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A tutti coloro che credono che le
parole siano il primo passo per
ricordare il passato, progettare il
futuro, cambiare il presente.
1
PARTE
I
“L’ARTE DEL DOPPIAGGIO”
2
1.3. Il dialoghista non traduce, adatta
La traduzione audiovisiva è un settore complesso, come è stato sottolineato
precedentemente, che presenta diversi ambiti di attività, (questi ultimi verranno
elencati e definiti nei prossimi capitoli), in questa sezione è opportuno restringere il
campo della traduzione audiovisiva alla traduzione per il doppiaggio, definita anche
traduzione filmica, processo tramite il quale la colonna dei dialoghi in lingua
originale di un film viene sostituita dalla colonna dei dialoghi nella lingua d’arrivo in
cui si è deciso di doppiare il film stesso. Il doppiaggio dunque, è l’espediente più
moderno adottato dall’industria cinematografica per superare le barriere linguistiche
ed esportare il prodotto al di fuori dei confini della lingua in cui il film è stato girato.
Da questo primo approccio è chiaro che, alla base del doppiaggio, ci sono
principalmente motivi di natura economica che, nel corso degli anni, hanno
influenzato il processo stesso; tuttavia le questioni di mercato saranno analizzate in
seguito, ciò che si vuole evidenziare nell’immediato è come il processo del
doppiaggio si articola, come ha inizio nell’atto pratico e soprattutto con chi ha inizio
in quasi tutte le circostanze. Il primo passo nel processo del doppiaggio di una
pellicola cinematografica o televisiva è mosso dal dialoghista, definito anche
traduttore/adattatore o semplicemente adattatore, ma mai solo traduttore. Questo
perché definire tale figura solo con il termine traduttore non sarebbe esaustivo nel
comprendere il suo intero campo di competenze nell’ambito della traduzione filmica.
Ciò che l’adattatore ha di fronte, quando inizia il suo lavoro, non è un semplice
testo, una semplice sceneggiatura o lista di dialoghi, egli ha di fronte un film, cioè un
sistema complesso costituito da un codice visivo, uno sonoro e uno verbale,
costituito da immagini, suoni, rumori e attori che recitano battute. Benché il compito
del dialoghista sia quello di trasporre la sceneggiatura da una lingua ad un’altra,
dunque di intervenire sulla componente verbale della pellicola, il suo intervento non
può prescindere da tutti gli altri elementi che costituiscono il film stesso, “ogni
parola assume significato in base al contesto generale e al corpus culturale espresso
dall’intero film, ciò che deve essere ogni volta ricostruito è il rapporto tra parole e
immagini”.1
1 M. Paolinelli, E. Di Fortunato, op. cit., pp. 1 – 2.
3
Ecco perché il dialoghista non traduce la sceneggiatura che ha di fronte, ma
l’adatta, ossia cerca di riprodurre nella propria lingua in modo equivalente le battute
pronunciate nella versione originale.
Tuttavia quale è l’accezione esatta dell’aggettivo equivalente? Ci sono
compromessi a cui un traduttore/adattatore deve scendere nell’adattare la
sceneggiatura di un film? In che cosa il suo lavoro differisce da quello di un
traduttore letterario o scientifico?
Per rispondere a tutti questi quesiti si analizzerà il ruolo specifico del
dialoghista nel processo del doppiaggio.
Il traduttore/adattatore è “colui che, se ciò a cui ci riferiamo è un testo – cioè il
testo sonoro della versione italiana di un film girato in altra lingua – realizza di
questo testo un pre – testo , cioè un testo che viene elaborato preliminarmente, un
copione al quale gli attori doppiatori, coordinati dal direttore di doppiaggio,
lavoreranno successivamente, a volte apportando modifiche, accogliendo
suggerimenti che magari nascono in modo estemporaneo in sala di registrazione”.2
Il traduttore/adattatore, inizialmente, vede il film su cui lavorerà e ne analizza i
dialoghi con l’aiuto della sceneggiatura originale trascritta. Dopo aver visionato il
filmato, egli svolge un primo lavoro di traduzione letterale dei dialoghi, di verifica
del senso delle battute e quest’operazione può essere compiuta anche da una persona
diversa dal dialoghista che compierà in seguito l’adattamento vero e proprio della
sceneggiatura straniera. Nella fase successiva l’adattatore si trova a dover esaminare
una serie di elementi che vanno al di là delle parole pronunciate: egli dovrà
comprendere il senso dell’intera sceneggiatura, chi sono i vari personaggi che
parlano, dovrà studiarne e capirne la fisicità, il modo in cui appaiono sullo schermo e
perché siano stati scelti proprio quegli attori, con quelle determinate connotazioni,
per impersonarli e non altri. Egli dovrà capire perché i personaggi che parlano nelle
diverse scene, tra le parole disponibili nella loro lingua, hanno scelto quelle e non
altre, in modo tale da poter essere in grado di scegliere nella versione doppiata, tra le
tante possibilità lessicali e semantiche, quelle che rispondono allo stesso criterio di
scelta utilizzato nell’originale.
2 G. G. Galassi, “La norma traviata”, in R. Baccolini, R. M. Bollettieri Bosinelli, L. Gavioli, op. cit., p. 62.
4
Il dialoghista si impegna ad individuare il vero linguaggio del film da doppiare,
la connotazione dei dialoghi, in modo tale da poterli riprodurre, con la stessa
intensità semantica, nella versione d’arrivo; è questa la vera e propria fase di
adattamento dei dialoghi, la fase in cui il testo viene riscritto nella lingua in cui il
film verrà doppiato, la fase in cui il dialoghista riformula le battute come se fosse lo
sceneggiatore del film.
