed esegetico che ha già messo capo all’edizione della prima cantica (Carocci, Roma 2007), e di Jόszef Nagy, I criteri metodologici del commento per la nuova edizione ungherese della Monarchia (pp. 151-9), dove si discuto-no i motivi che rendono necessaria una nuova edizione ungherese del trattato politico di Dante, dopo quella di Géza Sallay del 1962.

Chiudono la prima sezione, infine, i saggi di Snježana Husić, Identità animali nella Commedia dantesca: tassonomia e interpretazione (pp. 173-83) e di Éva Vígh, Moralità zoomorfe nella Commedia (pp. 185-99). Entrambi di argomento affine, si fanno eco l’un l’altro, nel senso che, mentre il primo si occupa di inventariare e di classificare – nel capolavoro dantesco – «tutte le occorrenze zoonime nonché le presenze animali “sotte-rranee”, velate in metafore, perifrasi e topoi» (p. 174), nel secondo, invece, il simbolis-mo animale è visto, appunto, come «una figura retorica» che, nelle tre cantiche, provve-de ad «arricchire e variegare il discorso poetico» (p. 187).

Nella seconda sezione del presente volume, viene documentata la “storia degli effet-ti” prodotta dall’opera dantesca in contesti culturali quali: il Nordamerica (Rino Capu-

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to, Critica dantesca nordamericana, pp. 203-4), la Francia (Marina Marietti, Dante in Francia: da ieri a oggi, pp. 205-12), la Romania (Monica Fekete, La presenza di Dante in Romania, pp. 213-20), la Germania (Hans Werner Sokop, Le traduzioni tedesche della Divina Commedia, pp. 237-46) e la Spagna (Juan Varela-Portas de Orduña, L’allegoria analitica della scuola dantesca di Madrid, pp. 317-26). Qui, viene riconosciuta anche sia l’enorme importanza che, per la letteratura ungherese del Novecento, ha avuto la ver-sione (tra il 1908 e il 1923) di Mihály Babits della Commedia (Péter Sárközy, La tradu-zione ungherese della Divina Commedia di Mihály Babits, pp. 247-59), sia la presenza di alcuni “errori” in essa, dovuti all’assunzione, da parte del traduttore, di una precisa linea esegetico-interpretativa (Norbert Mátyus, Errori e/o interpretazione nella traduzione dan-tesca di Mihály Babits, pp. 261-70). Al riguardo, Ádám Nádasdy (Due brani della nuova traduzione ungherese della Divina Commedia, pp. 271-88), annunciando che una nuova traduzione della Commedia è, a sua cura, in cantiere, presenta al pubblico due brani, già tradotti, di essa: il Canto I dell’Inferno e il II del Paradiso.

Molto significativa, in questa seconda sezione, è la testimonianza di Nguyen Van Hoan, Perché ho avuto il coraggio di tradurre la Commedia? Le mie difficoltà (pp. 289-91), che ci mette a parte dei numerosi problemi incontrati da chi, come lui, ha effettua-to la prima versione del capolavoro di Dante in lingua vietnamita.

Chiudono il presente volume due contributi critici dedicati a verificare l’incidenza della lezione dantesca in arti diverse da quella letteraria: nel cinema (Judit Bárdos, Dante e il cinema, pp. 339-47) e nella grafica, con l’esempio dato da un artista novecentesco croato che ha illustrato l’Inferno (Morana Čale, Traduzione, illustrazione, spettro: L’Inferno nei disegni di Ivan Meštrović, pp. 359-82).

Giuseppe D’Acunto

Mario Miegge, Vocazione e lavoro, Claudiana, Torino, 2010, 200 p. In un’epoca di crisi economica e sociale come la nostra, la produzione è entrata in

una fase di sostanziale stagnazione l’anello debole della catena produttiva è il lavoratore. Ogni sforzo del mondo politico ed imprenditoriale sembra indirizzarsi ai beni, sacrifi-cando quello che un termine piuttosto infelice viene chiamato capitale umano, in quan-to il lavoratore viene identificato con un concetto di natura prettamente commerciale.

In questo contesto la riflessione si indirizza sul significato e sulla funzione del lavoro nell’ambito della società e soprattutto dello sviluppo della personalità umana.

Quale è il fine del lavoro ? Ha ancora senso oggi parlare del lavoro come di un a-spetto fondamentale della personalità umana ?

Un valutazione sul ruolo attuale del lavoro per la personalità umana richiede una analisi che si fondi su strumenti complessi, che tenga conto delle scienze umane, stori-che e sociali. Ma possiamo anche fare un passo ulteriore e provare a dare alla ricerca un taglio teologico e cercare una giustificazione del lavoro alla luce del messaggio evangeli-co.

Questo ambizioso ed affascinante proposito è stato fatto proprio da Mario Miegge, autorevole docente universitario di filosofia delle religioni, il quale ha condotto la sua approfondita analisi nel pregevole volume “Vocazione e lavoro”, Claudiana, 2010.

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Lo studio dell’autore, imperniato sulla teologia protestante, si fonda sull’analisi di tre opere della riforma inglese che delineano un quadro ben preciso del significato del lavoro nell’ambito dell’ Inghilterra a cavallo tra il XVI e XVII secolo. Gli autori sono ecclesiastici che vivono la loro esperienza pastorale in un Inghilterra dilaniata, soprattut-to nella prima metà del XVII secolo, dai fremiti della rivoluzione antimonarchica e dalla successiva restaurazione.

Il primo autore che viene preso in considerazione è William Perkins, teologo calvi-nista dell’Università di Cambridge, autore del “Trattato sule vocazioni”.

Perkins, partendo dal presupposto che Dio è il centro dell’universo, afferma con chiarezza che Dio ha dato ad ogni uomo una vocazione, che è generale laddove riguarda tutti gli uomini che sono chiamati a glorificare Dio, esaltandone la grandezza, ma di-venta poi particolare in quanto ogni uomo deve ricoprire nella comunità della Chiesa di Dio un ruolo ben preciso in base alle distinzioni stabilite da Dio stesso. Il ruolo di cia-scun essere umano si realizza in una società costruita secondo un tripartizione impernia-ta su Repubblica, Chiesa e Famiglia. In base a questa suddivisione si distinguono i ruoli che garantiscono l’essenza e l’esistenza stessa della società, ad esempio i ruoli di padroni e servi, di magistrati e sudditi, di Ministri e popolo, ed i ruoli che concorrono al “buo-no, felice e pacifico stato di una società” e che sono le callings (vocazioni) di ciascun in-dividuo, chiamato ad offrire nella società il ringraziamento per quanto Dio gli ha voluto concedere, concorrendo al benessere di tutti.

Si tratta di un ordine perfetto dove la razionalità di Dio si palesa in tutta la sua per-fezione, ed è in questo ordine armonico e forse un po’ rigido che si delineano alcune figure di disordine sociale in quanto non svolgono attività produttive. Vagabondi, mo-naci, frati, gentiluomini ricchi ed oziosi ed i servi improduttivi sono la manifestazione di un disordine sociale e morale che rompe l’equilibrio di un ordine perfetto. L’accusa dell’autore colpisce il vertice e la base della piramide sociale di quell’epoca e nella de-monizzazione del parassitismo sociale si definisce il ruolo sempre più impetuoso della nuova borghesia capitalista, che fa del lavoro lo strumento che porta all’innalzamento personale nell’ambito della società. L’uomo è chiamato a svolgere il suo lavoro, a rico-prire il suo ruolo, ma anche ad operare una precisa scelta di ciò che vuole fare per ono-rare Dio e se stesso.

La rigidità della calling si attenua alla luce della volontà del singolo, della sua capa-cità di scegliere la via da seguire, purché egli liberamente ed onestamente manifesti le proprie capacità e le proprie aspirazioni e scelga la propria missione in piena concordan-za con la legge morale. Uomo e calling devono adattarsi l’uno all’altra e l’uomo deve trovare una vocazione idonea da seguire, dopo aver valutato le sue potenzialità ed aver scoperto i propri punti di forza. L’uomo si fa responsabile del suo destino ed in tal senso diventa il protagonista dell’universo creato da Dio, la sua creatura più perfetta che nella propria vocazione esalta la grandezza del Creatore e gli rende grazie in eterno.

Ma la scelta non è sufficiente, perché l’uomo deve entrare nella vocazione ossia deve essere legittimato ad assumere la sua calling e ciò può avvenire solo grazie alla chiamata esteriore operata dagli uomini che Dio ha posto nella società al fine di ordinare le voca-zioni. L’assegnazione dei ruoli non avviene in modo autoritario ma seguendo uno schema elettivo che rievoca la designazione elettiva dei Ministri e dei Diaconi. Il ritorno alle origini rappresenta il fondamento e la giustificazione di quella Chiesa universale che caratterizza il pensiero della Riforma, dove ogni uomo è chiamato ad agire in vista della realizzazione del Regno di Dio.

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Il lavoro inteso come calling costituisce il cardine di una società nuova, rivoluziona-ria al punto da consacrare il lavoro come ringraziamento dei doni ricevuti da Dio; tutta-via il fine ultimo di tutto questo è il giorno del giudizio, quando l’uomo dovrà rendere conto delle sue azioni e dovrà giustificare la propria vita agli occhi di Dio. Sarà la fine di ogni gerarchia fondata sulla vocazione, la realizzazione di una eternità senza uffici o ruo-li di governo, in una sorta di ordine senza differenze tra i membri della Chiesa che de-termina la perfetta società dei Santi.