La riformulazione, la riscrittura, l’adattamento dei dialoghi di un film sono
operazioni complesse, in quanto, come detto prima il film rappresenta di per sé un
sistema complesso; il traduttore/adattatore, nel corso del suo lavoro, deve affrontare
diverse problematiche relative all’incontro/scontro dei due sistemi culturali che
esistono dietro la lingua della versione originale e dietro quella della versione
d’arrivo, relative all’intraducibilità di alcune battute e all’utilizzo dei dialetti. Egli
deve affrontare il vincolo tecnico relativo al sincronismo labiale delle battute
tradotte, queste ed altre problematiche saranno ampiamente analizzate e discusse nel
corso di questa dissertazione, proprio per mettere in evidenza quanto complicato e
affascinante sia il processo esistente dietro al doppiaggio di un film.
5
2. LA TRADUZIONE AUDIOVISIVA
2.1. Definizione di film
Questa tesi tratta in modo particolare, come già accennato nelle pagine
precedenti, di un campo ristretto della traduzione audiovisiva, quello della traduzione
per il doppiaggio o traduzione filmica. Più volte, nei paragrafi precedenti, il film è
stato definito sommariamente come un sistema complesso costituito da diversi
codici, verbali e non; tuttavia, prima di affrontare i problemi pratici riguardanti
l’adattamento dei film per il doppiaggio, è opportuno definire in modo esaustivo il
concetto di film e per far ciò utilizzeremo la definizione data da uno dei più famosi
registi italiani, Giuseppe Tornatore. Secondo quanto egli afferma, il film è:
“un susseguirsi di immagini e suoni slegati tra di loro, senza un nesso, senza una ragione, che
solo la secolare imperfezione del bulbo oculare dello spettatore e soprattutto il suo apporto intuitivo
possono trasformare in una narrazione che abbia un senso compiuto. Eppure, sebbene possa apparire
come una confusa successione di elementi espressivi, che solo la percezione dell’uomo è in grado di
trasformare in un ordine significativo, il film possiede una sua autonomia, un’indipendente quanto
ineffabile autodeterminazione, quella che durante la realizzazione di un film ci fa spesso credere che
esso faccia di testa propria, abbia una sua logica, una da strada da percorrere in conflitto persino con i
suoi autori”.3
Come afferma sempre Tornatore, “ogni film nasce da un’idea”, e tutti i
successivi passi verso la trasformazione di quest’idea in un film sono riscritture della
medesima. Lo sono la redazione della sceneggiatura, la scelta del cast, le riprese, il
montaggio. Ma le forme di riscrittura dell’idea di partenza non terminano con il
montaggio, secondo il regista “la postproduzione, la sonorizzazione, la musica, gli
effetti sonori, i rumori, il doppiaggio, il missaggio … E’ tutto uno stadio di lavoro in
cui si è alle prese con un elemento, il suono, che falsa radicalmente la percezione de
3 Lectio doctoralis pronunciata in occasione del conferimento della laurea magistrale honoris causa in Televisione, cinema e new media presso l’Università IULM di Milano, 1° dicembre 2009, riportata in G. Tornatore, La menzogna del cinema, Milano, Bompiani, 2011, pp. 38 – 39.
6
tempo e, pertanto, riscolpisce le sequenze alterandone il ritmo, spesso rivelando, altre
volte rendendo ancora più sfuggente il sottotesto narrativo dell’originario copione”.4
Dunque secondo Tornatore anche il doppiaggio è una forma di riscrittura
dell’idea di partenza ed il concetto di traduzione come riscrittura, comprendendo in
questo ambito anche le riscritture cinematografiche, era già stato introdotto dal
linguista e teorico della traduzione Lefevere nel 1992.5 Infatti, se in passato gli
studiosi si sono concentrati maggiormente sul concetto di fedeltà della traduzione al
testo di origine, negli ultimi anni, invece, l’attenzione è stata posta sulla “traduzione
come riscrittura e creazione di un nuovo testo in un nuovo contesto”.6 Infatti si è
compresa l’importanza del legame esistente tra traduzione e cultura e su come lo
stesso contesto culturale possa in influenzare la traduzione, e, nelle prossime pagine,
si analizzerà, in particolar modo, l’influenza che esso ha nell’ambito della traduzione
filmica.
Si è parlato, finora, di traduzione, di riscrittura, di contesto culturale, prima di
definire più esaustivamente il concetto di traduzione filmica, fin qui solo accennato,
verrà presentato il concetto di ‘varietà linguistiche’, utile per discutere in seguito
sulle problematiche relative al doppiaggio.
Una varietà linguistica è “una forma di una data lingua usata dai parlanti di
quella lingua. Questo può includere dialetti, accenti, registri, stili ed altre varietà
linguistiche, così come la lingua standard stessa. In genere il termine lingua è
associato solo con la lingua standard, mentre il dialetto è associato con le varietà non
standard, con caratteristiche meno prestigiose o "corrette" di quelle standard. La
linguistica si occupa sia delle lingue standard che delle varietà non standard”.7
Dunque una sceneggiatura, redatta in una determinata lingua, per esempio in lingua
inglese (verranno in seguito prese in considerazione maggiormente sceneggiature di
partenza redatte in questa lingua) presenta in essa le diverse varietà in cui si articola
la lingua stessa e l’utilizzo di queste varietà dipende da diversi fattori (contesto,
4 G. Tornatore, op. cit., pp. 47 – 48. 5 A. Lefevere, Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame. London: Routledge, 1992; edizione italiana: Traduzione e riscrittura. La manipolazione della fama letteraria, Torino, Utet, 1998. 6 I. Ranzato, La traduzione audiovisiva, Roma, Bulzoni Editore, 2010, p. 28. 7 <http://it.wikipedia.org/wiki/Variet%C3%A0_(linguistica)>.
7
gruppi sociali coinvolti, ecc …) che vanno tenuti in considerazione e riprodotti anche
nella fase di adattamento di questa sceneggiatura per il doppiaggio. Dunque il
dialoghista, nell’adattare la sceneggiatura nella propria lingua, dovrà tener presente
quali sono le varietà utilizzate nella versione originale e riprodurle nella versione
d’arrivo; teoricamente quest’operazione potrebbe apparire abbastanza semplice, in
quanto ogni lingua si articola in varietà linguistiche, tuttavia il modo in cui queste
varietà si concretizzano in ciascuna lingua è diverso, ed è proprio questa diversità a
rendere difficile l’adattamento dei dialoghi da una lingua ad un’altra.
L’analisi di questa difficoltà sarà oggetto dei capitoli successivi, mentre qui di
seguito verranno presentate le varietà linguistiche in base a cui si studia la
sociolinguistica:
• “La varietà diamesica: legata al mezzo di trasmissione della
comunicazione, distingue i testi parlati dai testi scritti ed anche dai
testi trasmessi e dai testi della video-scrittura (chat, sms)”.8
• “La varietà diastratica: è la variazione riguardante lo strato sociale del
parlante, condizione difficile da determinare e valutata secondo vari
parametri, quali censo, istruzione, attività lavorativa intellettuale o
manuale. Esistono vari tipi di italiano parlato distinti dal fattore
diastratico: italiano standard o vicino allo standard (il nostro), italiano
più lontano dallo standard i cui caratteri sono l’uso del pronome
all’accusativo come soggetto e frequenza dell’indicativo dopo i verba
putandi, e italiano popolare, usato dalle classi più umili e con
caratteristiche censurate socialmente come l’uso del ci come pronome
al dativo.
• La varietà diafasica: è la variazione relativa alla situazione
comunicativa: distingue registro aulico, colloquiale, dimesso che
variano a seconda della situazione o dell’interlocutore o
dell’argomento; la differenza dalla diastratia è che la lingua di una
persona non può mutare a livello di condizione sociale, ma può
mutare il registro linguistico.
8 <www.rassegnaistruzione.it/rivista/rassegna_01_0708/glossario.pdfSimili>.
8
• La varietà diatopica: considera la variazione della lingua rispetto al
luogo in cui è parlata, è caratterizzata dalle forme regionali e
dialettali”.9
In base alla classificazione precedente possiamo dunque operare una
distinzione tra i seguenti concetti: quello di dialetto, inteso come “ varietà linguistica
definita nella dimensione diatopica (geografica), tipica e tradizionale di una certa
regione, area o località. Il numero di locutori e le dimensioni dell'area interessata
possono variare. Un dialetto, se si estende in un'area piuttosto ampia, può contenere
molte varianti, che a loro volta possono distinguersi in sottovarianti per aree
minori.”10 Il concetto si socioletto, inteso come “varietà linguistica tipica di una
classe sociale, un gruppo professionale, etnico - geografico”.11 Infine il concetto di
idioletto, con cui si intendono “le peculiarità stilistiche ed espressive di un parlante o
di un piccolo gruppo”.12
Dopo aver introdotto le definizioni generali di traduzione, di riscrittura e di
varietà linguistiche, si hanno a disposizione gli strumenti necessari per addentrarsi
nell’ambito della traduzione filmica e del doppiaggio.
9 <www.atuttascuola.it/alissa/italiano/le_varieta_linguistiche.htm>. 10 Berruto (1995: 222, vedi bibliografia) e <http://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto>. 11 <http://it.wikipedia.org/wiki/Socioletto>. 12 I. Ranzato, op. cit., p. 62.
9
2.2. Definizione di traduzione filmica
Gli studi sulla pratica della traduzione hanno iniziato ad occuparsi dei problemi
riguardanti la traduzione audiovisiva solo in anni piuttosto recenti e probabilmente
ciò è imputabile al fatto che fanno parte dell’ambito della traduzione audiovisiva (o
multimediale) diversi fenomeni di natura eterogenea. Infatti la traduzione
multimediale va intesa come:
“traduzione di testi con collocazione multimediale, cioè traduzione di componenti linguistiche
appartenenti ad un pacchetto di informazioni percepite contemporaneamente in maniera complessa.
[…] Si tratta di un prodotto comunicativo che implica che il destinatario attivi simultaneamente
almeno due canali di percezione (generalmente quello visivo ed uditivo), ottenendo informazioni
strettamente interconnesse”.13
Dunque il testo audiovisivo è un testo complesso, in cui vi è l’azione
simultanea di diversi codici e canali per la trasmissione delle informazioni, verbali e
non. Vi è la copresenza del canale audio – orale, attraverso cui è trasmesso il
linguaggio verbale e di cui fanno parte anche la musica ed i suoni in generale, e del
canale visivo, di cui fanno parte le immagini, i movimenti che accompagnano il
parlato, ossia elementi che appartengono prevalentemente a codici non verbali.