Il secondo autore che viene preso in considerazione è Richard Steele, pastore londi-nese, autore di “The tradesman’s calling”. Steele, a differenza di Perkins, supera la vi-sione teologica del concetto di lavoro e ne mette in rilievo gli aspetti etici, delineando un significativo cambiamento culturale e spostando l’accento sull’interazione tra Dio e l’uomo.

La calling diventa il riferimento di una condotta più soggettiva e personale, che conduce l’uomo ad una perfetta conoscenza di Dio. La vocazione glorifica Dio ma al contempo la sua legittimità garantisce la felicità agli esseri umani, creando una perfetta simbiosi tra grandezza di Dio e felicità dell’uomo. L’uomo nel lavoro rende gloria a Dio e realizza ciò che la natura, le Sacre Scritture e la ragione gli prescrivono; è la consapevo-lezza che si lavora per sostentarsi ma anche per realizzare se stessi nel rispetto dei princi-pi di etica religiosa e della razionalità del pensiero umano.

Il ruolo che ciascun uomo riveste nella collettività dimostra che l’uomo non può vi-vere isolato dagli altri e che la sua funzione contribuisce a soddisfare i bisogni della col-lettività. Il lavoro produce beni o servizi che soddisfano bisogni e definisce il nostro ruo-lo in un contesto non solo economico ma soprattutto etico. L’uomo che lavora è il pro-fessionista che costruisce la società, che mediante le competenze e l’esperienza contribui-sce al benessere della collettività. In un mondo così costruito non c’è posto per i monaci che vivono per se stessi, in uno sterile esercizio di vana religiosità, ma nemmeno per co-loro che vivono fuori dalle leggi umane e divine e per i cristiani pigri.

Il lavoro, la vocazione derivano da una valutazione razionale delle proprie capacità, che finiscono per estrinsecarsi in due attività ben specifiche, le attività condotte con la lingua e quelle condotte con le mani. La centralità del lavoro diventa elemento fondante di una humanitas nuova, in cui ratio et fides si compenetrano in una costruzione sociale nella quale Dio e uomo sono i poli di un equilibrio e di una armonia ben definita. L’equilibrio deriva dalla prudenza che Dio infonde nell’uomo e che lo guida nel perse-guimento del suo benessere. E’ nella prudenza che si realizza la perfetta vita del credente che dedica tempo alla spiritualità ed al lavoro, consacrando una quotidianità ricca di impegno e di profondo senso di appartenenza alla collettività.

Il terzo autore analizzato a Mario Miegge è Richard Baxter, autore del Christian Directory.

L’analisi delle attività professionali e produttive operata da Baxter rovescia i termini proposti dai primi due autori che subordinano il lavoro alla calling, mentre Baxter dà piena dignità al lavoro come concetto assolutamente universale. La centralità del labour evidenziata da Baxter verrà ripresa nelle elaborazioni successive di studiosi come Max Weber ed Hannah Arendt, che sposteranno la loro attenzione dalla sacralità del lavoro alla sua frammentazione, alla rigida ripetitività di gesti avulsi da qualsiasi aspetto etico, alla sua spersonalizzazione in un mondo dominato dalle macchine.

Baxter prende come riferimento il concetto di labor, concetto che nel Medioevo e-videnziava gli strati sociali più bassi (i laboratores) e ne mette in rilievo la “naturalità”, elemento che accomuna uomini ed animali. Il labor è una necessità connessa diretta-

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mente alla calling, la quale perde il suo significato teologico “, per definire piuttosto una attività professionale, un obbligo sia morale che materiale.

La giustificazione di questo obbligo si riscontra nel precetto paolino “chi non vuol lavorare, non mangi” e Baxter si contrappone a San Tommaso, che prevede che gli ec-clesiastici per il loro ruolo siano esentati dal lavoro manuale. Riappare l’antica accusa rivolta al clero, di una scarsa attitudine al lavoro manuale, accusa basata sulla constata-zione (parzialmente fondata) del graduale allentamento degli stretti vincoli tra lavoro e preghiera, riassunti nell’antico precetto benedettino “ora et labora”; tuttavia non solo il Clero ma anche la nobiltà parassitaria rientra nel novero del precetto paolino, precetto che invece diventa un vincolo per la nuova classe borghese.

E’ alla borghesia che si rivolge Baxter, quella stessa classe che nei principi spirituali della Riforma ha trovato la giustificazione morale e sociale della sua ascesa. Non è un caso che dalle guerre di religione in poi le nazioni che acquisiranno un ruolo sempre più preponderante sono di fede protestante (Inghilterra ed Olanda) o comunque legate a scambi sempre più stretti con il mondo della Riforma (Francia).