Nel mondo anglosassone questo ambito della traduzione è definito con il
termine di ‘screen translation’, in quanto esso comprende tutti i vari prodotti
distribuiti sui diversi schermi, del cinema, della televisione e del computer.
La traduzione audiovisiva include diversi ambiti di attività, la seguente
classificazione è tratta da Chaume:14
• Il doppiaggio, nel quale, mediante la sincronizzazione articolatoria ed
espressiva, la colonna dei dialoghi in lingua originale è sostituita dalla
colonna dei dialoghi nella lingua di arrivo.
• La sottotitolazione interlinguistica, cioè la traduzione nella lingua di
arrivo della lingua originale del film mediante sottotitoli applicati con
13 C. Heiss e M. R. Bollettieri Bosinelli (a cura di), Traduzione multimediale per il cinema, la televisione e la scena, Bologna, Clueb, 1996. 14 F. Chaume “Film Studies and Translation Studies: Two Disciplines at Stake in Audiovisual Translation”, Meta: Translators’ Journal, vol. 49, n. 1, 2004, <http://id.erudit.org/iderudit/00901ar>.
10
varie tecniche alla pellicola (oggi soprattutto con il laser) o
immediatamente sotto lo schermo per mezzo elettronico.
• La sottotitolazione intralinguistica per le persone con difficoltà
uditive.
• Il voice over, vale a dire la traduzione nella lingua di arrivo di un
brano in lingua originale montato sopra l’originale stesso, senza
alcuna sincronizzazione.
• I sopratitoli, cioè i sottotitoli proiettati sopra o sotto la scena durante
gli spettacoli teatrali o operistici.
• L’audiodescrizione, vale a dire il commento audio, di solito
intralinguistico, sull’azione che si svolge in scena o in un film.
Tra i vari tipi di traduzione audiovisiva, nelle prossime pagine sarà presa in
considerazione la traduzione filmica, ossia la traduzione per il doppiaggio, la quale si
concentra prevalentemente sul dialogo filmico e su suo adattamento.
Per i film in cui gli attori e produttori prevedono una distribuzione al livello
internazionale, il doppiaggio dovrebbe essere previsto, facilitato e pianificato in
tempi e costi già nelle fasi di pre – produzione e produzione dei film stessi, benché
nell’atto pratico il processo di doppiaggio si sviluppi concretamente nelle fasi di post
– produzione e distribuzione della pellicola.
Prendendo in esame il doppiaggio, dunque, è possibile definire il dialogo
filmico come un testo “scritto per essere detto come se non fosse stato scritto”,15
perciò il linguaggio doppiato deve rispecchiare il linguaggio parlato, deve funzionare
come tale, deve riprodurre l’oralità, in quanto i dialoghi cinematografici o televisivi e
le loro versioni doppiate sono in sintesi “la riproduzione orale di un copione
scritto”.16
Inoltre la traduzione per il doppiaggio implica una ‘traduzione totale’, in
quanto, nell’adattamento delle sceneggiature, “deve affrontare non solo i valori
15 M. Gregory, Aspects of Varieties Differentiation, in “Journal of Linguistics”, 1967, 3, pp. 98 – 177. 16 R. M. Bollettieri Bosinelli, C. Heiss, M. Soffritti, S. Bernardini (a cura di), La traduzione multimediale. Quale traduzione per quale testo? Bologna, Clueb, 2000, p. 397.
11
relativi al significato delle battute, ma anche quelli fonologici, come l’intonazione, la
lunghezza delle parole, la prosodia, il sincronismo labiale”.17
La traduzione filmica sembra dunque essere soggetta a diversi vincoli, il
principale consiste nella copresenza del canale sonoro e di quello visivo, che limita
notevolmente la gamma di opportunità traduttive che l’adattatore ha a sua
disposizione. Nell’ambito del canale visivo, un elemento particolarmente vincolante
è rappresentato dalle immagini. Si può citare, a riguardo, un celebre esempio18 tratto
dal film dei fratelli Marx, Horse Feathers (1932), in cui Groucho fa firmare un
contratto a Chico e Harpo, e poi chiede loro: “Where is the seal?”, l’immagine,
giocando sul doppio significato della parola inglese seal (“sigillo”, ma anche “foca”),
ci mostra Harpo depositare sulla scrivania, appunto, una grossa foca. Con un
intervento più che astuto l’adattatore italiano Sergio Jacquier ha tradotto la battuta
con l’esclamazione: “Focalizziamo!”.
Oltre ai vincoli fin qui presentati, la traduzione audiovisiva pone anche dei
vincoli tecnici, per quanto riguarda il doppiaggio il vincolo tecnico principale è
quello posto dal sincronismo.
Analizzando quanto descritto da Maria Pavesi,19 che cita Herbst,20 (entrambe
riportati nel testo di I. Ranzato21) i vari tipi di sincronismo si dividono in due gruppi
principali, il sincronismo articolatorio e il sincronismo paralinguistico e cinetico. Il
sincronismo articolatorio comprende il sincronismo quantitativo, che prevede la
simultaneità del parlato con l’inizio e con la fine dei movimenti articolatori, e il
sincronismo qualitativo, che è relativo alla compatibilità tra i suoni emessi nel
parlato con i movimenti articolatori visibili. I gruppi di suoni che devono
tradizionalmente trovare riscontro nella versione doppiata sono le vocali e le
consonanti labiali (da qui la più comune definizione di articolazione labiale). L’altro
tipo di sincronismo di grande importanza nella traduzione audiovisiva è il
sincronismo paralinguistico, anche detto sincronismo espressivo, che risponde alla
necessità di far corrispondere il parlato ai movimenti del corpo, ai gesti degli attori. Il 17 R. M. Bollettieri Bosinelli, “Tradurre per il cinema”, in R. Zacchi, M. Morini (a cura di), Manuale di traduzioni dall’inglese, Torino, Bruno Mondadori, 2002, 76 – 88. 18 Questo esempio è tratto da I. Ranzato, op. cit., p. 25. 19 M. Pavesi, La traduzione filmica, Roma, Carocci, 2005. 20 T. Herbst, Linguistische Aspekte der Synchronisation von Fernsehserien. Phonetik, Textlinguistik, Ubersetzungstheorie, Niemeyer, Tubingen, 1994. 21 I. Ranzato, op. cit., p. 27.