In questo nuovo contesto sociale il lavoro costituisce il contributo di ciascun indi-viduo al benessere di tutti e non si distingue più il lavoro manuale da quello spirituale (relativo ai Pastori), in quanto il lavoro spirituale è pur sempre finalizzato al benessere spirituale, quindi in termini di vantaggio sociale contribuisce alla costruzione di una so-cietà perfettamente rispettosa dei precetti divini. Il lavoro dell’uomo trae giustificazione dal sommo worker, Dio il quale si compiace dell’opera dell’uomo, che non ne accresce la grandezza ma ne esalta la misericordia, la quale informa l’atto creativo de-ll’Onnipotente; anche in questo senso Baxter rilegge il concetto di calling, la quale di-venta un “corso stabilito ed ordinato di lavoro”, contribuendo a dare piena legittimità al concetto stesso di lavoro che acquisisce ora un ruolo assolutamente autonomo.

Il lavoro dà il sostentamento agli esseri umani ma garantisce anche la proprietà dei beni (come asserisce il filosofo Locke), che deriva dalla disponibilità del proprio corpo e del proprio lavoro, escludendo qualsiasi diritto comune di altri uomini sui beni guada-gnati con lo sforzo della propria attività. In tal senso il lavoro è la misura del valore dei beni prodotti, concetto che condurrà alle teorie del valore del lavoro, tanto care a Marx. Il lavoro, inteso come proprietà di ciascuno, diventa un bene di per sé e quindi può es-sere alienato come qualsiasi bene mediante uno scambio economico tra forza lavoro e salario. Con lo scambio lavoro – salario si realizza la perfetta autonomia del lavoro e l’uomo padrone delle sue capacità lavorative le mette a disposizione della società eco-nomica, dove si realizzano gli scambi commerciali finalizzati a soddisfare i bisogni mate-riali degli individui. Spetterà ai Pastori assumersi l’onere di educare i lavoratori ed i da-tori di lavoro, instillando loro il senso della “Religione del lavoro”, che dà senso e valore al lavoro.

La quarta parte del volume analizza ciò che resta dei principi della Riforma nell’ambito della odierna ideologia del lavoro.

Il lavoro, nel quale vanno sempre più sfumando le differenze tra work e labour, di-venta lavoro politico, dove predomina l’aspetto ideologico rispetto all’aspetto vocaziona-le. La politicizzazione del lavoro è la risposta delle classi medie al sistema alienante della produzione , che priva l’uomo di qualsiasi capacità creativa. In questo senso, il lavoro cerca di ritrovare la sua dimensione pubblica, di ricostituire una società basata sulla rela-zione e l’interdipendenza tra le persone, affinchè l’attività del singolo si inserisca nel contesto sociale generale contribuendo al benessere di tutti.

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Tuttavia gli ultimi trenta anni hanno messo drammaticamente in crisi questo prin-cipio, sacrificando l’aspetto politico e pubblico del lavoro alla produzione selvaggia, alla competitività esasperata, al capitalismo senza scrupolo; il lavoro assume i connotati di uno sfruttamento estremo, nel quale il singolo diventa un punto quasi infinitesimale della catena produttiva, assolutamente fungibile e privo di personalità. Entra così in crisi l’etica del lavoro, ma anche la sua funzione, intesa come elemento fondamentale della società e legame tra gli individui, che nella attività produttiva ritrovano il senso più im-portante della vita comunitaria.

Studiosi quali Antoniazzi e Totano (autori di “Il senso del lavoro oggi”) e Rifkin (autore di “Fine del lavoro”) affrontano i cambiamenti di un mondo nuovo e sempre più caratterizzato dalla informatizzazione dei processi produttivi e non: il lavoro umano assume una funzione subordinata al processo produttivo meccanizzato ed il ruolo dell’uomo nel processo lavorativo si spersonalizza ancora di più. La fungibilità nel lavoro si trasforma in flessibilità, intesa come temporaneità del fattore umano nel processo produttivo; il lavoratore segue il mercato e deve essere pronto a cambiare.

L’ultima parte del libro di Miegge, significativamente intitolato “lavoro e vocazione nel tempo della crisi [2009]” è stata scritta dopo venti anni dalla pubblicazione e descri-ve un mondo ormai in crisi in cui la flessibilità del lavoro distrugge non solo la funzione dell’uomo nel contesto del lavoro ma la sua stessa immagine nella società. Oggi non sappiamo più chi siamo ma anche il mondo non sa collocarci in un ambito sociale defi-nito; quando gli altri ci chiedono “chi sei ?” riassumono il nostro senso di inadeguatez-za, la nostra incapacità di essere, di rivestire una veste politica precisa.