12
sincronismo espressivo è spesso trascurato rispetto a quello articolatorio, tuttavia è
necessario ridimensionare i vincoli imposti da quest’ultimo che è in realtà veramente
costrittivo soltanto quando, nei primi e primissimi piani, le labbra degli attori sono
perfettamente inquadrate e visibili. Le commedie, per esempio, che fanno particolare
affidamento sulla gestualità e sulla fisicità degli attori devono essere effettivamente
molto curate da questo punto di vista.
Va inoltre sottolineato che, dato che l’Italia è uno dei Paesi doppiatori per
eccellenza, il pubblico italiano è abituato ad ottimi livelli nella resa doppiata di film
stranieri e che “vi sarà piena soddisfazione del risultato quando, a film doppiato, si
avrà la perfetta illusione che le battute siano state dette originariamente in italiano”.22
Tuttavia, il sincronismo è in realtà un problema che deve essere affrontato solo
in un secondo momento durante la fase di adattamento della sceneggiatura di un film,
in quanto, prima di regolare la battuta tradotta secondo i tempi ed i gesti degli attori
della versione originale, il dialoghista deve domandarsi se il suo adattamento di
quella battuta corrisponde esattamente a ciò che vuole che i doppiatori dicano nella
versione d’arrivo, o se può essere compiuto un adattamento ancora migliore.
Nel paragrafo successivo saranno analizzati nel dettaglio i codici presenti in un
testo audiovisivo, di cui occorre tener conto durante l’adattamento dello stesso.
22 Jacquier, (1995: 260, vedi bibliografia).
13
3.2. Traduzione straniante o addomesticante?
Nella traduzione filmica, come descritto nel paragrafo precedente, vengono a
contatto due culture, quella della versione originale della sceneggiatura e quella della
versione adattata. Precedentemente sono state anche elencate delle strategie utili per
tradurre e adattare i riferimenti culturali presenti nel testo originale. Tali strategie
rientrano nel modello traduttivo più generale di addomesticamento/straniamento
(foreignisation/domestication), teorizzato da Venuti per la prima volta.
In una delle sue opere,23 egli sostiene che la strategia dell’addomesticamento è
una “tendenza naturale della traduzione e consiste nel tradurre in un modo fluido e
trasparente che tende a cancellare l’estraneità del testo fonte e a conformarsi alle
necessità e ai valori della cultura di arrivo”. E tale tendenza naturale è ancora più
presente nella traduzione per il doppiaggio, che si basa proprio su una sostituzione
della colonna originale dei dialoghi di un film con quella doppiata. Il modello
straniante, al contrario, tende ad avvicinare il pubblico d’arrivo verso i contenuti ed i
tratti della cultura di partenza, ossia verso contenuti ad esso non familiari.
Applicando il modello addomesticamento/straniamento alla traduzione
audiovisiva, si può parlare di una traduzione straniante nella sottotitolazione e
addomesticante nel doppiaggio. La situazione del doppiaggio risulta, tuttavia, più
complessa, ed in Italia è opportuno operare una distinzione tra la traduzione per il
cinema e quella per la televisione.
Nel doppiaggio per il cinema infatti si riscontrano tendenze sia stranianti, si
addomesticanti; al contrario nel doppiaggio per la televisione prevale una tendenza
addomesticante, i dialoghisti operano frequentemente un’eliminazione sistematica
dei riferimenti culturali presenti nella versione originale, con una conseguente
generalizzazione e banalizzazione dei testi tradotti di molti prodotti di finzione
stranieri, in modo tale da renderne più facile l’assorbimento da parte del pubblico
italiano.
23 L. Venuti, The Translator’s Invisibility: A History of Translation, London, New York, Routledge, 1995; edizione italiana: L’invisibilità del traduttore: una storia della traduzione, Roma, Armando Editore.
14
Nel prossimo paragrafo si analizzeranno le caratteristiche principali
dell’italiano doppiato e l’utilizzo dei dialetti nelle versioni doppiate dei film stranieri.
3.3. L’italiano doppiato e l’impiego dei dialetti
L’italiano del doppiaggio, ossia l’italiano utilizzato nei prodotti doppiati, ha
tratti propri ben definiti che lo rendono una vera e propria varietà linguistica che si
differenzia rispetto all’italiano cinematografico e televisivo della produzione
nazionale. Nell’atto pratico scrivere i dialoghi di un film italiano è profondamente
diverso da scrivere i dialoghi per il doppiaggio di un film straniero, in quanto è
proprio l’utilizzo che si fa della lingua ad essere diverso.
A questo proposito il testo audiovisivo offre un vasto numero di esempi di
ogni genere di variazione linguistica, che può essere, secondo quanto descritto
precedentemente, di natura diatopica, ossia connotata dal punto di vista geografico,
di natura diafasica, ossia connotata in base al contesto in cui avviene la
comunicazione o di natura diastatica, connotata in base agli strati sociali di
appartenenza dei parlanti. Tali varietà linguistiche presenti in un testo audiovisivo
devono essere riprodotte anche nella versione tradotta e nel doppiaggio risulta
piuttosto inevitabile perdere il tratto della variazione regionale (diatopia). L’analisi
delle caratteristiche dell’italiano doppiato verterà in particolar modo sulla traduzione
di film dall’inglese e prendendo in considerazione la lingua inglese parlata nella solo
Inghilterra, è possibile evidenziare che solo una percentuale limitata della
popolazione (tra il 3% e il 5%) parla senza inflessioni dialettali.24 Tuttavia, di fronte
alle forme dialettali dell’inglese nelle sue varianti britanniche e statunitensi, la
produzione cinematografica e televisiva doppiata ha mostrato, negli anni, una
tendenza verso la standardizzazione delle varianti dialettali, e ha generalmente
abbandonato, invece, la tendenza a tradurre i dialetti stranieri con dialetti italiani.
Agli inizi del doppiaggio, la lingua che veniva utilizzata nei testi adattati era
costituita da un modello di italiano aulico, letterario, artificiale, monotono, lontano
dall’immediatezza e dalla spontaneità del parlato. Negli anni tale modello si è
emancipato verso il tentativo di riprodurre nei dialoghi tradotti un italiano parlato,
24 P. Trudgill, The Dialects of England, Oxford, Carlton, Blackwell Publishing, 2004, riportato in I. Ranzato, op. cit., p. 54.
15
colloquiale; tuttavia nei prodotti doppiati accenti e dialetti vengono neutralizzati e, a
volte, essi vengono risolti sul piano morfosintattico attraverso espressioni
grammaticalmente ‘errate’, che riproducono forme di italiano neostandard e
popolare, e sul piano lessicale attraverso soluzioni poco naturali, non frequenti nel
registro comune e caratterizzate soprattutto da calchi dall’inglese, da espressioni
modellate sulla lingua di partenza.
Ad ogni modo, benché nell’italiano doppiato siano presenti forme
morfosintattiche tipiche della lingua parlata, in esso “scarseggiano indicatori
specifici di variazione sociale, ossia sono rari i tratti del sub standard che potrebbero
tradurre i tratti del sub standard inglese presenti nelle versioni originali. […] Le
traduzioni, quindi, o cancellano del tutto la variazione morfosintattica dell’originale,
producendo un italiano socialmente appiattito, o per lo più si limitano ad utilizzare
quelli che sono marcatori del parlato colloquiale per indicare la variazione
diastratica”.25 Dunque nella lingua doppiata troviamo un appiattimento generale
della dimensione diastatica e diatopica, a favore di una naturalizzazione e di un
avvicinamento del testo tradotto alla cultura di arrivo, non rispettando
completamente, talvolta, gli elementi che legano tale testo alla cultura di partenza,
come l’utilizzo di dialetti, utili anche a definire il contesto sociale in cui avviene la
comunicazione. Infatti, nella produzione britannica e statunitense l’uso dei dialetti ha
lo scopo di conferire una connotazione socioculturale al testo, mentre nel cinema
italiano “il dialetto è portatore di un retaggio che forse trae origine dal teatro delle
maschere, dalla farsa, ed è perciò condannato a connotare in modo grottesco il
personaggio che parli con un qualsiasi accento”.26
Ci sono però delle eccezioni che vedono il dialetto o l’italiano regionale ancora
riservati a personaggi criminali, comici o fantastici, come testimonia il famoso
romanesco di “Romeo, er mejo der Colosseo” ne Gli Aristogatti; o come testimonia
lo pseudosiciliano utilizzato per i personaggi mafiosi, come nel celebre The
Godfather (1972, Il Padrino) di Francis Ford Coppola ed esteso in generale ai film di
ambientazione italoamericana.
“Si tratta, come è chiaro, di una lingua altamente convenzionale, in cui la
dialettalità o la regionalità passa attraverso stereotipi, luoghi comuni che hanno una 25 M. Pavesi, op. cit., p. 41. 26 G. G. Galassi, op. cit., p. 67.
16
loro coerenza dettata dalla tradizione cinematografica più che dalla fedeltà ad una
varietà linguistica effettivamente parlata. Rimane però in questo caso fedeltà
all’originale, fedeltà che, come noto, non viene di regola garantita.
[…]
Dunque la lingua del doppiaggio crea convenzioni sue proprie, lo spettatore
impara a riconoscerle, considerandole parte di un certo esotismo straniero, e può
quindi accettarle nel contesto sociolinguistico in cui sono prodotte”27.
Questa tendenza verso un esotismo straniero si riscontra anche nella traduzione
dell’inglese parlato dai non nativi, con accento palesemente non inglese, in
quest’ultimo caso si parla di etnoletto, “ossia di una varietà nata dall’incontro di due
date lingue in un rapporto gerarchico. L’etnoletto ebraico newyorkese, ad esempio,
risulta dalla contaminazione yiddish dell’American English”.28
“Dunque nella traduzione di questo tipo di varietà, ossia degli Englishes, la
tendenza più esplicita e generalizzata in Italia va nella direzione di una
modernizzazione del contesto linguistico, di un’esotizzazione dei contenuti
socioculturali, volta a mantenere il sapore linguistico dell’opera originale.