Il lavoro ha pero il suo senso ed ora predomina il capitale, quel capitale che non ha più bisogno di un uomo che produce, ma piuttosto di uno che consuma (l’homo con-sumens di cui parla Bauman) e che per consumare si indebita in quanto il lavoro non è più sufficiente a garantire ilo livello normale di sussistenza; se il lavoro non dà più di che vivere, la causa risiede nel fatto che il valore del nostro lavoro è diminuito fino a non poter più garantire i livelli minimi di vita. Non si investe più nella produzione e quindi nelle risorse umane, ma solo nei prodotti finanziari a breve termine, investimenti che richiedono un taglio sostanziale del costo del lavoro. A questo livello la funzione voca-zionale del lavoro perde qualsiasi riferimento reale fino a perdere identità all’uomo, or-mai atomizzato nel processo economico.

Dove ritrovare l’identità perduta? L’autore, riprendendo concetti filosofici già e-spressi vede nella coltivazione del proprio giardino un possibile ritorno ad un mondo più a nostra misura, un mondo solo apparentemente chiuso ma in realtà basato su anti-chi ideali di mutua assistenza, che possano ricostruire i vecchi e forti legami sociali tra gli uomini, vincoli che possano dare a tutti un ruolo effettivo nell’universo voluto da Dio per la creatura più perfetta della sua opera.

Massimo Alba

Brunetto Salvarani, Da Bart a Barth. Per una teologia all’altezza dei Simpson, Introdu-zione di Gioele Dix, Postfazione di Paolo Naso, Claudiana, Torino, 160 p.

Una delle espressioni più in voga del nostro tempo è quel politically correct, frutto

di un senso un po’ manicheo ed ipocrita di intendere la società.

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Nell’appiattimento generale della società contemporanea, dominata spesso da un buonismo sterile e piuttosto banale, privo di un reale slancio verso una realistica visione del mondo, gli esempi di quel politicamente scorretto, scomodo ma a suo modo estre-mamente umano, ci appaiono come una fondamentale chiave di lettura per comprende-re la realtà.

Uno di questi esempi ci viene offerto da una famiglia strana (fin dal colorito giallo della pelle), che riassume i molti vizi e le poche virtù della nostra società. Ci riferiamo ai Simpson, nati negli Stati Uniti e successivamente sbarcati nel vecchio continente, con tutto il loro carico di contraddizioni e debolezze.

Molti studiosi e filosofi si sono cimentati nello studio di questa famiglia ed hanno cercato di comprenderne la filosofia e lo straordinario successo. Un brillante saggista, Brunetto Salvarani, è andato ancora oltre ed ha affrontato il rapporto della gialla fami-glia americana con il divino.

Tale intento si è concretizzato in un breve ma interessantissimo volume dal signifi-cativo titolo da Bart a Barth, Claudiana, 18 Euro, vero e proprio compendio del rappor-to tra questa famiglia ed il divino.

Il significato del titolo viene esplicato con maggiore chiarezza nel sottotitolo che re-cita “per una teologia all’altezza dei Simpson”, nel quale l’espressione “all’altezza” assu-me presumibilmente un duplice significato. Infatti il termine può essere inteso, con una sfumatura negativa, come una semplificazione dei principi teologici in modo da renderli compatibili al livello culturale dei Simpson (generalmente non troppo alto soprattutto negli elementi maschili della famiglia), ma anche in un senso diverso ossia come un ten-tativo della teologia di trovare un senso in un mondo sempre più a misura dei Simpson, la cui visione teologica diviene paradigma dell’idea di sacro della nostra società.

Il panorama dei principi religiosi dei membri della famiglia Simpson è estremamen-te diversificato e si va dal sincero sentimento religioso della paziente Marge al disinteres-se (almeno apparente) di Homer verso ogni forma di religiosità, passando attraverso lo scetticismo della figlia Lisa e l’irriverenza di Bart, che incarna senza dubbio l’aspetto più eretico o demoniaco della famiglia. Nella famiglia Simpson convivono le contraddizioni della società americana nella quale sussistono aspetti di profonda religiosità (sicuramente troppo puritana) e di altrettanto forte ateismo o nella migliore delle ipotesi di spiccato scetticismo nei confronti dei problemi religiosi. E’ un po’ il leitmotiv della nostra epoca sempre più secolarizzata, caratterizzata da una religiosità confusa e da una fede vacillan-te.

Cominciamo dalla figura di Homer, il capofamiglia, scansafatiche e gran bevitore di birra, perso dietro ai suoi continui fallimenti professionali ed anche umani. Da un pun-to di vista religioso, in lui non vi è nulla di ideologicamente definito (e definitivo) e la sua “religiosità” si manifesta in una disordinata ricerca di una dimensione religiosa, che potremmo riassumere nella fulminea battuta “Si, Dio è il mio personaggio immaginario preferito”, o nell’altrettanto esilarante battuta “Di solito non sono un uomo religioso, ma se tu sei lassù, salvami … Superman”. Il passaggio da un personaggio immaginario ad un supereroe è il sintomo di un uomo spiritualmente in crisi di identità o in crisi di inflazione di fede, che sostituisce la fede con tante fedi incerte e di breve durata, quasi ci trovassimo in un fast food dello spirito.