[…]
Un esempio è tratto dal film di Pedro Almodòvar, La mala educación (2004,
figura 2), in cui gli adattatori italiani hanno scelto di far sì che uno dei protagonisti
mantenesse la sua identità spagnola e parlasse italiano con un forte accento spagnolo.
Questa scelta abbastanza insolita serve a sottolineare l’esotismo del prodotto,
ricordando agli spettatori quale è la vera natura dell’originale; tale tendenza si fa
ancora più evidente quando il testo audiovisivo comporta la presenza di varie
nazionalità ed enfatizzando l’elemento esotico si fa in modo che l’identità linguistica
delle singole nazionalità sia conservata con il mantenimento dei singoli accenti”.29
La tendenza a tradurre i dialetti utilizzando un italiano standard comporta un
aumento del divario tra i prodotti doppiati e la produzione cinematografica e
televisiva nazionale, infatti quest’ultima, al contrario della prima, fa ampio uso di
dialetti e regionalismi.
27 M. Pavesi, “Osservazioni sulla (socio)linguistica del doppiaggio, in R. Baccolini, R. M. Bollettieri Bosinelli, L. Gavioli, op. cit., pp. 130 – 141. 28 L. Salmon Kovarski, “Tradurre l’etnoletto: come doppiare in italiano ‘l’accento ebraico”, in R. M. Bollettieri Bosinelli, C. Heiss, M. Soffritti, S. Bernardini, op. cit., p. 70. 29 I. Ranzato, op. cit., pp. 56 – 57.
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Nel capitolo successivo, dopo un breve riepilogo delle fasi in cui si articola il
doppiaggio, si analizzerà il doppiaggio italiano del cartone americano I Simpson, ed
il doppiaggio in inglese del film italiano Pinocchio e si cercheranno di mettere in
evidenza le ragioni, per cui la versione doppiata del primo ha avuto successo, mentre
quella del secondo è stata un vero e proprio flop.
(Figura 2: La mala educación, 2004)
18
4.2. Il doppiaggio tra successo e insuccesso
Nonostante nei paragrafi precedenti sia stata più volte sottolineata la tendenza,
nei prodotti doppiati, a non utilizzare i dialetti, esiste invece un caso eclatante, in cui
il loro impiego è stato determinante ai fini del raggiungimento di un doppiaggio di
qualità eccellente. Questo esempio eclatante è rappresentato, come già detto, dal
cartone animato americano I Simpson.
Precedentemente si è visto come la traduzione dei dialetti, nell’adattamento dei
film, crei molti problemi di natura prevalentemente pratica: come è possibile trovare
una varietà regionale nella lingua di arrivo che traduca in modo adeguato una varietà
presente nella lingua di partenza? E come è possibile tradurre dei dialetti con altri
senza ottenere un effetto forzato e straniante?
Nella versione doppiata de I Simpson, invece, è stato possibile e assolutamente
funzionale utilizzare i dialetti, in quanto l’utilizzo delle forme dilettali in italiano può
creare, come già descritto, un effetto di farsa e caratterizzare i personaggi in modo
grottesco, rendendoli così autonomi rispetto ai loro corrispondenti della versione di
partenza, pur continuando a fare in modo che essi riflettano e mostrino gli elementi
distintivi dell’originale. Tutto ciò ha permesso agli autori della versione doppiata di
mantenere inalterato il messaggio presente nella versione iniziale: lo scopo principale
della versione americana del cartone è quello di fare satira, ogni aspetto della società
statunitense è oggetto di satira. La famiglia Simpson rappresenta il prototipo della
famiglia standard americana e la cittadina di Springfield rappresenta in modo
generico l’insieme delle città degli Stati Uniti, in quanto in essi vi sono diverse
cittadine che portano questo nome. La volontà di fare satira della versione di
partenza è stata interamente trasposta nella versione di arrivo, cercando di riprodurne
i contenuti adattandoli, allo stesso tempo, al nuovo contesto di ricezione da parte di
un pubblico italiano.
Nel doppiaggio de I Simpson si è raggiunto il giusto compromesso fra le
tecniche di naturalizzazione ed esotizzazione intrinseche alla pratica stessa
dell’adattamento di pellicole televisive e cinematografiche. Gli autori italiani hanno
compreso a fondo gli intenti della versione originale ed hanno cercato di rapportarli
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ad un pubblico italiano, ma non li hanno italianizzati ed è proprio in ciò che risiede il
gran successo che questo cartone ha riscosso nel Bel Paese. Italianizzare I Simpson
avrebbe comportato una falsificazione dei loro contenuti e non avrebbe condotto al
raggiungimento del risultato che è stato invece conseguito. Doppiare infatti non
significa falsificare, bensì adattare e riscrivere. Benché le immagini del cartone
continuino, anche nella versione doppiata, a suggerire un’ambientazione americana,
ciò non disturba il pubblico italiano, in quanto i suoi esponenti sono completamente
‘catturati’ dai dialoghi tradotti, si rispecchiano in essi e ridono delle battute, poiché si
sentono coinvolti nella satira, in quanto essa è stata magistralmente adattata ad un
contesto italiano, e ciò non sarebbe potuto accadere senza l’utilizzo dei dialetti
nostrani.
Al contrario, l’adattamento in inglese del film italiano Pinocchio (2002) è stato
un vero e proprio flop. Gli autori americani non hanno compreso a fondo il
messaggio della pellicola o, pur comprendendolo, non sono riusciti a trasporlo nella
versione di arrivo, creando così un prodotto finale lontano ed estraneo rispetto
all’originale.