Homer è figlio del postmodernismo, del dubbio di un mondo che si è svegliato in un oggi privo di punti fermi e sta cercando di ricostruire il suo rapporto con il sacro tra molte contraddizioni ed errori.

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Agli antipodi di Homer si pone Ned il vicino di casa dalla fede cieca ed indissolu-bilmente legato alle Sacre Scritture, che sono per lui guida spirituale ma anche regole sociali; Ned non è pervaso da dubbi se non nel momento in cui questi mettono in di-scussione la coerenza tra il vivere quotidiano ed i principi biblici. Mentre Homer svi-luppa una religiosità “fai da te”, disordinata ma aperta alle più diverse istanze spirituali e quindi priva di sostanziale fanatismo, Ned segue acriticamente le Sacre Scritture con il solo scopo di conformare tutta la sua vita ai precetti divini (o all’interpretazione dei pre-cetti che egli stesso ne dà) e quando dubita della sua moralità tormenta il Reverendo Lovejoy affinchè gli dia le certezze necessarie, fino al punto da indurre l’estenuato Reve-rendo a consigliargli di rivolgersi anche ad altre religioni non cristiane che afferma essere pressappoco identiche al Cristianesimo.

I due personaggi sono gli estremi di un unico filo conduttore, di una America che vive tra una sfrenata mondanità ed una religiosità di stampo puritano che non lascia spazio ad alcun compromesso con la modernità, gelosa della sua purezza etica, vera o presunta che sia.

Nel mezzo tra queste posizioni c’è Marge, moglie paziente e trascurata di Homer, con la sua religiosità sincera e semplice; Marge sente tutta la sua responsabilità di guida-re la famiglia verso quei valori etici e spirituali che marito e figli sembrano aver perduto (o forse mai posseduto).

I tentativi coraggiosi ma alla fine piuttosto velleitari di Marge di inculcare nei figli e soprattutto nel marito un profondo senso religioso risultano spesso frustrati (e frustranti per la povera donna), ma non sembrano scoraggiarla e continua imperterrita nella sua opera di evangelizzazione dei suoi familiari. Non possiamo non ammirare la forza di Marge quando cerca disperatamente si strappare Homer da una setta religiosa che lo aveva irretito ed alla quale inizialmente Marge stessa aveva aderito per spirito di obbe-dienza al capofamiglia.

Fedeltà a Dio ed alla famiglia ma senza rinunciare al buonsenso ed all’equilibrio, questo il senso della vita di Marge, una donna saggia che difficilmente si lascia conqui-stare dai tanti falsi profeti di questo nostro mondo caratterizzato dai settarismi e dai fa-natismi religiosi. La sua fede, apparentemente semplice, è il tipico prodotto di quel pro-testantesimo americano dalle tante anime, figlio di una società multietnica ma ancora legato alla vecchia fede dei padri fondatori. Marge rappresenta la folla silenziosa dei fe-deli che, sebbene sempre più dubbiosi delle reali potenzialità spirituali delle grandi reli-gioni, scelgono di rimanere coerentemente fermi sulle proprie posizioni con la certezza di poter trovare nella tradizione le risposte ai propri dubbi. Una religiosità modesta e paziente che nel caso di Marge è destinata ad un sicuro fallimento, soprattutto perché la sua dedizione verrà delusa dal disinteresse dei figli nei confronti dei precetti religiosi. L’atteggiamento dei figli è sostanzialmente duplice. Elisa, vera e propria coscienza critica della famiglia, opterà (con gran delusione della madre) per una personalissima adesione al Buddismo, derivata da una forte delusione nei confronti dell’ipocrita materialismo della chiesa locale, il cui Reverendo Lovejoy finisce sempre per chiedere ai fedeli di met-tere prosaicamente mano al portafoglio. La bambina si ribella a questa ipocrita visione spirituale e cerca vie alternative senza tuttavia rinunciare al suo scetticismo di fondo, che la porta ad aderire razionalmente al Buddismo; in questo senso Elisa rappresenta la folta schiera dei razionalisti che non rinunciano a cercare una loro spiritualità, rivolgendosi senza pregiudizi ma pure senza particolari illusioni alla religione.

Il limite di atteggiamenti di questo tipo risiede in una visione troppo panteistica della religione, in una fluidità ideologica che finisce in una sostanziale accettazione di

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tutti i credi religiosi ma di nessuno in particolare, con il pericolo di passare da un credo religioso all’altro senza comprendere i valori insiti in ognuno in una sorta di sincretismo spirituale che rischia di far perdere di vista i valori peculiari e fondanti di ogni religione. La ragione soffoca il sentimento religioso e rielabora a suo modo i valori spirituali depo-tenziandoli della loro carica emotiva.

In tal senso Elisa rappresenta l’adesione condizionata alla fede in una sorta di anti-nomia logica nella quale la fede viene riletta alla luce di uno scetticismo critico.

Molto diverso è l’atteggiamento del fratello, quel Bart che è la vera anima demonia-ca della famiglia. Bart si approccia ai problemi religiosi con lo spirito dissacrante che lo contraddistingue, con quella violenza verbale tipica dei suoi sfoghi.

Di fronte al mistero di Dio, Bart si limita ad esclamare “Dio è tosto”, nel suo slang esagerato e politicamente scorretto, condensando in una battuta fiumi di inchiostro ver-sati da illustri teologi. Il gusto della dissacrazione permette a Bart di avvicinarsi ai miste-ri religiosi con una leggerezza che sembra superficiale ma che nasconde molte sorprese. Nell’episodio particolarmente esilarante che vede Bart nelle vesti di un sedicente guari-tore, in un novello Gesù, la ridicolizzazione della nostra sete di miracoli raggiunge livelli estremi e la riflessione si apre in un sorriso amaro. La religione diventa spettacolo, esplo-sione di una fantasmagoria di luci che illuminano un nulla metafisico, che si spegne in un buio pericoloso ed ignoto. Ma Bart va ancora oltre e finisce per vendere la sua anima per pochi dollari, convinto di aver ingannato un amico piuttosto credulone, salvo poi pentirsi e cercare disperatamente di riacquistare quanto inopinatamente venduto essen-dosi accorto di essere vittima di misteriosi cambiamenti nella propria vita. Siamo tutti novelli Faust pronti a venderci per pochi spiccioli salvo poi ripensarci quando ci ritro-viamo soli nel nostro vuoto esistenziale.

Come Bart ci perdiamo dietro al materialismo, alle mode del momento, ai mille profeti di ventura e di sventura e vendiamo l’anima a chi ci promette una felicità effime-ra che alla fine ci lascia soltanto più delusi ed aridi. In tal senso possiamo ricollegarci al titolo del libro e ripercorrere il senso della teologia barthiana (dove l’acca non è un refu-so), nella quale alla diffidenza verso la religione, intesa come vuota ritualità, fa da con-trappeso una riscoperta della fede, unica vera anima di una religione ormai ridotta a me-ro feticcio; la riscoperta della fede è la grande scommessa del nostro tempo ed è per que-sto che oggi parliamo al plurale di fedi, in quanto ognuno di noi traspone nella fede le sue speranze, le sue certezze, i suoi dubbi. La pluralità di fedi che ha invaso il nostro mondo ci permette di rievocare la splendida scena finale del libro, in cui un Homer dub-bioso si ritrova seduto al bar con un vecchio che si rivela essere Dio ed al quale Homer pone una domanda che imporrebbe una risposta risolutiva “caro Dio, per favore dimmi una volta per tutte, chi possiede la vera fede ?”. La risposta è spiazzante ma al tempo stesso fulminante “a dirti la verità, figlio mio, non sono religioso, non lo sono mai stato, la reli-gione nemmeno mi interessa”. In poche parole si riassume il senso più profondo della fe-de, che non è un guscio vuoto fatto di sterile ritualità e di incomprensibili ragionamenti teologici, ma una reale accettazione dell’altro, un costante esercizio di tolleranza che porti a comprendere le ragioni di chi ha una diversa concezione religiosa. Un antico detto ebrai-co recita “l’uomo pensa, Dio ride” ed è con questa risata che Dio seppellisce l’ipocrisia umana, illuminando il nostro vuoto interiore. E chi meglio di una strana famiglia gialla potrebbe indicarci la via verso quella vera fede che un Dio molto ironico cerca costante-mente di insegnarci?

Massimo Alba

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Gianmaria Merenda

Recensione pubblicata originariamente in ReF - Recensioni Filosofiche, numero 51, giugno 2010 http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2010-06/bencivenga.htm

Información Filosófica Vol. VII (2010) núm. 15

pp. 180-181

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Alessia Affinito - Virginia Lalli (ed.), L’aborto e i suoi retroscena. Vite e maternità spezza-te, IF Press, Morolo 2010, 247 p.

La questione aborto, dopo la sua legalizzazione in Italia, è considerata chiusa da tempo: rimossa, cancellata. Si tratta invece della prima causa di morte in Europa: un aborto ogni 11 secondi.