Il film è stato concepito per onorare la tradizione della fiaba italiana, per
onorare la fiaba collodiana a cui Benigni, regista del film italiano, ha scelto di
ispirarsi completamente. Tuttavia, benché il film fosse intriso di riferimenti alla
cultura italiana, e fosse stato concepito da Benigni volutamente in contrapposizione
al cartone Pinocchio di Walt Disney (1940), gli autori del doppiaggio in inglese della
pellicola hanno deciso di americanizzare il film, facendo, nei dialoghi tradotti, dei
riferimenti ben precisi al cartone e falsificando così la sceneggiatura originale.
Nei prossimi paragrafi verranno riportati e discussi degli esempi tratti sia da I
Simpson che da Pinocchio in modo tale da poter analizzare in maniera più
approfondita quanto detto sopra.
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CONCLUSIONE
Per onorare la filosofia che ruota attorno al doppiaggio utilizziamo la poesia
dell’americano Robert Creeley, citata da Franco La Polla (docente e critico
cinematografico italiano) all’inizio di un suo saggio30 sul doppiaggio e sul senso
profondo di questo processo. La poesia suona così:
Le parole sono come musica chiara
[…]
cercano un posto
per sedere e mangiare.
Nessun significato
nessun senso.
Queste parole vanno bene per la purezza della poesia, ma non per il cinema,
perché in esso la parola non è il tutto, ma solo una componente del processo, del
quadro, dunque non è possibile per essa limitarsi a sedere e magiare. Perché un film
costituisce un sistema complesso costituito dall’unione di elementi verbali e non,
costituito dall’unione di parole e immagini che prendono forma in base al contesto
culturale in cui esse sono prodotte.
Il doppiaggio si basa su una riscrittura del testo originale in un’altra lingua,
nella quale devono essere trasposte non solo parole vuote e fini a se stesse, bensì va
trasposto, ricreato il messaggio della sceneggiatura originale.
“Il doppiaggio è la proiezione fantastica del principio del doppio”.31
“I corpi sono al mondo (al cinema), hanno già fatto il loro lavoro, fissato in
pellicola: una voce interviene ad interpretarli di nuovo, a ‘suonarli’ come uno
spartito. E la voce si riverbera intorno nel mondo, unico corpo intatto, unica fisicità
reale e continua, di cui i diversi corpi – attori finiscono per essere transeunti
epifanie”.32
30 F. La Polla, 1994, “Quel che si fa dopo mangiato: doppiaggio e contesto culturale”, in R. Baccolini, R. M. Bollettieri Bosinelli, L. Gavioli, op. cit., pp. 51 – 60. 31 Sito di Italiacinema, op. cit. 32 Ghezzi, (1981), citato in Comuzio, (1993: 193), opere riportate ivi, pp. 53 – 54.
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Dunque il fatto che il film sia un sistema complesso costituisce un vantaggio
sia per l’adattatore che per il doppiatore, infatti essi hanno a disposizioni i suoni e le
immagini che completano, integrano il significato stesso delle singole parole. Gli
stessi termini, senza il supporto di quei determinati elementi non – verbali, non
assumerebbero probabilmente lo stesso significato. Dunque, proprio grazie a questo
supporto e a queste complementarità tra elementi verbali e non – verbali, gli addetti
ai lavori del doppiaggio hanno a disposizione tutti gli elementi necessari per onorare
il messaggio dell’opera originaria e mettere in contatto due sistemi culturali, quello
di partenza e quello di arrivo, sebbene a volte il ruolo del ‘mediatore’ tra culture
diverse risulti estremamente complesso e articolato.
Per esempio, come descritto nel saggio sopracitato, un doppiatore, inglese o
francese che sia, di Totò non potrebbe certo limitarsi a pronunciare le battute
attenendosi semplicemente alla loro traduzione nella propria lingua, bensì deve tener
conto della “gestualità del comico napoletano (fattore culturale molto importante)”
ed interpretare le varie battute utilizzando un timbro, un tono che sia consono
all’immagine e all’attitudine dell’attore sullo schermo. O ancora, il modo di parlare
di Woody Allen, regista, ma anche attore dei suoi film, in cui traspone tutto se stesso,
caratterizzato da un tono di voce neutro, volto a comunicare le sue incertezze, le sue
paure, i suoi dubbi. Woody Allen è l’emblema “dell’eroe negativo, problematico
della tradizione culturale ebraica”.33 Dunque le sue parole sono accompagnate dal
suo accento, dal suo tono di voce, che comunicano molto di più delle parole stesse e
che per questo vanno rispettati e resi nel doppiaggio, come magistralmente fa il suo
doppiatore italiano, Oreste Lionello.
Dunque i dialogisti prima, che traspongono uno script straniero nella loro
lingua, ed, i doppiatori poi, i quali interpretano tale trasposizione, agiscono nella
dimensione della ‘riscrittura’ e della ‘reinterpretazione’ di un copione originale, sono
lì, su quella linea sottile tra lealtà e menzogna, la scelta è la loro. Possono dire,
spudoratamente il falso, oppure, saper mentire, per preservare il vero, per preservare
il valore culturale del film originale. La trasposizione che permette al pubblico di
arrivo di conoscere lo stesso messaggio che è stato trasmesso al pubblico della
versione di partenza, è la trasposizione valida.
33 F. La Polla, op. cit., p. 59.
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Perciò il doppiaggio è “un’opportunità, se non addirittura un miglioramento, a
volte”, come afferma il regista Giuseppe Tornatore in un intervista svolta
personalmente.
Dunque, godiamo di quest’invenzione che tanto piace agli Italiani.
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