Dieci saggi introdotti da Antonio Baldassarre esaminano l’aborto legale come non viene mai raccontato. Nei suoi controversi aspetti giuridici, nella carica distruttiva che reca con sé, nel rifiuto che è in grado di opporre all’altro. In quali termini si può parlare di una vita prenatale? Quali sono gli effetti della sofferenza post-abortiva? Esiste una re-lazione tra difesa della vita e democrazia? Il testo offre un approfondimento pluridisci-plinare attraverso contributi che affrontano i molteplici aspetti della questione: dalle implicazioni filosofiche e politiche dell’aborto di Stato alle misure di sostegno alla ma-ternità difficile, dalle questioni di carattere giuridico della legislazione abortista ai pro-blemi poco noti della cosiddetta “contraccezione d’emergenza” e dell’eutanasia prenata-le.

AM

Giuseppe Noia - Sabrina Pietrangeli (ed.), La terapia dell’accoglienza. L’incompatibile con la vita, annuncia la Vita, IF Press, Morolo 2010, 360 p.

Questo nuovo volume dell’Associazione Onlus “La Quercia Millenaria” rappresenta

una nuova visione della Vita, intesa proprio come “cultura della vita”. Qui vengono sfa-tati tanti luoghi comuni, dove si poggiano il pietismo che conduce all’aborto e l’illusione che esso sia la panacea di tutti i mali, laddove un bambino in grembo presenti delle malformazioni gravi. Il volume contiene numerosi contributi di autorevoli uomini di scienza, ma capaci di vedere “oltre”. Uomini di scienza che non trattano il paziente come fosse la personificazione della malattia, medici in grado di prendersi cura del pa-ziente, della sua vita nella sua interezza, e della famiglia di cui fa parte. Ecco che allora fanno notizia affermazioni autorevoli nelle quali si dice semplicemente che la sepoltura

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di un figlio amato e accolto è molto meno dolorosa di una interruzione della gravidanza a metà percorso. E fa notizia sapere che un malato cronico dalla nascita, considera buo-na la sua qualità di vita perché non ha altri elementi di paragone. Fa notizia leggere che anche nella terminalità, non esiste il “sempre” e non esiste il “mai”, perché tutto può essere condito di speranza e quindi vivibile in modo dignitoso. Ad avvalorare queste teo-rie, che profumano di nuova evangelizzazione, ci sono 15 storie d’amore, un amore immenso di alcune coppie di genitori nei confronti dei loro bambini. Questi genitori hanno salutato i loro figli, e pur nell’umano dolore, hanno saputo vedere nell’esistenza dei loro figli malati e terminali, un disegno di amore per la loro vita. Questo ha rappre-sentato per loro la forte spinta ad andare avanti con speranza, e ad accogliere nuova-mente la vita.

AM

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The Información Filosófica is an international journal and is open to a wide range of philosophical views. It is edited in Italy by IF Press. The editors of Información Filosófica welcome contributions both in its own specific filed or from closely related disciplines. Submissions in the following categories are accepted: articles, review articles, viewpoints, brief reports of meetings, and notes or suggestions about articles, books or websites of interest to editors of scientific journals or books. Copyright in contributions belongs to the author. Contributions to Información Filosófica can be sent preferably by email to: [email protected]. All texts will be subject to peer review. Final acceptance or rejection is decided by the Publications Committee.

  

Esta revista se terminó de imprimir en los talleres de RSB International srl

en el mes de enero 2011

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Sandro Borzoni

SOÑANDO LA REVOLUCIÓN. LA IZQUIERDA EN ITALIA Y LOS ORÍGENES DEL 68

Resumen  

El ensayo de Danilo Breschi «Sognando la rivoluzione» ofrece una aproximación a los orígenes del 68 en Italia de tipo fenomenológico. Se analizan las vicisitudes de la izquierda italiana desde la crisis del mo‐delo estalinista (1957), que se repercutió duramente en el Partido Comunista italiano, hasta las primeras manifestaciones obreras de  los años sesenta y  la formación de  los primeros núcleos extraparlamenta‐rios que dieron voz a la contestación estudiantil.  Palabras clave: Italia, Partido Comunista italiano, estalinismo, 1968.  Accepted for publication: May 08, 2009.  Información Filosófica 2009; 12; 181 DOI 10.3308/if.2009.12.08  The online version of this article, along with updated information and services, is located on the World Wide Web at: http://www.philosophica.org/public/pdf/IF091‐borzoni.zip    

Contributor Notes  

Sandro Borzoni  sta  attualmente  elaborando  una  tesi  di  dottorato  sulle  relazioni  del  fascismo  con  il mondo intellettuale spagnolo degli anni trenta, presso l'Università di Salamanca.     Online ISSN 1721‐7709 ‐ Print ISSN 1824‐7121  © The Author [2009]. Published by IF Press.  All rights reserved. For Permissions, please e‐mail: info@if‐press.com